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Molto difficile spiegare a chi non ha mai provato e a chi non vedeva la pesca come fine, scopo, riempimento, completamento ed essenza della vita. Per noi, intendo io e Manzo questo era la pesca. Poi aprile, la bella stagione, non che noi si smettesse di pescare nei mesi freddi, anzi. Ogni mese aveva il suo pesce, la sua pesca, sempre rigorosamente a spinning.

La pesca della cheppia non era particolarmente interessante come tecnica, grezza, poco raffinata, villana, ma il salmone della bassa sapeva darti, dopo la ferrata, emozioni indicibili.
Per noi la pesca era sport estremo, molto più pericoloso del parapendio e del bungee jumping, chi se la immagina come rilassante attività per anziani col cappello di paglia in testa non ci ha mai visto all’opera. Abbiamo rischiato denunce penali, di venire risucchiati dalle sabbie mobili, ci siamo arrampicati per manufatti alti decine di metri, siamo caduti nelle peggiori fogne della bassa, abbiamo preso pizzicate da19 insetti tropicali, rischiato di venire assorbiti da turbine idrauliche, eccetera. Ma la storia più eclatante, che non ricordo se l’ho mai scritta, ma che da trenta e passa anni viene narrata ad ogni cena (quando si poteva andare a cena) della ‘vecchia’, sempre con nuovi particolari, dettagli aggiunti, pezzettini veri e/o verosimili è quella che segue.
Oggi mi va di raccontarne la fredda cronaca, la tragicomica e semi esilarante avventura di due fratelli di pesca.

Il periodo era questo, gli anni ’90 erano agli albori, noi lavoratori precari o semi disoccupati, da ubriachi ci dispiacevamo pure per la nostra “dura” vita, ma poi lungo le sponde di un canale le turbe passavano in un attimo. Credo che mai nessun ex frequentatore del bar Trentino diverrà cavaliere del lavoro.

Dicevamo, le sponde del Canal Bianco a Baricetta, come il fiume Kitimat nella Columbia Britannica, al posto del salmone Coho, la famosa Alosa Fallax Nilotica, sua maestà la Cheppia o Cépa in dialetto ferrarese. Dalla sinuosità del King delle acque dolci e salate alla forma rustica di Arringona della regina delle risalite padane. La forza del pesce di mare in trasferta per due mesi l’anno in acque dolci, il richiamo della riproduzione e la fiera dei pescatori. Sia chiaro mai una cheppia è rimasta all’aria più del tempo necessario ad essere slamata e rimessa in libertà, questo per noi era un must, un dogma.

E vabbé, provo a stringere. Arrivare sull’argine del Bianco a fine aprile era come arrivare nel Circondariale durante i campionati del mondo di pesca. Traffico come in tangenziale Ovest a Milano, pescatori da tutte le parti d’Italia, dialetti dell’ovunque. I primi che arrivavano, a notte fonda potevano avvicinarsi alla chiusa, tra i sassi e i giri d’acqua, nella schiuma al detersivo dove le Alose si accalcavano alla ricerca di una difficile risalita al manufatto. Per accaparrarsi un buon posto spalla a spalla si rischiava, come gridare a Scampia “la camorra è una montagna di merda”. Quindi io e il mio compare, mai stati avvezzi alle levatacce, con bella calma ci appropinquiamo verso la ridente località polesana, dopo un buon caffè e una paglia al Bar da Claudio.

Ovviamente i primi quattro cinquecento metri di Canale, sponde orografiche destra e sinistra vedevano la calca del supermercato nel giorno del tre per due. Inarrivabili. Non bisognava però non allontanarsi troppo dalla zona hot. Parcheggio la mia Giulietta scarburata, in curva alla zio vigliàcc e ci lanciamo ad occupare una ‘posta’ abbastanza stretta ma pescabile. Poi per due pescatori esperti come noi quando mai questo potrà essere un problema (cit.).

L’attrezzatura per la Cheppia come dicevamo era grezza, canne da Lucci di 2,70 mt. mulinello robusto, io optai per una classico Abu 4, un piombo a goccia da 25 gr. a fine lenza e una amettiera a tre ami, con pennette bianche brillanti. Attenzione, filo dello 0.35, grosso, molto grosso, (particolare non secondario nel prosieguo della narrazione).

È risaputo dai miei compagni di pesca che io per i primi dieci lanci sono terribilmente pericoloso, la fregola, le rondini nello stomaco, la tachicardia e l’ansia da prestazione mi attanagliano, il tutto condito dalla mia atavica mancanza di attenzione (mi cugino direbbe “usta”). La leggenda epica, narra che quando il buon Dio nella notte dei tempi distribuì l’usta, io capii frusta e me ne scappai lontano.

Spalla a spalla come mille altre volte, il canneto da ambo i lati, una piccola apertura di forse tre metri ci fa vedere le fulgide acque color sciolta del Canal Bianco.

Si parte, inizia la rumba. Le canne a due mani presuppongono una buona forza di lancio, occorre cercare le ragazze argentate a centro fiume, nel filo della corrente ascendente dell’alta marea. Almeno quaranta metri di lancio, meglio di più.
Swiss, i lanci paiono sincronizzati, al secondo forse terzo lancio, sento un soffio, guardo Manzo, mi dice:
– C’è mancato poco, mi hai sfiorato il cappello.
-Tranqui – Rispondo io – Starò più attento.

