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Non governare la globalizzazione: quando le persone diventano cose

“Governare la globalizzazione” è un proposito che, in Italia, non viene nemmeno preso in considerazione dalle politiche industriali. Gli esempi si stanno snocciolando davanti ai nostri occhi. L’ultimo:  Andrea Ghezzi è l’AD della Gkn Italia (produzione assi e semiassi per auto). Ha appena confermato alla stampa il licenziamento di tutti i dipendenti dello stabilimento di Campi Bisenzio. Vi prego di guardare questo video natalizio di un minuto, nel quale fa gli auguri ai lavoratori “per un 2021 ricco di soddisfazioni e salute” dopo averne lodato l’opera che ha permesso di garantire la “sostenibilità finanziaria” dell’impresa:

guarda qui

Ghezzi quindi a dicembre 2020 conferma l’equilibrio finanziario della GKN, e a luglio 2021 annuncia il licenziamento di tutti e la chiusura dello stabilimento di Campi Bisenzio. Contestualmente chiede 12 mesi di cassa integrazione per chiusura attività e propone un advisor per la riconversione industriale del sito. Con chi, per fare cosa, sono dettagli fastidiosi. Il giornalista gli chiede perché nel bilancio di responsabilità scrivono di mettere al primo posto il benessere dei dipendenti e poi tagliano tutti i posti di lavoro, e lui risponde: “considero responsabilità sociale proprio il piano proposto al sindacato che va ben oltre quanto previsto dalla legge”. Tradotto: per la legge noi possiamo fare quello che ci pare, ma siccome siamo buoni, proponiamo di mettere a casa tutti con un anno di stipendio (tagliato e pagato dallo Stato), ma con una adeguata formazione vedrete che saranno tutti ricollocabili. Dove, presso chi e per fare cosa, ancora una volta, sono dettagli fastidiosi. Poi smentisce che la decisione sia della Melrose, il fondo che detiene il controllo dell’azienda: “Le motivazioni sono indicate nella lettera trasmessa a sindacati e istituzioni e hanno carattere industriale. Il riferimento a Melrose non è pertinente”.

Quindi uno pensa: se la scelta è locale e i problemi sono localizzati, sarà lo stabilimento di Campi ad essere stato amministrato male. Il primo a rimetterci le penne dovrebbe essere proprio il suo Amministratore Delegato. Invece Ghezzi non solo resta in sella, ma si permette di rilasciare interviste contrite dichiarando la decisione della chiusura “dolorosa” (per chi?) ma definitiva. Il motivo è semplice: la decisione non è locale, ma è centrale. Ghezzi si limita a fare la sua parte in commedia, e probabilmente per questo sicariato verrà anche ricompensato. Ha una grave responsabilità, sia chiaro, quella di eseguire ordini manifestamente criminosi, almeno sotto il profilo sociale: ma si tratta della responsabilità di un luogotenente della globalizzazione, uno dei tanti. La globalizzazione in nome della quale alla Texprint di Prato (stamperia tessile) la polizia sgombera con la forza gli operai (stranieri) e i sindacalisti che fanno sciopero della fame chiedendo l’applicazione del contratto nazionale di lavoro (8 ore per 5 giorni la settimana anziché 12 ore sette giorni su sette); lavoratori che, per inciso, incassano l’ostilità di molti impiegati della stessa azienda, preoccupati che la conflittualità non faccia uscire la merce e faccia crollare gli ordinativi.

“Governare la globalizzazione” è un proposito che, in Italia, non è mai stato preso in considerazione dalle politiche industriali, ora come in passato. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: guerra tra poveri. Indeterminatezza dei padroni. Totale arbitrio nelle scelte strategiche aziendali. Precarietà sistematica del proprio lavoro. Frattura tra lavoratori. Tavoli di crisi funzionali al meno peggio, non al meglio. La stragrande maggioranza delle forze politiche che compongono il Parlamento ed il Governo stesso, davanti a questi focolai di crisi sociale, reagiscono in piena continuità con il presupposto ideologico che ha prodotto la legislazione sul lavoro a partire dagli anni novanta: le imprese devono essere libere di fare i loro comodi, altrimenti aprono altrove, oppure chiudono quello che c’è. Ma come è possibile pensare che l’unico modo per stare nella catena globale della produzione sia quello di lasciare mano completamente libera alle imprese, demolire gli istituti di stabilizzazione del lavoro, continuare a sussidiarle senza alcun vincolo di strategia industriale? Come è possibile che nel dibattito su questo le istanze radicali siano confinate nel territorio di Sinistra Italiana? (leggi qui ). Dov’è finito il Draghi libero dall’incarico in BCE che scrive sul Financial Times articoli keynesiani sull’uscita dalla crisi epidemica mondiale?

leggi qui

Tutti immaginiamo quanto sia più semplice scrivere ricette economiche su un foglio di giornale piuttosto che governare un Paese. La distanza tra le due imprese è incolmabile, e tuttavia l’autorevolezza riconosciuta all’attuale premier è un elemento che il medesimo dovrebbe spendere in prima persona per orientare scelte economiche e gestire situazioni calde. Per adesso, la sensazione è che di quel Draghi visionario di maggio 2020 si sia visto ben poco. Si vede invece Giorgetti, il suo ministro dello Sviluppo Economico, dichiarare con candore che le imprese “vogliono evitare fastidi e confusioni sindacali e quindi vanno a investire in qualche terreno vergine”. Vergine di cosa? Di diritti per chi lavora, evidentemente. Sembra passato un secolo – in realtà solo nove anni – da quando l’AD di Ikea Italia affermava che l’art.18 non è un problema, ma è “l’incertezza dei tempi della burocrazia e della politica” a rendere difficile investire in Italia. Se l’epidemia mondiale da Covid-19 doveva costituire l’occasione per ripartire utilizzando parametri nuovi per lo sviluppo economico, sul fronte dei diritti per chi lavora sembra di moda un salto all’indietro: la concorrenza si gioca sul massimo ribasso dei costi e delle tutele per i lavoratori. Una battaglia non solo scellerata, ma destinata alla sconfitta: quando milioni di lavoratori nel mondo (in Cina, in India) si stanno appena affacciando sulla soglia dei diritti minimi, appare chiaro che l’unico modo che ha l’Italia di non perdere il proprio tessuto industriale non è quello di abbassare salari e diritti al loro livello, ma quello di creare filiere di produzione di qualità. Invece si continua a perseverare sulla strada della riduzione delle tutele e dei diritti, fino a prendersela addirittura col reddito di cittadinanza, come se il problema fosse garantire cibo agli indigenti, anziché restituire dignità e giusto salario al lavoro.

DIARIO IN PUBBLICO
La scomparsa di Fiamma Nicolodi

 

Mi giunge la notizia della scomparsa di una cara amica: Fiamma Nicolodi, grande musicologa e studiosa. Le due sorelle Nicolodi, Fiamma e Daria erano tra le personalità più in vista della Firenze colta. La loro villa era tra i luoghi frequentati dalla cultura fiorentina. Di Fiamma sono onorato in questo Diario di postare il ricordo che la professoressa Anna Dolfi ha composto e che qui riproduco:

Fiamma Nicolodi, una presenza senza età
di Anna Dolfi

Fiamma Nicolodi
Fiamma Nicolodi nel novembre 2017

” Era una strana scuola la media Carducci di via Borgo Pinti. Di sicuro una delle più quotate di Firenze, con professori che brillavano, non so se per bravura, certo per severità e per un’acuta sensibilità al ceto sociale. Non c’è dunque da stupirsi che fosse frequentata per lo più da rampolli di famiglie importanti, che vivevano in classe e fuori in una complicità che fatalmente funzionava ad excludendum.
Solo un paio di ragazze di quel gruppo facevano eccezione, e Fiamma era tra queste. Il suo distacco non aveva niente di intenzionale, legato com’era a una specie di svagatezza, a una naturale eleganza, a una precoce urbanità alimentata da una storia di cui niente si sapeva, ma che si intuiva difficile.
Incontrandola con sorpresa e piacere quasi vent’anni dopo in casa di amici, scoprii che anche lei non aveva amato quegli anni, e che il nostro giudizio su insegnanti e compagni non era molto diverso. Non fu dunque sul ricordo di un mondo, ma per la distanza da quello, che cominciammo a incontrarci con piacere, a parlare di università e di cultura, di libri, di città, di vacanze, di musica.
Soprattutto di musica: dei concerti ai quali le capitava di invitare me e Laura, specie se con programmi e con intrepreti di nicchia da andare poi magari a trovare in camerino, o delle prime al Comunale o al Teatro del Maggio dove era facile incontrarla, sì che la si cercava con lo sguardo raggiungendola durante gli intervalli quando passava sorridendo da un’autorità all’altra.
E poi la si vedeva in Facoltà, o per le strade di Firenze, dove sfrecciava sulla sua bicicletta con cestino, muovendosi dalla bella casa di S. Niccolò – piena di libri e di dischi, dove non mancava uno splendido pianoforte a coda – per andare in centro, ai teatri, a lezione.
Laura, mia sorella, che era stata compagna di scuola di Daria, l’aveva frequentata piuttosto a partire dagli anni di Salerno e mi portava lo spaccato di un pendolarismo universitario faticoso, attenuato proprio dalla condivisione. Così eravamo in due a lanciare il suo nome quando si organizzava una cena con amici che si pensava potessero piacerle. Anche la mamma era contenta di vederla: Fiamma, che aveva avuto una madre difficile e lontana, aveva nei suoi confronti un’attenzione tutta particolare, che diceva molto della sua sensibilità.
Ma se penso oggi a qualche giorno o momento del passato legato a lei, mi tornano a mente in particolare un pomeriggio e una serata a Forte dei Marmi, con i suoi racconti di un mondo semi scomparso di esuli e di spiagge deserte, conclusosi con una cena in una sala poco illuminata della mitica Villa Elena; una grigliata settembrina da noi, a Viareggio, che ci siamo riproposte più volte di ripetere, e alcuni incontri parigini in presenza, ma perfino in assenza, visto che mi capitò di entrare notte tempo, su suo incarico, munita solo di una torcia elettrica, in un appartamento chiuso che aveva in affitto a due passi da Notre Dâme per recuperarle, in un secretaire dai molti cassetti, documenti che le erano rimasti a Parigi.
Abbiamo scherzato a lungo su quella mia impresa da agente segreto e su altre, letterarie e no, nelle quali tentavo di coinvolgerla. Mi piace ricordarla così, con il suo serio sorriso, perennemente giovane, nonostante le vicissitudini di salute, equilibrata, talmente incapace di lamentarsi da sparire all’improvviso in una notte di agosto, portando con sé la sua straordinaria capacità di leggere come pochi gli spartiti, non solo della musica, ma della vita.”.

A questa figura è inevitabile associare quella della sorella Daria, la dark Lady delle scene italiane, compagna e attrice in tanti film di Dario Argento e madre di Asia, anche lei attrice. Per la biografia di Daria Nicolodi (1950-2020) [Vedi qui].
Fiamma fu talvolta suggestionata dall’avventurosa esperienza di vita e di lavoro della sorella, ma la sua straordinaria formazione culturale le impedì di essere coinvolta in questo giro, anzi! si rafforzò la sua acribia filologica e la sua severa ma appassionata difesa dei valori di una cultura di cui fu esempio straordinario.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

PRESTO DI MATTINA
Il vento raggiante del tuo linguaggio

 

Il «vento raggiante del tuo linguaggio» – che sale dalle profondità cosmiche dell’universo e della coscienza umana, che ha percorso le distese sconfinate dei deserti e degli oceani per spazzare via la chiacchera delle parole inautentiche – resta un «cristallo di fiato», capace di testimoniare con chiarezza la diafania della tua esistenza: «In fondo al crepaccio dei tempi, presso il favo del ghiaccio attende, cristallo di respiro, la tua irrefutabile testimonianza», (Paul Celan [Qui], Poesie, Milano 1998).

In quel pellegrino dell’assoluto che è stato Pierre Teilhard de Chardin [Qui], il linguaggio assume i lineamenti di una metafora dell’esistenza; anzi ne è la sua trasparente diafania. L’esistenza viene da lui colta nell’atto dell’attraversamento, del viaggio, della cura, della ricerca di un senso. Il linguaggio ne assume le espressioni, i tratti, le luci e le ombre; ne penetra la densità materiale, ne sonda il mistero profondo. Si contrae e si espande come i ritmi del suo cuore, esplode o implode, avanza o si ritira, assecondando i tempi e gli spazi, i pieni e i vuoti dell’azione o delle passività. Esso esprime l’esigenza di comunione o di distacco in base alla scoperta e all’orientamento trascinante della “più vita”, della “super-vita”: ne condivide il gusto o l’amarezza secondo che ci sia da condividere il pane o il calice amaro.

Il linguaggio, per Teilhard, è una mimesi. Imita, riproducendole creativamente, l’intuizione e la visione interiore, manifestandole attraverso le realtà simboliche del mondo. È specchio dell’interiorità nel suo schiudersi, immagine del pensiero nel suo scaturire. Attraverso la creazione di segni e immagini simboliche, dell’esperienza interna ed esterna, offre alla persona la possibilità di conoscere e riconoscersi, di sperimentare e sperimentarsi, comunicandosi così al di fuori di sé nella narrazione. Il linguaggio, pertanto, è dimensione dell’esperienza itinerante, della sua vita “vagabonda”, nel suo andare sempre oltre se stessa. È trama ed insieme sforzo per rigenerare il senso della vita, la sua comprensione e le nuove scoperte.

Non è solo imitazione creativa, mimesi appunto. Il linguaggio ha pure una sua singolarità, possiede una sua realtà ed oggettività: è cultura, è dono che viene alla persona nell’atto stesso di esperire la realtà, o meglio – come direbbe Guardini [Qui] – «costituisce il disegno preliminare per il verificarsi dell’incontro personale, […] spinge alla realizzazione dell’incontro io-tu» (R. Guardini, Mondo e persona, 168).

In Teilhard il linguaggio riflette i movimenti del cuore, intelligenza senziente, per modularli su quelli di un universo sentito dappertutto in formazione, in evoluzione, sicché, trascinato in un’ascesa irresistibile verso il personale, diventa, in modo significativo, linguaggio che orienta e stimola la libertà verso l’azione.

È sentito non solo come mezzo, come tecnica, ma come un vissuto nell’atto di esprimersi, di affidarsi ad altri; come un’esistenza nell’atto di dire se stessa, come lo spazio in cui si formano e si dànno l’intuizione, il pensiero, il senso del vivere, il lavoro intellettuale e spirituale. L’intero esercizio dello spirito e il sentire della coscienza si attuano e si dicono nell’evento del linguaggio.

Il linguaggio, in Teilhard, si origina, plasma ed è plasmato nell’esperienza della sua vita; l’interiorizza, la riflette e insieme la comunica; è l’esperienza delle battaglie nelle foreste dell’Aisne ed a Verdun, nella prima Guerra mondiale, a cui partecipa come portaferiti, passando sotto il filo spinato, vicino alle trincee nemiche per recuperare i soldati colpiti dopo ogni assalto (Genèse d’une pensée, 1914-1919).

È l’esperienza dei suoi viaggi tra gli altipiani, nei deserti, nelle steppe dell’Asia (Lettres de voyage 1923-1955) e quella profondissima del suo mondo interiore, spirituale e mistico scritta ai suoi amici (Lettres d’Egypte 1905-1908 e Lettres intimes. À Auguste Valensin, Bruno de Solages, Henri de Lubac, André Ravier, 1919-1955 e Accomplir l’homme, 1926-1955; Lettres à Léontine Zanta e a Jeanne Marie Mortier).

Le sue parole si riempiono di stupore, si svuotano nella lotta, sono messe alle strette nelle fatiche. Sono parole che si piegano e gemono nelle trincee – egli scrive, tra il fango delle trincee, appunti e racconti da cui poi nasceranno i suoi testi – parole che passano sotto i reticolati, scavalcano le fortificazioni, sussultano tutte e trattengono il respiro al sibilo dei proiettili e al fragore delle esplosioni; vibrano insieme alla terra e imparano così a dire cosa siano l’assalto e il ritirarsi, il coraggio e la paura, la vita che irrompe, quella ferita e quella che si nasconde, si rialza o che muore.

Teilhard scopre tra i morti e i feriti, a migliaia lungo la linea del fronte, l’essenzialità di parole che cercano un varco e una direzione verso la vita, le mescola al grido, al rantolo di vite immolate e ferite, immergendole nell’onda d’urto della prima linea, e su tutto intravede compiersi il mistero della croce. Impara ad affrontare il rischio dell’amore e ad esprimerlo; innestato agli altri linguaggi per ferita, egli così entra ogni volta nella morte per risorgere vivo.

«Questa volta ci hanno dunque spediti sulla riva destra tra Thiaumont e Fleury; e in questa terribile zona siamo rimasti per una decina di giorni. Mi è vietato qui scendere nei particolari delle operazioni a cui ho assistito, ma ti posso rivelare se non altro che laggiù ho passato ore insieme penose e straordinarie, funzionavo si può dire come una macchina, ero quasi spersonalizzato. La cornice è quella dei peggiori campi di battaglia di Verdun. Oltre gli avvallamenti dove si trovano ancora tracce di boschi e dove gli alberi sono ridotti a pali, rimane un po’ d’erba. Al di là, non c’è praticamente vegetazione; ma solo pietrame sconvolto o, più spesso argilla che sembra arata fino a due o tre metri di profondità: un vero paesaggio lunare. È una zona dove non esistono più trincee, dove ci si nasconde nelle buche fatte dalle granate collegate alla meglio; e tante volte per entrarci bisogna prima tirar fuori il cadavere di un tedesco o di un francese. […] In compenso i bombardamenti, gli attacchi, i tiri di sbarramento, erano continui. Ho passato due giorni in una buca, bersagliato per ore da granate che cadevano fino a meno d’un metro da me. In questo genere di vita, i nervi diventano un po’ tesi. NS, tuttavia, ha tenuto alto il mio morale», (Genesi di un pensiero, 23.8.1916, 101).

Il linguaggio in Teilhard è pure come mulattiera impervia tra le montagne della Cina; è distesa e spazio aperto, possibilità di infinite vie in cui provare ad orientarsi nell’altopiano desertico degli Ordos in Mongolia; è orizzonte sconfinato in navigazione in mezzo all’oceano, unica guida le stelle. Imparando la scienza del tempo e della durata, diventa anch’esso un martello come quello che egli usava per aprire le rocce e dischiudere fossili, pure mano sapiente, attenta e premurosa per raccogliere selci e indizi preziosi per la storia dell’uomo nel passato; egli dirà di quella stagione della sua vita: «Il Passato mi ha rivelato la costruzione dell’Avvenire» (Lettere di viaggio, 8.9.1935, 151-152).

Linguaggio, il suo, che sperimenta l’obbedienza della fede come la necessità di un ascolto profondo e che attende nel silenzio operoso la riuscita finale; dice ancora la fedeltà e la dignità dell’amicizia come la sua propria dignità, vive l’amore alla Chiesa con parole di dialogo e di pazienza, nonostante essa non comprenda anzi rifiuti il suo sforzo di declinare insieme fede e scienza; egli continuerà a riconoscendola come il vincolo necessario per «amorizzare il mondo e salvare la sua stessa vita».

Un linguaggio che porta alla luce una «fede che opera»; si nutre della Provvidenza operante nell’universo che lo istruisce sulla sua piccolezza aperta all’infinitamente grande ed insieme lo rassicura, portandolo, amorevole, in un più grande abbraccio di sicura speranza di buon futuro. Linguaggio che impara così l’armonia nel raccoglimento e, nei ritiri spirituali, è messo di fronte all’unica grandezza necessaria: è posto in seno a Dio sempre più grande, al quale egli chiede che gli conceda di «udire e far udire fino all’ebbrezza l’immensa musica delle cose».

