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di Maria Paola Forlani

Fino al 26 giugno rimarrà aperta a Roma alle Scuderie del Quirinale la mostra “Correggio e Parmigianino. Arte a Parma nel Cinquecento”, a cura di David Ekserdjian (catalogo SilvanaEditoriale): attraverso più di cento capolavori per la prima volta vengono messi a confronto i due grandi artisti emiliani, uno il pittore degli affetti, l’altro sofisticato intellettuale.

Correggio, cittadina della Pianura Padana, è stata per lunghi secoli, dal XII al XVII, feudo della nobile famiglia che da essa trae il nome. Seppur non paragonabile certo ad altri grandi centri italiani (da Milano a Venezia, da Mantova a Ferrara, da Firenze a Roma), era capitale di uno Stato e sede di una piccola corte che, fra Quattrocento e Cinquecento, ha assunto una propria importanza culturale, sotto la guida del conte Gilberto e soprattutto per la presenza della moglie, la nobile poetessa Veronica Gàmbara (1485 – 1550): colta, intelligente, seguace del petrarchismo di Bembo, ammirata da letterati illustri contemporanei, quali Ariosto, Bernardo Tasso o Pietro Aretino, abile reggitrice dello stato dopo la morte del marito.
Qui, sul finire del Quattrocento, è nato il più importante pittore emiliano del medio Rinascimento, Antonio Allegri (Correggio, Reggio Emilia, 1489 c.-1534), noto come il Correggio, piuttosto che con il nome vero o con quello di Antonio Laetus, che ne è la traduzione latina secondo l’uso umanistico. Dopo i primi rudimenti appresi da mediocri maestri locali, Correggio si reca a Mantova, dove si suppone che possa essere stato giovanissimo allievo di Mantegna: nel 1506 morto il grande pittore si trova a lavorare, appena diciasettenne, nella decorazione della cappella funebre del maestro.
Dalla scuola di Mantegna Correggio apprende l’amore per l’antichità classica e per il mito, che interpreterà però in maniera del tutto diversa. Tempera la solennità del maestro con la dolcezza emiliana che gli deriva da Francia e da Costa ed estende le sue conoscenze alle opere di Leonardo e di Giorgione, delle quali comprende non soltanto il significato atmosferico, ma anche, e soprattutto, la concezione moderna del rapporto fra uomo e natura.
Anche se mancano prove documentarie, oggi la critica è concorde nel ritenere che nel 1518 si sia recato a Roma: senza la visione diretta della volta della Cappella Sistina e delle Stanze Vaticane non si spiegherebbero, né concettualmente né formalmente, le maggiori creazioni correggesche posteriori a questa data.
La delicatezza della gamma cromatica e la fresca naturalezza del comporre, sempre variata, si evincono fin dalla sua prima produzione nella quale si dedica a temi religiosi: splendida la “Madonna Barrymore” e il “Noli me tangere” con un magnifico paesaggio agreste sul fondo. Il “Martirio dei quattro santi” è di una drammaticità icastica; affronta temi mitologici e presto s’impone con ritratti mondani. Seguono le grandi imprese pittoriche, come la decorazione della Camera della Badessa nel Convento di san Paolo. Nel verde della cupola si aprono occhi ovali, al di là dei quali, contro l’azzurro del cielo, alcuni putti giocano con elementi venatori.
La piccola Camera della Badessa, pur partendo da uno spunto religioso, è un ambiente eminentemente profano, adatto all’intellettualismo correggesco, comprensibile a pochi eletti. Tuttavia anche quando, nelle cupole di San Giovanni Evangelista e del Duomo di Parma, il Correggio affronta temi sacri in spazi vasti, persegue ugualmente nella mutata la scala proporzionale il proprio ideale di bellezza.

