di Francesco Minimo
Pareidolìa: s.f. [comp. di para- e gr. εἴδωλον «immagine»]. – Processo psichico consistente nella elaborazione fantastica di percezioni reali incomplete, non spiegabile con sentimenti o processi associativi, che porta a immagini illusorie dotate di una nitidezza materiale (per es. l’illusione che si ha, guardando le nuvole, di vedervi montagne coperte di neve, battaglie, animali, ecc.).
Vocabolario Treccani
Truro (GB), 09.07.18: Quest’anno, per l’ultima e decisiva prova del massimo campionato erano rimasti in sette, un buon numero tutto sommato. Nella precedente edizione – nel 2005, la bellezza di tredici anni fa, vista la singolare periodicità di questa singolare specialità – i finalisti erano solo cinque, nel 1991 si qualificarono in nove, ma solo in tre nel 1978. Ecco, la statistica è già finita: nella seconda settimana di luglio, a Truro in Cornovaglia, sta per iniziare il IV Campionato Mondiale di Pareidolie.
Mentre scrivo, sopra Truro e fuori dal borgo, sopra i suoi piccoli campi cintati e i suoi pascoli, lungo il corso del River Fal, verso la grande ansa di Carrick Roads, e giù, fino alle scogliere bianche e al mare blu cobalto e bianco di schiuma, sopra tutto questo verdeazzurro splende un bel sole arrampicato sulla cima di un cielo altissimo e vuoto; il vento soffia forte e intermittente. Truro è un’antica, graziosa e sperduta cittadina della Cornovaglia, “la capitale della Cornovaglia” come vogliono i suoi ventimila abitanti; e io sono qui, presente!, per documentare questa stranezza. Sinceramente avrei preferito pericoli e gloria di una corrispondenza di guerra, ma qualcuno doveva pur venirci a Truro; il caporedattore mi ha guardato dritto negli occhi, l’ultimo arrivato, il pivellino, e ha mandato me per un bel pezzo di colore: “Non più di cinque cartelle, un po’ di folclore locale, un paio di interviste a quei pazzerelli dei concorrenti”. E le foto naturalmente – “Ne voglio almeno una con una bella nuvola bianca in primo piano.”
No, niente pericoli e niente gloria. Ma poteva andarmi peggio, di manifestazioni strane e bizzarre – ma sì voglio dirlo: idiote – se ne celebrano a ogni latitudine e in ogni mese dell’anno. Potevano spedirmi al Campionato dei Brutti, al Naso più grosso, alla Barba più dannatamente lunga. Invece a Truro il tema principale, il tema unico direi, almeno per una settimana, saranno le nuvole. Poetico vero? Nemmeno per sogno. Di nuvole e di pareidolie si interessava anche Jung. E comunque qui a Truro fanno maledettamente sul serio. Me ne accorgo subito, mentre la prima mattina aspetto il via ufficiale della competizione – funziona così: il giudice spara in aria un colpo tremendo con una pistola anteguerra, ma si può?, manco fosse la finale dei cento metri piani – intanto cerco di avvicinare qualcuno dei concorrenti per una prima intervista. E’ o non è il mio mestiere?
Aspettate, c’è prima una domanda da evadere. E cioè: perché proprio a Truro? A leggere il comunicato stampa stilato dal Comitato Organizzatore – tre vegliardi che paiono usciti dalle file dell’esercito di Cromwell – la spiegazione è molto semplice. A Truro, come in tutta la Cornovaglia, soffia sempre il vento e il cielo è pieno zeppo di nuvole. Nuvole in gran movimento, visto il vento di cui sopra. Obietto, da perfetto profano, che vento e nuvole hanno il difetto di portare pioggia. Ma il vegliardo presidente, il meno suonato dei trio, ha la risposta pronta: “Vede carissimo, è appunto per questo che abbiamo scelto la seconda settimana di luglio. Secondo le statistiche, in questa settimana a Truro non piove mai, o insomma…quasi mai. Per cui avremo sole, vento forte e nuvole a volontà”. “E su che dati vi basate?”, gli chiedo. “Dati certi ragazzo – e il vecchiaccio mi regala un sorriso composto da tre solitari faraglioni – la fonte è il nostro registro parrocchiale, compilato quotidianamente e con diligenza fin dal 1347”. Insomma, schifando la moderna scienza metereologica, il Comitato Organizzatore aveva trovato adeguate rassicurazioni nel registro del priorato della cattedrale di Truro. Secondo il quale, negli ultimi 80 anni, nella seconda settimana di luglio a Truro si erano registrati solo 2 giorni di fitta foschia, 4 temporali estivi, 11 brevi piogge e un uragano, uno solo però. Quand’è così.
