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Oltre la porta chiusa
…un racconto

Oltre la porta chiusa
Un racconto di Carlo Tassi

Attraente mostruosità il desiderio e la paura di sapere.
Oltre la porta chiusa, una luce sconosciuta o soltanto il buio.
Il buio che ci segue, che ci accompagna, che ci aspetta. Eternamente presente eppure inaccessibile.
Del resto cos’è mai la luce se non una piacevole menzogna?
Una bugia data in pasto agli occhi, interpreti speranzosi di messaggi illusori… i colori.
Vibrazioni elettromagnetiche. Particelle invisibili. Energia in eterna ebollizione.
Sotto la pelle, dentro i nostri sogni, negli spazi infinitamente piccoli e negli sconfinati spazi aperti.

Non c’è mai stata ragione di vedere l’incomprensibile quando lo si può immaginare.
Forse l’unico rifugio è la follia… la sola, vera arma della mente.

Ho varcato la porta.
Sono ore che cammino nel buio. Davanti a me il fascio della torcia rivela un percorso ad ostacoli tra ammassi di rottami e rifiuti maleodoranti. È necessario avanzare con cautela. Il silenzio è rotto dall’eco dei miei passi e da un costante rumore di gocce che cadono un po’ dappertutto.
È bastato un attimo di distrazione e quasi cado inciampando contro qualcosa. Punto la torcia in basso e vedo un mucchio di stracci sudici: è un uomo!
È rannicchiato lungo la parete del tunnel, con le spalle e la testa coperte da un cartone, e pare stia dormendo. L’urto del mio piede lo sveglia e con uno scatto si leva a sedere appoggiando la schiena al muro.
È a questo punto che la luce della mia torcia gli illumina il volto, o meglio, quel poco che ne rimane…
Lo vedo e non posso far altro che distogliere subito lo sguardo. È orribile!
Un indicibile terrore comincia a impossessarsi di tutti i miei sensi. Avevo già provato qualcosa di simile in passato, ma stavolta è più intenso, straziante. Per poter restare lucido devo attingere agli ultimi barlumi di ragione che ancora conservo, solo così posso impedirmi di fuggire in preda alla pazzia.
Il volto, dal mento in su, è ridotto ad uno squarcio dal quale si distinguono chiaramente rimasugli di cervello, brandelli di pelle e ossa frantumate. Occhi, naso e bocca sono spariti. Sul mento vedo, in un groviglio sfilacciato di carne e nervi sanguinolenti, la lingua e, attorno ad essa, i pochi denti rimasti della mandibola.
Ai lati di questo scempio restano un paio d’orecchi penzolanti e qualche ciuffo di capelli intriso di sangue raggrumato a testimoniare che un tempo questa era stata la faccia di un uomo.
Quest’uomo che non riesco a guardare s’inginocchia e m’afferra un braccio con entrambe le mani, come per implorare. D’istinto tento di liberarmi. Poi sento un suono angosciante provenire dalla sua gola e vedo chiaramente la lingua vibrare in quell’assurda cornice di carne straziata. Questo poveretto senza più la faccia cerca di parlarmi e, nel farlo, posso avvertirne lo sforzo indicibile e doloroso.
Ma la visione grottesca del suo volto maciullato, se pure orribile, è nulla paragonata al suono gorgogliante e metallico delle corde vocali immerse nel sangue.
Eppure, il terrore che mi ha sconvolto fin da subito si trasforma in pietà. E di fronte a tanto dolore mi pervade un senso di vuoto assoluto, disumano, che mi fa sentire impotente, del tutto inadeguato, incapace di reagire.

Avevo fatto il mio primo incontro, oltre la porta chiusa.

Adagio in Sol minore (Remo Giazotto, 1958)

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L’ALTRO VOLTO DELLA GUERRA:
lettera di un italiano dall’Ucraina dimenticata

Europe for Peace

(Foto di Elaborazione Europe for Peace)

Abbiamo ricevuto come Europa per la Pace questa lettera da un italiano che vive in Ucraina e volentieri la pubblichiamo. E’ ricca di dettagli e informazioni sulla vita quotidiana nelle zone non colpite direttamente dalla guerra ed emergono realtà sconcertanti. L’autore ha chiesto di rimanere anonimo perché teme per la sua vita.

L’operazione speciale russa in terra Ucraina ha un sapore diverso in questa zona produttiva nel centro del paese. I contadini delle vastissime aree produttive centrali dell’Ucraina, così come i lavoratori delle imponenti nuove costruzioni nei sobborghi della città di Vinnytsia, vedono la guerra da lontano, quasi non li toccasse, sui siti internet o in TV sull’unico canale governativo ammesso dal governo Zelensky.

Dall’inizio dell’invasione russa sul territorio ucraino, il 24 Febbraio scorso, coloro che vivono e lavorano a ovest dell’importante fiume Dnipro, sono stati solo sfiorati dalle armi della guerra in corso. Dai missili sovietici sono stati colpiti esclusivamente basi militari, siti per l’energia, raffinerie, aeroporti usati dai militari, e caserme dedicate a soldati non solo ucraini. Non si sono viste le distruzioni tragiche di Kharkiv, Luhansk e Mariupol. Quasi fosse un altro paese.

Sarà anche per questo motivo che moltissime famiglie si sono riversate in questa zona, venendo dal sud, dall’est e da Kiev. Alcune hanno preso in affitto qualunque abitazione disponibile in questa vasta area, fosse anche una casa semi distrutta in un paesino sperduto sulla mappa dei campi di grano ucraini. Non tutti coloro che sfuggono dalla guerra vanno oltre confine, in Europa. Sono centinaia di migliaia quelli che hanno scelto la parte centrale del paese quale rifugio sicuro.

Non sapevano però queste famiglie che, mentre i loro connazionali fuggiti in Europa avrebbero trovato aiuti e sostegno morale sincero, la loro sorte era di poco o nessun interesse né agli amici europei, ma anche meno al proprio governo di Kiev.

Di fatto, le famiglie nelle zone rurali a ovest del fiume Dnipro sono state dimenticate da tutti.

Ne fanno spesa e soffrono soprattutto anziani, giovani e malati.

Mentre gas, acqua, elettricità (ed internet) non mancano se non sporadicamente, tutto il resto è quasi impossibile da trovare. Nelle grandi città i generi alimentari scarseggiano, pur non mancando. Ma nelle piccole città, nei paesini e nelle frazioni contadine di questa vasta area manca praticamente tutto. Non fosse per la presenza di contadini e della loro produzione (limitata) di alcuni beni alimentari, alcune zone dell’Ucraina centrale sarebbero rimaste senza cibo. Molti negozi hanno chiuso già un mese fa. Altri restano aperti solo per mezza giornata o per dare sostegno morale agli anziani che vengono quotidianamente a chiedere aiuto.

Aiuti dal governo, zero.

A tutto ciò si aggiunge l’assenza di carburanti ad uso civile. In alcune zone manca completamente, impedendo così l’uso dei trattori, e danni immensi ai piccoli contadini e produttori di grano. In piccole città quali Teplik, Haisyn, Shepetivka e altre, il carburante viene razionato e alle pompe di benzina la fila di auto in attesa inizia al cantar del gallo, e anche prima. Quasi tutte le pompe di benzina di questa area chiudono alle 12 per mancanza di prodotto, ed alcune, specialmente quelle in piccoli paesini, aprono tre volte a settimana. I mezzi pubblici sono limitati a pochi bus al giorno. In piccoli paesini che erano collegati prima della guerra, ora sono del tutto isolati. Molte strade sono impercorribili per l’assenza totale di manutenzione.

Aiuti dal governo, zero.

La sanità è allo stremo. Le farmacie, pur aperte, non hanno molto da offrire. Molte hanno scaffali vuoti, specialmente per prodotti dedicati alla maternità o per gli anziani. Gli ospedali sono allo stremo, e molti hanno chiuso interi reparti per mancanza di medicine e personale competente (senza carburante molti non possono prendere i mezzi di trasporto a lavoro). Le future mamme non sanno dove andare a partorire, poiché molti ospedali hanno delegato tutto ad un unico edificio in Vinnytsia. In caso di emergenze, non ci sono speranze per chi si trova lontano dalla città principale in zona. Alle madri partorienti il consiglio è di prepararsi ad un parto in casa fai da te.

Aiuti dal governo, zero.

Non stupisce quindi che in questa zona molto vasta e rurale, la maggioranza dei cittadini è fortemente contraria alle scelte politiche del governo ucraino. Quasi la totalità delle persone che parlano a porte chiuse ed in privato di quanto sta accadendo incolpa le scelte del presidente Zelensky ed il suo governo filoamericano per non aver evitato la guerra e negoziato con Putin prima della escalation militare. Potrei affermare che tutti sanno o comprendono che questo conflitto è in atto per colpa di scelte politiche fatte oltre oceano e dalla NATO.

Soprattutto fra famiglie che sono fuggite dall’est del paese, e che hanno perso tutto, esiste un astio fortissimo nei confronti di Zelensky e della NATO. Talvolta, ma sempre più spesso, sembra quasi siano filorusse, pur non essendo tali.

Per la mancanza di carburanti e per problemi di materie prime, per tante famiglie non c’è lavoro. Molti uffici sono chiusi. Impossibile trovare notai e avvocati. Le fabbriche hanno chiuso. Se, quindi, per i contadini il problema del cibo viene risolto con gli animali a disposizione, per le famiglie delle piccole città e villaggi rurali la fame è alle porte. Si avvicina la fine dei generi alimentari ogni settimana che passa.

Aiuti dal governo, zero.

I ragazzi in età scolastica sono a casa da fine Febbraio. Le scuole sono chiuse. Sono le famiglie a prendersi il carico dei figli che restano tutto il giorno in casa. Se è vero che esistono corsi online organizzati da molte scuole, è altresì vero che la maggioranza delle famiglie non ha un collegamento internet adatto. È noto che classi di 20 studenti a scuola vengono ora organizzate su piattaforme internet dove però si collegano in appena 5. Gli altri assenti per vari motivi, fra cui l’impossibilità tecnica al collegamento, dovranno vedersela con il futuro.

