Quella cosa chiamata città. PENSIERI SPARSI SUL FUTURO URBANO
Da anni in tanti lavoriamo su città circolari, attive, resilienti, lottiamo contro il consumo di suolo, sul rapporto tra città e salute, sulla mobilità dolce, sull’abitare sociale, abbiamo inoltre riflettuto sugli effetti del Covid 19 nell’organizzazione delle città e nelle pratiche dell’abitare.
Nelle università si lavora da anni su questi temi, con sempre meno soldi e sempre più burocrazia, necessaria per testare la qualità del lavoro di ricercatori esasperati e disillusi. Abbiamo i cassetti pieni di progetti, ricerche e studi che prefigurano un paese e un mondo diverso. Si propongono strategie e visioni si elaborano progetti di dettaglio, tutto nel totale disinteresse della politica e della governance, come si dice oggi.
Poi arriva l’archistar di turno et voilà i problemi dell’abitare nell’era del Corona Virus sono risolti. A quel tempo, ogni giorno sui grandi quotidiani neoliberisti si intrecciavano articoli e interviste dove il gioco era a chi la sparava più grossa.
Ci vuole il “Ministero alla Dispersione” (è arrivato il nuovo Kropoktin?) perché nelle città accentrate non si può più vivere. Siamo pieni di bellissimi di borghi vuoti dobbiamo ritornare a viverci, certo, bell’idea, ma perché si sono svuotati? L’intuizione viene colta dall’allora Ministro alla Cultura che destina denari PNRR per un borgo a regione; dunque, un borgo ricco circondato da borghi abbandonati, ma il problema non era nelle strategie per le aree interne?
Dobbiamo rilanciare l’uso della bicicletta: che intuizione! E le piste ciclabili chi le fa e, quando le fa, come le fa? Visto che siamo sul tema mobilità, perché non mettiamo anche qualche tram in città e trasporto metropolitano tra le città per renderle un sistema metropolitano come nella Randstad?
Qualche giorno dopo un’altra archistar se ne esce con l’intuizione: diamo importanza all’aria e al verde. Ottima idea, ma non l’avevano già proposta i fondatori dell’Urbanistica a metà dell’Ottocento, Olmsted a Boston e a Amsterdam nel 1927 non si avvia la costruzione del grande bosco urbano?
Poi arriva quello che vuole piantare alberi dappertutto, a prescindere da dove siamo, perché noi umani dobbiamo imparare dal mondo vegetale che non è competitivo, sarà vero? Però bisogna anche migliorare le abitazioni creando gli opportuni spazi per lo smartworking, ma lavorare a casa richiede la prossimità e quindi a 15 minuti devo avere commerci e servizi.
Ottima idea, peccato che le abitazioni costino 10.000 € a mq., questo non le rende selettive? E nei quartieri sociali che facciamo, dove spesso le case sono devastate dalle muffe, e non ci sono, oltre ai mezzi pubblici (e quindi devo portare mia madre a fare le spesa in automobile nell’ipermercato), i soldi per “rigenerarle”?
La pandemia e la crisi climatica hanno accentuato la proliferazione di costruttori di “eco-tecno visioni”, ovviamente sempre più green, che, se realizzate, porterebbero qualcuno di noi, i più benestanti se non ricchi, a vivere in spazi svuotati dalla percezione dei problemi del mondo e dalle differenze che in esso vi si incontrano.
Nei nuovi quartieri di Milano, Parigi, Londra, New York, o nelle nuove città di Dubai, Neom Line, Akon, New Cairo gli abitanti abiterebbero in spazi e appartamenti con boschi nei balconi, mentre altri, a Busan, in bolle iper-condizionate, mangiando verdure e frutti idroponici e muovendosi in spazi di relazione tutti identici, iperconessi, in un tuttocosì smart da toglierti il piacere di decidere qualcosa della tua quotidianità, perché già prestabilito dall’intelligenza artificiale.
Un tempo l’attacco a terra degli edifici definiva il livello di complessità e interazione urbana e sociale dell’architettura (nelle case delle nonne le porte erano sempre aperte). Oggigli edifici della città neoliberista trasformano in bisogno l’autosegregazione e la separazione, ricorrendo alle rigide recinzioni, alle pareti a specchio riflettenti, che nascondono una guardiola, o la presenza di un poliziotto privato che ti intima di andartene se ti affacci allo specchio della parete, o se lungo la strada (pubblica) fai una foto che riprende anche un edificio dove abita l’influencer del momento.
Beato lo spazio della mescolanza, di cui parla Guy Debord, perché è uno spazio non rappresentabile.
Mentre rifletto sul futuro urbano che ci aspetta leggo il giornale. L’intervistatore del quotidiano La Repubblica inizia dicendo che nel mondo ci sono 3 miliardi e mezzo di “rifugiati” quindi dobbiamo ripensare le nostre abitazioni. Buon inizio penso, da giornalismo d’inchiesta.
L’archistar Massimiliano Fuksas che, essendo un nomade che vive tra Roma, la campagna senese e Parigi, se ne intende di “rifugiati”, risponde che dobbiamo prevedere spazi per l’isolamento, così come ora si prevedono i garage e le soffitte; e un intero piano comune per lo smart working, un po’ come negli USA, dove ci sono gli spazi per il fitness (chissà a quali Stati Uniti pensa? Non certo quelli dove vivono i White o i Black Trash).
Leggo, esterrefatto per tanta banalità e presunzione, e mi aspetto che il noto giornalista Francesco Merlo gli risponda: “…ma architetto lo sa che più di un miliardo di persone nel mondo vive in slum e favelas e sono destinati a raddoppiare? Lo sa, che nel densissimo quartiere di pescatori di Saint Louis du Sénégal, in una famiglia si fanno i turni per dormire: chi dorme al mattino, chi al pomeriggio, chi alla notte, perché non c’è spazio per tutti: dove mettiamo lo spazio per lo smart working?”
Questa domanda però non arriva, ma arrivano altre ‘perle’ di Boeri, di Cucinella che vegetalizza la facciata di San Petronio per contrastare le isole di calore, mentre Mancuso vuole riempire Piazza Maggiore con grandi vasi e dentro grandi alberi. E infine Renzo Piano, che afferma con tono sapiente che “l’opposto della città non è la campagna ma è il deserto”, evidentemente non conosce il deserto e le civiltà urbane che ha espresso, resilienti da secoli.
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Quella cosa chiamata città. IL BRASILE, LA FORESTA E LA CITTÀ DEI COLONIZZATORI
Ailton Krenak sostiene che il mito della sostenibilità è ormai una narrazione creata dalle aziende capitaliste (o di cui se ne sono appropriate) per conquistare i consumatori con l’idea che ciò che si consuma è prodotto in modo sostenibile, ma è una bugia.
L’acqua della fonte che sgorga nella foresta è straordinariamente buona, la grande azienda che la commercializza in tutto il mondo è in regola con i requisiti di sostenibilità previsti dalle legislazioni, ma siamo certi che è sostenibile prelevare quest’acqua, in questo luogo e commercializzarla ovunque?
L’idea della ancestralidade introdotto da Krenak (filosofo brasiliano di origine amazzonica) è un pensiero indigeno che contrasta con quello della sostenibilità, e si basa sulla constatazione che le nostre vite lasciano troppe tracce e quando una cultura ne lascia troppe è insostenibile, al contrario di un uccello che quando vola in cielo, un istante dopo, del suo passaggio non rimane traccia.
Hisilicon Balong
Krenak quando parla di “vita selvaggia” pone l’attenzione sulle condizioni di esistenza di culture altre, di poetiche dimenticate dai processi di globalizzazione e di sviluppo, che hanno sempre favorito il pensare che non potessero esistere delle forme di civilizzazione al di fuori dai modelli della razionalità occidentale.
Un corollario di questa affermazione ci porta a pensare che tutto ciò che è dentro le città rappresenta una forma di progresso civile, controllata da regole non sempre condivise, mentre il resto è barbarie, è vita primitiva. In ciò che rimane delle foreste del mondo vi sono comunità portatrici di altre forme di razionalità e di adattamento al contesto e all’ecosistema. Circa 1,6 miliardi di persone tra cui oltre 2.000 culture indigene vivono delle foreste, a cui è legata la loro economia e il loro benessere. Non si tratta dei disboscatori.
La “vita selvaggia” riguarda quelle che Philippe Descola definisce le tribu-espèce che in Amazzonia stabiliscono nel loro ambiente di vita un rapporto con le comunità “non umane” non diverso da quello stabilito con le comunità umane. Quelle comunità che noi definiamo selvagge e povere, e che Descola definisce “animiste”.
Per noi europei “razionalisti”, gli umani sono una specie che esprime una conscience reflexive, che ci porta a distinguerci dalle altre specie naturali, mentre per i popoli “animisti” è il contrario e quindi anche le specie animali, non umane, hanno una loro interiorità, ma si distinguono per la loro fisicità che li porta a stabilire rapporti particolari e distintivi con l’ambiente naturale nel quale vivono.
L’ipotesi è verosimile perché ogni specie, quindi anche quelle umane, intrattengono un rapporto particolare con la natura: di integrazione e adattamento per le tribù animiste, in quanto si considerano parte della foresta, di sfruttamento da parte nostra perché ci consideriamo portatori di una civiltà superiore e dominante.
I modelli urbani che il capitalismo neoliberista cerca di imporre oggi nel global south, si basano su stili di vita occidentali, dove emerge il divario tra poveri e ricchi. Ma spesso l’idea che noi abbiamo della povertà è conseguenza della nostra parziale (ma potente) visione del mondo, come ci rammenta la giornalista brasiliana Eliane Brum.
Noi “bianchi” abbiamo l’ossessione di ritenere che tutte le storie inizino con il nostro arrivo. La giornalista brasiliana racconta, in un libro dedicato all’Amazzonia, del suo dialogo con i nativi (popoli-foresta) di una zona della grande foresta, che furono espropriati della loro terra, dove vivevano da secoli, per costruirvi delle centrali idroelettriche.
La città foresta
Queste persone che vivevano in interazione diretta con la loro madre terra, di cui erano una delle componenti naturali, non si erano mai sentiti poveri, ma hanno scoperto di esserlo, quando di forza sono stati prelevati dalle loro terre e messi negli alloggi precari costruiti ai margini nella nuova “città” fondata per sfruttare economicamente la foresta.
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Non ho vissuto gli anni ’50, essendo nato alla fine di quel decennio, ho vissuto quello dopo, ma ne ricordo solo la seconda parte. Era, per molte famiglie, un tempo di modernità ingenua, anche esasperata. La televisione, il frigorifero, la lavatrice, l’automobile cambiavano pratiche familiari che erano evolute lentamente, a piccoli passi.
Anche le case cambiavano. Nei loro interni molti vecchi mobili di legno, probabilmente fine Ottocento, venivano sostituiti dalla “formica”, i palché all’italiana e anche i pavimenti in cotto antico spesso lasciavano spazio al linoleum, alle piastrelle, alla moquette.
L’alluminio anodizzato stravolge ancora oggi l’immagine di molte strade. Carosello, quiz, serie romanzate e teatro televisivo riempivano le serate, mentre i film si andavano a vedere al cinema. Le coppie prodotto/attore scandivano con regolarità le pubblicità: Bramieri e il Moplen, Calindri e il Cinar, contro il logorio della vita moderna, il jazzista Franco Cerri era tutte le sere in ammollo. Molti a quel tempo si sono messi alla ricerca di Carmencita nei pueblo messicani, mentre il Montana diventa un luogo familiare: tra mandrie e cow boy.
E se il nostro mondo provinciale viene scosso da Blow Up o Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni, Valerio Zurlini fa cantare Mina in luoghi improbabili con scenografie brutaliste o da minimal art, grazie alla generosità di Barilla. Molte piccole città per dimostrare di essere moderne costruiscono i loro grattacieli: Ferrara, Rimini, Cesenatico e altre, pur conservando i loro centri storici. Ma la vita per molti continua ad essere agra, ci rammenta Bianciardi.
Sicuramente per mio nonno che tutte le mattine alle 5 si alzava per andare da Genova Pegli a Genova Cornegliano, all’Italsider, con la sua schiscetta riempita di pasta fredda che mia nonna gli cucinava tutte le sere prima di andare a letto. La storia dei miei nonni materni racconta l’Italia novecentesca dei subalterni e dei migranti. Quella del nonno era immigrata dal Padovano nel Basso ferrarese, per prosciugare le valli tra Mezzogoro e Tresigallo, e poi, finita la stagione d’oro delle bonifiche meccaniche, via verso il triangolo industriale alla ricerca di fortuna.
Il palazzo dove abitavano è ancora l’ultimo di una strada ripida dalla quale scendendo verso il mare si entra in città mentre, continuando a salire, ci si inoltra nei boschi dietro la città. È un palazzo di abitazioni costruito negli anni del boom economico nelle colline a ovest di Genova, nella località di Pegli, che in quegli anni si sono trasformate da luogo naturale e rurale a periferia. Lo potremmo definire una speculazione, forse necessaria per dare casa ai tanti che arrivavano a Genova in cerca di lavoro da molte parti d’Italia.