La mostra si apre con le monumentali ante d’organo di Santa Maria della Steccata di Parmigianino, a cui seguono due sale dedicate agli esordi giovanili dei due pittori.
Francesco Mazzola, detto il Parmigianino (Parma, 1503 – Castelmaggiore, Cremona, 1540), spirito inquieto come altri artisti del suo tempo, si forma nella città natale sulla grande arte del Correggio, più che su quella modesta dei suoi primi educatori, gli zii Michele e Pier Ilario. All’ariosa, luminosa, esuberante pittura del maestro, il giovane Parmigianino sostituisce però una ricerca di stilizzazione, che condurrà sempre avanti fino alle ultime creazioni. Indicativo è l’“Autoritratto allo specchio”. La scelta dello specchio circolare convesso, deformante, è un mezzo per togliere alla propria immagine la luce proveniente dalla finestra che si intravede in alto a sinistra. Forse ha ragione il Vasari quando dice che lo fece “per investigare le sottigliezze dell’arte”, tenendo però presente che non si tratta di una semplice esercitazione accademica, di un pezzo di bravura, ma del tentativo di trovare una strada che conduca fuori dalle “secche” del classicismo.

Nel percorso della mostra, in un continuo confronto dei due artisti, ecco la bellissima “Fuga in Egitto con San Francesco” di Correggio: sorprende lo straordinario gioco di luci che piovono su Giuseppe, il bambino e Maria, mentre Francesco inginocchiato appena emerge dal buio con la testa e le mani. Si riverbera la luce, in altra chiave, nella “Madonna di San Zaccaria” di Parmigianino. Entrambe le composizioni sono di una superba maestria, ma quest’ultimo quasi sembra sfondare la tela con la grande figura di vecchio in primo piano di forza michelangiolesca.
“Antea” è uno dei più superbi ritratti del Rinascimento per la compostezza del volto e la sontuosità dell’abito, mentre l’enigmatica bellezza della “Schiava Turca”, dal sorriso malizioso e ironico – immagine icona della mostra – il cui sguardo tranquillo incontra quello dell’osservatore. Entrambi sono due straordinari capolavori di Parmigianino.
Seducente per l’esibita sensualità, è la “Danae” del Correggio, parte dell’ultimo ciclo dedicato agli “Amori di Giove”. Viene spontaneo il paragone con quella più tarda di Tiziano che deriva da questa. I due autori compongono il quadro in maniera simile, eppure giungono a conclusioni del tutto diverse. Mentre in Tiziano la bella donna nuda giace distesa sul letto, attendendo con calma l’unione col dio, qui la giovane, appoggiata ai cuscini, si solleva, seguendo con gli occhi lo svolgersi dell’evento straordinario, il sorriso sulle labbra, le membra mosse, quasi nervosamente vigili, mentre si accinge a ricevere la pioggia d’oro.

Un’ampia selezione di opere su carta mette in evidenza la profonda diversità dell’approccio alla pratica del disegno da parte dei due artisti: quello sostanzialmente funzionale di Correggio è accostato alla produzione più ricca e varia di Parmigianino, artista mosso da un bisogno ossessivo di disegnare.
Bellissimo il dialogo silenzioso tra due piccoli dipinti, il primo un olio su tavola “Matrimonio mistico di Santa Caterina con San Giacomo Minore”, opera del Parmigianino che arriva dal Louvre di Parigi, posto accanto all’olio su tavola del Correggio “Matrimonio mistico di santa Caterina”, arrivata dal Museo di Capodimonte di Napoli,.
Imponente il monumentale olio su tela (3x2m), “San Rocco con il donatore Baldassarre della Torre da Milano”, dipinto dal Parmigianino per la Basilica di San Petronio a Bologna nel 1527. Nella biografia di Parmigianino, Giorgio Vasari afferma che questa pala d’altare fu la prima opera intrapresa dall’artista a Bologna.
La “Conversione di Saulo” databile al 1527, proviene dal Kunsthistoriches Museum di Vienna. L’esattore romano Saulo è appena caduto da cavallo quando uno squarcio luminoso nel cielo segna la sua illuminazione divina e conversione al cristianesimo. Il protagonista, sguardo estatico, è semisdraiato con le braccia spalancate, di cui una appoggiata al suolo, le gambe divaricate con il cavallo bianco che lo sovrasta. Un cavallo che sembra un’apparizione fantastica, del tutto irreale, nella raffinata stesura grigio-argentea con cui si offre alla luce, nella tensione della testa che si staglia sul grigio del cielo, imbrigliata dal prezioso nastro d’oro che cade serpeggiante lungo il collo.

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Redazione di Periscopio



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