San Lupo è un piccolo paese dell’appennino meridionale collocato vicino al Matese, il massiccio roccioso dell’appennino sannita. In questo paesino, la sera del 4 aprile 1877, presso la taverna Jacobelli prende vita la Banda del Matese.
Quando il giorno precedente Carlo Cafiero arrivò nel Matese sembrava un uomo d’affari; con abiti eleganti e aria signorile.Tutti lo scambiano per un gentiluomo inglese in cerca di affari. Così come Carlo, anche Pietro Ceccarelli ed Enrico Malatesta erano in abito elegante quando accolsero l’ultimo arrivato.
Erano tre tra i rappresentanti più importanti del movimento anarchico italiano, riconosciuti e sostenuti anche dal Congresso di Berna. In occasione di quello stesso congresso internazionale anarchico, Cafiero e Malatesta avevano sottolineato l’importanza di un ruolo attivo sul territorio: i contadini, per quanto riportato dagli esponenti italiani, aspettavano l’arrivo di uomini coraggiosi capaci di guidarli nella liberazione dal nuovo padrone piemontese, sfruttatore come i Borboni, usurpatore e avido di tasse.
Con questo obiettivo, un gruppo di una trentina di anarchici la notte del 4 aprile si ritrova nella taverna Jacobelli decisi ad organizzare una rivoluzione. Per un caso fortuito, un gruppo di carabinieri insospettiti dall’assembramento così insolito per il piccolo paese, fece irruzione nella taverna. Il gruppo di anarchici, ormai scoperto, aprì un caotico e rocambolesco conflitto a fuoco contro le forze dell’ordine, ferendo due carabinieri e riuscendo a procurarsi una via di fuga.
Parte del gruppo riuscì a salvarsi e per due giorni vagò nei boschi dirigendosi a nord verso il vicino paese di Letino. Non immaginando di avere la fortuna dalla propria parte, la mattina dell’8 aprile, sventolando la bandiera rossa e nera al vento, la banda riuscì ad entrare in paese ed occupò il municipio.
Con il sostegno del popolo, per lo più contadini, si impossessarono di una partita di armi sequestrata a dei bracconieri. Dichiararono decaduto Vittorio Emanuele II, abolirono la tassa sul macinato e bruciarono tutti i registri sulle imposte, simbolo dello sfruttamento dei contadini.
Esaltati dalla vittoria appena riportata, replicarono la scena durante il pomeriggio nell’adiacente comune del Gallo. Gli anarchici festeggiavano, i contadini li inneggiavano come salvatori e liberatori, ma l’euforia era destinata a durare poco.
Le forze dell’ordine arrivarono in massa.
Esercito e carabinieri erano numerosissimi, forse anche alla luce della stretta amicizia tra Nicotera, ministro degli interni, e Achille del Giudice, il più ricco e potente proprietario terriero del Matese. I carabinieri inseguirono e accerchiarono gli anarchici, dal 9 al 11 questi cercarono di resistere e scappare come potevano, senza mai aprire uno scontro a fuoco diretto coi carabinieri. Il 12 aprile, esausti da quel tentativo di fuga, gli ultimi appartenenti al gruppo si arresero e furono arrestati.
Sicuri di andare in contro alla corte marziale, i militanti anarchici furono invece sottoposti a un regolare processo, anche grazie a Silvia Pisacane. Silvia aveva 25 anni e conosceva bene quelle zone in cui si mosse il gruppo anarchico. Intelligente e sveglia sapeva di politica, custodiva gelosamente le carte del padre Carlo, del quale aveva ben chiari gli ideali. Quando il padre Carlo rimase ucciso durante la sua famosa spedizione nel regno delle Due Sicilie, Silvia ancora piccola venne adottata dal compagno d’armi Giovanni Nicotera. Proprio grazie a questa sua parentela diretta con il ministro degli interni, Silvia riuscì a far ragionare il padre adottivo. La minaccia del giudizio sommario era scongiurata. Evitata la forca per corte marziale, il gruppo avrebbe comunque dovuto affrontare un tribunale pronto a condannarli tutti all’ergastolo.
Ancora una volta la fortuna è dalla parte degli anarchici. Vittorio Emanuele II morì quasi un anno dopo, e il potere finì tutto nelle mani del figlio Umberto I. La fortuna per il gruppo fu che il popolo contadino li sosteneva a pieno e, insieme a loro, in molti nutrivano simpatia per quelle idee rivoluzionarie che ricordavano il risorgimento. Per questo il re neo-incoronato, non volendo subito inimicarsi la popolazione, concesse un’amnistia per i crimini commessi e salvò così gli anarchici del Matese.
Ancora oggi una targa è appesa sul muro del comune a San Lupo: “Da questo luogo il 4 aprile 1877, mossero gli anarchici del gruppo di Cafiero e Malatesta, divisando un moto insurrezionale di libertà per le genti del meridione d’Italia. Un sogno di riscatto rimasto senza compimento” (San Lupo 24.4.1998)
Ogni lunedì, per non perdere la memoria, seguite la rubrica di Filippo Mellara Lo stesso giorno. Tutte le precedenti uscite [Qui]
Maub, i transistors e una rossa infame Un racconto di Carlo Tassi
Il battere ossessivo delle campane e dei tamburi nelle orecchie.
Poca concentrazione, le gambe ondeggiano a ritmo di big beat.
Sto seduto davanti al pc, provo a scrivere qualcosa prima d’andare a letto, ascolto la musica in cuffia per non svegliare mia moglie che dorme beatamente sprofondata nel divano.
Kikko osserva il movimento silenzioso dei miei arti inferiori, vorrebbe abbaiare ma non lo fa.
La birra rossa bevuta a cena non ha esaurito il suo effetto: sopore mistico, desiderio tantrico e gusto di malto. Lotto a colpi di martello nei timpani contro l’incedere implacabile della sonnolenza alcolica…
Maub!
Maub è orgoglioso dei suoi virus.
Li produce gratis per gli amici, quelli che avanzano li butta.
Ma butta oggi e butta domani, la comunità dei transistors si è risentita.
Ora Maub deve correre ai ripari se non vuole esser spento.
Esser spenti in un mondo elettrico non è molto divertente, ti perdi tutto il movimento. Le particelle non ti frizzano, niente ti fa più vibrare. Nessuna ripetizione, nessun batter d’onde.
Chi è spento si perde tutto il ritmo del mondo pulsar, e addio analisi mnemoniche, indici di Gramm e frattali sonori.
Maub, cuore di silicio puro al cento per cento, non perde la speranza, non si ossida facilmente e passa al contrattacco.
Raggi gamma a tutto spiano, un fascio ripetuto all’infinito.
La luminescenza è allo spasimo, mai vista una brillanza così!
Maub è concentrato, radioso e radioattivo come mai.
Il tempo resta a guardare, sospeso.
La comunità è azzerata: stato simbiotico di poliformica ritrosia, tant’è che resta muta e apatica.
Lo spazio nanocosmico non si scompone: i transistors sono mal sopportati da tutti ormai, pigri e obsoleti come vecchi topomiceti.
Maub s’accarezza il bulbo, scarico ma soddisfatto.
Il fatto è che quelle valvole tutte imparruccate sono ormai il passato, e lui lo sa bene.
Il tempo è ripartito, e io pure.
Le sinapsi han ripreso a commutare. Di nuovo sveglio finalmente!
Cos’è successo?
Maub… nella testa ho questo nome…
Ma chi è?
Maub… mmmh…
Devo smetterla d’ascoltare certa musica e bere certa birra!
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Come tanti bambini avevo paura del buio della notte. Bastava un’ombra scura, l’eco d’un passo o il fruscio del vento tra le foglie per sentire i brividi, per accelerare i battiti del cuore e aumentare il ritmo della camminata. Quel buio, però, mi affascinava. Era il mistero, l’al di là sconosciuto, la sfida a se stessi e al desiderio di crescere in fretta.
Ero attratto e intimorito, spaventato e incuriosito dai racconti della vita notturna dei vampiri, dei fuochi fatui che spuntavano dalla terra per seguire le persone che passavano, dai morti viventi che, sotto i raggi di una malefica luna, si svegliavano per conquistare il mondo dei vivi.
Condividevo con i miei compagni di gioco questi contrapposti sentimenti, ma ognuno di noi ostentava coraggio per darsi delle arie da grandi. Fu così che una sera, giocando con questa profonda paura, ci inventammo una gara.
Chi era veramente coraggioso doveva dimostrarlo. Sfidando la notte e la morte, doveva raggiungere il cancello di ferro del cimitero cittadino e legare alle sue sbarre, come prova dell’azione compiuta, un laccio di corda.
Recuperammo una vecchia corda. La tagliammo. Ognuno prese il suo pezzo. Gli occhi socchiusi, in segno di sfida, nascondevano tutte le nostre paure. Ci voleva coraggio ad affrontare il buio, il lungo viale di cipressi, a toccare quel cancello un po’ arrugginito che custodiva i defunti. Ci dileguammo tra i vicoli delle case, convenendo che si sarebbe visto il mattino dopo, dal numero di lacci legati al cancello, quanto si era coraggiosi.
Nessuna corda fu trovata allacciata alle sbarre del cancello del camposanto. Ognuno di noi restava un fanciullo, nonostante la voglia di bruciare le tappe e di diventare grande in fretta.
Passarono diversi anni. Ormai sedicenne, durante le vacanze estive, avevo cominciato ad aiutare mio padre nei lavori di muratura, anche per racimolare un po’ di risorse utili a proseguire gli studi.
Un giorno, sul finire dell’estate, mia madre mi svegliò presto. Ricordo che era ancora buio. Dovevo raggiungere mio padre e aiutarlo a svolgere un lavoro urgente di muratura nel cimitero del paese. Lui era già partito da un’ora per mettere avanti il lavoro. La parola “cimitero”, pronunciata da mia madre subito dopo avermi svegliato, richiamò tutto il timore rimasto assopito in quegli anni e la vecchia sfida che, né io né i miei compagni, avevamo saputo onorare.
Dopo aver bevuto il caffè e raccolto il sacchetto con la colazione, salii in bicicletta e mi avviai nel fresco delle prime ore del giorno, ovattate nel silenzio che ancora regnava sul paese. Mancava poco all’alba, i cipressi neri lungo il viale si stagliavano alti contro il cielo blu scuro che, lentamente, si faceva trasparente. Mi sembrava che, da dietro il tronco d’ogni albero, potesse improvvisamente spuntare un’ombra pronta a sbarrarmi il passo. Col cuore che, inconsapevolmente, aumentava il ritmo dei battiti, accelerai la corsa spingendo con forza sui pedali, la testa bassa. Pensavo che sarebbe stato difficile prendermi se andavo veloce.
Dopo alcuni interminabili minuti ero davanti al cancello di ferro. Era socchiuso. Tra le sbarre intravidi una miriade di piccole luci tremolanti contro il bianco quasi fosforescente dei marmi. Con tutti i muscoli del corpo in tensione, i denti serrati, la bocca rigidamente chiusa, scesi dalla bicicletta. Volsi di nuovo il mio sguardo al cancello. Le punte di metallo puntavano il cielo. Pensai: “…vediamo se adesso riesci a superare la tua prova…”.
Spinsi con una mano il cancello che s’aprì, come nei classici film dell’orrore, con un sinistro cigolio. Entrai quasi in punta di piedi. L’eco dei miei passi sulla ghiaia del sentiero rimbalzava da un punto all’altro del muro di cinta. Non capivo se qualcuno mi seguisse o, invisibile, mi stesse venendo incontro. Se erano in tanti o fosse uno solo a minacciarmi. E allora mi fermavo in vigile ascolto e tutto tornava silenzioso.
Fui felice d’intravedere la figura di mio padre che, sotto il lume di una lampada appesa ad un’asta di legno, aveva già preparato l’impasto di calce necessario ad avviare il lavoro. Anche il cielo s’era fatto più chiaro e il sole, con la sua benefica luce, stava ormai per spuntare.
La Nato chiede ai suoi 29 soci dal 2014 di portare le spese militari al 2% del Pil. Per l’Europa sarebbero 81 miliardi in più, pari a 253 miliardi di euro, di cui +11 miliardi dall’Italia ogni anno (da 28 a quasi 40).
Dal programma europeo PNRR l’Italia riceve in sei anni 68,9 miliardi a fondo perduto, mentre gli altri sono a debito (cioè li dovremo restituire con gli interessi). Se facciamo la somma di quanto dovremmo spendere in più per armi nei prossimi 6 anni fanno la stessa cifra. Il che significa che dall’Europa non verrebbe (di fatto) alcun aiuto su ciò che interessa davvero ai cittadini (welfare), ma saremmo costretti a spenderli in armi e poi ad libitum 12 miliardi all’anno in più.
Dati spesa militare nel mondo, anno 2021
Ammesso e non concesso che si debba aumentare la spesa militare in Europa non si capisce perché non si calcoli tutta la spesa europea, in quanto è vero che ci sono paesi come Italia, Spagna e Germania che spendono meno del 2%, ma altri dieci (su 19) che spendono di più e con una razionalizzazione (abbiamo 17 tipi di carri armati, 4 tipi di aerei,…) si potrebbe avere una spesa più efficace per la difesa europea, spendendo molto meno. Come scrivono Manconi e Raul Castro su lavoce.info l’Europa spende sempre meno per i progetti europei (quelli che servono) e sempre più per le armi nazionali che foraggiano solo l’industria bellica.
Non si capisce infatti a cosa serva l’Europa se cedere sovranità per i singoli Stati non comporta anche vantaggi per i propri cittadini.
Vediamo infatti cosa succede in un paese come la Grecia (povero, come stiamo diventando anche noi dal 2008) che ha una spesa militare più alta (3,5% del suo Pil). Ha dovuto comprare 170 carri armati Leopard dalla Germania e altri 223 più vecchi dismessi costati 2,1 miliardi, 18 caccia francesi per 2,5 miliardi, tre fregate francesi (valore ignoto) e 2 sommergibili tedeschi (1,3 miliardi).
Guarda caso tedeschi e francesi sono quelli che hanno fatto i prestiti alla Grecia, imposto l’austerity, acquistato (coi Cinesi) molte loro imprese e…venduto vecchie armi ad un paese in cui si sono tagliate pensioni e salari del 30%, raso al suolo socialmente ed economicamente dopo l’integrazione con l’Europa che ha votato una direttiva nel 2018 per non pagare l’Iva sulle vendita di armi intra Ue.
A me piacerebbe che l’Europa ci imponesse che le spese per l’Istruzione fossero almeno il 5% (come la media UE) e fossimo costretti a spendere altri 15 miliardi in istruzione (per non dire quello che ci succederà nella sanità in caduta libera come finanziamento reale nei prossimi anni) anziché in armi in un paese che avrà nel 2022 una ennesima recessione (Pil + 2,8%, inflazione + 6%…se va bene) e che ha avuto un Pil pro-capite che è sceso dal 2000 al 2020 da 100 a 92, mentre quello tedesco, francese e spagnolo sono saliti, per non dire dei paesi dell’Est Europa cresciuti del doppio.
Il che significa che dalla recessione del 2008 l’Italia non si è più ripresa. Dati analoghi sono disponibili per il tasso di occupazione (variazione assoluta) che in Italia non cresce.
Un’Europa subordinata agli Americani ci porterà ad un crescente impoverimento (in particolare gli italiani) e forse alla sua implosione (che è poi quello che vogliono gli Usa). A meno che non si abbia la forza di diventare un’Europa Federale e indipendente – anche dalla Gran Bretagna (che ci condiziona più ancora di quando era nella UE) – da Usa e Israele (tra cui tra un po’ compreremo anche il gas) – che non può essere alla mercé dei paesi dell’Est Europa, compresa l’Ucraina a cui Draghi ha proposto assurdamente di entrare (ma che si dovrà certamente aiutare).
Avete notato che tutti i paesi dell’Est, prima di entrare nella UE, sono entrati nella Nato? Ma dov’è andata a finire la politica italiana multilaterale che abbiamo saggiamente sviluppato per 70 anni, essendo noi immersi nel Sud Europa, nei pressi dell’Africa e Medio Oriente?
Breve nota sul gas. Dalla Russia importiamo 155 miliardi di metri cubi su 400 (Italia: 29 su 76); gli Usa possono darci 15 miliardi entro il 2022 e 50 entro il 2030 (a prezzo più alto). L’Europa impone di stoccare il 90% (ora siamo al 26%) ma il Dio mercato lo impedisce, chi compra ora al prezzo spot così alto? I funzionari europei dovrebbero dircelo. L’Olanda si oppone a mettere un tetto ai prezzi (intanto fa il paradiso fiscale per FCA & company). Ma voi lo sapevate che si è obbligato l’Acquirente Unico (quello che compra energia e gas per tutti gli utenti della tutela) ai prezzi spot di mercato e non a quelli più vantaggiosi con contratti a lungo termine ed è questo, come dice Besseghini (presidente di Arera, Authority dell’Energia), a far aumentare i prezzi?
Cari amici, o si costruisce una vera Europa che interviene sulle protezioni importanti con vere Authority e strategie di Governo non liberiste (esteri, difesa, materie prime, agricoltura, energia e gas a prezzi certi) a tutela dei suoi cittadini, oppure tutti a casa: un’Europa liberista, militare, digitale, 5G, in cui spadroneggiano le multinazionali e la finanza anglosassoni ci impoverisce sempre più, come sta avvenendo dal 2008.
Una delle notizie extra-campo di Euro 2020 fu senza dubbio il gesto di Cristiano Ronaldo in conferenza stampa: l’ex giocatore della Juventus spostò dall’inquadratura due bottiglie di Coca Cola, ossia uno dei principali sponsor della competizione, e invitò il pubblico a bere più acqua. Quel gesto contribuì all’immediato deprezzamento delle azioni della stessa Coca Cola, il cui valore di mercato scese da 242 a 238 miliardi di dollari.
Ebbene, ciò che colpisce di questa vicenda non è l’atteggiamento di Ronaldo – che rispecchia peraltro la sua maniacalità nella cura del corpo – né il calo dell’1,6% delle suddette azioni, bensì la conferma di quanto lo star power abbia cambiato, e continui a cambiare, le regole non scritte della comunicazione sociale, politica ed economica.
Al pari di artisti e influencer, gli atleti più famosi al mondo indirizzano il dibattito pubblico e condizionano l’andamento di alcuni mercati. Basti pensare, ad esempio, a ciò che è successo con il monologo di Fedez al concerto del primo maggio 2021, nonché all’impegno socio-politico di LeBron James nella lotta al razzismo sistemico negli Stati Uniti [Qui] o all’attivismo della tennista Naomi Osaka.
Il potere comunicativo degli atleti professionisti è aumentato poiché non c’è più l’esclusiva sui loro contenuti: infatti, oltre all’impareggiabile cassa di risonanza dei social network, i protagonisti dello sport hanno a disposizione delle piattaforme in cui, senza filtri giornalistici o televisivi, esprimono opinioni e raccontano le loro storie. Mi riferisco perlopiù a The Coaches’ Voice, a Untold Athletes e a The Players’ Tribune, sul quale, a proposito di razzismo, è uscito l’anno scorso un lungo e personalissimo articolo del giocatore del Chelsea Antonio Rüdiger che vi consiglio di leggere [Qui].