Oltrepassando il viadotto dell’autostrada, il sentiero diviene sempre più naturale, stretto e ripido e ad un certo punto si arriva ad una fonte, dove gli abitanti del quartiere si riforniscono (si rifornivano?) di acqua.
Ho trascorso le estati della mia infanzia nell’appartamento dei miei nonni che lì erano emigrati dal Mezzogoro in cerca di lavoro. Ho trascorso molte giornate sul poggiolo del primo piano del palazzo che, essendo l’ultimo della strada, guardava il resto del quartiere dall’alto al basso.
Lì, ho scoperto la verticalità dello spazio, abituato come ero alla orizzontalità delle campagne della bassa ferrarese, ho scoperto, attraverso l’osservazione, la fatica del quotidiano: le signore che ogni mattina risalivano la strada, con le borse della spesa, mentre i mariti montavano la sera tornando dalle fabbriche del ponente o dal porto.
Tutta l’Italia più misera era rappresentata in quella strada. Lì probabilmente è nato il mio interesse per gli intrecci spaziali urbani che mi ha portato a diventare un architetto interessato alle forme e alle culture delle città.
Il Viale della Pineta (questo è il nome della strada) è una strada residenziale che, scendendo confluisce in via Vianson, che pur essendo residenziale ha (aveva?) un fronte articolato di negozi, con il forno della focaccia, la latteria, la drogheria, il negozio dei tessuti e dei bottoni, la bottega alimentare, il barbiere, il calzolaio e la parrucchiera.
Scendendo ancora le alternative diventano varie, girando in una direzione si arriva a Villa Doria, con il suo museo navale e il suo parco pubblico, proseguendo si arriva a Villa Pallavicini attraversando quartieri di eleganti palazzi borghesi.
Seguendo un’altra discesa si arriva sul lungomare all’altezza dell’Hotel Mediterranee. Un frammento di lungomare nato con grandi ambizioni, da Nizza o Sanremo, ma in seguito ridimensionate dalle zone industriali e portuali che a est, da Sestri Ponente arrivano alla Lanterna, e a ovest dall’espansione, allora in nuce, del porto di Voltri, mentre la pista dell’Aeroporto, costruita sul mare, ne delimita ancora l’orizzonte.
Era bello vedere dal tetto del palazzo dove abitavano gli zii gli aerei che decollavano o atterravano sul mare.
Genova sembrava non esistere, la vedevo attraverso i racconti in famiglia, sempre concentrati sulla topografia della perdizione, luoghi da cui un ragazzino di campagna doveva stare lontano, anche se un giovane zio, a volte di nascosto, mi caricava in auto e mi portava a vedere i luoghi del peccato che si chiamavano Sottoripa, via Pré, via del Campo, mentre la Raffaello e la Michelangelo era alternativamente alla fonda del porto vecchio, in attesa di partire per l’altro mondo.
Poi, finita l’estate, ripreso il treno che cambiava a Voghera e ritornato al mio paese, tutto ritornava spazialmente più semplice.
In copertina: Genova, Il lungomare di Pegli
Foto di Romeo Farinella
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La Ferrara che vorrei è una città che inizia il suo racconto affermando che la sua intenzione non è di competere ma di cooperare con le città che gli stanno vicino, con il suo territorio e con le città del mondo, dalle quali ha molto da imparare e qualche cosa da dare.
È una città, quella che vorrei, che mi consente di muovermi utilizzando il trasporto pubblico, sia al suo interno, sia per raggiungere le città vicine, senza dover prendere l’automobile. Potremmo quindi fermarci di costruire strade ad alta velocità e autostrade, ponti, tunnel, parcheggi. Da questo punto di vista siamo già molto infrastrutturati e i denari che risparmiamo, utilizzarli per costruire tram e linee di trasporto metropolitano tra le città.
Da anni si parla di corridoi infrastrutturali europei, questi hanno lo scopo di mettere in relazioni le grandi polarità urbane e subregionali del territorio europeo e di norma intrecciano strade, ferrovie, trasporto metropolitano, ma quando si arriva da noi il dibattito si concentra solo sulla Cispadana e sulla terza corsia dell’A13 (e il passante bolognese), quindi, su strade.
Ma l’UE punta a trasferire su ferro il 30% del trasporto merci su distanze superiori a 300 km e il 50% entro il 2050, questo non dovrebbe spostare l’attenzione sul potenziamento della rete del ferro? Non corriamo il rischio di cantierare nei prossimi anni interventi nati già vecchi? Il mondo più avanzato sta andando in altra direzione, o meglio colloca l’adeguamento della rete stradale dentro una strategia incentrata su ferrovia e metropolitane, ma da noi di questo non se ne parla nemmeno.
Si potrebbe iniziare a parlarne, caso mai rileggendo criticamente il Progetto 80, o le idee di Città-Regione, di cui tanto si parlava negli anni Sessanta e Settanta senza arrivare a nulla, mentre gli olandesi realizzavano la regione metropolitana conosciuta come Randstadt Holland, puntando su treni infraurbani, metropolitane, linee di tram e circuiti estesi di percorsi ciclabili.
È necessario un piccolo sforzo: aprire dei tavoli di confronto e concertazione con le città vicine e con la regione (e con lo stato e l’UE) perché abbiamo bisogno di pianificazione e di strategie condivise (e non solo di gestione delle emergenze).
Ferrara, distretto della conoscenza
Vorrei una città che non sia costretta, per dinamizzare la sua economia, a ricorrere solo alle zone franche urbane (ZFU). Se si realizzeranno le condizioni per attuarle lo si farà, ma bisogna essere consapevoli che il mondo è pieno di zone dove un’impresa può insediarsi spendendo meno, trovando una tassazione o un costo della manodopera più bassa quindi, questo non può essere il motivo trainante di una strategia.
È la qualità del contesto politico, culturale, istituzionale di una città e di una regione urbana che fa la differenza. Gli investimenti di qualità, ad alto valore aggiunto hanno bisogno di ambienti di vita ad alta qualità sociale, di alta scolarità, di luoghi dove sviluppare innovazione, perché vi sono istituzioni attive nella ricerca. Perché le culture si intrecciano arricchendosi l’un l’altra e pure le città, anche economicamente.
Vorrei che Ferrara si distinguesse per essere una città che non esalta la ricerca dei “talenti” o delle competenze. Queste arriveranno certamente se il nostro sistema educativo e formativo si orienterà verso la formazione di cittadini con una diffusa capacità critica nell’acquisizione di competenze.
Le “teste” vanno ben formate (criticamente) e non ben riempite e prima della “competenza” viene la “conoscenza”. L’uso pedissequo di parole come “competizione”, “talenti”, è ciò di cui non abbiamo bisogno, se non vogliamo aumentare le ansie di prestazione per giovani che già vivono quelle ecologiche.
Vorrei che Ferrara diventasse una città della innovazione consapevole e solidale, perché l’innovazione da sola, così come la scienza, non portano con sé progresso, se non accompagnati da regole precise e principi etici. La scienza ha prodotto anche i campi di sterminio, la bomba atomica e la crisi ecologica del pianeta. Vorrei quindi che Ferrara diventasse un luogo di incontro tra scienza, cultura ed etica.
Vorrei che Ferrara insieme a Bologna, Modena e le altre città della regione desse vita ad un “distretto della conoscenza” visto che in 100 chilometri in linea d’aria abbiamo tre storiche università, creando sinergie tra laboratori, enti di ricerca e imprese, dando vita a spin-off, sostenendone lo sviluppo. Quindi non solo una valley dove si mangia e si va veloci in automobile e motocicletta.
Ferrara: per una rete storica di città. Recupero delle aree dismesse e un treno che unisce
Vorrei che Mantova-Ferrara-Ravenna fossero unite da un treno unico, diretto, in grado di supportare progetti culturali che accomunano tre città patrimonio Unesco e analogamente con Bologna e Modena e tra Bologna-Ferrara e il Parco del Delta del Po.
Vorrei anche che l’aeroporto di Bologna fosse l’aeroporto della regione e non solo del suo capoluogo. Vorrei insomma godere del privilegio di vivere in una rete storica di città, muovendomi da una all’altra, di giorno e di notte, senza essere costretto a prendere l’automobile.
Vorrei una città che blocca l’espansione, quindi la cementificazione e l’asfaltizzazione, perché è in grado di riorganizzarsi con quello che già ha, recuperando le sue aree dismesse, il suo patrimonio abitativo pubblico, le sue aree industriali, artigianali o commerciali abbandonate o sottoutilizzate.
Potremmo recuperare gli edifici che ci servono, altri demolirli e poi, perché un’area artigianale, o degli uffici non posso essere dentro un’area verde, anziché essere circondata da grandi superfici di asfalto. Abbiamo tanti edifici anche storici vuoti o sottoutilizzati, perché non recuperarli per usi civici e culturali.
In questi ultimi anni ci siamo riuniti spesso per degli incontri pubblici in una chiesa offerta gratuitamente ad una associazione di cittadini. La nostra città è piena di luoghi di questo tipo perché non usarli? Dobbiamo pensare ai nostri edifici in maniera più multifunzionale, avendo molti edifici e spazi sottoutilizzati.
Un esempio, vorrei che l’ex chiesa di Sant’Apollonia, di proprietà del Museo di Spina, che gli sta di fianco, fosse restaurata per diventare un luogo pubblico culturale. Siamo in fondo una città di uno dei paesi più ricchi del mondo.
Vorrei riscaldarmi e illuminare le mie serate grazie all’elettricità fornitami dalla comunità energetica che il mio comune ha istituito in tutto il territorio.
Ferrara, città solidale e ospitale
Vorrei incontrare in un ufficio pubblico, o in un laboratorio di ricerca, o in una struttura sanitaria a Ferrara giovani laureati e tecnici venuti da paesi stranieri per lavorare a Ferrara, non perché sono emigrati, ma perché hanno trovato qui da noi delle buone condizioni di lavoro e una bella città che li ospita. Come mi capita quando vado nelle università europee, negli uffici di comuni come Amsterdam o Lione, o in laboratori e istituzioni europee, dove trovo tante italiane e italiani che però, ahimè, sono scappati dal nostro paese alla ricerca di un lavoro appagante.
Vorrei che il tema del fabbisogno abitativo venisse affrontato con politiche pubbliche e non solo in termini di detassazione per i privati, anche perché esistono già misure come il canone calmierato e la cedolare secca, che però non vengono sfruttate a dovere, perché gli affitti brevi fanno più comodo. L’emergenza casa non si affronta senza un intervento pubblico, Bologna lo sta facendo, Vienna e Amsterdam lo fanno dagli anni ’20 del secolo scorso.
Sottovalutando il problema, il rischio è che anche a Ferrara si creino delle tensioni tra chi cerca alloggi in locazione, chi li cercherebbe se potesse pagare l’affitto e le esigenze abitative degli studenti. Nel paese la mancanza di una strategia (e quindi di risorse) per la casa e per il diritto allo studio è stata confermata dal disimpegno su questi temi del PNRR, con alcune limitate esperienze come Napoli, dove si sono avviati dei progetti di rigenerazione insieme ad associazioni, comitati e cittadini promossi dal comune, coinvolgendo anche l’Università.
Vorrei che Ferrara fosse una città solidale e ospitale per tante persone che fuggono da situazioni di conflitto e di povertà e che portano tante storie da condividere con noi, rafforzandone il carattere di città del mondo, ma vorrei anche che non si dimenticasse di chi se ne andò.
E la vorrei solidale e ospitale non per spirito caritatevole, ma per volontà politica, perché solo così si lotta contro le diseguaglianze.
Vorrei che la cultura del cibo della nostra città si mescolasse, facendo emergere le tante culture gastronomiche che convivono con la nostra tradizione. Vorrei cenare a Ferrara in un vero ristorante marocchino o tunisino o libanese o africano, mentre nelle nostre biblioteche, librerie, circoli culturali si promuove la conoscenza di altre culture artistiche, letterarie senza nascondere conflitti e problemi, ma affrontandoli laicamente.
Ferrara, un ecosistema urbano per una città-parco
Vorrei vedere anche attraverso una grata di metallo i tanti cortili e giardini interni, di cui sento parlare da sempre, ma che non ho mai visto, perché i portoni sono chiusi, come il cortile di Palazzo Varano-Dotti in via Montebello. Spazi interni che vengono comunicati al mondo come luoghi straordinari, ma che nessun turista vede, perché non esistono dei circuiti dei cortili e dei giardini gestiti attraverso una convenzione tra comune e privati.
Vorrei vedere, passando da via Savonarola, il cortile di Casa Romei con il portone aperto e non semichiuso cosi come vorrei che il giardino del Museo archeologico fosse aperto al pubblico gratuitamente, è in fondo un bene di tutti. Vorrei che i cortili di Sant’Antonio in Polesine diventassero dei giardini pubblici, così come tante aree verdi della città, pubbliche o di grandi proprietà, che attraverso apposite convenzioni possano essere fruibili o visitabili.