La storia climatica, non ci metto molto ad accorgermene, ne nasconde altre e più succose. Truro non è proprio una cittadina qualsiasi. Ecco un breve e incompleto elenco delle sue stranezze. Per cominciare, nella piazza di Truro, a varie riprese, sono state messe al rogo un totale di 13 streghe. Va bene, quelli erano tempi bui. Allora parliamo di questi tempi. I casi locali di follia, ma chiamiamoli ricoveri per gravi disturbi mentali, risultano essere il doppio della media nazionale inglese. I fantasmi in attività e in circolazione (raccolgo il dato da un puntiglioso libretto edito a Truro nel 1978 a spese dell’autore) raggiungono le 44 unità, comprese le streghe di cui sopra. Circa la metà degli abitanti, più o meno di 10.000 persone, vecchi e bambini inclusi, presenta sintomi di claustrofobia, il 15% di loro in forma grave.
Poi ci sono “gli altri abitanti”, quelli propriamente o ingiustamente detti fantastici, o semplicemente buffi, se il sovrannaturale non vi fa neppure il solletico; oppure vivi e vegeti, se almeno un po’ vi piace crederci. Ma in ogni caso presenti e “disturbanti” gli abitanti di Truro e dintorni. Qui dimorano tutti, ma proprio tutti i rappresentanti della mitologia silvestre celtica: fate, banshees, folletti, elfi, gnomi, lepracauni e cluricauni. Se ho dimenticato qualcuno, mi scuso con voi e con lui. Ma perché tutti qui a Truro? Forse il Sidhe, l’oltretomba celtico, così colorato e felice, ha una porta d’uscita proprio in questo pezzo di Cornovaglia? C’è qualcuno che lo sostiene. In tutti i casi, a prestar fede a quello che scrivono i cultori di questa variopinta fauna, per gli umani che devono conviverci giorno e notte, la vita può diventare un vero tormento. Come difendersi? Un signore molto distinto mi informa che, nel caso fossi interessato, a un’oretta di cammino da Truro vive e presta i suoi servigi, a prezzi modici, un potente Druido. L’ultimo della Cornovaglia.
Alcune sette esoteriche – Quante, dove, quando? Non è dato sapere, trattandosi per l’appunto di sette segrete – sostengono che Truro rappresenti l’ideale completamento del celebre Triangolo Magico. “Le dirò di più” – mi dice il concorrente polacco, un uomo con due occhi senza pupilla, talmente chiari da sembrare bianchi – “Truro non rappresenta il quarto punto, perché il triangolo deve rimanere triangolo, e non già diventare un quadrato. Il fatto è che, con Torino e Praga, è proprio Truro il vertice del Triangolo Magico. E basterebbe fare due calcoli fatti bene per eliminare Lione e collocare nel terzo vertice il legittimo proprietario”. Che ovviamente sarebbe Truro.
A Truro c’è una graziosa pubblic library che ho subito visitato. Lì ho raccolto la gran parte delle informazioni e, come sempre avviene, la verità storica assieme all’immaginazione, le leggende con le dicerie, i miti, perfino le balle colossali. Lo avrei fatto comunque, amo le biblioteche con tutto il mio cuore, ma quello che volevo, dopo aver dato una bella guardatina al patrimonio librario, era incontrare e parlare con bibliotecaria, la signora Rosa Wolfe. Sapevo bene che nella campagna inglese il bibliotecario è di gran lunga “la persona più informata sui fatti”. Più del prete, più del medico condotto, e senza nessun obbligo al silenzio da dover rispettare.
