Molte sono le etichette che vengono usate per evocare sinteticamente la natura della società nella quale viviamo e cercare di catturarne lo spirito sfuggente. Società dell’informazione, società post-industriale (D.Bell, A.Touraine), società del rischio (U.Beck, 1986), società digitale, network society; società a capitalismo avanzato, post-moderna (J.F.Lyotard), liquida (Z.Bauman), post-materiale; società della paura, del benessere, del consumo, società dei controlli (M.Power), società aperta (K.Popper), della comunicazione, dei servizi e del terziario avanzato; società multietnica, multiculturale, opulenta (J.K.Galbraith), società tecnologica, sono solo alcune delle definizioni di uso comune: ognuna di esse illuminando alcuni aspetti in modo selettivo altri ne oscura; tutte hanno qualche margine di sovrapposizione reciproca, ognuna evoca uno stato di fatto e lascia immaginare uno stato futuro possibile, ora temuto ora auspicato.
Dietro ad ognuna vi sono studi seri e riflessioni ponderate, concetti, ricerche, libri e pubblicazioni, che pochissimi hanno letto; vi sono sforzi per costruire, sistematizzare ed organizzare dati e conoscenze in modo organico e comprensibile,
Qualunque sia l’etichetta che scegliamo per orientare la nostra descrizione del mondo qualcosa resta sempre fuori; malgrado e forse a causa del quotidiano bombardamento di informazioni, resta sempre un’ansia, un timore che qualcosa sfugga, un sospetto che qualcosa non funzioni come dovrebbe e come ci raccontano; viviamo infatti in un mondo che ci appare sempre più globalizzato, sempre più uniformato dal consumo, ma allo stesso tempo sempre più caratterizzato da esplosive diversità; un mondo in cui crollano dall’oggi al domani equilibri che sembravano consolidati e dove, contemporaneamente, si creano inattese costellazioni di senso; un mondo caratterizzato da pressioni opposte che sfidano ogni semplificazione e minacciano ogni sicurezza riposta in quel che sembrava assodato; pressioni che rendono obsoleto molto di quel che si credeva di sapere e che pareva sufficiente per condurre la propria vita in modo ragionevolmente positivo. Un mondo attraversato da gravi fratture.
Vi è innanzitutto una clamorosa frattura demografica tra quella parte del mondo più ricca e maggiormente tecnologizzata, che offre più tutele in termini di diritti e accesso ai consumi e l’altra parte del mondo, composta da quei paesi poveri, che fino a non molto tempo fa, si sarebbero chiamati del terzo e quarto mondo o in via di sviluppo.
Il primo gruppo è caratterizzato da una decrescita demografica che può essere ben sintetizzata dal tasso di fecondità inferiore a 2 figli per donna (in Italia 1,3) e dal contemporaneo invecchiamento della popolazione dovuto anche all’allungamento sensibile della aspettativa di vita (In Italia 83,8 anni per i maschi e 85,8 per le femmine); la decrescita demografica sta cambiando la composizione della popolazione con gravi ripercussioni anche sui sistemi previdenziali che si fondano ancora sul vecchio presupposto ormai inattuale dell’aumento della popolazione e dell’ampia disponibilità di lavoro regolare.
Il secondo gruppo è caratterizzato invece da tassi di fecondità che oscillano tra 4 e 7 figli per donna, con una crescita annuale di popolazione dell’ordine del 2-3% che porterà in pochi decenni a raddoppiare la popolazione di quei paesi, malgrado i più alti tassi di mortalità e l’aspettativa di vita decisamente più bassa.
Con una popolazione mondiale in crescita che ha superato i 7,6 miliardi (nel 1950 era di 2,5 miliardi) questa grande linea di rottura rappresenta un problema gravissimo, forse il più grave ed urgente da affrontare nei prossimi anni. Un simile squilibrio, in via di costante aggravamento è sicuramente destinato a produrre esiti che potrebbero essere catastrofici e difficilmente immaginabili. Malgrado numeri così grandi rendano improponibili confronti con il passato, la storia lascia intendere infatti che gli squilibri demografici sono spesso associati a grandi carestie, guerre, distruzioni di intere civiltà e sconvolgimenti tali da causare rivoluzioni incontrollabili.
In tale contesto emerge una forte polarizzazione tra due modi opposti di riproduzione: da un lato le persone che vivono in una cultura occidentalizzata, in un ambiente sempre più artificiale e tecno-scientifico largamente basato sul consumo, dove la procreazione di un gran numero di figli non è più né un valore né una necessità e dove il tasso di fertilità delle coppie si è di molto abbassato negli anni; un ambiente culturale dove anche la procreazione è sempre più mediata ed assistita dalle tecnologie bio-riproduttive e la scelta del figlio sembra sempre più connessa a vincoli di ordine economico.