Vorrei insomma che Ferrara diventasse una città parco e una città paesaggio, senza ricorrere a immagini bucoliche o nostalgiche. Lo vorrei come progetto politico incentrato sull’idea di Ferrara come ecosistema urbano. Dunque, una strategia realistica, di cui il verde costituisce una componente fondamentale, non l’unica, fondata sulla condivisione di obiettivi, quali il contrasto ai cambiamenti climatici, la valorizzazione di un patrimonio sia culturale che naturale, l’importanza data alla biodiversità, educando alla conoscenza delle altre specie viventi, il riconoscimento di un valore etico, perché la città-parco deve esserlo per tutti.
Vorrei insomma che Ferrara si trasformasse in un sistema antropico e vegetale complesso, dove gli spazi di cultura e di natura si intrecciano, mentre la vegetazione urbana si articola in varie forme: trame, parchi, giardini, viali alberati, piazze verdi cercando di “naturalizzare” una superficie equivalente a quella oggi costruita.
Entrando nel parco urbano a nord e in futuro anche a sud vorrei essere colpito dalla sua complessità e varietà. Innanzitutto, passando a fianco delle masse forestali, ricche di sottobosco, che lo caratterizzano, giustamente non accessibili per me. Seguendo i sentieri che guidano il mio percorso vorrei poi attraversare prati e radure che creano viste e prospettive caratterizzate da tappeti erbosi e prati fioriti con alberi monumentali isolati che mi fanno da guida.
L’importanza dell’acqua mi viene segnalata dalle diverse forme del suo utilizzo, perché mentre consente la prosperità di varie specie animali, svolge un lavoro di fitodepurazione, grazie all’uso delle piante ed inoltre, mi rendo conto che è anche un bacino di acqua dolce, che può ricaricare la falda e accogliere acqua piovana in eccesso.
Tutto questo lo scopro percorrendo la rete dei percorsi ciclabili e pedonali (in materiale stabilizzato e drenante non asfalto o bitume), che mi ricorda che attraverso comunque uno spazio artificiale, esito di un progetto e che necessita di cura, come mi capita quando mi trovo nel Vondelpark di Amsterdam, o nell’Emberton country park, poco fuori Milton Keynes.
Ma il mio desiderio va oltre e vorrei che il territorio attorno a Ferrara diventasse un parco agricolo periurbano in grado di valorizzare, anche attraverso marchi di qualità, una agricoltura biologica, e un paesaggio urbano/rurale ricco nelle sue componenti vegetali. Un percorso possibile, dove la cultura del paesaggio agrario si associa ad un ritrovata naturalità da perseguire, ad esempio, attraverso la reintroduzione delle siepi e la predisposizione di aree forestali di infiltrazione delle acque piovane, alternate ai campi coltivati.
Vorrei ripensare l’ambito delle mura, in particolare la parte sud. Questo perimetro necessita di cura e deve diventare una vera cintura verde e patrimoniale, su cui far convergere la trama della città parco. Va bloccata ogni trasformazione di questo spazio in parcheggio o attività commerciale, cercando, dove possibile, di depavimentare per aumentare le aree verdi.
Vorrei che venissero potenziati, valorizzati e naturalizzati molti spazi aperti presenti nel centro storico, come nel settore dell’ex caserma Pozzuolo del Friuli e di via Savonarola, dove vi è la possibilità di creare una rete di giardini in grado di creare connessioni pedonali con Corso Giovecca, associando l’idea di Ferrara città-parco a quella di Ferrara città-campus, valorizzando la dotazione verde delle sedi universitarie, aprendole al pubblico e organizzandole per lo studio e il lavoro open-air, associate ai giardini pubblici, ai sagrati da riqualificare, agli spazi verdi interni delle mura.
Vorrei che si valorizzasse il quadrivio del Palazzo dei Diamanti, una delle aree dismesse più critiche e dequalificate della città. Il Quadrivio potrebbe essere messo in relazione alla Piazza Ariostea che non può più essere solo un parcheggio, valorizzando un asse dove, oltre a musei, sedi universitarie, abbiamo anche Parco Massari, lo Spazio Antonioni e l’Orto botanico di Unife, costituendo quindi un grande polmone verde nel cuore storico della città, sul modello di tanti importi parchi urbani che associano giardini e orti botanici, dove la cura della biodiversità associa cultura, didattica e tempo libero.
Vorrei che Ferrara avesse un “museo della città” in grado di associare dei luoghi espositivi (da creare, esponendo anche il suo straordinario patrimonio di mappe storiche) con la città storica e sociale delle sue strade e piazze. La città dovrebbe inoltre rinsaldare il suo rapporto con il territorio entrando nel Parco del Delta, promuovendo la scoperta della sua cultura dell’acqua, dei fiumi, delle bonifiche, della costa per farla diventare un grande progetto culturale, di ricerca e turistico.
La Ferrara che non vorrei
Non vorrei più vedere:
i rifiuti dilaganti in giro per la città e davanti a casa;
la mobilità e la sosta selvaggia in tutto il centro storico;
lo stato miserevole dei marciapiedi e delle piste ciclabili, dove una persona che ha difficolta a camminare non riesce a muoversi;
l’inadeguatezza del trasporto pubblico che ci rende dipendenti dalle automobili;
la violenza che si riscontra nelle strade della città (alla faccia della sicurezza), anche nelle relazioni interpersonali che hanno bandito la gentilezza e la cortesia;
gli allagamenti delle strade, quando piove intensamente;
la pessima qualità dell’aria nonostante tutti gli alberi piantati;
il calo del turismo e in particolare di qualità (per intenderci quello straniero, che spende);
l’economia che stenta e il nostro essere sempre fanalino di coda nelle classifiche sulla qualità;
lo spacciare l’apertura di supermercati come rigenerazione urbana mentre nel PUG si dichiara la città di 15 minuti;
il degrado dell’area di Darsena city lungo il Burana;
il degrado delle piazze storiche coperte da teloni neri, tubi innocenti e bagni chimici;
il perseguire una idea di città-prigione e segregazionista, invece di puntare verso una politica inclusiva sui migranti che avrebbe anche, in prospettiva, importanti ricadute economiche per la città e il paese;
infine, ma non da ultimo il razzismo latente che si respira in città.
Vorrei che questo non fosse un sogno, ma un percorso politico da costruire insieme.
Romeo Farinella, Professore di Progettazione Urbanistica del Dipartimento di Architettura di Unife. Candidato nella lista La Comune di Ferrara per Anna Zonari Sindaca
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Iniziai ad occuparmi di Ferrara tardi ed in maniera discontinua. Mi resi conto che era una città storica particolare verso la fine del mio percorso universitario, quando conobbi un professore greco dell’Università della California ad un workshop all’IUAV di Venezia. Panos Koulermos nel corso di una chiacchierata, durante una pausa dei nostri lavori, mi chiese da quale parte d’Italia venivo e quando gli dissi che ero ferrarese, dopo una breve riflessione, mi disse: «Ferrara, l’unica città dove dal centro si vede la campagna». Non ci avevo mai pensato. Si riferiva al rettifilo che dal castello, posto nel centro della città, arriva alle mura, «catturando l’infinito» a nord, verso il fiume Po, come avrebbe detto Leonardo Benevolo.
Conoscevo il libro di Bruno Zevi dedicato alla città, mi aveva anche stupito che un intero saggio arancione della prestigiosa casa editrice Einaudi fosse dedicato alla città che identificava il mio territorio di nascita, ma essendo originario del «contado» non mi ero mai reso conto dell’importanza del suo ruolo nei processi di costruzione delle città storiche italiane. Fu l’affermazione di Koulermos che accese la mia curiosità, associata anche alla scelta compiuta verso la fine del mio percorso universitario di dedicarmi allo studio (e al progetto) delle città, più che dell’oggetto architettonico. Un po’ alla volta mi si aprì un mondo da approfondire, nel quale si intrecciavano arte e architettura, pensiero urbano e dimensione sociale, letteratura e cinema.
Ferrara, città patrimonio Unesco (foto Romeo Farinella)
Non impiegai molto tempo a rendermi conto che la città storica era ricca, articolata ma anche incompiuta. La città in passato aveva avuto l’ambizione di diventare grande, lo testimonia l’estensione delle mura che ancora oggi nascondono numerosi vuoti. Si tratta di pause nel costruito che lanciano molti messaggi. Dei vuoti parlanti di lefebreviana memoria, che mi hanno portato a pensare che in fondo la sua incompiutezza è anche la sua forza, ma questo carattere va colto, misurato e ricomposto. Michel Butor aveva colto il fascino di questo «non finito» parlando di ruines d’une cité future qui n’eut jamais lieu […] morceaux réel d’une ville rêvée. Queste sono le parole che usa per definire i frammenti incompiuti di quel nuovo cuore rinascimentale che a Charles Dickens, un secolo prima, era sembrato, mentre ne percorreva i grandi assi incompiuti, unreal and spectral. Anche Chateaubriand, in giro per Ferrara alla ricerca del fantasma del Tasso, la descrive quasi disabitata.
Un tempo, più di oggi, a Ferrara, come a Mantova o a Reggio Emilia, camminando in città respiravi l’odore della campagna. È una sensazione bella e suggestiva e il racconto di queste atmosfere suscita spesso ammirazione. Il racconto di via Salinguerra di Giorgio Bassani ci parla di un dentro mura che si intreccia con il fuori grazie ai suoi rumori e odori rurali. Ci ricorda che in fondo in Italia il limite tra queste due dimensioni continua ad essere labile. Peccato che in alcuni mesi dell’anno questo odore fosse di aldamar (letamaio) mentre oggi è di gas di scarico.
Quando venne costruito il Quartiere giardino le teorie urbanistiche europee trovarono uno spazio in città. Gli angoli a 45° degli edifici negli incroci stradali ci rimandano a Ildefonso Cerdà e alla sua Ensanche di Barcellona, i cottages ci trasportano nella città borghese suburbana anglosassone e nordeuropea mentre il modello che ha guidato la costruzione del Corso Isonzo è stato certamente il boulevard parigino.
Vi sono però alcune differenze, se a Parigi questi sono caratterizzati da filari di alberi perfettamente allineati e dritti come un fuso mentre sui marciapiedi troviamo distese di bistrots, boutiques e una folla che li percorre, dove Yves Montand amavazigzager. A Ferrara nel “boulevard Isonzo” gli alberi sono tutti storti e attorniati da aiuole di terra secca, i marciapiedi quasi non esistono essendo dei parcheggi, tanto meno le botteghe e i bistrot. Zigzagano solamente le auto e le mote che di notte fanno le gare di velocità.
Del resto, sappiamo che le città sono fatte di spazi e di regole che ne stabiliscono la forma e la fruizione, nel rispetto del diritto di tutti di usufruirne. Ma le regole si possono trasgredire e le città italiane costituiscono un compendio di trasgressione spaziale. Chi le abita non si pone spesso il problema delle regole, chi le amministra è interessato solamente a stabilirle, nel rispetto delle leggi e delle ordinanze, ma poi sorvola sull’effettivo rispetto. E mentre il mondo si sta interrogando sempre più sull’idea di città car-free, mettendo in rilievo l’impatto negativo della motorizzazione privata sull’ambiente, il mio corso/boulevard si sta trasformando in una autostrada urbana che attraversa il centro storico e in una pista di accelerazione per motoristi notturni. Il viale è perennemente sporco, e i rifiuti si accumulano nei luoghi di raccolta.
Le cause sono due: un sistema di raccolta inefficiente e lo scarso senso civico di molti “cittadini”. Le notti sono un incubo in particolare d’estate quando le finestre sono aperte perché nel cuore della notte mezzi meccanici rumorosissimi passano per ore a pulire una strada che al mattino appare sempre sporca. Il frastuono generato dallo sversamento del cassone del vetro è impressionante ma se questa operazione viene effettuata alle sei del mattino genera dei veri e propri traumi da risveglio improvviso come sanno bene Theo e Cleo, i miei gatti turbati dai rumori molesti. Quando esco in strada spesso saluto Peter, un giovane immigrato africano che pulisce con la ramazza la strada, come si faceva un tempo. «Sono un immigrato, e non voglio dare fastidio e pesare su di voi», mi dice, «e per questo pulisco, di mia iniziativa, le strade del quartiere, se vi va potete lasciarmi qualche spicciolo nella scatola sul marciapiede».
Siamo nel centro storico e perimetrare urbanisticamente un “centro storico” non è facile, in particolare se la città è racchiusa da una cinta muraria storica, ma con, all’interno, delle periferie novecentesche alternate ad aree inedificate.
Il caso di Ferrara da questo punto di vista è emblematico perché dentro le sue mura ritroviamo una serie di trasformazioni e adeguamenti legati alle esigenze poste dalla moderna crescita urbana, che in alcuni casi hanno compromesso spazi e luoghi di singolare fascino (come i giardini e gli orti retrostanti i palazzi e le cortine edilizie di corso Ercole d’Este), o come gli “sventramenti” che hanno riguardato l’area gravitante attorno alla strada medioevale di San Romano), mentre in altri settori urbani la realizzazione di progetti di grande modernità ha consentito l’innesto nel centro storico di interventi di architettura contemporanea di grande interesse. Un esempio è La scuola Alda Costa, progettata dall’Ing. Carlo Savonuzzi, con i suoi evidenti rimandi stilistici alle architetture dell’olandese Willem Marinus Dudok.