Rosa Wolfe ha un’aria tonda e gioviale. Nessuna somiglianza o parentela ma un viscerale amore per la grande Virginia, che pure a lungo ha abitato in Cornovaglia. Rosa è una bibliotecaria fatta e finita, in servizio da oltre trent’anni; ama i suoi libri, ama i suoi lettori, ama la catalogazione, ama le statistiche dei prestiti librari. Il vanto della sua biblioteca? Naturalmente Il “Fondo Storico e Locale”, più di seicento volumi ed opuscoli, comprese due Seicentine. “Ma il parroco si è voluto tenere in canonica almeno una cinquantina di volumi antichi e rari.” A questo punto Rosa Wolfe si infervora: “Sto parlando di incunaboli, ha capito cosa intendo, incunaboli! E quel tipo li tiene chiusi a chiave nel suo studio, sottraendoli al pubblico degli utenti e degli studiosi”.
Annuisco gravemente e Rosa sembra sollevata dalla mia intima partecipazione alla sua pena. Ormai siamo diventati quasi amici e lei potrà serenamente aprirmi il suo cuore. Intanto mi presenta l’altro vanto della biblioteca contrassegnato dalla sigla FOIN, cioè a dire “Fondo Oltre Il Normale”. Sono senza parole, perché il FOIN non sta in uno scaffaletto ma occupa due intere pareti: 2.823 documenti, oltre un terzo dell’intero patrimonio della biblioteca.
Dal primo giorno, tutti i giorni a partire dalle sette di sera quando la biblioteca chiude al pubblico, Rosa Wolfe, che mi ha preso in grande simpatia, mi racconta un mucchio di storie interessanti. Interessanti non dice abbastanza, perché Rosa diventa ogni giorno più misteriosa, quindi profetica, infine apocalittica. Su Truro, questa sarà la sua conclusione, si sta addensando un “cataclisma psichico”. Usa proprio questa espressione, impropria, disturbante. Secondo lei, da forestiero e da giornalista, io solo posso fare qualcosa per evitarlo. La cosa mi imbarazza, sarà anche un po’ eccentrica, o una spostata, ma Rosa mi piace. E sento confusamente che “non è solo matta”, che c’è qualcosa di troppo strano a Truro per non portare a qualcosa di male.
Ma ora è ancora la mia prima sera a Truro e la bibliotecaria incaricata mi accompagna all’uscita. “Se ti va di ascoltare altre frottole, io domani sono sempre qui”; ride, forse mi prende solo in giro, come si fa con chi arriva da fuori. Sono le dieci e mezza, senza rendermene conto sono rimasto in biblioteca più di quattro ore; è buio pesto, domattina comincia il campionato. Alle 7 in punto.
Capisco l’impazienza del lettore, sempre che il campionato pareidolico abbia suscitato in lui un qualche interesse. Forse mi sono disperso troppo, ho imboccato viottoli laterali, ho divagato, sono andato fuori dal seminato. Mi succede, mi succede spesso, ma come dice il mio caporedattore, alla fine il cerchio si chiude sempre. E quando si chiude? Ora si chiude. Infatti, ecco che vi presento i sette concorrenti e le loro precipue caratteristiche e straordinarie abilità. Numero uno: Il Polacco, quello con gli occhi bianchi che intervistavo al mio arrivo. Sessant’anni o giù di lì, un aspetto da profugo dell’Est, voce stridula, sguardo allucinato. La specialità del polacco sono i felini. Lui nelle nuvole vede, immagina – millanta? – solo rappresentanti della famiglia dei felini, dal gattino miagolante fino al leone rampante in varie pose e maniere. Poi c’è l’Inglese, le sue pareidolie si concentrano su treni, locomotive e vagoni di ogni marca, epoca e fattura. Il numero 3, il Gallese, nelle nuvole vede animali mitologici, preferibilmente divinità olimpiche e costellazioni. Veniamo all’Irlandese: la sua specialità sono le figure della mitologia silvestre e celtica in particolare (quelle sopra elencate ed altre ancora). Il Bretone invece è specializzato in grandi personaggi storici; al precedente Campionato Mondiale fece scalpore la sua performance: in una settimana ha visto 43 volte Napoleone in diverse fogge e posture. Perché questa ossessione per Napoleone? Gliel’ ho chiesto, e la risposta mi ha spiazzato: ”Perché Napoleone Bonaparte non è corso, in realtà è nato in Bretagna”. Che potevo dirgli? Nulla, ho girato l’angolo e ho cercato il sesto concorrente, l’Islandese, un tipetto scontroso, irsuto, non privo però di una sua asprigna eleganza: le sue nuvole sono popolate da foche giocherellone e da orsi polari. Bianchi naturalmente, e proprio su quel bianco Il Bretone aveva avuto in passato da eccepire e aveva presentato ricorso. La tesi bretone è che una pareodolia, su una nuvola bianca, con a tema un orso bianco, significava un vantaggio indebito per il concorrente islandese. Lui, sosteneva il Bretone, faceva cento volte più fatica a vedere il Bonaparte di quanto non ne facesse il piccolo Islandese con un semplice orso bianco. Come sciogliere il problema? Non saprei proprio. Posso solo dire che i tre vecchietti del Comitato Organizzativo, che funge anche da Giuria inappellabile, aveva respinto il ricorso. Come a dire: uno nelle nuvole ci può vedere ciò che più gli aggrada: “Perché senza attenersi a un’assoluta libertà, ogni pareidolia si dissolve nell’aria”, leggo nel verdetto.