La presenza dei giovani a casa obbliga alcune famiglie a dedicare loro il tempo che potrebbero dedicare al lavoro saltuario.

Aiuti dal governo, zero.

Quando i militari hanno chiesto di precettare tutti gli uomini di età superiore ai 18 anni, la maggioranza delle famiglie, soprattutto rurali, si è ribellata. A metà marzo i militari sono entrati in forze nelle case per il precetto. Ci sono state anche lotte e qualche ferito. Si è saputo anche di alcuni morti. Molti uomini non intendevano andare a lottare per una guerra che veniva loro imposta su basi errate.

In alcuni paesini, gli uomini e ragazzi giovani, avvisati dell’arrivo dei militari che precettavano, sono fuggiti nei boschi per qualche giorno. I contadini si sono rifiutati lasciare le loro terre ed hanno risolto proponendo una specie di guardia locale notturna, respingendo così le richieste di precettazione.

Altri paesini non sono stati così fortunati. Alcuni paesini a nord hanno subito la visita di paramilitari che non hanno sentito scuse e con la forza hanno portato via i figli maggiorenni, non senza molestie e violenza inaccettabile.

Siccome poi questo paese stupendo è vittima di una corruzione endemica quasi indistruttibile (però è pronta ad entrare nella UE), spesso le famiglie hanno trovato chi, sotto ricompensa in denaro, ha tralasciato l’obbligo di precettazione militare in ufficio.

In molti maledicono per la morte del figlio o marito ad est o a nord, il governo ucraino. Quando in TV appare il presidente, parole che qui non si possono trascrivere vengono a lui indirizzate. C’è da essere anche pragmatici: la morte del marito o figlio per una famiglia vuol dire la fine di un introito finanziario in famiglia.

Aiuti dal governo, zero.

Vi sono poi racconti che destano ilarità. Come, per esempio, quello degli uomini precettati nei pressi di Haisyn, alcuni anche volontari, e trasportati di notte nelle caserme locali. Dopo una buona dormita in caserma, la metà è stata spedita a casa perché mancavano fucili e armi a sufficienza. L’altra metà è rimasta per istruzioni e allenamento. Di quest’ultima, pochissimi hanno resistito al test, mentre la maggioranza è rientrata in serata a casa perché “inutile allo scopo militare”. Si dice che avessero bevuto la vodka locale più del dovuto.

Ma ci sono racconti strazianti per quanto concerne gli anziani. C’è un numero sempre crescente di anziani deceduti in casa perché privi di assistenza sociale e medica in questo periodo. Sono spenti i numeri di assistenza e soccorso in questa zona. Risulta quasi impossibile chiamare una autoambulanza in zone fuori città (sempre per la mancanza di carburanti e personale). Vi sono casi crescenti di anziani affamati che stanziano davanti alle proprie abitazioni chiedendo aiuto o cibo.

Aiuti dal governo, zero.

Quindi, anche se la guerra in corso sembra un lontano avvenimento visto sui media, la popolazione ucraina ad ovest del fiume Dnipro ne soffre le conseguenze e molte famiglie sono in sofferenza, in fame e povertà. Molti paesini, molti contadini, tante famiglie, sono allo stremo.

E mentre uno si aspetterebbe che i miliardi di dollari americani o i miliardi di euro stanziati dalla UE, servissero anche alle famiglie che di fatto vivono ancora in Ucraina, la realtà è che di questi soldi, queste famiglie, questi lavoratori, questi contadini, queste farmacie, queste scuole, questi ospedali, ne hanno visto i numeri in televisione.

Aiuti dal governo, zero.

La beffa in tutto ciò è che il governo ed i militari, chiedono incessantemente aiuti finanziari a tutti ed in tutti i modi, anche violenti. Sulle bollette del gas ed elettricità. Quando si paga il gestore internet online. Quando si fa un prelievo bancomat. Quando ci si collega ad internet. E, purtroppo, passando di casa in casa di messi della caserma locale, che spesso poi segnalano all’ufficio locale chi ha donato fondi per i militari e chi non lo ha fatto. Il resto è noto.

Il governo di Kiev non ha aiutato affatto gli abitanti rimasti in Ucraina. Non ha alzato un dito in loro aiuto, nonostante le presunte dotazioni economiche dei paesi alleati.

Quanto sopra, se non altro, dimostra quanta ipocrisia vi sia non solo in Europa, ma anche in questo paese martoriato e mal governato, non in nome di una pace e di una politica estera atta alla pace, ma in nome di forze politiche, economiche e militari estere (per nominarne due, gli Stati Uniti d’America e la NATO).

Questa cronaca è stata fatta da chi si trova in questi luoghi, vivendo di persona avvenimenti e fatti, e verificando quanto raccontato a mezzo collegamenti personali e conoscenze in uffici menzionati.

Europe for Peace
L’idea di realizzare questa campagna è nata a Lisbona nel Forum umanista del novembre 2006, durante i lavori di un tavolo sul tema della pace. Partecipavano diverse organizzazioni e le differenti opinioni convergevano con molta chiarezza su un punto: la violenza nel mondo, la ripresa del riarmo nucleare, il pericolo di una carastrofe atomica e quindi la necessità di cambiare con urgenza la direzione degli avvenimenti. Ci risuonavano nella mente le parole di Gandhi, di M. L. King e di Silo sulla importanza della fede nella vita e della grande forza che è la non-violenza. Ci siamo ispirati a questi esempi. La dichiarazione è stata presentata ufficialmente a Praga il 22 febbraio 2007 durante una conferenza organizzata dal Movimento Umanista. La dichiarazione è il frutto del lavoro di piu’ persone e organizzazioni e cerca di sintetizzare le opinioni comuni e concentrarsi sul tema degli armamenti nucleari. Questa campagna è aperta a tutti e tutti possono dare il proprio contributo per svilupparla.

In copertina: foto di elaborazione Europe for Peace.

Poesie-canzoni contro la guerra

 

Le canzoni attraversano le nostre vite. Tutte. Che siano poesie cantate o musiche che accompagnano qualche bel verso, resta argomento di conversazione, tema irrisolto, ma forse irrilevante. Molto spesso le ascoltiamo senza prestare troppa attenzione al testo che sta abbracciato alla musica. Le usiamo come sottofondo alle attività più disparate, le canticchiamo sotto la doccia, le associamo a momenti particolari delle nostre vite, ritrovandoci come tanti Marcel ad inzuppare emozioni al semplice dispiegarsi di qualche nota o verso.

Chiunque sappia strimpellare una chitarra ha sicuramente provato a comporre una canzone, così come quasi tutti – le eccezioni esistono in ogni ambito – hanno prima o poi affidato a qualche verso “poetico” il bisogno di esprimere sensazioni, riflessioni, impressioni.

“ poi se la gente sa
E la gente lo sa che sai suonare
Suonare ti tocca
Per tutta la vita
E ti piace lasciarti ascoltare”.

Versi indimenticabili del Suonatore Jones, alias De Andrè, da cui vorrei partire per parlare di canzoni. Un pretesto per affrontare, con leggerezza, ma anche la necessaria profondità, tutto ciò che ci accade attorno, che forse diventerà storia, ma che sicuramente è la vita che ci scorre accanto e che ci propone in continuazione argomenti su cui riflettere, meditare, discutere.

Partire da una canzone per arrivare chissà dove, anche a me stesso. Prendetelo come programma di una rubrica aperiodica e anarchica. Almeno questa è l’intenzione. Se non sarò all’altezza, certamente non sarà colpa delle canzoni.

Per iniziare ho pensato a Leonard Cohen, prima poeta e poi cantante-autore. C’è la difficoltà della lingua: le traduzioni sono sempre qualcos’altro. Ma possiamo provare ad avvicinarci, con l’umiltà dei dilettanti e la passione degli amanti.

Il brano che ho scelto per parlare di guerra, è “Anthem”, che possiamo tradurre con “Inno”.

La parola però è imparentata con antiphon (antifona) e questo la riporta al suo alveo originale di composizione musicale vocale usata per accompagnare testi di natura religiosa. Aggiungiamo che l’album The Future a cui appartiene, è l’ultimo pubblicato dal nostro nel 1992, prima di un lungo ed importante ritiro dalla scena musicale.
Cohen infatti di lì a poco salì in montagna per ritirarsi in un monastero buddista, nei pressi di Los Angeles. Come raccontò “Roshi, il suo maestro zen, l’aveva cambiato: «Cucinavo per lui, ero il suo attendente. Lui non parla bene inglese, la conversazione era elementare, nessuna grande idea, nessun concetto complesso. Gli portavo la cena, lui diceva: “Questo ristorante buono”. Sono suo amico da trent’anni, nel 1993 pensai che fosse il momento di passare un po’ di tempo con lui. Sono andato nel suo monastero…” (Piero Negri,  da La Stampa del 12 novembre 2016).
Per inciso, quando ritornò alla musica e allo show-business, nei primi anni duemila, scoprì che la sua agente e per un certo periodo anche compagna, mentre lui se ne stava a meditare, lo aveva messo quasi sul lastrico, sottraendogli indebitamente parecchi soldi.

Parlare di guerra è imbarazzante, lontano dal fronte e dalla sua carneficina. Ho a suo tempo fatto obiezione di coscienza, ma l’ho fatta forse come tanti, senza dover veramente mettere alla prova la forza e la profondità della mia decisione. Ricordo che quando, poco più che diciottenne, presentai la domanda e fui chiamato in caserma per il colloquio di rito con i carabinieri che dovevano presentare la loro relazione ‘conoscitiva’ sulla mia persona e quindi sull’attendibilità della mia richiesta, ero parecchio teso. Sicuramente si trattava del primo caso per l’Arma nel mio paese, Comacchio.  In sala di attesa, ad aumentare la mia ansia per quel colloquio, mi ritrovai con un signore, probabilmente un habituè della caserma, che si lamentava perché era stato convocato per l’ennesimo controllo.