«L’aria e il mare; spesso lenzuolo vivente, dove formicola e scivola la vita, fluida e densa come l’ambiente che la contiene… Le sere acquistano un incanto delizioso nel mezzo di questo vasto lago senza sponde. Ieri non mi stancavo di guardare ad est l’uniformità lattiginosa del mare, verde di un’opalescenza dove nulla traspare, chiaro più del fondo del cielo. D’un tratto, sull’orizzonte, un nembo diffuso s’è tinto di rosa, e allora le piccole ondulazioni oleose dell’oceano, restando opaline da una parte e trascolorando dall’altra nel lilla, hanno trasformato per qualche istante l’intero mare in un serico moerro (moir soyeuse). Poi la luce s’è spenta e le stelle hanno cominciato a specchiarsi intorno a noi, quietamente, come nelle acque di un bacino tranquillo…

Lasceremo questi boschi; prevedo che rimpiangerò un rifugio così adatto a farci sentire immersi nel fitto delle esistenze. Nella foresta di Compiègne ci sono alberi ad alto fusto persino più belli che in quella di Laigue: si può vagare per ore tra un colonnato interminabile di tronchi diritti e lisci su un tappeto di foglie secche e sotto vere e proprie ogive di rami. Non è possibile immaginare tempio migliore per il raccoglimento. Ho sentito spesso al pari di te che la Natura dà più inquietudini che soddisfazioni: la Natura è palesemente la base di Qualcosa d’indefinibile, la faccia di Qualcuno non definibile e non ci potremo riposare in lei, almeno io sento così, se non si arriva al Termine nascosto», (Dalle Lettere di viaggio).

Da queste frequentazioni e visioni ardenti il linguaggio di Teilhard riparte rigenerato, aurorale, capace di una resistenza nuova quella della rinascita, che conosce la meraviglia e la gioia della scoperta e del possesso della vita che avanza, nascosta tra le pietre e le pieghe del tempo. Pure essa immersa in Colui che è all’origine di tutte le cose, presente alla nascita e allo sviluppo dell’apprendimento e di ogni linguaggio in esse. La Parola: potenza spirituale della materia che ne provoca la comprensione, nell’atto di plasmare con le sue mani la creazione e l’uomo in essa.

È linguaggio così che si riveste dell’attesa di un compimento, di futuro, si protende verso la luce di un volto e l’intravede, prolungando in avanti le profondità del passato che ha scoperto. Si bagna nell’attraversamento dei fiumi e impara così l’immergersi nella realtà, l’avvolgersi in essa e l’uscirne fuori. Si nutre del silenzio delle vette, si forgia sperimentando l’aridità dei deserti nel caldo torrido e nel raggelante freddo delle steppe attraversate nella famosa Crociera Gialla.

È linguaggio che vive “cosmicamente” il Fenomeno umano con un «interesse palpabile grande quanto il cuore». È linguaggio che narra le profondità, le altezze, l’ampiezza dell’«Ambiente divino e mistico» abbracciante, dentro e fuori, abbracciante il Fenomeno umano. Non rifugge neppure la complessità, anzi la riconosce come la sua sfida: il compito di attraversare il deserto della modernità, ricostruendo i frammenti che la scienza scopre e analizza nel passato in una sintesi nel Cristo-universale. Le sue parole sono un «Inno alla Materia», un «Inno all’Universo» e «al Cristo, sempre più grande» in essi.

Il linguaggio di Teilhard è “vento raggiante” perché in-formato dalla Scrittura e dallo Spirito in essa; incarnandosi nella sua vita, genera in lui il “suo” vangelo e la “sua” missione. Prende la forma di “preghiere nella durata”, ne innerva la vocazione, informa e forma, in una sintesi prospettica sempre aperta, intuizioni, pensieri e riflessioni, appunti e schemi annotati su taccuini, durante le soste forzate o le traversate in mare, come trama segreta e offertorio del mistero della fede celebrato e vissuto: un’occasione, un accadere “permanente” per comunicare con il Cristo attraverso tutte le forze della terra, quelle di crescita e quelle di diminuzione, che mortificano e che vivificano.

Un lessico di parole – infine – per il rendimento di grazie, per trasformare la vita in celebrazione, e la celebrazione in vita: una “messa sul mondo” in un chiesa senza pareti, oltre e al di là di ogni confine e orizzonte; rendimento di grazie per prolungare di nuovo la grande eucaristia della creazione, convergente nel corpo del Cristo mistico e cosmico che continua a formarsi attraverso tutti gli accrescimenti e le diminuzioni, le gioie e le speranze, i lutti e le angosce di un universo in evoluzione:

«Poiché ancora una volta, o Signore, non più nelle foreste dell’Aisne ma nelle steppe dell’Asia, sono senza pane, senza vino, senza altare, mi eleverò al di sopra dei simboli sino alla pura maestà del Reale; e Ti offrirò, io, Tuo sacerdote, sull’altare della Terra totale, il lavoro e la pena del Mondo. Lì in fondo, il sole appena incomincia ad illuminare l’estremo lembo del primo Oriente. Ancora una volta, sotto l’onda delle sue fiamme, la superficie vivente della Terra si desta, vibra e riprende il suo formidabile travaglio. Sulla mia patena, porrò, o Signore, la messe attesa da questa nuova fatica e, nel mio calice, verserò il succo di tutti i frutti che oggi saranno spremuti. Il mio calice e la mia patena sono le profondità di un’anima ampiamente aperta alle forze che, tra un istante, da tutte le parti della Terra, si eleveranno e convergeranno nello Spirito. Vengano pertanto a me il ricordo e la mistica presenza di coloro che la luce ridesta per una nuova giornata», (La Messa sul Mondo, in Inno dell’universo).
Anche oggi: “presto di mattina” appunto.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

CONTRO VERSO
L’ingorda

 

Era una bella ragazza e aveva imparato come fare soldi. Si faceva adescare da adulti ignari della sua minore età, otteneva regali o denaro, poi svelava il mistero e con l’aiuto del fidanzato iniziava il ricatto. Il tribunale per i minorenni ne è venuto a capo dopo una fase iniziale di preoccupazione per quella che sembrava a tutti gli effetti una vittima.
Lo era davvero – essere costretta alla prostituzione prima dei 18 anni è una condizione di vittimizzazione non da poco e richiama alle responsabilità dei genitori più o meno all’oscuro – ma certo era una vittima molto diversa da come siamo abituati a immaginarla quando pensiamo alla prostituzione minorile.

L’ingorda

Io non mi capisco
non mi riconosco
non lo concepisco
però poi colpisco.

Rubo un po’ per vizio
sfida o forse sfizio.
Vedi là, quel tizio?
Gli farò un servizio.

Non ne faccio un vanto,
non pretendo tanto.
Un cappello, un guanto
se mi passa accanto.

Ho un papà normale,
sgobba, è manovale.
Mamma poi è gioviale
ma non sa parlare.

Lui non può seguire
lei non può capire
e se voglio uscire
chi lo può impedire?

Esco per ballare,
amo esagerare,
feste a non finire
buone per stordire

e se lui mi abborda
io non lo allontano,
chiedo, sono ingorda
e nella mia mano

scivola un gioiello
rotola un assegno
svelo sul più bello
qual è il mio disegno.

Sono minorenne!
Ora sei sorpreso?
Lo dirò a tua moglie
Mah… Ti vedo teso.

Vedi quel mio amico?
Eccolo, è il cassiere.
Dagli quel che dico
e proverò a tacere.

Mi è capitato di incontrare adolescenti – maschi o femmine indifferentemente – che avevano assunto il comando ed erano difficilissimi da aiutare. Avrebbero avuto bisogno di un adulto in grado di scardinare la loro logica, ma non per autorità e neppure per dovere. Un sovvertimento benedetto e amoroso di cui i ragazzi avevano nostalgia mista al terrore di ritrovarsi piccoli, disarmati e non più padroni delle loro esistenze.
Per ognuno di noi in alcuni periodi c’è distanza tra il vissuto e il desiderato, e per chi pretende tutto e subito è uno iato insopportabile. Odioso, ma non incolmabile. Le strategie si trovano. Anche al prezzo del rispetto di sé.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

L’ESPERIENZA
Immergersi nel “Bagno di Foresta”: una gita spazza-timori ancestrali

 

Avete mai camminato a piedi nudi nel bosco? Il muschio è incredibilmente morbido, vellutato e con un sottofondo elastico e soffice che accoglie il piede meglio di qualsiasi materiale tecnologicamente avanzato. Il piacere di toccare con mani e piedi questa tenera moquette prodotta dalla natura, viene poi aumentato –  all’interno della foresta – dal profumo legnoso di abete che si respira e da quello balsamico della resina che ci si ritrova incollata a mani e piedi. È stato tanto sorprendente quanto gioioso, per me, godere dell’accoglienza del bosco senza pensare a vipere, lupi e orsi che da qualche parte di sicuro ci saranno stati, agli insetti che ci vivono e che in realtà in quel momento mi hanno lasciato in pace, alle favole ascoltate da bambina prima di addormentarmi e agli avvertimenti ricevuti da ragazzina prima e durante ogni escursione.

Così, seduta su un ceppo tappezzato da uno strato muschioso e con la schiena appoggiata a un larice, ho dimenticato gli avvertimenti dati dalla mamma a Cappuccetto Rosso prima che partisse per andare a trovare la nonna, ho lasciato in disparte la memoria di Pollicino disperso nel labirinto selvaggio e mi sono concentrata ad ascoltare le indicazioni dell’accompagnatore che ha portato me e altre cinque persone a sperimentare il “Bagno di foresta”.

Tra le tante proposte di passeggiate ed esplorazioni che venivano offerte durante il mio soggiorno in Val di Non, in Trentino, ho infatti deciso di accogliere questa attività di cui avevo sentito parlare e che non avevo chiaro esattamente in cosa consistesse. “Il bosco è formato da organismi vegetali in grado di comunicare tra loro – ha spiegato la guida Antonio Poletti – perché attraverso le radici e utilizzando le spore dei funghi (che sono ottimi trasmettitori) recepiscono e diramano informazioni su ciò che accade a loro e intorno a loro. E se arriva, ad esempio, un cervo che si mette a mangiare i loro teneri germogli o una persona che strappa rami e foglie, le piante diffondono messaggi di allerta che rimbalzano in tutto il gruppo di organismi viventi, vegetali e animali. Succede così che un’aggressione vada a sollecitare la produzione di sostanze repellenti e ad allertare insetti e animali, che diventano più fastidiosi con il comune intento di difendere la foresta”.
Il muschio, invece – prosegue a spiegare la guida – contiene spore che hanno una forte proprietà immunitaria. Stando nel bosco respiriamo queste sostanze e le facciamo entrare in circolo nel nostro corpo; mentre la resina è un fortissimo antisettico, che i montanari usavano portare con sé e masticare di tanto in tanto.

Non mastico la resina, ma ne aspiro l’odore e mi tengo ben stretto questo contatto appiccicoso. In altre circostanze avrei potuto percepire la presenza resinosa come invasione nefasta e sporcante, da eliminare, e ora invece mi rallegro di potermene sentire addosso un poco.

Guidata dalle indicazioni del nostro accompagnatore, mi metto quindi in ascolto per districare i suoni che mi avvolgono: cinguettii provenienti da alberi vicini e lontani, qualche voce umana che si percepisce a distanza, il fruscio delle fronde. Il “Bagno di foresta” prosegue con diverse attività che coinvolgono ciascuno dei nostri sensi. Dopo avere annusato e ascoltato con attenzione, insieme a ciascun partecipante vengo dotata di una cornice in cartone per isolare immagini e dettagli.

Mi concentro allora sulla superficie rugosa di una corteccia e su quelle incredibili composizioni floreal-vegetali che il bosco produce, mettendo insieme dei bouquet selvatici dentro ai vecchi tronchi recisi, che si trasformano in contenitori di abeti in miniatura, ciuffi di felci, campanelle, steli di fiori gialli, minuscole piante di nocciolo, muschio e altre piantine che neanche il più ardito compositore di bonsai o decoratore floreale avrebbe saputo accostare con tanta variegata armonia.

“È stato provato che rimanere almeno tre ore all’interno di un bosco o comunque vicino a una varietà di alberi – spiega Poletti – aumenta le nostre difese immunitarie per una settimana. Se si ripete l’esperienza una seconda volta, la copertura immunitaria viene prolungata per un mese”.
Quando Poletti ci esorta a raccogliere un oggetto da lasciare alla base degli alberi dove ci congederemo dal bosco, mi rendo conto che le tre ore di durata dell’esperienza sono volate. Annuso allora la resina che sento sulle dita e mi appresto a fare le ultime operazioni guidate, con una riflessione, un saluto e quindi il passaggio simbolico in mezzo ai due alberi accostati come i cardini di una porta da cui la guida ci ha fatto entrare nel cuore della foresta e dalla quale ora tornerò fuori.

“Anche quando sarete in città – consiglia la guida – ricordate di trascorrere del tempo vicino a un albero e se avete persone care accompagnatele lì. Portatevi magari dietro un libro e così farete scorrere con facilità il tempo che vi consente di immagazzinare tutte le sostanze tanto utili e preziose che la natura elargisce, a partire dall’ossigeno che ci regala in cambio dell’anidride carbonica che noi doniamo loro; sì, perché per le creature vegetali è un dono”.

Rifletto che dopo aver ricercato per anni luoghi che evocassero artificialmente il bosco – magari con pareti affrescate alla boschereccia, tende con canne di bambù, soffitti di nuvole, tappeti d’erba artificiale e casette fatate nello stile scenografico della Melevisione – stavolta il bosco l’ho trovato per davvero senza incorrere in pericoli né smarrendomi. Il tappeto di aghi di pino e i sedili di tronchi sono stati quanto mai accoglienti e rigeneranti, luoghi dove non ci si perde ma, anzi, ci si può ritrovare.

Un respiro profondo e via, con questo bagaglio di verde negli occhi, nelle orecchie e nei polmoni.

Per approfondimenti sull’idea dello “shirin-yoku” sulla quale si base la pratica del Bagno di Foresta si può leggere anche l’articolo pubblicato qualche tempo fa su Ferraraitalia da @simonetta.sandri.1 e consultabile cliccando questo link al nostro giornale:  www.ferraraitalia.it/calendario-dellavvento-shinrin-yoku-immergersi-nei-boschi-163277.html

Parole a capo
Roberto Dall’Olio: Cinque poesie da “Monet cieco”

“Ciò che tiene sveglio il mio cuore è il silenzio colorato.”
(Claude Monet)

Monet è cieco

Monet è cieco
Perché non vede il nero
Non lo ama
Non lo capisce
Lui il cercatore della luce
Delle sue sfumature
Aveva il pregiudizio del nero
No maestro
Il nero si ama
Se non si hanno pregiudizi
come il tuo nero
di donna
Che muta
In ogni momento

 

Vorrei che tu mi gettassi il tuo giallo addosso

Vorrei che tu mi gettassi
il tuo giallo addosso
Per farmi girasole
Mettermi i binocoli
Per varcare i confini degli occhi
Spargerti il mio liquore chartreuse
Come crema antirughe
Nonostante la tua pelle liscia
Da biliardo
Da luna
In un miliardo
Di stelle
Io vorrei
I tuoi caffè
Sentire
La adrenalina
Del tuo volto che riaffiora
Dal riso
Come una mondina

 

Io sono

Io sono
Resto
E voglio rimanere
Un marginale
Quanta vita
Nelle ore spente
Mai morte
Assopite
Trovo la pagina bianca
Il tuo bianco
Miniera apuana
remo
in un canale
Tu porti la bianchezza
All’estremo
All’ideale

Novembre

novembre
Rubino
Rosso
Rubizzo
Un guizzo
Di primavera
Dei suoi morti
Colori
In breve risorti
Addosso
A te
A noi
Novembre
Giallo
Marrone
Un burrone
Di lampi
Di saette
Nel sereno sbiavido
Pallido
Di cera
Il vento
allacca
Le miti foglie
La luce
non le intacca

 

Non sarebbe mai ora

Non sarebbe mai ora
Di scrivere
Ancora
Dopo il miracolo
Dell’aurora
Di una marea di luce
Rovescia
Una pinta di birra
Tra le umide tavole
Di un pub sul mare
Sabbia azzurra
E la rosolia del cielo
Un amaro dei certosini
Quasi la pioggia
Di zecche isolate
Gocce
Sganciate
Da chissà quale vento
Il nostro
Distratto
Sempre attento

(Tutte le poesie sono tratte dalla raccolta  fresca di stampa “Monet cieco”, edizioni Pendragon, disponibile nelle migliori librerie, in particolare a Bologna e Ferrara)

Roberto Dall’Olio (1965), bolognese, docente di filosofia e storia al Liceo Classico Ariosto di Ferrara. Ha pubblicato diversi volumi di poesia. E’ del 2015 il poema “Tutto brucia tranne i fiori” Moretti e Vitali editore- nota di Giancarlo Pontiggia postfazione di Edoardo Penoncini – con il quale ha vinto il premio Va’ Pensiero 2015. Con l’editore L’Arcolaio ha pubblicato il poema Irma con note di Merola, Muzic, Sciolino, Barbera e la raccolta di poesie “Se tu fossi una città” con nota di Romano Prodi. Nel 2021 ha pubblicato Monet cieco (Ed. Pendragon). Vive a Bentivoglio nella pianura bolognese dove è presidente della sezione locale dell’ANPI.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Le storie di Costanza /
Settembre 2060 – Amori

31Ad Axilla piace Dylan, ma non sappiamo se a Dylan piace Axilla.
Cosmo-111 detesta Dylan, dice che è brutto e antipatico. Cosa non vera a detta di tutti i Santoniani. I Santoniani sbagliano raramente, a maggior ragione se si confrontano tra loro e raggiungono una visione unitaria della questione in discussione. Cosmo-111 è geloso, strano per un mezzano distinto e intelligente come lui.

Dylan è alto circa un metro e ottantacinque, non altissimo vista l’altezza media dei ventenni attuali che si attesta intorno al metro e novanta, con punte che superano abbondantemente i due metri e numeri di scarpe che superano il cinquanta.

Intorno alle altezze medie dei nostri giovani si sono diffuse le leggende metropolitane più svariate. “Hanno mangiato troppa carne contenente ormoni da piccoli, oppure hanno mangiato troppe proteine. È colpa del clima che è cambiato, della gravità della terra che è leggermente diminuita, della luna che ha aumentato il suo influsso sull’altezza (come se far crescere più o meno un bambino sia come determinare il flusso di una marea). Oppure dipende da una mutazione genetica iniziata non si capisce né come né quando, è un accidente della vita e non ha nulla a che fare con tutto ciò, oppure, al contrario, ha a che fare con tutto ciò, ma non con uno solo di questi eventi scatenati che quindi non possono essere considerati tali”.

Mia madre Cecilia racconta che quando mio fratello Enrico era piccolo una volta mi ha detto:
“Valeria devi smettere di crescere, tutti gli esseri viventi molto rari e grossi sono a rischio di estinzione, pensa a quel che è successo ai dinosauri. Alcuni erano talmente grossi e talmente grandi che mangiavano tantissimo, a un certo punto non hanno più trovato sufficienti alimenti e sono morti di fame. Altri sono stati uccisi da un grande meteorite e altri ancora si sono sbranati tra loro. Il fatto che fossero così grossi ha sicuramente influito sulla loro estinzione, sono spariti dalla faccia della terra”.