Manca solo il settimo, Il Praghese, nazionalità ceca ma di lingua tedesca e mamma ebrea (“lo sa, sono lontano cugino di Franz Kafka”), il fuoriclasse, il campione in carica, il vincitore di due delle tre edizioni già disputate. Si chiama Lasdzo Hazek e ho deciso di passare con lui la prima giornata. Di lui mi aveva parlato malissimo la bibliotecaria. Quando aveva pronunciato il suo nome, ho visto un tremito percorrere la signorina Wolfe dall’alto al basso, dalla cima della testa bionda cotonata agli stivaletti senza tacco.
Ladzo mi da appuntamento alle 7 precise davanti alla cattedrale, munito di bicicletta, borraccia e qualche sandwich. E’ vestito in abiti scuri e assurdamente pesanti, un cappellaccio nero a larga tesa; inforca una vecchia bicicletta scolorita. Il Polacco mi sta esponendo la sua teoria sul Triangolo Magico, ma dopo lo sparo del presidente della giuria, mi congedo in fretta per seguire Ladzo che punta deciso verso la campagna e il mare. E’ una giornata di mezzo sole e vento leggero, superiamo un piccolo dosso, basse sull’orizzonte vediamo le prime nuvole. Ladzo si ferma, le osserva per qualche minuto, scuote la testa e riprende a pedalare. Anche se sono solo un neofita, mi sto appassionando al tema, punto il naso in alto e nel cielo vedo chiarissimamente un treno a vapore (non chiedetemi la marca e l’anno di fabbricazione), con tanto di locomotiva sbuffante e tre vagoni al seguito.
Ma intanto il Ceco mi ha già staccato, forse l’ho perso in quell’intrico di stradine; finché lo ritrovo fermo dietro una doppia curva, lo sguardo assorto, in una mano un taccuino e nell’altra una piccola matita. Non sembra un tipo molto socievole questo Ladzo, ma io devo fare il mio lavoro, e allora domando: “Sta annotando il suo primo avvistamento?”. Mi risponde in un inglese stentato. La sua voce è cambiata, assomiglia a qualcosa di inanimato, a pietre che rotolano nella pioggia, o invece a un rantolo affannoso, al sibilo di un asmatico. Ladzo smette di scrivere e si volta verso di me: ”Oggi si comincia bene, sono già al numero Nove, e se la fortuna mi assiste…”.
Rifletto. Nove pareidolie, dico NOVE, e in meno di mezz’ora! Ma chi controlla la regolarità degli avvistamenti? Non vedo nessun giudice all’orizzonte, nel raggio di chilometri ci siamo solo io, Ladzo e le nostre biciclette. Con tutto il rispetto per questo campione, mi sembra l’abbia sparata un po’ grossa, come Giovannin senza paura che stermina le mosche posate sul cacio fresco: Sette in un colpo! Allora anche io potrei dire di aver visto non un treno ma un’intera stazione, un deposito ferroviario, una fabbrica di treni. Devo assolutamente chiarire la cosa con la giuria. Intanto Ladzo è ripartito direzione sudest; e io dietro, mentre il vento rinforza e il cielo si affolla di nubi. Il mio concorrente sembra instancabile, l’accompagnatore un po’ meno. Dopo una quantità non numerabile di strade, stradine, viottoli, andate e ritorni, curve e diritte, salite e discese, e nuvole naturalmente, alle sei e mezza del pomeriggio prendo congedo da Ladzo (lui andrà avanti fino al tramonto ancora lontano) per tornare in paese e infilarmi in biblioteca.