In testa mi frullavano i consigli che gli amici e alla Loc di Bologna mi avevano dato in quei mesi. “Se ti chiedono come ti comporteresti di fronte a malviventi che stanno malmenando un tuo familiare, devi rispondere che ci parleresti, ma mai useresti armi per difenderli!”.
Non ero molto convinto di quella risposta, un po’ stereotipata, ma, mi era stato detto “non puoi metterti a discutere con i Carabinieri. Alla fine conta solo quello che dici e non puoi contraddirti!”.  Il colloquio fu però molto meno pregante e il carabiniere con cui parlai si limitò a chiedermi conferma delle cose scritte nella domanda di obiezione, ripetendomi che era fatica sprecata, sicuramente mi sbagliavo, non esisteva una legge come quella da me invocata: “Vedrai che farai il militare! Non c’è niente di male.”, mi disse bonariamente.

Ho ripensato anche a queste cose davanti alla tragedia della guerra in Ucraina. Così come alla tremenda confusione che mi aveva accompagnato quasi vent’anni dopo, davanti alla carneficina nella ex-Jugoslavia. Ho ripensato alle parole di Alex Langer in occasione dei bombardamenti della Nato e mi sono ricordato di quando poco prima della sua decisione di togliersi la vita, l’ho intervistato, alla Sala Estense, ai margini di un incontro pubblico su questi temi. Alex era visibilmente stanco e provato dal suo incessante viaggiare da una parte all’altra dell’Europa, instancabile tessitore di ponti tra le persone.
Forse abbiamo dimenticato il suo attualissimo j’accuse del 1995: “L’Europa muore o rinasce a Sarajevo”, quando si recò a Cannes a manifestare davanti ai Capi di stato e di governo, per la Bosnia Herzegovina. “Basta con la neutralità tra aggrediti ed aggressori, apriamo le porte dell’Unione europea alla Bosnia, bisogna arrivare ad un punto di svolta!”.

La storia ovviamente non si ripete. In questo caso l’Europa non sembra neutrale, ma forse lo è stata prima, quando con l’annessione della Crimea nel 2014, la guerra tra Ucraina e Russia, anche se per interposta persona, è iniziata.
Anche in questo caso le parole di Alex sembrano profetiche:
Penso che nella convivenza tra diversi noi sia molto importante che ognuno di questi noi non si senta in pericolo, cioè non si senta minacciato. Quando ci si sente minacciati è vicina la tentazione della violenza… Quindi credo che oggi uno dei grandi compiti di chiunque abbia voglia di un futuro amico sia proprio quello di diventare in qualche modo, nel suo piccolo, pontiere, costruttore di ponti del dialogo, della comunicazione interculturale o interetnica” (dall’intervento al Convegno giovanile di Assisi, Natale 1994).

Purtroppo la violenza è scoppiata ed ora è tremendamente difficile porvi rimedio.  Ma forse, come scrive Leonard Cohen “c’è uno spiraglio in ogni cosa” e dobbiamo assolutamente trovarla.

ANTHEM

The birds they sang                        Gli uccelli cantavano
at the break of day                          all’alba
Start again                                       ricominciamo
I heard them say                              li ho sentiti dire
Don’t dwell on what                        non soffermiamoci su ciò che
has passed away                              è passato
or what is yet to be.                         o che deve ancora essere.

Ah the wars they will                      Ah le guerre saranno
be fought again                                combattute ancora
The holy dove                                 la santa colomba
She will be caught again                 verrà ancora catturata
bought and sold                               comprata e venduta
and bought again                             e comprata di nuovo
the dove is never free.                     la colomba non sarà mai libera

Ring the bells that still can ring       Suonano le campane che ancora possono suonare
Forget your perfect offering            dimentica la tua offerta perfetta
There is a crack in everything         c’è uno spiraglio in ogni cosa
That’s how the light gets in.             ecco da dove la luce arriva

We asked for signs                           Chiediamo segni
the signs were sent:                           segni sono stati mandati:
the birth betrayed                              la nascita tradita
the marriage spent                             il matrimonio consumato
Yeah the widowhood                        sì la vedovanza
of every government                     di ogni governo
signs for all to see.                            segni che possiamo vedere tutti

I can’t run no more                            Non posso correre di più
with that lawless crowd                     con quella folla senza legge
while the killers in high places          mentre gli assassini nelle alte sfere
say their prayers out loud.                 recitano le loro preghiere a voce alta
But they’ve summoned, they’ve summoned up          ma hanno evocato, hanno convocato
a thundercloud                                                            una nube tempestosa
and they’re going to hear from me.                             e stanno per sentirmi

Ring the bells that still can ring …

You can add up the parts                 Potete sommare tutte le parti
but you won’t have the sum             ma non arriverete ad avere la somma
You can strike up the march,          potete iniziare a marciare
there is no drum                               non c’è nessun tamburo
Every heart, every heart                   ogni cuore, ogni cuore
to love will come                             arriverà all’amore
but like a refugee.                            ma come un esule

Ring the bells that still can ring…

(La traduzione è del sottoscritto, sostanzialmente un dilettante)

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Cover: Leonard Cohen in concerto – foto Wikimedia Commons

La Biblioteca Popolare Giardino va alla Vulandra!
Dal 23 al 25 aprile al Parco Bassani di Ferrara

La Biblioteca Popolare Giardino va alla Vulandra

In occasione de La Vulandra la nostra biblioteca si trasferisce tre giorni al parco Bassani
tra gli aquiloni della più che trentennale manifestazione internazionale.

Saremo presenti con una scelta dei nostri libri
che potrete fermarvi a curiosare, leggere ed anche prendere a prestito.
Tutto il giorno dalle 10 alle 19, nei tre giorni 23-24-25 aprile.

Inoltre sempre presso il nostro stand potrete partecipare a:
Sabato 23 Aprile 
Ore 16 Laboratorio “Insieme con i Colori” a cura di Miriam Cariani per bambini/ragazzi
Ore 18 Language cafe’ di italiano a cura di Maria Alberta Gaiani

Domenica 24
Ore 16 Laboratorio creativo di costruzione oggetti con materiale di recupero
a cura di Paolo Pasini per bambini

Lunedì 25
Ore 16 Language Cafe’ di inglese a cura di Caterina Selvatici

Veniteci a trovare!!! 

www.bibliopopgiardino.it
info@bibliopopgiardino.it
https://www.facebook.com/bibliopopgiardino/

PRESTO DI MATTINA
Il suo dono

Suo dono è la Pasqua

È nella notte che è risorto
È dalla mia notte che è risorto
Pesavo, dormivo su di lui, io sono la pietra
Dal sepolcro per sempre rotolata via

Occhi, lingue, volti
Che annunciano nei secoli
Io sono fino alla fine dei tempi
L’asse del cielo, la ruota del vento
L’albero della vita le cui radici
Fanno di tutti i corpi un corpo solo.
Basta un papavero
Spinto fuori dalla tomba
Per farmi uscire
E per celebrare
Il Risorto che mi fa dono
Di uno scorcio d’alba e fra i denti un fiore
Il dono di vivere nella gloria
Dell’eterno quotidiano

(Pierre Emmanuel, Évangéliaire, Ed. du Seuil, Paris 1961, 213; 230)

Il dono annuncia il passare da se stessi all’altro, valicando la propria solitudine. Ma dice pure il darsi e il riceversi nella gratuità dell’amore, al modo della Pasqua − “transitus Domini” − il suo passare da noi al Padre suo, dal suo amore per noi all’agape di Dio, varcando la soglia invalicabile del sepolcro, oltre l’orizzonte chiuso della nostre morti.

Suo dono a Pasqua è il vangelo quadriforme, che pure transita da una persona all’altra, da allora fino ad oggi. Sono occhi, lingue e volti che annunciano lungo tutti i secoli “il rosso e delicato papavero che ha spezzato la pietra, l’asse del cielo, la ruota del vento, l’albero della vita, il dono di uno scorcio d’alba presto di mattina”.

Insieme, appassionatamente essi, sparpagliati tra la gente, trasmettono quello che a loro volta hanno ricevuto fin dal mattino di Pasqua: un passa parola, passo dopo passo che attraversa la vita di ciascuno rendendola un testimone.

La narrazione di questa traditio degli apostoli la troviamo in una lettera di Paolo ai Corinti: «Vi faccio poi presente, fratelli, il lieto annuncio che abbiamo annunciato a voi e che voi avete ricevuto e nel quale state (saldi) e per mezzo del quale siete anche salvati. Trasmisi infatti a voi che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è stato risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa quindi ai Dodici» (1Cor 1, 1-8).

E più avanti Paolo lo afferma del dono del corpo e del suo sangue del Cristo, della sua presenza significata e attuata nella condivisione del pane e del calice, sua vita data per tutti. Da quella notte in cui veniva consegnato non ha mai più smesso di consegnarsi nel vangelo e nell’eucaristia sacramento del suo amore:

«Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso (tradidi vobis) : il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito (tradebatur), prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me. Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”», (1Cor 11, 23-26).

Suo dono a Pasqua: la tomba aperta, la libertà dello Spirito, una creazione nuova.

A Pasqua viene generato uno spazio di libertà: la tomba vuota è così luogo sorgivo del dono dello Spirito del Risorto; scaturigine di una libertà amante, che nemmeno la morte ha potuto trattenere dal donarsi ai suoi discepoli, mostrandosi risorto e vivo in mezzo a loro.

È sempre Paolo che scrive: «Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore», (2Cor 3, 17-18). Il dono e la libertà dello Spirito rigenerano e ricreano la qualità dei legami tra Gesù e i suoi, tale da permettere il reciproco riconoscimento.

Dicono gli esegeti che nel racconto pasquale del vangelo di Marco abbiamo forse due tradizioni inizialmente distinte tra loro: la tradizione del sepolcro aperto e quella delle apparizioni/manifestazioni del risorto; apparizioni di riconoscimento e apparizioni di invio missionario.

Manifestazioni per esprimere le quali è usato il verbo ‘vedere’: fu visto o si fece vedere. Il riferimento non è però a una visione che viene da loro, ma da lui: l’iniziativa è sempre del Risorto. Così coloro che avevano conosciuto quaggiù Gesù di Nazareth, durante tutto il suo ministero, attestano che egli è proprio lo stesso, sebbene divenuto altro, e che è lui, con tutto il suo messaggio, la sua persona indimenticabile e i suoi segni, ad essere stato risvegliato dai morti.