Insomma, lo sport professionistico si sta adattando a quella disintermediazione che già da qualche anno ci fa porre delle domande sul futuro dei media tradizionali, e specialmente sulle modalità con cui quest’ultimi riusciranno a coinvolgere un pubblico che, inevitabilmente, sarà sempre più abituato al rapporto diretto con i singoli atleti.
«Quando si adorano gli idoli si calpestano gli uomini e si oscura la verità».
Queste parole di don Primo Mazzolari [Qui], scritte sul muro della parrocchia di Borgo Punta, le si incrociava ogni volta che si entrava nel cortile. Le aveva fatte scrivere il parroco, don Piero Tollini, a grandi caratteri bianchi.
Forse perché vigilassimo su noi stessi, avertendoci della tentazione che si annida anche − e soprattutto − in una parrocchia di trasformare Dio in un idolo, di misurare lui su di noi anziché lasciarlo al suo posto, nella sua differenza e alterità, e attendendo che sia lui a farsi prossimo a noi, in un’alleanza che è sempre una relazione di due libertà: un rapporto nella fede, nell’affidamento, nell’ascolto profondo della sua Parola.
Il tempo della lontananza di Dio e della sua distanza va compreso come un momento di quella dialettica della relazione interpersonale che impedisce l’assorbimento l’uno nell’altro, ma garantisce l’unione nella differenza, l’invisibilità nel visibile: «l’unione, pur scartando la separazione, ha mantenuto la differenza» (Massimo il Confessore, Ambigua, PG 91, 1056c).
ATEISMO E IDOLATRIA
L’antagonista della fede e della vera religiosità umana non è tanto l’ateismo ma l’idolatria, che svuota l’umano dal “sentire pietà” verso gli altri rendendo come pietra il cuore di carne: L’idolatria rende deserta, «terra desolata» (T. S. Eliot), quella «sede appassionata dell’amore non vano» (Ungaretti): compassione indicibile “palpito nelle umane tenebre”.
L’idolatria, come zucchero filato al palato, evapora in un nulla e, parimenti, essa dissolve nel nulla la dignità, la relazione, il riferimento alla libertà e al diritto altrui. Tutto viene schiacciato quando si assolutizza ciò che non lo è, in nome di una presunta trascendenza, purezza delle idee e delle cose, dei beni, dei valori. L’epilogo è riduzione delle persone a marionette, delle quali si sfigura e sopprime il bene più grande, il volto e la stessa vita.
«Non c’è niente di più religioso al mondo del nostro rapporto con gli altri» ci ricordava spesso don Piero nelle sue omelie, perché in esso si dà quell’ incontro con il mistero della vera pietà, con il volto dell’umanità di Gesù, il cui sguardo è generativo della vera religiosità.
L’apostolo Paolo scrivendo a Timoteo gli ricorda: «Non vi è alcun dubbio che grande è il mistero della vera religiosità: «egli fu manifestato in carne umana/ e riconosciuto giusto nello Spirito,/ fu visto dagli angeli/ e annunciato fra le genti,/ fu creduto nel mondo/ ed elevato nella gloria», (1Tm 3,14-16).
Don Piero ci ricordava proprio che «la linea di demarcazione ora non è fra Dio e la sua negazione, ma fra l’idolo e il Dio vero. Anche fra i cristiani ci sono degli idolatri che hanno un feticcio che chiamano Dio, ma che ha niente a che fare col Dio vero – è un Dio morto, astratto, ideologico.
Ma chi è veramente Dio? Dio è la garanzia di sistemi di dominazione? Oppure Dio è la garanzia dei processi di liberazione? Abbiamo udito le parole di Mosè agli israeliti che sono sul punto di entrare nella terra promessa: è un Dio che ascolta il grido dei maltrattati, è un Dio geloso dell’uomo, che non riceve il fumo delle vittime, delle candele e degli incensi, è un Dio vindice dei poveri. Questo è il Dio della Bibbia, il Dio di Gesù, il Dio della liberazione che trova la sua piena ed ultima manifestazione in Gesù Cristo».
Nell’enciclica Lumen fidei− la prima enciclica di papa Francesco, del 2013, testo iniziato da papa Benedetto XVI poi, nell’anno della fede, assunto e continuato dallo stesso Francesco − si legge: «La storia di Israele ci mostra ancora la tentazione dell’incredulità in cui il popolo più volte è caduto. L’opposto della fede appare qui come idolatria.»
Mentre Mosè parla con Dio sul Sinai, il popolo non sopporta il mistero del volto divino nascosto, non sopporta il tempo dell’attesa. La fede per sua natura chiede di rinunciare al possesso immediato che la visione sembra offrire, è un invito ad aprirsi verso la fonte della luce, rispettando il mistero proprio di un Volto che intende rivelarsi in modo personale e a tempo opportuno.
Martin Buber [Qui] citava questa definizione dell’idolatria offerta dal rabbino di Kock: vi è idolatria “quando un volto si rivolge riverente a un volto che non è un volto”. Invece della fede in Dio si preferisce adorare l’idolo, il cui volto si può fissare, la cui origine è nota perché fatto da noi.
Davanti all’idolo non si rischia la possibilità di una chiamata che faccia uscire dalle proprie sicurezze, perché gli idoli “hanno bocca e non parlano” (Sal 115,5). Capiamo allora che l’idolo è un pretesto per porre se stessi al centro della realtà, nell’adorazione dell’opera delle proprie mani.
L’uomo, perso l’orientamento fondamentale che dà unità alla sua esistenza, si disperde nella molteplicità dei suoi desideri; negandosi ad attendere il tempo della promessa, si disintegra nei mille istanti della sua storia. L’idolatria è movimento senza meta da un signore all’altro, non offre un cammino, ma una molteplicità di sentieri, che non conducono a una meta certa e configurano piuttosto un labirinto.
La fede consiste nella disponibilità a lasciarsi trasformare sempre di nuovo dalla chiamata di Dio. Ecco il paradosso: nel continuo volgersi verso il Signore, l’uomo trova una strada stabile che lo libera dal movimento dispersivo cui lo sottomettono gli idoli».
L’IDOLO E L’ICONA
La differenza tra l’idolo e l’icona è stata analizzata da Jean-Luc Marion [Qui], L’idolo e la distanza, Milano 1979). Nell’idolo ogni distinzione e differenza del soggetto nella relazione viene annullata, l’alterità è assorbita nell’identità; l’invisibilità, il mistero dell’altro, il sacramento del suo volto vengono ridotti solo all’ambito della loro visibilità: il suo volto viene pietrificato, negata la sua libertà.
«L’idolo impone la propria visibilità, si dà a vedere, avvince lo sguardo, lo ferma su di sé, su ciò che esso presenta allo sguardo sensibile, al quale non permette di evadere, di attraversarlo, di innalzarsi verso la realtà invisibile che esso pretende di rappresentare: l’idolo assorbe il divino in se stesso, lo limita alla misura che lo sguardo può sopportare, vale a dire, in definitiva, mirare, produrre lo sguardo umano…
L’icona, al contrario, illuminata dall’interno, «fa sorgere una presenza personale», conduce alla trascendenza, riveste un valore mistico e quasi sacramentale» (Joseph Moingt[Qui], Immagini, icone e idoli di Dio, in Concilium 2001/1, 173-174).
L’icona lascia che l’altro si manifesti, si ritira per fare spazio all’altro e perchè sorga il mistero di cui è portatore, non fissa l’invisibile nel visibile, lo lascia passare, si lascia attraversare e interpellare da questi. Nell’incontro dei volti si dà la presenza di Dio.
Vi è un’immagine di Dio in ogni persona umana che, per la solidarietà del Cristo al destino di ogni uomo, viene a riflettersi in quella del Figlio, nel suo volto. Così l’umanità di Gesù immagine del mistero di Dio in ogni uomo si rivela l’immagine dell’umanità di Dio per noi: «Se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4, 20).
VITELLO D’ORO E VITELLO GRASSO
Preparando la riflessione del vangelo di domenica scorsa, mi era capitato di leggere un testo dell’Esodo, che raccontava del vitello d’oro e così mi era venuto quasi spontaneo domandarmi quale fosse la differenza tra il vitello d’oro del Sinai e il vitello grasso della parabola del Padre misericordioso e del figlio perduto e ritrovato, che era come morto ma poi il Padre, avendolo riavuto vivo, gli ridona la dignità figliale, imbandendo una grande festa.
Mi sono detto: guarda come il vangelo ci viene dato perché smascheriamo gli idoli, anche quelli nascosti in casa nostra; l’idolo, quello del figlio maggiore era la primogenitura, il patrimonio, l’eredità che rischiava di esser sperperata ancora una volta; non gli importava né del Padre né del fratello. Lui vagheggiava almeno un capretto – questo era il piccolo idolo che custodiva nel cuore − per far festa e mostrarsi il più grande, il futuro padrone di casa, vantandosene con i suoi amici.
Il vangelo decostruisce gli idoli e fa ritrovare le relazioni più autentiche, quelle che fanno vivere, relazioni da costruire fissando lo sguardo nel volto misericordioso del Padre del quale Gesù dice: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36).
Mentre Mosè era sul monte il popolo non sopportava la sua assenza, né quella di Dio e volle farsi un’immagine. Per questo scimmiottò, prese a modello gli dei dell’Egitto che erano raffigurati con sembianze di animali. Così Aronne costruì un vitello, usando l’oro che il popolo aveva ricevuto dagli egiziani all’uscita dall’Egitto, monili, collane vasellame d’oro.
L’idolo depreda, spoglia dei beni, svuota, succhia via la vita da coloro che si fanno suoi adoratori. Pensate a chi fa del denaro il proprio idolo: finisce fatalmente per diventare avaro, povero. È lui stesso, nella sua insensatezza, a privarsi di ciò che più brama.
Adoratori del potere, della guerra, che fanno di se stessi il proprio dio e, pur di assomigliargli, distruggono tutto ciò e tutti coloro che incrociano sulla loro strada, sacrificano e immolano al moloch di turno divinità abbinata al fuoco distruttore.
Al contrario, il vitello grasso della parabola è simbolo di una paternità di Dio che dona tutto, anche il proprio figlio, per offrirci con lui ogni cosa. Una paternità, quella della parabola, che non teme di perdere tutto il suo patrimonio per riavere il figlio, il quale privo di tutto – tanto che «avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla» (Lc 15, 16) − viene nuovamente rivestito di tutto, persino dell’anello d’oro che aveva perduto, simbolo della dignità figliale ritrovata.
Una persona della parrocchia mi ha scritto che il vitello grasso simboleggia anche la grandezza e l’abbondanza del perdono (“70 volte 7”), che si trasforma in festa di rinascita: non dovevamo far festa dice il Padre al maggiore perché questo tuo fratello era perduto ed è stato ritrovato, era morto ed è tornato in vita? Anche in parabola non ci viene narrata forse la Pasqua di risurrezione?
Continuo anche oggi, nei vespri della domenica ad intonare in latino l’incipit del salmo 114 (113) il canto della speranza: In exitu Isräel de Aegypto: «Quando Israele uscì dall’Egitto, la casa di Giacobbe da un popolo barbaro, Giuda divenne il suo santuario, Israele il suo dominio». Lo vado salmodiato sull’armonia gregoriana, come quando lo cantavo appena entrato in seminario. Ogni volta mi rammenta il canto nuovo della Pasqua a noi ancora in cammino, protesi verso di essa.
Dice il Midrash: «Quando Israele uscì dall’Egitto, ci fu il cantico del mare (Es 15); quando stette presso il monte Sinai per ricevere la Torà, essi intonarono il cantico dell’alleanza, ossia il Cantico dei cantici: “Mi baci con i baci della sua bocca”. E così via, fino al momento in cui “lo vedranno nel mondo avvenire” e dal loro cuore sgorgherà un cantico nuovo».
FUGGIRE DALL’EGITTO E FUGGIRE DAGLI IDOLI VICINI E LONTANI
Se l’anima fuggendo dall’Egitto
scorgesse subito i colli di Chanan,
se sui frantumi degli dei stranieri
brillasse subito il volto immortale
e dagli sguardi della nostra rinuncia
già scaturisse amore,
quali ali darebbe al nostro passo
questa certezza anche tra pietre e spini!
Noi non sappiamo invece quante miglia dividano
l’ingresso nel deserto dall’incontro con Lui:
ci sgomenta la terra di nessuno
non più nostra, non ancora di Dio.
(M. Guidacci [Qui], In exitu, da Un cammino incerto).
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]
Ieri, 30 marzo 2022, si è tenuta una Giornata di Mobilitazione Nazionale promossa dal CONPAL(Coordinamento Nazionale Parenti Associazioni Lavoratrici delle RSA/RSD/RSP). Le mobilitazioni svoltesi nelle città di Torino, Milano, Firenze e Roma hanno portato le delegazioni ad incontrare i Prefetti e il Ministero della Salute.
La delegazione di Roma, formata da Claudia Sorrentino, Annamaria Iantosca e Raffaella Peder dei comitati di parenti ed Emilia Galtieri del Forum per il Diritto alla Salute, ha incontrato Andrea Costa Sottosegretario, Alessandro Milonis Vicecapo di Gabinetto, dott. Patacchia Luigi della Segreteria del Ministro.
Tema dell’incontro: le residenze e le strutture socio-medico-assistenziali pubbliche e private convenzionate per persone anziane e disabili.
La delegazione ha chiesto:
-che si ritorni immediatamente alla normalità per le visite, uscite e rientri in famiglia per le persone rinchiuse da 2 anni in queste strutture, all’interno delle quali si registra un innalzamento della mortalità a causa dei gravi traumi psico-fisici subiti. L’affetto, il contatto fisico sono parte integrante e fondamentale della cura;
-che venga tolta subito la discrezionalità lasciata dal Governo ai direttori sanitari delle strutture che, di fatto, ha generato il non rispetto dei diritti umani e di cura con l’allontanamento dei parenti e dei volontari;
-che sia aperto un tavolo di lavoro con la partecipazione del CONPAL che abbia finalmente il coraggio di affrontare una situazione complessa e problematica già da molti anni.
Infatti, già prima della Pandemia, si aveva la forte necessità:
-di norme quadro nazionali che non permettessero alle Regioni di stabilire dei criteri di accreditamento a ribasso;
-il rispetto di tali criteri, condizione che non si verifica nella maggior parte delle strutture.
Da sempre queste realtà socio-medico-assistenziali registrano scarsità di personale, costretto a condizioni di lavoro precarie e poco dignitose, che denuncia apertamente di non poter assicurare le cure necessarie alle persone, “non ci possiamo neanche fermare al capezzale di una persona che sta morendo, non ne abbiamo il tempo!” raccontano nelle loro denunce pubbliche.
Negli ultimi anni si è registrato un grande aumento di strutture che offrono un numero di posti letto eccessivi (dai 40 ai 180) e che, per ovvi motivi, non potranno mai garantire la famigliarità e la serenità dei luoghi; sorgono in posti isolati dalla società; spersonalizzano le persone trattandoli come corpi vuoti da gestire, come se non avessero una storia, un’identità, un’anima da rispettare e valorizzare. La totale mancanza di alternativa per le famiglie: non esiste l’assistenza domiciliare e i soldi, invece di essere erogati direttamente alla singola persona in difficoltà o alla sua famiglia per provvedere autonomamente alla cura, vengono destinati al finanziamento di queste strutture che hanno dimostrato negli anni di avere come obbiettivo il profitto e non la cura.
Le autorità presenti all’incontro hanno ascoltato la delegazione e accolto le istanze del Coordinamento. Il Sottosegretario Costa ha espresso la necessità di dividere i livelli: quello emergenziale, della fase che stiamo vivendo, prendendosi la responsabilità di parlare con il Ministro per cercare di rispondere immediatamente al ripristino e alla valorizzazione delle relazioni tra le persone nelle strutture e i familiari e i volontari.
E un livello più a lungo termine che si propone di analizzare le problematiche complesse di queste strutture. Per questo si è dato disponibile personalmente a rincontrare in breve tempo il Coordinamento Nazionale nell’ambito di un Tavolo in cui sarà invitato anche il Presidente della Commissione Stato-Regioni.
La delegazione giudica positivo l’incontro. Il Coordinamento Nazionale attende un segnale immediato e forte del Governo sulla discrezionalità lasciata alle direzioni sanitarie e di essere effettivamente convocato ad un tavolo di lavoro in cui al centro sarà possibile mettere finalmente i diritti umani delle persone fragili. Il CONPAL auspica che gli impegni presi oggi dal Ministero vengano concretizzati al più presto. Già previste iniziative per il 7 aprile Giornata Mondiale della Salute.
Coordinamento Nazionale Parenti Associazioni Lavoratrici delle RSA/RSD/RSP
“È giunto il momento che gli oppositori alla guerra di tutti i paesi si uniscano prima che sia troppo tardi”.
Lanciato da storici e attivisti del Sessantotto italiano e tedesco, questo appello è un duro atto di accusa contro Putin e contro chi sta sfruttando la guerra per arricchirsi.
30 MARZO 2022, Redazione PeaceLink
Attivisti dei movimenti sociali, lavoratori, scienziati, operatori culturali di tutti i paesi!
Il mostruoso è accaduto: la guerra è nuovamente tornata nella nostra quotidianità in Europa. Attualmente, le grandi città in Ucraina stanno diventando campi di battaglia. Persone pacifiche vengono fatte a pezzi da proiettili e razzi o seppellite sotto le macerie delle loro case.
Coloro che sopravvivono agli attacchi barbarici nelle cantine o nelle gallerie della metropolitana sono spinti a fuggire dalla fame, dal freddo, dalla mancanza d’acqua e dall’oscurità. La barbarie è tornata.
Per più di 20 anni, questo inferno si è andato sviluppando e si è diffuso: prima in Cecenia e Jugoslavia, poi in Afghanistan, Iraq, Libia e oggi in Yemen, Siria e altre regioni del Medio Oriente.
Ora ha raggiunto di nuovo l’Europa e ha assunto proporzioni catastrofiche con la guerra di aggressione russa contro l’Ucraina. Gli agglomerati metropolitani abitati da milioni di persone sono diventati la zona di battaglia più importante per i due eserciti.
La brutalità dei conflitti militari ha molte cause. Esprime la crescente rivalità tra le grandi potenze imperialiste, che si sono costruite negli ultimi decenni dietro le facciate della globalizzazione economica mondiale.
Il sistema mondiale capitalista ha mostrato ancora una volta la doppia faccia. Da un lato, ha fatto affidamento sulla proficua pace mondiale delle catene di merci e dei sistemi informativi globalizzati per ridefinire lo sfruttamento delle classi lavoratrici e raggiungere con esso gli angoli più remoti del pianeta.