Non so come sia andato il primo giorno di caccia degli altri concorrenti, ma la performance venatoria di Ladzo fa impressione. O bisognerebbe chiamarla pesca miracolosa? Devo credere o diffidare? Entro in biblioteca e mi butto sopra una sedia. Sono stanchissimo. Alla mia amica Rosa Wolfe, tenutaria della biblioteca e depositaria della memoria loci, ho però alcune domande da porre. La giornata in compagnia del praghese mi ha ingarbugliato i pensieri. Le chiedo se devo credere a tutti gli avvistamenti, e cosa avvista questo misterioso Ladzo, animali, piante o persone? “Non l’ha ancora capito? Lui nelle nuvole vede le persone che se ne sono andate”. Ancora non capisco. Rosa abbassa il tono della voce: “Lui vede quelli che non ci sono più, quelli che se ne sono già andati dall’altra parte”; e in un sussurro: “Lui vede i morti”. Perché, mi spiega, il praghese non è solo un esperto di nuvole presenti e viventi, lui è un evocatore, un tramite, una specie di medium. “Per questo Ladzo è pericoloso, molto pericoloso. Lui gioca col fuoco, capovolge il mondo.”.
La paffuta e solare Rosa Wolfe mi sembra improvvisamente spaventata, mi correggo, Rosa è terrorizzata: “Dobbiamo sperare solo che non succeda, altrimenti sarebbe la catastrofe”. Mi ribello a quel dire e non dire: MA SUCCEDA COSA? COSA DEVE SUCCEDERE? Ma Rosa questo non me lo dice, forse perché nominare una cosa può contribuire a farla accadere.
Mi è passata la fame, non ho nemmeno sonno, penso a Ladzo e a Rosa; le loro parole, gli sguardi, i silenzi mi hanno messo una pietra sullo stomaco. Come Primo Giorno può bastare. Vado verso la locanda, è una notte chiara illuminata da una miliardo di stelle. Ma non sento nessun incanto, non mi commuovo davanti a quella esibizione di infinito. Anche le stelle non mi sembrano normali: a Londra sono abituato a vederne una ogni tanto, qui invece si esagera. Attraverso la piazza principale a piedi, tenendo al mio fianco la bicicletta con la mano destra, come un cavallo alla briglia. In una frazione di secondo tutto ma proprio tutto si illumina a giorno, dal campanile all’ultimo granello di ghiaia. Accecato, lascio cadere a terra la bicicletta, e prima che raggiunga il selciato mi raggiunge un tuono spaventoso, e subito dopo un vicinissimo schianto, come se i tedeschi avessero minato la Torre di Londra. Di quel fulmine a ciel sereno vedrò gli effetti la mattina dopo. La quercia secolare alle porte della cittadina è stata squarciata da una bomba di fuoco. I resti del suo tronco enorme e nero continuano a fumare per tutta la settimana.
La sera del Secondo Giorno un altro presagio. Sulla piazza di Truro, alle Otto in punto, si sono dati appuntamento tutti i gufi, le civette, i barbagianni e gli altri uccelli notturni. Non so da dove vengano e soprattutto cosa vengano a fare, so solo che saranno ameno un centinaio. Esco dalla biblioteca insieme a Rosa Wolfe. Guardiamo i gufi e ci guardiamo. Mi pare di essere dentro Harry Potter, ma non riesco proprio a sorridere.
