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Ermanno Olmi e Mario Martone in apparenza non hanno molto in comune, se non che sono registi e che hanno fatto di recente due film bellissimi.
Eppure, lasciando correre la fantasia può succedere di tutto, a costo di essere irriverenti.
Il primo film è “Torneranno i prati” (2014) di Olmi. Un racconto di neve, freddo e paura, di un’umanità povera e analfabeta, ricordando nel centenario della prima guerra mondiale gli scontri del 1917 sull’Altipiano di Asiago, durante quella che un papa definì l’inutile strage.
Il ricorso ad attori non professionisti è la cifra stilistica di chi volutamente si sottrae al clamore dello spettacolo che tutto riduce a finzione, per ridare la parola ad un’umanità anonima e dimenticata, sacrificata sull’altare di una storia, come ha detto Franco Cardini, fatta senza e contro il popolo.
Eppure il risultato è di una potenza straordinaria, come di fronte alla “Risurrezione” di Piero della Francesca, l’affresco di San Sepolcro che pur nella ricercata ed essenziale geometria senza teatralità, letteralmente esplode negli occhi di chi lo guarda.
La costante del film di Olmi è il silenzio della montagna e della natura, frantumato dal boato devastante delle granate che piovono sulla trincea italiana. Un rumore amplificato al punto da sembrare di essere lì, nella stessa sorte di chi non sa dove trovare riparo.
In tutto il film non c’è mai il nemico, forse perché, in fondo, il nemico non esiste se non nella mente dell’uomo.
Durissimo il monito finale affidato ad un soldato: “Quando la guerra sarà finita tornerà l’erba nuova e là dove è morta tanta gente sembrerà che tutto questo non sia mai accaduto”.
Con “Torneranno i prati” Olmi concede un sontuoso bis dopo “Il mestiere delle armi” (2001), altra splendida opera contro l’assurdità della guerra, in un’Italia percossa e derisa perché divisa, come intuì fin dal ‘500 il Machiavelli.
La stessa italietta, 300 anni dopo, fa da sfondo a un altro capolavoro: “Il giovane favoloso” di Mario Martone (2014), dedica commovente, ha ragione Gianni Venturi su Ferraraitalia, a Giacomo Leopardi.
E’ l’Italia di una Recanati che soffoca in un’atmosfera di umidità e nebbia e di un’erudizione del padre Monaldo, che non riesce ad essere strada di autentica liberazione umana, ma unicamente esercizio spettacolarizzato stile talent ante litteram, vanitosamente ostentato per sbalordire il pubblico. E’ l’Italia di una Roma papalina che neutralizza la forza scardinante del cristianesimo nella camicia di forza della neoscolastica, nel nome di un’alleanza trono-altare che ancora oggi proietta le sue ombre. La città eterna, dove Leopardi patisce lunghissime anticamere da un parente per avere dei soldi dalla famiglia, in una sala di stucchi e tele che sono il simbolo di un tempo consegnato al passato e ora esibiti come solo potere.
E’ l’Italia di una Napoli che se nel ventre dei suoi sottofondi riflette barlumi di umanità pasoliniana, è però preda infetta del colera; metafora, forse, della cancrena dell’illegalità criminale organizzata che si espande anche oggi nei gangli vivi del paese.
E’, infine, l’Italia di una Firenze nella quale se per un verso “Il giovane favoloso” può dialogare col suo estimatore Pietro Giordani, dall’altro non resiste alla noia mortale dei suoi salotti inconcludenti.
Soprattutto, Leopardi è schivato dalle intelligenze letterarie del suo tempo, perché non è compreso il suo pessimismo “radicale”. Specie in un tempo nel quale occorre lasciare spazio all’ottimismo risorgimentale della Patria. Alla sua poetica manca quello slancio al servizio di un impegno politico per la causa nazionale. Riflesso, anche qui, di un’intellettualità troppo spesso al soldo di una politica che tuttora non si vergogna di andare dall’estetista per rappresentare degnamente i propri elettori.
Bellissima la reazione leopardiana, nella potente interpretazione di Elio Giordano, a questo spurgo di retorica: non si capisce come facciano ad essere felici le masse, quando sono composte da individui tristi. E poi, sono sempre sue parole, la ragione senza il limite del dubbio non va da nessuna parte, tranne asservire gli uomini alla propria volontà di onnipotenza.
Dice bene Gianluca Arnone (Cinematografo.it): nel film di Martone più Leopardi si accartoccia in un corpo gracile e malato, più scruta con occhi impietriti e impauriti un infinito gelido come nella navicella del film “Apollo 13” di Ron Howard (1995).
Oltre gli stupidi stereotipi del gobbo, storpio, deforme infelice, dei quali la scuola è purtroppo complice colpevolissima, il film di Martone trova degno e struggente epilogo con “La ginestra”.
Le pendici del Vesuvio tumefatte dalla lava, nelle immagini che scorrono sembrano la schiena sempre più nodosa e livida di Leopardi e alla fine anche “tu, lenta ginestra, che di selve odorate queste campagne dispogliate adorni, anche tu presto alla crudel possanza soccomberai del sotterraneo foco”.
Il cinema.
Ricordo la disputa infinita tra Franco Farina e don Franco Patruno sul cinema. Per uno che si è tolto la soddisfazione di avere portato a Ferrara nientemeno che Andy Warhol, il Cinema non era niente di che. Per il secondo dei Franchi tiratori, invece, meritava tutto il rispetto che si deve a un’arte.
In realtà quello non era un dialogo in irrisolta tensione, ma un codice comunicativo per portare legna sul tepore di un’amicizia bellissima.
Sintesi, viene da pensare, di quello che ha detto Massimo Cacciari degli affreschi di Schifanoia sulla scorta della lezione di Abi Warburg, grazie ad un ciclo di incontri organizzati da Marco Bertozzi: la testa degli uomini non procede tanto per ragionamenti astratti, ma preferibilmente per immagini.
Insomma, due film da non perdere.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).


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