Poi Enrico era andato a prendere una delle sue ottanta statuine di dinosauro e aveva aggiunto: “Lo vedi questo? è un triceratopo, il mio preferito, non so cosa darei per vederlo vivo e invece è morto da milioni di anni e mai lo vedrò.”
Mia madre racconta che ero scoppiata a ridere ma Enrico, sempre più serio, aveva continuato imperterrito: “Ti consiglio di mangiare di meno e di stare poco al sole”.
“Poco al sole?”  gli avevo chiesto” “Si, poco al sole” aveva risposto.
“Come le piante, più stanno al sole e più crescono. Come i frutti più stanno al sole e più maturano. Vai a vedere i pomodori nel nostro orto, sono rossi ma proprio rossi e verdi non lo diventeranno più. Non devi crescere troppo perché finirai per estinguerti”.

Quando ricordano questa storia dei dinosauri, mia madre e mio fratello Enrico ridono di gusto.
“Quando saranno più grandi, dovrò raccontare questa storia a Marlon e a Gyanny. Secondo me si divertiranno anche loro” ho detto a mio fratello.
“Assolutamente no!” mi ha risposto lui.

Credo che, almeno per ora, non voglia che i suoi figli sappiano che lui era un appassionato di dinosauri con un forte dispiacere per la loro estinzione e una forte preoccupazione per la conseguente estinzione degli esseri umani che, secondo lui, stavano diventando troppo grandi.
Comunque, aldilà di questo aneddoto casalingo, i nostri attuali giovani sono molto alti, e per ora, non si sono estinti.

Dylan, il preferito di Axy, ha i capelli ricci e neri, gli occhi scuri e la pelle chiara. Credo che piaccia ad Axilla perché, oltre al buon aspetto fisico, è gentile e intelligente. Fa il terzo anno di Giurisprudenza a Trescia. Impara tutto velocemente. Un possibile secondo avvocato in famiglia. Uno lo abbiamo già, non avremmo difficoltà ad accogliere il secondo. Tutti noi ci imparenteremmo con lui volentieri, tranne Cosmo-111.“Dylan nooo. Non sa niente, non mangia il gelato, non pulisce la casa, non sa cantare!. Io non lo voglio”. Cosmo-111 è gelosissimo di Axilla, senza attenuanti. Davvero una strana storia, considerando che Cosmo-111 è un robot di nuova generazione.

Eppure l’apprendimento per imitazione scatena anche questo. Si instaura una forma di attaccamento con l’umano, di riferimento primario che assomiglia ad un matrimonio d’intenti, non programmato, ma vissuto ogni giorno. Naturalmente la relazione che si genera utilizza le modalità “possibili” dai mezzani e non prevede sesso e riproduzione. Si concretizza in una forma di affettività fatta di necessità per la sopravvivenza. Sicuramente i nostri robot-111 sono molto dipendenti da chi interagisce con loro, dà loro da mangiare, li copre e protegge dai temporali, passa qualche ora con loro giocando, oppure cantando canzoni bizzarre.

Nel mondo dei mezzani non esiste alcun legame tra attaccamento e riproduzione. La riproduzione è un fattore meccanico e basta. Negli esseri umani questo modus sembrerebbe inaccettabile, ma di fatto è prossimo a quello che a volte succede, a quello che a volte è sempre successo anche nel ‘cristallino’ mondo degli umani. Non credo che si possa parlare di riproduzione umana ‘meccanica’  ma, di riproduzione ‘necessaria’ e indipendente dai sentimenti, sicuramente sì.

Quante volte i matrimoni sono stati e sono combinati per questioni politiche, legate al rango, al ceto sociale, all’appartenenza ad una casta (in pectore o davvero esistente e riconosciuta). Quante spose bambine ci sono, quanti matrimoni combinati dalla mafia perché un mafioso sposi la figlia di un altro mafioso e i panni sporchi si possano continuare a lavare in casa.

Il progresso ha eluso alcune tradizioni, ma ha anche ingessato dentro il silenzio alcune abitudini malate. Ogni tanto qualcuno prova a raccontare cosa sia l’omertà, ma raccontandola la fa emergere e l’emersione trasfigura la mostruosità.

Ogni tanto qualcuno racconta qualcosa di drammatico ma questo qualcosa è una ricostruzione mediata dalle poche e mal ricostruite informazioni circolanti e da un misto di pietismo, luoghi comuni, culture superate, trattati di antropologia di basso livello e anche un po’ di considerazioni qualunquiste, senza alcun valore.

Dylan ovviamente non c’entra con queste mie riflessioni e con la gelosia che Cosmo-111 nutre nei suoi confronti. Non sa che Cosmo-111 è geloso di lui e forse, se lo sapesse, se ne stupirebbe, visto che non sa nemmeno di piacere ad Axy.

Però Axilla e Dylan sono amici, vanno in giro in biciletta insieme, qualche volta in gelateria con un gruppo di coetanei, frequentano l’oratorio di Pontalba e si scambiano idee sulle feste parrocchiane, sulle iniziative pastorali e sulle funzioni religiose che li vedono spesso coinvolti come lettori ufficiali delle preghiere diffuse dal pulpito ai convenuti in preghiera.

Ho imparato con l’esperienza che tutto questo ‘fare insieme’ potrebbe cementare l’amore, ma potrebbe anche avvenire il contrario. Potrebbe succedere che un bel giorno, arrivi a Pontalba un Legolas (Il più bello degli Elfi, un personaggio di Arda, l’universo immaginario fantasy creato dallo scrittore inglese J. R. R. Tolkien) a cavallo con la sua lunga chioma bionda e Axilla si metta a rincorrere il sogno che lui incarna.

Una nuova vita, nuove conoscenze, nuove abitudini e nuove speranze. L’amore scoppierà e Dylan verrà dimenticato insieme a tutto il resto. Questo potrà succedere o non succedere, dipende dagli accidenti della vita, dal caso e anche da come è fatta (dentro) una persona. C’è chi rincorre i sogni e non può vivere senza di essi e chi ama la (sua) quotidianità e non la potrebbe lasciare per nessuna ragione al mondo.

Chissà da che parte andrà il cuore di Axilla, se sceglierà Dylan, a patto che lui scelga lei, oppure incontrerà qualcun altro con altre caratteristiche che sembreranno quelle giuste, impellenti, necessarie e miracolose.

E poi, cosa sceglierà Dylan? Vorrà una ragazza come Axilla, bella, determinata, costante, diligente, con un carattere forte e dei programmi strutturati per il futuro. Potrebbe essere, ma potrebbe anche non essere. Magari arriverà una ragazza bionda con gli occhi azzurri che sa giocare a tennis, volare come una libellula e parlare di sport e di vacanze. E allora Dylan proverà a volare lontano verso il sogno e verso l’avventura che la bella tennista sembrerà incarnare. Oppure no, sceglierà Axilla e questo per sempre sarà.

Mi diverte molto pensare a quei due giovani e fare ipotesi su cosa succederà. Mi piace perché è una favola viva, un romanzo che qualcuno sta scrivendo e che prima o poi una conclusione avrà. Di fronte alla vita che evolve e porta novità, nuovi visi da studiare, nuovi discorsi da cercare di capire, nuove timidezze da eludere e nuovi dolori da confortare, mi stupisco sempre. Mi fermo sempre a guadare con discrezione le novità, come se fossi nascosta dietro una tenda. Sto là per capire come sarà il mondo nuovo, quali amori arriveranno, quali dolori ci annienteranno, quali saranno le persone che in punta di piedi entreranno sul palcoscenico della nostra vita e quali se ne andranno senza salutare e senza disturbare.

Povero Cosmo-111 che continuerà a essere geloso. Ad un certo punto dovrà rassegnarsi al fatto che Axilla non è solo sua e che la dovrà dividere con il principe dei principi e ricavarsi in questa nuova dimensione un nuovo spazio per vivere con la sua eroina. Anche per Cosmo-111, dopo un po’ di sofferenza, uno spazio continuerà ad esserci, perché Axy ama fraternamente Cosmo-111 e questo sentimento, che li ha visti crescere insieme, non cambierà. Anche Cosmo-111 maturerà una certezza: anche per lui esiste una forma strana d’eternità.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

AMERICA, CHIUDI GUANTANAMO!
Firma la Lettera Aperta al Presidente del Consiglio

Firma anche tu la lettera al presidente del Consiglio Mario Draghi.
L’Italia chieda agli Stati Uniti la chiusura della prigione americana di Guantanamo dove si torturano i prigionieri e dove vengono violati sistematicamente i diritti umani.
La tua firma apparirà pubblicamente sul sito web di PeaceLink [Vedi qui]

 

 

 

Al Presidente del Consiglio Mario Draghi

Gentile Presidente,

in questo delicato momento in cui si invoca il rispetto dei diritti umani in Afghanistan, noi crediamo che sia importante dare il buon esempio chiedendo al tempo stesso che venga posta fine alla violazione dei diritti umani nella prigione di Guantanamogestita dagli Stati Uniti a Cuba.
E quindi le scriviamo affinché lei richieda formalmente al Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, un gesto importante e altamente significativo come la chiusura della prigione di Guantanamo.
Amnesty International non solo ne chiede la chiusura ma chiede che vengano processati i responsabili di quella vergognosa e criminale esperienza di sospensione del diritto umanitario. Noi concordiamo con tale richiesta di Amnesty International.
Non si può essere credibili nel chiedere ai talebani il rispetto dei diritti umani se poi noi quel rispetto non lo chiediamo agli Stati Uniti.
Quella prigione è come la Bastiglia e non ha più ragione di esistere. È il simbolo odioso delle torture e degli abusi, in aperta violazione delle Convenzioni di Ginevra, compiuti in nome della lotta al terrorismo. Quell’orribile prigione, quella vergogna della storia non ha più alcun appiglio per restare in piedi.
Le chiediamo pertanto di rispondere a questa nostra richiesta di giustizia internazionale. Oggi – in questo contesto di grandi cambiamenti – la chiusura del carcere di Guantanamo ha molta più possibilità che in passato di avvenire. Farebbe onore all’Italia, a cui tra l’altro era stato affidato il compito di riformare il sistema giudiziario in Afghanistan, farsi promotrice, anche in seno all’Unione Europea, di un passo verso la giustizia e il rispetto dei diritti umani.
Per essere credibili in Afghanistan bisogna dare il buon esempio a casa propria.

Distinti saluti
Vittorio Agnoletto, Gianni Alioti, Lino Balza, Angelo Baracca, Mauro Biani, Patrick Boylan, Annamaria Bonifazi, Tiziano Cardosi, Chiara Casella, Adelmo Cervi, Marcella Costagliola, Fabrizio Cracolici, Giorgio Cremaschi, Massimo de Magistris, Adriana De Mitri, Alessio Di Florio, Irma Dioli, Antonino Drago, Domenico Gallo, Lidia Giannotti, Agnese Ginocchio, Fulvia Gravame, Francesco Iannuzzelli, Mimmo Lucano, Linda Maggiori, Gianfranco Mammone, Fabio Marcelli, Alessandro Marescotti, Aniello Margiotta, Francesco Monini, Moni Ovadia, Elio Pagani, Domenico Palermo, Maria Pastore, Gaia Pedrolli, Enrico Peyretti, Maurizio Portaluri, Olivier Turquet, Laura Tussi, Alex Zanotelli

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Campagna promossa dalla Associazione PeaceLink

Cover: Prigionieri incappucciati nel Carcere Speciale di Guantanamo (Flickr – licenza Creative Commons) 

Ogni Strada

 

Pensieri senza metrica né rima come suture senza anestesia.

Ogni strada

Ascolto le notizie dall’Afghanistan.
Gli aerei che fuggono da Kabul.
Le bombe e le esplosioni
che fanno strage di civili.
Vorrei poter fare qualcosa,
ma posso fare poco, troppo poco,
piccola goccia in un mare di siccità.
Ma questo mi ricorda che, in fondo,
anche gli oceani son fatti di gocce.
Fino a pochi giorni fa, almeno,
c’era un chirurgo di guerra,
che conosceva bene quella terra
e poteva indicare una via.
Ma anche lui è partito:
il suo cuore, dopo tante bombe,
alla fine ha detto basta.
Immagino che ora, a fatica,
bisognerà trovare una strada,
come fanno quelle lacrime sul viso
di un bambino triste che ha paura.
Qualcuno potrà imbrattare un murale,
ma io posso solo dire che, da oggi,
ogni strada porterà il suo nome.

Nota al testo: L’anagramma di “ogni strada” è il nome di Gino Strada

In Copertina: Murale della street artist Laika su una strada di Roma: “le lacrime di Kabul” (omaggio a Gino Strada)

Nota di redazione: L’ULTIMA IDIOZIA – Sfregiato il murale della street artist Laika dal titolo ‘Le Lacrime di Kabul. (Omaggio a Gino Strada)’. L’opera era apparsa in via Provana a Roma, nei pressi di piazza San Giovanni. Qualcuno ha cambiato nella notte la scritta in omaggio al fondatore di Emergency in “Fuck You”.

LECTIO MAGISTRALIS
Tre allieve speciali per una scuola Normale

 

Hai mai immaginato di fare un bel discorsino al tuo professore, al tuo capo, al tuo Rettore, per toglierti qualche sassolino dalla scarpa, e di farlo nel momento più ecumenico, quello in cui vieni insignito di un diploma, gratificato da un trenta e lode o premiato con una promozione? Quel momento in cui la gioia per il premio, coronamento di tanti sforzi, svolge una funzione pacificatrice, e ti senti appagato al punto da tornare in pace con il mondo? Hai mai immaginato di perturbare il clima paludato della tua premiazione con un discorso che fa volare toghe e stole come una tromba d’aria nel cielo terso?

Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Valeria Grossi lo hanno fatto. il 23 luglio scorso, durante la cerimonia di consegna dei diplomi di laurea alla Normale di Pisa. Lo hanno fatto da studentesse “eccellenti”, che è il solo modo per essere credibili quando scompigli le parrucche, perché se lo fai da “normale” alla Normale passi per quello/a che protesta perchè non ha voglia di studiare.

Hanno premeditato tutto, con livida determinazione. Hanno iniziato il loro discorso dichiarando “profonda gratitudine verso ogni componente della Scuola: … al corpo docente, ma anche, per la presenza costante e l’aiuto concreto, al personale tecnico amministrativo, alle addette e agli addetti alle aule, alla portineria, al personale dei collegi, alle lavoratrici e ai lavoratori di mensa e biblioteca.”
Poi hanno iniziato a far vorticare l’aria. Hanno attaccato il sistema universitario ‘neo-liberale’, inteso come “un’università-azienda in cui l’indirizzo della ricerca scientifica segue la logica del profitto, in cui la divisione del lavoro scientifico è orientata a una produzione standardizzata, misurata in termini puramente quantitativi. Un’università in cui lo sfruttamento della forza-lavoro si esprime attraverso la precarizzazione sistemica e crescente; in cui le disuguaglianze sono inasprite da un sistema concorrenziale che premia i più forti e punisce i più deboli, aumentando i divari sociali e territoriali.”.

Queste parole già contengono alcune lancinanti verità sul mondo accademico e del lavoro italiano: la ricerca viene finanziata solo se porterà profitti (il contrario della logica della ricerca, che include in sè l’idea di nicchia e la possibilità del fallimento); conta quanto pubblichi (o quanto produci, o quanto vendi, o quanto arresti), non come lo fai; puoi vivere una vita di lavoro, dentro o fuori da un ateneo, senza  avere mai la certezza della stabilità del tuo impiego; i “capaci e meritevoli” non sono affatto facilitati, ma possono arrivare in fondo non grazie all’Università italiana nel suo complesso, ma malgrado essa. Pensa alla forza eversiva di queste parole pronunciate da tre laureate eccellenti in una delle università di eccellenza.
Perché la Normale di Pisa non è un ateneo normale: è uno dei pochissimi atenei italiani nel quale i docenti e i ricercatori sono aumentati, mentre attorno “le iscrizioni alle università sono scese del 9,6%, e nel 2020 la popolazione tra i 25 e i 34 anni con istruzione terziaria in Italia si aggirava intorno al 29%, contro il 41% della media europea. … dal 2007 al 2018 le borse di dottorato bandite dalle università italiane sono diminuite del 43% (56% al sud); tra il 2008 e il 2020 nelle università statali i ricercatori sono diminuiti del 14%, e le recenti e parziali stabilizzazioni non sono che una goccia nell’oceano, dato che ben il 91% degli assegnisti di ricerca si vedrà escluso dall’università italiana; il personale a tempo determinato è ormai ben maggiore del personale a tempo indeterminato (e inoltre nel personale precario le donne sono sovrarappresentate).”

A questo punto Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Valeria Grossi sganciano la bomba.
“In questo contesto, noi, i cosiddetti “eccellenti”, siamo certamente quelli fortunati. Ma quale eccellenza tra queste macerie? Che valore ha la retorica dell’eccellenza se, fuori da questa cattedrale nel deserto, ci aspetta il contesto desolante che abbiamo descritto? Noi crediamo che di fronte a tutto questo la Scuola non sia senza colpe. Ha infatti promosso quella retorica dell’eccellenza e della meritocrazia, che legittima il taglio delle risorse. Ha incoraggiato la creazione di piccoli poli “di eccellenza” iper-finanziati, lasciando invece in secondo piano i rapporti con l’ateneo che più ci sta vicino e con cui più sarebbe opportuno collaborare, l’Università di Pisa.”.
Non so se è chiaro. Non lo è abbastanza? Allora leggi bene il passo che segue: “La nostra selezione in base al merito e l’intreccio tra didattica e ricerca sono due tra i principi basilari del “modello-Normale”. Nei fatti, tuttavia, troppo spesso questi principi si traducono nella retorica del merito e del talento come alibi per generare una competizione malsana e per deresponsabilizzare il corpo docente: per il semplice fatto di aver superato una selezione, dovremmo essere in grado di navigare da soli attraverso il complesso sistema accademico. C’è un modo di dire molto popolare in queste aule e cioè che alla Normale si viene buttati subito in acqua, ed è così che, pur di non affogare, si impara a nuotare in fretta. E tuttavia oggi a diplomarsi con noi non ci sono tutte le persone con cui abbiamo condiviso il nostro percorso: la loro assenza ci pesa ed è una sconfitta per la Scuola. Anche tra i presenti una buona parte ha imparato a nuotare solo a prezzo di anni di malessere. Vorremmo dirlo con chiarezza: non è grazie a, ma nonostante questo principio che siamo arrivati qui. Il risultato è stato quello di convivere cinque anni con la sindrome dell’impostore, senza sentirci mai all’altezza del posto che avevamo vinto. C’è chi ha adottato una performatività esasperata per compensare il proprio senso di inadeguatezza, sfruttando con spirito esibizionistico i seminari e gli interventi a lezione. C’è chi, invece, ha evitato di porre domande e chiedere spiegazioni per paura del giudizio altrui. Questa pressione sociale non è solo causa di un generico malessere; è piuttosto una stortura sistemica grave, che può avere conseguenze estreme sulla salute fisica e psicologica.”.

Queste parole sono un atto di denuncia pesantissimo. Fuori dalla scuola degli eccellenti, lo Stato abbandona al proprio destino gli studenti, ma anche i professori, tagliando progressivamente i fondi. Ma anche dentro la Normale (alla quale si accede con un rigido esame di ammissione) la maggior parte si perdono per strada. Costoro che non ce la fanno, sono davvero i non meritevoli, o sono invece i meno adatti, quelli che non si adeguano al meccanismo della competizione, della performance, del mettersi in mostra per adulare o “fregare” i docenti e diventare, opportunisticamente, i loro cocchi? E’ questo il meccanismo di crescita dei “migliori” ? E quanto queste parole ti ricordano quello che accade nel tuo ufficio, nella tua aula, nel tuo studio? A me lo ricordano tanto.