Il Terzo Giorno mi aspetta uno scherzo biblico. Sto pedalando quasi tranquillo lungo un piccolo argine ma mi accorgo che c’è qualcosa che non va. Mi fermo di botto e guardo il fiume. Il River Fal, il principale fiume di Truro, quello che per tutti gli abitanti è the river, il loro fiume, ha invertito il corso delle sue acque. Potrebbe essere l’alta marea? Vado in bicicletta fino alla foce, Il mare riceve benissimo. Avvisto tre tranquilli surfisti alla ricerca della loro onda. Il fenomeno dura alcune ore, poi le acque tornano a camminare per il verso giusto.
La notte del Quarto Giorno dalla piazza di Truro scompare la grande croce celtica. Al suo posto questa mattina c’è solo un mesto moncherino alto venti centimetri. Sembra tagliato di netto con un bisturi, o una pistola laser interstellare. Il vecchio parroco, l’accaparratore di Incunaboli e Cinquecentine, esce di furia dalla canonica in camicia da notte e papalina in testa. Ha soppresso la funzione delle sei del mattino e vaga come uno spirito per la cittàdina, bussa a tutte le porte, lancia terribili maledizioni in gaelico.
Il Quinto Giorno, mentre accompagno in bicicletta il concorrente gallese esperto in nuvole mitologiche, mi raggiunge una notizia portentosa. Un lepracauno è rimasto impigliato in una trappola per le volpi. Il fatto è straordinario e il cronista, benché stanco e provato, accorre sul posto. Non so se vi è mai capitato di vedere un lepracauno, o anche solo di credere alla loro esistenza, beh, vi dirò solo questo: non è cosa adatta ai bambini. Un lepracauno, il suo corpo torto, le sua smorfie, i suoi sberleffi, la sua voce profonda e ancestrale, i suoi occhi rossi rubino, è terrore allo stato puro, un pezzo di autentico inferno.
Non mi diverto più. Quando torno a Londra? Conto i giorni come un prigioniero a fine pena. Oggi è il Sesto Giorno, il penultimo della gara. Forse oggi non succede niente. Invece succede eccome. A mezzogiorno in punto il cielo comincia a imbrunire come in un tramonto anticipato; dopo un quarto d’ora è buio fitto. Sono ancora in sella alla bicicletta, in mezzo al nulla, lontanissimo da qualsiasi riferimento animato. Sono solo, se non mi facesse compagnia una paura che rifiuto mentalmente ma che vince e paralizza il mio stomaco, le gambe, le braccia. Dopo dieci minuti di buio interminabile, un breve chiarore si fa strada nella notte. A poco a poco torna il giorno. Era semplicemente una eclissi totale. Peccato che nessuno l’avesse prevista. Una eclissi totale a Truro, e un bel sole splendente in tutto il resto dell’Europa settentrionale.
Così, senza rendermene conto, anzi, tenendo il cervello il più lontano possibile da Truro, stavo aspettando la sciagura. Sarebbe arrivata, sicurissimamente, aveva detto Rosa Wolfe, la bibliotecaria veggente. E ad appesantire il carico c’erano le facce dei concorrenti e della giuria, i silenziosi e sfuggenti abitanti di Truro, l’aria stessa della tranquilla cittadina della Cornovaglia. Ma insomma, fra poco sarebbe finita. E’ il settimo giorno, l’ultimo giorno, seguo in bicicletta il Bretone seguace di Bonaparte. Sono le due del pomeriggio quando il vento rinforza improvvisamente da Nordest. Le nuvole sono ora altissime, uno spettacolo grandioso. Sembra un film accelerato, tanto che le pareidolie non sono più fotogrammi, immagini fisse, ma cortometraggi animati. In quelle particolari condizioni metereologiche Napoleone avrebbe potuto rivivere tutta intera la battaglia della Beresina, e questa volte vincerla. Tra le nuvole.
Poi ci fu un lampo accecante e straordinariamente lungo, e subito dopo un tuono di un’ottava cavernosa. Dal cielo mi cade sulla cima della testa una goccia enorme. Mi strofino la fronte con la mano, apro il palmo, annuso, sembra una goccia di petrolio; ha un odore rivoltante, puzza di benzina e di fogna. Volto il manubrio e mi metto a pedalare come un forsennato sotto un muro d’acqua nera. Corro verso Truro, verso un qualsiasi riparo, scappo via abbandonando al suo destino quel matto del Bretone e il suo Napoleone Bonaparte.