La Ferrara del futuro (foto Romeo Farinella)
Non si tratta di un oggetto ma di un pezzo di città, uno spazio urbano d’angolo che attraverso allineamenti e arretramenti, orizzontalità e verticalità determina la qualità della strada. Su via Previati la scuola mostra il suo portale monumentale mentre entrando dal Corso Giovecca colpisce la verticalità della sua torre. Un settore urbano che con il cinema Boldini, il museo e il conservatorio dovrebbe essere valorizzato come piazza/giardino novecentesca, mentre ahimè è un parcheggio.
Le mura ferraresi delimitano quindi un ambito storico fortemente connotato, ma anche attraversato da contraddizioni che, del resto, costituiscono uno dei punti fondamentali di ogni esperienza urbana complessa e storicamente articolata. Bassani in suo intervento ad un convegno di Italia Nostra del 1972 esprime una posizione chiara a questo riguardo:
«Quale è, dopo tutto, il centro storico di Ferrara? […] Fin dove arriva? Non esistono, ancora, a Ferrara (pur se ridotte, a tratti, in uno stato abbastanza precario) le mura di Biagio Rossetti? Io riterrei che proprio a Ferrara, dunque, qualsiasi incertezza circa i limiti del centro storico non abbia senso. Il centro storico di Ferrara è da identificare in tutto ciò che sta al di qua delle mura, dentro le mura rossettiane. Tutto ciò che sta dentro di esse, è centro storico».
Bassani comprende anche quei «quartieri orrendi» che ormai «stanno dentro, fanno parte. Inutile tentare di estrapolarli, di considerarli tra parentesi. Per quanto deplorevoli, diventeranno tra brevi storici anch’essi. Anzi lo sono già».
Del resto, se potremmo convenire che tutto lo “storico” è patrimonio siamo certi che tutto lo storico è bello?
In Copertina: Ferrara, le mura tra città e campagna. Foto di Romeo Farinella.
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Immaginiamo la città come un corpo che nella fase iniziale della sua vita si comporta come un organismo sano, plasmato dai fisiologici processi vitali associati all’accrescimento. Ad un certo punto, tale processo di crescita viene depistato da qualcosa che altera le relazioni tra le componenti che hanno dato forma e struttura all’organismo.
Collochiamo, per comodità, l’avvio di questo processo alterante al tempo della rivoluzione industriale e prendiamo atto che la causa sia dovuta all’accrescimento di parti spesso discontinue che, pur dichiarando l’appartenenza al corpo primigenio, non evidenziano chiare relazioni con esso. Ad uno sguardo analitico ci rendiamo conto che tale corpo non si può più definire “città” nel senso originario del termine, poiché assume sempre più la conformazione di una agglomerazione, o di una urbanizzazione, in ogni caso di un fenomeno non sinonimico rispetto all’organismo che l’ha generato (una città, un insediamento compatto).
Questo passaggio da città a urbanizzazione attraverserà diverse fasi e momenti della storia degli insediamenti urbani dando vita a diverse configurazioni o fenomenologie, sia morfologiche che sociali(metropolizzazione, periferizzazione, diffusione urbana, informalità, marginalità, ecc.).
In ogni caso, pensando alla mutazione climatica che stiamo vivendo e al fatto che questa si avvia con la rivoluzione industriale e accelera nel XX° secolo con l’emissione massiccia di CO2 in atmosfera,la città da organismo compatto e sano si trasforma in organismo informe che inizia ad evidenziare delle metastasi composte di cellule malate eppure vive, che ne attivano altre, in altre parti dell’organismo, mentre in alcuni casi si atrofizzano e muoiono, restando ferme al loro posto, abbandonate e dismesse.
I circuiti che creano le connessioni tra queste parti iniziano a perdere di fluidità a causa di emboli probabilmente generati, nel corso degli anni, da un difetto di manutenzione dell’organismo e da un sovraccarico di flussi, in particolare in alcuni nodi.
Per usare un’espressione comune stiamo parlando di un fenomeno (urbano) che continua a crescere, in dimensioni e percentuali variabili a seconda delle città e dei paesi e che potremmo, con termine tecnico, definire “consumo di suolo”. Un processo fondato su alcuni ossimori non dichiarati ma evidenti, quali “progresso-miseria” o “ordine-disordine”. Del resto, secondo Pier Paolo Pasolini, non vi è nulla di più intrecciato che “ordine” e “disordine”.
Questa breve e incompleta riflessione per ribadire che il progresso che abbiamo ereditato dalla rivoluzione industriale si fonda ancora oggi su due assunti:agire come se le risorse naturali del pianeta fossero illimitate negare il tema delle diseguaglianze e della redistribuzione della ricchezza come aspetto strutturale del modello neoliberista globale.
Il minimo comune denominatore dell’evoluzione delle nostre città, dall’età Vittoriana ad oggi, è pertanto individuabile nel rapporto “miseria/opulenza” che riscontriamo nelle metropoli europee e occidentali nel corso dell’Ottocento e a inizio Novecento, e che oggi segnala una stabile condizione dei processi di metropolizzazione in corso nel mondo. Il tema della città sana e/o malata costituisce una delle manifestazioni più evidenti di tale rapporto e conflitto. Perché dentro una città malata e disordinata si può vivere in bolle sane e ordinate, basta non guardare ciò che ci sta attorno.
Cover: La prima rivoluzione industriale
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La prima parola che ti accoglie ad Amman e in Giordania, e ti accompagna per tutto il soggiorno, è Welcome. Ovunque vai, chiunque incontri il rapporto che stabilisci inizia con questa parola di benvenuto. Le grandi città mediorientali sono sempre difficili da interpretare. Sono ricche di storia, ma di questa rimangono spesso solo dei frammenti. Amman è una città millenaria, ma le stratificazioni delle tante storie che l’hanno formata le leggi con difficoltà.
Volo di notte
Non è Gerusalemme e nemmeno Damasco, il suo suk non è comparabile con quello perduto di Aleppo; questo però non significa che sia meno interessante. Per capirne il divenire devi entrare negli interstizi dove trovi i ritagli della sua storia. Da questo punto di vista, la città è più una stratificazione di sensazioni e impressioni che di forme urbane e edifici. Proviamo a metterne in ordine qualcuna. Partiamo dal viaggio. Si è svolto nel buio che dalle diciassette ricopre tutto il Mediterraneo orientale e il Medio Oriente nel periodo invernale.
Il cielo è buio ma lancia tanti messaggi. Il nero dominante assume tante forme che si notano quando le luci fuoriescono dall’oscurità. Queste assumono tre conformazioni distinte (perlomeno in questo viaggio) che però a volte si intrecciano.
Innanzitutto, il punto luminoso che si fa largo nel buio indicando la presenza di un insediamento isolato. Quando si associa ad altri punti luminosi, prossimi ma non vicini, assume la forma di una costellazione vista all’incontrario, dall’alto in basso.
Poi abbiamo il filamento, ovvero l’allineamento di tanti punti lungo una linea (una strada) che diviene una direttrice luminosa che serpenta nel buio. Può capitare che questa direttrice si incroci con altre dando vita a trame irregolari che ci fanno immaginare un reticolo urbano. In questo caso il filamento diviene la componente di una nebulosa che muta a seconda della geografia dei siti che la supportano e che io posso solo immaginare.
Nella nebulosa la varietà delle luci è molteplice, se le direttrici che la compongono spiccano per l’intensità della luce emessa, sui bordi tende ad abbuiarsi perché si entra nel territorio dell’ignoto, perlomeno per chi guarda da diecimila metri di altezza.
Quando si sorvola una città la nebulosa diventa grande, le superfici luminose si possono alternare a zone buie. Si può presupporre che se la luce diventa intensa e assume una conformazione lineare sinuosa o ad arco, al buio corrisponda il mare, mentre se diverse nebulose si alternano l’un l’altra, i pezzi di nero ricompresi la cittsono probabilmente dei crinali collinari o montani, ma può capitare che le luci determinino delle geometrie visibili come nel caso delle città pianificate attraverso una griglia. Mentre la mia mente associa quello che sto vedendo a queste riflessioni sulle forme della luce nel buio, l’aereo tocca terra, siamo ad Amman, siamo entrati nel cuore della nebulosa.
La strada, metafora della quotidianità
Per descrivere la quotidianità di una metropoli come Parigi, un etnologo è entrato nel metrò; per descrivere la quotidianità di chi si muove nella area metropolitana di Amman è necessario ricorrere ai trasporti collettivi, anche per recarsi nelle città vicine, respingendo le sirene del taxi per turisti sempre squillanti. È necessario inoltrarsi lungo le strade che attraversano la città. La strada è una metafora della quotidianità. In essa la socialità da forma al movimento, questo intreccio costituisce la rappresentazione della vita di ogni giorno. La città è essenzialmente un insieme organizzato di strade. Ogni principio di organizzazione ha le sue regole che, se non comprendiamo, non necessariamente significa che si tratti di disordine, ma forse di un altro ordine rispetto a quello a noi consueto.
E la folla in movimento costituisce uno degli spettacoli più emozionanti delle città, descritto e rappresentato nel corso del tempo dai narratori delle metropoli. Ogni giorno migliaia di persone si muovono da un punto all’altro e basta osservarne alcuni, nodali, per rendersi conto della intensità, della fatica e anche drammaticità, dei movimenti dei corpi nello spazio.
ll “bus di linea” di mutuo soccorso
La mobilità urbana collettiva ad Amman e in tutto il Medio Oriente, nel nord Africa, nei paesi subsahariani e in tante altre parti del mondo, dove le città reali non sono e probabilmente non saranno mai smart[Vedi qui], si articola in diverse maniere con modalità che spesso si integrano.
Ruotano attorno al taxi e al taxi collettivo. In alcuni punti strategici, posti lungo le direttrici di accesso alla città, sono posizionate le grandi stazioni degli autobus che collegano la capitale alle più importanti località del paese, mentre i taxi collettivi di solito uniscono le città e i paesi che gravitano nell’area metropolitana.
In questi furgoni, la presenza di turisti occidentali è sporadica, totalmente assenti sembrano essere gli orientali. A Jerash siamo andati con il taxi collettivo. Il rito è sempre lo stesso, quando il furgone è carico si parte e almeno 20-30 minuti di attesa vanno messi nel conto, ma sono minuti preziosi per capire le regole di formazione del “carico”, in realtà più che capire, intuire, essendo tutti i dialoghi in arabo. A Madaba siamo andati invece con il “bus di linea”. Una linea che ha come unica certezza il punto di partenza e il tragitto. I tempi di percorrenza sono del tutto aleatori, perché il “bus di linea” svolge un vero servizio sociale, ovvero si ferma per ogni esigenza, per far salire persone che conoscendo il tragitto si fanno trovare in un punto e in vista del bus in arrivo iniziano ad agitarsi sul ciglio della strada. Strade, va detto, dove ci si può fermare ovunque, come ad esempio nel mezzo di una rotonda perché un taxi giallo (quelli economici) arriva strombazzando all’impazzata perché porta una signora che deve salire.
Ad un certo punto, qualcuno inizia ad urlare dal fondo del bus e l’autista sempre tranquillo, mai alterato, si ferma e lo fa scendere e gli restituisce anche qualche moneta. Evidentemente il signore ha deciso di scendere prima della località dichiarata quando era salito. Per pagare il biglietto non c’è un momento preciso, quando sali, quando scendi, quando l’autista decide di fermare il bus e passare a riscuotere il denaro, e poi caso mai scendere perché ha finito le sigarette e il tè e va rifornirsi in une delle innumerevoli baracche lungo la strada che offrono questo servizio, direttamente ai viaggiatori. Basta fermarsi, abbassare il finestrino, ordinare la commande, pagare e via che si riparte.
Insomma, negli spostamenti di questi “bus di linea” infraurbani vige una sorta di spirito di “mutuo soccorso”, si cerca di accontentare tutti. Del resto, chi usa questi mezzi è consapevole che non potrà gestire il proprio tempo come vorrebbe, perché vige una sorta di adattamento alle dinamiche dei tempi delle varie persone che usufruiscono del servizio. Quindi si sa quando si parte, non sempre quando si arriva, dipende dalle condizioni locali.
Se la variabile tempo è un vincolo ci sono i taxi e i trasporti privati, che ovviamente la gran parte della popolazione non può permettersi. Questi tragitti sia verso Madaba che Jerash attraversano tre situazioni, l’agglomerazione metropolitana, un tratto di campagna puntellata da edifici e catapecchie un po’ ovunque, con paesaggio brullo ma ricco di ulivi e infine le periferie delle città, che non sono molto diverse dalle aree centrali.
Mentre si esce dalla stazione di Amman, può capitare di trovare, in terreno libero posto in un crocevia di autostrade urbane, una tenda beduina e due dromedari che ti guardano con distacco, mentre mangiano la loro erba.
IL taxi è imprescindibile
Per la mobilità in città il ruolo del taxi è imprescindibile, non si può pensare di muoversi da una parte all’altra della città senza ricorrere alla “macchina” gialla. Queste girano ininterrottamente, ti accompagnano passo dopo passo, specie se sei inquadrato come turista e occidentale, accompagnando il tuo percorso, per un certo tratto, con piccoli richiami di clacson. Sembra quasi che l’autista pensi e speri che prima o poi ti stancherai di camminare.