E ancora vorrei sottolineare come la descrizione e le immagini aurorali, con cui si apre il racconto nel vangelo di Marco, fanno pensare ad una nuova creazione iniziata con la risurrezione di Gesù: «Di buon mattino, (le donne) il primo giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levar del sole», (16,2).

Come pure le ultime parole ci mettono sotto gli occhi la nuova comunità dei discepoli in uscita missionaria: «Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (16,20). Si noti la reciprocità del dono: quasi un ospitarsi l’uno nello spazio aperto dell’altro. Il Cristo e il suo vangelo nei discepoli; i discepoli e il loro buon annuncio nel Cristo.

Si trasmette solo ciò che si vive. Così è pure del dono del vangelo. L’annuncio chiede la testimonianza della vita. Scrive Roberto Repole [Qui]:

«La testimonianza viene qui affidata ai cristiani nei quotidiani e affatto normali contatti con le persone con cui convivono nei diversi ambienti della vita. È qui ed è così che può essere reso disponibile il dono, anche nel suo debito dell’annuncio: il quale avviene solo dal di dentro di questa testimonianza.

Se ciò che si deve donare nell’annuncio è lo spazio che si è aperto in Cristo (con la Pasqua), questo non verrà “detto” se non laddove ci siano dei cristiani che si fanno essi stessi spazio ospitale per altri uomini: l’annuncio non può avvenire senza questa testimonianza; e viceversa.

Ciò che si tratta di annunciare non può essere trasmesso se non con una vita che attragga per la capacità di essere realmente ospitale nei confronti dell’altro, per una presenza che gli fa spazio e gli consente di essere, per uno spendersi per l’altro che sia un ascoltarlo profondamente, per un offrire che mostri di vivere, al pari del destinatario dell’annuncio e dunque nella sua compagnia, nel costante bisogno del dono divino per essere…

Tale ridondanza del dono risulterà reale a misura che si realizzi nella stessa forma: nella gratuità e nel disinteresse, ma anche nella speranza che il destinatario possa, nella sua libertà, corrispondere al dono offerto e nella disponibilità della Chiesa a lasciarsi trasformare dal donatario» (La chiesa e il suo dono, Brescia 2019, 343; 7).

Il dono del Figlio

Il suo dono a Pasqua è proprio lui stesso, il Figlio amato, dato per noi, consegnatoci unitamente alla sua missione di prossimità e intercessione. Suoi doni trasmessi non solo alla cerchia dei discepoli, alla sua chiesa, ma a tutti quelli che stanno transitando un valico di prossimità e intercessione verso una umanità sofferente, e così facendo divengono collaboratori di quella incorporazione misteriosa al corpo stesso del Cristo cosmico e universale.

È Gesù stesso che ricorda a Nicodemo di essere dono del Padre: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare (daret) il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,16-17).

Il verbo greco usato è didomi’, nel latinodo/datum/dare’. Il biblista Léon-Dufour [Qui]  afferma che «con questo verbo viene messo in rilievo propriamente l’aspetto di “dono”, un dono in cui si ricapitola tutta intera la missione del Figlio nel mondo. Di fatto nel versetto seguente, il verbo parallelo ‘inviare’ non allude direttamente alla sua passione, ma piuttosto a tutta l’opera del Figlio nel suo insieme. Secondo l’angolazione giovannea, e anche qui, Gesù è eminentemente il Rivelatore del Padre, è Colui la cui parola risveglia l’uomo alla comunicazione divina» (Lettura dell’evangelo secondo Giovanni. I, San Paolo, Milano 1990, 412).

Occorre infine rilevare che questo dono che è “il Figlio dato” non separa i cristiani dagli altri uomini. Basterebbe leggere la Lettera a Diogneto [Qui] per cogliere questo legame strutturale dei cristiani con l’umanità tutta; un legame che li rende membra, secondo il concilio, gli uni degli altri nel cammino spirituale di incorporazione al Cristo di tutta l’umanità [Qui].

Così nel dono del Figlio si dà il dono della testimonianza dei cristiani: Leggiamo nel documento Ad gentes 11 del Concilio:

«È necessario che la Chiesa sia presente in questi raggruppamenti umani attraverso i suoi figli, che vivono in mezzo ad essi o ad essi sono inviati. Tutti i cristiani infatti, dovunque vivano, sono tenuti a manifestare con l’esempio della loro vita e con la testimonianza della loro parola l’uomo nuovo, di cui sono stati rivestiti nel battesimo, e la forza dello Spirito Santo, da cui sono stati rinvigoriti nella cresima; sicché gli altri, vedendone le buone opere, glorifichino Dio Padre (cfr. Mt 5,16) e comprendano più pienamente il significato genuino della vita umana e l’universale legame di solidarietà degli uomini tra loro.

Ma perché essi possano dare utilmente questa testimonianza, debbono stringere rapporti di stima e di amore con questi uomini, riconoscersi come “membra” di quel gruppo umano in mezzo a cui vivono, e prender parte, attraverso il complesso delle relazioni e degli affari dell’umana esistenza, alla vita culturale e sociale.

Così debbono conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che vi si trovano nascosti; debbono seguire attentamente la trasformazione profonda che si verifica in mezzo ai popoli, e sforzarsi perché gli uomini di oggi, troppo presi da interessi scientifici e tecnologici, non perdano il contatto con le realtà divine, ma anzi si aprano ed intensamente anelino a quella verità e carità rivelata da Dio.

Come Cristo stesso penetrò nel cuore degli uomini per portarli attraverso un contatto veramente umano alla luce divina, così i suoi discepoli, animati intimamente dallo Spirito di Cristo, debbono conoscere gli uomini in mezzo ai quali vivono ed improntare le relazioni con essi ad un dialogo sincero e comprensivo, affinché questi apprendano quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli; ed insieme devono tentare di illuminare queste ricchezze alla luce del Vangelo, di liberarle e di ricondurle sotto l’autorità di Dio salvatore».

Quel Figlio dato − Parola che dice la misura di se stesso e nostra, chi egli sia e chi siamo noi, ed il comune destino di vita-morte-vita che ci lega per sempre − proprio lui a Pasqua ci chiede di fare ancor più nostre, carne e sangue nostro, le incredibili sue parole, quelle del Padre nostro e delle Beatitudini, affinché in lui, sovrabbondanza e smisuratezza del dono, nella sua Parola ci sia dato vedere, come le donne il mattino di Pasqua, il suo volto (“Verbe visage” direbbe Pierre Emanuel).

Volto del Verbo
La misura vera dell’uomo è Cristo
Ugualmente la vera misura del Cristo è l’uomo.
Dalla battaglia nasce la proporzione
Due abissi si sondano, due abissi si donano
L’uno all’altro forma e sostanza, uomo e Dio.
Giacobbe non può donare che la sua miseria
Incommensurabile a lui – degno di Dio
Dio dona il suo Spirito fermento di Dio
Che rende Giacobbe commensurabile alla sua miseria
Giacobbe è ferito all’anca
il Cristo inchiodato alla croce
Ciascuno innestato all’altro per ferita.
Parola di Dio e linguaggio di uomo
Parola umana nella Parola di Dio
Il combattimento è buona notizia
Proferita, contestata e raccolta.
Ogni vocabolo reso chiaro nella stessa carne
Sofferto, odiato e adorato
Volto del Cristo unica somiglianza
Che non finisco mai di decifrare
Sulle tue labbra la nostra tutta santa identità.

(Pierre Emmanuel “Verbe Visage”, in Jacob ed du Seuil, Paris 1970, 163.)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui] 

Irina e Albina dietro alla croce di Francesco
e una misera politica bacchetta il papa

 

La croce di Gesù porta scandalo. Per chi crede e per chi non crede. Uno scandalo è il sacrificio degli innocenti. È straordinariamente toccante e lungimirante il fatto che Papa Francesco abbia assegnato la meditazione sulla morte di Gesù, tredicesima stazione della Via Crucis del Venerdì Santo, a due donne, Albina, russa, e Irina, ucraina.

Due donne la cui amicizia non è un infingimento, non nasce come cortesia alla fantasia di un papà cattolico per guadagnare le prime pagine dei giornali, ma preesiste alla guerra e tutt’ora le unisce. Due operatrici sanitarie nello stesso Centro di cure palliative, quello gestito dalla Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma. Due donne, perciò, quotidianamente a contatto con la sofferenza umana del corpo e dello spirito. Due donne che condividono i gesti della cura e che reciprocamente si prendono cura l’una dell’altra resistendo eroicamente alla logica schiacciante della guerra che le vorrebbe nemiche.
Due donne che conservano la loro umanità e si riconoscono per ciò che sono; sì una russa e un’ucraina, ma anche infinite altre cose: un’infermiera e una studentessa, due figlie, forse due sorelle, forse due innamorate, e magari due persone che amano cantare, o cucinare, e che qualche volta si raccontano i loro sogni.

Sorprendente e scandaloso mi pare piuttosto che figure politiche abbiano l’ardire di mettere in discussione la scelta di Papa Francesco, fino a chiedere di ritirarla. Con quale diritto? Se giustamente teniamo alla laicità degli stati e ci sentiamo disturbati dalle intromissioni religiose sulle scelte politiche, lo stesso fastidio viviamo adesso, quando esponenti politici pretendono di dettare a una figura spirituale ciò che deve e non deve fare nelle sue celebrazioni. Soprattutto ora che la pretesa è di santificare una parte condannando l’altra alla dannazione e assorbendo nell’una e nell’altra tutto ciò che a ciascuna appartiene.
Il terreno del sacro è cosa altra, e non è il solo (davvero dovremmo disfarci di Cechov o di Dostoevskij per colpa di Putin?).

Fin dal momento in cui ha consacrato a Maria entrambi i Paesi, Francesco ha voluto indicare la strada opposta. Oggi, con questa Via Crucis, torna a farlo. La sua scelta non parifica l’aggressore e l’aggredito. Semmai riconosce pari dignità a tutte le vittime, che non sono da una parte sola. Potrei dire che non è un caso abbia scelto proprio due donne per fare questo: diversa è l’esperienza delle donne nella sofferenza e della cura, diversa è anche – per la massima parte – l’esperienza della guerra, e ciò che le donne evocano in chi guarda. C’erano, non a caso, due donne ai piedi della croce di Gesù.

