I nostri politici più patrioti e identitari festeggiano via social la vittoria sportiva di un italiano/a, e sempre più spesso si trovano davanti un atleta negroide o una squadra color ebano. Un po’ come se un piccolo fuhrer dei nostri tempi si trovasse costretto, per opportunismo, a festeggiare la vittoria di un Jessie Owens che vestisse la casacca tedesca al posto di un ariano. Nel caso di Jacobs gli è andata di lusso, perchè il padre è un marine americano. Nel caso di Paola Egonu gli va peggio: fosse per loro, questi campioni gareggerebbero sotto un’altra bandiera, quella che deriva dalla nazionalità dei loro genitori. Fosse per loro, questi atleti non avrebbero potuto nemmeno entrare in Italia, a meno che i loro genitori avessero potuto dimostrare ab origine, prima di metterci piede, di avere già un lavoro pronto ad aspettarli (se lo trovate assurdo, leggetevi la Bossi-Fini). La storia dell’immigrazione dei genitori, o dei nonni, di questi atleti è fatta anche di periodi di clandestinità, di irregolarità. Che per loro è un reato. Invece adesso li festeggiano, i figli e i nipoti dei clandestini. Per gli ipocriti difensori delle nostre radici e della nostra identità, esse si difendono innalzando muri. Come se la nostra identità non derivasse da quale sangue scorre nelle vene di un uomo, ma da quanto solida è la tradizione ed il costume che siamo in grado di trasmettergli, e da quanto può arricchirci entrare in contatto con la sua tradizione ed il suo costume. E se non ci riusciamo, la colpa è nostra, perchè evidentemente siamo i primi a non esserne convinti.
“La gente ha bisogno di un mostro in cui credere. Un nemico vero e orribile. Un demone in contrasto col quale definire la propria identità. Altrimenti siamo soltanto noi contro noi stessi.”
Chuck Palahniuk
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Nicola Cavallini
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