Le tre allieve riservano poi parole durissime alla disparità di trattamento nell’accesso e nella successiva carriera tra uomini e donne, considerando come un’aggravante il fatto che ciò accada anche alla Normale : “vi invitiamo anche a prestare attenzione sempre, durante le lezioni, nei corridoi, a ricevimento, quando di fronte a voi avete una donna: vi chiediamo di pensare due volte quando una ricercatrice è incinta, quando una professoressa è madre, o quando un’allieva rimane ferita davanti a un commento che a voi è parso innocente: si tratta magari di una reazione a un cliché da anni ripetuto, introiettato e ritenuto innocuo, ma che tale non è. Perché se è vero che in questa stanza siamo privilegiati, allora dovremmo essere noi per primi a sfruttare questo privilegio per informarci, per formarci, per sensibilizzarci e soprattutto per cambiare le cose.”.

E quanto sono vere e anticonvenzionali le parole con le quali concludono il loro intervento: “E’ significativo che nessuno di noi si riconosca nella retorica dell’eccellenza su cui la Scuola poggia. E questo non solo perché la consideriamo parte integrante di un modello insostenibile, ma anche e soprattutto perché la troviamo incompatibile con l’incompletezza e la fallibilità di ognuno di noi.”

Ho già parlato su queste pagine del mito della meritocrazia: [qui]

Non esito a definire formidabili le considerazioni di queste allieve: formidabili per il contenuto e per il contesto nel quale sono state pronunciate.
Sono parole al tempo stesso amare e dolci, disperate e fiduciose.
Sono imbevute di amarezza e disperazione per lo stato in cui versa il mondo accademico (e non), ma sono irradiate della speranza che esistono ancora giovani così lucidamente capaci di testimoniare i problemi, e così combattive da avere il coraggio di esporli direttamente dentro la fossa dei leoni, o dei Baroni.

Il testo integrale del discorso

La guerra di Dio contro le formiche

 

Mi è parso ovvio, da subito, che la ritirata dei soldati USA dall’Afghanistan era funzionale al fatto di poter tranquillamente  continuare le operazioni per mezzo di soli droni, come avviene già in Pakistan da anni.
Il soldato sul campo: devi pagargli la trasferta e costa molto, può morire e portare cattiva pubblicità al proprio governo. Tra l’altro può vedere tutti gli abusi della guerra e parlarne, portando altra pericolosissima pubblicità negativa.
Grazie al controllo delle armi a distanza si può fare a meno di questi inconvenienti.

I droni possono venir pilotati da una base in Nevada e bombardare con un click – vedi qualche giorno fa la rappresaglia statunitense tramite droni proprio in Afghanistan. Ed essere chirurgici non è necessario, tanto nessun altro, se non il video-terminalista, vede il botto e il suo sfracello, da lontano, a modesta risoluzione.
Così si può bombardare una moschea nell’ora della preghiera per eliminare un singolo ‘nemico’ (terrorista?), distruggendo anche  le vite di chi, sfortunatamente, si trovava troppo vicino all’obbiettivo. Effetti collaterali.
Senza il rischio di ricordare all’Occidente che siamo degli assassini.
La miseria e l’odio che ne derivano non hanno la forza né i mezzi di attraversare l’oceano. Peggio per loro.

Viene fatto già da diversi anni e quasi non si parla delle sue conseguenze. Vuol dire che è la scelta giusta per una guerra senza contraddittorio.
Una guerra che assomiglia al rapporto tra un Dio malvagio e un essere terreno alla sua mercé. Un piede enorme che schiaccia una formica. Una guerra che mi ricorda quella di 1984 di Orwell, in cui dei nemici non vedi né sai nulla.

Cover:  Foto di un drone in azione di guerra, su licenza Creative Commons

UN PUNTO DI VISTA PACIFISTA SULL’AFGHANISTAN.
Smontare la post-verità fatta di bugie utili alla “guerra umanitaria”

La nostra voce contro la guerra non è stata forte, doveva esserlo di più. Ai talebani va chiesto il rispetto dei diritti umani, a Biden la chiusura della prigione di Guantanamo.
Destabilizzare l’Afghanistan significherebbe la crescita del terrorismo dell’ISIS, i recenti attentati siano di monito: Il movimento per la pace ha il compito di elaborare un suo punto di vista sui grandi eventi dell’umanità. Lo fece durante la guerra del Vietnam, ha il compito di farlo oggi con la guerra dell’Afghanistan.

Nel 1975, quando finì la guerra del Vietnam, la disfatta militare americana venne salutata come un evento positivo. Non solo per la disfatta in sé, ma per la lezione che essa comportava verso la leadership americana che per quindici anni non tentò, fino alla guerra dell’Iraq, altre avventure militari.
Oggi occorre constatare che il delirio di onnipotenza americano di plasmare il mondo è fallito, almeno per ora. Ed è una cosa positiva che sia finito questo delirio di onnipotenza che alimentava la guerra infinita. E’ stato evidente il collasso di un governo fantoccio che, dopo aver prosciugato una parte degli oltre duemila miliardi bruciati in questa guerra ‘democratica”, si è sbriciolato in pochi giorni. In pochi giorni venti anni di menzogne si sono polverizzate. Oggi i militari americani si tolgono la vita e i suicidi dei marines costituiscono uno dei più gravi problemi della società americana.

I presunti passi in avanti della società afghana non venivano difesi da nessuno, se non da quell’elite predatoria che aveva sottratto al popolo gli aiuti civili e che ha chiesto un corridoio umanitario per scappare perché non ha la coscienza a posto.
millantati progressi della società afghana sono emersi in tutta la loro vergognosa falsità negli Afghanistan Papers. E questi ultimi da molti non sono conosciuti proprio perché questa è stata una guerra “democratica”, appoggiata da Fassino e D’Alema, su cui è stata costruita una narrazione a cui non corrispondeva la realtà.

Oggi la realtà emerge e ci dice che siamo stati tutti avvolti da una nube invisibile di informazioni narcotizzanti, le quali hanno addormentato anche parti importanti del movimento pacifista che non ha chiesto con la sufficiente determinazione il ritiro dei contingenti militari. Avevamo di fronte una raffinata forma di imperialismo che utilizzava i diritti umani per giustificare l’estensione della Nato fuori dalla sua area geografica originaria, delimitata nell’articolo 6 del Trattato del 1949.
Questo significava una proiezione delle forze armate oltre una funzione difensiva, prefigurando lo strumento militare come forma di tutela dei propri interessi geostrategici, lontano dai propri confini e vicino alle fonti e ai corridoi energetici.

Gino Strada sull’Afghanistan era stato chiaro, anzi chiarissimo, nel porsi contro questa guerra.
Ma
molti di noi non hanno avuto quel coraggio di dire le cose in modo scomodo e sgradevole, come sapeva dirle lui. Avevamo troppa paura di essere definiti talebani e non abbiamo fatto abbastanza nel perseguire la fine della guerra.
E così la guerra è stata fermata non sull’onda di una battente campagna di opinione pacifista ma sulla base di una valutazione realistica fatta dagli Stati Uniti, condotta a termine da Joe Biden che ha deciso quel ritiro che Fassino e D’Alema hanno sempre ritenuto un tabù.

La nostra voce di pacifisti non è stata forte, doveva esserlo di più. Eanche oggi non è che sia bellissimo trovare la firma di Piero Fassino su appelli co-firmati da autorevoli associazioni pacifiste.
Ecco come Fassino si opponeva al ritiro e “valutava” l’uso delle bombe in Afghanistan: «quello delle bombe è un aspetto che deve essere esaminato e valutato da chi ha le competenze, cioè dai vertici delle Forze Armate e di chi ha il comando operativo in quell’area». (L’Unità, 12 ottobre 2010)

Non abbiamo chiesto con la sufficiente determinazione la fine della missione in Afghanistan e per non averla chiamata con il suo nome: occupazione militare. A cui si sono accompagnate condizioni di detenzione vergognose, fuori dai principi della Convenzione di Ginevra, Guantanamo in primis.
Sono stati violati i diritti umani più e più volte (lo ha documentato l’ONU) ma per molti era la nostra una missione di civiltà.
E’ stata messa in atto in questi anni una persecuzione terribile verso chi ha rivelato segreti militari per raccontare la verità della guerra: Assange, Manning, Snowden.
E non lo è stata, perché alzare la voce significava essere posti ai margini della vita pubblica, con la terribile accusa di essere un fiancheggiatore dei terroristi. E’ stata fatta un’enorme confusione fra talebani e terroristi. Questo è ciò che è avvenuto.
La fine di vent’anni di guerra e di menzogne è oggi una liberazione, è un evento, ed è un evento positivo.
I talebani hanno resistito ad un’occupazione militare.
Il collasso in pochi giorni del regime fantoccio – creato dagli Stati Uniti e dalla NATO – pone fine a venti anni di bugie e di illusioni.

La post-verità sull’Afghanistan

La post-verità (post-truth) è la costruzione di una visione della realtà in cui i fatti verificabili (in questo caso, quelli  sull’Afghanistan) diventano secondari. La verità oggi viene considerata una questione di secondaria importanza, e così anche i fatti.
Secondo l’ Accademia della Crusca: “Nella post-verità la notizia viene percepita e accettata come vera dal pubblico sulla base di emozioni e sensazioni, senza alcuna analisi concreta della effettiva veridicità dei fatti raccontati: in una discussione caratterizzata da “post-verità”, i fatti oggettivi – chiaramente accertati – sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto ad appelli ad emozioni e convinzioni personali”. the afghanistan papers
Sull’Afghanistan è stata costruita un post-verità
. I più sprovveduti hanno vissuto di illusioni, in attesa di un miglioramento dell’Afghanistan grazie alla missione NATO, i più maliziosi hanno alimentato quelle illusioni con un mare di menzogne costruite a tavolino, come documentano i documenti desecretati di recente: gli Afghanistan Papers.

Oggi è venuto il momento di riscattarci per quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto.
E oggi che cosa possiamo fare?
Riportare al centro l’ONU, dopo il fallimento della NATO.
Occorre prima di tutto essere chiari: la strategia dell’Occidente non può essere quella di destabilizzare l’Afghanistan per una sorta di rivincita. Destabilizzare l’Afghanistan significa favorire la crescita del terrorismo dell’ISIS che cerca – lo si è visto con i recenti attentati – di puntare alla destabilizzazione dell’Afghanistan per insediarsi pericolosamente.

Quello che dobbiamo chiedere all’Afghanistan è la fine delle coltivazioni di oppio che hanno fatto dell’Afghanistan un narcostato, e su cui gli occupanti occidentali hanno chiuso un occhio. E’ un tumore economico che alimenta una metastasi mondiale a cui occorre porre rimedio.
L’altro nemico è la povertà, che favorisce la misera condizione della donna e la sua mancata emancipazione. E qui occorre una forte pressione perché il nuovo governo apra spiragli di novità rispettando le promesse fatte nella prima conferenza stampa sui diritti umani.

Un altro grande nemico è la guerra, che anche l’Italia ha alimentato. Abbiamo puntato su ciò che creava il problema e non sulla sua soluzione. Il rapporto con il nuovo governo afghano deve essere improntato sulla pace, oltre che sul rispetto dei diritti umani fondamentali.

Occorre cambiare strada e noi, come pacifisti, possiamo avere la voce libera per indicare una strada che vada nell’interesse del popolo afghano e non delle lobby militari che in questi venti anni hanno dominato la scena.
E, come gesto simbolico ma concreto, possiamo e dobbiamo esigere la chiusura della prigione di Guantanamo. Perché il medioevo è lì.
Se ai talebani va chiesto il rispetto dei diritti umani, come è giusto che sia, occorre che l’esempio parta da noi, chiedendo agli Stati Uniti la chiusura della prigione di Guantanamo, simbolo della violazione occidentale dei diritti umani [vedi Campagna Guantanamo di peacelink]

Nota: questo articolo è già uscito sul sito di Peacelink il 27.08.2021

In copertina: Soldato americano in Afghanistan (licenza Creative Commons)

PRESTO DI MATTINA
Con i piedi per terra

«Il Diavolo, quello spirito orgoglioso, non può̀ tollerare di venir canzonato»
(Tommaso Moro [Qui])

Malacoda è solo un’apprendista, un piccolo diavolo, ingenuo e inesperto, nipote di Berlicche, che è al contrario un diavolo navigato, capitano di lungo corso. Screwtape è il suo nome nell’originale inglese; un maestro nel confondere i pensieri, corrompere le cose, dividere ciò che è unito, mischiare realtà e immaginazione.

Andato in pensione da poco non ha altro interesse che scrivere lettere periodiche con cui istruisce il nipote, in missione sulla terra, sull’arte di sottrarre anime al Nemico: Dio è qui “l’avversario nostro” dice Berlicche. «Il gergo corrente, non la discussione, è il tuo alleato migliore per tenerlo lontano dalla chiesa… è un vero godimento far scoppiare l’odio fra coloro che dicono “messa” e coloro che dicono “santa comunione”… Il male della discussione è invece che essa convoglia tutta la lotta sul terreno del Nemico. Anche Lui sa discutere. Il fatto stesso di discutere sveglia la ragione del tuo paziente, e, una volta che sia sveglio, chi può̀ prevedere i risultati che potrebbero seguire?» (C. S. Lewis, Le lettere di Berlicche, Mondadori, Milano 1950, 13-14; 71).

Istruiscilo dunque a pensare alla realtà solo con l’immaginazione, questa è la tattica. Spingilo a fantasticare, a costruire mondi virtuali attraverso le opinioni, il sentito dire e il si dice; fagli credere che l’esperienza è fare esperimenti e pratiche stando alla consolle, distaccati e riparati dalle cose di ogni giorno, privi di coinvolgimento, solo controllando dal di fuori, senza applicare gli esperimenti a servizio alla vita. Come fosse una sfilata di moda sulla stessa passerella, passando da una moda all’altra, da un gioco all’altro, senza prendere e dare forma all’esistenza uscendo in strada.

Uno sperimentare senza un riscontro sul terreno; un tessere la vita con ago senza il filo: «L’utilità delle mode nel pensiero consiste nel distrarre l’attenzione degli uomini dai loro veri pericoli. Il gioco consiste nel farli correre dappertutto con estintori d’incendio ogni volta che c’è un’inondazione, e di affollare quella parte della barca che ha già l’acqua quasi al parapetto» (ivi, 122). Caro Malacoda ‒ ricorda ancora lo zio Screwtapedevi tentarli all’«irrealtà», pasticciando, mettendo sottosopra le cose, facendo credere il contrario di quello che è. Non devi insegnare veramente, ma “annebbiarli”, “ubriacarli” in modo che non comprendano più «cosa si intenda dire quando dicono “realtà”» (ivi 14).

Gli ricorda poi che «gli esseri umani vivono nel tempo, ma il nostro Nemico li destina all’eternità̀. Perciò, credo, Egli desidera che essi si occupino principalmente di due cose: dell’eternità stessa, e di quel punto del tempo che essi chiamano il presente. Il presente è infatti il punto nel quale il tempo tocca l’eternità̀. Del momento presente, e soltanto di esso, gli esseri umani hanno un’esperienza analoga all’esperienza che il nostro Nemico ha della realtà̀ intera; soltanto in esso viene loro offerta la libertà e la realtà̀. Egli vorrebbe perciò̀ che essi fossero continuamente occupati o con l’eternità̀ o con il presente – o che meditino sulla loro eterna unione con Lui, o sulla separazione da Lui, oppure che obbediscano alla voce presente della coscienza, portando la croce presente, ricevendo la grazia presente, offrendo azioni di grazie per il piacere presente. Il nostro lavoro è di allontanarli sia dall’eterno sia dal presente» (ivi, 73-74).

Anche la memoria del passato è pericolosa perché assomiglia all’eternità e ne contiene tracce indelebili. Farli vivere solo di futuro è la cosa migliore per tenere la realtà del presente lontano dalla loro vita.

Clive Staples Lewis [Qui], convertitosi all’anglicanesimo ‒ terra di mezzo tra cattolici e protestanti ‒ contribuì coi suoi scritti a fra avanzare il cammino ecumenico tra le diverse confessioni cristiane presenti in Inghilterra. La convivenza non era molto facile; le comunità e le parrocchie delle diverse confessioni erano vicine tra loro; si trattava dunque di favorire l’incontro e l’accoglienza pur nelle diversità di esperienze. Così egli richiamò l’attenzione sulla necessità di allargare il “terreno comune” che permette ai credenti di diverse fedi di incontrarsi attorno alle grandi questioni della vita.

Fin dai primi anni a Santa Francesca ogni tanto andavo a rileggere quella pagina de Le lettere di Berlicche, che rimane attuale anche se non è più, ora, solo riferita alla parrocchia, ma alla parrocchia di parrocchie che la nostra unità pastorale di Borgovado.

Le strategie di Berlicche per far sì che un convertito non viva pienamente la vita parrocchiale sono le stesse per impedire lo stile sinodale e l’esercizio della corresponsabilità tra più parrocchie: «Mio caro Malacoda, nella tua ultima lettera hai accennato per caso che, dal momento della sua conversione, il tuo paziente ha continuato a frequentare una chiesa, ed una sola, e che non ne è completamente soddisfatto. Posso chiederti che cosa stai facendo? Non capisci che ciò, se non è dovuto a indifferenza, è una cosa molto brutta? Certamente sai che se non si riesce a curare un uomo dall’andare in chiesa, la cosa migliore da fare è di mandarlo per tutto il vicinato in cerca d‘una chiesa che “vada bene” per lui, affinché diventi un buongustaio e un esperto in chiese. Le ragioni sono ovvie: l’organizzazione parrocchiale dovrebbe essere sempre attaccata perché, essendo un’unità di luogo e non di simpatie, porta insieme gente di diverse classi e di differente psicologia in quel genere di unità che il Nemico desidera» (ivi, 78).

Con i piedi per terra.

Non è solo un problema pastorale, ma umano ‒ direbbe Xavier Zubiri [Qui] ‒ quello di “saper stare nella realtà”, faccia a faccia in modo interattivo, dialogico, sinodale. Perché la realtà non è struttura di possibilità solo virtuale, manipolabile finché “non va bene a me” e non si adegui al mio gusto, alla mia taglia.

Anche l’esperienza spirituale, liturgica ed ecclesiale, oltre che umana, non si ferma agli esprimenti di laboratorio, emulando l’immobilità e l’intangibilità di modelli del passato, o rincorrendo, folleggiando un futuro indistinto che si affida al caso. Neppure si muove con degli slogan contrapposti, come incrociando in duello gli ideali o la retorica della tradizione del “si è sempre fatto così” a quella dell’innovazione, del “tutto è da buttare”. Il tutto inconsciamente animato, non già dalla ricerca di stili sostenibili per vivere insieme, ma dalla recondita esigenza di certificare selettivamente solo chi sia il migliore.

L’eccellenza, tanto ecclesiale quanto umana, non sta nei titoli o nelle strutture imponenti, ostentate nei segni e insegne di potere. Questa è solo retorica ingannatrice, che alla fine risulta divisiva, conflittuale, negativamente classificatoria e penalizzante dell’umano e del cristiano. Sulle prime essa può affascinare come le scintille nella stoppia, ma poi resta il disincanto amarissimo della cenere nera sulla terra bruciata e sul vangelo.

Semmai, l’eccellenza è bellezza nascosta e sedimentata nel profondo; formata strato dopo strato, passo dopo passo, nel vissuto di ogni giorno in una banalità apparente, spinta fuori (ex-cellere) solo alla fine, come l’eccedenza sovrabbondante e testimoniante una vita che si dona, tanto da lasciare stupiti: come da un piccolo seme, un frutto di singolare e nuova umanità.