Volendo parlare un linguaggio più terreno, Papa Francesco ha voluto riconoscere il valore dell’affetto tra Irina e Albina. È uno scandalo per il quale ringraziarlo: le mani delle vittime non sono insanguinate. Le donne russe che vedono i loro figli o i loro mariti costretti a partire per una guerra che non hanno scelto sono vittime quanto le donne ucraine, costrette a separarsi dai loro figli o dai loro mariti, che combattono, per mettersi al riparo con i bambini. Le loro mani non sono macchiate di sangue. Non portano la responsabilità di un attacco voluto da altri.

Se solo osiamo uscire dalla logica della guerra che semplifica e riduce la realtà allo scontro tra un “noi” e un “loro”, ci accorgiamo delle tante sofferenze che si stanno consumando in questo tempo. Soffrono i bambini russi in Italia se i compagni li additano come rappresentanti del loro paese aggressore. È vittima della guerra ogni amicizia e solidarietà interrotta anche nelle nostre città, tra le persone, le famiglie, le comunità russe e ucraine. Omettere la cura di questi legami per non tradire una qualche purezza della vittima non solo è falso ma è porre le basi per nuove violenze, nuove rivendicazioni.
Il bambino russo confuso con un aggressore che in nulla lo rappresenta o gli assomiglia è un bambino che, lasciato a se stesso, cercherà domani un riscatto, e nulla dice che lo farà nel modo più rispettoso di sé e degli altri.

Torniamo però al presente. Non è vero che i gesti di riconciliazione debbano attendere la fine delle ostilità, una fine assegnata a un tempo imprecisato nel quale qualcuno che ha iniziato l’orrore deciderà di concluderlo o sarà costretto a farlo, sulla base di convenienze che poco riguardano le persone comuni. È vero semmai che i facitori di pace possono iniziare subito, possono iniziare sempre. Così in Israele e Palestina dove da decenni associazioni miste collaborano per ridurre la violenza dell’occupazione e della guerra. Allo stesso modo in Russia e Ucraina occorre costruire la pace oggi.

Il sangue risparmiato è prezioso più del sangue versato. Non parla le parole della retorica ma quelle della vita. E mentre le diplomazie, gli eserciti, gli strateghi, i decisori politici non sanno farlo, è molto bene che incomincino dinanzi al mondo due donne, Irina e Albina, che ogni giorno condividono i gesti della cura per la sofferenza umana. Nulla vi è di più sacro, mentre altrove la vita umana si straccia.

Questo articolo è uscito ieri, 14 aprile, con altro titolo sul periodico Azione Nonviolenta 

In copertina: Pie donne al sepolcro, .XV Sec, Giuliano di Amadeo (Amadei, Giuliano). monaco camaldolese, pittore e miniatore.

OUT OF TIME. RIPARTIRE DALLA NATURA
Cinque artiste internazionali alla biennale donna di Ferrara.


 

Ogni cosa che puoi immaginare, la natura l’ha già creata.
(Albert Einstein)

La XIX edizione della Biennale Donna, sorprende nuovamente. Perché sorpresa, estro, creatività, originalità, sensibilità e meraviglia sono, ancora una volta, donna. Dal 27 marzo al 29 maggio il Padiglione d’Arte Contemporanea di Ferrara ospita la mostra OUT OF TIME. Ripartire dalla natura, a cura di Silvia Cirelli e Catalina Golban, una collettiva che presenta opere di cinque artiste internazionali: Mónica De Miranda (Portogallo, 1976), Christina Kubisch (Germania, 1948), Diana Lelonek (Polonia, 1988), Ragna Róbertsdóttir (Islanda, 1945) e Anaïs Tondeur (Francia, 1985).

Monica De Miranda
Christina Kubisch
Diana Lelonek
Ragna Robertsdottir
Anaïs Tondeur

Mi ci sono avvicinata con curiosità e umiltà, quasi con un poco di timore reverenziale, visto il tema complesso che sapevo di andare a incontrare. La mostra, infatti, illustra la necessità di ripensare le strutture radicate in una società impazzita che non sta più al passo con l’Uomo, di riorganizzare le pratiche consolidate in ambito sociale ed economico e mostrare i legami con il dibattito ecologico in corso. Un dibattito complesso e che mette di fronte a tante responsabilità condivise. Il risultato è davvero brillante.

La diversa consapevolezza rispetto all’ambiente naturale che ci circonda che si è sviluppata negli ultimi anni (considerando anche i giovani dei Fridays for Future, ma non solo) e che oggi, soprattutto dopo il terribile tempo di pandemia, si va rafforzando, chiama tutti ad una riflessione più acuta sulla consapevolezza che il modello finora seguito non regge più. Lo sviluppo a tutti i costi e il mantra della crescita continua non sono più sostenibili. Il modello di sviluppo finora perseguito è obsoleto e non regge più.

Come se non bastasse, la guerra in corso sta mostrando anche la debolezza di un sistema energetico fallibile e in fallimento. Chi parla della necessità dell’essere disposti a un qualche sacrificio ci porta a confrontarci anche con questo crescente bisogno di rinunce.

Non vorrei divagare troppo, ma vi invito, in proposito, a leggere La fine del mondo storto di Mauro Corona, uscito nel 2010. Incredibilmente attuale. Un giorno il mondo si sveglia e scopre che sono finiti il petrolio, il carbone e l’energia elettrica. È pieno inverno, soffia un vento ghiacciato e il freddo è insopportabile. Gli uomini si guardano l’un l’altro. E ora come faranno? Come sopravviveranno e chi ce la farà? La stagione gelida che non perdona avanza e non ci sono termosifoni a scaldare, il cibo scarseggia, non c’è nemmeno più luce a illuminare le notti. Le città sono diventate un deserto silenzioso, senza traffico e senza rumori. Tutto tace (e non era forse così anche in pandemia?). Rapidamente, gli uomini capiscono che se vogliono arrivare alla fine di quell’inverno di fame e paura, devono guardare indietro, tornare alla sapienza dei nonni che ancora erano in grado di fare le cose con le mani e, soprattutto, ascoltavano la natura per cogliere i suoi insegnamenti. Resi uguali dalla difficoltà estrema, gli uomini si incammineranno verso la possibilità di un futuro più giusto e pacifico, che arriverà insieme alla tanto attesa primavera. Ma il destino del mondo è incerto, consegnato nelle mani incaute dell’uomo… Cosa di più attuale???

Dicevamo, quindi, anche partendo dalle incredibili, illuminate e profetiche pagine di Corona, che la nostra terribile epoca antropocentrica ha bisogno di essere ripensata tramite nuovi paradigmi, che potrebbero (e dovrebbero) prefigurare un modo altro di essere nel mondo. L’antropocene, termine coniato, nel 2000, per l’era geologica attuale dal chimico olandese premio Nobel Paul Crutzen (mentre la data-simbolo del suo inizio il 16 luglio 1945 è frutto di una ricerca compiuta da un gruppo internazionale di studiosi), oggetto di un omonimo film del 2018 molto duro ma reale, si presenta ormai chiaramente come questa era terribile e inquieta in ci viviamo dalla quale, in qualche modo, bisogna tornare indietro.

Lo sguardo con cui siamo abituati a vedere il mondo è assolutamente antropocentrico, una realtà nella quale gli esseri umani sono la (sola) misura di tutte le cose. Tutto ciò che non è umano è un contorno, un decoro, una bella cartolina, una compagnia, una proprietà. I mondi vegetale e animale sono solo un bel panorama. Mentre noi, in realtà, siamo quella Natura e il pianeta non ci appartiene, anzi, ne siamo ospiti spesso maleducati e irrispettosi. I disastri urbani sono stati presentati come simbolo di modernità, così come lo sono state alcune scoperte che ci avrebbero semplificato la vita quotidiana (basti pensare alla banale plastica e al miracolo dell’usa e getta di quando eravamo ragazzini). L’Uomo ha sempre avuto bisogno del controllo, quello dell’identità, della perfezione, della bellezza, della purezza, della perfezione dell’abilità, della felicità, del potere. Oggi che lo sta perdendo mostra sempre di più la sua fragilità e solo il recupero del suo essere natura lo potrà salvare.

Ragna Robertsdottir, Saltscape 15. September 2018

È quindi inevitabile che l’arte affronti il mondo di oggi con le sue questioni ecologiche più pressanti. Le riflessioni che ne derivano da ambiti differenti confluiscono, attraverso diversi linguaggi artistici (installazioni, fotografie e video), in una mostra che esplora il rapporto tra l’essere umano e l’ambiente, ed esamina le interazioni tra essi. Ponendo anche l’attenzione sulle modalità di appropriazione dell’ambiente come conseguenza drammatica dello sfruttamento delle risorse naturali. Un ulteriore monito al doversi saper fermare in tempo. Un grido.

Monica De Miranda, Untitled (da serie Arquipelago), 2014

Le cinque artiste in mostra indagano gli scambi e la possibile alleanza tra tutti gli esseri viventi ospitati da questo pianeta. Diverse sono le prospettive che richiamano l’attenzione sui modi in cui la natura è stata stravolta nella ricerca dell’egemonia da parte dell’essere umano, mettendone in luce le ripercussioni sull’ambiente e sul tessuto sociale.

Secondo il filosofo Emanuele Coccia, “il mondo non è un luogo ma è lo stato di immersione di ogni cosa in ogni altra cosa, la mescolanza che rovescia istantaneamente la relazione di inerenza topologica”. Il mondo, che lui identifica con la stessa natura, è dunque mescolanza. Tutto è in tutto, diceva Anassagora. Una mescolanza che chiede co-abitazione, co-operazione, co-creazione, co-narrazione, compenetrazione. E la natura è proprio la mescolanza di ogni cosa, ogni essere ha senso non nella sua identità e separatezza ma nella sua partecipazione alla mescolanza. Il percorso che ci accingiamo a fare oggi al PAC porta a questa conclusione.

