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10. FINE – Stanco di leggere sui nostri giornali oscenità grammaticali e sintattiche, arricchite, o immiserite, da regole aggiuntive derivate dal faidate linguistico, mi rifugio sempre più spesso nel lavoro di alcuni amici, che so di buona cultura e più che ragionevole fantasia, per esempio in Gianni Clerici, col quale abbiamo lavorato per undici anni al Giorno e lui faceva parte della trimurti sportiva (con lui Gianni Brera e Mario Fossati) del più colto dei quotidiani italiani, prima dell’azzeramento (dava troppo fastidio), e terzo nelle vendite dopo il Corrierone e La Stampa.
Testimone del precipizio in cui siamo caduti a forza di scavare nel barile della nostra cultura, l’altro giorno Clerici raccontava, lui, ex compagno di doppio di Pietrangeli, principe della cronaca tennistica in campo internazionale, non ha trovato un posto sugli spalti del campo dove si giocava un incontro importante di questi robot violenti e urlanti, non più tennisti ma bambini cattivi: la parabola di Clerici racchiude, mi sembra, alcune notevoli spiegazioni di questo nostro tempo, così ben preparato dalla politica mondiale a essere perfido, smemoratamente feroce, come è sempre stato l’uomo. E i giornali quotidiani – ma non soltanto – hanno accompagnato la caduta voluta dall’alto, giornalisti di poco prezzo si sono adoperati a vendersi per fare squallide carriere, molti sono diventati direttori al servizio del potere, di qualsiasi potere, rosso, nero, bianco, viola che fosse, l’importante è fare carriera, essere chiamato davanti alle telecamere a dire le scempiaggini che riempiono d’aria i petti dei comandanti politici, spesso stupidi ma furbastri, vituperati, persino condannati ma sempre in piedi, i misirizzi del nostro tempo. Ma hanno una qualità di cui fanno larghissimo uso: il cinismo.

A questo proposito voglio raccontare un’altra parabola (scusate, ma sono ormai tanto vecchio e bolso che se non faccio queste puntatine nei ricordi mi trovo in serio imbarazzo), sempre a proposito del cinismo di cui i direttori dei giornali devono vestirsi per essere inondati da luce divina dopo aver offerto al potente di passaggio una parte essenziale del loro corpo. Una notte stavo chiudendo, insieme con il direttore, il giornale, saranno state le due di notte, la tipografia stava lentamente finendo il suo lavoro, quando arriva giù dalla redazione il fattorino Chiappetta, un piccolo calabrese simpaticissimo, viene dal direttore e da me sbandierando un foglio strappato dalla telescrivente Ansa: “Direttò, direttò, ho questa notizia che in redazione mi hanno detto urgente”. Erano quattro righe, un aereo di linea si era alzato in volo da Roma ed era disperso con duecento passeggeri a bordo, una strage. “Cambiamo titolo di prima”, urla il direttore, mentre io mi piego sulla macchina per scrivere e invento – ricordo – un testo abbastanza lungo per “tenere” il titolone a otto colonne di prima pagina. L’impaginatore dopo pochi minuti aveva finito e il direttore guardava soddisfatto il bozzone rifatto della prima pagina. Titolo: “Precipita aereo con 200 passeggeri”. Il direttore teneva la pagina bagnata con le braccia alte davanti a lui, come gli piaceva! Bello, vero?, mi chiese e fece un sospirone, ma in quel momento tornò correndo Chiappetta e sbandierando un altro dispaccio. Leggemmo, l’aereo era stato rintracciato, non era successo niente. Il direttore prese il bozzone e lo gettò a terra quasi urlando: “Non se po’ più fare chisto mestiere!” Aveva ragione, forse il mestiere di giornalista non si può più fare.

10. FINE

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Gian Pietro Testa

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