D’altra parte, ha scatenato lotte sempre più violente per il controllo delle zone di influenza geostrategiche. Tipico di questo è la Cina, che ha combinato il suo progetto di collegamento tra i continenti della Nuova Via della Seta con rivendicazioni territoriali su Taiwan e il Mar Cinese Meridionale.
Anche il comportamento degli USA è esemplare, in questo senso . Al fine di garantire la sua egemonia mondiale sotto il profilo economico, Washington ha fatto della sua controparte in Asia orientale l’estensione territoriale del suo potenziale produttivo.
Allo stesso tempo, Washington sta sabotando il progetto cinese della Nuova Via della Seta a tutti i livelli e sta facendo tutto il possibile per minare le relazioni economiche pacifiche tra Cina, Russia ed Europa.
Contestualmente, il governo degli Stati Uniti ha posizionato il suo sistema di alleanze militari, la NATO, contro la Federazione Russa per impedire che il successore del defunto impero sovietico venga integrato in un’Europa allargata con un ordine di pace stabile e garanzie di sicurezza reciproca.
Il sabotaggio del North Stream 2 mostra che qui la pressione economica è importante tanto quanto lo è nel posizionamento contro la Cina: ciò che gli USA hanno ottenuto contro la Russia si è rivelato un boomerang nel caso della Cina e ha favorito l’ascesa della Cina a potenza mondiale concorrente.
Infine, come terzo fattore di barbarie, è entrato in gioco il fondamentalismo islamico, una variante profondamente regressiva dell’antimperialismo che aspira a una teocrazia patriarcale.
Questi sviluppi sono diventati minacciosi per l’umanità perché tutte le parti coinvolte nel conflitto sono state in grado di fare affidamento su materiale bellico la cui avanzata tecnologia ne accresce il potenziale distruttivo rispetto ai sistemi d’arma convenzionali.
Perché la storia dell’attacco russo non può essere ignorata
La guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, scatenata il 24 febbraio, può essere compresa solo in questo contesto. Quanto sta accadendo può essere spiegato anche da questi collegamenti.
Quando l’impero sovietico è crollato, gli Stati Uniti hanno acquisito l’approvazione della Russia per l’inclusione di una Germania unificata nella NATO in cambio della promessa di non espandere ulteriormente la NATO nell’Europa orientale. A quel tempo, le possibilità di democratizzazione e apertura della Russia verso l’Europa erano abbastanza buone.
Tuttavia, questa opportunità è stata persa dopo alcuni anni. Dal 1997 è iniziata l’espansione apertamente promossa verso est della NATO e, al suo seguito, dell’Unione Europea. Questa evoluzione è stata vista come un’umiliazione e un pericolo dall’élite del potere russo e dalla maggioranza della popolazione.
C’erano anche tendenze opposte a questo processo, soprattutto in Francia e Germania; tuttavia, sono state vanificate dalla nuova alleanza privilegiata tra gli USA e gli stati dell’Europa orientale. Questa arroganza ha creato le condizioni esterne in Russia per l’attuazione di una strategia di imperialismo revisionista che era stata propagata da parti dell’élite di potere sin dalla caduta dell’Unione Sovietica e poi culminata nell’era di Putin.
Anche i segnali di allarme provenienti da questo nuovo corso – la guerra in Georgia del 2008 e l’annessione della Crimea nel 2014 – sono stati ignorati. Invece, la costruzione dell’infrastruttura della NATO è stata portata avanti in Ucraina, sebbene il paese fosse stato coinvolto in una guerra civile con il coinvolgimento indiretto della Russia dal 2014.
Le manovre congiunte delle forze armate ucraine con la Nato nel settembre 2021 hanno poi segnato il superamento della linea rossa.
L’avanzata diretta della NATO di 1.200 km verso il confine occidentale della Russia è stata insopportabile per la potenza e l’élite militare russa, che hanno deciso di condurre una guerra aggressiva contro l’Ucraina prima che l’Ucraina entrasse formalmente nella NATO.
Queste considerazioni non sono una giustificazione. Niente può legittimare la guerra di aggressione contro l’Ucraina.
Si tratta solo di chiarire che questa catastrofica guerra di aggressione è stata preceduta da atti di aggressività imperialista, anche da parte dell’Occidente, che hanno provocato una logica geostrategica comune a tutte le élites di potere imperialistiche nella Russia di Putin.
Immaginiamo se la Federazione Russa avesse firmato un patto militare con Cuba e il Messico e stesse costruendo un’infrastruttura militare contro di loro nei Caraibi e appena fuori dal confine meridionale degli Stati Uniti!
Questo confronto chiarisce che non possiamo essere parte in questo gioco catastrofico delle potenze imperialiste. Condanniamo con la massima fermezza l’aggressione russa. Ma respingiamo anche risolutamente le élites di potere dell’Occidente.
Invece di ammettere il fallimento dei loro obiettivi di espansione eccessiva, ora stanno imponendo un giro di vite all’escalation bellica e stanno conducendo una campagna per una guerra economica globale, nonché per operazioni di soccorso militare di vasta portata e di consegne di armi.
Siamo consapevoli che con questa posizione rappresentiamo attualmente solo una piccola minoranza rispetto alle parti in gioco, dirette e indirette, nella guerra in Ucraina..
Per uscire dalla logica dei guerrafondai
Ma non dobbiamo rinunciare alla nostra identità, alla nostra cultura che si è formata nelle lotte sociali e di emancipazione per l’uguaglianza e l’autodeterminazione, contro la logica della guerra imperialista e il cinismo dei guerrafondai di tutte le parti.
Contro la barbarie
No ad una guerra all’ultimo uomo
Il massacro militare, l’uccisione di civili, i bombardamenti, la fame e lo sfollamento di massa della popolazione ucraina debbono cessare immediatamente e si debba fermare la distruzione delle infrastrutture sociali.Non dobbiamo permettere alla NATO e all’Occidente di consentire all’Ucraina una difesa fino all’ultimo uomo né dobbiamo permettere allo Stato maggiore russo di mandare alla morte decine di migliaia di soldati e di coscritti.
I nostri figli e nipoti non dovranno chiederci perché non abbiamo fatto nulla per impedire che il conflitto ucraino degenerasse in una grande guerra europea o addirittura in un Armageddon nucleare.
Questo pericolo è cresciuto costantemente a causa del massiccio supporto militare degli USA e della NATO e delle gravi sanzioni economiche. Non possiamo essere spettatori passivi. Se la vite dell’escalation viene girata ulteriormente, nelle prossime settimane potremmo trovarci tutti di fronte agli orrori della guerra, proprio come lo è attualmente la popolazione civile ucraina.
Chiediamo: 1. Un cessate il fuoco immediato e il ritiro di tutte le truppe armate da ogni centro abitato 2. Il ritiro delle truppe russe dall’Ucraina. Il disarmo e lo scioglimento di tutte le forze paramilitari sul territorio dell’Ucraina 3. L’immediata cessazione delle consegne di armi e il coinvolgimento segreto della NATO nella guerra 4. L’immediata revoca delle sanzioni e la fine della guerra economica 5. L’avvio dei negoziati di pace tra Russia e Ucraina sotto la supervisione dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione). Garanzia della neutralità permanente dell’Ucraina e smantellamento dell’infrastruttura NATO in Ucraina in cambio di garanzie di sicurezza russe complete e sostenute a livello internazionale. 6. L’istituzione dell’Ucraina come Stato ponte indipendente tra NATO/UE e Russia sotto l’egida dell’OSCE. Ricostruzione bilaterale e trattati economici dell’Ucraina con l’UE e l’Unione doganale post-sovietica.
Siamo ben consapevoli che queste richieste rimarranno parole al vento finché non saranno fatte proprie dai movimenti sociali, dalle classi lavoratrici e dall’intellighenzia critica in uno sforzo coordinato a livello internazionale.
È quindi giunto il momento di mobilitare un’ampia resistenza antimilitarista che sia integrata in modo completo e transnazionale nelle lotte sociali. Questo approccio non è affatto senza speranza, come ha mostrato la resistenza contro la guerra del Vietnam nella rivolta sociale globale della fine degli anni ’60.
Proponiamo quindi come primi passi di mobilitazione:
Sviluppiamo di un ampio movimento di solidarietà per gli obiettori di coscienza
1. L’interruzione di tutte le consegne di armi all’Ucraina e alle altre zone di guerra del mondo attraverso azioni di boicottaggio 2. Il lancio di una campagna di rifiuto del servizio militare in tutti gli eserciti coinvolti direttamente o indirettamente nella guerra in Ucraina: disobbedienza alla coscrizione e agli ordini, diserzione dalle unità di combattimento e rifornimento di Russia, Ucraina e NATO. Sviluppo di un ampio movimento di solidarietà per gli obiettori di coscienza 3. Partecipazione alle operazioni di soccorso per tutti i rifugiati provenienti dall’Ucraina e da altre zone di guerra e di guerra civile indistintamente 4. È giunto il momento di prendere posizione contro il disorientamento del movimento per la pace e di protesta. Le manifestazioni di massa nel mondo e gli interessi delle classi lavoratrici sono diretti contro tutte le potenze imperialiste e non devono schierarsi unilateralmente. Il loro obiettivo era ed è quello di superare lo sfruttamento, l’oppressione patriarcale, il razzismo, il nazionalismo, la distruzione della natura; è quello dell’affermazione dei diritti umani individuali e sociali. Ora si è aggiunta la lotta contro la barbarie risorgente.
È giunto il momento che gli oppositori alla guerra di tutti i paesi si uniscano prima che sia troppo tardi. Il pericolo di usare armi nucleari è reale. Dobbiamo fare di tutto per impedirlo. Questa è la nostra responsabilità verso i nostri figli e nipoti!
Primi firmatari: Cesare Bermani, storico, Orta
Sergio Bologna, storico e consulente logistico, Milano
Rüdiger Hachtmann, storico, Berlino
Erik Merks, funzionario sindacale in pensione, Amburgo
Karl Heinz Roth, storico e medico, Brema
Bernd Schrader, sociologo, Hannover
In Ucraina, sotto le bombe, molte madri surrogate con i loro figli in grembo, sono state trasferite in un bunker per tutelare ‘la mercanzia umana’ commissionata dalle coppie occidentali.
“L’Ucraina è la seconda meta mondiale per la Gravidanza per altri (Gpa), con un numero variabile tra i 2.000 e i 2.500 bambini nati ogni anno. Secondo alcune stime, attualmente, sarebbero circa 800 le donne incinte per conto di coppie straniere e oltre 2mila le coppie straniere che hanno congelato embrioni nelle 33 cliniche che offrono servizi di Gpa“ (Fonte: IO DONNA Repubblica).
Dunque, ai primati di materie prime e commerciali dell’ l’Ucraina , di grande interesse per l’economia globale capitalista si aggiunge anche quello dello maternità surrogata, della riproduzione artificiale, del mercato di ovuli e sperma.
Per me oggi sarebbe bene ribaltare le categorie economiche e avere il coraggio di dire che l’economia fondata sui corpi intesi come macchine modificabili a piacimento, integrabili con intelligenze artificiali, modificabili geneticamente, curabili e implementabili attraverso ogni forma di medicina da remoto, saziabili con alimenti prodotti nei laboratori, è diventato l’obiettivo primario del capitalismo transumanista.
La maternità surrogata, raccontata come una pratica d’amore e di salute pubblica (si faranno bambini su commissione con diagnosi pre-impianto e modificabili geneticamente a seconda dei gusti, dunque sani e belli – chi lo dice?- in realtà eugenetica pura) è la via scelta dai transumanisti per rendere accettabile all’opinione pubblica tutto il loro progetto sull’umanità. Un progetto che prevede che l’uomo diventi dipendente totalmente dalla tecnologia e dunque da laboratori biologici e tecnologici.
L’ industria della riproduzione artificiale, con tanto di mercato di pezzi di corpo, introdotta molto tempo fa, sempre attraverso una accurata narrazione di cura, quando cura non è, è diventata sempre più fiorente e considerata dai transumanisti una delle strade in grado di frenare il collasso del sistema economico mondiale. Come non vedere che la riproduzione artificiale, la pratica della maternità surrogata, la manipolazione genetica dei corpi è l’apoteosi del sogno onnipotente patriarcale del controllo dei corpi che secolarmente si è fondato sul corpo delle donne?
Il patriarcato, infatti, come dice bene Adriana Guzman (femminista attivista boliviana) “è il sistema che produce tutte le oppressioni, tutte le discriminazioni e tutte le violenze che vive l’umanità e la natura, ed è costruito storicamente sopra il corpo delle donne!”.
Questa tragica guerra è una guerra tra due visioni del mondo patriarcali, continua a non cambiare nulla, e per chi vuole vedere le cose come stanno, il mercato della maternità surrogata lo evidenzia in modo eclatante. Lo schieramento binario produce il divide et impera, tecnica efficace e già collaudata durante la pandemia, che impedisce qualsiasi confronto dal quale nascerebbe pensiero critico alla filosofia che governa le scelte dei potenti del mondo. La questione delle madri surrogate e dei bambini nati da surrogata oggi sotto le bombe, definita “tragedia nella tragedia”, mette a nudo l’ipocrisia di tutti quelli che si dichiarano pacifisti ma che usano parole di guerra e restano convinti della sua inevitabilità.
Ma, sempre Adriana Guzman: “Non si possono prendere decisioni nel mondo senza le parole delle donne, senza lo sguardo delle donne. Abbiamo un modo di guardare al mondo , un modo di sentire il mondo diverso e tutto nostro. E questo è il mondo che non c’è, questo è il motivo per il quale gli errori in questo mondo si ripetono, si riproducono e si sostengono: perché manca lo sguardo delle donne, perché non ci sono ne luoghi ne le parole delle donne ne tantomeno la naturalezza delle donne e dunque non c’è equilibrio possibile. Se non c’è il mondo delle donne non è possibile nessuna giustizia sociale né alcuna convivenza pacifica. Le donne devono essere presenti in tutte le decisioni. Non basta che le donne partecipino devono potere prendere delle decisioni!....”.
Una delle strade è che il popolo si riconosca potere, non accetti passivamente la propaganda che ormai da tempo ci invade, si metta di traverso, produca pensiero e azione critica e apra finalmente alle parole e alle decisioni delle donne.
Alle madri russe e alle madri ucraine, le donne che quotidianamente si adoperano per mediare le relazioni in famiglia, chiedo di mettersi attorno a un tavolo. Solo loro possono trovare il modo di non mandare in guerra i loro figli, i loro mariti i loro fratelli. Perché nessuno vuole questa guerra e nessuno vuole morire per i grandi e occulti interessi di pochi che, per di più, hanno in mente un disegno per l’umanità che cancella il senso stesso di essere umano.
Incontro pubblico informativo con Rodolfo Lewanski “L’ASSEMBLEA DEI CITTADINI” Sabato 2 aprile.2022- ore 9 -13 Factory Grisù – Sala Macchine via Poledrelli, 21- Ferrara
Quello delle Assemblee dei Cittadini è un argomento ancora poco conosciuto e anche la campagna di raccolte firme per la proposta di legge fatica a decollare. Per questo stiamo cercando di contattare con il passaparola le persone che potrebbero essere interessate a saperne di più.
Come promuovere una maggiore partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche?
Che cos’è un’Assemblea dei Cittadini?
Come funziona, da chi è composta, come viene strutturata?
Come reagire alla pericolosa inerzia della politica di fronte al collasso ecoclimatico?
Perché le Assemblee dei Cittadini potrebbero essere lo strumento democratico necessario per affrontare la crisi climatica ed ecologica?
A queste e a altre domande risponderà Rodolfo Lewanski, professore di Democrazia Partecipativa e di Analisi delle Politiche Pubbliche presso l’Università di Bologna.
L’incontro è promosso da Donne per la terra, Extinction Rebellion, Associazione Fe-nice, Movimento 5 Stelle, + Europa, Teachers For Future, referenti a Ferrara del Comitato Politici Per Caso promotore della proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione delle Assemblee dei Cittadini.
Il 19 marzo 2022 nel Comune di San Godenzo (Firenze) si è svolta un’importante iniziativa per affermare una volta ancora che i Crinali di Monte Giogo di Villore nel Mugello non sono luoghi idonei alla costruzione di un impianto industriale di pale eoliche alte 169 metri, con apertura di strade larghe dai quattro ai dieci metri, cantieri, basi di cemento grandi come campi di calcio.
I territori dei crinali sono contigui al prestigioso Parco Nazionale Foreste Casentinesi che ha ricevuto premio nella Green list dei tre luoghi meglio conservati in Italia, di conseguenza costituiscono corridoi ecologici per la fauna del Parco, rotte migratorie, aree a speciale conservazione, protezione, denominate Natura 2000 per la varietà di ecosistemi fragili e preziosi e per la ricchezza della biodiversità della flora e della fauna.
Un indicatore inconfutabile dell’ottima conservazione dell’habitat naturale di questi territori è dato dal ritorno dell’aquila reale veleggiatrice a rischio di estinzione che correrebbe gravi pericoli di vita in presenza degli aerogeneratori, come dimostra la letteratura scientifica in merito.
I Crinali sono interessati a un’ampia e famosa sentieristica appenninica che ha visto unirsi, nell’organizzazione della Camminata aperta a tutti sui luoghi dove si vorrebbe fare l’impianto, il CAI della Toscana e il CAI dell’Emilia Romagna. I camminatori hanno potuto ammirare l’unica e introvabile bellezza naturale e paesaggistica dei luoghi con i loro richiami culturali e poetici a Dino Campana e ai noti Canti danteschi della Divina Commedia, immergendosi in un santuario naturale e spirituale che verrebbe irrimediabilmente profanato e compromesso per le generazioni future.
Nel pomeriggio le realtà territoriali contadine, produttive e culturali della cittadinanza partecipata hanno organizzato banchi, merenda in compagnia, musica con gruppi locali e tanti interessanti interventi con esponenti di associazioni, amministratori ed esperti del territorio e dell’ambiente.
L’estrema fragilità dei luoghi, classificata P4 per il rischio idrogeologico e la criticità sismica trovano conferma nelle scosse di terremoto verificatesi nel pomeriggio del 23 marzo (alle ore 17.45, magnitudo 2.1), con epicentro nel Comune di San Godenzo a nove chilometri di profondità.
Dato il raro valore dei luoghi, la Sovrintendenza e il Parco si sono espressi in modo contrario all’intervento di impianto industriale eolico che inizierebbe con sette pale e poi proseguirebbe quasi certamente sui crinali dell’Appennino tosco-emiliano. Anche diverse Associazioni ambientaliste e Comitati di cittadini hanno deciso di ricorrere al TAR per proteggere e difendere questi luoghi unici e non reperibili altrove.
Per mettere a conoscenza la popolazione della situazione in atto verrà organizzata nel Comune di Dicomano, Firenze, una Tavola Rotonda il 2 aprile alle ore 15 al Teatro in via Mazzini 49 con la partecipazione di enti, associazioni, amministratori, esperti del territorio e personalità della cultura alla quale è invitata tutta la cittadinanza.