La mostra si apre con l’islandese Ragna Róbertsdóttir, artista dal lavoro minimalista, che sorprende per l’impiego di componenti dall’evidente potenza materica. Lava, vetro, pomice, ossidiana, rocce vulcaniche, sale, o conchiglie caratterizzano una personale impronta espressiva che sfocia in un legame viscerale con il mondo naturale. Dentro la terra, da essa si sprigiona potenza, la materia che diventa solida, la forza della natura che modella, scolpisce, permea, avvolge e (s)travolge. Alcuni dei suoi lavori, dal 1984 al 2017, sono raccolti anche in una bella (e suggerita) pubblicazione. In un’originale intervista del 2018 per l’Icelandc Art Center, l’artista, che vive tra Arnarfjörður e Berlino, sottolinea come il suo metodo sia un interessante mix fra l’intenzione e il caso: non ha mai il controllo dei risultati del suo lavoro.

Ragna Robertsdottir, Saltscape

Oltre ad alcune delle sue opere più significative, come la serie in bianco e nero Saltscape, realizzata con sale marino e sale di lava nero, o View, dove domina la lava rossa del vulcano Seyðishólar (sempre un dipinto monocromo ma, a una visione più attenta, si scoprono il caos e l’ordine di cui è capace la natura), la Biennale Donna ospita anche un’altra grande installazione della lava scura che, guardata da lontano assomiglia a un dipinto minimalista, monocromo e austero: tanti puntini neri. Avvicinandosi, invece che pittura, ci si trova di fronte a migliaia di granelli provenienti dal vulcano islandese Heika: su uno strato di colla, l’artista getta a mani nude i residui di lava, alcuni dei quali si attaccano alla superficie, mentre altri cadono a terra. Questi ultimi vengono recuperati e riposizionati con minuziosa attenzione, in un equilibrio casualità/intento che filtra tutto il processo creativo, evidenziando quanto la natura stessa ceda spesso alla fatalità. Qui vedo la forza.

Ragna-Robertsdottir Lava Landscape 2022
Ragna Robertsdottir, View, 2019

Di differente sintesi poetica e di diversa narrativa è invece l’approccio della francese Anaïs Tondeur, la cui ricerca si concentra su una pratica artistica di derivazione scientifica, frutto di studi realizzati con la collaborazione di geologi, oceanografi, fisici e antropologi (fra essi, Germain Meulemans). Le due installazioni multidisciplinari presentate in mostra (A memory of ocean e Petrichor) sono, infatti, la traduzione visiva di indagini scientifiche rispettivamente dedicate alle tracce del petricore, l’inconfondibile odore della pioggia sul suolo asciutto, e all’analisi dei cicli oceanici, di vitale importanza per una maggiore comprensione dei cambiamenti climatici terrestri.

Petrichor, View of the installation, Domaine Départemental de Chamarande, France, Copyright Anaïs Tondeur & Germain Meulemans, 2017

In particolare, il neologismo petricore – composto dal greco petra, pietra, e ichor, termine usato da Omero per definire il sangue degli dèi – fu coniato negli anni Sessanta da due scienziati australiani. L’indagine di Tondeur rileva l’intreccio di interazioni invisibili tra l’acqua piovana, l’attività dei batteri del suolo, il sole che li riscalda e le condizioni atmosferiche che intrappolano l’ozono. Attraverso un’installazione quasi onirica, lo spettatore è invitato a soffermarsi sulle potenzialità del suolo e la sua interrelazione con altri elementi, micro e macro organismi.

Per l’Oceano, invece, l’artista si affida alla comunità oceanografica internazionale per avere una raccolta di campioni e dare sostanza a una storia liquida: grazie a vari laboratori nel mondo e al fisico Jean-Marc Chomaz, ha raccolto da ogni oceano campioni d’acqua a diverse profondità, dalla superficie fino a 8000 metri. La collezione narra così il viaggio secolare, attraverso la memoria delle acque e delle correnti oceaniche, della circolazione termoalina. Collega tutte le acque del pianeta in circa 1500 anni, con un anello di correnti che distribuisce il calore globalmente. Gli attuali cambiamenti climatici concorrono a ridurre il volume dell’acqua che precipita verso l’abisso, rallentando di conseguenza la circolazione termoalina con potenziali gravi conseguenze sulle temperature mondiali.

A memory of the ocean View of the Installation

Qui vedo l’odore intenso della natura, la bufera (del clima) e l’interconnessione della(e) vita (e).

La Biennale prosegue poi con il mondo visionario di Mónica De Miranda, poliedrica artista portoghese di origini angolane, che vive tra Lisbona e Luanda, la cui eredità culturale ha fortemente influenzato il suo percorso artistico, portandola all’esplorazione dell’evoluzione ambientale da un punto di vista antropologico. Confrontandosi con le ferite di un colonialismo violento, l’artista si sofferma sulle convergenze fra stratificazione sociale e cambiamento dell’ecosistema, proponendo “geografie emozionali” – come lei stessa le definisce – cioè narrazioni urbane che seguono intimi processi identitari.

Monica De Miranda, All that burns melts into air, still da video

L’installazione Under water raffigura un prezioso ecosistema, un angolo di rara biodiversità che viene però completamente estrapolato dal proprio contesto naturale per essere posizionato in un luogo inconsueto e ad esso estraneo. La flora autoctona e l’insolito acquario suggeriscono una vulnerabile precarietà, uno smarrimento, un allontanamento dal proprio sicuro habitat. Uno sradicamento di questo munito ecosistema che si riflette nello strappo sociale e culturale subito dai colonizzati della fotografia riflessa nello specchio accanto, costretti a risanare un trauma perpetrato per secoli e nei secoli.

Monica De Miranda, Under Water, 2020

All that burns melts into air (2020) è stupefacente, vi invito a visionare anche un estratto del video ad esso dedicato. Qui, fra le ferite di un colonialismo violento, vedo la città serrata e fortemente urbanizzata che prevarica e soffoca la natura.

Monica De Miranda, All that burns melts into air, 2020

La prevaricazione dell’uomo sulla natura torna baricentrica anche nel percorso creativo della polacca Diana Lelonek, la più giovane (classe 1988), laureata al dipartimento di Fotografia della Facoltà di Comunicazione Multimediale della University of Art in Poznan. Avevamo sentito parlare dell’artista, in occasione di una mostra, Diana Lelonek: Buona fortuna, organizzata a Roma presso il Pastificio Cerere nel 2020. Diana crea progetti interdisciplinari basati su una ricerca ispirata alle scienze naturali e all’eco-attivismo, che sollevano la questione dell’impatto umano sulla natura e la fine dell’antropocentrismo come epoca geologica in cui l’ecosistema terrestre è fortemente condizionato dagli effetti dell’azione dell’uomo. L’artista, offrendo una visione critica sui processi di sovrapproduzione, focalizza la sua parabola espressiva sulla possibilità di soluzioni alternative di convivenza e coesione fra mondo naturale e mondo umano. Tale approccio empatico detta le basi di un’interdipendenza fra specie e l’accettazione di uno scenario trasversale di chiara rottura rispetto a quello attuale. Nell’opera Ministry of the Environment overgrown by Central European mixed forest, realizzata per una campagna pubblicitaria del collettivo Sputnik Photos, denuncia la grave politica di disboscamento dell’ultimo polmone vergine d’Europa, la foresta di Bialowieza, portata avanti nel 2016 dal governo polacco. Allo stesso tempo, filtra il messaggio con poesia sublime, in bilico fra triste presago e consapevole allarme. In questa foto, la vegetazione selvaggia riconquista i propri spazi, la lontana presenza di cerbiatti che scrutano l’osservatore, quasi a volergli intimare di andarsene. L’impronta umana è devastante.

Diana Lelonek, Ministry of the Environment overgrown by Central European mixed forest, 2017

Qui vedo l’Umano che supera l’Umano e la natura che, tentando di recuperare il proprio spazio, chiama aiuto.

Chiude il percorso espositivo il lavoro di Christina Kubisch, una delle più incisive figure della sound art tedesca. Attingendo a un’estetica inedita, la compositrice (ma non solo, ha, infatti, studiato pittura, musica – flauto e composizione – e musica elettronica ad Amburgo) è riuscita nell’intento di proiettare “paesaggi acustici” attraverso l’esplorazione del potere del suono. Le sue polifoniche installazioni sonore indagano il cosiddetto inquinamento acustico silenzioso, esperienza sensoriale fondamentale per poter comprendere lo stato di saturazione elettromagnetica diffusa intorno a noi.

Christina Kubisch_Cloud, 2019

Il respiro del mare è un’opera costituita da due forme identiche, simili a labirinti realizzati con cavi elettrici al cui interno scorre un suono preregistrato. Una struttura contiene il suono perpetuo del mare, l’altra il respiro dell’artista. Spostandosi da un labirinto all’altro, grazie a piccoli altoparlanti realizzati ad hoc, il visitatore cattura e sente le onde elettromagnetiche che viaggiano attraverso il cavo, mentre lo spostamento nello spazio da una forma all’altra gli consente di mescolare i suoni dando vita, appunto, al respiro del mare.

Christina Kubisch, Il respiro del mare, 1981

Qui vedo il suono prorompente della natura che respinge il chiasso umano, che satura.

Noi, voi, loro, tutti insieme. Ci sarebbe da raccontare ancora per ore… Il percorso che potrete fare, se solo lo volete veramente, è unico, davvero. Siete incuriositi, almeno un po’?

