PAGINE DI GIORNALISMO
Quel pasticciaccio brutto della “Zanzara”
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8. SEGUE – Milano, 14 febbraio 1966. Fu il giorno in cui nacque il bruttissimo “caso della Zanzara”. Tra le pagine della storia si nascondono, sconosciuti ai più, avvenimenti che hanno sostanzialmente non dico cambiato il mondo (oggi si afferma: “dopo questo fatto il mondo non sarà più lo stesso”, ma non è vero, il mondo fa quello che vuole), ma certamente hanno influito sugli eventi futuri in modo sostanziale. Il “caso della Zanzara” è uno di questi. “La Zanzara” era il giornale d’istituto che gli studenti facevano al liceo Parini, il primo liceo classico del capoluogo lombardo, era un foglio ragguardevole, serio, puntiglioso, si vedeva che dietro c’era la mano di uno che dentro un giornale era nato, nel caso specifico Marco Sassano, figlio di un caposervizio de “L’Avanti”. Oltre a Sassano c’era Walter Tobagi, che 12 anni dopo alcuni stupidi assassini, i quali giocavano alla rivoluzione, senza nemmeno sapere che cavolo sia la rivoluzione, avrebbero ucciso a tradimento mentre accompagnava a scuola i due figli, E poi c’erano Marco De Poli e Claudia Beltrami. Quattro ragazzi, i quali tentavano con il giornale di rompere l’asfissiante cultura beghina che imperava nella scuola italiana in mano ai presidi-reucci, i primi e più appassionati oppositori di qualsiasi cambiamento. Quel 14 febbraio “La Zanzara” uscì con un’inchiesta sui comportamenti sessuali degli studenti. Scandalo: i buoni figli di papà del Parini non potevano avere pulsioni sessuali, e se ne avessero avute non dovevano parlarne, le cose si fanno ma non si dicono. I genitori si trovarono improvvisamente sull’orlo dell’abisso, era come se li avessero presi e messi sul ciglio di una burrone, ma in loro soccorso arrivò, come cantava De André, il potere costituito e al Parini giunsero i famosi “quattro gendarmi in sella e con le armi”: Tobagi, Sassano, De Poli e Beltrami furono portati a San Vittore. La ragione? Gli è che allora non si sapeva nulla di quello che stava succedendo nelle stanze del potere, non si sapeva che due anni prima c’era stato il tentativo di golpe del generale De Lorenzo con la protezione del presidente della Repubblica Antonio Segni (il giudice Tamburino mi raccontò che a forza di indagare, risalendo da persona a persona, da stanza a stanza, si ritrovò nella sala d’aspetto del Capo dello Stato!), non si sapeva che l’anno precedente, all’hotel Parco dei Principi di Roma, si era svolto un convegno dal titolo emblematico “La guerra rivoluzionaria”. A quel tempo, come ancora adesso, il chiodo fisso della politica di destra era formare un “governo forte”, che imponesse l’ordine sociale, ognuno al posto che il dio conservatore gli aveva assegnato, che concedesse poca libertà religiosa controllata dall’esecutivo cattolico con la supervisione dei vescovi, anche il peccato, naturalmente sessuale, poteva entrare a far parte del codice penale, aborto e divorzio fuori legge: di quel pacchetto di norme politico-morali molte sono rimaste nel pensiero reazionario. Ma c’era il comunismo da sconfiggere e comunismo era (ed é) tutto ciò che non faceva parte del precetto golpista. Il comunismo, dunque, fu il tema del convegno romano, organizzato dall’Istituto “Alberto Pollio” per conto del servizio segreto Sifar. Stralciamo dagli atti del convegno: “Qualsiasi violazione compiuta dai comunisti nei confronti del santuario (il potere, ndr) costituirebbe un atto di aggressione tanto grave da rendere necessaria l’attuazione nei loro confronti di un piano di difesa totale: il comunismo sta entrando nel santuario”.
Mi accorsi che qualcosa fino ad allora insospettabile stava accadendo quando incontrai il dottor Bruno Pascoli, avvocato dello Stato al tribunale di Milano, il quale aveva convocato il direttore del “Corriere Lombardo” Egidio Sterpa e il capocronista dello stesso giornale, che era il sottoscritto, per informare sul caso della “Zanzara” dal momento che era stato il nostro quotidiano a pubblicare per primo la notizia del sequestro del giornale e del fermo dei quattro studenti. Il magistrato, che avrei ritrovato dieci anni dopo come pubblico accusatore al processo-scandalo per la strage di Peteano, affermò che i comunisti stavano prendendo il potere ed era necessario fermarli e la pubblicazione del pezzo incriminato sulla “Zanzara” era la dimostrazione che i comunisti stavano tentando di sovvertire la vita politico-sociale italiana. “Bisogna fermarli”, disse e mi pare aggiungesse “con tutti i mezzi”. Rimasi più che sorpreso e, molto ingenuamente, chiesi perché mai i quattro ragazzi, subito dopo il fermo di polizia, condotti a San Vittore, fossero stati sottoposti a una ispezione corporale “molto approfondita”, aggiunsi. E’ la prassi, rispose Pascoli (negli anni Quaranta pubblico ministero a Torino nei processi contro gli antifascisti), non spiegando in che cosa consistesse l’”ispezione corporale”, che era poi mettere l’arrestato con la pancia su un tavolo, calargli i pantaloni o alzare la sottana se era una donna, e ficcargli un dito dietro, “per assicurarsi che non nascondano armi o altro”. Capii che volevano soltanto umiliare i quattro malcapitati studenti. Ricordatevi, disse Pascoli accompagnandoci alla porta, siamo in guerra. Era vero, ma il cittadino ancora non lo sapeva, lo capì il 12 dicembre del 1969, alla banca dell’Agricoltura.
Bisogna combattere questa gente, sennò vincono loro, disse Pascoli, che avrei ritrovato pubblico accusatore (ma poi condannato per falso) al processo di Trieste per la strage dei Peteano. Il fatto è che i quattro ragazzi malcapitati e destinati a divenire un caso esemplare di giustizia, subito dopo l’arresto, vennero condotti a San Vittore e lì interrogati, ma, prima vennero denudati, messi proni su un tavolaccio e sodomizzati, “per essere sicuri che non nascondessero armi nell’ano”. E’ la prassi, disse Pascoli sorridendo. Fu l’episodio che, finalmente, scosse la coscienza più vigile del capoluogo lombardo. Ma ormai il dado era tratto e cominciarono subito dopo gli attentati ai treni, alla Fiera e, poi, a Piazza Fontana. Gli anni del terrore.
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Gian Pietro Testa
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