Parole a capo
Maria Borio: “Dal deserto rosso” – cinque frammenti
Tempo di lettura: 5 minuti
“La solitudine è indipendenza: l’avevo desiderata e me l’ero conquistata in tanti anni. Era fredda, questo sì, ma era anche silenziosa, meravigliosamente silenziosa e grande come lo spazio freddo e silente nel quale girano gli astri.”
(Hermann Hesse)
Sono un punto solo nel deserto rosso:
oggi è questa la mia dimensione, un punto
che non ha lunghezza, larghezza, profondità,
caduto dalla parte più alta del cielo su una terra
piena di silenzio e pura improvvisamente.
Ti scrivo da una zona rossa, ed è questa la verità:
i confini sono tracciati, il rosso ha riempito lo spazio,
vuoto, neutro, senza uscita, e tutti sono come me,
punti soli, senza illusione, nella prima primavera
del millennio che al tempo sta cambiando la faccia.
Ti scrivo e da questa stanza sussurro che se un punto
non ha dimensioni è perché forse le ha unite tutte in sé?
Pensarsi è unirsi – mentre la notte e il giorno
hanno un unico colore e impariamo a pensarci –
e un bene, come mai, nuovo?
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Osservi le persone, allontani un sentimento –
il deserto rosso, la scena, fermo-immagine.
Oggi il cielo aveva l’azzurro di un affresco
sopra le teste in fila davanti al supermercato:
soli, in proporzioni, distanza e silenzio,
si sgranava qualcosa, una polvere, lapislazzulo.
Era il cielo che si scioglieva? Ma il senso?
Così ha detto, così ho spinto, la polizia e tutti,
mani nel lattice, bocca nel cotone – forse
una divisa da restauro per salvare il cielo
dalla corrosione – e gli uomini da che cosa?
Nel carrello il cibo rimbalza, la plastica scricchiola,
le confezioni scontate sembrano la stessa riserva
di cose pulite della pubblicità. Nel deserto
solo un lampo – bianco e alto l’albero del pane.
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In un sonno lunghissimo, mentre il silenzio intorno
alla zona rossa si allarga, ho sognato di essere un delfino
che risaliva il Rio delle Amazzoni, entrava in una vena
segreta e alla bocca del Tevere tornava, affondava, apriva
le onde nell’Hudson, nel Reno roteava. La sorgente
del Tamigi e la baia di Wellington erano affluenti,
di corso in corso la forza del mare si allenava,
il Fiume Giallo riscaldava la Neva, e su zattere di pino
i morti scomparivano, nudi, e sentivo freddo ma c’erano
le stelle, perché nello spazio bruciano ma non riscaldano,
e potevo toccarle senza morire. Ho sognato tanti corpi,
i codici, i caratteri, la logica del profitto ancora impressi
nelle rughe. Poi c’era una cosa più lontana, una scintilla,
un volto, un sogno lucido: il cambiamento? Il delfino salta
molto più del perimetro di una zattera, ogni secondo.
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Lei andava in una notte bianca, le porte
automatiche dei negozi si aprivano,
le cellule fotosensibili la riconoscevano,
dall’alto i led rossi espandevano la faccia.
Lei camminava in una forma nera, vuota –
dove è stata, dove sarà, l’acqua ora che scende
nella doccia, in un transfert autoindotto,
memoria di cose comprate, plastica, parole –
le persone, quante sono, si toccano? -, lei che scivola
in un linguaggio inesistente millimetro per millimetro
scorre nel cortocircuito: ha spento la casa, la collina,
i fari delle auto, i cani ti cercano – inodore e insapore.
Esce bagnata, beve un bicchiere. Cosa da niente:
quando ha incontrato qualcuno per amicizia? Ti scrivo
a piedi nudi, la nuca fredda. Lei è la luna, e sola.
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La stanza è un eden selvatico. Ti scrivo?
Non so dove cresce il grano. Nell’aria di aprile
una forma, il campo in lontananza, le labbra.
Ma com’era la bocca sulla pancia, le punte
si piegavano nell’inguine? Il grano cresceva
sulle labbra, verde, minerale, denso – dico
altro? Non ho, non io, non sento – cerco
la schiena, stringo le ginocchia: cosa salva
le persone autentiche? Desideri un mondo
verde, minerale, denso – chiedi solo cura?
Allora ascolta aprile, ovunque, com’è caldo,
pazzo, violento, rimuovi ogni mancanza.
Resisti a occhi chiusi, non respirare, pensa
un deserto…non me, non ho, non sento
il grano fuori nel vuoto che lotta immobile.
“Oltre al riferimento alla nuda geografia marziana e al più recente vissuto individuale e collettivo legato alla pandemia, il titolo della plaquette – ci avverte Maurizio Cucchi dalla breve Prefazione – ne contiene un altro, che rimanda al film del 1964 di Michelangelo Antonioni, intitolato appunto Deserto rosso, la prima pellicola a colori del regista. La vicenda narrata nel film ruota attorno al tormento esistenziale di una figura femminile, Giuliana, e a un tentativo di reciprocità sentimentale con un uomo, Corrado.” (in Giulia Cittarelli, Spazializzare il valore. Su “Dal deserto rosso” di Maria Borio, La Balena bianca, rivista online di cultura militante, 08/03/2022).
La plaquette di Maria Borio (“Dal deserto rosso”, I quaderni de La collana, a cura di Maurizio Cucchi, Stampa 2009 – 2021) è composta di due parti: “Ti scrivo da una zona rossa” (formata di quindici frammenti lirico-epistolari) e il poemetto “Millennio di primavera”. In questo numero di Parole a capo abbiamo scelto alcuni dei frammenti della prima parte di questa sua ultima produzione letteraria.
Maria Borio è poetessa e saggista. Dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea, cura la sezione poesia di Nuovi Argomenti. In precedenza ha pubblicato Trasparenza (collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni, Interlinea 2019) in uscita in traduzione negli USA. L’altro limite (pordenonelegge-lietocolle 2017) è stato tradotto in Argentina. Vite unite (in XII Quaderno di poesia contemporanea, Marcos y Marcos, 2015). Il suo ultimo libro di saggistica è Poetiche e individui (Marsilio 2018). Fra i premi di cui è stata vincitrice, il Mauro Maconi e il Città di Fiumicino. È redattrice del sito culturale “le parole e le cose”. Fondatrice del festival europeo “poesiæuropa”, collabora con i programmi di Radio 3 Rai e con la cattedra di letteratura italiana contemporanea dell’Università di Perugia.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]
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