E infatti il lancio dopo, a tutto braccio con la possanza dei miei bicipiti, inarco la canna come un fuscello e fiondo in avanti. Nessuno swiss, sento uno stock! Netto, ineccepibile, il piombo vola quasi sull’altra sponda, una botta da campionato del mondo, una violenza bruta e incredibile. Ma lo stock, cosa è stato? Mi giro verso Manzo, per chiedergli lumi. Ha lo sguardo fisso in avanti, la paglia in bocca con la brace appesa a un filo, gli occhi sbarrati, non recupera, ha la canna bloccata davanti a sé. Ruota le pupille di un micro millimetro verso di me, incrociamo gli sguardi.
-Ma ti ho preso? – Sussurro.
-Si! – mi dice con un filo di voce.

Mi avvicino per vedere il danno. Ha un amo con piumetta appeso all’orecchio, una specie di orecchino Punk Rock. Nemmeno una goccia di sangue, un lavoro che nemmeno in gioielleria.
Prendo la pinza a becco lungo per elettricisti, che io adopero da slamatore, mi appresto a effettuare l’estrazione.
-No,no,no,no, andiamo al Pronto Soccorso – Grida l’infortunato.
Accudisco le canne, smonto e preparo l’attrezzatura per risalire alla macchina. Ma che fa Manzo? È intento a recuperare una cheppia, finché non la slama, rimane concentrato. Poi, via con la mia Giulietta marrone verso il pronto soccorso di Adria. La corsa è breve, oltrepassiamo la chiusa in direzione est e i Caramba ci sbattono la paletta in faccia. È pur vero che volavamo troppo bassi. Faccio per scendere, ma Manzo mi anticipa, scende e dallo specchietto retrovisore vedo che mima l’infortunio, indicando il reperto appeso al suo orecchio.

Il maresciallo sgrana gli occhi, ci fa ripartire, ci fa strada e ci scorta verso l’ospedale con i lampeggianti accesi. In un attimo siamo al nosocomio polesano, entriamo al Pronto Soccorso che sembriamo Starsky e Hutch, ma vestiti da pesca. Gilet centotasche, pantaloni della mimetica, scarponi infangati e stupida in testa.
Il mio compagno va all’accettazione, effettua il triage. Io sono a distanza, vedo la scena ma non sento le parole. Osservo che si avvicina allo sportello indicando l’orecchio malato. L’infermiera sgrana gli occhi e poi comincia a ridere. Ma non è che sorrida, si sganascia proprio, chiama i colleghi, i quali passano da un secondo di incredulità ad una esplosione di risate sguaiate. Qualcuno mi indica e si piega in preda alle convulsioni scuotendo la testa. Due minuti e l’infortunato entra nella prima sala operatoria disponibile.

Io sono fuori, in ansia per l’amico mio, quando un degente in carrozzella mi si avvicina e in perfetto dialetto polesano mi dice:
-Ma sito stato tì?
Io accenno ad un si colpevole. Il malato scuote la testa con un leggero sorriso compassionevole.

Intanto Manzo sta ‘andando sotto ai ferri’, steso sul lettino il medico di turno gli chiede lumi sull’accaduto. Poggia le mani sul petto del ragazzo ancora con indosso il gilet. Un urlo sovraumano e il medico ritrae la mano destra, dalla quale penzola una Rapala snodato da 12 cm. Con l’esca ancora piantata nella mano chiede se il minnows è mai stato usato. – Certo che si! – risponde il mio amico pescatore.
Il chirurgo fugge in un’altra sala operatoria visibilmente scosso.

Un secondo medico, provvede all’intervento di asportazione. Puntura di anestetico, e in due minuti sfila, dalla parte corretta, non dalla parte dell’ardiglione come stavo facendo io sul posto di pesca, l’amo dal lobo del giovane.
Le infermiere in sollucchero, finiscono la medicazione e liberano Manzo, il quale prima di uscire chiede che gli venga restituito il Rapala. Così è.

Intanto all’accettazione del PS, sembra di essere a Zelig, gente che mi chiede di raccontare nuovamente l’accaduto, morituri che si piegano dal ridere e sprizzano felicità da ogni poro, giovani e vecchi mi domandano come sia potuto accadere. Mi sento un idiota.

Sbrigliamo le ultime formalità all’ospedale, nell’ilarità generale.
Usciamo in un lampo, uno sguardo d’intesa, accendiamo una paglia e ritorniamo di comune accordo sulle sponde del Canal Bianco a pescare.
La pesca non è uno sport, nemmeno un passatempo, men che meno un hobby. E’ la nobile arte.
E noi, modestamente, eravamo davvero degli artisti.

In copertina: Chiavica Pignatta sul Canal Bianco, Baricetta, Adria (foto OLYMPUS DIGITAL CAMERA. licenza Wikimedia Commons)

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Cristiano Mazzoni

Cristiano Mazzoni è nato in una borgata di Ferrara, nell’autunno caldo del 1969. Ha scritto qualche libro ma non è scrittore, compone parole in colonna ma non è poeta, collabora con alcune testate ma non è giornalista. E’ impiegato metalmeccanico e tifoso della Spal.


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it