Non ci salveremo se non ricuciremo tutti i fili di questa tela lacerata che siamo diventati – Rossana Rossanda

 

OUT OF TIME. Ripartire dalla natura

27 marzo – 29 maggio 2022, Padiglione d’Arte Contemporanea, Corso Porta Mare 5, Ferrara

A cura di Silvia Cirelli e Catalina Golban. Organizzatori: UDI – Unione Donne in Italia e Servizio Musei d’Arte – Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea in collaborazione con la Fondazione Ferrara Arte, con il sostegno della Regione Emilia-Romagna

Orari di apertura: 10.00 – 18.00, chiuso il lunedì. Aperto anche 18 e 25 aprile, 1° maggio

Crediti fotografici: Monica De Miranda: © l’artista e Sabrina Amrani, Madrid; Christina Kubisch: ph. Nikolas Brade, © Christina Kubisch; Diana Lelonek: ph. Yulia Krivich / Szum Magazine; Ragna Robertsdottir: © Jóhanna Ólafsdóttir; Anaïs Tondeur: ph. Patricio Retamal

 

Parole a capo
Gianni Goberti: “Terra ferrarese” e altre poesie

“I poeti non cambiano, ma forse cambiamo noi e dobbiamo fare una strada intima per ritrovare la poesia nella quotidianità.”
(Monica Vitti)

Terra ferrarese

Vieni a vedere come i profili dei pioppi
incidono la nebbia del breve orizzonte
nato dagli argini.
Come potrei abbandonare questa mia terra
così legata ai ricordi, così grassa ed amara
questa terra che racchiude i miei morti
e si apre in estati feroci
allo stridio metallico delle rondini
sui maceri immoti, quando il sole
s’accanisce sugli uomini nei campi
mentre le cicale segnano il silenzio.
Questa mia terra che in aspri inverni
deve contendere al fiume, case e figli.
Questa terra così fulgida
in primavera
quando i fiori del suo verde
spezzano i brividi delle ultime fisarmoniche;
così dolente
quando la mucca gravida urla nella notte
e gli uomini fumano muti nelle stalle.

 

Fuga dal cielo

Fissai con una gassa d’amante
la mia fune ad una nuvola
e scesi – perplesso e indeciso -.
Lasciai il cielo
le sue certezze di felicità
la serenità di giorni troppo perfetti,
per tornare nel disordine.
Capitemi,
non ero pronto a certe rinunce:
il volto delle donne, il profumo del cibo,
il fruscio della pagina di un libro,
calore vellutato del vino, alberi, prati,
rumori della risacca.
Tutte cose che lassù non c’erano.
Ecco perché tornai.

 

Che giornata

Cielo senza luci
e di morti colori;
rumori senza suono
vetrine che non sorridono
malinconie, grigiori.
Solo l’anima
abbozza una difesa:
una canzone di Marley
cantata in sordina:
…..immaginare i colori
il rosso, il verde, il rosa.
In una giornata cosi
è inutile anche suicidarsi:
non avrebbe lo sparo
l’eco trionfale del tuono
ma si spegnerebbe il rimbombo
come lo scatto stremato
di una molla di piombo.

 

Foibe

Fu in quei giorni senz’anima
laggiù, sul fondo
con il terrore
che dilagava come bora,
in quelle notti di luna
nata per altri sogni…
– quella luna  nemica
che additava all’assassino
la vittima senza difesa –
fu in quei giorni senz’anima,
con quei corpi
scaraventati come cose
nel fondo della tenebra,
che la pietà chiuse gli occhi
per non vedere
il cuore  malato dell’uomo.

 

Periplo di millennio

L’illusione dell’immortalità
della tua razza t’accompagnò
uomo, per un arco di storia
che  andava da Cromagnon ad Auschwitz.
Poi un giorno d’agosto
il privilegio della morte individuale
ti fu tolto: s’accesero diecimila soli
nel cielo di Hiroshima
e un vento di tenebra
raggelò l’ultima canzone
sulla bocca di mela dei bambini di Nagasaki.
Imparasti, quei giorni, che tutta una specie
poteva dissolversi come rugiada
sotto l’urto del lanciafiamme.
Questa ossessione della mano
che tutto azzera, che tutto cancella
sempre t’accompagnerà
perché sei sempre tu,
uomo del sasso e della fionda:
secoli di scienza e filosofia
non hanno placato
la tua sete di violenza,
figlia d’una ferocia senza rimorsi
e senza memoria, in questo
periplo di millennio che ha spento
tante illusioni.

Gianni Goberti  ferrarese di nascita, dopo gli studi all’Istituto d’Arte Dosso Dossi è entrato giovanissimo al Centro Ricerche della Montecatini dedicato al Premio Nobel Giulio Natta, dove rimase per 40 anni.
Negli anni 70 esce la sua prima pubblicazione di liriche “Stazione di Provincia”, Rebellato Ed.; successivamente ha pubblicato “Logica del caos”, Forum Quinta Generazione, “A due passi da Itaca”,edizioni Alba e “Fuga dal cielo”, Ed. Schifanoia. Nel 2008, esce la sua prima raccolta di racconti “La sera andavamo al Moka – Storie di ferraresi”, Edizioni Sivieri. Ha collaborato scrivendo 15 liriche sulle Stazioni della Via Crucis inserite nel libro “La Via Crucis fra storia, devozione e arte”, scritto dalla moglie Margherita Malfaccini, in uscita in libreria nell’aprile 2022.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

I soldati russi che si rifiutano di sparare al “nemico”.
Le testimonianze raccolte dal Movimento degli Obiettori di Coscienza della Russia

 

A cura della Redazione di Azione nonviolenta in rete

Continua il lavoro di raccolta di testimonianze e notizie da parte del Movimento degli Obiettori di Coscienza della Russia, coordinati da Elena Popova che sta tenendo un diario dall’inizio della guerra in Ucraina (nell’immagine in copertina, una pagina del diario pacifista di Elena Popova).
Intanto, mentre la guerra in Ucraina, i giovani dai 18 ai 27 anni che si oppongono alla coscrizione e alla guerra in Ucraina cercano di fuggire dalla Russia.

“Non mi sembra normale che nel 21° secolo una persona possa essere reclutata contro la sua volontà per servire l’esercito un anno intero. In questo momento i coscritti vengono mandati al fronte, e io sono categoricamente contro l’Operazione Speciale condotta dal mio paese”, ha affermato a un giornalista di Al Jazeera un giovane russo di 17 anni, usando ironicamente la terminologia approvata dallo Stato per la guerra.

Dal 24 febbraio, primo giorno di guerra contro l’Ucraina, migliaia di persone sono fuggite dalla Russia, e tra queste tanti giovani che temevano di essere arruolati contro la loro volontà e inviati al fronte, una eventualità possibile con l’applicazione della legge marziale. Inizialmente il Ministero della Difesa russo riferiva che solo i soldati professionisti stavano combattendo in Ucraina, ma ha dovuto ammettere l’impiego dei coscritti, uomini in buona salute tra i 18 e i 27 anni, fermati per un anno, pena pesanti multe e fino a due anni di reclusione. Gli studenti, i detenuti e i familiari di soldati uccisi sono esenti, mentre i padri single e chi si prende cura di familiari disabili possono posticipare il servizio.“Tanti ci chiedono come evitare il servizio militare”, ha riferito Elena  Popova, coordinatrice del Movimento degli obiettori di coscienza con sede in Russia. “Dall’inizio di questa guerra si è diffusa la paura. Paura di essere presi e gettati nel tritacarne. Sentono che la libertà individuale è sottoposta a un’immensa pressione. Così ora penso che sia particolarmente importante mostrare che esistono modi legali per sottrarsi alla leva, e che funzionano”. Secondo la costituzione russa, le persone le cui convinzioni religiose o personali sono incompatibili con il servizio militare, così come i membri di alcune minoranze etniche che vivono uno stile di vita tradizionale, sono autorizzate a svolgere un servizio civile alternativo (AGS) che può avere una durata quasi doppia rispetto al servizio militare, come avveniva in Italia con la legge del 1972. I requisiti per l’obiezione di coscienza sono definiti in modo vago e sottoposti al vaglio di una commissione militare. Dire semplicemente di essere pacifisti, per esempio, non è sufficiente, bisogna dimostrarlo.Di fatto il servizio civile riguarda una ristretta minoranza di persone, addetta a lavori apparentemente semplici (postino, spazzino, ma anche infermiere), e con meno diritti dei colleghi. Non mancano le esperienze positive. Grisha Rezvanov, 29 anni, ha svolto il servizio civile alternativo dal 2018 al 2020 come inserviente in una casa di cura vicino alla sua casa di San Pietroburgo. “Le condizioni erano eccellenti. C’erano boschi e natura nelle vicinanze, e le nonne ci offrivano dolci per aver aggiustato la TV”, ha detto. “All’inizio ero un po’ a disagio, dato che molti degli anziani erano ex veterani militari. L’ importante per me è che non mi sono dovuto addestrare per diventare un assassino “. Per la madre, però, Grisha è un disertore. Ha smesso di considerarlo suo figlio.“Non posso nemmeno immaginare di fare del male fisico a un altro essere umano”, ha dichiarato un altro ragazzo di 17 anni all’agenzia di stampa Al Jazeera, membro di una piccola confessione religiosa che adotta un codice etico rigoroso e intende svolgere servizio civile quando sarà il momento. “Se mi insultassero o facessero qualcosa di terribile ai miei cari, sarei arrabbiato o sconvolto, ma non potrei mai fare del male a chi li ha aggrediti. È fuori questione per me”.Scoraggiati dalla lunga trafila burocratica, ci sono giovani in Russia che ricorrono a tangenti, a falsi certificati medici, o alterano i documenti sulla frequenza universitaria. Altri ancora preferiscono lasciare il paese fino ai 28 anni, termine dell’età prevista per il servizio civile obbligatorio, o avviare un minuetto di richieste e rinunce verso la commissione esaminatrice sperando di raggiungere i 28 anni.Tutto questo vale in tempo di pace. Lasciare il paese adesso, per non imbracciare le armi, non è così semplice. Né far comprendere al paese accogliente la propria posizione di coscienza.

Questo documento, tradotto da Azione Nonviolenta, raccoglie le prove raccolte dal Movimento degli Obiettori di coscienza della Russia sui rifiuto dei soldati di combattere la guerra in Ucraina. È lungi dall’essere esaustivo, ma un elenco, in continuo aggiornamento, di quella piccola parte dei casi che sono giunti all’attenzione dei media. Molti militari infatti, specialmente i coscritti, oggetto di coercizione e violenza, hanno paura di dichiarare apertamente la loro indisponibilità a combattere.

