Arrivo dunque nella ben amata città. E appena scorgo gli alberi dei giardini del Lussemburgo i ricordi si affoltiscono e mi sopraffanno. La giornata è di un grigio neutro e alla svolta di Place de la Sorbonne scatta imperiosa la proustiana memoria involontaria e ricordo la prima Lilla imperiosamente portata dentro una sporta dal mai dimenticato amico Pommier nell’aula dove io, il suo babbo umano, avrebbe blaterato su non mi ricordo chi. E lei supremamente intelligente zitta fino allo scatto dell’applauso che sanciva la fine della sua coscrizione cullata dalla voce impostata del non peloso. L’albergo è un due stelle ( si prende ciò che il convento passa. E poi siamo “intellettuali” pronti a ogni sacrificio!) con una grande finestra che guarda il lato della Sorbona. Incredibile il bagno : un metro e mezzo per uno dove ancora la doccia ha la tenda di plastica e il water minacciosamente non permtte di alzare la ciambella perché fisicamente non ci si starebbe più. Ma la pulizia è somma, gli asciugamani impeccabili e cambiati giornalmente- Insomma Maigret non si sarebbe lamentato.
Arriva l’amico Michel (guai chiamarlo alla francese Paolì, accentato alla fine e non Paoli per sottolineare la sua ascendenza italiana). Andiamo da Polydore scoperto non molti anni fa e consigliato da Sateriale allora sindaco quando la grande scommessa era portare Ariosto al Louvre. E ci siamo riusciti nonostante l’indifferenza o il dispetto di certi “feraresi” che poi l’han fatta pagare cara. Folla enorme: si mangia sui tavoli con le tovaglie a quadretti bianchi e rossi, seduti sulle panche. Chiedo le coquilles Saint Jacques: finite. Le confit de canard: terminato. Ripiego sul salmone affumicato ma tanto chi se n’importa. Fuori c’è lei, la città dei sogni, con il suo charme appannato ma ancora non sconfitto dall’omologazione mondiale.
Il giorno dopo incontro con i colleghi in un bistrot davanti al Pantheon ( e dove se no?). La giornata sembra uscita da un film di Disney: cielo azzurro, sfolgorante, “un’aura dolce e sanza turbamento avere in sé” (ti pare che non ci ficco un po’ di lui, Durante detto Dante?), e sous le ciel de Paris chi scrive, gode. Il pensiero allora si ripiega e si specchia sulla Montagne Sainte Geneviève, sulla rue Mouftard ad afferrare il senso del tempo, a catturarlo e a deporlo nello scrigno segreto del ricordo.
Si dà inizio alle cinque ore di discussione della tesi sul rapporto Pavese-Nietsche. Un lavoro “impeccable” direbbero i francesi: 720 pagine che forse cambieranno l’interpretazione della storia culturale torinese tra gli anni Trenta e Cinquanta del secolo scorso. Faccio il dotto, cito gli amici “pavesini”, quelli scomparsi e quelli ancora in attività. Esagero a sparare a zero contro certi semiologi in terra di Francia, insopportabili, a cui la cultura italiana si è prostrata. Infine una festa spagnola in rue Mouftard: champagne, e meravigliosi spiedini. Ho fatto la conoscenza di Emiliò (mi raccomando con l’accento sulla o) il canino della dottorata e ancora Parigi sorrideva agli adolescenziali tremori del puer-senex felice.
Il giorno dopo, che si conclude qui all’aeroporto dove scrivo in attesa del volo, una fredda e rigida città tra brevi piogge e folate di vento attende il cacciatore di ricordi. Discendo Boulevard Saint-Germain e per fare dispetto a Sartre scelgo il Café de Flore invece che Aux deux magots. Per 5 euro riesco a bere un caffè quasi italiano. E mi guardo intorno e scopro quanto di parigino ci sia nelle insegne dei negozi. Quello che mi piace di più è proprio accanto al Café e si chiama “L’écume des pages”, la schiuma delle pagine pieno di matite e fogli e quaderni da scatenare la più intensa libidine. Poi un negozietto di stracci di lusso si chiama “Paul Ka” e si pronuncia Polka. Arriva Clizia non d’origine montaliana ma machiavellica, pura ferrarese, che mi porta al Musée Maillol a vedere la sbandierata mostra sui Borgia. Ahimè! Ma come potevo non andare dopo aver perso anni a studiare la Lucrezia e portarla in giro per l’Europa compresa Parigi? Quadri sublimi: il meglio che si potesse arraffare nei musei più importanti del mondo. Ma la presentazione, ma la storia… da far inorridire qualsiasi persona di mediocre cultura. Nonostante che il grande A A ( Alberto Arbasino) ne avesse parlato con sufficienti censure e con irrisione palese. Di fronte a un ritratto in cui Lucrezia (o chi per lei) viene dipinta di una bruttezza straordinaria, la didascalia recita che la dama era considerata tra le più belle del reame. E il mostrificio continua a sparare le massime ovvietà sulla “debauche” dei Borgia sugli incesti, le vendette, gli assassinii che fanno concorrenza al film (io l’ho visto!!!) su Lucrezia interpretata da Martine Carol. Quasi quasi ci si potrebbe iscrivere al partito borgiano se ancora ci fosse un Gregorovius o la grande Maria Bellonci.
E quindi Lucrezia non vale la messa.
Come un flaneur d’altri tempi m’avvio verso il Louvre dove incontrerò la cara amica Monica. Si va a mangiare in un localino specializzato in thè; ricordiamo i tempi fastosi della mostra e del convegno al Louvre su Ariosto e le arti: la folla, l’eccitazione e lo stupore d’incontrare tanti tifosi del divino Ludovico. Le chiedo se mi fa passare a salutare gli amici che stabilmente ti guardano dale pareti del museo più bello del mondo. Helas! Quando stiamo per arrivare si ricorda che oggi è il giorno di chiusura e che non ha chiesto il permesso speciale per accedervi. Pazienza sarà come un altro desiderio che si realizzerà nel tempo.
Un colloquio a tu per tu con Amore e Psiche giacenti di un modesto scalpellino che si chiamava Antonio e di un innamorato della bellezza che si chiama Gian Antonio.
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Gianni Venturi
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