“Novantadue”, il fango della trattativa sui cadaveri di Falcone e Borsellino
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Per Ferrara questa è stata una settimana densa di eventi importanti sul tema mafia: dopo la conferenza di don Luigi Ciotti [leggi], tenutasi martedì al liceo Ariosto, giovedì sera è andato in scena al Teatro De Micheli di Copparo lo spettacolo “Novantadue, Falcone e Borsellino vent’anni dopo”, di Claudio Fava e con la regia di Marcello Cotugno.
Un evento organizzato in collaborazione con l’Università di Ferrara che, grazie alle tariffe agevolate e le navette gratis per gli studenti, ha visto partecipare molti giovani.
Novantadue è la storia di due uomini del nostro tempo: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Uomini e non eroi, come viene ben specificato durante la rappresentazione, perché per entrambi l’etichetta di “servitori dello Stato” era più consona al loro ruolo. Proprio loro che tutto volevano essere meno che eroi, servitori di quello stesso Stato che gli ha abbandonati, lasciati soli, rei di aver creduto fino alla fine di poter dare continuità concreta al maxi-processo da loro avviato e scontratisi, infine, contro una trattativa troppo forte e ben avviata, a loro sconosciuta.
Lo spettacolo inizia proprio dalle fasi di completamento dell’istruttoria del maxi-processo, nel 1985. I due magistrati, “nascosti” sull’isola dell’Asinara, firmano gli ultimi documenti ed incominciano ad interrogarsi. Probabilmente iniziano da qua a parlare per la prima volta di loro stessi, di quello che hanno costruito, delle loro paure e, inevitabilmente, della morte. E in rapido tempo si arriva così, attraverso fatti più o meno salienti della storia, al 1992 appunto, anno della sentenza e delle condanne che andarono chiudendo il più grande processo penale della storia, ma anche e soprattutto l’anno degli attentati di Capaci e via D’Amelio.
Falcone e Borsellino (ben interpretati rispettivamente da Filippo Dini e Giovanni Moschella) ci vengono raccontati in un susseguirsi, spesso frenetico e dal forte impatto emotivo, di monologhi introspettivi, dialoghi con il pubblico, dichiarazioni realmente rilasciate, racconti della loro vita quotidiana. I loro interlocutori, a volte giudici, altre mafiosi, altre ancora pentiti (ognuno di questi interpretati dal “tuttofare” Fabrizio Ferracane), non sono altro che un climax ascendente di scoperte atte a prendere consapevolezza di quello che stava accadendo a loro insaputa. Nell’euforia e nella quasi convinzione di avere davvero rifilato un durissimo danno alla mafia, giorno dopo giorno, emerge pesante come il piombo la sensazione, sempre più netta, che il disegno già costruito è quello noto come “trattativa Stato-Mafia”.
Ed è proprio attorno a questa assurda verità che lo spettacolo sembra costruire il suo vero obiettivo. A più di vent’anni di distanza, non possiamo che rimanere ancora increduli davanti alla solitudine e ai complotti ai quali vennero lasciati in balia i due magistrati palermitani. E in Novantadue Falcone e Borsellino sembrano guardarci per davvero dritti negli occhi, impotenti, passati nel giro di qualche settimana dalla vittoria ad un inesorabile sconfitta. Due morti praticamente annunciate, raccontate con immane brutalità dai loro assassini compiaciuti dal loro gesto. Borsellino, dopo la morte dell’amico, ha praticamente solo il tempo di rendersi conto che la fine è vicina anche per lui, niente più scudi e niente più difese. Tutto è già stato scritto, ma rimane una certezza: con la mafia non si tratta, fino alla fine. E la fine arriva, rapida e cupa come il fumo nero generato da quell’enorme esplosione provocata da chili di tritolo. Ma solo un attimo prima di questa tragedia, sempre Borsellino trova il tempo di guardare ancora una volta negli occhi noi del pubblico, come se fosse presente per davvero, e confidarci quello che apparentemente sembra essere un ultima dichiarazione: la sua certezza è di essere stato un buon padre, la speranza è che i suoi figli diventino più consapevoli di ciò che li circonda rispetto alla generazione dei loro padri.
Tuttavia questa speranza è forse, ancora oggi, un enorme interrogativo. Probabilmente molti altri giovani presenti in teatro avranno condiviso ciò e si saranno chiesti se abbiamo imparato qualcosa, noi tutti, da questi due grandi uomini. Perché la sensazione che la mafia oggi, dopo quei fatidici giorni di ventitré anni fa, sia diventata meno forte perché meno “attiva” sul campo e più silenziosa, è un pensiero molto diffuso. Don Luigi Ciotti questo lo ha spiegato bene e queste sue parole quindi (dette da uno che Falcone e Borsellino li conosceva eccome) siano insieme a questo spettacolo un monito per sensibilizzarci, interrogarci ed anche stupirci a nostra volta. Replicare settimane come questa è un dovere; ne gioviamo noi stessi, la nostra società, il nostro futuro e soprattutto la memoria di chi, per questa battaglia ancora aperta, ha sacrificato la propria vita.
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Andrea Vincenzi
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