È capacità di presa sulla vita, nel divenire esperti praticando umanità, anche attraverso il sacrificio di se stessi. Sta nella dedizione alla causa dell’uomo a partire dagli ultimi e dagli svantaggiati; sta nel trovare vie di uscita alle esperienze proprie e altrui, quando si ripiegano su se stesse divenendo autoreferenziali; nel far rinascere o nell’aprire a una realtà più grande; è la sua costante determinazione e cura, incoraggiando sinapsi tra la gente (σύν/con e ἅπτειν/toccare), connessioni esistenziali per una crescita condivisa del bene comune, mettendo in guardia dalla retorica dell’accumulo, del meticcio, della identità, dell’esclusivo: il diavolo veste Prada.

«Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie – dice Paolo ‒ Provate ogni cosa e vagliate ciò che è buono» (1 Tes 5,19-20): traducete in vita etica, per gli altri, i vostri esperimenti.

Fare esperienza allora è di più che fare un esperimento. Così come la realtà è superiore all’idea, ma l’una non esclude l’altra e neppure va senza l’altra, parimenti l’esperienza deve uscire fuori, rischiarsi allo scoperto della realtà, verso un orizzonte che è sempre oltre, infinitamente aperto. La realtà è qualcosa che ci sorprende e ci supera sempre: il discernimento comunitario come “l’intelligenza senziente” (Xavier Zubiri), quella che si fa carico della realtà, le danno una forma, un senso, un giudizio, una intelligibilità, una bellezza.

Se la realtà è la materia prima, diversificata, plurale, imprevedibile, incontenibile, segnata dal nascere e dal morire, l’esperienza dell’“intelligenza senziente”, che lascia essere le cose nella loro diversità e la condivisione di ciò che è proprio di ciascuno, sono le mani che la plasmano, impastando con essa nel presente il futuro dell’umano in un processo di socializzazione e personalizzazione.

Geremia «scese nella bottega del vasaio, ed ecco, egli stava lavorando al tornio. Ora, se si guastava il vaso che stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli riprovava di nuovo e ne faceva un altro, come ai suoi occhi pareva giusto» (18, 3-4).

Per vivere spiritualmente e creativamente bisogna immergersi e lasciarsi impastare nel reale. Scrive Romano Guardini [Qui]: «Esiste un tipo di creazione spirituale che si deve pagare con la capacità di sentire» (Diario, 124). E senza questo esercizio dei sensi “intelligenti”, che leggono in profondità, dentro (intus legere), la fede stessa, si dissocia dalla vita, si ammala, rinsecchisce e diviene come quelle foglie che si staccano dall’albero dell’esperienza private della linfa.

Quando nelle nostre parole, negli scritti, negli stessi gesti liturgici, ma anche in quelli più familiari e umili ‒ come far da mangiare, apparecchiare la tavola, far le pulizie ‒ viene meno l’energia del fatto che li ha suscitati, essi diventano pragmatici, da manuale, senz’anima: situazioni e ambiti in cui la realtà è come archiviata, rinchiusa, immobile, tolta via dal suo contesto.

E Pierre Teilhard de Chardin [Qui] vedeva con assoluta evidenza «la vuota fragilità delle più belle riflessioni e immaginazioni di fronte alla pienezza definitiva del più infimo fatto colto nella sua realtà concreta e totale». Per comprendere e interpretare il mondo bisogna viverlo: «Ogni conoscenza astratta (virtuale) è solo ‘essere appassito’; poiché, per capire il Mondo, non basta sapere: bisogna vedere, toccare, vivere nella presenza, bere l’esistenza bell’e calda nel seno stesso della Realtà», (“La Potenza spirituale della Materia”, in Inno dell’universo, 67-68),

Concludo come ho iniziato, dando la parola a C.S. Lewis: «Noi non ci accontentiamo di vedere la bellezza, anche se sa il Cielo che gran dono sia questo. Noi vogliamo qualcos’altro che è difficile esprimere a parole – vogliamo sentirci uniti alla bellezza che vediamo, trapassarla, riceverla dentro di noi, immergerci in essa, diventarne parte»
(Il brindisi di Berlicche e altri scritti, Milano 1980, 149-150).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

NON SONO CATTIVI SOLO I TALEBANI!
Durante la missione USA, nelle aree urbane il 69,4% delle donne
ha subito almeno una forma di violenza

 

C’è una narrazione dell’emancipazione femminile sotto la missione USA/NATO che non rispecchia la verità. E’ servita a giustificare la missione militare ieri e serve oggi a descrivere un Afghanistan dove la libertà delle donne è ora in pericolo. Ma lo è sempre stata.
Chi dice che la condizione delle donne durante l’occupazione americana dell’Afghanistan era migliorata nelle città dovrebbe leggere questi dati di ActionAid [Qui] del 2014:
“Non esistono statistiche ufficiali a livello nazionale sulla violenza di genere in Afghanistan e, secondo uno studio del 2012 dell’UNAMA (United Nations Assistance Mission in Afghanistan), la maggior parte delle violenze contro donne e bambine non vengono denunciate. Per colmare le lacune sulla conoscenza del fenomeno della violenza in Afghanistan, alcune ONG e organizzazioni internazionali hanno effettuato ricerche per stimarne la portata.
Uno studio di Global Rights sulla violenza contro le donne, effettuata in 16 delle 34 province afghane, ha rilevato che l’84.9% delle donne che vivono in zone rurali ha subito almeno una forma di violenza (fisica, psicologica o sessuale) contro il 69,4% delle donne che vivono in aree urbane”.
Sono dati che smentiscono la narrazione dell’emancipazione femminile sotto la missione USA/NATO. Quella narrazione è servita ad assopire l’opposizione alla guerra e a giustificare la missione militare. Oggi serve a descrivere un Afghanistan dove la libertà delle donne è ora in pericolo.

E’ un’operazione di raffinata manipolazione, efficace su tante donne che sinceramente sono preoccupate per ciò che avviene.
Purtroppo le donne erano in pericolo anche prima della caduta di Kabul, anche se non se ne parlava come oggi.
Le donne erano oggetto di violenza anche prima in quanto gli occupanti avevano stretto scellerati patti di potere con i “signori della guerra” rivali dei talebani. Questi signori della guerra erano protagonisti delle violazioni dei diritti umani e delle donne, inclusi omicidi per libidine, stupri e sevizie. Ma questa emergenza non raggiungeva il grande pubblico e rimaneva all’interno dei dossier.
La maggior parte delle violenze contro donne e bambine non veniva denunciata.

Le donne di RAWA sotto l’occupazione USA/NATO dicevano:
“Le donne non hanno visto migliorare la loro condizione se non in alcune limitate parti del paese. In altre zone l’incidenza degli stupri e dei matrimoni forzati è nuovamente in crescita, e le donne continuano a indossare il burqa per paura, per tutelare la propria sicurezza. La guerra al terrorismo ha scacciato gli storitellyng talebani dal governo centrale, ma non ha sradicato il fondamentalismo religioso, che è la causa principale delle nostre sofferenze. I signori della guerra e l’Alleanza del Nord sono ancora al potere e sono appoggiati dal governo USA. Costoro sono ideologicamente simili ai talebani. Essi sono misogini quanto loro”.
A questa drammatica situazione per le donne si accompagnava un peggioramento, sotto l’occupazione militare USA/NATO della speranza di vita, della mortalità infantile e di altri indicatori sociali. Ma anche questo non veniva raccontato all’opinione pubblica dalla coalizione militare occupante.

Cosa è PeaceLink?
E’ un’associazione di volontariato nata su rete telematica. Peacelink [Qui] promuove dal 1991 la cultura della solidarietà e dei diritti umani, l’educazione alla pace, la cooperazione internazionale, il ripudio del razzismo e della mafia, la difesa dell’ambiente e della legalità.

Nota: questo articolo è già uscito sul sito di Peacelink il 22.08.2021

Scuola e no-vax: l’incompatibilità professionale

Negli anni Sessanta i giovani obiettori al servizio militare finivano in carcere. Poi, circa un decennio dopo, sono venuti i medici obiettori di coscienza di fronte all’interruzione anticipata della gravidanza e nessuno li ha cacciati dagli ospedali, né messi in galera.
Ora l’obiezione dei no-vax non è di coscienza, perché apparentemente non ci sono in gioco valori morali e civili, ma obiezioni nei confronti della pervasività della scienza.

Prima Francesco, il papa, poi il presidente della repubblica hanno sostenuto che vaccinarsi è un atto d’amore. Al valore civile della tutela della salute pubblica sancita dalla Costituzione ora si aggiunge la portata etica dell’amore, amore per il prossimo oltre che per se stessi.

Ci sono luoghi particolarmente sensibili, ad alta intensità etica e civica, questi, primo tra tutti, la Scuola. La scuola è il luogo di passaggio di milioni di giovani e di adulti, in questo passaggio che ha la durata delle ore, dei giorni, delle settimane, dei mesi e degli anni avviene qualcosa di eccezionale, che solo lì resta isolato, tra l’adulto e un gruppo di giovani, bambini e bambine, ragazzi e ragazze, una sorta di bene immateriale, che non si vede, ma che respira con il respiro di quell’insieme che è la classe, il gruppo, l’aula, il laboratorio, la palestra.

Quella cosa bellissima che ogni società ad ogni lato della Terra chiama crescita, crescita delle nuove generazioni, allevamento, innalzare da terra per portare sempre più in alto.
I Care. È la cura, il prendersi cura, il camminare al tuo fianco, prenderti la mano e accompagnarti, aiutarti a superare gli ostacoli, lasciarti correre quando ti senti sicuro, sedermi al tuo fianco quando pensi di non farcela.

Non possiamo scrivere I Care sulle pareti delle nostre scuole e pensare che insegnare sia un fatto nostro, che esclude testo e contesto, l’umanità che lo nutre, la responsabilità che lo sorveglia, l’attenzione e l’interesse della società intorno.

Insegnare non ammette il conflitto, né con le generazioni degli studenti, né con le famiglie.
Quando si insegna, si entra in una classe, ci si accosta ad una cattedra non si parte per una missione, ma più semplicemente si è chiamati ad esercitare la propria professione, a professare la cultura che è sempre aperta, accogliente, rivolta a scovare il sapere, che è passione per l’altro che deve apprendere.

Ora non c’è più nulla di più incongruente, di più inconciliabile, di più inspiegabile di un insegnante no-vax. Non vaccinarsi per un insegnante significa pensare che la propria professione è distanza e giudizio, comunicazione oracolare e sentenza finale, una staticità angustiante di teste inscatolate da inscatolare nel packing della propria materia. La scuola degli imballaggi dove collocare ogni alunna e ogni alunno per poi sfornarlo confezionato secundum curricula al termine del corso studiorum.

L’I Care di don Milani [Qui] è la scuola dell’umanità, la scuola di Freinet [Qui], di Bruno Ciari [Qui], di Mario Lodi [Qui] e di tutti coloro che li hanno assunti come testimoni e che a loro si sono sempre ispirati nel proprio lavoro.

Nella nostra scuola non c’è posto per i no-vax, per i sindacati che stagnano nell’ambiguità corporativa. La scuola è delle ragazze e dei ragazzi e per tornare ad essere loro è necessario che tutti gli insegnanti e chi lavora nella scuola, dai collaboratori scolastici ai dirigenti, siano tutti vaccinati. Diversamente nessuno di questi merita di mettere piede in una scuola, in una classe, perché non sarà mai dalla parte dei giovani che devono crescere, studiare, imparare ad apprendere.

La scuola è passione e se non è appassionata non è scuola, manca pure lo spazio per esitare un solo attimo tra il vaccinarsi e il non vaccinarsi. Chi pensa di avere questo spazio ha sbagliato mestiere, quello dell’insegnante non è il suo lavoro e, se l’ha scelto per ripiego, è bene che mediti sulla sua superficialità e sulla responsabilità che porta. Il paese ha bisogno di passione per la scuola, di questo hanno bisogno tutti i bambini e le bambine, tutte le ragazze e tutti i ragazzi.

Non si vuole obbligare al vaccino? Benissimo. Nella scuola pubblica, quella solidale, quella dell’inclusione, quella dell’accoglienza, quella dove hanno piena cittadinanza fragilità e disabilità non ci può essere posto per personale che non sia vaccinato, la scuola pubblica non può che essere radicale nell’applicazione del dettato costituzionale dell’articolo 32.

Non c’è posto per tutti nella scuola pubblica, non è un ufficio di collocamento per mezzi servizi e mezzi stipendi. È ora di chiudere con la storia che a scuola entrano tutti dopo anni di graduatorie dove i punteggi si accumulano nei modi più disparati e in graduatoria si sosta per anni, fino a quando, dopo aver optato per un impiego alle Poste, ti ripescano per una supplenza.

Questo è il valore che attribuiamo alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi. All’inizio del secolo scorso John Dewey [Qui] ci ricordava che compito della società è quello di assicurare ciò che ciascun genitore desidera per il proprio figlio, vale a dire gli insegnanti migliori e non il primo che capita per via di un algoritmo.

La Scuola deve essere l’istituzione migliore del paese, con i professionisti più preparati, non più saputi, ma più preparati nella fatica di curare ognuno, uno per uno, di condurre per mano, con pazienza e intelligenza ogni ragazza e ogni ragazzo dal nido all’università, senza perderne uno, senza lasciare indietro nessuno, disegnando per ognuno il percorso che può fare. Con l’arte della tartaruga, con il festina lente.

È il principio di responsabilità di cui si carica chi lavora nella scuola, responsabilità innanzitutto di fronte alla crescita di ogni ragazza e di ogni ragazzo, responsabilità nei confronti della società e del suo futuro, responsabilità nei confronti delle famiglie. Chi non se la sente di portare un simile fardello sulle spalle è bene che a mettere piede in una scuola non ci pensi neppure lontanamente.

Ora non è che dopo aver introdotto nelle nostre scuole, allarmati dai comportamenti delle giovani generazioni, l’Educazione Civica come insegnamento trasversale, che interessa tutti i docenti e tutti i gradi scolastici, per formare cittadini responsabili, come proclama il sito ministeriale, l’insegnamento dell’educazione civica poi lo affidiamo agli insegnanti no-vax?

L’articolo 1, comma 1 della legge richiama il patto educativo di corresponsabilità come terreno di esercizio concreto per sviluppare “la capacità di agire da cittadini responsabili e di partecipare pienamente e consapevolmente alla vita civile, culturale, sociale della comunità.”

Di fronte agli appelli del presidente della repubblica, del papa, delle autorità sanitarie gli insegnanti, più di ogni altro, non hanno possibilità di scelta. L’obbligo a vaccinarsi è connaturato al mestiere che hanno deciso di esercitare, perché quel mestiere ha particolarità che a stare seduti in cattedra non si possono scoprire e neppure apprendere, sono quelle stesse peculiarità per cui, o l’insegnamento è in presenza, umanamente intimo e corale allo stesso tempo, o è un’altra cosa.
Per l’altra cosa non serve né l’insegnante né il vaccino.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

Firma ché ti Pass!
La costrizione vaccinale per i lavoratori della scuola

 

Le riflessioni che seguono prendono spunto dalla recente introduzione del, cosiddetto, “green pass” per i lavoratori della scuola, insieme a quelli dell’università, e tentano di mettere in luce in questo dato politico alcuni aspetti che, a parere di chi scrive, dovrebbero sollevare in tutti i cittadini italiani degli interrogativi molto seri sulla direzione che sta prendendo il governo del Paese.

A scanso di equivoci e di polemiche vacue, vorrei premettere che le riflessioni in questione non sono ispirate a visioni no-vax, né a visioni pro-vax; né a idealizzazioni dei lavoratori della scuola, né tantomeno al loro disprezzo sistematico.
Non voglio, insomma, assolutamente entrare sul piano clinico, ma solo sviluppare alcune considerazioni sul piano etico e politico, mentre degli eventuali risvolti giuridici, se ve ne fossero, altri si potranno occupare con il necessario fondamento, come in parte già avviene.

Alla ripresa delle lezioni, dunque, i lavoratori della scuola dovranno esibire il green pass. Chi non ne sarà in possesso verrà sospeso dal lavoro e dal salario. Il che, teniamolo presente, per una fascia di lavoratori tradizionalmente a basso reddito può voler dire non essere in grado di far fronte alle esigenze più immediate della propria famiglia e costituisce dunque una formidabile arma di pressione.
In generale, il green pass si può ottenere in tre modi:
– essendo guariti dal covid;
– con un tampone negativo nelle ultime 48 ore;
– con un ciclo completo di “vaccinazione”.

Poiché non si può chiedere a qualcuno di contrarre volontariamente il Covid per poi, con un po’ di fortuna, rientrare nella prima categoria, né di fare tre tamponi a settimana (quelli salivari sono esplicitamente esclusi), è chiaro che per i lavoratori della scuola l’unica strada effettivamente percorribile è la “vaccinazione”.

L’obbligo del green pass equivale dunque, nel loro caso, a un tentativo di costrizione al trattamento sanitario in questione, perseguito attraverso la ‘sollecitazione’ dell’estromissione dall’ambito lavorativo e della privazione dei mezzi di sussistenza. Si tratta di un fatto ormai largamente riconosciuto, come per esempio dal microbiologo Andrea Crisanti  [Vedi qui]

Ma perché il governo non obbliga semplicemente e direttamente i lavoratori della scuola alla vaccinazione?

Si tratta di una questione complessa, sulla quale certamente il clima mediatico non aiuta a chiarirsi le idee. Alcuni punti sono stati accennati in un recente contraddittorio tra il filosofo Massimo Cacciari e il farmacologo Silvio Garattini, al quale rimandiamo chi lo avesse perso [Vedi qui] .
Fatto sta che non solo l’obbligo vaccinale non è stato imposto, ma in sede di presentazione del D.L. 111/2021 si è sentita l’esigenza di ribadirlo esplicitamente. Evidentemente – e anche su questo esiste un’amplia letteratura –  l’imposizione dell’obbligo implica un’assunzione di responsabilità che il Governo non può o non vuole esercitare.

La centralità del nodo della responsabilità in tutta la vicenda emerge chiaramente nel fatto che, in sede di somministrazione del vaccino, è inderogabilmente richiesta la firma di un modulo di consenso nel quale ci si dichiara a conoscenza di quanto esposto nei materiali informativi, rinunciando di fatto a possibili azioni futura di tutela per effetti indesiderati.

Per fare solo un esempio di ciò di cui si dichiara d’esser consapevoli, riportiamo il punto 5.3 del Documento integrale Pfizer: “Non sono stati condotti studi di genotossicità o sul potenziale cancerogeno. Si ritiene che i componenti del vaccino (lipidi e mRNA) non presentino alcun potenziale genotossico

Naturalmente, la richiesta di questa firma è, in sé, comprensibilissima: i “vaccini” sono stati realizzati in emergenza, dunque chi vuole godere dei benefici che essi hanno potuto dimostrare nei tempi ristretti della sperimentazione, deve anche accollarsi i rischi relativi a ciò che, nei medesimi tempi, non è stato possibile accertare.
Questo fatto, però, dimostra anche in modo incontrovertibile che – qualsiasi cosa si voglia far credere in proposito – non esiste allo stato delle conoscenze, una base di dati sulla quale effettuare una valutazione complessiva rischi/benefici scientificamente affidabile.
Da ciò derivano due conseguenze: l’opinione di chi teme che i rischi possano essere complessivamente maggiori dei benefici potrà magari nel tempo rivelarsi sbagliata, ma non è, allo stato delle cose, assurda o irrazionale; essa non è di per sé frutto di una prospettiva egoistica, se si tiene conto di uno scenario nel quale significativi effetti indesiderati si manifestassero in una percentuale rilevante della popolazione vaccinata.