Mentre spingo sui pedali a testa bassa mi accorgo che c’è qualcosa o qualcuno che mi insegue. Oppure mi precede, sale dall’erba viscida, dalle rogge che straripano e invadono il sentiero. C’è una cosa tremenda sotto le mie ruote, mi cattura le scarpe da tennis fradice di pioggia con una pecie di bava. O forse cade dall’alto, mi cola sulla testa, le orecchie, il collo. Non capisco, non riesco a vedere la fonte da cui scaturisce quel terrore senza nome. Ma quel terrore è ormai padrone di me e del paesaggio, di tutte le cose animate e inanimate, del cielo e della terra. Veramente non c’è più un cielo e una terra, un sopra e un sotto, ma un unico non colore, e un suono sordo che sembra uscito dalle porte dell’inferno.
Dopo un tempo infinito arrivo nella piazza di Truro, la bicicletta fa uno scarto secco, atterro in mezzo al fango e alla ghiaia. Rimango disteso a faccia in giù. E cerco di ricapitolare: il rumore feroce del temporale, il vento che continua a rinforzare, quel suono sordo e feroce che arriva dal centro della Terra, il battito impazzito del mio cuore. Provo ad alzarmi due o tre volte, grido senza voce, mi siedo in terra a gambe larghe. La piazza è un pentolone che bolle. Non c’è nessuno, sono tutti chiusi in casa. Sento le chiavi che girano, i catenacci che chiudono fuori il terrore.
Il cielo si è abbassato appena sopra il tetto delle case e la massa imponente del campanile si vede solo per metà, segato di netto da una linea nera di inchiostro. In biblioteca c’è una luce, corro verso la vetrina, entro dall’uscio socchiuso e sprango la porta. Per terra, seduta sulla moquette color topo, i piedi scalzi, c’è la mia amica Rosa Wolfe. Mi gira le spalle. Mi avvicino, la chiamo per nome una due tre volte; non si volta, non risponde. La prendo per le spalle, la scuoto. Sembra in tranche, gli occhi annebbiati e senza vita. Mi lascio cadere anch’io in terra di fronte a lei. Chiudo gli occhi, ma a occhi chiusi il terrore diventa ancora più insopportabile; guardo la mia amica Rosa, solo lei può darmi una risposta. “Ma che sta succedendo? Lei lo sa, vero che lei sa il motivo di tutto questo?”
Rosa Wolfe è assente. Ci mette un bel po’ di tempo per tornare da un mondo che non è più questo mondo, ma alla fine sembra risvegliarsi, alza il braccio destro e spinge l’indice in direzione della vetrina. “Li vede? Li sta vedendo? Li vede quanti sono? Fra poco riempiranno tutta la piazza. Poi entreranno nelle case. Chiavi e catenacci non serviranno a nulla”.
Mi copro gli occhi con le mani.
“Li guardi bene. Il giorno è arrivato e loro sono tornati”
“Ma chi sono? Lei li conosce?”
“Solo alcuni, pochi; molti di loro vengono da un tempo lontano.”
“Ma chi sono?”
“Li guardi, vede come sono brutti? Vede i loro vestiti strappati, marci, sporchi di terra? Sente il loro odore di morte che entra dalle fessure delle porte e delle finestre? Sente il coro atroce dei loro lamenti? Riesce a vedere, riesce a sentire la rabbia che trasfigura i loro volti?”
Nel settimo giorno di Truro, a compiere il settimo prodigio, la pioggia dei morti scendeva sempre più fitta. I vivi stavano chiusi in casa. Si tappavano gli occhi, il naso e le orecchie, battevano i denti in preda a una febbre altissima.
Anche il povero cronista stava chiuso in biblioteca e batteva i denti. Aveva smesso di prendere appunti, il suo cervello girava a vuoto. La mia ragione mi aveva abbandonato. Anch’io aspettavo, aspettavo e pregavo che quella pioggia smettesse, che quella fine del mondo finisse.
(Francesco Minimo – tutti i diritti riservati)
Anteprima in esclusiva per Ferraraitalia del racconto tratto da ‘Noi fantasmi’ di prossima uscita.
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Redazione di Periscopio
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