Analoga situazione la ricordo in numerosi paesi africani. Solitamente l’occidentale che va in questi paesi per lavoro o per turismo concorda con l’albergo o con conoscenti il trasporto in città. Per prendere un taxi spesso si viene sottoposti a quello che gli amici senegalesi chiamano le parcours du combattant. Ogni qualvolta un occidentale si appresta a percorrere, non accompagnato da un locale, un tratto di strada in città, in aeroporto o in un mercato, una folla di persone lo accerchia proponendogli di acquistare qualcosa, chiedendogli informazioni riguardanti il paese da cui viene salvo poi scoprire che il suo interlocutore ha un amico o un parente addirittura nella tua città di residenza.
L’area centrale di Amman (foto di Romeo Farinella)
Ricordo a Dakar(dove non è consueto camminare per strada, specie se sei bianco) che camminavo e nel mentre parlavo con il taxista che mi seguiva passo dopo passo e attraverso il finestrino aperto mi chiedeva da dove venivo, mi augurava il benvenuto, cercando di convincermi a salire sulla sua auto. Va detto che questi viaggi in taxi non sono mai silenziosi ma sono scanditi da dialoghi intensi e in Senegal, se parli francese, e ad Amman, se hai la fortuna di trovare un taxista che parla inglese (non frequente) scendi carico di informazioni e riflessioni sulla città, sulla loro quotidianità e anche a te vengono richieste informazioni sul tuo paese, sulla tua vita, e sei contento perché scopri che gli italiani sono tra tutti gli occidentali i più amati: sincera dichiarazione di amore o strategia di marketing? Forse entrambe le cose, anche se i senegalesi mi dicevano che amano l’Italia perché è l’Afrique d’Europe, dove vige l’art de la débrouille (l’arte dell’arrangiarsi) mentre i Giordani amano l’Italia (perlomeno alcuni dei taxisti che abbiamo incontrato) perché ritengono arabi e italiani “una faccia, una razza”.
Ad Amman i prezzi dei taxi gialli sono talmente bassi che costituiscono anche per i locali l’unica possibilità di muoversi in città e l’importanza di questo mezzo per la mobilità urbana, ma anche per l’economia familiare la verifichi innanzitutto nella quantità di auto in circolazione. La vivi anche nell’animosità con cui i taxisti discutono e litigano tra di loro per caricarti. Ci è capitato alla stazione dei bus di Amman, tornando dal Wadi Rum, ma ricordo una situazione analoga all’aeroporto di Tunisi dove ad un certo punto mi è capitato di avere una valigia, in un taxi e la seconda in un altro, finché l’arrivo provvidenziale del Raʾīs (dei taxisti) non ha sistemato le cose, le valige si sono ricongiunte e io sono partito verso la città.
Vi sono anche i taxi bianchi ma di norma li prendono i turisti non adusi a trattare il prezzo. Si potrebbe dire con una battuta che i taxi bianchi li prendono i turisti mentre quelli gialli i viaggiatori, in ogni caso un Hotel non ti chiamerà mai un taxi giallo, o bianco ma privato (di norma parente o amico del concierge che effettua la riservazione) e ovviamente i prezzi si possono trattare.
Dentro il sukdi Amman (foto di Romeo Farinella)
Il viaggio in taxi, in Giordania, in Senegal, ma anche in Brasile, non è mai un semplice spostamento da un punto all’altro, è quasi sempre una condivisione di un frammento di vita comune, alimentato da uno scambio di esperienze, importante per conoscersi reciprocamente. Se poi ti capita di muoverti con un taxi per un tratto abbastanza lungo, come è capitato a noi tra Petra e Wadi Rum, scendi con i recapiti di un amico su cui puoi sempre contare se torni da quelle parti.
La vita attorno e lungo le strade è uno dei caratteri dominati di Amman e di tante città che alternano lungo i tracciati attività e professioni, informalità e urbanizzazioni. Entrando in città lungo la strada trovi di tutto, dal piccolo artigiano che ti può risolvere un problema, al rivenditore specializzato, dall’emporio-bazar, alla stamberga dove ti puoi fermare a bere un tè alla menta, o al ristorante dove puoi organizzare un banchetto per un evento. Anche lungo l’unica “autostrada”, che congiunge Amman con Aqaba, la separazione non è mai fisica, puoi attraversare la strada a piedi, ti puoi fermare sul ciglio per acquistare una bibita da un ragazzino seduto su di un contenitore portatile refrigerato.
Lungo diverse strade di accesso alla capitale ho visto ragazzi (alcuni forse bambini) che indossavano un giubbotto giallo catarifrangente con in mano un vassoio rotondo in ottone che roteavano continuamente e il moto ondulatorio indirizzava verso il ristorante a lato della strada. Un invito ad entrare e pranzare.
Questa era la specializzazione del ragazzo che forse un giorno, crescendo, diventerà un cameriere, o studierà diventando qualcuno di importante, e lascerà quel posto ad un altro ragazzo. Da secoli quella strada è un ingresso ad Amman e forse da secoli un ragazzo rotea il braccio per invitare al pranzo i viandanti, come quello Yemenita spaventapasseri che arrampicato su di un palo, da secoli rotea la frusta per scacciare gli uccellini al centro di un campo coltivato, a cui Pier Paolo Pasolini nel 1971, ha dedicato il suo documentario “Le Mura di Sana’a”.
In copertina: In Entrata ad Amman (foto di Romeo Farinella)
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Quella cosa chiamata città
VIVERE NELLA CITTA’ SMART
Le nuove frontiere della tecnologia
Sono bersagliato ogni giorno da messaggi di università, enti, consorzi, imbonitori che mi segnalano programmi innovativi, attività dihub tecnologici e cluster nei quali coinvolgere PMI, call per progetti smart (necessari per fare smart cose: non è uno scherzo è una affermazione sentita in una riunione) farciti di parole inglesi che spesso molti utilizzano senza ben comprenderne il significato.
Questo mi fa pensare che siamo in movimento, che la realtà è aumentata (ed essendo per molti una realtà di m…a, non è una bella cosa) e che la tecnologia aprirà nuove frontiere di innovazione e benessere, rendendo sempre più artificiale la nostra intelligenza.
La città processore
Poi sento che tra qualche decennio tutte le città costiere spariranno a causa dell’innalzamento dei mari, leggo che il rondone, che la sua strana vita obbliga a volare sempre, anche per vent’anni, tranne quando nidifica, non trova più pertugi dove montare un nido per far nascere i piccoli, a causa delle ristrutturazioni edilizie, sempre più performanti, nei nostri centri storici, rendendolo di fatto una specie in via di estinzione.
Infine prendo atto che tra cinquant’anni potremmo vivere e andare a fare acquisti nei centri commerciali su Marte o la Luna, dentro rassicuranti bolle eco-sostenibili, dove coltiveranno anche i pomodori, come a Dubai. Rimane l’amarezza che pochi potranno fare la spesa su Marte e la maggioranza morirà annegando nel Mediterraneo o in altri mari, alla ricerca di un posto da dove poter partire per l’extramondo, mentre altri andranno a sciare negli impianti artificiali, che si stanno costruendo nel deserto dell’Arabia Saudita.
In fondo l’Unione Europea in questi decenni ha finanziato, con i suoi programmi, ricerche importanti sui processi di governance innovativa, sulle smart city e sulle healthy city, e sui processi di trasferimento tecnologico, sull’innovation applicata ai processi, e la lista potrebbe continuare.
Scientismo e governance
Le tecniche analitico-diagnostiche diventano sempre più sofisticate, lo scientismo è imperante e siamo quotidianamente immersi in quadri conoscitivi talmente ricchi di dati da annullarsi, mentre gli algoritmi ci parametrizzano e orientano le scelte, anche progettuali, togliendoci il gusto dell’intuizione interpretativa.
Molti processi decisionali sono ormai sottoposti a procedure partecipative istituzionali che assomigliamo sempre più a dei giochi di società. Insomma, in questi ultimi quarant’anni il dibattito sugli habitat sostenibili e smart è stato molto intenso, in tutto il mondo e, nei documenti strategici, le nostre città vengono descritte come sostenibili, policentriche, rigenerate, attrattive, abitabili, resilienti (ora anche antifragili), competitive.
Quest’ultimo attributo è sempre più ricercato da territori, città e borghi in cerca di futuro, mentre la collaborazione, la sinergia, la cooperazione, l’inclusività sono obiettivi spesso non dichiarati o enunciati a denti stretti.
Londra, l’agora digitale di Tottenham Court Road
Quindi il futuro delle nostre città si basa su finalità che ci fanno sognare e su obiettivi ambiziosi, ma le condizioni di vita nelle città del mondo peggiorano continuamente. Il degrado ambientaledegli insediamenti urbani è ormai uscito allo scoperto, grazie agli effetti generati dai cambiamenti climatici e, riferendoci solamente agli eventi meteorici causati da inondazioni e frane, in questi anni in Europa, Pakistan, Bangladesh, Libia e tanti altri paesi, il tributo in vite umane e danni è stato sempre più rilevante.
Le forme di governance diventano subdolamente sempre più autoritarie e ormai passiamo da una emergenza generata dalla siccità ad un’altra causata da troppa pioggia, ma rimane costante l’essere in emergenza. Questa ormai rappresenta uno dei caratteri più stabili della nostra quotidianità.
Un nuovo linguaggio
Rifletto su questo mentre mi trovo, mio malgrado, coinvolto in un seminario di un cluster che si occupa di sea inteso come spazio di contatto tra water e coast, per cui pensare politiche di sustainability per il futuro della Blue Economy, favorendo i processi bottom up per il local development.
A un certo punto, saltando tutta la programmazione degli speach (il mio compreso), viene data la parola all’executive di una development agency di Ancona che, con un inequivocabile accento marchigiano, propone di costruire una library per il boosting degli aiuti alle comunità local nel processo di empowerment, perché la storia è one way, conclude l’executive.
Of course, penso io e tornato a casa prenoto il booster, per evitare di ricadere nel lockdown, visto che a giorni aprirò la mia classroom per le lezioni in blended. Dopo di che apro il giornale e scopro che uno dei problemi dell’Italia è di rafforzare le skill giuste per favorire il Digital progress del paese.
Per questo è nata la Italian Tech Academy presso il Talent Garden di Roma Ostiense, i cui corsi consentiranno di colmare il mismatch che ancora ci contraddistingue. Questo grazie all’hub di Gedi Italian Tech, che sta lavorando intensamente per rendere le nostre città sempre più smart, contribuendo alla formazione dei talent del futuro.
Un mondo smart: opportunità e diseguaglianze
Per concludere, siamo sicuri che lo scenario smart sia una straordinaria opzione per tutti o invece non rafforzerà le disuguaglianze? L’impressione è che la concezione smart della vita e della città stia creando un numero sempre maggiore di disadattati.
Inoltre, sono convinto che il mondo smart sia anche una grande fregatura. Paghi e ti fai tutto: check-in, invio bagagli con relativa pesatura, ti prendi il cibo te lo scaldi e poi devi anche pulire il tavolo, meno persone lavorano e se lo fanno la loro condizione è precaria (flessibile?), nel mentre i servizi alla persona spariscono, tu parli con un algoritmo che tra le opzioni che ti enuclea (le domande frequenti) e la tua manca sempre, e le company aumentano i dividendi.
Guarded Bus Stop. Un esempio di agorà virtuale: una signora da sola di notte alla fermata dell’autobus in una città brasiliana, dopo una dura giornata di lavoro, probabilmente sottopagato. Nell’attesa, potrà parlare con le operatrici virtuali che dallo schermo che le terranno compagnia e le daranno dei consigli. La qualità delle condizioni di lavoro della persona, e di mobilità non interessano a Eletromidia, gestore tecnologico dell’agorà, anzi più si aspetta l’autobus meglio è.
La città smart e gli anziani. In Italia e nel mondo gli anziani sono una componente molto rilevante, spesso la loro scarsa attitudine a rincorrere il progresso tecnologico, smart, li taglia fuori anche dall’accesso a servizi essenziali. Se non hanno uno smartphone, un indirizzo e-mail, un computer, o un figlio, o un nipote con competenze digitali, diventa per loro impossibile accedere ai bancomat, alle prestazioni sanitarie, all’acquisto di un titolo di trasporto, al rinnovo della tessera sanitaria o del documento di identità.
Alcuni mesi fa io e mia moglie a Venezia abbiamo assistito un signore anziano, che si aggirava spaesato attorno al bancomat dove avevamo prelevato del denaro. Non era la sua banca ci dice, quella l’hanno chiusa, e ora si trova con un rettangolo di plastica che deve inserire in una fessura di un apparecchio che non conosce ed è intimorito. Gli abbiamo prelevato i soldi, gli ultimi della sua pensione minima mensile, ci dice ringraziandoci molto per l’aiuto.
Comunque, l’esperto di innovation management ci direbbe che a breve, queste “figure” sono destinate a morire, e i futuri anziani sono più preparati alla digital transformation.