È quanto viene sostanzialmente recepito nella Risoluzione 2361/2021 del Parlamento Europeo nella quale, ai punti 7.3.1 e 7.3.2, si afferma esplicitamente che i cittadini europei devono essere informati del fatto che la vaccinazione non è obbligatoria, che nessuno deve subire alcun tipo di pressione verso il vaccino se non è intenzionato a farlo, né essere discriminato in conseguenza di questa scelta [Qui]
L’introduzione surrettizia dell’obbligo vaccinale, dunque, non è affatto una questione di sottigliezze giuridiche, bensì di concretissime alterazioni delle sfere dei diritti individuali e collettivi. Certamente se ne discuterà molto nelle aule dei tribunali a diversi livelli ma, naturalmente, è anche qui imprevedibile con quali esiti.
Resta, spiace dirlo, un triste dato politico: imporre di fatto di ciò che non è esigibile in base al diritto è prassi che caratterizza forme di potere diverse da quello democratico e che difficilmente, una volta instaurata, non tende a replicarsi. Questo aspetto dovrebbe preoccupare tutti i cittadini indistintamente.

Purtroppo, però, le ragioni di preoccupazione civile e democratica non finiscono qui.
Appare, infatti, abbastanza scontato che chi valuta i rischi di una determinata pratica terapeutica superiori ai benefici, come coloro i quali non intendono sottoporsi attualmente alla vaccinazione, non può essere propenso a sollevare dalle relative responsabilità chi lo obbligasse a sottoporsi a quella pratica.
Questa è anche, ovviamente, la situazione dei lavoratori della scuola che avevano deciso per il momento di non vaccinarsi. Ma per poter ottenere la vaccinazione alla quale sono ora di fatto obbligati dalla logica intimidatoria del green pass – se non sei vaccinato non puoi lavorare e sarai privato dei mezzi di sussistenza – dovranno apporre quella firma liberatoria che è contraria alla loro volontà, alle loro convinzioni, alle tutele previste nel caso quelle convinzioni dovessero rivelarsi fondate.

In breve, lo Stato – da una parte come fonte, attraverso i suoi Organi, delle norme e dall’altra come datore di lavoro – dice in questa circostanza al suo dipendente: apponi questa firma con la quale rinunci a eventuali future azioni di tutela dei tuoi diritti, altrimenti ti allontanerò dal tuo posto di lavoro e dal salario.
A me pare che, in senso morale, la firma in questione debba essere considerata estorta.
Non vedo infatti, in senso etico, particolari differenze con quelle situazioni nelle quali alcuni datori di lavoro, all’atto dell’assunzione o del rinnovo di un contratto di lavoro, impongono al lavoratore la firma di una lettera di dimissioni priva di data, che il datore di lavoro stesso potrà utilizzare, ad esempio, qualora il lavoratore pretendesse di far valere in azienda i propri diritti garantiti dalla legge.
In entrambi i casi, infatti, il lavoratore appone la firma in contrasto con la propria volontà, con le proprie convinzioni e con la cura dei propri diritti all’unico scopo di ottenere o conservare il posto di lavoro e la retribuzione che il datore di lavoro minaccia di sottrargli.

Il tutto appare ovviamente ancor più eticamente paradossale se si tiene conto del fatto che proprio allo Stato spetta di vigilare affinché la sfera del lavoro – la quale resta, fino a nuovo ordine, il fondamento costituzionale della Repubblica democratica – sia protetta dall’eventuale erosione dei propri diritti sempre possibile nei concreti rapporti socioeconomici.

Tornando all’esempio di cui sopra, se un datore di lavoro chiede a un lavoratore di firmare una lettera di dimissioni, è compito dello Stato intervenire e reprimere tale condotta. Addirittura, tale comportamento è stato ricondotto, nella giurisprudenza, all’art. 629 del Codice Penale, ovvero al reato di estorsione, e questa interpretazione è stata confermata dalla Corte di Cassazione con sentenza n° 18727 del 14 aprile 2016 [Qui], nella quale si legge tra l’altro: anche lo strumentale uso di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può assumere un significato ricattatorio e genericamente estorsivo, quando lo scopo mediato sia quello di coartare l’altrui volontà”.

In questi tempi difficili abbiamo un gran bisogno di buoni anticorpi: anche di quelli democratici e repubblicani.

NADIYA ANZHUMAN:
Io sono una donna afghana
E questo é il mio lamento.

 

Non ho voglia di aprir bocca
Per cantar cosa, poi…?
Io, disprezzata dalla vita stessa.
Cantare e non cantare? Non c’é differenza.
Perché dovrei parlare di dolcezza
Quando provo solo amarezza?
Oh, il diletto dei tiranni
Ha colpito la mia bocca
Se non ho un compagno nella mia vita
A chi dovrei dedicare il mio affetto?
Non c’è differenza fra parlare, ridere,
Morire, esistere.
Io e la mia solitudine forzata.
Insieme al dispiacere e alla tristezza.
Sono nata per il nulla.
Le mie labbra dovrebbero essere sigillate.
Oh, cuore mio, lo senti che è primavera
Ed è tempo di festa.
Cosa posso fare con un’ala intrappolata
Che mi impedisce di volare?
Sono stata zitta per troppo tempo,
Ma non ho dimenticato la melodia,
Poiché continuo a bisbigliare
Le canzoni nel profondo mio cuore,
Per ricordare a me stessa
Che un giorno distruggerò questa gabbia,
E volerò via dalla solitudine
E canterò, con la mia malinconia.
Io non sono come un debole pioppo
Che si piega al vento.
Io sono una donna afghana,
E questo é il mio lamento.

Nadiya Anzhuman
Nadiya Anzhuman, poeta persiana (1980-2005)

Nadiya Anzhuman (1980–2005) ebbe una vita breve, il decesso avvenne non molto tempo il suo matrimonio e appena sei mesi dopo aver dato alla luce una bambina. Le circostanze della sua morte prematura non sono mai state del tutto chiarite, anche perché all’epoca della disgrazia non fu fatta nessuna autopsia sul cadavere. Nonostante alcuni fallimentari tentativi da parte di alcuni individui per far risultare la sua morte un caso di suicidio, è certo che Nadiya morì dopo una furibonda lite col marito e dopo aver subito una dichiarata violenza fisica da parte di quest’ultimo, in seguito alla quale l’uomo fu incarcerato, anche se per poco tempo, in quanto ritenuto il principale (ed unico) sospettato.
Nadiya provò sulla sua pelle le conseguenze delle riforme statali messe in atto dal governo del Talebani a partire dal 1995 che, fra le altre riforme e i vari interventi sul territorio, vietò alle donne l’accesso alle scuole statali. Dunque, Nadia si trovò a dover fare i conti con la sua passione letteraria da un lato, sua compagna sin dall’epoca della sua infanzia, e dall’altro lato l a difficoltà di essere donna e poter studiare. Si unì al circolo di donne intellettuali guidate da Muhammad Ali Rahyab, professoressa universitaria di Herat.

Fra le varie difficoltà e le mille ostilità incontrate, Nadia riuscì comunque a laurearsi con ottimi risultati in letteratura e a pubblicare un libro di raccolta di poesie, Gul-e-dodi (Fiore Rosso Scarlatto) in lingua farsi. In Italia è stato pubblicato un libretto, Elegia per Nadia Anjuman, che raccoglie alcune delle sue poesie e qualche frammento scritto di un’autobiografia.

IL VACCINO NON TOGLIE LA PAURA:
quello che l’informazione mainstream non ci dice

 

Diciannove mesi di informazione martellante e sistematica sulla pandemia hanno finito col creare un diffuso clima di paura che alimenta le tensioni sociali e le semplificazioni irrazionali.  La paura, si sa, è madre dell’odio ed è l’opposto dell’amore: a livello soggettivo terreno fertile per la sofferenza e l’insorgenza della malattia, a livello sociale strumento nelle mani di chi gestisce il potere. Uscire dalla paura è dunque il primo passo (sociale) per affrontare collettivamente la sfida del Covid-19, il primo passo (soggettivo) per evolvere verso una maggiore tranquillità e consapevolezza, senza tuttavia abbandonare prudenza e attenzione che restano quanto mai indispensabili in periodi di crisi perdurante.

Diciamolo: quella che poteva essere, pur nella sua drammaticità, un’occasione per ragionare sui limiti dello sviluppo e sulle impellenti necessità del pianeta, un’opportunità per riflettere a fondo su stili di vita insostenibili e disfunzionali, uno stimolo per meditare sulla personale consapevolezza, si è ormai trasformata in uno scontro corrosivo che contrappone orizzontalmente cittadini a cittadini generando drammatiche e profonde fratture dentro le istituzioni, le imprese, le associazioni e perfino le famiglie. Quella che poteva essere l’occasione per inventare qualcosa di nuovo è diventata tosto una pressione per tornare alla normalità di prima, ai vecchi comportamenti e rituali sociali, alla routine proposta ed imposta dalla religione universale del consumo.
Tutta la vasta, drammatica e affascinante tematica del virus, che sottende il rapporto dell’uomo con la natura, i limiti della bio-ricerca, le relazioni tra esseri umani e tra specie, è stata ridotta allo scontro sull’obbligo vaccinale e  il  green pass quando non tradotta nel reciproco accusarsi di destra e sinistra, con una perdita di complessità e di onestà intellettuale francamente umiliante.

E’  possibile modificare questa narrazione che avvelena i rapporti sociali senza cadere nell’eccesso opposto?
E’ possibile alimentare una prudente fiducia che possa aiutare ad uscire dalla paura prima che, con la fine dell’estate, il rancore e l’odio sociale alimentato da più fonti, diventi insostenibile e ancora più drammatico?

Il sito della John Hopkins University [qui] – che da inizio pandemia monitora l’andamento del fenomeno –  segnalava il 21 agosto, a livello mondiale, quasi 211 milioni di casi (contagi), 4.415.304 morti e 4.873.203.990 dosi di vaccino somministrate. Un dato quest’ultimo che lascia intuire il colossale business che sta dietro il vaccino anti Covid come messo in risalto nel rapporto curato da Oxfam ed Emergency pubblicato a luglio di quest’anno [potete leggerlo [qui], dal quale stralcio per invitarvi alla lettura questa frase: “Il CEO di Pfizer ha suggerito che si potrà arrivare fino a 175 dollari per dose, ossia 148 volte il potenziale costo di produzione (che è oggi inferiore ai 3 euro).

Ma veniamo all’Italia e ai suoi numeri. Il sito Epicentro dell’Istituto Superiore di Sanità, pubblica ed aggiorna costantemente il rapporto sulle caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione SARS-Cov-2 in Italia. Nell’ultimo aggiornamento del 21 luglio 2021[qui] sono descritte le caratteristiche di 127.044 pazienti deceduti e positivi al virus (formula quest’ultima correttissima che i media si guardano bene dall’utilizzare preferendo titoli come “Morti per Covid”, “Uccisi dal Covid”, “Strage del Covid” e così via, evitando sempre di citare lo stato di salute  dei defunti prima di essere contagiati).
L’età media dei deceduti è di 80 anni (mediana 82, range 0-109, Range InterQuartile – IQR 74-88), mentre l’età mediana dei deceduti è più alta di oltre 35 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione.
Prosegue il rapporto: “Al 21 luglio 2021 sono 1.479, dei 127.044 (1,2%), i pazienti deceduti SARS-CoV-2 positivi di età inferiore ai 50 anni. In particolare, 355 di questi avevano meno di 40 anni (221 uomini e 134 donne con età compresa tra 0 e 39 anni. Di 105 pazienti di età inferiore a 40 anni non sono disponibili informazioni cliniche; degli altri, 206 presentavano gravi patologie preesistenti (patologie cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità) e 44  non avevano patologie di rilievo diagnosticate”.
Vale la pena ribadire: durante tutta la pandemia i deceduti di età inferiore ai 40 anni sono stati 355 pari allo 0,26%; di questi la maggioranza presentava gravi patologie preesistenti.
In aggiunta le indagini svolte su un campione opportunistico (dunque non statisticamente significativo) di 7681 deceduti per i quali sono state analizzate le cartelle cliniche mostra che il 97% aveva una o più patologie (il 67,4% 3 o più) e solo il 3% presentava 0 patologie.

A fronte di questi numeri, la narrativa mediatica dominante negli ultimi mesi ha imposto, da un lato l’idea della strage indiscriminata e, dall’altro, l’idea che solo il vaccino sia la soluzione unica e indubitabile al problema della pandemia. Questa centralità vaccinale può forse essere ricondotta al ruolo assunto dall’Italia [qui] che nel 2014 (governo Renzi, Ministro Lorenzin) divenne guida per 5 anni delle strategie e campagne vaccinali nel mondo.
In verità, la stessa Commissione Europea – che caldeggia comunque la vaccinazione massiccia – ha pubblicamente dichiarato che ci sono promettenti alternative sulle quali si sta lavorando alacremente.
Infatti, dopo aver lanciato a giugno 2020 la strategia UE sui vaccini [qui], ha provveduto ad inizio maggio 2021 ad integrarla con una ulteriore strategia UE per lo sviluppo e la disponibilità delle terapie [qui]. A fine giugno ha quindi resi noti i 5 prodotti [qui] che  hanno elevate possibilità di figurare tra i 3 nuovi strumenti terapeutici contro il Covid-19 da autorizzare entro ottobre 2021; entro lo stesso mese seguirà un portafoglio più ampio comprendente 10 possibili candidati con l’obiettivo di approvarne ufficialmente altri 2 entro la fine dell’anno.
Ecco l’esatta citazione estrapolata dal testo pubblicato pochi mesi fa: “Sulla base del lavoro del gruppo di esperti sulle varianti della COVID-19 istituito di recente, la Commissione definirà entro ottobre (2021) un portafoglio di almeno 10 possibili strumenti terapeutici contro la COVID-19. Il processo di selezione sarà obiettivo e basato su dati scientifici, con criteri di selezione concordati con gli Stati membri. Dal momento che sono necessari tipi di prodotti differenti a seconda delle popolazioni di pazienti e delle fasi e della gravità della malattia, il gruppo di esperti individuerà le categorie di prodotti e selezionerà gli strumenti terapeutici candidati più promettenti per ciascuna categoria sulla base di criteri scientifici”.

Anche L’Agenzia Italiana per il Farmaco (AIFA) ha reso noto l’elenco dei farmaci utilizzabili per il trattamento della malattia Covid-10[qui] corredato da una serie di schede specifiche per ogni farmaco citato con le relative modalità di prescrizione.
Sempre l’AIFA in una nota datata 10 agosto scorso [qui] ha comunicato che sono già disponibili farmaci (efficaci per tutte le varianti) con anticorpi monoclonali per la Covid-19 lieve o moderata, utilizzabili anche per pazienti che sono a rischio di progressione severa della malattia e sono in ossigenoterapia.

Non solo vaccini dunque: la strategia per gli strumenti terapeutici si affianca alla strategia UE per i vaccini “con l’obiettivo di prevenire e ridurre la diffusione dei casi, così come i tassi di ospedalizzazione e i decessi causati dalla malattia”.
Anche in questo caso, però, i media non hanno dato evidenza ad informazioni così importanti preferendo di gran lunga continuare ad insistere con il bollettino quotidiano dei morti, la polemica sulle (non) vaccinazioni (seguendo il mantra citato da molti nominati esperti d’ufficio e politici: “al vaccino non c’è alternativa“) e la diffusione del green pass.

Torniamo per un attimo ad inizio pandemia. In pieno lockdown i media avevano dato spazio alla terapia del compianto De Donno, poi misteriosamente sparito dagli schermi, dai giornali e dalla discussione pubblica fino al tragico epilogo. Nello stesso periodo (marzo 2020) nasceva un Comitato [qui] finalizzato a fornire supporto ai cittadini durante l’emergenza Covid-19, per scambiarsi informazioni cliniche e mettere a punto un protocollo di cure domiciliari in assenza di direttive specifiche. Da questo è nato un gruppo che è enormemente cresciuto nel tempo fino a raggiungere su FaceBook [Qui] le 628.000 persone (20 agosto).
A dicembre 2020 anche il Ministero della Salute aveva prudentemente licenziato una circolare per la gestione domiciliare dei pazienti con infezione da SARS-CoV-2 [qui] provvedendo successivamente a fornirne adeguato aggiornamento datato 27 aprile 2021[qui].
L’ipotesi sottostante alle cure domiciliari è quella che il Covid-19 sia una malattia che deve essere affrontata ai primi sintomi nella propria casa, evitando così in molti casi un peggioramento verso forme più gravi che costringano al ricovero in ospedale.
Il comitato (cito dal sito) informa attraverso il supporto di medici specialisti sui possibili farmaci che possono essere usati per contrastare il Covid-19 e sui protocolli di cura che vengono adottati con successo in diverse strutture sanitarie; combatte per ottenere un protocollo nazionale di cura domiciliare e per il rafforzamento della sanità territoriale in ogni regione, opponendosi nei tribunali a norme ingiuste che impediscono ai medici di agire secondo scienza e coscienza nella cura dei propri pazienti; aiuta i malati di Covid-19 che si trovano a casa attraverso il supporto gratuito di medici volontari, contribuendo così ad evitare il collasso del servizio sanitario pubblico a causa di un afflusso disordinato nei pronto soccorso degli ospedali.
Stranamente, però, neppure l’esistenza di queste alternative alla cosiddetta “vigile attesa e al ricovero” ha trovato forte eco sui media mainstream sempre concentrati nel promuovere a tamburo battente la logica della vaccinazione di massa e (in modo sempre meno convinto vista l’insidia delle varianti) dell’immunità di gregge (due termini massa e gregge che dovrebbero far riflettere quanti credono nei diritti della persona e nella democrazia).
Assai scarsa è stata anche l’attenzione dei media nel consigliare e promuovere tutte quelle azioni di prevenzione che andassero oltre l’uso della mascherina, il distanziamento sociale, l’evitare luoghi sovraffollati e l’aerare le stanze chiuse.

Vaccini, farmaci, cure domiciliari e attività di prevenzione sono tutte soluzioni valide per affrontare la pandemia; tutte hanno a che fare con la scienza o, meglio con la ricerca scientifica e con un sano atteggiamento scientifico nel descrivere e nell’affrontare i problemi.
La validità di tutte queste soluzioni può essere infatti testata e valutata adottando le procedure standard che si usano comunemente, avendo il giusto tempo a disposizione per giudicare gli effetti immediati, di breve, medio e lungo periodo. 

Ora, se mettiamo tutto insieme ne emerge un quadro assai diverso da quello univoco al quale da 19 mesi siamo quotidianamente sottoposti.
– Innanzitutto (e senza nulla togliere alla serietà della situazione) i decessi si concentrano nella popolazione più fragile già gravata da patologie e in particolare tra gli anziani: rari sono i casi di persone giovani e sane decedute a causa del virus.
– In secondo luogo, il covid-19 può essere affrontato con strumenti farmacologici e non solo con la vaccinazione che tanti timori e polemiche sta creando.
– Terzo, al presentarsi dei sintomi sono possibili cure domiciliari efficaci.
– Infine,
 ogni cittadino ha comunque la possibilità di informarsi meglio e di adottare uno stile di vita più sano, applicando comportamenti responsabili a tutela della propria ed altrui salute.

Sapere che, nel contesto di un approccio che deve essere comunque orientato a grande prudenza, esistono più possibilità per affrontare la pandemia, dovrebbe contribuire a far uscire dalla paura, a riacquistare lucidità intellettuale, a ristrutturare il conflitto tra opposte fazioni ormai accecate dall’odio, a ristabilire un sano confronto tra punti di vista differenti.
Il che non è poco, dovendo affrontare un autunno che – dopo gli eccessi estivi – si preannuncia molto difficile, anche per l’effetto di una rappresentazione mediatica che, temo, continuerà ad essere colpevolmente limitante ed unidirezionale.

