“Benvenuti a Ferrara”, recita un enorme cartellone situato sul retro della stazione ferroviaria, in via Modena. Nonostante la pioggia, ho avvertito la necessità di una lunga camminata e così sono arrivato fin qua.
Nel tragitto tante agenzie immobiliari, i bar degli asiatici in via Mazzini e Garibaldi, un centro massaggi che promette molto di più in via Cassoli, poco dopo una palestra di boxe, e un gitano che suona la sua fisarmonica scassata. In alto, alle finestre, striscioni fatti in casa: “Basta droga”, “Basta spaccio”, e sono già in stazione, dove il colore preminente diventa il nero degli africani.
Sebbene la stazione sia in pieno centro, i volti mi dicono che è iniziata la periferia, rivedo le barriere e l’incuria che annunciano i margini della città, quei luoghi che la borghesia cittadina rifugge, in cui gli immobili si svendono al primo offerente o si affittano a chi non può permettersi di meglio: via Oroboni, Porta Catena, le due torri che svettano in via Stazione.
Oltrepasso la ferrovia e puntuale all’orizzonte spuntano le nubi del petrolchimico. Al di là del cavalcavia finisce Ferrara e ha inizio un posto che potrebbe essere qualsiasi altro al mondo, quelli che Augé non molto tempo fa definì ‘non luoghi’. Quartieri popolari si approssimano al polo industriale, in mezzo a pompe di benzina, ruderi, poi una sala bingo, materassi, divani, ed un ristorante, diversi supermercati.
Uscito dalla magia del centro storico, piombo nello squallore ordinato di un posto in cui nessuno vorrebbe abitare e mi chiedo, ingenuamente, perché esistano le periferie. Cosa generi luoghi completamente inadatti alla vita sotto il profilo estetico e funzionale. A suo modo via Modena è un monumento all’Italia, in ricordo dell’assenza di progettazione urbanistica. Ogni permesso di costruzione a ridosso di zone inquinate, ogni cambio di destinazione d’uso in deroga a piani regolatori, rappresenta una piccola o grande sconfitta politica.
Sono partito dal ventre di Ferrara diretto verso i margini, e con le punte dei piedi fradicie penso alle parole di Darkness on the edge of town. Nella parte finale Bruce Springsteen narra come al solito di un perdente delle Badlands – i bassifondi – “Alcuni nascono sotto buone prospettive/ altri se le procurano comunque, in ogni modo io ho perso i soldi e ho perso mia moglie/ ma queste cose non mi sembrano importare tanto ora/ stanotte sarò su quella collina perché non posso fermarmi/ sarò su quella collina con tutto quello che mi è rimasto/ vite sul confine dove i sogni vengono trovati e si perdono/ sarò là in tempo e pagherò il prezzo/ per volere le cose che si possono trovare soltanto/ nell’oscurità ai margini della città”.
I margini di Ferrara mi dicono che è compito della politica evitare l’esistenza di periferie, ghetti, come pure di quartieri, scuole, asili o ospedali peggiori di altri.
A riguardo, l’urbanista Bernardo Secchi ha parlato a ragione di città dei ricchi e città dei poveri, nonché di quanto l’urbanistica contribuisca alla giustizia sociale o, al contrario, alla distinzione di classe attraverso un suo uso distorto quando non addirittura immorale.
Alle mie spalle due cartelloni giganti mi danno parziale risposta: il primo “compra oro, argento, gioielli, mentre il secondo si candida a sindaco della città con lo slogan “giustizia, onore, libertà”. Ma le immagini tradiscono una fatale somiglianza e dicono che non c’è poi tanta differenza tra i due propositi.
Ormai penso alla libertà strumentalizzata dalla politica e invece di Norberto Bobbio e della sua “Età dei diritti”, ho in mente il “compro oro” di via Modena, allora riattraverso la barriera del ponte ferroviario, limite della mia umida giornata, e finisco in un capannone diroccato che ospita un mercato dell’usato, dove sembra che pure la vita di ognuno sia di seconda mano.
Oggi è andata così, è una giornata di pioggia che impregna la punta delle scarpe e odora di muffa e polvere del mio grigio mercato dell’usato. Eppure amo i mercatini che mi danno la continua speranza di imbattermi in qualcosa di raro e introvabile a cui potermi aggrappare.
Una giornata fatta di slogan vuoti e ciminiere di un cielo sporco in mezzo ai cartelloni pubblicitari, con due indiani alla ricerca di un civico che mi chiedono di un certo Giovanni. O di un omaccione che offre la sua merce proibita nascosto nell’oscurità, ai margini della città, e io lo immagino bambino con cui non avrei fatto fatica a giocare tutto il giorno, e invece siamo soli entrambi, su due sponde invisibili che ci rendono talmente lontani, diversi, che non sembriamo neppure esseri umani.
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Sandro Abruzzese
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