La città smart e l’arte dell’arrangiarsi. Mi sono svegliato un giorno con un forte capogiro e nausea, probabilmente causato dall’uso intensivo dei ventilatori. Il mondo girava intorno a me, le righe del libro si intrecciavano tra di loro, cambiando il senso di ciò che leggevo, i colori dello schermo del portatile animavano immagini in movimento dal sapore futurista, affacciandomi alla finestra mi sembrava di vivere in una città diFritz Lang o Robert Wiene.
Telefono al medico, gli spiego la situazione, che lei immediatamente associa a un comune attacco di cervicale. Serve un medicinale! Mi viene dato il nome e la dose, ma si tratta di un farmaco da banco quindi serve la ricetta, ma essendo in una fascia particolare la prescrizione non può essere rilasciata attraverso il fascicolo elettronico (tecnologia smart).
Devo quindi andare a prenderla, mi dice la dottoressa, ma scusi, gli rispondo, visto che abito dall’altra parte della città come posso prendere l’auto o la bicicletta visto che i capogiri mi portano a confondere i punti cardinali? Allora deve aspettare che le passino i capogiri e poi venire; la mia risposta è immediata: ma se mi passano i capogiri non mi serve più il medicinale, e allora deve mandare qualcuno, mi viene risposto.
Bello questo paese che non ti mette mai in condizione di essere totalmente indipendente. È più importante che sia smart la tecnologia (il fascicolo elettronico) o la modalità di gestione del servizio?
Comunque si parla sempre di smart city e mai di smart urbanisation, forse perché la prima è indentificata con un microcosmo tutto sommato in equilibrio (anche se spesso instabile), che le narrazioni e le retoriche rendono armonico, anche dicendo bugie, mentre nella seconda si dovrebbe rendere smart il conflitto, la dissonanza, la frammentazione, l’informalità, la disuguaglianza, la violenza.
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I montiMycale e il Thorax definiscono la piana alluvionale del fiume Meandro. Nell’antichità erano due isole, oggi prolungano verso il mare il gruppo dei monti Aydin che delimita il lato nord dello stretto bacino del fiume.
A sud, la piana è racchiusa dal massiccio del monte Latmos e più sotto dal monte Grion, da cui si stacca un’appendice che duemila anni prima di Cristo era un promontorio proteso in una insenatura dell’Egeo, in seguito divenuta una piana fertile.
Siamo sulla costa egea settentrionale della Turchia, al di sotto di Troia ed Efeso. Sul lato sud del promontorio si trova la città oracolare di Didyma, mentre sull’altro versante si trova Mileto, di cui ora parleremo.
Nel 1982, ritrovare la città non fu semplice, richiese uno sforzo rilevante di interpretazione delle mappe a nostra disposizione, associato anche ad un po’ di fortuna.
Mileto, Il teatro, 1982
Fondamentale fu la capacità di associare l’immagine che avevo in mente della città con le forme del paesaggio nel quale ci trovavamo a vagare, senza il supporto di alcuna indicazione stradale. Nella mia testa tutto ruotava attorno all’acqua, allora ero inconsapevole del ruolo giocato dalle modificazioni del territorio. Il promontorio lo vedevo come una sorta di dito che si conficcava nel mare Egeo e sul quale la città era sorta.
Ricordo una giornata molto luminosa, una luce pulita che creava una sorta di gioco di ombre con netti contrasti, e in questa ricerca spasmodica di un promontorio bagnato su tre lati dal mare, che in realtà non esisteva più, ecco apparire su di un’altura delle strane pietre biancastre ammassate una sull’altra che, viste in lontananza, sembravano delle concrezioni calcaree, che avevano come sfondo una piana in alcuni tratti limacciosa.
Consapevole che la luce prende forma quando incontra l’ombra, avvicinandomi le “pietre” iniziano ad assumere la forma di linee luminose alternate ad altre ombrose, alcune orizzontali, altre verticali, generate dalle scanalature delle colonne, o meglio dei frammenti di colonne doriche e corinzie ammassate alla rinfusa sul terreno insieme a capitelli e pezzi di trabeazione: eravamo giunti a Mileto.
Mileto, ruderi, 1982
Ci siamo arrivati a causa di una mia infatuazione per una mappa che un professore aveva presentato a lezione all’IUAV di Venezia. Il viaggio alla scoperta della antica città greca aveva seguito un percorso iniziato nell’altopiano anatolico, irrazionale, zigzagante e disarticolato, lasciandosi alle spalle insediamenti trogloditi, città sotterranee, caravanserragli abbandonati.
La geometria ortogonale concepita da Ippodamo da Mileto era diventata una città, adattandosi alle irregolarità del promontorio, ma cosa era successo quando il principio geometrico aveva incontrato quel sito specifico?
Che rapporto si era stabilito tra la regola del modello ippodameo e la conformazione dei principali luoghi urbani o ancora, come l’architetto aveva regolato l’orientamento della città vista la particolare conformazione di quell’appendice rocciosa?
Queste erano alcune curiosità che avevo condiviso con i miei compagni di viaggio, per giustificare il fuori percorso e vincere le loro perplessità, probabilmente senza appassionarli.
Questa città, dove aveva vissuto una comunità di cittadini che abitava, lavorava, discuteva e concepiva visioni del mondo, che aveva generato numerose colonie urbane era ora deserta, abbandonata, nemmeno degna di un cartello stradale.
Indelebile rimane l’immagine dall’alto dell’agorà, un tempo probabilmente, attraversata da una via colonnata, che sembrava reggersi, instabile, sull’acquitrino che ne occupava l’invaso. Quel giorno oltre a noi, solo un pastore sostava con le sue pecore, che con il loro brucare tenevano puliti i ruderi dell’antica città, e ci osservava distratto e silenzioso, forse anche perplesso.
Tutte le foto, compresa quella di copertina sono di Romeo Farinella
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Quella cosa chiamata città. ISTANBUL. UNA LINEA TRA CIELO E MARE
La linea dell’acqua e quella sinuosa delle colline, con i minareti che agganciano la città al cielo, definiscono la forma di Istanbul. Un carattere che Le Corbusier coglie mirabilmente disegnando il paesaggio urbano del Corno d’oro, visto dal Bosforo. La città viene sintetizzata in una linea lievemente movimentata che mostra una morfologia dolcemente collinare, ma che schizza verso l’alto quando incontra un minareto, come in un istogramma.
Le mura che delimitavano l’acqua, sono scomparse, ma gli schizzi dell’architetto svizzero fanno emergere la città come fosse un piano rialzato, quasi fosse su di un piedistallo. Si sa, il disegno e soprattutto lo schizzo, sono il frutto di una selezione: non tutto viene rappresentato. Lo sguardo è sempre intenzionale, si evidenziano punti particolari, situazioni, intrecci, conflitti sui quali si intende porre l’attenzione.
Per tale motivo si tratta di un esercizio (lo schizzo che legge, interpreta e misura un luogo)fondamentale per un architetto. Attraverso la matita, Le Corbusier ci dà delle informazioni sulla consistenza fisica della città, come quando descrive l’effetto “muro” delle case appiccicate sulla riva del mare o i vecchi palazzi bizantini, le cui finestre iniziano tra i 15 e i 18 metri d’altezza.
Istanbul. Il cortile di una moschea nel Sultanahmet, 1982
I luoghi immediatamente percepibili dal bacino d’acqua che unisce le tre parti della città sono certamente le moschee dello sfondo, la mole metallica del ponte di Galata, con la torre genovese che svetta a Galata, ma più di tutti il complesso del Topkapi, che chiude sul mare il triangolo del Corno d’Oro.
Il complesso vede uniti il palazzo del sultano, i giardini circostanti e la moschea di Solimano, costruita nella seconda metà del Cinquecento da Sinān, il più famoso architetto ottomano. Siamo nel Sultanahmet, una delle 57 mahalle (quartieri) che compongono la parte più antica della città, coincidente con il distretto di Fatih.
Un dedalo di strade compone il Sultanahmet e Kapalıçarşı, dove pulsa il bazar: un pezzo di città straordinario per la complessità dei suoi spazi, per il suo essere un recinto dentro la città, e per gli spazi di transizione che lo preannunciano.
In fondo un modello, come lo sono anche i sūq, per la nascita dei moderni luoghi del commercio delle nostre metropoli nell’Ottocento e nel primo Novecento. Penso ai passages parigini e alle loro fantasmagorie, descritti da Louis Aragon.
Il bazar di Istanbul, 1982
In realtà le trasformazioni nel distretto di Fatih sono state veramente radicali. Le famose case di legno di Istanbul sono quasi tutte bruciate, e i terremoti e le devastanti modernizzazioni hanno fatto il resto. Rimangono come al solito dei frammenti: una casa di legno, un palazzo neoclassico, le chiese bizantine, le fontane e i cimiteri che, con il loro verde e le caffetterie, sono i veri giardini della città.
Istanbul. Una strada di Fatih, 1982
È la medesima impressione che si ha percorrendo Atene o altre città greche come Patrasso o Salonicco, dove alcune preesistenze ti segnalano una storia ricca e complessa che non c’è più. Rimane intatto il fascino per queste città vissute in ogni loro spazio. Rimangono anche le descrizioni di viaggiatori come Pierre Loti o Edmondo de Amicis.
Impressionante è la dissolvenza delle luci che accompagnano il tramonto sul Corno d’Oro. Quattro cose ancora oggi mi colpiscono. Innanzitutto, l’illuminazione delle moschee, inquietanti appaiono anche le sagome buie delle basse colline, punteggiate qua e là dalle luci delle case e dei piccoli borghi.
Ricca di suggestioni è la successione dei colori del cielo durante il percorso dal tramonto alla notte. L’azzurro del cielo si trasforma gradualmente in un arancio prima chiaro, poi scuro e infine nel rosso che transita nel nero della notte, preceduto da un blu molto scuro.
Infine, è il riverbero sull’acqua delle luci della città, che rende teatrale questo luogo. Paesaggio meraviglioso, certo, ma attenzione si tratta in realtà di un campo di contraddizioni e conflitti composto di elementi dissonanti, di monumenti straordinari, anche per la loro posizione rispetto all’acqua e di trasformazioni radicali e brutali.
Andai la prima volta a Istanbul nel 1982 e in Turchia vigeva il coprifuoco stabilito dalla giunta militare che aveva preso il potere due anni prima. Di quel viaggio rimane un susseguirsi di immagini sedimentate nella mia memoria, che si scontrano con quello che oggi esiste e si vede, ma in fondo è questo conflitto percettivo che alimenta l’immaginario di un luogo.
Se Genova si vede dal mare, Istanbul ancora di più. Ne erano certamente consapevoli i parigini che sul finire dell’800 potevano ammirarla, in uno dei panoramas dei grands boulevards, osservando «la città [che] si amplia a paesaggio» (Walter Benjamin).
Un tempo a Galata si parlava francese e anche italiano, le vie erano ricche di edifici neoclassici alcuni con splendide viste sul lato occidentale del Corno d’oro, orientata sul tramonto. Una città europea, dove importanti famiglie aristocratiche e borghesi si rappresentavano attraverso l’architettura, come i Camondo (sefarditi spagnoli, poi «stambulioti» e infine parigini dopo un passaggio tra Austria, Trieste e Venezia), a cui si deve la famosa scalinata che lega strade di quote diverse, accostata a palazzi di impronta neorinascimentale.
Infine, un dedalo di stradine ripide, che ancora si inerpicano dalla quota del mare verso le parti più alte del quartiere ricordando i carrugi di Genova. Non tutto qui era però lindo e ordinato, anzi come in tutte le città di mare, le zone adiacenti alle aree portuali erano sovente dei luoghi di degrado.
Zürafa sokak era la via delle prostitute, dove si raccontava che centoventi prostitute servissero una media di cinquemila/settemila uomini al giorno in diciotto case. Siamo nella parte bassa di Galata, non molto lontano dal bordo del mare: una strada chiusa più che una casa chiusa. Gli accessi alla strada allora erano presidiati dalla polizia che faceva entrare solo uomini, la ricordo quasi come una via commerciale, con edifici in stile europeo e con “botteghe” che esponevano la merce.
Si trattava di donne giovani e vecchie, discinte e vistose, ogni tanto qualcuno entrava nel negozio o in un portone neoclassico, trattava il prezzo e, attraversando un pertugio, saliva con la donna scelta. Gran parte della folla però guardava, chi con curiosità, chi con disgusto, mentre chi non poteva permettersi questo momento di sfogo saltava da una bottega all’altra, come in preda ad una febbrile eccitazione.
Mi è ancora chiaro il ricordo di una giovane donna, una ragazza, che la memoria me la fa ricordare bellissima, accerchiata da abbruttiti che cercavano di toccarla, mentre una megera li allontanava. Ricordo il suo sguardo rivolto a noi giovani, evidentemente diversi dalla folla che si muoveva convulsamente lungo la strada. La sua espressione, per niente altera e sprezzante, sembrava cercare aiuto.
Cover: Istanbul. Pescatori sul Bosforo, 1982
Tutte le foto, compresa quella di copertina, sono di Romeo Farinella
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Arrivando dal mare si può entrare a Codigoro percorrendo la strada del Diavolo, che costeggia l’argine sinistro del tratto terminale del Po di Volano.