Spesso, la pubblicità porta in primo piano l’odore o, meglio, gli odori. Il sugo sulla pasta, il profumo… malizioso e complice di un cosmetico, il bucato col suo odore di pulito che non può che essere inquadrato in un interno di casa medio borghese. Ricordo che, oltre quarant’anni fa, un famoso musicista italiano pubblicizzava una birra con un po’ di schiuma sul naso dicendo (più o meno) “Chi ha naso, beve…”.
L’odore, nel senso di profumo, fa parte della vita quotidiana di tante persone, ma i bambini fanno spesso eccezione. Si dimenticano di lavarsi la faccia alla mattina, prima di andare a scuola, anche i denti non sono molto gettonati e l’alito che ne consegue lo conferma… Anch’io, quand’ero piccolo, non mi lavavo molto o, meglio, avevo un approccio alla pulizia del corpo in sintonia con le stagioni più miti. La scelta era dettata anche dalla necessità, ma diciamo che, la difficoltà di predisporre gli strumenti del lavaggio (la mastella, l’acqua calda scaldata nel pentolone sulla stufa, la legna che non sempre c’era perché mancavano i soldi), favoriva la diserzione da odori più favorevoli alla socializzazione.
Ricordo che in terza elementare c’erano alcuni miei compagni di classe che non mi erano amici perché dicevano che puzzavo. Erano figli di famiglie altolocate, ma penso che fosse una coincidenza perché con altri compagni della stessa categoria giocavo, sudavo, puzzavo e (poco) mi lavavo come loro, con la differenza che in quelle case, c’era già una stanza predisposta per il bagno.
Il maestro Alceste, per cercare di porre fine a divisioni nella classe, che avevano portato alla formazione di piccole bande, pensò di affrontare il problema con una soluzione di tipo… sportivo.
Dato che il capo dei bambini che non mi accettava era un certo Biancalana, di carnagione chiara, sempre pulito e profumato come se vivesse tutto il giorno in una vasca piena di detersivo (una volta c’erano le pubblicità molto gettonate dei detersivi per il bucato a mano, Olà o Tide), Alceste chiese ad entrambi se eravamo disposti a fare una gara di corsa, sulla distanza di circa 100 metri, nel giardino interno della scuola.
Chi vinceva avrebbe dettato le condizioni: continuare la presa in giro o fare amicizia. Eravamo alla fine di ottobre e, fortunatamente, il tempo tenne. Un freddo sabato mattina, con un sole che ormai non sudava più, ci fu la sfida. Tra due piccole ali di bimbi, scattammo al via e, dopo un forsennato testa a testa, superai di un soffio il mio compagno sul filo di… Biancalana. Il maestro Alceste mi strizzò l’occhio e io, in cambio, mi lavai più spesso.
Un’altra immagine di forti odori è collegata ai periodi estivi oltre il Reno, dai nonni materni a Lavezzola. Nella stanza dove dormivo, o dove andavo a riposare al pomeriggio, c’erano due travi da cui scendevano sempre prosciutti, salami, palle di grasso… e il profumo intenso delle trasformazioni suine si mescolava al fresco di una stanza, costruita con muri che supplivano bene alle esagerazioni delle diverse stagioni.
C’erano una volta le aziende pubbliche di servizi: le municipalizzate per gas, acqua, rifiuti, trasporti. Lo scopo era di garantire l’erogazione di servizi pubblici efficienti e vantaggiosi per i cittadini, facendo pagare il giusto agli utenti-clienti.
Certo, molte cose potevano essere razionalizzate, ed infatti si pensò di farlo ingaggiando operatori più grandi. ma pur sempre controllati dai Comuni.
Poi le società si quotarono in borsa e diventarono sempre più dei colossi, sempre più privatizzati (Hera spa è un esempio) e così lo scopo è divenuto il business: profitti soddisfacenti. Hera fa tante cose positive per la sostenibilità ma il primo interesse dovrebbe rimanere quello dei suoi clienti-cittadini.
E qui assistiamo al primo paradosso: i Comuni divenuti azionisti sono più attenti a ottenere buoni ritorni annuali delle loro quote (utilizzate per buone finalità) che non a verificare l’efficienza dei servizi e i prezzi fatti ai cittadini utenti, per esempio fare più investimenti per ridurre gli sprechi dell’acqua della rete e tenere calmierate le tariffe (specie le fasce più povere), che ovviamente comporta minori profitti e meno dividendi dalle azioni.
Oggi per i Comuni – ad esempio il Comune di Ferrara, che ha venduto quasi tutte le sue azioni – Hera si può ‘controllare’ solo attraverso i contratti di servizio, che incidono su piccole cose, ma sono impotenti sulle tariffe.
Persino il costo del riscaldamento da fonte geotermica ha come riferimento il valore di mercato del gas metano: ci si fa forti della conversione al sostenibile, riducendola però al meccanismo dei carburanti fossili.
Nel 2021 Eni ha fatto 4 miliardi di utili e ne farà 14 nel 2022. Hera ha aumentato i ricavi del 49% a 10,5 miliardi di euro, per merito dei settori energy, per le attività di intermediazione, per il gas e l’aumento dei prezzi delle commodities. Il Margine operativo lordo (Mol) è cresciuto a 1,2 miliardi di euro (+9%), per i buoni risultati di energia e rifiuti. L’utile prima delle imposte a 492 milioni (+13%) e l’utile netto a 373 milioni (+15%). In forte crescita anche l’utile degli azionisti che sale a 333 milioni (+10%).
Ottimi risultati, che saranno ancora maggiori nel 2022, ma a vantaggio di chi?
Le famiglie hanno pagato in media di gas 1.320 euro nel 2020, 1.523 nel 2021 e si apprestano a pagarne 3.000 euro nel 2022, passando da una spesa di 34 miliardi nel 2020 a 60 nel 2022. Per le imprese l’incremento è ancora maggiore (da 10 a 50 miliardi).
Gli importi abnormi delle ultime fatture Hera vengono fatti passare come conseguenza della guerra Russia-Ucraina. Ma già le fatture precedenti, quando non c’era ombra di sanzioni e ritorsioni, avevano registrato balzi del prezzo del gas a metro cubo (come Enel per l’elettricità). Già nell’ultimo trimestre 2021 ai distributori di carburanti le cifre aumentavano giorno per giorno.
Dalle fatture Hera si evince che il prezzo del gas all’ingrosso è aumentato da 0,173 euro al metro cubo di ottobre 2020, a 1,036 di novembre 2021 (e 1,286 di gennaio 2022). Ben prima dell’invasione dell’Ucraina, ben prima che scattassero sanzioni alla Russia, ben prima delle incertezze sulle forniture future.
A noi risulta che i contratti del gas siano per almeno per 2/3 dei volumi a 5 e più anni e che con uno stoccaggio del 90% si tira avanti per 2 anni e mezzo.Perché allora non si applicano i prezzi pattuiti a suo tempo? Perché lo stoccaggio non è stato fatto? Dov’é l’Europa?
Perché – mentre cresceva la dipendenza da gas russo (400 miliardi in Europa) e dal petrolio russo (170 miliardi) – un anno fa ben 54 banche d’affari e 164 fondi finanziari speculativi (tutti occidentali) sono entrati nel mercato del gas per speculare? Evidentemente capiscono la geopolitica molto prima e molto meglio dei nostri governanti occidentali e delle multiutilities.
E’ vero come ha detto il ministro Cingolani che c’è una “truffa colossale”?
Il Governo era già intervenuto con 15 miliardi di aiuti, ora diminuisce le accise di 30 cent sulla benzina per 30 giorni, consente la rateizzazione dei pagamenti delle bollette e tassa del 10% gli extra-profitti.
Bene. Ma se gli extraprofitti attesi nel 2022 sono di almeno 40 miliardi (come dice anche il presidente della Confindustria!), vuol dire che il 90% rimane a carico dei clienti.
Ma com’è possibile che i prezzi delle bollette a cittadini e imprese siano fatti in base alle quotazioni del mercato di Amsterdam (Ttf) e non in base alle reali forniture?
Infine. nulla si dice su quel 10% di imposta sulle royalty dei prelievi, che fa dell’Italia il Paese più generoso d’Europa verso chi estrae gas dal sottosuolo e dal mare (la Norvegia ha costituito dalla tassa sulle royalty un fondo sovrano che sostiene il suo esemplare Stato Sociale).
Credo sia giusto sapere a che prezzo Eni e le grandi multiutily (Hera, Iren, Acea, A2A) hanno acquistato il gas (e le compagnie petrolifere che poi lo impongono ai distributori), in modo che sia chiaro a tutti che non ci sono speculazioni.
Se poi hanno fatto contratti “spot” per cui applicano il prezzo di mercato corrente, vuol dire che chi fa i contratti deve essere licenziato. E qualcosa di simile dovrebbe avvenire a livello europeo per l’incredibile mancato stoccaggio.
E’ inaudito che il prezzo di mercato del gas oggi influenzi le bollette che paghiamo, nonostante sia stato acquistato un anno fa a prezzi 10 volte minori. Riscaldamento ed elettricità sono beni vitali per i cittadini e non beni di lusso. Le aziende dovrebbero servire prima di tutto i propri clienti, non i propri amministratori e gli azionisti.
Ma Eni, Hera, A2A chi sono? Sono ex-aziende pubbliche, passate di mano senza che i rispettivi attuali proprietari ci abbiano messo del proprio capitale a rischio. Sono loro gli oligarchi italiani!
E sarebbe ora che il pubblico (Parlamento e Governo) alzasse la voce e li riportasse alla loro mission – oggi esposta solo come vetrina pubblicitaria – e cioè la fornitura di servizi essenziali a prezzi convenienti, avviando un nuovo welfare in cui una quota minima di gas e di elettricità sia pagata a prezzo di costo per ogni singolo cittadino, in quanto bene primario.
Questo articolo è stato scritto in collaborazione con Rita Tagliati.
Dai primi giorni di aprile si potrà firmare ai banchetti in tutta la nostra Regione per rendere possibile la presentazione di 4 leggi di iniziativa popolare regionale promosse dalla Rete per l’Emergenza Climatica e Ambientale Emilia-Romagna e da Legambiente regionale. 4 proposte di legge su questioni decisive rispetto alle politiche ambientali e di contrasto al cambiamento climatico: acqua, rifiuti, energia e consumo di suolo.
La genesi di questa scelta proviene da un percorso lungo, i cui presupposti stanno nel Patto per il lavoro e il clima promosso dalla Giunta regionale nel dicembre 2020 e sottoscritto da più di 50 tra Organizzazioni e Associazioni, a partire da quelle sindacali e imprenditoriali.
Quel Patto indicava obiettivi ambiziosi – il passaggio alle energie rinnovabili al 100% nel 2035 e l’azzeramento delle emissioni climalteranti al 2050 – ma, al di là del fatto che essi erano semplicemente enunciati e non supportati da interventi coerenti e cogenti, ancor più sono continuamente contraddetti dalle scelte del governo regionale.
Prevale, infatti, una logica economicista e produttivista,per cui l’importante è che ci sia una forte crescita quantitativa del PIL, senza verificare cosa ciò comporti per il benessere dei cittadini e per la salvaguardia delle risorse naturali ed ambientali.
Si continua a pensare che per tale sviluppo quantitativo è fondamentale attrarre investimenti, anche stranieri, al di là del loro impatto ambientale e anche delle ricadute sulla qualità e quantità dell’occupazione. Si ragiona sulle Grandi Opere, a partire da quelle autostradali, come leva per lo sviluppo, in continuità di un modello di mobilità basato sui veicoli privati e ignorando ciò che questa scelta comporta in termini di consumo di suolo.
Ancora: si prosegue con le privatizzazione di servizi pubblici, come quello idrico e della gestione dei rifiuti, che garantiscono la gestione di beni comuni fondamentali e si ripropone un’idea di produzione e distribuzione centralizzata e verticistica dell’energia, che ha come conseguenza quella di privilegiare le fonti fossili rispetto a quelle rinnovabili.
Una politica regionale in sintonia con quella del governo centrale, che, peraltro, utilizza la stagione terribile di guerra in corso in Ucraina per proporre ulteriori politiche regressive, in particolare in tema di energia, quando, a proposito di autonomia delle fonti, anziché puntare ad uno sviluppo rapido di quelle rinnovabili, si avanza l’idea diestrarre più gas e, addirittura, di far tornare in auge le centrali a carbone! Oppure quando, con il disegno di legge delega sulla concorrenza, attualmente in discussione in Senato, si prova ad estendere ulteriormente le privatizzazioni a tutti i servizi pubblici, da quello idrico ai rifiuti e alla sanità.
Le 4 proposte di legge di iniziativa popolare si muovono in direzione contraria e alternativa. La proposta di legge sull’acqua(e anche quella sui rifiuti) sposta l’intervento decisionale in materia più vicino ai cittadini e agli Enti Locali, superando l’attuale gestione centralizzata in Regione e riportandolo a livello territoriale e mette l’accento sul ruolo fondamentale della gestione pubblica. La proposta di legge sui rifiuti si pone l’obiettivo di ridurre fortemente la loro produzione e quella dei rifiuti non riciclati, rendendo per questa via possibile l’uscita dal ricorso all’incenerimento nei prossimi anni. La proposta di legge sull’energia è imperniata sull’idea della pianificazione regionale e territoriale degli interventi per arrivare sul serio alla copertura del 100% del fabbisogno energetico da fonti rinnovabili entro il 2035, alla riduzione del 32% dei consumi lordi finali al 2030 e del 55% di emissioni climalteranti al 2030, passando ad un nuovo modello basato sulla produzione e sul consumo decentralizzato e democratico. La proposta sul consumo di suolo, dando priorità al riuso e alla rigenerazione urbana, anche attraverso un censimento degli edifici e delle aree dismesse, indica la prospettiva del consumo di suolo zero come quella da realizzare concretamente.
Pur dopo l’intervento della Consulta statutaria regionale, ispirata da una logica perlomeno restrittiva e poco incline a favorire la partecipazione dei cittadini, che ha dichiarato inammissibili alcune norme contenute nella stesura iniziale delle proposte di legge, che intervenivano con ancora maggior cogenza sui contenuti sopra delineati, le 4 proposte di legge mantengono una forte valenza per cambiare radicalmente le politiche regionali finora perseguite su quelle questioni.
Ancor più, le proposte di legge vanno viste anche nella logica che le connette: infatti, mettere insieme e cambiare radicalmente il paradigma che riguarda i temi dell’acqua, dell’energia, dei rifiuti e del suolo significa non solo considerarli beni comuni da sottrarre al mercato, aggredire il complesso delle politiche ambientali, ma anche proporre un’idea alternativa dell’attuale modello produttivo e sociale. Lo stesso modello che provoca le crisi economica, sociale e ambientali in cui siamo immersi.
E’ necessario sottolineare che la promozione di leggi di iniziativa popolare, con la raccolta delle firme necessarie per presentarle, è una scelta che, volutamente, intende basarsi sulla partecipazione consapevole dei cittadini e sull’espansione della democrazia. E questo non solo perché ci troviamo di fronte alla gran parte della politica che sembra sempre più caratterizzarsi per essere distante dalle istanze delle persone e autoreferenziale, anche nella nostra Regione.
Basta pensare a quanto è stato fatto in tema di affidamenti del servizio idrico, che, con una legge regionale e con una modalità che hanno impedito una vera discussione pubblica, sono stati tutti prorogati alla fine del 2027. Decisione che, anche grazie all’iniziativa del movimento per l’acqua pubblica, è stata impugnata dal governo e ora è sotto esame da parte della Corte Costituzionale.
In realtà, puntare sulla partecipazione e su quanto si muove nella società, nonostante tutto, compreso ciò che è accaduto negli ultimi anni che ci hanno visto far fronte alla pandemia e ora alla guerra, potenti fattori per disincentivarla o perlomeno per far pensare che siamo sovrastati da eventi su cui non possiamo influire, non è un atto di “ottimismo della volontà”, ma si dipana dalla consapevolezza che solo così si possono determinare scelte che vanno in direzione dell’affermazione di un mondo che abbia un futuro, e che esso possa essere più giusto. Per non lasciarlo in mano ai potenti e a chi, per convinzione o ignoranza, li sostiene.
A Ferrara I primi banchetti in sono in Corso Martiri Libertà 55 venerdì 1 aprile ore 10-12,30 – sabato 2 aprile ore 10-12,30 e 16-19 domenica 3 aprile ore 10-12,30
Per leggere tutti gli articoli di Corrado Oddi è sufficiente cliccare sopra il suo nome, anche sotto ogni suo articolo
Aria fresca nei polmoni questa mattina. Lascio il cuscino e mi vesto.
Un sole velato fa capolino dalla finestra. Ancora una mezzoretta e il cielo si ripulirà dalle scorie della notte.
Il mondo è più leggero… decisamente interessante!
Poi una nuova voglia: voglia di andare, di respirare, di assaggiare. Di scoprire ciò che non ho mai visto prima.
È il momento. Chiudo la porta e scendo. Uno zaino di ricordi sulle spalle e qualche carezza rimasta nelle mani.
La priorità è cancellare il tuo viso, i tuoi occhi dai miei, la tua voce dai rumori del silenzio.
Via da queste quattro mura, calde di certezze incartate, zuccherate. Basta mal di denti e mal di testa perenni, pillole e caramelle, acidità di stomaco e film già visti, commedie e commedianti.
Prendo la moto: il metallo è di razza, il motore è caldo e il serbatoio è pieno.
Sotto le ruote sento il ruvido e il secco della strada. Parto e via senza voltarmi!
Seguirò l’istinto del lupo, oltre la collina e il suo bosco. Poi altre colline e boschi fino alle montagne del nord. Attraverserò ponti e confini, la strada non finirà mai.
Il cielo sarà mio fratello e veglierà su di me.
Starò da solo, io e i miei segreti. Libero di perdermi e di scomparire.
Scamperò alle trappole del cuore. Nessun controllo, nessun programma, nessun orario, nessun appuntamento e nessun dolore.
Soltanto aria per respirare, acqua da bere e terra per riposare.
Ecco il mio viaggio: andare avanti, lontano e altrove.
Andare via e non tornare più.
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Comprendere cosa avvenne in Ucraina nel 2014 è importante per capire cosa sta succedendo oggi. A febbraio di quell’anno ci fu un cambiamento radicale nel governo, di cui si è parlato come rivoluzione di Maidan. Ci è stato raccontato che il popolo, insoddisfatto delle scelte filorusse del presidente Janukovyč, manifestò per mesi fino a far cadere il governo: una rivoluzione popolare e democratica.
Ma studiando gli eventi ci rendiamo conto che le cose sono più complesse. Come è ben documentato da numerosi video e articoli, che elencherò successivamente, si è trattato di un colpo di stato con regia occidentale.
