Sul gelato: tutte le volte che ne prendo, sono templi, chiese, obelischi, rupi; è come una pittoresca geografia che prima ammiro, per poi convertire quei monumenti di lampone e vaniglia nella mia gola. (Marcel Proust)
Cadorina o K2? Questo è il dilemma. Quella domanda che ci si faceva nella banda dei tre, quella delle Aquile s’intende, quando Aquila Rossa alla fine dei giochi domandava, stanca e accaldata, “dove andiamo allora a prenderci il gelato?”. “Se non vi sbrigate a decidere, faccio io”. E puntualmente decideva. Tempo di ricordi, tempo di tenere, leggere e affettuose malinconie, oggi mentre passeggio per questa città che finalmente conosce timidi ma caldi raggi di sole. Ancora a zonzo. Nullafacente. L’ozio, questa meraviglia.
La Cadorina all’epoca era il tempio dei ghiaccioli, semplici ma colorati, estratti dal profondo freezer da un gentile signore dagli occhiali rotondeggianti che, con pazienza certosina, rinfrescava i pensieri di tutti i bambini. Come una simpatica e allegra magia, quel ghiacciolo appariva da quel grande e lucente contenitore bianco, quasi un coniglio dal cappello.
Il K2 aveva ancora i grandi tubi di latta opaca, da quei coperchi usciva il cremoso fiordilatte o la spumosa cioccolata, i gusti non erano tanti, ma quella paletta dei gelati era anch’essa magica: quasi una bacchetta di una fata che riempiva di panna coni e momenti di pausa, sottratti alle sterminate battaglie navali o ai burrascosi nascondini in giardino. Si correva per le strade allora, da casa alla Cadorina erano pochi minuti. Si era liberi, nessun timore di maniaci e persecutori, l’unico vincolo (al quale non si scampava) era la voce di mamma che, a una certa ora, chiamava perché si doveva risalire, solitamente a fare il bagno, dopo un pomeriggio passato in un cortile che sbucciava le ginocchia e lasciava palmi di mano neri e graffiati. Ma eravamo felici, la pallina da tennis spesso finiva nella stanza dell’ufficio di un anziano e gentile avvocato, che puntualmente ce la rimandava indietro dalla sua finestra aperta. Un giovane scrittore, che poi sarebbe diventato famoso, attraversava quei nostri giochi vocianti. Ci domandavano cosa faceva, era un uomo misterioso e intelligente, nessuno di noi ancora capiva cosa significava vivere scrivendo. Mentre il lattaio ci offriva un bicchiere d’acqua fresca, si pianificava ancora e ancora il momento del panino. E poi di nuovo: Cadorina o K2? Pomeriggi sempre uguali, eppure tanto diversi. O Cadorina Cadorina storna che portavi colui che non ritorna…
Oggi sei li’, imbrattata da mani ignote, dimenticata dai giovani che non ti conoscono più, un po’ abbandonata. Perché tanto scempio? Perché non ti rispettano? Sei stata il simbolo di tanti pomeriggi spensierati, a te si deve assoluto rispetto. Forse però qualcuno, alla fine, ti ricorda, perché fra quegli strani segni gialli appare un cuore. In fondo il cuore e l’amore sono universali e tu, piccola Cadorina, questo sei, questo sei stata. Ma poi mi domando: perché ti chiami Cadorina? Ha a che fare con le Dolomiti? Derivi da un cognome? Sai poi che ci sei anche a Roma? Oh Cadorina Cadorina storna, ti prego, ritorna…
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