Fin da ragazzino questo nome mi ha allo stesso tempo affascinato e impaurito. Chissà quali storie e vicende terrificanti hanno portato a identificare questo percorso con il diavolo, mi chiedevo. A volte percorrendola, di notte, mi tornava alla mente il racconto di uno dei miei autori giovanili preferiti, Robert L. Stevenson, nel quale narra di una palude del diavolo dove di notte si aggirava lo spettro di una donna.
Anche qui un tempo c’erano le paludi, ed io c’ero addirittura nato, ma le acque erano già state prosciugate. il Po di Volano fu nell’antichità uno dei corsi principali del nostro grande fiume, identificato da molti autori con il mitologico Eridano che conduceva direttamente agli inferi, attraverso una oscura geografia di selve e paludi, come forse avrebbe scritto Jorge L. Borges. La strada segue certamente un antico argine che conteneva il fiume, prima della sua deviazione verso nord, avvenuta a Ficarolo nel dodicesimo secolo.
Stiamo parlando di terre storicamente aduse alle bizzarie delle acque e profondamente trasformate dalle bonifiche meccaniche che hanno imposto nuove geometrie al suolo cancellando le precedenti o trasformandole in relitti e tracce. Un territorio il cui carattere più permanente è la mutevolezza.
Nel 1876, il geografo francese Elisée Reclus descrive nella sua nuova geografia universale, l’Italia settentrionale come un réseau admirable di canali artificiali e cita i polesini di Ferrara e Rovigo che formano un système d’artères et artérioles che diffondono la vita a tutti i campi irrigati. Descrizione confermata, con altre parole, da Carlo Emilio Gadda che, inviato a Codigoro dalla Consociazione Turistica Italiana (in seguito Touring Club Italiano), descrive nel 1939 sulle pagine della rivista Le vie d’Italia il dispositivo “esemplare” della Grande Bonificazione Ferrarese fondato su di nuovo reticolo di canali artificiali.
Arrivando dal «Diavolo” Codigoro si annuncia con un sobborgo. Si chiama «al Capitel», in origine era staccato dal centro e ha una forma relativamente compatta e allungata sulla strada. Le case povere e di piccole dimensioni evidenziano diverse storie e fasi: il piccolo borgo antico composto di poche case addensate, le corti rurali, le villette individuali costruite dagli anni del boom economico. Entrando in paese la strada del Diavolo a un certo punto si trasforma in una riviera fluviale e l’edilizia minore si raggruppa attorno ai palazzi costruiti, in affaccio sul fiume, dalla borghesia locale.
Codigoro e la Riviera Cavallotti (ph Romeo Cavallotti)
Codigoro è forse il centro più veneto del Ferrarese, nel senso che ha mantenuto la riviera su cui si affacciano le sue architetture domestiche più rappresentative. Aprendo al mattino le finestre della mia camera da letto, il fiume con le sue sponde alberate (ora non più) e le sue ripe verdi (artificializzate, in seguito) mi accoglieva con i suoi barconi alla fonda (pochi) mentre una sottile linea di case, sull’altro lato, incorniciava lo sguardo verso una campagna che si smaterializzava verso l’infinito, divenendo bruma, nebbia o linea a seconda delle condizioni atmosferiche, come in un paesaggio di Turner.
Sto parlando della Riviera Cavallotti che potremmo pensarla come la Strada Nuova di Genova o il secondo tratto del Corso Ercole I° d’Este a Ferrara, anzi, vista la presenza dell’acqua del Po di Volano, potrebbe rammentarci una «fondamenta» veneziana dove le famiglie importanti si rappresentavano alternando il loro palazzi all’edilizia minore.
La geografia sociale del paese si identificava con alcuni nomi associati alle sue diverse parti o rioni:«insù», «inzò», «la Galanara», «la Korea», «l’Aquilon», «D’là da Po», «la Palpogna», «la Pastrinara»: questi sono i nomi che ricordo, ma ce ne sono altri. Sono luoghi non progettati dove come ricorda Gianni Celati«il tempo è diventato forma dello spazio» e appaiono “come le rughe della nostra pelle».
Codigoro: il rione “D’là da Po” (ph. Romeo Farinella)
La strada del Diavolo costituiva l’entrata di servizio al paese. Era la porta secondaria, perché uscendo dal paese si entrava nelle terre dell’est, infernali e un tempo composte di lagune, boschi e demoni. La via principale arrivava da Ferrara e l’ingresso in paese presenta ancora oggi dei caratteri architettonici a suo modo monumentali. È la strada che a ovest argina il Po di Volano, che arriva dalle terre alte e che percorreva il borghese Edgardo Limentani partito da Ferrara poco dopo l’alba. Codigoro era una sosta e Volano la destinazione, dove l’aspettava, in valle, la sua botte di caccia mentre un airone si aggirava ignaro della sorte che gli sarebbe toccata.
Cover: Codigoro, il Volano e la riviera (foto Romeo Farinella)
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Grattacieli londinesi: iconici, potenti e introversi
Sono a Londra per l’ennesima volta. Ogni volta che torno ho sempre l’impressione di trovare una città diversa. La sensazione è reale perché l’anno scorso ho pensato la stessa cosa, vedendo, come oggi, tanti cantieri aperti. Ci sono alcuni momenti che segnano i cambiamenti delle città, in particolare delle grandi città. Londra ne ha avuti diversi.
Nel 1666, il Great Fire distrugge la gran parte di una città che stava cercando di risollevarsi dalla pestilenza che aveva ucciso circa centomila persone. Una pestilenza arrivata dall’Olanda ma partita dal Levante come ci descrive minuziosamente nel suo romanzo Daniel Defoe.
Allora Londra non andava oltre il Tower Bridge e l’architetto Christopher Wren progetta una Londra barocca che non si realizza.
Un secondo momento, certamente il più importante, anche per l’immaginario della città, riguarda la rivoluzione industriale e la Regina Vittoria. Prende forma la Londra ricca e miserabile, fumosa e sporca, attiva e oziosa che letteratura ci ha raccontato e che arriva fino agli anni ’50 del Novecento.
Le distruzioni della II guerra mondiale costituiscono il terzo dei grandi momenti di trasformazione della città.
Sono gli anni del modernismo e del brutalismo dei complessi residenzialiRobin Hood Gardens o del Barbican Center. La città diviene una piattaforma trasformabile e anche decentrabile attraverso le new town, la cui costruzione inizia in realtà agli inizi del Novecento.
Fino a questo momento Londra è una città piatta, con la riqualificazione dei bacini portuali (i docks) arriva a Londra la verticalità del grattacielo.L’Est London povero e misero raccontato dalla levatrice Jennifer Worth si trasforma in una città finanziaria, il potere capitalista deve rendere evidente il suo dominio sul mondo e il grattacielo ne rappresenta l’icona. Lavisione neoliberista del futuro e dei rapporti umani, incarnato dalla Signora Margaret Thatcher, primo ministro, fa da sfondo a una delle prime grandi operazione di riqualificazione urbana dove il ruolo del potere pubblico è di asservimento agli appetiti privati, molto rilevanti in questo caso.
Oggi Londra brulica di grattacieli talmente vicini da rasentare il disordine.
Londra e i grattacieli visti da Whitechapel (ph. Romeo Farinella)
Ma il grattacielo è un edificio introverso, pensa solo e sé stesso. All’esterno, con la sua altezza, segnala il potere di chi l’ha voluto costruire ma la sua attenzione è tutta rivolta all’interno e alle dinamiche che si indentificano nella folla che lo attraversa, in tutte le direzioni, per dare concretezza ai fatti. Il grattacielo non crea fronte urbano, la strada gli serve solo per l’accesso. L’idea o l’utopia urbana del Rockfeller Center di New York che cerca di creare un luogo urbano attraverso la composizione ordinata di una serie di grattacieli, con i giardini sul tetto e le piazze alla base, è rimasta tale, non è diventata una regola.
Quindi potremmo dire che il grattacielo come icona trasmette potenza e introversione. Non crea spazio pubblico, mette caso mai a disposizione spazi collettivi mercificati: nella hall se diventa un centro commerciale o nei giardini e ristoranti del rooftop. Whitechapel e Southwark pullulano oggi di iconici grattacieli dalle forme falliche, strambe, frammentate come The Shard di Renzo Piano, il più alto di Londra e d’Europa. (vedi immagine di copertina)
Tutti questi grattacieli londinesi non si sforzano nemmeno di inventare un nuovo spazio pubblico, presi come sono dalla necessità di spremere il più possibile il valore del suolo. Quanto meno Mies van der Rohe, costruendo il Seagram Building a New York, il tema della soglia tra lo spazio delle grattacelo e della strada se lo era posto.
Non capisco perché si continui a interrogare, sulla stampa che conta, Renzo Piano sulle grandi questioni urbane del futuro. Dopo decenni di ricerca su come riprogettare le periferie cresciute male abbiamo scoperto, grazie a lui (Sic!), che dobbiamo ricucirle (che intuizione!). In epoca di Covid abbiamo scoperto, sempre grazie a lui, che l’opposizione alla città non è la campagna ma il deserto, dimenticando che nel deserto sono prosperate straordinarie civiltà urbane che avrebbero molto da insegnarci in termini di resilienza e adattamento climatico. Renzo Piano è un grande costruttore di oggetti architettonici, grattacieli compresi, spesso per gente ricca, si limiti a quello e lasci stare il futuro delle città, perché quello che molte sue architetture prefigurano è distopico.
In copertina: Londra, the Shard di Renzo Piano (ph. Romeo Farinella).
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Quella cosa chiamata città.
Saint Louis du Sènégal e gli accordi dell’umanità.
Qualcuno scrisse che a Saint Louis du Sénégal si confrontano tre mondi: l’Africa, l’Europa, l’immaginario, ma non riesco a ricordare la fonte. I portoghesi che fin dal 1415 finanziano le esplorazioni atlantiche africane, non si erano mai spinti di là del Marocco. Iniziano a farlo spingendosi a Madeira, Porto Santo e nel Sahara spagnolo dove doppiano il Capo Bojador.
Solo in questo modo riescono ad intercettare i venti alisei che, soffiando regolarmente verso sud, lungo la costa africana occidentale, gli consentono di spingersi oltre le terre conosciute.
I Portoghesi più che fondatori di città sono stati dei creatori di scali commerciali lungo la costa africana e sull’altro lato dell’Atlantico. Il paese, seppur potente, era piccolo e dovette quindi far ricorso ad esperti di navigazione come il veneziano Alvise Cà da Mosto che sarà tra i primi a descrivere la costa senegalese.
Il veneziano ci racconta di una bocca di fiume larga un miglio, con un’isola nel mezzo e con maree che si susseguono regolarmente, ogni sei ore. Gli unici insediamenti che egli descrive sono villaggi con case di paglia abitate da uomini grandi e grossi e ben formati di corpo, ospitali e gentili. Viene tracciata dunque una geografia fantastica del fiume che sconfina nel mito. Il fiume Senegal sarebbe un affluente del fiume Gion (Nilo) che insieme al Tigri, all’Eufrate e al Gange parte direttamente dal paradiso terrestre: “è questa l’opinione di quelli che hanno cercato il mondo”. Inizia da qui il mito di questa città che si alimenterà, nei secoli successivi alla colonizzazione francese, grazie alle descrizioni di Pierre Loti, Théodore Monod, e alle vicende di Jean Mermoz, che con l’Aéreopostale inaugurerà nel 1930 la rotta aerea tra l’Africa e il Brasile partendo da Saint-Louis.
Il sito nel quale Saint Louis è cresciuta è difficile ed ostile, come lo è, del resto, tutta la fascia continentale nella quale è situata, e questo le conferisce quel fascino di città cresciuta al limite di mondi diversi, a volte dialoganti ma spesso conflittuali.
Il vecchio quartiere coloniale de l’île. (ph. Romeo Farinella)
La città storica, costruita dai francesi su un’isola fluviale, è separata dall’oceano da una lingua di sabbia costantemente erosa dall’innalzamento dell’Atlantico e dagli interventi dell’uomo: un fenomeno che potrebbe portare alla scomparsa della città. L’estuario del Senegal è caratterizzato da un substrato argilloso e da depressioni che lo rendono frequentemente inondabile. Nella parte terminale del fiume questo allineamento dunoso, denominato Langue de Barbarie, forma un cordone litoraneo lungo circa quindici chilometri e largo tra i centosessanta e i duecentosettanta metri, sul quale sono cresciuti gli insediamenti urbani di pescatori di Guet Ndar e N’dar Toute.
Il fiume Senegal è ovunque, se l’oceano lo percepisci, il fiume lo vivi quotidianamente.
Saint Louis è quotidianamente oscurata dai tagli di elettricità, sommersa dai rifiuti, sacchi e contenitori di plastica dove, nonostante una strumentazione urbanistica di buon livello con tante informazioni raccolte ed elaborate, il patrimonio architettonico cade a pezzi nonostante sia «patrimonio Unesco»; con un traffico totalmente dipendente dal trasporto privato e con mezzi altamente inquinanti, con quartieri sempre a rischio di immersione grazie al fiume e le piogge.
Come può diventare «sostenibile» una città con tali problemi? Di questo parlo regolarmente con i miei colleghi geografi africani che lavorano sul campo e nei loro laboratori perché lo diventi.