Prima di quegli eventi erano già presenti nel territorio ucraino strutture militari USA – NATO, dove venivano addestrati gruppi paramilitari neonazisti che avrebbero avuto un ruolo decisivo negli eventi di Maidan ed anche in quelli successivi fino ad oggi. Questa è un’affermazione grave e importante, ma ben documentata. In realtà basta anche solo leggere su Wikipedia la voce Battaglione Azovper rendersi conto che le cose sono molto diverse dalla narrativa ufficiale.
A maggio fu eletto presidente Poroshenko, un oligarca filo americano famoso come il re del cioccolato e i membri del governo furono decisi a tavolino da Washington. Un aneddoto non secondario: Hunter Biden, figlio dell’attuale Presidente Biden, entrò nel consiglio di amministrazione di Burisma, la più grande compagnia energetica privata ucraina. E proprio in base a un accordo tra Washington e Kiev che in Ucraina cominciò la produzione di gas estratto dalle rocce di scisto (Fracking), un procedimento proibito in diversi paesi per i notevoli danni all’ambiente.
Di seguito un elenco di alcuni documenti e studi che mostrano e analizzano gli eventi di Maidan.
Ukraine on fire. In questo film documentario di Igor Lopatonok prodotto da Oliver Stone vengono raccontati gli eventi di Maidan e la successiva crisi del Donbass. Ricco di informazioni e interviste.
Masks of the revolution del regista francese Paul Moreira del 2015. Interessante, censurato e difficile da trovare in internet.
La crisi ucraina spiegata dal Prof. John Mearsheimer – 2015. Conferenza molto interessante non solo per l’analisi, ma anche perché è il punto di vista di un eminente scienziato politico americano, nominato nel 1996 Distinguished Service Professor di R. Wendell Harrison presso l’Università di Chicago.
Gerardo Femina
Già presidente della Comunità per lo sviluppo umano in Italia, è impegnato in attività sociali, politiche e culturali. Da 20 anni vive a Praga, dove è stato tra i promotori della campagna “Europe for Peace” e della protesta contro il cosiddetto Scudo stellare, che gli Stati Uniti volevano installare in Repubblica Ceca. Scrive su politica e società. Negli ultimi anni si è dedicato alla costruzione del Parco di studio e riflessione in Repubblica Ceca.
Cover: Cerimonia per i morti della strage di Odessa (Foto di Wikimedia Commons)
Papa Francesco ha appena dimostrato che anche un Papa può essere vicino a Cristo. Ha detto infatti che i paesi che hanno manifestato l’intenzione di aumentare l’investimento in armamenti fino al 2% del loro PIL sono “pazzi”. E che lui si vergogna per loro. Tra questi paesi c’è l’Italia, del keynesiano-per-una-notte Mario Draghi. E il principale partito che sta appoggiando questa scelta in Parlamento è il Partito Democratico, il cui acronimo PD può essere ormai declinato come Partito della Difesa.
La pazzia italiana “di sinistra”, tuttavia, non è una patologia dalla genesi oscura. Viceversa, è l’ effetto coerente di una causa talmente lampante da essere lancinante: il PD gestisce con i suoi uomini tutti i principali gangli della Difesa e del blocco istituzionale ed economico che ad essa fa riferimento, o di cui è emanazione. Lorenzo Guerini (PD) è il ministro della Difesa. Su sua proposta, Nicola Latorre (PD) è diventato direttore generale di Agenzia Industrie Difesa, ente controllato dal ministero che si occupa delle forniture di armi e logistica al medesimo. Difesa Servizi, società diretta emanazione del ministero incaricata di gestirne il patrimonio immobiliare, ha come amministratore delegato Pier Fausto Recchia (PD). Leonardo (ex Finmeccanica), decimo produttore di armi e sistemi di difesa al mondo, terzo in Europa, partecipata al 30% dal Ministero delle Finanze, ha come amministratore delegato Alessandro Profumo (tessera PD), cavaliere del lavoro condannato in primo grado a sei anni di carcere per aggiotaggio e falso in bilancio durante la sua presidenza in Monte Paschi (null’altro che tacche del curriculum per un top manager italiano).
La Fondazione Leonardo ha come presidente Luciano Violante (PD).La Fondazione Med-Or, anch’essa costola di Leonardo, ha come presidenteMarco Minniti (PD), che si reca – pure lui – in Arabia Saudita a organizzare partnership nel campo dell’istruzione con quel regime (sospetto, vista la provenienza della fondazione, che il “do ut des” non sia confinabile all’interno delle aule universitarie).
Non ho la minima intenzione di denigrare le persone citate, alcune delle quali (dico Violante per dirne una) hanno un cursus di tutto rispetto e prestigio. Voglio solo dimostrare che la decisione bollata come “pazzia” da Papa Bergoglio e l’orientamento bellicista del PD sono perfettamente coerenti con l’occupazione capillare, da parte sua, dei ruoli di potere che fanno capo alla Difesa. Mi sarei meravigliato del contrario: piuttosto bisognerebbe chiedersi perché, tra i vari rami dell’amministrazione dello Stato, il PD abbia scelto di ‘occupare’ proprio la Difesa con modalità che Enrico Berlinguer (capo di quel PCI di cui il PD rivendica l’eredità: non aggiungo altro) così definirebbe, avendolo fatto già nel 1981: “I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali.”(per leggere l’intervista integrale clicca qui).
Siccome la corsa al riarmo non ha nulla a che vedere con l’opinione se sia giusto o sbagliato inviare armi ai civili ucraini – argomento che spacca anche l’opinione pubblica di sinistra, e sul quale non entro – mi domando cosa pensino di questa decisione non tanto i simpatizzanti ed elettori, ma i molti esponenti del PD che lo rappresentano nelle istituzioni, anche del nostro territorio. Mi stupirei molto del fatto che non si levasse nessuna voce critica, ed infatti attualmente il mio stupore è grande, perché non mi sembra proprio che si stia innescando un dibattito su questo. L’unico che si è esposto tra i vertici è Graziano Delrio, che si è astenuto nel voto sull’aumento delle spese militari.
L’art.11 della Costituzione recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”
Siamo in uno di quei casi in cui la Costituzione (tranne per l’inciso sulle limitazioni della sovranità: quelle ci sono, ininterrotte, dal 1945) viene derubricata a tesina dei buoni propositi, come se non si trattasse della legge fondamentale dello Stato. Siamo anche in uno di quei casi in cui le parole del Papa, che di solito campeggiano in prima pagina di ogni notiziario della tv pubblica, privata, dei principali giornali, come moniti della nostra massima autorità morale, vengono nascoste in qualche trafiletto a pagina quattordici, come se fossero le esternazioni folkloristiche di un mitomane.
Manca solo che qualcuno tra i nostri grandi e liberi direttori di giornale gli batta una mano sulla spalla, a Bergoglio, sussurrandogli “ma chi ti credi di essere, il Papa?”
Reportage di Daniela Bezzi Foto di Cesare Dagliana (tratto da pressenza)
Firenze, 26.03.22 Sono da poco passate le 5 del pomeriggio quando la testa del corteo con l’enorme striscione della GKN con la scritta INsorgiamo a caratteri cubitali, entra in Piazza Santa Croce e dall’altra parte dell’Arno non c’è verso di scorgerne la fine.
Rullo incessante di tamburi. Una marea di bandiere e slogan e striscioni da ogni parte d’Italia. Oltre al contingente dei lavoratori GKN alla testa del corteo, ecco quello della TIM-dell’ATI, della Caterpillar, dell’Electrolux di Trevi, della Pasotti vicino a Brescia, del Cotonificio Fiorentino, e poi lo striscione degli Operai di Marradi che dovrebbero accettare la chiusura dell’impianto dove si producevano i famosi marron glacé, insomma un gioiello del Made in Italy, perché la proprietà ha deciso di delocalizzare a… Bergamo, chissà per quali logiche!
E poi lo spezzone dei Fridays For Future. E lo striscione del NoTap dalla Puglia che dice a caratteri cubitali Siamo La Natura Che Insorge. E i Comitati Giovani NoTav da Torino e da Pisa ‘perché è dai nostri territori che bisogna ripartire … perché mentre la crisi climatica è qui e ora, assistiamo allo scoppio di una guerra che dovrebbe giustificare la diversione di fondi che sarebbero così necessari per realizzare il vero cambiamento: inaccettabile!’
Una piazza importantissima quella che si è trovata oggi a Firenze ‘una piazza inclusiva, una piazza che segna la convergenza di tante componenti di una stessa richiesta sempre più urgente e unitaria di giustizia. Giustizia sociale, giustizia ambientale, un radicale cambio di paradigma, perché è di questo che abbiamo più che mai bisogno.’
Quanti saremo stati? 20.000… 80.000… 50.000… in ogni caso tanti, tantissimi, un serpente che per ore si è snodato nel centro elegante di Firenze e che accanto ai temi del lavoro, della salute, del diritto alla casa, di reali tutele per i giovani e per i migranti, oltre alla denuncia dell’alternanza Scuola Lavoro, ha urlato con particolare convinzione il più netto No alla Guerra: Fuori l’Italia dalla NATO, fuori la NATO dall’Italia, No alla Guerra dei Padroni contro la Salute e il Lavoro.
Un enorme telone con tutti i colori della pace mi sta passando davanti mentre chiudo queste note, così largo a lungo che è necessario per forza il rimbocco per farlo entrare nella piazza affollatissima. Al di là del fiume mentre il corteo non sembra avere fine, marea di bandiere e striscioni al ritmo dei tamburi. Sono i vari Si Cobas, Slai Cobas, sindacati di base, l’espressione di quella sempre più compatta resistenza che si combatte ogni giorno e anche di notte nei sempre più numerosi hub della logistica che in tutta la penisola dovrebbero giustificare il più scellerato consumo di suolo, ed è lo spezzone senz’altro più numeroso del corteo.
Giornata molto importante quella che abbiamo vissuto oggi a Firenze, che segna al tempo stesso un punto di arrivo e un momento di formidabile e unitaria ripartenza.
“Ciò che oggi so l’ho imparato da solo. Sono, per così dire, un pittore selvaggio, perché sono cresciuto come un selvaggio, senza aiuti né sostegni. A quel tempo (estate 1959) disegnavo molto dal vero: paesaggi, piante, fiori, oggetti domestici, ritratti di conoscenti e familiari. Disegnavo anche nasi, orecchie, mani, in tutte le variazioni possibili. Questa fu la mia scuola d’arte: osservare e disegnare”
Adelchi Riccardo Mantovani
Arriviamo al Castello Estense, accolti dalle splendide sculture in rame e terracotta “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori – Umanità” di Sara Bolzani e Nicola Zamboni. Non solo cavalieri, possenti destrieri e personaggi di sapore epico-cavalleresco ma anche migranti, profughi e disperati che incarnano gli orrori della guerra tanto attuale, un angelo ispirato alla Melancolia di Dürer che scrive e alcuni personaggi del mondo cavalleresco di Ariosto, come Angelica e Astolfo con il senno di Orlando, ma anche il poeta stesso, coronato d’alloro e vestito all’antica, in piedi accanto a un tavolo dotato di una sedia alata, che simboleggia la possibilità di volare con la propria fantasia grazie alla letteratura. Non mi ero ancora soffermata su questo gruppo scultoreo che attira molti turisti nel farsi fotografare accanto ai personaggi che più rispecchiano il proprio sentire, le premesse sono ottime.
Con la mia amica Rosi sono diretta alla mostra antologica che Ferrara dedica, per la prima volta in Italia, al pittore Adelchi Riccardo Mantovani, ferrarese di nascita (di Ro Ferrarese, per la precisione) e tedesco di adozione. Leggo che questo artista, poco conosciuto in Italia (non pare lo stesso in Germania), è caratterizzato dalla capacità d’evocazione fantastica di cui, prima di lui, erano stati interpreti Ludovico Ariosto, Dosso Dossi e Giorgio de Chirico. Incuriosita percorro i lunghi corridoi del Castello, sfiorandone le prigioni, ed entro.
La mostra, organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e dal Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara in collaborazione con il Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, dove si trasferirà dopo la tappa ferrarese, ripercorre l’intera produzione di Mantovani attraverso oltre cento opere, tra dipinti e disegni, che documentano la sua personale interpretazione di un realismo onirico costantemente nutrito dall’osservazione del vero e dalla memoria.
È stupefacente, fin dalle opere delle prime sale, coloratissimo e lume per la fantasia. Si può solo guardare, restare rapiti e cercare di capire. Interpretare non è semplice, ma la bellezza di ciò che cui ci si trova di fronte sta anche nel cercare di trovare la propria personale lettura di un mondo fantastico, allegorico e fiabesco, che affonda le radici nell’arte antica (la pittura del Quattrocento padano e il naturalismo fiammingo) e raccoglie i suggerimenti delle più affascinanti correnti figurative del primo Novecento, dalla Metafisica di de Chirico alla Nuova oggettività tedesca, dal Surrealismo di Delvaux e di Magritte al Realismo magico.
La natura è il modello primario: ogni foglia o filo d’erba è accuratamente reso alternando la tecnica della tempera a quella dell’olio sulla tavola di legno ben levigata e preparata a gesso. Ci sono gli alberi, i prati, le piante, i fiori, li aliti di vento, il fiume, gli argini, il cielo e le nubi.
La particolare magia di queste opere sta anche nella scoperta della vita stessa di Mantovani, nella storia difficile di chi, dalle difficoltà, è emerso, alla fine, vincente con le sue sole carte e idee, con la propria volontà e capacità di creare qualcosa di assolutamente unico. Ferrara oggi celebra Adelchi Riccardo Mantovani nei suoi ottant’anni, trascorsi fisicamente lontano ma senza essersene mai realmente andato. In un sogno senza fine.
La regina, 2006
Nato a Ro Ferrarese nel 1942, figlio della bidella della scuola elementare, Mantovani, rimasto orfano del padre, a causa delle ristrettezze economiche familiari viene affidato alle suore dell’orfanotrofio di Ferrara dal 1946 al 1952. La sofferenza e la lacerazione portate da questo momento (le sorelle restano con la madre, solo lui viene lasciato all’istituto che si trovava in Corso Porta d’Amore e che oggi non esiste più) la si percepiscono in tutte le sue opere ma soprattutto in Nebbia, del 2017, dove il ragazzino che stringe forte la mano della madre percorre proprio Porta d’Amore, verso quel luogo triste che dalla sua nebbia esterna ne porterà di altrettanto fitta interiore.
Nebbia, 2017
Per non citare il quadro Mio padre (2010), dove viene ritratto il genitore in uniforme, nato nel 1909, non più tornato dalla guerra. Accanto a lui colpisce una cartolina, che pare una fotografia, spedita alla famiglia dal fronte sulla quale campeggia la scritta “Vinceremo”, a ricordare ancora (e sempre) la tragicità della situazione.
Successivamente, Mantovani viene mandato in collegio a seguire i corsi professionali per imparare il mestiere di tornitore e, nel 1964, a 22 anni, si trasferisce in Germania, stabilendosi a Berlino, dove inizia a lavorare in fabbrica. Il clima culturale della città lo incoraggia a riscoprire l’attitudine al disegno che si era manifestata ai tempi del collegio. “Quando ero dalle suore – ricorda lui stesso – mi procuravo le matite, strappavo le due pagine interne dai quaderni di scuola e facevo dei quadernini piccoli che riempivo tutti di disegni. Questo è stato il mio inizio”. A ricordare questi momenti, il quadro Scuola di disegno, del 1996, dove l’artista intende mostrare i primi tentativi artistici. Per questo ha usato una fotografia scattata il giorno precedente la sua cresima, a sette anni, per dimostrare non tanto l’originalità di quei tratti rispetto a quelli dei suoi coetanei quanto la caparbietà nel seguire una strada cui era destinato: quella di esprimere le proprie fantasie con l’arte. In questo quadro copia e riproduce diversi dipinti eseguiti fino alla metà degli anni Novanta, miniaturizzandoli, molto dei quali esposti. Una sorta di inventario per vedere i risultati di un percorso ricco e affascinante.
Scuola di disegno, 1996
Anche paesaggio eroico, del 2008, rappresenta una summa delle attività dell’artista: in un paesaggio prerinascimentale vengono passate in rassegna gran parte delle figure nate dalla sua ricca fantasia. L’unico personaggio nuovo è lui all’età di circa dieci anni ammirato da due bambine curate e ben pettinate.
Paesaggio eroico, 2008
In Prima del risveglio, del 2016, ritroviamo la severa atmosfera del collegio, dove un ragazzino sogna: i suoi compagni seguono una lezione di disegno ma possono disegnare tutto tranne la modella nuda che non devono nemmeno azzardarsi a guardare. L’insegnante, con la riga nascosta dietro la schiena, pronta a punire, veglia a che questo non accada. Il ragazzino si sveglierà presto dal suo tiepido sonno e tutto scomparirà. Da bambino, in quel collegio, Mantovani, racconta, era solito raccontarsi storie per scacciare la paura della notte e l’infelicità della solitudine e quel bambino che dorme e sogna ci fa pensare a questa sua consuetudine.
Prima del risveglio, 2016
Ma torniamo a Berlino, dove Adelchi frequenta le scuole serali di pittura, i corsi di nudo, studia la storia dell’arte ed espone in mostre collettive insieme ad altri artisti. Nel 1979 abbandona i panni dell’operaio per indossare, definitivamente, quelli di pittore. Dopo due personali berlinesi di successo (galleria Taube e Kommunale Galerie), può scegliere di dedicarsi a tempo pieno alla sua pittura fantastica, echeggiante il naif.
Fu Vittorio Sgarbi a scoprirlo e a organizzargli la prima importante mostra a Berlino; un suo articolo di Sgarbi L’Europeo incuriosisce poi un collezionista miliardario, Orazio Bagnasco, il quale acquista tutta la sua produzione iniziale, una quarantina di quadri.
In questo periodo giunge a piena maturazione la sua singolare ricerca tesa alla creazione del mondo fantastico, fiabesco e visionario che vediamo. L’amore per l’Italia c’è tutto.
Resto particolarmente colpita dalle visioni padane fatte di notturni, pioppi e casolari, e dai particolari ferraresi, che sorprendono perché paiono dipinte stando qui, mentre invece lo sono sotto il cielo di Berlino, lontani ma con un ricordo forte, intenso e reale.
L’attesa, dipinta nel 2001, ricorda l’alluvione del Polesine del 1951, quando l’artista era in collegio, ragion per cui solo più tardi ne ricevette il racconto dalla madre. Il dipinto, un olio su tavola, raffigura una scena simile a quella che Mantovani riporta di aver visto in un film con Peppone e don Camillo, personaggi che infatti qui appaiono tra la folla, insieme alla madre, alle due sorelle e a un povero diavolo seduto su una piccola zattera in mezzo al fiume. La sua famiglia e gli abitanti di Ro si erano radunati sulla cima dell’argine destro del Po, convinti che se si fosse verificata l’esondazione si sarebbero salvati, convinzione bizzarra, perché la rottura dell’argine sarebbe potuta avvenire anche sotto i loro piedi. Ma il fiume straripò dall’argine sinistro inondando la sponda veneta.