Vaccinazione. Lettera aperta a Papa Francesco.

 

Libertà e amore sono intrinsecamente legate. Un’azione di amore è per forza e sempre una libera scelta, se no non è amore. Troviamo questo  insegnamento in tutte le tradizioni spirituali ma, in quella cristiana, è un insegnamento che proviene con forza prorompente da una donna, la Madonna, che all’età di 14 (12?) anni sceglie in piena autonomia e libertà di correre il rischio di essere lapidata pur di seguire  il suo cuore, di seguire quell’amore che le ha fatto dire di si alla richiesta di Dio “vuoi avere un figlio da me?”.
Solo pensare alla forza rivoluzionaria di questa donna di 2000 anni fa, che si ribella a qualsiasi convenzione etica del suo tempo, che agisce fuori da ogni regola comunitaria del tempo e che se ne assume la responsabilità, ancora oggi mi riempie di devozione per LEI.

Maria è forse la figura più rivoluzionaria che sia mai esistita.
In una società patriarcale, in cui le donne non solo non potevano autodeterminarsi se non attraverso la figura paterna, lei, giovanissima, appena sposata, affronta il rischio di essere ripudiata e rimandata al padre  terreno) da cui avrebbe ricevuto il verdetto sulla lapidazione.
Lei sceglie di essere obbediente. A chi? Al Dio Padre?
No sceglie di essere fedele a se stessa e alla voce interiore che dopo una prima titubanza la spinge a dire si. il suo si è poi un si ripetuto tante volte nella sua vita di madre, anche quando non comprende quel figlio che lei, comunque e nonostante tutto, continua a  riconoscere come figlio di Dio anche nel momento tragico della sua morte.
Una donna, una madre, un esempio di amore per tutti uomini e donne.

Perché scrivo questo? Perché il Santo Padre ha detto alcuni giorni fa: “Vaccinarsi è un atto di amore….”
È una frase che mi ha colpito nel profondo perché io, al contrario suo, credo (potrei sbagliare certamente) che non vaccinarsi sia un atto di amore, e lo credo perché c’è una voce interiore forte che mi dice no a una antropologia che nega la forza dell’umano, che affida alla tecnoscienza, per di più in fase sperimentale, le sorti di una pandemia, che dice agli uomini che siamo vittime e che solo fuori c’è la salvezza, fuori da noi, quando noi cristiani dalla Cresima in poi, siamo invitati a testimoniare che la salvezza viene da dentro noi stessi.

Cosa dunque, dovrei, seguire?
la voce che da dentro mi invita a non seguire questa narrazione dell’umano e quindi a oppormi ai dettami etici del mio tempo, oppure la voce del Santo Padre (terreno), che  invita a un’azione da lui valutata come etica?

PRESTO DI MATTINA
L’arco, la spada e la danza

L’arco, la spada e la danza, ovvero come imparare l’arte della ‘vigilanza spirituale’.

«Le vostre frecce non hanno sufficiente portata, osservò il Maestro, perché non arrivano abbastanza lontano spiritualmente. Voi dovete comportarvi come se la meta fosse infinitamente lontana. A noi maestri d’arco è noto e confermato dalle esperienze quotidiane che un buon arciere con un arco di media potenza tira più lontano di un arciere senza spirito col più forte degli archi. Non dipende dunque dall’arco ma dalla ‘presenza dello spirito’, dallo spirito vivo e vigile con cui tirate»
(Eugen Herrigel, Lo zen e il tiro dell’arco, Milano, Adelphi,1999).

Daisetz T. Suzuki nell’introduzione al libro di Herrigel [Qui], spiega che l’arte del tiro con l’arco o della spada sono praticate in Giappone primariamente come un ‘tirocinio della coscienza’. Lo scopo è di portarla sempre più vicino alle realtà ultime, all’essere presenti allo spirito, a ciò che di più profondo ci abita.

È ai “confini dell’io” che se ne intuisce sia l’affermazione che la negazione, dove il pieno si svuota e si riempie ciò che è vuoto; quell’attimo di concentrazione e piena attenzione per cui si è tutto nell’altro fuori di sé e l’altro si raccoglie tutto dentro di noi. È il luogo in cui “l’essere è divenire e il divenire è essere”; al contempo presenza e movimento dell’incontro: «così il tiro con l’arco non viene esercitato soltanto per colpire il bersaglio, la spada non s’impugna per abbattere l’avversario, il danzatore non danza soltanto per eseguire certi movimenti ritmici del corpo, ma anzitutto perché la coscienza si accordi armoniosamente all’inconscio», (ivi, 12). Non sono più due, il danzatore e la sua danza divengono senza più contrapposizioni una realtà sola.

È una condizione si potrebbe dire paradossale quella della “vigilanza spirituale”. Tuttavia è quella presenza di attenzione che porta all’azione, o meglio all’itineranza, per raggiungere la meta del sentire e dell’agire. La stessa che troviamo nell’attenzione di amore capace di tenere distinti e uniti insieme gli opposti. «Questo stato, in cui non si pensa, non ci si propone, non si persegue, non si desidera né si attende più nulla di definito, che non tende verso nessuna particolare direzione ma che per la sua forza indivisa sa di essere capace del possibile come dell’impossibile – questo stato interamente libero da intenzioni, dall’Io, il Maestro lo chiama propriamente “spirituale”. È infatti saturo di vigilanza spirituale e perciò viene anche chiamato “vera presenza dello spirito», (ivi, 53-54).

Si è presenti spiritualmente all’altro attraverso l’esercizio dell’abbandono, il distacco da sé stessi, come la foglia di bambù – dice il testo – sotto il peso della neve. Si piega, si lascia piegare in giù, sempre di più e, ad un tratto il carico di neve scivola via, senza che la foglia si sia mossa.

Con un’altra immagine viene raffigurato il restare dello spirito, il suo esserci presente pur non perdendo la sua originaria mobilità: «Simile all’acqua che riempie uno stagno ma è sempre pronta a defluirne, lo spirito può ogni volta agire con la sua inesauribile forza, perché è libero, e aprirsi a tutto perché è vuoto. Tale condizione è veramente una condizione originaria e il suo emblema, un cerchio vuoto, non è muto per colui che vi sta dentro», (ivi, 54).

Vigilanza spirituale è richiesta anche per il tirocinio alla preghiera. L’arco, la spada e la danza addestrano alla qualità dell’attenzione e da essa dipende la qualità stessa della preghiera. L’attenzione ne è l’essenza; come nel tiro dell’arco al di là dello scopo immediato, l’intenzione di fondo dell’orante dev’essere diretta unicamente ad aumentare la vigilanza spirituale in vista della preghiera che unisce:

«L’attenzione è uno sforzo, forse il più grande degli sforzi, ma uno sforzo negativo. Di per sé non comporta fatica. L’attenzione consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto, nel mantenersi in prossimità del proprio pensiero, ma a un livello inferiore e senza contatto con esso… il pensiero deve essere vuoto, in attesa; non deve cercare nulla ma essere pronto a ricevere nella sua nuda verità l’oggetto che sta per penetrarvi»
(Simone Weil, Attesa di Dio, Milano 1972, 75-76).

Molto più in là si spinge la Weil [Qui] riconoscendo che l’attenzione, non essendo legata alla volontà ma al desiderio, o meglio al “consenso”, non diversamente dalla preghiera è creatrice di realtà unificante le diversità: «L’attenzione, al suo grado più elevato, è la medesima cosa della preghiera, Suppone la fede e l’amore. L’attenzione estrema costituisce nell’uomo la facoltà creatrice», (Id., L’ombra e la grazia, Milano 1996, 124-125).

Addestrarsi alla preghiera non è soltanto apprendere una tecnica, compiendo uno sforzo muscolare della volontà. Non è un mirare all’esterno, ma all’interno di se stessi. È una via per raggiungere la meta; come per il tiro con l’arco «è una questione di vita e di morte, in quanto è lotta dell’arciere con se stesso».

È pure un cammino di avvicinamento, di affidamento alla realtà dell’altro, cercando la sua presenza. Come proteso alla sua parola è il mio silenzio, al modo del tendersi dell’arco; come freccia scoccata verso il bersaglio è la mia parola verso il suo silenzio: un accordo dell’uno all’altra al ritmo di una danza.

Come l’arco e la freccia divengono qualcosa di più che semplici strumenti o armi, così è della preghiera: entrambi divengono un tutt’uno con l’arciere/orante. Prega bene, come un buon tiratore d’arco, colui che raggiunge il centro del bersaglio prima della sua freccia, perché non è la freccia che deve trascinare il cuore, ma questo quella. Così è della preghiera: preceduta sempre d’un passo dal cuore desiderante e amante.

I salmi sono allora come la grande Dottrina del tiro dell’arco, una guida, per arrivare a raggiungere la meta: il risveglio della coscienza umana e cosmica, l’illuminazione per e nell’azione, il senso spirituale che rende uno, l’arciere e il suo bersaglio, l’orante e la sua preghiera. I salmi insegnano l’arte della vigilanza spirituale, il tirocinio della fede per vivere e agire nell’alleanza. Anche qui il Maestro interiore «addestra le mie mani alla battaglia, le mie braccia a tendere l’arco di bronzo» (Sal 18, 35); le sue lodi «sulla nostra bocca e la spada a due tagli nelle nostre mani» (Sal 149 6).

Presso i Padri della chiesa il tendersi dell’arco di bronzo è figura dei due testamenti. Il primo è l’asta dell’arco che si flette all’irrompere del nuovo testamento, che è la corda caricata del senso cristologico: il quale, come freccia che colpisce il bersaglio, rilegge le antiche scritture come profezia del Cristo, loro compimento.

Così pure la spada a doppio taglio è la parola di Dio nella sua oralità e nella scrittura; l’uso della spada a doppio taglio nelle mani ‒ entrambi i testamenti ‒ sono per un tirocinio di liberazione contro gli oppressori, ma anche amoroso apprendistato: il doppio taglio si spiega anche con le voci del doppio coro nel Cantico, e con le due posizioni di una figura danzante mentre si canta: «Coro: Ritorna, Sulamite, ritorna; affacciati, vogliamo contemplarti. Amato: Che cosa ammirerete in lei, danzando a doppio coro?» (Ct 7,1-2; 6).

Tutta l’armonia dell’amore. L’accordarsi della bellezza interiore con quella di fuori, la consonanza del corpo con lo spirito, che si manifesta in esso: «Come sono belli i tuoi piedi nei sandali, figlia di principe! Le curve dei tuoi fianchi sono come monili… Il tuo capo si erge su di te come il Carmelo e la chioma del tuo capo è come porpora; un re è tutto preso dalle tue trecce, il tuo respiro come profumo di miele».

Per l’autore della Lettera agli Ebrei più dell’arco e della spada è la parola di Dio, viva ed efficace, a squarciare il cuore come uno scandaglio gli abissi del suo sentire e pensare: «È più tagliente di qualunque spada a doppio taglio. Penetra a fondo, fino al punto dove si incontrano l’anima e lo spirito, fin là dove si toccano le giunture e le midolla. Conosce e giudica anche i sentimenti e i pensieri del cuore», (Eb 4, 12).

Fin dall’infanzia, uno dei tratti fondamentali di Simone Weil (1909-1943) fu la compassione per gli sventurati. L’esperienza della guerra le fece scoprire la miseria e, nel lavoro condiviso con gli operai, sperimentò la sventura, le mahleur della loro condizione lavorativa. Una disgrazia tuttavia mai disgiunta da una scintilla di luce, di grazia che vedeva in ciascuno degli uomini e delle donne con cui, di volta in volta, condivideva la sorte.

Dalla famiglia agnostica non ricevette alcuna formazione religiosa, ma questo non le impedì di incontrare il vangelo. Nel 1938 assistendo alla celebrazione della Settimana santa nell’abbazia benedettina di Solesmes sperimentò la gioia del vangelo che cambiò la sua vita: «Il Cristo è disceso e mi ha presa».

Se non entrò mai a far parte della chiesa ufficiale con il battesimo, lo fece perché vedeva, profeticamente, nel mistero dell’incarnazione ‒ che lei visse con una dedizione inesausta agli sventurati fino ad esserne consumata – vedeva oltre la chiesa che aveva sotto gli occhi, una chiesa più grande veramente cattolica, universale in umanità capace di abbracciare anche gli esclusi.

Dirà, poi, mirabilmente il Concilio: «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo ha amato con cuore d’uomo» (GS 22).

Fu così anche il movimento del cuore, ne sono convinto, di questa mistica della croce: un abbandonarsi in attesa di Dio: «Spero che questo abbandono, anche se mi inganno, mi condurrà finalmente al buon porto. Quel che io chiamo buon porto, lo sapete, è la croce. Se non potrà essermi concesso di meritare di condividere un giorno la croce di Cristo, spero mi sia data almeno quella del buon ladrone. Fra tutti coloro di cui si parla nel Vangelo, al di fuori di Cristo, il buon ladrone è quello che invidio di più. Essersi trovato al fianco di Cristo, nella sua stessa situazione, durante la crocifissione, mi sembra privilegio molto più invidiabile dell’essergli stato alla destra nella sua gloria» (Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1972, 20).

Per Simone Weil “portare attenzione” non fu semplicemente un vedere e passare oltre, ma accorgersi, “indirizzare il cuore” come suggerisce l’etimologia. Per lei l’attenzione fu creatrice, trasformatrice della realtà, per indirizzarla diversamente, là dove è la meta del cuore, anche di chi tira con l’arco con spirito orante. Il vero bersaglio è il vuoto dell’umano, come centro il pieno della sua dignità.

Attenzione samaritana è l’attenzione creatrice della Weil. Il suo maestro d’arte fu infatti il Buon Samaritano: «L’amore per il prossimo, essendo costituito di attenzione creatrice, è analogo al genio. L’attenzione creatrice consiste nel fare realmente attenzione a ciò che non esiste. Nella carne anonima che giace inerte all’orlo della strada non c’è umanità. Eppure, il Samaritano che si ferma e guarda; fa attenzione a quella umanità assente, e gli atti che seguono confermano che si tratta di un’attenzione reale», (ivi, 115). Non lo è anche quella del poeta un’attenzione creatrice? Attenzione alle parole che ancora non esistono? E poi attenzione di levatrice alle parole nascenti?

Ricordo di aver letto e riportato il suo commento al Padre nostro per un sussidio diocesano, ma solo da poco tempo sono riuscito a leggere come nacque l’incontro della Weil con questa preghiera, vero tirocinio della coscienza credente.

Una pagina commovente e bellissima:

«L’estate scorsa, quando studiavo greco con T., avevo fatto per lui una traduzione letterale del Padre nostro in greco. Ci eravamo ripromessi di studiarlo a memoria. Credo che lui non l’abbia fatto, e neppure io in quel momento. Ma qualche settimana dopo, sfogliando il Vangelo, mi sono detta che poiché me l’ero ripromesso ed era una buona cosa, dovevo farlo. E l’ho fatto. La dolcezza infinita del testo greco mi prese a tal punto che per alcuni giorni non potei fare a meno di recitarlo fra me continuamente. Una settimana dopo cominciò la vendemmia, ed io recitai il Padre nostro in greco ogni giorno prima del lavoro, e spesso lo ripetevo nella vigna.

Da allora mi sono imposta, come unica pratica, di recitarlo ogni mattina con attenzione totale. Se mentre lo recito la mia attenzione si svia o si assopisce, anche solo un poco, ricomincio daccapo sino a quando non arrivo a un’attenzione assolutamente pura. Mi accade talvolta di ripeterlo una seconda volta per puro piacere, ma lo faccio solo se il desiderio mi spinge.

Il potere di questa pratica è straordinario e ogni volta mi sorprende, poiché, sebbene lo esperimenti tutti i giorni, esso supera ogni volta la mia attesa. Talora già le prime parole rapiscono il pensiero dal mio corpo e lo trasportano in un luogo fuori dello spazio, dove non esiste né prospettiva né punto di vista.

Lo spazio si apre. L’infinità dello spazio ordinario della percezione viene sostituita da un’infinità alla seconda e talvolta alla terza potenza. Nello stesso tempo, questa infinità dell’infinità si riempie, in tutte le sue parti, di silenzio, ma di un silenzio che non è assenza di suono, bensì l’oggetto di una sensazione positiva, più positiva di quella di un suono. I rumori se ve ne sono, mi pervengono solo dopo avere attraversato questo silenzio.

Talvolta anche, mentre recito il Padre nostro oppure in altri momenti, Cristo è presente in persona, ma con una presenza infinitamente più reale, più toccante, più chiara, più colma d’amore della prima volta in cui mi ha presa…

Questa preghiera contiene tutte le richieste possibili: non si può concepire una preghiera che non sia già contenuta in questa. “Essa sta alla preghiera come Cristo all’umanità”. È impossibile pronunciarla una sola volta concentrando su ogni parola tutta la propria attenzione senza che un mutamento reale, sia pure infinitesimale, si produca nell’anima», (ivi, 34-35; 194).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Una poesia per le donne del Vietnam
e una poesia per le donne di Kabul

 

Sono passati molti anni da quando la grande Wislawa Szymborska (premio Nobel per la letteratura nel 1996) scrisse una breve poesia dedicata alle donne vietnamite. Secondo la cara amica che mi ha girato la poesia, si potrebbero lasciare intatti i versi e sostituire solamente il titolo della poesia: KABUL al posto di VIETNAM. 
Ho fatto una prova: in nero la poesia originale, e appena sotto, in rosso, la nuova poesia. Provate a leggerle tutte e due, una di seguito all’altra. Io ho dato ragione alla mia amica: funzionano entrambe. Le donne del Vietnam e le donne di Kabul sembrano gemelle, uguali come due gocce di sangue.
Effe Emme

VIETNAM

Donna, come ti chiami? – Non lo so.
Quando sei nata, da dove vieni? – Non lo so.
Perchè ti sei scavata una tana sottoterra? – Non lo so.
Da quando ti nascondi qui? – Non lo so.
Perchè mi hai morso la mano? – Non lo so.
Sai che non ti faremo del male? – Non lo so.
Da che parte stai? – Non lo so.
Ora c’è la guerra, devi scegliere. – Non lo so.
Il tuo villaggio esiste ancora? – Non lo so.
Questi sono i tuoi figli? – Si

di Wislawa Szymborska

KABUL

Donna, come ti chiami? – Non lo so.
Quando sei nata, da dove vieni? – Non lo so.
Perchè ti sei scavata una tana sottoterra? – Non lo so.
Da quando ti nascondi qui? – Non lo so.
Perchè mi hai morso la mano? – Non lo so.
Sai che non ti faremo del male? – Non lo so.
Da che parte stai? – Non lo so.
Ora c’è la guerra, devi scegliere. – Non lo so.
Il tuo villaggio esiste ancora? – Non lo so.
Questi sono i tuoi figli? – Si

(adattamento da una poesia di Wislawa Szymborska) 

IL SANGUE DI KABUL
La missione dei ciechi e il disastro annunciato

 

Vedere Joe Biden su tutti gli schermi del mondo mentire e contraddirsi, cercare di difendersi (senza successo) per il disastro combinato in Afghanistan è stato uno spettacolo pietoso. E istruttivo. Questa volta quella americana non passerà agli annali come una ‘figuraccia’, ma come una totale, rovinosa, colpevole sconfitta. Che riesce a far impallidire perfino la scioccante avventura in Vietnam. Che non riguarda solo il precipitoso quanto improvvido ritiro delle truppe degli ultimi mesi o settimane, ma una dine della storia che era già tutta scritta, dal principio, dalla folle reazione americana al folle attentato alle Torri Gemelle.