La globalizzazione lungo la strada verso Saint Louis du Sénégal (ph. Romeo Farinella)
In ogni caso la regina delle acque è una città unica nel contesto dell’Africa occidentale e sub-sahariana. Quando mi capita di andarci, ogni mattina, svegliandomi, mi appresto ad ascoltare i suoi rumori e i suoi suoni e penso a Karl Kraus e quella sua frase: “ascoltare i rumori del giorno come se fossero gli accordi dell’umanità”. Voci umane, belati di capre, tamburi che suonano, canti ritmati, la voce e il canto del Muezzin, clacson che gracchiano: sono questi gli “accordi dell’umanità” che fanno di Saint Louis un’esperienza sensoriale e spaziale spaesante e positivamente intensa.
In Copertina: Saint Louis du Sènégal. La Langue de Barbarie, la città dei pescatori. (foto Romeo Farinella)
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Quella cosa chiamata città. Rio de Janeiro e il raptus divino
Tudo e graça que se dele pode decir (tutto è grazia, che altro si può dire), così viene descritta Rio de Janeiro dai suoi scopritori nel Cinquecento, ma il suo nome potrebbe essere un equivoco. La flotta portoghese di Pedro Álvares Cabral, nel 1502 scopre la baia che gli Indios avevano denominata Guanabara (il senso da dove viene il mare, un gran entrante del mar) e la associano alla loro capitale.
Lisbona si affaccia su un fiume che sembra un mare, Rio sorge su di un golfo, di fronte all’ilha das Cobras, dunque, è mare e il “Fiume di Gennaio” diviene un detournement geografico. Il Pão da Açúcar e la punta di Santa Cruz ne costituiscono la porta larga 1700 metri, mentre il golfo, ricco di isole e isolette ha una circonferenza di circa 140 km.
Secondo Massimo Bontempelli, Rio e la sua baia furono fondate da Dio in preda ad un raptus di frenesia creativa. Liquido e solido, increspamenti, riflessi e trasparenze, azzurro, verde e violaceo, forme di suolo, pezzi di cielo e mare, delirio di curve senza geometria. Le montagne appaiono disposte a caso, e quelle più indietro hanno spinto in avanti quelle più piccole, posizionandole sul mare. Mescolando tutto questo è nata una baia che rende sobrio il golfo di Napoli.
Le Corbusier andrà otto volte a Rio. La prima volta nel 1929 a bordo di uno Zeppelin e ci regalerà con i suoi schizzi dall’alto delle straordinarie suggestioni della baia, definita dai suoi caratteri geografici e topografici che condizioneranno il disegno delle infrastrutture e dei quartieri.
Stefan Zweig riprende, con altre parole, la meraviglia di Bontempelli e mette in forma di racconto gli schizzi di Le Corbusier, quando afferma che siamo di fronte a una città multipla, che nessun gioco di parole, scatti fotografici possono rendere, perché è troppo varia. Qui, in questo piccolo spazio, ci ricorda lo scrittore apolide, la natura in uno slancio di generosità ha riunito tuti gli elementi che normalmente distribuisce in un paese intero.
Eccoci di nuovo a Rio. Arriviamo alle 7:30 e al nostro appartamento, a Ipanema, dopo un’ora di taxi. Ciò che vediamo in questo transito rende ridicole le retoriche dei nostri boschi verticali o delle foreste urbane che la nostra stampa nazionale ed eco-impegnata ci propina quasi ogni giorno.
A Rio la foresta atlantica (la Mata atlantica) è oggi ridotta in ritagli di vegetazione densissima, alternati ai quartieri abitativi della devastante urbanizzazione del litorale della città. Qui anche un semplice viale alberato è molto più di un doppio filare. Gli innesti di orchidee, che si trovano sui tronchi dei ficus che ombreggiano le strade carioca, danno vita ad associazioni di mutuo soccorso, o convivenze che troviamo nelle foreste.
Nonostante l’urbanizzazione formale e informale sia stata pervasiva e si sia insinuata in ogni spiaggia, baia, morro o vallata l’impressione è che Rio non sia una metropoli con del verde urbano, ma un’ enorme foresta,dentro la quale è sorta una città, anzi molte città. Dunque, Rio de Janeiro si alimenta di contrasti. Se nasce come una città dentro la foresta in seguito, incuneandosi nelle baie e arrampicandosi anche sui morros ne prende il sopravvento.
Le parti di città costruite lungo le spiagge di Copacabana, Ipanema e Leblon riproducono il medesimo schema. La città è organizzata ortogonalmente e le strade principali si allungano parallele alla costa. Si tratta di strade residenziali, anche quelle affacciate sul mare; di norma solo una è commerciale ed è interna.
La strada vicina alle montagne è in collegamento con le favelas retrostanti, arrampicate sopra, e ogni mattina molte persone scendono per far funzionare la città. La favela è ovunque, la vedi circondare la città quando scendi dall’aereo, la ritrovi arrampicata sui morros che bordano i ricchi quartieri affacciati sul mare.
Vi è un rapporto di mutua assistenza tra la città dei ricchi e quella dei poveri. La favela di Vidigal a Rio de Janeiro mi è apparsa come la «Irene» di Italo Calvino: “lacittà che si vede a sporgersi dal ciglio dell’altopiano nell’ora che le luci s’accendono e per l’aria limpida si distingue laggiù in fondo la rosa dell’abitato…e se la sera è brumosa uno sfumato chiarore si gonfia come una spugna lattiginosa al piede dei calanchi.”
La foto della cover e quelle nel testo sono dell’autore
In Copertina: Rio de Janeiro, La spiaggia pubblica, la città, la mata atlantica
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L’atmosfera di un luogo può nascere anche dall’intreccio di situazioni dissonanti, e solo Erik Satie può consentirci di interiorizzare un luogo spazialmente contradditorio come Sébastopol a Parigi. Però il tempo deve essere umido, all’imbrunire, con un via vai intenso di pedoni e mezzi. Se il viadotto della metropolitana separa nettamente il grigio superiore dei palazzi dalle luci mutevoli dei negozi, dei semafori e delle auto sulla strada, la linea luminosa della metro, che regolarmente passa sul viadotto, rende dinamico questo paesaggio futurista.
Parigi prima di essere una città fisica è un’atmosfera. All’angolo tra la rue Pierre Lescout e Rue de la Grande Truanderie due vecchi bistrot sono abbastanza vuoti, nel tavolino al mio fianco due giovani intellettuali parlano di politica americana e terrorismo mentre dei grossi passeri saltellano da un tavolino all’altro in cerca di cibo. Parigi non ha mai smesso di essere al centro delle attenzioni di filosofi, artisti, architetti, scrittori che ne hanno descritto forme, costumi, mali e disfunzioni proponendo spesso delle soluzioni per la sua riforma e la sua riorganizzazione. Ma, ci rammenta Giovanni Macchia, l’inizio della poesia di Parigi si deve a coloro che la città non la amano, anzi che la detestano per ragioni morali, sociali ed estetiche.
Questa metropoli è un grande mosaico di culture legate ai processi di immigrazione e decolonizzazione che ne hanno arricchito le modalità di comportamento e di vita quotidiana in contrasto con la forte identitàarchitettonica «haussmaniana» che la città ha assunto con le trasformazioni ottocentesche. Le trasformazioni contemporanee della metropoli le possiamo collocare dentro un palinsesto che, come ricordava Italo Calvino, rende Parigi una sorta di enciclopedia storico-urbanistica-sociale che possiamo sfogliare, attraversare, leggere, vivere.
Parigi, Haussmann e il Maghreb
Tale diversità la riscontriamo aggirandoci nei quartieri a forte connotazione etnica, osservando le modalità di uso degli spazi pubblici, la varietà del commercio di prossimità, con gli orari degli esercizi commerciali, spesso legati alle differenti tradizioni religiose o culturali o ancora osservando l’utilizzo delle strade in quanto luoghi di coesione, di preghiera e di interscambio commerciale e culturale.
Il mercato di Barbès si svolge il mercoledì e il sabato sotto il cavalcavia del metrò. In realtà i mercati sono due: quello legale e quello irregolare. Nel secondo ognuno vende quello che ha, alle uscite del recinto della stazione mentre lungo il muro dell’ospedale parecchie donne e qualche uomo, vendono prodotti poveri da supermercato alternati a dolci zuccherosi e al pane algerino unto, saporito e speziato. Ci si muove a Barbès come ci si muoverebbe a Tunisi, Casablanca o Algeri. Stessi riti, identici rumori, merce informale lungo le strade che diventano uno spazio conteso da uomini e automobili. Risalendo il Boulevard de Barbès si giunge al marché de Chateau Rouge con i suoi prodotti alimentari e tessili tipicamente africani, i grandi pesci sui banchi mi portano immediatamente sui mercati atlantici senegalesi confermandomi che Parigi è la città più africana d’Europa.
Paris e il verde dei beaux quartiers_
Un geografo di Paris-Saint Denis, ad una cena, mi racconta che un mercante di origine algerina, che aveva sempre vissuto nel quartiere «africano» di Barbès, grazie al suo intenso lavoro e alla buona condizione economica raggiunta, decide di acquistare una casa in un quartiere borghese dell’ovest parigino (i beaux quartiers narrati da Louis Aragon).
La sua scelta ricade su di un bel palazzo déco con ampio giardino attorno.
A Parigi quando si cambia abitazione è buona norma presentarsi ai vicini e quello più prossimo al nostro mercante è uno dei più noti medici della città, un vero luminare della scienza medica. Come spesso capita tra vicini, una volta stabilito il contatto, ci si confronta sui problemi del quartiere, sulla manutenzione della casa e i due vicini iniziano ad informarsi reciprocamente sui lavori fatti, tutti di grande qualità e molto costosi.
A un certo punto il mercante chiude la comparazione affermando che comunque la sua casa avrà un valore immobiliare più alto rispetto a quella del medico.
Per quale motivo? Gli chiede quest’ultimo, piuttosto alterato vista la quantità di denaro speso.
La ragione è semplice, quando io venderò casa, dice il mercante, dirò che il mio vicino è un importante medico parigino, se la vende lei dirà che il suo vicino è un arabo.
La foto della cover e quelle nel testo sono dell’autore.
In Copertina: Paris Sebastopol sotto la pioggia, all’imbrunire.
Inizia oggi Quella cosa chiamata città, una nuova rubrica di Periscopio affidata a Romeo Farinella, architetto-urbanista e professore ordinario di Progettazione urbanistica presso l’Università di Ferrara. Un giro del mondo attraverso metropoli, città, paesi. sistemi urbani, un viaggio alla scoperta della fitta trama che lega la “Città di Pietra” alla “Città Vivente”. Buona lettura. (La redazione di Periscopio)
Può una città come Quito nascere circondata da numerosi vulcani attivi e crescere a 3000 metri di altezza, circondata da boschi e campi fertili? Si, se consideri i vulcani una fonte di vita e non di morte.
Si potrebbe ripensare l’area metropolitana diQuito, partendo daiculuncos che sono degli antichi “cammini” storici e corridoi naturali.
Per questo motivo la città storica era lineare e la metropoli oggi è lunga circa 90 km mentre la larghezza è compresa tra i 3 e i 5 km. Secoli fa lungo i culuncos della zona nord-occidentale di Quito, molti commercianti e agricoltori scendevano dal País Yumbos portando i prodotti dagli altipiani alla costa e viceversa.
Il popolo Yumbo era coetaneo degli Inca, era specializzato nella pratica dello scambio, il paese si estendeva dalle bocche delle montagne fino ai piedi delle Ande e all’inizio della pianura costiera. Viveva nella foresta pluviale, la topografia era difficile e accidentata, mancavano buone strade ma ciò non impediva gli spostamenti. Vivevano in villaggi sparsi, in capanne fatte di canna e foglie di guadua e intrattenevano un commercio molto importante con le signorie degli altipiani della sierra Circumquiteña.
Per muoversi lungo i culuncos era necessaria la conoscenza precisa dello spazio fisico che si attraversava e la capacità di orientamento attraverso l’astronomia. Riprogettare i culuncos significa associare archeologia, storia e natura con la pratica dell’attraversamento.
Quito è una città lunga, o allungata, la griglia spagnola se vista dall’alto sembra quasi definire uno spazio isotropo, ma percorsa, ci si rende conto di quanto la geometria possa adattarsi a un sito ma possa anche nasconderlo. Il “sali scendi” di una linea retta a Quito viene esaltato dalla compattezza uniforme degli edifici che delimitano la linea, sembra quasi un cretto di Burri abitato.
L’attraversamento e il camminare raccontano la storia di tante città e del radicamento dell’uomo in certi luoghi.
Se Carlo Emilio Gadda rammenta come gli uomini in Europa camminavano lungo strade non sempre dritte ma che arrivavano sempre al termine, George Steiner ci ricorda che l’intera nostra geografia continentale è tracciata dai solchi necessari per recarsi da città a città, da villaggio a villaggio. Affermazione confermata da Michel de Certau quando sostiene che la storia comincia sul suolo, raso terra, con dei passi.
Anche i culuncos ci raccontano questa stessa storia fatta con i piedi.
In copertina: Quito, il saliscendi della calle (foto dell’autore)
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