L’attesa, 2001
Anche il Notturno padano e il Tramonto padano ci riportano alle nostre atmosfere.
Il primo, del 1994, sembra quasi una fotografia. Ma dopo una prima impressione di realismo, osservandolo bene, si cambia idea. Compaiono, infatti, alcune presenze bizzarre: animali selvaggi nella pianura padana, scimmie sul tetto della fattoria, una civetta gigante in mezzo a un campo, una tigre che passeggia sulla strada, due pinguini sull’argine che osservano i ciclisti ignari e spensierati. Queste presenze non disturbano però la serenità della notte, con le sue ombre, attraversata da nuvoloni e lampi disegnati originariamente a carboncino nel 1960. Perché tutto torna utile… Nella dolcezza della lontananza.
Notturno padano, 1994
Il secondo, del 2004, secondo quanto dice l’autore, trae ispirazione da una foto del sole con una piccola macchia nera, apparsa su una rivista online: il pianeta Venere che gli stava passando davanti. L’artista colse l’occasione per dipingerlo alla sua maniera, ambientandolo in uno scenario padano, tra campi di grano di una fattoria, un contadino con le sue mucche, uno spaventapasseri, un cane e un gatto, ma soprattutto una ragazza che resta affascinata dal sole con una macchia nera che tramonta dentro al pozzo.
La cantastorie 2, del 1986-87 ci porta alla delizia di Belriguardo, nei pressi di Voghiera, con la narrazione cantata della vicenda dell’Orlando furioso. Ciò che la giovane declama lo si può osservare nel piccolo teatrino ambulante alle sue spalle, Orlando che ha perso il senno per una delusione d’amore. A salvarlo arriva il cavaliere Astolfo che, con il suo cavallo alato, vola sulla luna alla ricerca del senno perduto dell’amico. Secondo Ariosto il senno si trova qui, chiuso in ampolle e contrassegnato con il nome del suo proprietario. Astolfo si avvicina a Orlando con l’ampolla per farlo rinsavire; in una giornata ventosa e piena di nubi dal colore di panna, ad assistere allo spettacolo solo un bambino con la sua maglietta azzurra e il suo cavallo giocattolo. Un prato fiorito che quasi emana profumo. Ferrara sempre presente.
La cantastorie 2, 1986-87
Il Paletot rosso, del 2006, che è stata scelta per la locandina della nostra e la copertina del suo catalogo, rappresenta, invece, una scena del racconto Trefossi dell’artista. Mariagrazia è seduta su un paracarro lungo l’alberato argine del Po, in un’ambientazione tipicamente padana: una nebbiosa e malinconica giornata invernale. Con il suo paletot rosso fiammante la si riconosce facilmente da lontano, nonostante la foschia. La chiamano la pazza del paese, attende qualcuno ma non si sa chi, non lo sa nemmeno lei. Quando vede l’amico Angelo arrivare con il motocarro, lo ferma perché forse vuole un passaggio per recarsi a Ferrara, nessuno sa per fare cosa. Una ragazza piena di misteri. Va in città o altrove? E perché mai? Angelo la prende con sé, è la sua preferita, non la considera matta, ma solo disorientata, incapace di gestire la prioria vita. Anche a noi piace immaginarla così. Tra serenità, candore, nostalgia, speranza e un poco di giovanile inquietudine.
Il paletot rosso, 2006
Molto belle anche alcune figure femminili. Dal viso dolce della ragazza lettone, dipinta a memoria, de La bella domenica (2003), con, sulla cornice la frase in latino “bramo colei che fugge e fuggo da colei che mi brama”, a quello di Fräulein Pusteblume, imperatrice di Bisanzio (2012), seduta sul trono, la cui cornice, molto lavorata, ha otto tondi con vari ritratti femminili presi dai suoi quadri. Adelchi sorride quando pronuncia la parola Pustelblume che in italiano significa soffione cioè pappo del tarassaco che, agendo come un paracadute, agevola con il vento la dispersione dei semi e la proliferazione della pianta, la sua vita. Questa icona è essa stessa un inno alla vita, un trionfo della natura.
La bella domenica, 2003Fräulein Pusteblume, imperatrice di Bisanzio, 2012
E poi troviamo anche Greta, in Regina mundi (2020), una moderna Giovanna d’Arco che, con il suo fascino di timida fanciulla e il suo perfetto inglese, ha saputo mobilitare milioni di persone nel mondo – fra cui molti giovani – nella sua battaglia per il clima.
Una delle opere a chiusura del percorso, La fine della guerra infinita, realizzata nel periodo di pandemia (2021), ci riporta drammaticamente e incredibilmente alla situazione attuale.
L’artista aveva tre anni quando la guerra finì ma, malgrado la sua tenera età, ne ricorda soprattutto il poco che era rimasto della casa di famiglia distrutta da una bomba.
La fine della guerra infinita, 2021
“Considerando la storia umana”, scrive, “si ha però l’impressione che non ci siano state migliaia o milioni di guerre, bensì una sola iniziata a partire dall’apparizione dell’uomo sulla terra e mai terminata. Quella che chiamiamo pace sono in realtà delle brevi interruzioni di questa abominevole abitudine egli esseri umani di massacrarsi gli uni con gli altri, ergo, una guerra che terminerà probabilmente soltanto quando l’umanità sarà scomparsa”.
Attuale, troppo attuale. Drammaticamente attuale. Non gli vorrei credere, no davvero, ma il sorriso con cui sono entrata ha perso vigore.
Le fotografie sono di Luca Gavagna
Il sogno di Ferrara – Adelchi Riccardo Mantovani, Ferrara, Castello Estense, 5 marzo – 9 ottobre 2022 Da un’idea di Vittorio Sgarbi. Organizzatori: Fondazione Ferrara Arte e Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara, in collaborazione con Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto Orari di apertura Dalle 10.00 alle 18.00, chiuso il martedì (la biglietteria chiude 45 minuti prima) Prenotazioni https://prenotazionemusei.comune.fe.it/ – Ufficio Informazioni e Prenotazioni Ferrara Mostre e Musei | tel. 0532 244949
«Che cos’è luna? il pezzo greggio di minerale, non ancora fuso e forgiato»
(Ted Hughes).
La chiesa che non c’è. Immaginare la chiesa nel cono di luce delle beatitudini: era questo il titolo che introduceva una giornata di studio interparrocchiale tenuta a Santa Francesca nell’ottobre 2017 per approfondire un nuovo cammino pastorale triennale indicato dal vescovoGiancarlo Perego appena eletto a Ferrara-Comacchio.
L’obiettivo era quello di declinare in diocesi l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013) riproposta con vigore da papa Francesco al V Convegno ecclesiale di Firenze (2015): “Sognate anche voi questa chiesa”. Di qui l’itinerario proposto e articolato dal nostro vescovo nelle seguenti tappe: 2017-2018 Immagini di Chiesa; 2018-2019 Partecipazione e sinodalità (le strutture della chiesa); 2019-2020 Stili di vita cristiana.
Un cammino riproposto anche per il 2021, durante il quale l’impegno si è concentrato sul “dare forma” alla chiesa del non ancora: una chiesa nascitura composta, nella nostra diocesi, dalle unità pastorali di una nuova geografia pastorale.
Scrive al riguardo il vescovo: «Ogni stato e stile di vita, con responsabilità e l’attiva partecipazione alla vita ecclesiale, favorisce in un determinato territorio il cammino del ‘popolo di Dio’, la costituzione del ‘corpo di Cristo’, che è la Chiesa. Un ‘popolo’ e un ‘corpo’ che vive anche di strutture, che nel corso della storia hanno assunto forme diverse: la diocesi, la pieve, la parrocchia, l’unità pastorale. A questo proposito, vi invito a continuare una riflessione iniziata nella nostra Chiesa, nei diversi organismi diocesani, vicariali e parrocchiali: la riflessione sulla nuova geografia della nostra Arcidiocesi, strutturata non più solo su due livelli – parrocchie e vicariati – ma su tre livelli – parrocchie, unità pastorali, vicariati».
A seguire ci fu la lettera sugli orientamenti pastorali del biennio “2022-2023:Eucaristia sacramento del dono“: «È un cammino che incrocia l’anniversario degli 850 anni del Miracolo Eucaristico di Ferrara (1171-2021), la celebrazione del Sinodo dei Vescovi sulla sinodalità, che accompagnerà anche la Chiesa Italiana fino al Giubileo (2025) e la preparazione alla Visita Pastorale Diocesana».
Tutto questo ha fatto da sfondo e premessa al sinodo dei vescovi sulla sinodalità che ora stiamo vivendo, una grazia e un compito allargati a tutto il popolo di Dio, con le sue tre fasi (“narrativa: l’ascolto”; “sapienziale: discernimento”; “profetica: scelte evangeliche”). Questo nuovo cammino voluto da papa Francesco va vissuto tenendo costantemente presente la dinamica fondamentale tra un “già” e un “non ancora”, alla scoperta di una chiesa che ancora non c’è.
La chiesa che non c’è è allora quella che c’è già, ma non ancora: come la nuova luna, che attende di nuovo di essere forgiata nel crogiuolo del sole, amalgamandosi alla sua luce, per disperdere le tenebre che la nascondono, per ritornare così a risplendere.
La chiesa lunare è immagine cara alla tradizione patristica e a papa Francesco: «Noi cristiani paragoniamo Gesù Cristo con il sole, e la luna con la Chiesa, la comunità; nessuno, eccetto Gesù, brilla di luce propria, nemmeno la chiesa non ha luce propria, e se la luna si nasconde dal sole diventa scura. Il sole è Gesù Cristo, e se la Chiesa si separa o si nasconde da Gesù Cristo diventa oscura e non dà testimonianza».
L’immagine della Chiesa-luna come “luce riflessa” era già al centro del breve intervento svolto daJorge Bergoglio nel pre-Conclave; ma è ricordata pure nell’incipit del documento conciliare Lumen Gentium, 1: “Cristo è la luce delle genti, quella luce “che risplende sul volto della Chiesa”.
L’allora arcivescovo di Buenos Aires aveva parlato «dell’auto-referenzialità delle istituzioni ecclesiastiche» e del «narcisismo teologico» come patologie che si sviluppano quando la Chiesa «crede involontariamente di avere una luce propria».
È Ambrogio di Milano [Qui] il cantore della chiesa-luna: «La Chiesa rifulge non della propria luce, ma di quella di Cristo e prende il proprio splendore dal Sole di giustizia, così che può dire “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Davvero sei felice tu, o luna, che hai meritato un segno così grande! Felice non per i tuoi noviluni, ma per essere segno della Chiesa; coi noviluni infatti presti servizio (servis), in quanto sei segno della Chiesa sei amata (diligeris)».
Il tempo inaugurato da Cristo – ci ha ricordato il teologo Oscar Culmann [Qui] – è così caratterizzato, al pari delle fasi lunari, dal “già” e dal “non ancora” del regno di Dio. E la chiesa non scompare quando viene meno la luce: l’attende di nuovo con il venire a lei del suo sole.
Così essa – ci ha ancora ricordato il concilio – «costituisce in terra il germe e l’inizio. Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria» (LG 5).
Ma lo stesso è della fede di ogni battezzato, che partecipa e alimenta tale dinamismo: è connaturato infatti alla fede cristiana vivere tra un “già” e un “non ancora”. Del resto il regno è un “simbolo in tensione” una “realtà pluriforme”: per questo nella predicazione del Gesù storico esso appare imminente, ma già presente, veniente e vicino o addirittura “in mezzo” a coloro che credono al suo annuncio.
C’è un distico latino, una strofa formata da più righe, che non solo mette in luce i vari livelli di lettura e comprensione delle scritture bibliche, ma dà ragione di questa tensione pluriforme del “già” e “non ancora”, di un vangelo che c’è e al tempo stesso è ancora nascosto, in quanto ancora da comprendersi e da attuarsi nell’oggi; un vangelo che non solo il futuro e la storia racchiudono, ma che è interiore ad ogni persona, celato e non ancora manifesto in essa. Il distico cui alludo enuncia:
“La storia dice ciò che è accaduto,
l’allegoria cosa credere,
la morale cosa fare,
l’anagogia dove tendere”.
La parola “anagogia” significa, alla lettera, ‘movimento o spinta verso l’alto, salita, ascesa’. Nell’uso cristiano questa parola ha finito per raccogliere in sé tutto il vasto campo del “non ancora”, distinto dal “già”, realizzato nella vita di Cristo e della Chiesa.
In altre parole, la tensione escatologica verso il compimento ultimo, il giorno senza tramonto, l’ultima Pasqua della vita cristiana. L’Eucaristia stessa è prognostica, anticipa ciò che sarà, facendo memoria della Pasqua essa è celebrata e vissuta “nell’attesa della Sua venuta” (cfr. 1 Cor 11, 26).
Nel discorso teologico l’anagogia consiste in una riflessione sulle realtà ultime: un dire. Invece nella prassi e spiritualità cristiane consiste nel tendere di fatto alle cose ultime: una prassi in cammino, che va facendosi man mano che si cammina.
Chi ha mostrato bene con un esempio questa duplicità è Agostino d’Ippona [Qui]: «Quando si vuole attraversare un braccio di mare – diceva – la cosa più importante non è starsene sulla riva e scrutare l’orizzonte per vedere cosa c’è sulla sponda opposta, ma è salire sulla barca che porta a quella riva» (La Trinità, IV,15, 20; Confessioni, VII, 21). È così che si va incontro alla chiesa che non c’è, nascosta con Cristo nel futuro di Dio.
Dal 2013 al 2017 nelle nostre parrocchie abbiamo messo a tema e ci siamo confrontati con le beatitudini del Regno per immaginare la chiesa tra “già” e non “ancora”. Sono le beatitudini un passante di valico da cui scrutare e cercare dove Dio si è accampato, dove ha posto la sua tenda per raccogliere la sua famiglia in esodo e guidarla alla terra promessa.
Dobbiamo avere lo sguardo di Gesù sul monte delle beatitudini che riconosce tra la folla che lo ascoltava il Padre in mezzo a quella gente, presente lì con loro; così egli non può non vedere in quella gente, in quegli uomini e donne, i destinatari del Regno dei cieli e delle beatitudini: per questo li proclama beati, cioè già ora accolti, già ospitatati nella prossimità del padre suo.
La prossimità del Padre – prossimità impensabile, incondizionata, affettiva (“Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio” Gv 3, 16), presenza di un amore che riapre, come nell’esodo, la storia di un popolo – si rivela di nuovo nella prossimità e intercessione del Figlio per l’intera umanità.
Prossimità e intercessione divengono così due tratti imprescindibili per immaginare, delineare e dare forma a una figura e una realtà di chiesa che è in essere, ma non è ancora: un nuovo capitolo di una storia di salvezza antica e sempre nuova – direbbe ancora Agostino: «Tardi ti ho amato, bellezza così antica e così nuova» (Confessioni, 10, 27).
Scrive Pierangelo Sequeri [Qui] ne La fede e la giustizia degli affetti, (Siena 2019, 272-272): «La testimonianza della giustizia/agape di Dio che elegge il suo campo di esercizio privilegiato nella folla dei poveri, dei vulnerabili, dei disperati e di tutti gli altri avviliti della vita di cui parlano le beatitudini, è il luogo di una chiesa-famiglia nella quale vanno investiti i beni residuali di una chiesa-città che non esiste più, perché la Chiesa ritorna ad essere prossimità e intercessione del Figlio nella Città secolare».
Una chiesa senza prossimità e senza intercessione resterebbe senza Dio, perché non esiste Dio senza prossimità all’umano, ma solo un idolo fatto da mani d’uomo. Se i segni della prossimità di Dio sono inseparabilmente liberazione dal male e offerta della sua giustizia/amore verso gli uomini e le donne delle beatitudini, nessuno può esimersi dal praticare tale giustizia che richiede la conversione del cuore, la prossimità e l’intercessione dell’uomo con l’uomo nella stessa misura di quella che il Dio, incarnatosi in Gesù, riserva a ogni uomo.
Nella parabola del servo spietato (Mt 18, 23-35) si dice: «Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». E in Matteo 25, 31-46 si riporta lo stupore di colui che ha avuto compassione: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”».
Come immaginare la chiesa che non c’è?
Leggiamo nel documento preparatorio del Sinodo dei vescovi (08/09/2021): «La capacità di immaginare un futuro diverso per la Chiesa e per le sue istituzioni all’altezza della missione ricevuta dipende in larga parte dalla scelta di avviare processi di ascolto, dialogo e discernimento comunitario, a cui tutti e ciascuno possano partecipare e contribuire» (n. 9).
«Ricordiamo che lo scopo del Sinodo e quindi di questa consultazione non è produrre documenti, ma “far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un ‘alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani“» (n. 32).
Anche nella poesia di Mario Luzi [Qui] troviamo questo simbolo in tensione della promessa e del compimento, del già e del “non ancora”:
L’invito ad aprirsi all’anelito segreto non ancora rivelato:
Nella notte e nella coscienza Si apre al non ancora rivelato L’anelito segreto svelandosi a sua volta, e il desiderio- … L’appena detto, il non ancora nominato quando accendono una scaglia d’intelligenza negli occhi altrui; e sfolgora un’intesa e si giunge dall’uno all’altro attraverso il fuoco, il fuoco ilare, il fuoco elementare della creazione incessante.
L’anelito che sospira una figura non ancora conosciuta:
L’alta, la cupa fiamma ricade su di te, figura non ancora conosciuta, ah di già tanto a lungo sospirata dietro quel velo d’anni e di stagioni che un dio forse s’accinge a lacerare.
Il destarsi a poco a poco delle immagini, che incalzano il futuro non ancora acceso, se non in quell’eremo sopra il cuore:
Rare immagini deste nella mente, pochi misteri infine elucidati dall’amore, ridoni a verità, come te consentivano l’attesa. Dall’incubo alle lucide promesse ancora sconosciuta, non ancora caduta nel cospetto dello spirito incalzavi il futuro con fuochi di vittoria pari a quelle potenze inquiete il cui trionfo è un incombere eremo sopra il cuore.
Come i magi aperti alla novità:
Andavano cauti loro, i Magi, occhiuto era il viaggio in avanti o a ritroso? Procedendo o tornando ai luoghi d’un’ignota profezia? Sapevano e non sapevano da sempre la doppiezza del cammino. Non è ricaduta inerte nel passato e neppure regressione nel guscio delle cose già sapute questo ritorno della strada spesso,
su se medesima, ma nuova conoscenza, forse, ed illuminazione di un bene avuto e non ancora inteso – dice uno di loro e gli altri lo comprendono sì e no, ma sanno ed ignorano all’unisono… e proseguono insieme, vanno e vengono insieme nel va e vieni del viaggio.
