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di Sergio Fortini, Elisa Uccellatori, Francesco Vazzano (Canapè Cantieri Aperti)
Accade spesso, in Italia. È accaduto anche questa volta. È una vecchia storia, che non prevede mezze misure, bensì proclami, elmi, corazze.
La cosa curiosa e fors’anche positiva è rappresentata dal fatto che momenti di confronto come questi provocano una accelerazione emozionante (oltre che emotiva), decisamente trasversale nelle competenze rispetto al campo architettonico in oggetto: confronto, dissenso, indignazione, provocazione, attacco, difesa si alternano in uno groviglio di voci e opinioni e costringono, più o meno consapevolmente, a un esercizio che spesso si scorda di fare: interrogarsi sugli spazi comuni da vivere e abitare, sul futuro di un tessuto urbano, sulle contraddizioni implicite al concetto di trasformazione, al rapporto tra ciò che si eredita dai secoli e ciò che si ha il diritto e dovere di costruire, dal punto di vista scientifico, filosofico, architettonico, artistico, politico, come espressione di una civiltà viva. Il senso di appartenenza a una (o a diverse) comunità si manifesta in modo potente nel dissenso, più che nel consenso. Questa epifanìa partecipativa porta con sé qualcosa di singolarmente democratico, accorpando in un unicum indistinto la firma accorata dell’addetto ai lavori, l’autografo distratto della personalità lontana, la postura incerta dell’ignaro passante intervistato ‘dalla tivù’ o ‘dai giornali’. Passante che si accorge, lì e in quel momento e non senza un rigurgito d’ansia, di essere necessario portatore di una voce e di una facoltà di scelta.

Probabilmente, al di là della querelle, questo concorso e il progetto che ne esce costituiscono opportunità di riflessione anche sul significato della parola ‘museo’, poiché, mentre ci si accapiglia con stile (ognuno con il proprio e a ciascuno il suo), la realtà avanza e corre oltre, disegnando in altri luoghi nuovi scenari e facendola apparire impropria. I luoghi della conoscenza seguono da tempo criteri di organizzazione degli spazi e delle funzioni assai differenti da quelli di una canonica esposizione, mentre nuovi individui nascono e crescono con la necessità di una rielaborazione del fondamentale concetto di ‘lentezza’, come strumento di approfondimento e di sapere.

Il progetto selezionato mantiene la dignità architettonica e l’equilibrio di un dialogo tra storia e contemporaneità, risolvendo una serie di problematiche che il museo internazionale di Palazzo dei Diamanti non può più permettersi di avere; sempre che non si desiderino prospettive più contenute e locali, più ‘quiete’ – si potrebbe dire senza cadere nel giudizio di merito – per il futuro di questa centralità culturale. Sotto il profilo strategico, la strada da percorrere sembra essere un’altra, con l’obiettivo di uno sviluppo progressivo delle potenzialità di un simile sistema di luoghi e della comunità che ha la fortuna quotidiana di poterlo praticare. Chi conduce il mestiere dell’architettura sa bene che, in un progetto complesso, ‘la soluzione’ non esiste. Esiste invece un testardo lavoro artigianale, fatto di intuizioni, arresti, correzioni, ripartenze, valutazioni che, nella migliore delle ipotesi, porterà a un esito efficace, di suggestione emotiva, di percezione di qualità degli spazi. Solo in rarissimi casi alla poesia e, dunque, all’opera d’arte.

I firmatari che seguono conoscono gli sforzi sottesi a questo limite cui tendere e rappresentano una molteplicità di professionisti abitualmente a confronto con le multiformi tematiche dell’architettura, del progetto urbano, del rapporto tra storia e presente. Per questo motivo, al di là dei sani antagonismi che vivificano un concorso di siffatta specie, dopo aver implicitamente abbracciato la scelta di una trasformazione contemporanea partecipando alla competizione, essi avvertono la responsabilità civile di affermare il proprio sostegno al progetto selezionato dalla commissione di gara, con l’auspicio che questo processo possa proseguire con lo stesso dinamismo che sembra aver acceso il dibattito.

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