Oppressa da genitori e scartoffie un’inutile scuola sull’orlo di una crisi di nervi
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Nella guerra lampo del premier contro il nemico numero uno dei costi della politica (non che l’obiettivo sia fuori luogo, anzi), il treno ad alta velocità, che per l’occasione chiameremo Matteo e non Italo, ha sostato alla fermata “Stipendi dei manager pubblici” e fra i primi se l’è presa col capostazione.
Molti altri casi sono finiti sui giornali, per dare un volto al contrappunto di un’Italia che lavora a testa bassa e che certi compensi non li vede nemmeno col binocolo.
Su “Qn” (domenica 30 marzo), ad esempio, si impara che il preside di un liceo milanese porta a casa 2.280 euro netti al mese, dopo oltre 42 anni di servizio, cui si deve aggiungere la reggenza di altre due scuole professionali e una serale. Un lavoro aggiuntivo che gli è valso un extra di 400 euro mensili netti, andati – dice – tutti in benzina, e con una responsabilità che si estende su 300 dipendenti e migliaia di studenti.
Ma la cosa che colpisce di più è la dichiarazione conclusiva: “Qualsiasi cosa faccia ci sono i genitori pronti a denunciarti. Ho avuto – prosegue – una richiesta danni di 150mila euro per una bocciatura, per danno biologico ed esistenziale ad uno studente”.
I genitori. Anni fa mi è capitato di vedere papà e mamma precipitarsi furenti, a passo di bersagliere, da un preside per protestare contro la bocciatura del figlio.
Insospettito dalla figura del pargolo, uno spilungone con la faccia tipica di quelli che sono accompagnati tutte le mattine in macchina fin davanti alla scuola anche se c’è un sole che spacca le pietre, andai a vedere il cartellone dei voti e dovetti arrendermi ad una monotona sequenza di quattro che ben poco lasciava spazio a impegno, dedizione e studio.
Amici insegnanti mi dicono che ricevono telefonate di avvocati e non mi stupirebbe se prima o poi qualcuno si presentasse in classe con il proprio legale di fiducia per sostenere un’interrogazione.
Nemmeno le gite scolastiche sfuggono all’occhio puntuto di genitori che presentano i disturbi tipici di un tempo di vita poco saturato. Ci sono insegnanti che ricevono mail da mamme che, evidentemente sull’onda di uno spirito critico messo a punto sul modello di “Amici” di Maria De Filippi, pongono il dubbio se quella tale visita guidata sia effettivamente formativa ed educativa, o se non sia meglio deportare la scolaresca ad una mostra più in linea col programma di storia che la classe sta svolgendo.
Ammesso e non concesso che quegli stessi allievi si siano accorti che nel loro orario settimanale c’è una materia che si chiama “Storia”, mi viene in mente mia madre quando arrivava il momento del colloquio coi genitori.
“Io devo lavorare – diceva con un tono di voce assolutamente convincente – per mandarti a scuola” (papà se n’era andato da tempo per un brutto male, come allora si usava dire). “Se sei promosso, bene – seguitava con logica lineare – altrimenti vai a lavorare”.
Nessun professore o preside la videro mai varcare la porta di una scuola che ho frequentato, ad eccezione dell’esame di seconda elementare. In quella circostanza la sua irruzione in classe servì a rendere noto a tutti che doveva portarmi a casa perché l’aspettava il turno pomeridiano sul lavoro. Interruzione provvidenziale che mi evitò la figuraccia della poesia detta a memoria (“L’albero a cui tendevi la pargoletta mano …”), che non sapevo.
Adesso, invece, un prof deve dare spiegazione ad una mamma in pausa, metti, tra una spesa al supermercato ed un torneo a burraco, del perché decida di accompagnare i ragazzi della propria classe a vedere una mostra d’arte.
Una deriva che pare il prevedibile esito di decenni nei quali le chiavi della scuola sono state consegnate alla pedagogia, che l’ha portata fin sull’orlo del baratro di una completa inutilità. Da qui, anche, il dubbio che tutto non sia successo per caso e il sospetto che una certa sinistra abbagliata dal metodo a scapito dei contenuti sia stata, di fatto, il cavallo di troia per introdurre questo nulla col volto suadente di un’orizzontalità inclusiva, permanentemente e burocraticamente discutente.
Una scuola portata, cioè, lungo una strada che ha scientemente espunto “il cosa” da materie, libri e programmi – fino ad introdurre avvocati e tribunali per coloro che ancora ci provano -, per lasciare spazio al trionfo del “come”, con un’orgia di moduli, unità didattiche, carte di offerte e crediti formativi, in una cultura ridotta a contabilità burocratica.
Salvo poi imbastire su questo nulla cosmico un impossibile “saper fare”.
Il risultato è un’impalcatura sempre più fragile culturalmente, organizzativamente, psicologicamente e umanamente. Una fragilità, del resto, resa plasticamente dalla precarietà estrema nella quale troppi edifici sono stati lasciati regredire.
Qualcuno faccia qualcosa per fermare questo scempio che è la demolizione della scuola italiana. E, se possibile, non continuando a pestare inutilmente sul falso binomio pubblico-privato, perché qui non è più in gioco la forma, bensì la stessa esistenza di un’istituzione creata per misurare la capacità di una società di immaginare, progettare e costruire il proprio futuro.
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Francesco Lavezzi
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