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]
“Sebastiano 2022” è il titolo della mostra ferrarese di una ventina di opere incentrate sulla figura del santo trafitto dalle frecce, a cura del critico d’arte Lucio Scardino. La particolarità della rassegna espositiva – in corso fino a giovedì 31 marzo 2022 alla Idearte Gallery, via Terranuova 41, Ferrara – è la scelta di concentrare la ricerca estetica su una simbologia storicamente legata alla protezione dalla pestilenza, collegandola a un’emergenza sanitaria attuale come quella del Coronavirus.
Il curatore, che intorno a questa figura ha da tempo concentrato attenzione e studi, ha coinvolto per l’occasione una ventina di artisti contemporanei. Molti i ferraresi che già hanno contribuito con le loro opere a un ciclo di diverse esposizioni, ma anche artisti provenienti da tutt’Italia e da diversi Paesi d’oltreoceano. La mostra si caratterizza per l’attenzione a rintracciare un legame tra l’iconografia di provenienza religiosa e un tema di estrema attualità, che è quello legato alla pandemia.
Uno degli autori esposti, Alessandro Medori, romano, titola la sua opera proprio “San Sebastiano e il demone del Covid”[nella foto in alto]. La raccolta – spiega Scardino – è il frutto di oltre un decennio di ricerca estetica e figurativa, che ha preso forma negli anni attraverso un centinaio di autori.
Un raffinato disegno del Guercino contraddistingue catalogo e locandina della raccolta dedicata alla figura di San Sebastiano.
L’ingresso della galleria che ospita la mostra dedicata a “Sebastiano 2022”
Una citazione storica significativa, in quanto la figura di questo santo ha un’origine molto antica e radicata nell’immaginario iconografico. Ritratti dedicati a Sebastiano sono rintracciabili quasi mille anni prima della rappresentazione dell’artista centese Giovanni Francesco Barbieri soprannominato Guercino, e vanno ricercati già nell’arte dei primi secoli dopo Cristo, in forma di decorazioni a mosaico. È il caso di quella del periodo di dominazione bizantina che si trova all’interno della Basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna (datata tra il 527 e il 565), ma anche della raffigurazione conservata nell’ex Chiesa di San Pietro in Vincoli a Pavia realizzata oltre un secolo dopo (anno 680) e dell’icona musiva di San Sebastiano dello stesso periodo (680), nella Basilica di San Pietro in Vincoli a Roma. Nel terzo altare della navata sinistra il santo è raffigurato come un uomo anziano e con la barba. Da rilevare un particolare che emerge già da queste antiche raffigurazioni: sulla lapide accanto all’altare della basilica romana viene specificato che l’immagine è stata realizzata come voto per respingere la peste che colpì Roma da giugno a settembre del 680.
Il legame tra il santo e la pestilenza è indagato da un saggio sulla Creazione di un santo della peste (titolo originale “The Making of a Plague Santo” contenuto nel volume “Piety and Plague – From Bysanzium to the Baroque”, Truman State University Press, 2007) in cui la storica dell’arte americana Sheila Barker indaga questo tema a partire dall’arte bizantina fino al Rinascimento.
È da questo momento storico, nel 7.o secolo dopo Cristo, che è stata infatti documentata l’identificazione del santo come protettore della peste. Il legame tra il culto delle reliquie del santo e la salvezza dalla malattia si consolida grazie a una suggestione figurativa. Dal momento in cui la popolazione credeva che la peste e le altre malattie contagiose si diffondessero attraverso l’aria alla velocità di frecce letali – spiega la storica che proviene dalla Columbia University – la connessione con Sebastiano non risulta essere sorprendente. Sicuramente questo concetto di contagiosità fulminea, che si diffonde attraverso l’atmosfera, diventa più che mai riconducibile ai caratteri dell’epidemia che in questi ultimi anni sta attanagliando il mondo intero.
Opere della mostra dedicata a “Sebastiano 2022” a Ferrara
Bisogna attendere il Tardo Medioevo e l’esplosione della pandemia pestilenziale che colpisce l’Europa a metà del 14.o secolo, perché si cristallizzi l’identificazione popolare e artistica della protezione dall’epidemia con l’intercessione del martire trafitto da una scarica di frecce. Quelle antiche raffigurazioni, però, sono ancora lontane dall’immagine classica del Sebastiano recepito dagli artisti raccolti nella rassegna ferrarese e che ha, comunque, radici antiche. La rappresentazione del santo non più come uomo in là con gli anni e barbuto, come compariva in mosaici di stile bizantino, ma con le fattezze di uomo giovane, che domina nell’interpretazione degli artisti in mostra, è successiva. Questi tratti di giovinezza e avvenenza – come viene spiegato dagli studi – sono infatti il segno distintivo dell’epoca rinascimentale.
Il decano degli artisti ferraresi Silvano Cavicchi accanto alla sua opera dedicata a San Sebastiano
E questi caratteri restano il tratto di prevalenza dominante nei lavori della rassegna espositiva ferrarese, composta in origine dalle opere di diciotto artisti: Rosamaria Benini, Aurelio Bulzatti, il centenario ferrarese Silvano Cavicchi, Franco Coluzzi, l’argentino Nestor Donato, Antonio Esposito, Alfredo Filippini, Renzo Gentili, Alberta Grilanda, il grafico Claudio Gualandi, Alessandro Medori, Lorenzo Montanari, il newyorkese Louis Olivencia, Sergio Padovani, lo statunitense Nicholas Quiring, Massimo Rubbi, Andrea Samaritani con una delle sue foto-dipinte, l’iraniano Amir Sharifpour, Remo Suprani, Emanuele Tasca, Giuliano Trombini, Giglio Zarattini.
A queste opere, presenti in catalogo, si è aggiunto in questi giorni in parete un nuovo dipinto, realizzato dopo l’inaugurazione dall’artista argentino Anibal Guerra.
Una collezione che, nel suo insieme, consente di spaziare dalla grafica, alla scultura e alla pittura più densa. Ed è un viaggio che, attraverso i simboli, sembra voler affermare la supremazia di bellezza e resilienza su orrore e dissoluzione.
“San Sebastiano 2022” da venerdì 4 a giovedì 31 marzo 2022, ore 10-13 e 16-19, chiuso la domenica, Idearte Gallery, via Terranuova 41, Ferrara.
Alessandro Somma, del quale ho avuto modo di apprezzare l’impegno di studioso e cittadino durante la permanenza ferrarese, presenta a Ferrara (il 25 marzo presso la libreria IBS, Ndr) un suo libro dal titolo ributtante “Contro Ventotene. Cavallo di Troia dell’Europa neoliberale”. Lo fa in dialogo con un amico, che pure stimo.
L’inizio della prefazione è promettente “Per uno studioso la messa in discussione dei miti, e al limite la loro demolizione, è un imperativo categorico: è così che il sapere avanza, resistendo alla forza attrattiva dell’immobilismo intellettuale e offrendo nuovi materiali sui quali esercitare lo spirito critico e il culto del dubbio”. È opera particolarmente necessaria giacché “Il solo tentativo di gettare uno sguardo meno osannante su quella vicenda, se non mira semplicemente a chiarire i punti oscuri del Manifesto al fine di metterne a fuoco la valenza di testo sacro del pensiero federalista, identifica invece lo sparuto gruppo dei cattivi nazionalisti o peggio sovranisti”.
“Sparuto gruppo”, verrebbe da aggiungere, con sfumature dal grigio al nero, al governo nella nostra città e in testa in tutti i sondaggi di intenzione di voto, in Italia.
Apprendiamo che all’autore non bastano le critiche da sinistra, esemplificate da un simpatico romanzo “La macchina del vento”, perché “Da queste critiche non discende però una condanna dell’europeismo in quanto tale, bensì della sua declinazione attuale, ovvero della sua complementarità rispetto al progetto neoliberale”. Per polemizzare con la deprecata conversione al neoliberismo della sinistra storica non trova di meglio che prendersela con il Manifesto, che sarebbe altrimenti già dimenticato, oltre che con la personalità confusa e irrisolta di Spinelli.
Prosegue Somma: “Non è dunque un caso se il Manifesto di Ventotene, dopo una iniziale limitata circolazione, è sostanzialmente caduto nell’oblio in Italia e soprattutto negli altri Paesi europei. Se da noi è stato riscoperto in tempi relativamente recenti, è solo perché la sinistra storica se ne è servita per confezionare retoriche buone a spargere una cortina fumogena sulla sua imbarazzante conversione al neoliberalismo. Se così non fosse stato, Spinelli sarebbe ora ricordato semplicemente come personalità confusa e irrisolta, o più probabilmente lo si sarebbe dimenticato”.
In numerosi saggi, in lunghe interviste sul web, Somma ha anticipato i contenuti del libro. Le critiche a cosa è divenuta l’UE sono motivate e spesso condivisibili. Al centro è però l’idea che il ring più opportuno, nel quale condurre il conflitto redistributivo tendente alla giustizia sociale, sia lo stato nazionale sovrano. Sovrano all’interno e pure all’esterno, nei limiti previsti dall’art.11, che non autorizza cessioni di sovranità, ma solo limitazioni. Niente Europa dunque e men che meno federale, salvo si dimostri che in quel ring, da costruire, i lavoratori avrebbero maggiori opportunità e tutele.
Trovo singolare, per non dire altro, l’idea che al potere sovrastante dei mercati possano meglio rispondere Stati nazionali e non la loro unità federale, questa sì da costruire.
Ricordo spesso Lelio Basso che, mezzo secolo fa annota: “nonostante Marx avesse lanciato il famoso appello ‘proletari di tutti i paesi unitevi’ i proletari se ne sono dimenticati, e i capitalisti se ne sono ricordati”. Così “La democrazia appare sotto assedio. Un pugno di manager di immense multinazionali fa e disfa quello che vuole. Gli altri miliardi di uomini sono complici o schiavi. Se si rifiutano, nella migliore delle ipotesi, sono emarginati e non contano niente”.
Colpa di Ventotene? Consiglio la lettura di “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”(in rete è possible scaricarlo dal sito della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli). È breve. È un testo, non sacro ma straordinario, del 1941, clandestinamente diffuso già quell’anno, portato fuori dall’isola dalle mogli dei confinati, Ada Rossi e Ursula Hirschmann. È altro dalla caricatura che ne fa Somma, preoccupato così di difendere il potere dei lavoratori. Lo stampa, per una più ampia diffusione, nel 1943 Eugenio Colorni, il cui contributo al progetto di manifesto è poco ricordato, rispetto agli estensori Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.
Vent’anni prima, nel 1923, quando il fascismo difende gli italiani dalla prepotenza dei mercati, Giacomo Matteotti, che ha a cuore, almeno quanto Alessandro Somma, il potere dei lavoratori, scrive nelle Direttive al Partito; “L’Internazionale socialista mira invece a difendere e sostenere sempre la comune causa del lavoro, contro il parassitismo e la speculazione sfruttatrice dei diversi capitalismi. Dovrà quindi tentare o favorire ogni iniziativa che dirima i conflitti tra i popoli, li associ con vincoli pacifici, eviti o faccia cessare le opposte violenze e minacce. Dovrà favorire il formarsi di una vera Lega delle nazioni, e più immediatamente degli Stati Uniti d’Europa, che si sostituiscano alla frammentazione nazionalista in infiniti piccoli stati turbolenti e rivali”.
E in Parlamento “Sollecitiamo ardentemente con l’opera nostra, che è nazionale e insieme internazionale, sollecitiamo la formazione degli Stati Uniti di Europa, non rimandandola idealmente dopo il socialismo, ma affrettandola praticamente, perché essi costituiscono un anticipo sul socialismo, un avviamento al socialismo, un riconoscimento e un affratellamento fra i diversi lavoratori di tutte le nazioni, eliminando tante deviazioni e contrasti apparentemente nazionali, ma sostanzialmente capitalistici”.
Per me ha più ragione Matteotti. Garanzie non ce ne sono, ma una speranza c’è e va nel superamento dei cosiddetti stati nazionali. Il bersaglio di Somma è, per me, sbagliato. Mi basta la prefazione. Non acquisterò quest’opera, come non acquisterei un suo… “Pro Mein kampf. Misconosciuta difesa del nazionalismo sovrano”.
Cover: Isola di Santo Stefano (Ventotene) – Wikimedia Commons
Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Daniele Lugli, clicca sul suo nome.
Gli ultimi due anni hanno accelerato quell’inarrestabile flusso di informazioni che, volente o nolente, è il segno distintivo di quest’epoca: gli aggiornamenti sulla pandemia e sulla guerra in Ucraina ci accompagnano ovunque, stimolando un’inevitabile discussione. Tuttavia, è probabile che l’effetto destabilizzante di eventi del genere ci faccia andare dietro a conclusioni perlopiù condizionate dalla nostra bolla – il luogo in cui cerchiamo conferme, anziché spunti di riflessione – o dal nostro vissuto.
Gli aggiornamenti servono ad avere un quadro più ampio della situazione, ma non per questo esaustivo; d’altronde, è più o meno impossibile farsi un’idea ben definita di una guerra in corso, e discuterne sulla base di sensazioni o sospetti può essere pericoloso: c’è il rischio di un ulteriore cortocircuito mediatico. Nonostante ciò, l’abitudine di alcuni media a polarizzare e a stuzzicare ancor di più il dibattito pubblico persiste, lasciando dietro di sé degli strascichi con cui probabilmente faremo i conti durante la prossima campagna elettorale.
È opportuno quindi non fossilizzarci su una delle possibili e innumerevoli cause scatenanti, né tanto meno su una singola dichiarazione. È altrettanto opportuno distinguere tra aggressore e aggredito, tra propaganda e informazione, tra opinioni e fatti. Insomma, c’è bisogno di uno sforzo interpretativo: oggi più che mai, informarsi è come essere al supermercato e dover scegliere il cibo più salutare in mezzo a etichette fuorvianti, operazioni di greenwashing e packaging ammiccanti.
Se l’attuale infodemia non ci dà il tempo necessario a elaborare gli sviluppi di una guerra, ce lo dobbiamo ritagliare: che siano cinque o trenta minuti, l’importante è farlo con un approccio attivo. Infatti, “elaborare gli sviluppi” non vuol dire necessariamente stare in silenzio e accontentarsi di ciò che passa il convento, bensì provare ad approfondire le informazioni man mano che arrivano, scegliendo con calma i pezzi più idonei a formare il puzzle.
l social media e gli abbonamenti online ci danno la possibilità di avere accesso, ad esempio, ai giornali più autorevoli al mondo, ad agenzie stampa quali Reuters, Associated Press e Bloomberg, nonché alle testimonianze di chi si è recato sul posto [Qui] o dei civili che vivono quotidianamente la realtà della guerra. Ci sono poi degli ottimi “raccoglitori” di tutte queste fonti, sia sugli stessi social media che nel giornalismo italiano: prendiamoci del tempo per cercarli, valutarli e farne un uso consapevole. Il nostro futuro dipende anche da questo.
Sono coraggiosi, hanno un profondo senso del ruolo, una lucidità e uno slancio particolare che li accompagna, li sostiene nel loro agire, permette loro di muoversi agilmente in una delle maggiori catastrofi della storia umana: la guerra.
Sono i corrispondenti, gli inviati speciali in situazioni di conflitto bellico, i fotoreporter: professionisti uomini e donne che vivono la guerra per descriverla e riportarne tutti gli aspetti militari, politici, geopolitici ma anche economici, diplomatici, umanitari, alla ricerca di informazioni, testimonianze, scenari e conferme in territori dove pericoli, minacce, rischi sono una assurda normalità.
Seguono l’evento bellico attraversandone ogni dettaglio, le operazioni militari, l’evolversi o l’involversi delle azioni, il destino dei civili, i bruschi cambiamenti ambientali. Le difficoltà che incontrano non riguardano solo le cannonate, i missili, le mine, i droni e le bombe intelligenti ma anche il mettere insieme le tessere di un mosaico che ogni istante può cambiare. Ci vuole fegato e curiosità, tanta preparazione, intraprendenza e visione, contatti giusti, sangue freddo e acume, per affrontare tutto questo.
Cinema, letteratura, immaginario popolare hanno creato un alone mitico attorno alla figura del giornalista di guerra, attribuendogli spesso le caratteristiche dell’eroe che, a modo suo, combatte con la scrittura e le immagini accanto al soldato. Nella realtà dei fatti, più che di eroismo generico da celebrare si deve parlare di vita in tempo di guerra, dove ogni azione diventa un azzardo e ogni giornata è sospesa in attesa della seguente, seguendo gli esiti degli interventi armati e i tentativi di sopravvivenza della gente comune: in epoche passate come oggi, con la penna di ieri e con le tecnologie attuali.
E’ una strana fatalità che questa figura professionale sia nata proprio in Crimea con William Howard Russell (1820-1907), giornalista irlandese, definito “L’uomo che inventò le corrispondenze di guerra”, il padre dei reporter di guerra.
Dopo varie esperienze giornalistiche a Dublino, venne assunto a Londra dal Times, il giornale più prestigioso e diffuso dell’epoca, con le sue 20.000 copie vendute, dove si occupò di servizi che riguardavano l’attività parlamentare con competenza, affidabilità e indipendenza di giudizio. L’occasione di passare agli onori della cronaca arrivò nel 1854, quando venne mandato in Crimea dal direttore John Delane che aveva ottenuto l’autorizzazione ad inviare un giornalista al seguito del corpo di spedizione inglese per la guerra in quei luoghi, combattuta dal 1853 al 1856 dall’Alleanza tra Impero ottomano, Francia, Gran Bretagna, Regno di Sardegna, contro l’Impero russo zarista, per il controllo dei Balcani e del Mediterraneo.
Quella del direttore del Times era un’iniziativa senza precedenti e, come scrive lo storico Oliviero Bergamini in Specchi di guerra. Giornalismo e conflitti da Napoleone a oggi : “era infatti la prima volta che un quotidiano inviava un proprio dipendente fisso, e per di più giornalista di fama, a seguire con continuità un’operazione militare”.
Nella penisola di Crimea, Russell non poté contare sulla protezione dei militari inglesi e si scontrò con l’attrito degli ufficiali che non gradivano avvicinamenti e collaborazione con il corrispondente perché, come scrive Bergamini : “la sua presenza al seguito delle truppe era un fatto del tutto nuovo, non avevano ancora elaborato alcun metodo organizzativo per far filtrare e controllare l’informazione”. William Russell doveva provvedere completamente al proprio sostentamento, gli alloggi sicuri, gli spostamenti, aggirandosi negli accampamenti autonomamente per osservare, chiedere, rilevare fatti e testimonianze.
L’inviato scriveva delle condizioni di vita miserabili dei soldati inglesi, le difficoltà dei trasporti, le condizioni climatiche insostenibili a cui non erano abituati e le condizioni igieniche delle truppe così carenti da provocare una violenta epidemia di colera. Nella sua cronaca di guerra, William Russell manifestava preoccupazione per i problemi logistici e organizzativi sempre più pressanti che ricadevano sui bisogni dei soldati al fronte. Ma fu la sua descrizione della disfatta militare del “600”, la brigata leggera dell’esercito inglese decimata dalle cannonate russe aBalaclava – base dei rifornimenti britannici nei pressi di Sebastopoli – a suscitare scandalo e critiche nella madrepatria, dove arrivavano gli scritti, spesso unico mezzo di trasmissione delle informazioni mancando qualche volta il telegrafo, sui quali l’unico filtro operato era quello del direttore.