Dall’altro le persone che vivono nei paesi più poveri dove le culture che regolavano le nascite sono state distrutte e sostituite dal mito del consumo occidentale, senza che questo fosse accompagnato dalla costruzione di apparati statali in grado di offrire servizi alla popolazione e di lanciare una seria politica di controllo delle nascite. Un ambiente dove le persone per credo, volontà ed energia – forse per ignoranza – sembrano ancora orientate a figliare massivamente incuranti della scarsità e dei rischi.
Vi è poi una seconda drammatica linea di frattura che accompagna la globalizzazione forzata in quasi ogni parte del mondo. Essa si manifesta in un processo di veloce riallocazione delle risorse e delle ricchezze verso il vertice della piramide sociale, verso le grandi corporation private transnazionali e multinazionali, verso le grandi banche e i grandi possessori del capitale globale. Un processo che va di pari passo con l’impoverimento e indebitamento degli stati, con la perdita dei beni comuni e con l’impoverimento sistematico delle classi medie e lavoratrici. La concentrazione della ricchezza verso l’alto è un processo che dura da anni ed è in ulteriore accelerazione: secondo alcuni osservatori 1% della popolazione più ricca possederebbe la stessa ricchezza posseduta dal rimanente 99% della popolazione.
Il capitalismo neoliberista finanziarizzato responsabile di questo processo negli ultimi decenni è ben più di una filosofia economica; esso è un potentissimo ordinatore culturale capace di cambiare nel profondo le persone e le società, corrodendo in modo irreparabile qualsiasi tipo di cultura. La sua capacità di estrarre valore attraverso l’uso disinvolto della finanza è straordinaria; altrettanto potente è la sua capacità di far aumentare i consumi sia conquistando nuovi mercati sia inducendo nuovi e impensabili bisogni.
Il divario crescente tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri e numerosi, taglia orizzontalmente quasi tutte le nazioni: quelle dove questa disparità è sempre stata la norma, come quelle dove l’esistenza di una folta classe media aveva garantito una certa redistribuzione della ricchezza nell’ultimo periodo di prosperità della società industriale.
L’élite globale che ha drenato le ricchezze è a sua volta, fortemente stratificata al suo interno: al vertice vi si trovano le famiglie storiche che hanno in mano le risorse e le leve finanziarie a livello globale, i grandi capitalisti proprietari di banche e fondi pensione, gli speculatori globali di più recente accesso, i membri dei consigli di amministrazione delle aziende multinazionali di ogni settore e, a scendere, i grandi manager e i grandi burocrati pubblici e privati. Assai verosimilmente, è nei vertici inaccessibili di questi gruppi – che nessuno ha eletto e controlla con procedure democratiche – che vengono prese le decisioni più grandi che condizionano stati e popoli interi, e ipotecano il futuro di tutti.
Al livello più basso di questa élite internazionale sta forse quella classe creativa transnazionale composta da scienziati, professionisti, alti burocrati, ricercatori, gente di comunicazione, sportivi ed artisti di grande successo, imprenditori: gente che si distingue per relazioni, conoscenze capacità tecniche e linguistiche e per il reddito – comunque infimo rispetto ai vertici della piramide – che ne fanno la nuova élite lavorativa globale.
Caratteristica mediamente comune a tutti è l’indifferenza rispetto alle questioni di nazionalità, etnia, razza, religione, cultura, tradizione, radicamento locale. Si tratta di gruppi tendenzialmente apolidi dotati delle risorse per essere “cittadini del mondo” – almeno se considerati nella prospettiva delle vecchie nazionalità – che si pongono e si sentono in posizione sopraelevata rispetto alle masse con le quali intrattengono scarsi legami.
Queste due grandi fratture si manifestano nel quadro dei limiti ecologici che caratterizzano il pianeta terra e i suoi delicati equilibri indispensabili a mantenere la vita in tutte le sue forme.Tali limiti non riguardano solo il rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale dal quale trae direttamente o indirettamente l’indispensabile per vivere, ma anche i rapporti tra gruppi organizzati di persone che vivono in specifici ambienti strutturati.
Tra questi limiti e quelle fratture di cui è urgente prendere consapevolezza, bisogna trovare soluzioni – ammesso che qualcuno non abbia già deciso per tutti – e creare nuovi orizzonti di senso (un compito che tocca ad ognuno di noi): una sfida che non ha precedenti nella storia e dagli esiti imprevedibili.
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Bruno Vigilio Turra
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