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7. SEGUE – Che la morte di Mattei fosse stata causata da un attentato era fuori di dubbio fin dall’inizio, ma, come succede sempre in Italia, la coltre di silenzio fu stesa con molta cura dagli inquirenti. Con Pier Bellini delle Stelle, capo ufficio stampa Eni, ci sentivamo ogni giorno, ma non c’era mai nulla di nuovo, nemmeno l’arrivo del nuovo presidente Eni, Cefis, cambiò qualcosa, anzi tutto fu riportato a una allucinata normalità, cioè si mise mano alla normalizzazione dell’ente idrocarburi, via i giornali, via le idee espansionistiche in Africa e in Asia, bocciato il tentativo di porre l’Eni a fianco delle Sette sorelle: sembrò proprio che non si aspettasse altro che la scomparsa di Mattei per ricondurre l’ente a un ruolo subalterno rispetto ai concorrenti mondiali. La prima operazione condotta da Cefis fu il ritiro dell’Eni dalle attività giornalistiche e così la grande Agenzia Italia, che era arrivata a fare concorrenza all’Ansa, fu messa in liquidazione, i giornalisti furono licenziati con un’operazione spietata a cui i timidi sindacati non seppero, o non vollero, opporre la minima resistenza. Nessuno venne in aiuto dei giovani e dei meno giovani, nessuno li difese, da un giorno all’altro si ritrovarono sulla strada, ma non soli, c’erano i dipendenti di Stasera. Per il resto nemmeno una prece.
Intanto, procedeva il grande disegno di normalizzazione del Paese, che non doveva tentare voli pindarici, la politica voluta da Andreotti (non del tutto in accordo con Fanfani e Moro) disegnava una società a basso regime, la società dei borghesi piccoli piccoli, tutti a messa la domenica, la società che sognava Nilla Pizzi e il Festival di Sanremo, Miss Italia e s’intendeva di sport, gli intellettuali abbandonati in un limbo, dove pensavano tra di loro di cambiare il Paese, i giornalisti scomodi venivano sistemati con lauti guadagni, che qualcuno facesse pure strilli, il rovescio della medaglia – se è controllato – ha sempre fatto del bene al potere, dà un amaro sapore di libertà. Era cominciato un lungo periodo di mediocrità, in Italia se non sei mediocre non fai carriera (imperativo), la barzelletta che correva in quei giorni era paradigmatica, era riferita al partito comunista russo, ma si rivolgeva agli italiani: lo psicologo della grande azienda incaricato delle assunzioni chiede al candidato “ma lei ha idee sue politiche?” e il candidato ”certo, ma non le condivido!”
In mezzo alle cambiali, un mare di carta che sosteneva un boom economico fasullo, tra i palazzi di cartone costruiti ci mancava poco sui sagrati delle cattedrali, ma anche, e peggio, sui greti dei fiumi e sotto montagne in via di sgretolamento, si muoveva, insomma un paese marcio, credeva di poter diventare ricco con montagne di cartaccia, di pagherò senza valore e qualcuno là in alto accreditava questo miracolo straccione e, intanto, muoveva altre pedine per convincere la sinistra a celebrare un matrimonio (chiamiamolo morganatico, ma non so proprio quale delle due parti fosse quella nobile) con la destra sempre pronta a salire sul carro del vincitore. Ma sempre in nome di Dio, povero Dio. In quella palude marcia la Democrazia cristiana si muoveva per grazia ricevuta e tramava, avendo uno scopo fisso: il colpo di Stato, in grado di mettere definitivamente fuori corso l’odiato partito comunista, usando anche una letteratura giornalistica tutta di destra, a partire dal volgarissimo “Candido” di Guareschi, per il quale i maschi del Pci avevano tre narici e le donne comuniste tre tette, animali stupidi di una ignoranza senza speranza: quella di Guareschi è stata una delle operazioni più truculente della cultura italiana, mai prima di allora uno scrittore si era permesso di offendere così grossolanamente un’intera e consistente fetta di popolazione. Pochi anni dopo ”Candido” mi celebrò con un’intera pagina centrale del giornale, definendomi il giornalista più stupido: mi ero permesso di controbattere il tentativo di far passare una legge a favore della pena di morte. Nemmeno l’altro settimanale fascista o fascistoide, “Il borghese” cadde in una volgarità così sconcia, ma il suo direttore era Longanesi, pasta culturalmente diversa da Guareschi, cinico ma arguto e lucido, un uomo sprezzante che si sentiva superiore alla vituperevole massa degli ignoranti.
Ma c’era una situazione nell’informazione che determinava in tutta la popolazione cosciente una conoscenza del tutto parziale, ideologicamente parziale, vorrei dire volutamente parziale, in grado di escludere dalla realtà del Paese una grande fetta di cittadini: la televisione, che stava allora diventando padrona delle teste degli italiani, assumeva di giorno in giorno un’importanza determinante e dominava le notizie, sempre viste con un occhio solo, così da obbligare i quotidiani a seguire un’impostazione indottrinata di destra, perchè, se è vero che si stava dando vita al primo centro-sinistra organico, con l’avvento al governo dei socialisti, è altrettanto vero che la politica sociale seguiva un programma che lasciava fuori dal potere i lavoratori e le loro organizzazioni, primo tra tutte il Pci. Lo stesso Nenni ebbe a scrivere, ricordando quei giorni, che si discuteva tra il “tintinnar di spade”.. Aveva ragione: il generale De Lorenzo, coadiuvato dal suo ufficiale Mingarelli (che vedremo impegnato in prima persona nella strage di Peteano) e sotto l’cchio benevolo del presidente della Repubblica Antonio Segni, andava preparando un golpe che avrebbe sistemato l’organizzazione della nazione secondo un’idea, la quale poteva essere condensata in una sola entità: ordine. Ricordo quando l’allora colonnello Dalla Chiesa, che comandava la legione dei carabinieri di Milano, chiamò i giornalisti ad assistere a una parata di mezzi d’assalto, autoblindo e carriarmati. A che cosa serviva quella dimostrazione di forza se non a rendere inattaccabile il sistema poliziesco del paese?

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Gian Pietro Testa

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