Le sue corrispondenze, tuttavia, non subirono alcuna censura sostanziale e a Russell rimane il merito di aver documentato e raccontato un conflitto dal punto di vista di “giornalista, prima che cittadino di un Paese che era parte in causa nella guerra, anteponendo la verità dei fatti al patriottismo”. William Howard Russell ridusse le distanze tra i lettori e i campi di battaglia facendo conoscere più da vicino la straziante realtà della guerra e l’impatto dei suoi articoli sulla politica fu dirompente. Oggi i giornalisti di guerra continuano a raccontare ciò che sta succedendo dai teatri di macerie, il suono costante delle sirene d’allarme, i bunker, le code della povera gente per il pane e l’acqua, le donne e i bambini in fuga, le colonne di carri e quel cielo violato dai lampi dei missili.
“Se le tue foto non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino.” (citato in Randy Kennedy, The Capa Cache)
(Robert Capa)
In copertina: Robert Capa, Indocina ,1954 (Wikimedia Commons)
Ho molte sollecitazioni in testa. Sono venute così, un giorno dopo l’altro leggendo libri, ascoltando su Rai3 una bella puntata di Maestri sulla presenza femminile tra gli autori della storia letteraria italiana, conversando a tavola con le amiche sulle nostre letture.
Ho letto per primo un libro che è da dimenticare e che ho già dimenticato: Molto amoreper nulla. L’ho scelto distrattamente sul tavolo delle novità alla biblioteca del mio paese; ho pensato ‘non conosco questa Anna Premoli’. Ho visto che ha già venduto oltre 800.000 copie. L’ho letto, come dicevo. Ho anche saltato, con l’avallo di Pennac, molte delle pagine centrali, nella sicurezza di non perdere il senso della storia che è tutta uno stereotipo.
Lui e lei si conoscono, alla fine si amano e nel mezzo sono raccontate le tappe del loro avvicinamento: un repertorio di occasioni di lavoro e di incontri casuali, che portano i due verso il lieto fine. La scrittrice ha inserito alcune variabili narrative accattivanti, del tipo che lei è avvocato ed è single, ha una promettente carriera davanti a sé, ma non si cura come dovrebbe. Lui è bellissimo, ma anche sensibile e intelligente, al punto da accorgersi di lei anche se indossa abiti poco vistosi.
Sono passata ai racconti: ho aperto la raccolta curata da Corrado Augias dal titolo Racconti pariginie ho scelto di cominciare da La Torre Eiffeldel nostro Dino Buzzati, unico italiano tra i venti mostri sacri scelti dal curatore, del tipo Walter Benjamin, Marcel Proust, Gertrude Stein e così via. Leggo molti più racconti ultimamente, perché è una sollecitazione che mi è venuta dall’esterno e perché voglio riaccostarmi in modo libero a questo genere, fuori dai percorsi scolastici.
Buzzati ne ha scritti di bellissimi e li ha ambientati in ogni parte del mondo, in situazioni concrete e quotidiane piene dei dettagli della vita ordinaria. Spruzzandoli però abbondantemente di magia, spargendoli di una polverina che li trasforma in fiabe misteriose.
Gli operai che costruiscono la Torre, a centinaia cominciano a lavorarci a turni serrati; il narratore è uno di loro, è un bravo operaio meccanico che è stato ingaggiato da Gustavo Eiffel in persona: descrive perciò il lavoro iniziale con una precisione tecnica che rimanda al filone della letteratura industriale in voga negli anni Sessanta; fa pensare alle grandi opere narrate da Primo Levi nel suo La chiave a stella.
Gli operai condividono fin dall’inizio un segreto e, quando la Torre raggiunge i cento metri di altezza, un anello di nebbia, che piacerebbe a Magritte, avvolge il suo culmine, impedendo a chi ci lavora di vedere in basso e di essere visto. Il cappello di fumo sale mentre anche la costruzione va su fino ai 200, poi ai 280 e infine ai 300 metri e anche oltre: fino all’infinito la porteranno gli operai, il loro segreto si trasforma via via in un sogno.
Il racconto si chiude con la inaugurazione del 31 marzo 1889 [Qui]: è finita la Torre che il mondo intero attende, dalla straordinaria altezza di 312,28 metri. Durante la cerimonia, però, i vecchi operai piangono tutta la loro delusione: da quando le forze dell’ordine hanno minacciato di aprire il fuoco contro di loro, sono stati costretti a scendere dal “sublime esilio” e ad amputare la guglia, rinunciando al “poema” che volevano elevare fino al cielo.
Dopo il libro totalmente orizzontale di Anna Premoli, fatto per solleticare una facile emotività, mi ci voleva la spinta verso l’alto narrata da Buzzati, l’ardore di osare, il gusto delle situazioni paradossali che tocca in profondità le simbologie del nostro immaginario.
Nel ripensare a La mattina dopo di Mario Calabresi, che ho riletto appena sveglia per alcune delle ultime mattine, mi viene in mente una linea obliqua, o meglio una linea spezzata che punta comunque verso il basso. E’ partita da un punto alto di dolore e di smarrimento e lo perde via via, come una zavorra che non può fare testo nella vita dell’autore, non le viene lasciato il modo di corrodere troppo.
La mattina dopo la brusca interruzione del suo lavoro di direttore di La RepubblicaCalabresi si reinventa. E così si comporta nei mesi successivi, occupandosi della storia di famiglia e della ricerca di un tempo adatto ai rapporti con gli altri, con coloro che ama o che gli sono amici. Intanto metabolizza il vuoto che è subentrato nelle sue giornate e si abitua al nuovo silenzio, lontano dalla redazione e dal telefono che squillava perennemente. Il racconto della sua nuova vita segue i lembi della ferita che gli è stata inferta e li cuce poco alla volta, con le parole che nascono dai ricordi e dalle riflessioni di cui si è capaci nella maturità.
Le linee ora sono tre e, come shanghai [Qui] lanciati in alto e poi lasciati cadere, si trovano sovrapposti, ognuno col suo colore e con una direzione da seguire.
Le letture di questi giorni non sono però finite.
L’ultima non viene da me, ma dal gruppo di lettura di cui faccio parte al mio paese: Nessuno si salva da solo di Margaret Mazzantini. Ho pensato “meno male una donna, un’altra autrice che riporta in pari il conto con Buzzati e Calabresi”. Questo libro lo penso però come una narrazione poco riuscita, come un organismo in cui le parti non collaborano tra loro. I contenuti della storia hanno una loro stabilità (la separazione dolorosa tra Delia e Gaetano viene ricostruita dalla voce narrante mentre i due sono a cena al ristorante, in un continuo andirivieni tra presente e passato), mentre la lingua sembra non aderire in molti punti a ciò che viene detto dei due personaggi, sembra un vestito che non ha le stesse misure della persona che lo indossa.
Troppe esplosioni improvvise di un linguaggio turpe, che tradisce, anziché esprimere la personalità di ognuno. E’ la sua gratuità che fa suonare falsa la pagina; viene da pensare che due persone come Delia e Gaetano possono esistere, ma usano quel linguaggio? Che in una fase così delicata della loro storia il turpiloquio sia così spesso la chiave espressiva di cui hanno bisogno? Le linee che escono dal libro di Mazzantini restano due, come due lunghi shanghai, che hanno tratti in parallelo e tratti in cui si staccano l’uno dall’altro, assumendo il profilo di linee spezzate.
Mi succede spesso che la scia lasciata dai libri prenda la forma di linee colorate nello spazio, che si dispongono a formare geometrie composite. Quando guardo col giusto distacco gli oggetti della conoscenza mi riesce di sintetizzarli in un colore, in una linea o in una forma stilizzata.
Per esempio: I promessi sposi sono un quadrato di colore rosso, impenetrabile, La coscienza di Zeno una margherita dai petali gialli, azzurre e senza contorni precisi le nuvole di colore lasciate dalle poesie dei Canti orfici di Dino Campana.
Mi viene in mente che potrei ricostruire anche il repertorio degli odori che lasciano i libri. Magari un’altra volta.
Nel testo faccio riferimento ai seguenti libri:
Anna Premoli, Molto amore per nulla, Newton Compton Editori, 2020
Corrado Augias (a cura di), Racconti parigini, Einaudi, 2018
Mario Calabresi, La mattina dopo, Mondadori, 2019
Primo Levi, La chiave a stella, Einaudi, Premio Strega 1978
Margaret Mazzantini, Nessuno si salva da solo, Mondadori, 2011
Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]
Domenica 20 marzo, parco del Montagnone. Sono arrivati i primi camion smisurati, e già cominciano a montare giostre mostruose per dare altezza, brividi e nostalgia per la festa di San Giorgio. Come tutti gli anni, sarà il brucomela ad aprire per primo.
In questo 2022 l’equinozio è arrivato con 24 ore di anticipo, e il primo giorno di primavera si presenta in gran spolvero: sole tiepido, cielo azzurrissimo e un vento fatto apposta per far volare gli aquiloni.
Qui, nel parco che accompagna le Mura di Ferrara, invece degli aquiloni, appese con uno spago ai rami degli alberi, sventolano una cinquantina di poesie “contro ogni guerra”. Il vento gira i fogli, le poesie si alzano, si abbassano, scappano, ritornano. I passanti, i ciclisti, le famiglie con bambini al seguito, i ragazzini si avvicinano a quel piccolo spettacolo. Molti catturano con una mano i fogli ballerini per leggere le poesie. Anche i corridori e i camminatori seriali, impegnati nel giro domenicale sulle Mura, si fermano qualche minuto per leggere cosa c’è scritto.
La gente continua ad arrivare, l’iniziativa piace, interessa, diverte. Forse anche per la sua assoluta semplicità, il suo carattere spontaneo e improvviso.
Intanto, tra prato ed “alberi parlanti”, comincia il reading di poesia del Collettivo Poetico Ultimo Rosso. Sono una ventina, forse di più, le poete e i poeti che si alternano alla lettura, unico corredo scenografico: un nastrino rosso al polso, un leggio nero e un mini-aplificatore rosso portatile. Molti sono di Ferrara città e provincia, ma alcuni sono arrivati da Padova, da Imola, dal Modenese, dalla Brianza. Leggono le loro poesie per la pace e le poesie dei grandi poeti: Saffo, Prevert, Pasolini, Szymborska, Quasimodo, Brecht, Rodari, Lennon…
Gli alberi della poesia al Parco del Montagnone continueranno per alcune settimane a chiedere la pace: pregheranno al vento come bandierine tibetane di fermare tutte le guerre, in Ucraina e in tutto il mondo. Le 44 poesie appese a un filo resteranno a sventolare fino al 10 aprile.
Per info e per aderire al Collettivo Poetico Ultimo Rosso scrivere a: lultimorosso.ferrara@gmail.com Visitate la pagina Facebook [Qui]
Le foto, compresa quella di copertina, sono di Valerio Pazzi.
Dio, patria e zar (o Cesare, che dir si voglia). Non brillerò per originalità, avendolo già scritto su queste pagine, ma è per forza da qui che occorre partire. Il Patriarca Kirill e i Pope ortodossi assoggettati al potere temporale di un Cesare, che è più un boss che uno zar; una grande madre Russia che non richiama, nell’immaginario collettivo, l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche ma l’Impero. Tanto che l’innominabile imputa addirittura a Lenin la colpa della situazione ucraina, un secolo prima della colpevole Nato.
Gli esperti di geopolitica pullulano, così come i virologi fino a due settimane fa. La realtà virtuale ritorna ad essere la polis dove urlare il proprio sdegno o tifoseria. Intanto la guerra fa il suo mestiere. Uccide, uccide e basta.
E’ una certezza: le armi sono fatte per togliere la vita, e per i morti in guerra non è molto importante sapere da quale canna viene sparata la pallottola letale. Gli invasori invadono e muoiono, gli invasi si difendono e muoiono anch’essi, il testosterone dei patrioti da ambo le parti genera mostri, come la storia dell’evoluzione ci insegna. Anzi, non ci insegna un cazzo. A terra, sotto le macerie fumanti di città accerchiate, come Troia, Costantinopoli, Leningrado, Sarajevo (l’assedio più lungo del ‘900), Cobane … restano i civili, soprattutto donne, vecchi e bambini.
Perché i soldati si sparacchiano addosso al fronte, che non c’è. Le bombe non sbagliano, colpiscono gli ospedali, i teatri e i palazzi perché quello vogliono colpire. L’innominabile – fino a ieri fraterno amico di potenti leader occidentali o idolo da t-shirt di piccoli fasci nostrani – si trasforma in un attimo nel Cattivo.
Perché, prima era buono? Quando mai lo è stato? Un ego degenere che arringa le folle per liberare la Russia dai Bolscevichi, portando McDonalds sulla piazza rossa, stampella di un ubriacone, e prima ancora strenuo difensore del palazzo che con una pistola e 12 colpi salva le mummie del Politburo. Quando mai è diventato cattivo? Lo è sempre stato.
Non è una guerra dell’Est contro l’Ovest, non è una guerra tra Europa e Asia, non è una guerra di religione, nessuna ideologia contrapposta: il neoliberismo e capitalismo criminale russo è il più fulgido esempio dello sfruttamento dei padroni nei confronti del proletariato.
Provo davvero fastidio quando si cerca di negare questo: non è in atto nessuno scontro di civiltà, solo barbarie contro barbarie. E che dire dell’imperialismo? Chi insegna a chi? Da quanto tempo i potenti impongono la propria volontà con la forza e la violenza? Quanti sono stati gli anni in cui sulla Terra non c’è stata la guerra? Facile rispondere, non c’è bisogno di essere uno storico: nessuno.
L’evoluzione ci ha solo insegnato a come ucciderci meglio. Nell’antichità il Caesar moriva sul campo di battaglia, ora divide et impera da una bella poltrona in pelle, seduto ad un tavolo tondo o rettangolare lungo un chilometro. Quanti morti occorre portare al tavolo delle trattative?
Il nostro parlamento, proprio tutto, a parte 19 deputati di schieramenti misti, chiede al governo di aumentare le spese militari fino al due per cento del Pil. Una bazzecola, direte. Dagli attuali 25 miliardi euro all’anno a circa 38 miliardi di euro.
Lo scorso anno solo 10 Paesi su 30 che aderiscono alla Nato hanno raggiunto questa soglia, tra cui Stati Uniti (3,5 per cento), Regno Unito (2,3 per cento), Polonia (2,1 per cento) e Francia (2 per cento). In media, nel 2021, la spesa per la difesa nei 30 paesi Nato ha rappresentato il 2,65% del Pil complessivo di tutti i Paesi che ne fanno parte.
E il resto del mondo? Idem, si svuotano i granai e si riempiono gli arsenali.
Gli Stati Uniti dovrebbero avere circa quattromila testate nucleari, la Russia circa tremila, non so i numeri di India, Corea, Cina e altri paesi del mondo. Quante ne basterebbero per creare l’inverno nucleare? Per fare diventare l’intero pianeta un biotopo per scarafaggi e insetti robusti, credo ne basterebbero una trentina. E quindi. di cosa stiamo parlando? Se Belzebù potesse fulminare qualche decina di egoarchi, il popolo ne incarcerasse un altro paio di centinaia, forse il mondo prenderebbe un’altra piega.
Ma non c’è nessuna speranza se da qualche parte, nell’unico pianeta che abitiamo, non si innesca un nuovo rinascimento, un nuovo ’68 di speranza e consapevolezza, dove il popolo ucraino e quello russo ritornino ad essere fratelli e ad unirsi contro la violenza del potere. Un mondo dove i crimini di guerra sono riconosciuti per tutte le guerre. Dove i popoli oppressi sono tutti uguali, dal Centro Europa, al Kurdistan, passando per la Palestina, fino a raggiungere la Siria, la Libia, e poi giù, fino al cuore dell’Africa, oltre l’oceano dove i Mapuche e i nativi americani vivono in gabbie come le scimmie dello zoo. Dove finalmente i profughi di guerra suscitano tutti la stessa indignazione, siano essi bianchi caucasici, arabi, africani o latinoamericani.
L’homo sapiens è uno e unico, non si divide in razze, specie o sottospecie, se non sbaglio condividiamo questo privilegio di unicità solo con una specie di formichiere africano, l’oritteropo (la famiglia, Angela, sarebbe fiera di me).
Dell’accusa di non essere schierato non mi frega niente. Credo di avere il diritto, senza lanciarmi in analisi geopolitiche, di poter dire che la guerra mi fa schifo. Odio il potere e i potenti, qualunque sia la loro bandiera, odio il machismo del capitale. Mi fanno schifo gli ipocriti, i falsi, i bigotti, i corrotti. Provo ribrezzo per chi uccide: con una doppietta, un fucile di precisione, una mitra, un drone, un aereo, un bomba, un missile a corta o lunga gittata. Disprezzo i paradisi fiscali dove amici e nemici si mischiano, forse basterebbe bombardare il Lussemburgo e le Cayman e saremmo liberi.
Questo sfogo potrebbe non avere né capo né coda, però adesso sto meglio.
Che cos’hanno in comune un geometra, un maestro elementare, un dirigente d’azienda, un pedagogista e un dipendente pubblico da pochi giorni in quiescenza? In anni diversi, tutti hanno svolto il servizio civile a seguito della scelta di obiezione al servizio militare. Una scelta e un’esperienza che li ha fatti crescere umanamente e professionalmente, e che sentono più che mai attuale.
Alcuni giorni fa si sono ritrovati ripercorrendo le ragioni della loro obiezione, e hanno ritenuto che meritassero di essere confermate anche nelle presenti circostanze. Riproporne il senso acquista un significato ulteriore dal momento che la leva obbligatoria è sospesa ma non cancellata. La questione anche in Italia potrebbe dunque tornare di attualità.
I protagonisti – Michele Balboni, Giordano Barioni, Andrea Casari, Patrizio Fergnani e Mauro Presini – credono che anche altri servizio civilisti avranno piacere di unirsi all’iniziativa per testimoniare l’opposizione alla guerra, il maggior crimine contro l’umanità secondo la definizione di War Resisters’ International.
Inoltre mettono a disposizione la loro esperienza, della quale sentono l’attualità, nei confronti di giovani che vogliano confrontarsi sull’impegno per la pace presso enti di servizio civile, scuole, gruppi e associazioni.
Singoli o gruppi che vogliano mettersi in contatto con loro possono farlo scrivendo all’email noalleguerre.fe@gmail.com
Mi complimento con i 5 moschettieri senza moschetto per questa bella iniziativa. Anch’io ho svolto il servizio civile, obiettando al servizio militare. Oggi, come e più di ieri, contrario ad ogni guerra, refrattario a tutte le armi, fedele alla nostra Costituzione, convinto disertore di qualsiasi esercito. Francesco (Checco) Monini
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