Una sconfitta storica, memorabile, che le immagini crude e le drammatiche testimonianze che giungono di ora in ora da Kabul rendono più sempre irrimediabile, talmente incredibile da diventare epica – è di ieri l’ultima immagine che non riesco a levarmi dalla testa: le donne ormai condannate che gettano i loro figli oltre la rete dell’aeroporto per salvarli dal regime dei talebani.
Se è vero che è la quantità di sangue versato l’unico vero metro per misurare la “grandezza” di una sconfitta, allora la tragedia di Kabul può aspirare ai libri di storia.
Il sangue inutile dei soldati (anche i soldati italiani) mandati a fondare in Afghanistan uno “stato democratico”. Sbarcavano dall’aereo le loro bare coperte dalle bandiere, e li chiamavano eroi, mentre erano solo da piangere come vittime. Vittime della ideologia tardo-imperialista e di una strategia fallimentare dettata dai governi e dai comandi militari dell’Occidente.
Ma soprattutto il sangue che sta scorrendo ora a Kabul e in tutto il paese. Un fiume di sangue che continuerà a scorrere. Il terrore di un popolo illuso per anni e oggi lasciato solo. Il terrore davanti alla sicura vendetta talebana (altro che “nuovi talebani moderati”), la corsa inutile verso l’aeroporto, i manifestanti uccisi a fucilate, le donne chiuse in casa aspettando la morte o un sicuro destino di schiave.

La storia è solo questa: abbiamo sbagliato tutto, punto e a capo. Ora tutti l’hanno capito, e tutti (Biden a parte) lo ammettono pubblicamente. Perfino l’Europa, la più fedele alleata, l’eterna gregaria, prende le distanze dal presidente americano. Dice Josep Borrell, l’ Alto rappresentante dell’UE: “Quello che è accaduto in Afghanistan solleva molte questioni sull’impegno occidentale, e su quanto siamo stati in grado di raggiungere. Il primo obiettivo era combattere Al Qaeda. Il presidente Biden ha detto che costruire uno Stato non è mai stato ‘un obiettivo’,  questo è discutibile. Abbiamo fatto molto per costruire uno Stato che potesse garantire lo stato di diritto ed il rispetto delle libertà fondamentali. Siamo riusciti nella prima parte. Abbiamo fallito nella seconda missione. Anche se c’è da chiedersi se fosse una missione”.

Tremenda la chiusa di Borrell: “c’è da chiedersi se fosse una missione”, una immagine plastica del gran caos che deve regnare nella gloriosa alleanza atlantica. Quel che è sicuro – e che nessuno lo dice –  è che le guerre, anche questa guerra, è anche, forse soprattutto,  il frutto delle pressioni delle potentissime  lobbies dei comandi militari e dei produttori e commercianti di armi.
La guerra, la missione, il ritiro precipitoso, il baratro finale – quello a cui oggi stiamo assistendo – mi ha ricordato La Fila dei ciechi, lo straordinario dipinto di Pieter Bruegel. In testa alla fila c’è (sempre lui) il cieco americano, e attaccato a lui il cieco inglese, poi il cieco francese, il cieco italiano… Tutti destinati a seguire il primo della fila, nello stesso buco.

Da quasi un secolo l’America è il ‘paese guida’ di tutto l’Occidente. Lo Sbarco in Normandia e in Sicilia, i soldati americani che regalano cioccolata e sigarette, il Piano Marshall, la Guerra Fredda e il Patto Atlantico, la Nato che ha riempito l’Italia e l’Europa di basi militari e missili atomici. E poi il rosario di guerre e “missioni di pace” (sic!) per sistemare un dittatore (come GheddafiSaddam Hussein, prima grandi amici dell’Occidente, diventati improvvisamente pericolosi terroristi). Guerre per esportare la civiltà o riportare la democrazia in questo o quel paese selvaggio.
In cima c’è sempre l’America. Gli Stati Uniti decidono, comandano, sparano il primo colpo, gli altri –  prima l’Inghilterra, poi la Francia, l’Italia e via tutti gli altri seguono in fila indiana.
Il risultato? Pessimo, invariabilmente disastroso! Guardate oggi l’Iraq, la Libia, l’Afghanistan.
Dopo il fuoco e il furore della guerra, dopo il passaggio dei contingenti alleati, la situazione è ancora più disperata e disperante: peggiore di quando gli Usa & company decisero di intervenire. Il terrorismo non è vinto. E ancora profughi, ancora fame, sangue, violenze sulle donne.

In queste ore c’è un gran viavai di aerei per portare in salvo migliaia di afgani, quelli che avevano collaborato o che erano comunque venuti in contatto con il personale dei contingenti stranieri. Sono loro i soggetti più a rischio, il primo bersaglio della sicura vendetta talebana. Ma nel mirino ci sono TUTTE le donne. C’è un popolo intero. Ed è ovvio, non è possibile mettere in salvo tutto un popolo, aviotrasportare 40 milioni di afgani.

Intanto, in tante città d’Italia, cresce uno spontaneo movimento di protesta e di solidarietà al popolo afgano. Si moltiplicano le iniziative delle donne italiane  per salvare le sorelle afgane, per chiedere a Draghi di organizzare più viaggi, di ampliare il più possibile il numero dei fuggitivi a cui dare accoglienza in Italia.
Possiamo sperare che il governo si smarchi dalle posizioni oltranziste di Matteo Salvini? Possiamo sperare di salvarne 100 o 1.000 in più del previsto? Non sarebbe un risultato di poco conto. Anche solo salvare una vita in più, una donna, un bambino, è un motivo sufficiente per scendere in strada.

Alla fine, rimane comunque la colpa incancellabile – una responsabilità diretta, documentata, incontestabile –  della Nato, degli Stati Uniti e dei suoi alleati, per aver consegnato il popolo afgano alla follia ideologica dei talebani. E’ su questo che mi pare non ci sia da parte del governo e dei partiti italiani (anche del Centrosinistra) nessun ripensamento di fondo.
E proprio questo servirebbe: un’analisi coraggiosa e un uguale coraggio di domandarsi se non sia venuta l’ora di cambiare strada. Di cambiare paradigma. Di mettere finalmente in discussione la nostra adesione alla Nato – in compagnia, tra l’altro, con la Turchia di Erdoğan. Di sloggiare dal territorio nazionale tutte le basi Nato e americane, le testate nucleari, i carri armati. Di riconvertire la nostra industria bellica, smettere progressivamente di produrre e vendere armi a tutto il mondo.

Capisco il sorriso di qualche smaliziato lettore. “Fuori dalla Nato” è sempre stato uno slogan extraparlamentare e comunista, E la campagna contro le spese militari continuano a farla gruppetti di pacifisti incalliti e di reduci nonviolenti. Tutto vero, questi obbiettivi non hanno mai attecchito nei sindacati e nei grandi partiti, non hanno mai varcato la porta delle aule del parlamentari. Ma sono queste ‘utopie estremiste’ che oggi indicano un’altra via da imboccare. E’ da qui che dobbiamo necessariamente ripartire. Se non vogliamo ritrovarci incastrati in un’ennesima guerra, diventare complici di un altro fiume di sangue innocente.
Oppure resteremo sempre come siamo in queste ore, a guardare le immagini che passano veloci sul video, accesi da una rabbia impotente o sorpresi da una inutile lacrima.

In copertina:  Pieter Bruegel il Vecchio, Parabola dei ciechi, 1568, Galleria Farnese (su licenza Creative Commons)

Il rave degli idioti e la maschera della morte rossa

 

Desolante, l’immagine di quell’affollamento delirante di camper, tende, bivacchi tra cui si spostano come formiche migliaia di persone; una scena farneticante iniziata il 13 agosto e appena conclusa, che non ha conservato nulla della dimensione umana richiesta da un momento impegnativo come quello che viviamo.
Una musica martellante, senza soluzione di continuità, che esprime perfettamente il clima congestionato e ossessivo, il bisogno di rimuovere, abbandonare inibizioni e regole,  che accompagna il rave party illegale di Viterbo, a cui è accorsa anche gente dal resto d’Europa. Una spianata di mezzi e persone ha occupato terreni agricoli e pascoli in cui si scorge ancora qualche trattore e qualche bovino spaesato nelle immediate vicinanze, spettatori di un evento tanto inatteso quanto impattante.

Dove sta il divertimento? Nella pericolosa promiscuità durante una pandemia con tutto ciò che ne consegue? Nell’assistere al recupero del cadavere di un 25enne ripescato nel lago? Nel vedere i tuoi compagni portati via per overdose o coma etilico? Nella tristezza di un parto in pieno rave, seppure evento di per sé emozionante? Nel ballare convulsamente come tarantolati senza il piacere del ritmo e della musicalità? Non c’è bisogno di stigmatizzazioni moralistiche per capire come in tutto ciò manchi un senso, una consapevolezza nuova e più profonda del valore dell’esistenza in un periodo gramo per tutti.

Viene in mente il racconto di Edgar Allan PoeLa maschera della morte rossa” (1842), in cui il principe Prospero decide di asserragliarsi nel suo palazzo con un migliaio di amici e cortigiani, cavalieri e dame, durante una terribile pestilenza, sbarrando porte e finestre. Trascorrono le giornate tra danze, spettacoli di giullari e ogni sorta di bagordi, “che il mondo esterno pensasse a se stesso: nel frattempo era follia addolorarsi o pensare.”
Dopo un periodo di totale spensieratezza, arriva l’invito ad un grande ballo in maschera, organizzato in sette sale di una raffinatezza mai vista, ciascuna di colore diverso. […]
“Le maschere erano grottesche, sfavillanti, luccicanti, piccanti e fantastiche, capricciose, bizzarre, alcune terribili e non poche avrebbero potuto suscitare disgusto”.[…] La festa aveva raggiunto l’apice della sua magnificenza, gaiezza e frenesia quando a mezzanotte, ai primi rintocchi, la musica cessò, le danze si interruppero e tutto si fermò, lasciando intravvedere una presenza inquietante: “ La figura era alta e scarna, avvolta da capo a piedi nei vestimenti della tomba. Le sue vesti erano intrise di sangue e la sua vasta fronte e tutti i lineamenti della sua faccia erano spruzzati dell’orrore scarlatto.”
I presenti ben presto si accorsero che dentro gli indumenti non esisteva alcuna forma corporea tangibile e riconobbero la presenza della morte, arrivata come un ladro nella notte a cancellare i festanti e ogni traccia di gozzoviglia. Si sta ancora suonando e ballando al rave party, le forze dell’ordine stanno lavorando allo smantellamento e all’evacuazione mentre arrivano ancora in molti, tentando di eludere i controlli e sfondando i blocchi. Il richiamo del “ballo in maschera” è forte, il bisogno di evasione è tanto e non esiste nessuna pendola che scandisca la mezzanotte e arresti tutto. Non esistono nemmeno i fasti di palazzo.
Ma Edgar Allan  Poe riscriverebbe la stessa conclusione…

DIARIO IN PUBBLICO
Il Calore

 

Mentre Lucifero impazza e produce laghi di umori salini, che rendono totalmente bagnate e degne di essere frequentemente cambiate canottiere e mutande; mentre asserragliato in casa produco falso benessere posizionando in dry il condizionatore, compulsivamente cerco contatti con chi, sprezzante del pericolo e dell’età, affronta spiagge e viaggi, confortandomi secondo la mia mai perduta malignità nel ‘frescolino’ che da Lipari a Viareggio, da Roma alla Puglia prova nella loro posizione privilegiata.

Per assicurarsi della veritad si spediscono foto di termometri che attestano il fresco. Addirittura, i felici liparoti narrano di bagni favolosi, di freschi anfratti, dove ripararsi dalle fiamme metaforiche e reali che Lucifero provoca nella sfortunata Sicilia; ma poi devo ricorrere alla connivente attestazione di verità di altri amici ferraresi-liparoti, che narrano di pozze di sudore che si formano ai piedi degli astanti, secondo la prassi da me stesso attuata decenni fa, quando, felice villeggiante, provai la stessa sensazione e condizione.

 

Così per mio diletto e in attesa delle novità che mi vengono recapitate ad horas dai parenti spiaggianti, chiuso nel mio fresco fortino adorno di meravigliose piante appena comprate con il mio straordinario scudiero-giardiniere, e sono gelsomini, fiori di vetro e begoniacee, tra un tripudio di oleandri e plumbago, (vedi foto al sinistra del testo) irrido alla mancanza totale di conoscenza di simili delizie dell’amica Anna che però spende fortune in Versilia per procurarsi apparecchi magici che la immunizzano dalle zanzare, mentre felice si dedica a Bassani e alla cottura di strepitose grigliate nel suo giardino viareggino.

E comincio con la declinazione del calore nelle lingue più conosciute: the Heat in inglese, la Chaleur in francese, die Hitze in tedesco, o Calor in portoghese, el Calor in spagnolo e addirittura Teas in irlandese.

Questa mattina, fidandomi dei sussurri che circolavano di casa in casa e che ci promettevano il ‘frescolino’, ci facciamo accompagnare al bar del bagno Onda blu in attesa del passaggio dei parenti che s’avventurano a percorrere le centinaia di metri che li separano da tende e ombrelloni. Nell’aria si spande odore di carne cotta prodotta dai valorosi giocatori, che tornano dalle loro esibizioni, mentre pettorute dame color cioccolata s’avanzano caracollando, cosparse di filtri e creme e gorgheggiando del freschino in riva al mar.

Sono le 13:00 e il termometro segna ‘percepiti’ 36°’. L’intrepido nipote, sprezzante di Lucifero, porta i figli ad una rapida gita fiorentina: non può entrare né in chiese o musei per le mostruose file prodotte dai gitanti. Gli resta la consolazione di mangiare una fiorentina gigante in un locale in Contrada della Passera. Un nome. Un programma. Temperatura percepita 35°.

Dal viale del Laido si scatena una musica assordante, mentre ieri sera metà del paese era privo di luce ed acqua. Termino la mia giornata ‘calda’ (mi raccomando la ‘elle’ palatale secondo le secolari regole della nostra pronuncia), pensando con nostalgia ai prati di Vipiteno, mentre atterra reduce di una gita a Dublino presso l’amato cugino, il caro Ludo che mi butta lì la frecciata finale: “di sera eravamo sui 12° nell’ora più calda 20°” e mi nasce una ribellione al calore.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Parole a capo
Carla Sautto Malfatto: “Il muro” e altre poesie

“In cuore abbiamo tutti un Cavaliere pieno di coraggio, pronto a rimettersi sempre in viaggio, e uno scudiero sonnolento, che ha paura dei mulini a vento.”
(Gianni Rodari)

Nel 2017 Carla Sautto fu investita da un’auto mentre attraversava a piedi le strisce pedonali: dopo due interventi chirurgici, ha ricominciato a camminare, ma con limitazioni permanenti. Dedica queste poesie alle vittime della strada, a chi non si arrende, a chi converte rabbia e dolore per comprendere e imparare, a chi si prende cura con amore delle persone sofferenti, a chi guida.

IL MURO

Non l’accetto. Non mi arrendo.
È la mia forza e la mia debolezza.

Un ariete contro un muro
incapace d’accontentarsi
dell’erba smunta su questo fronte.

Talvolta però la pietra schianta
e svela il miracolo,
l’impossibile.

Di più, è farsi bastare d’aver tentato
con le corna e l’orgoglio scheggiati
a sfrigolare nello stomaco.

Ma non potrei fare in altro modo:
pochi i soli lanciati da questa parte,
e nacqui ariete
né pecora
né farfalla.

IO, TU, IL MARE

C’è un’onda che mi chiama.
Se tu credi che oda solo il suo rollio, ti sbagli.
Ci ho pensato bene
sulla panchina, di fronte
a una landa di sabbia ostile che ci separa.
Tu, come un potente baio
tiri quattro ruote di un aratro;
io, salda, trattengo il vomere,
accompagno l’incedere.
Il cercatore di metalli
ci guarda come la più strana cosa
rinvenuta oggi, tra le dune.
Dai miei piccoli solchi già germoglia
l’ostinazione,
scricchiola l’odore aspro
della decomposizione a chiazze
tra conchiglie e alghe spezzate.
Eccomi. Naufraga del male. Seduta
sul deambulatore ad un passo
dal tuo passo bagnato.
Non ti sentivo bene da laggiù.
Ora parla: ti ascolto.
Non siamo mai stati così simili,
anche tu, rinchiuso tra cielo e terra
con tutta la tua rabbia
con tutta la tua potenza
ritenerti d’essere qualcosa di più,
in fondo,
di un sommovimento di liquidi e carne.
Calmati. Parla in moto lento.
Facciamo finta che siamo soli, io e te,
mentre lui ci guarda.

(poesia premiata)

PRIMI PASSI NELLA MIA GOLENA

Sul muschio di tappeto giovane
affondo il passo, le stampelle.
Il dolore è la lancetta del mio incedere.
Come un automa, un burattino,
un bradipo: questo ora sono
tra ghiande e noci marce.
Sono venuta qui
per questo campo zuppo e silente,
tra ciuffi d’erba ardui come montagne,
miseri avvallamenti come baratri.
Un’eternità per toccare la recinzione
a ciglio della riva.
Nemmeno il fiume mi viene incontro,
ma svolge l’ansa, tuffa salici,
trattiene l’onda e il fiato.

PROFUMO DI MEDICO

Esco, con il profumo dell’ultimo medico
addosso
persistente a risalire le narici
al cervello e friggervi la sentenza.
Oggi lasciami toccare il fondo
e crogiolarmi un po’ di lacrime,
qualche sano urlo di autocommiserazione
il proposito di far male a qualcuno
una lista schiantata di improperi.
È una farsa anche questa
come assistermi sul palco di questo viale
grumoso e spaccato dopo l’ultima pioggia,
la tragedia che non si può fuggire
io, mattatore,
il mio nome cubitale sui manifesti.
Uno o due giorni, non di più, me li posso concedere;
gli altri, con il conforto facile, mi stiano all’orizzonte.
Per dovermene vergognare – si fa per dire –
ripassa domani.

ORA SAI

Poi ti accorgi di chi ti sta accanto,
quando non hai più nulla da dare
se non un corpo che sforma il letto
e occhi in cerca di consolazione.
Non bussano più alla tua porta.
Come segugi fiutarono il vento marcio.
Ben nascosti per non essere scovati,
hanno scuse pronte sui taccuini.
Te ne accorgi perché nello sfacelo
sai a quale sola mano aggrapparti,
dove volgere la bocca e il pensiero
a quale schiena addossare la tua soma.
Te ne accorgi e sono loro a fare cernita,
a dividersi con un taglio netto,
posizionarsi su sponde opposte,

nonostante le parole e gli orpelli
ora sai di che metallo hanno i denti
e il cuore.

© Carla Sautto Malfatto – tutti i diritti riservati

Carla Sautto Malfatto (Ferrara, 1954) ha ottenuto oltre centosettanta premi per la poesia, la narrativa, la pittura e la grafica in concorsi nazionali e internazionali, tra cui la Targa d’Argento della Presidenza della Camera dei Deputati, la Medaglia del Senato, il Premio Consiglio dei Ministri, il Premio Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Medaglia del Pontefice Francesco I, il Premio Unesco, Premi alla Cultura, della Critica, della Giuria; il Premio Terme di Salsomaggiore per la pittura 2002. Ha pubblicato Farfalle e Scorpioni (racconti) e Troppe nebbie (poesie), entrambi pluripremiati. Collabora a riviste di cultura; è membro di giuria in concorsi letterari e lo è stata in concorsi artistici; i suoi testi di poesia e narrativa sono pubblicati in prestigiose antologie; le sue opere d’arte fanno parte di raccolte pubbliche e private. Per molti anni ha compiuto volontariato fornendo materiale e insegnamento artistico in scuole, pediatria oncologica, corsi per disabili psichici.

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
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