Testimonianze e notizie sui soldati russi che rifiutano di combattere in Ucraina
[qui Il documento in russo e in inglese]

  • Il giornale ucraino Grati ha riferito di almeno 80 marines che hanno rifiutato di partecipare alla guerra in Ucraina. Dopo essere stati portati in nave dalla Crimea alla regione ucraina di Kherson, hanno capito che ciò che li aspettava non erano esercitazioni, ma azioni militari contro le truppe ucraine. Il giornale lo ha appreso da una fonte nelle agenzie del ministero della Difesa russo in Crimea. Tra coloro che hanno rifiutato c’erano coscritti che avevano servito non più di qualche mese. I militari sono stati poi riportati in Crimea, dove hanno scritto rapporti sul loro rifiuto di partecipare alle azioni militari. Nonostante ciò, i militari a contratto sarebbero stati costretti a prendere parte alla guerra. L’ufficio del procuratore militare stava costringendo i coscritti a ritirare il rapporto, minacciando di avviare un procedimento penale. La pressione è cessata dopo il discorso di Vladimir Putin del 5 marzo, dove ha dichiarato che la partecipazione dei coscritti alla guerra non era prevista e che quelli di loro coinvolti in operazioni di combattimento sarebbero stati ritirati dall’Ucraina (Grati, 12 marzo).
  • Il 25 febbraio, a diversi combattenti della Rosgvardiya di Krasnodar, che erano alle esercitazioni militari in Crimea, è stato ordinato di partire per le azioni militari in Ucraina, ma si sono rifiutati di farlo. Si tratta del comandante del plotone della compagnia operativa OMON [unità di Rosgavrdiya] ‘Plastun’ Farid Chitav e dei soldati della sua compagnia. Hanno spiegato che consideravano l’ordine di attraversare il confine con un altro stato illegale, poiché la loro autorità era limitata al territorio della Federazione Russa. Il primo marzo, hanno appreso che il loro contratto era stato rescisso a causa del mancato rispetto dell’ordine. I 12 combattenti licenziati (solo una frazione di tutti quelli che avevano rifiutato di combattere) hanno deciso di andare in tribunale. Il loro caso è condotto dall’avvocato Mikhail Benyash. Pavel Chikov, un avvocato del gruppo internazionale per i diritti umani Agora, ha richiamato l’attenzione sull’incidente (Meduza, 24 marzo / 26 marzo). Secondo Benyash, dopo che la storia è stata resa pubblica, più di un migliaio di militari della Rosgvardiya e delle unità del Ministero della Difesa in tutto il paese si sono appellati a lui per aiutarli a rifiutare legalmente di prendere parte alla guerra (FT, 1 aprile). Nove dei 12 combattenti di Rosgvardiya hanno poi ritirato la causa (Mediazona, 29 marzo).
    “Voglio che altri combattenti sappiano che rifiutarsi di uccidere non è un crimine. Non è vergognoso. È normale. Se una persona dice ‘no’ a un ordine che la costringe a uccidere, può contare sulla nostra protezione. Gli avvocati dell’Agora e io gliela forniremo” (avvocato Mikhail Benyash)
  • Meduza ha raccontato la storia del militare a contratto Albert Sakhibgareyev, che aveva disertato dalla guerra. All’inizio di febbraio la sua brigata fu inviata a un’esercitazione nella regione di Belgorod [della Russia], al confine con l’Ucraina. Il 24 febbraio, la brigata ha ricevuto l’ordine di sparare su obiettivi, che erano sconosciuti ai soldati, dal territorio della regione di Belgorod.
    Quando è diventato chiaro che c’era un fuoco di ritorno, i soldati hanno iniziato a dubitare di essere davvero in un’esercitazione militare. Sakhibgareev e i suoi compagni di servizio sono rimasti “scioccati” quando hanno scoperto l’inizio dell’invasione dell’Ucraina nei notiziari. Secondo le sue stesse parole, ha lasciato l’unità dopo essere stato picchiato da un ufficiale superiore (Meduza, 23 marzo)
  • Diversi militari a contratto della base della quarta guardia nell’autoproclamata Repubblica dell’Ossezia del Sud hanno rifiutato di combattere in Ucraina e sono tornati a casa da soli. Secondo Mediazona, i soldati hanno avuto un conflitto con il loro comandante, che ha rifiutato di prendere e mandare a casa il corpo del loro soldato ucciso (Mediazona, 31 marzo).
    “Da quanto ho capito, il problema è sorto quando uno dei soldati è saltato in aria su una mina e loro [i soldati] volevano prendere il suo corpo per mandarlo a casa. È che per noi Osseti il corpo di un amico morto è sacro, ma il loro capo ha detto loro: di quale corpo state parlando, gli manderemo solo una bara vuota. Hanno detto: ‘Siamo guerrieri, non siamo vigliacchi, ma mandarci in guerra per essere uccisi e poi non portare via il nostro corpo – diavolo, questo non ci serve’. Così se ne sono andati. E ieri sono tornati in Ossezia del Sud” (fonte Mediazona).
  • Secondo il giornalista Roman Tsimbalyuk, 58 militari a contratto della regione di Kaliningrad [della Russia] hanno rifiutato di partecipare alla guerra in Ucraina. Erano arrivati nella regione di Belgorod, da dove avrebbero dovuto essere trasferiti nella zona di guerra. Lì sono riusciti a parlare con i soldati di un’altra divisione che erano appena tornati da lì, dopo di che si sono rifiutati di andare oltre. Non ci sono altre fonti che confermino questa informazione (Sever.Realii, 29 marzo).
  • Secondo Novy Fokus, 11 combattenti OMON della Repubblica di Khakassia [una regione della Russia] hanno rifiutato di partecipare alle azioni militari. Secondo i giornalisti del giornale, poco dopo l’inizio dell’invasione, i combattenti erano in un campo di combattimento in Bielorussia, dove hanno saputo della distruzione di una colonna di membri del SOBR [unità di Rosgvardiya] dalla Khakassia e dalla regione di Kemerovo, che era in viaggio verso Kyiv, da parte dell’esercito ucraino. La leadership militare avrebbe proibito ai sopravvissuti di raccontare l’incidente alle loro famiglie. I combattenti OMON che si erano rifiutati di combattere dopo queste notizie sono stati rimandati a casa e “hanno cercato di essere licenziati” (Meduza, 4 aprile).
  • Secondo Pskovskaya Guberniya, circa 60 militari della regione di Pskov hanno rifiutato di andare a combattere in Ucraina. Sono stati portati in Bielorussia nei primi giorni di guerra e poi sono tornati a casa. L’outlet riferisce che la maggior parte di loro è stata licenziata e alcuni sono minacciati di accuse penali (Pskovskaya Guberniya, 6 aprile).
  • L’avvocato Maxim Grebenyuk, autore del gruppo Ombudsman militare in VK [un social network russo], ha detto a Mediazona che ha ricevuto circa 40 appelli dai dipendenti di varie unità con richieste di assistenza legale per rifiutare di partecipare alle operazioni militari. Per esempio, uno dei richiedenti che aveva lavorato nella zona di combattimento come autista, ha detto nel suo rapporto che pochi giorni prima della guerra era stato mandato in viaggio d’affari “per svolgere compiti speciali”, era finito sotto il fuoco, “ha visto perdite di attrezzature militari e di personale” e “ha concluso che il personale è stato mandato in prima linea nelle operazioni di combattimento per affrontare la morte imminente” e in questo contesto ha considerato la sua partecipazione “non conveniente” e “non vuole tornare dopo la ritirata in prima linea”.
  • Secondo le informazioni che Grebenyuk riceve dai suoi conoscenti, nelle procure e negli uffici degli inquirenti delle regioni confinanti con l’Ucraina ci sono molti rapporti sui rifiuti, e non si fa nulla per questi ordini. Dall’inizio della guerra, non un solo caso penale è stato archiviato ai sensi dell’articolo 332 del codice penale per “mancata esecuzione di un ordine che [il rifiuto] ha causato un danno sostanziale agli interessi del servizio”. La ragione è che la Russia non ha formalmente dichiarato guerra all’Ucraina e non ha introdotto la legge marziale, quindi non ci sono ordini per la partecipazione di militari nel territorio di un altro stato. I combattenti e i militari della Rosgvardiya vengono semplicemente licenziati per persistente rifiuto. In un’unità, più di 500 combattenti della Rosgvardiya si sarebbero rifiutati di andare in guerra, e i loro comandanti li hanno minacciati con ordini di licenziamento (Mediazona, 6 aprile).
    “I procuratori e gli investigatori non sanno cosa fare con loro [i rapporti sui rifiuti]. È impossibile avviare un caso, è anche impossibile non inviare il materiale da nessuna parte, quindi non fanno nulla. Partecipano solo all’intimidazione dei militari: se non vai, apriremo un caso” (avvocato Maksim Grebenyuk)
  • Gli attivisti dei diritti umani riportano un caso in cui un coscritto in servizio in una delle regioni al confine con l’Ucraina è riuscito a rifiutare di partecipare alle azioni militari. Ha presentato un rapporto affermando che non poteva partecipare alla ”Operazione Speciale” a causa della sua “coscienza”, cioè delle sue convinzioni religiose, e la sua famiglia ha fatto appello al ministero della Difesa e ad altri funzionari su questo problema. L’unità gli ha promesso di non inviarlo alle operazioni di combattimento. Non riportiamo l’identità del coscritto né le fonti di informazione sul caso per motivi di sicurezza.

Tutti i testi sono tratti dalla rivista degli amici di Azione noviolenta in rete

VITE DI CARTA /
Margherita Datini, una donna del Medioevo

 

Una vita di carta quella di Margherita Bandini [Qui], moglie del mercante pratese Francesco Datini [Qui] negli anni che vanno dal 1376 alla morte di lui avvenuta nel 1410. Viene a proposito per accompagnare il nuovo titolo di questa rubrica di indizi letterari e terrestri che passa da Di mercoledì a, per l’appunto, Vite di carta.

Ho conosciuto la storia di Margherita andando a visitare giorni fa la sua casa nel centro di Prato, in quello stesso imponente palazzo di proprietà del Datini che ospita L’Archivio di Stato. Nel palazzo ella ebbe casa e  bottega, dal momento che negli anni assunse, oltre alla conduzione della dimora di famiglia, anche un ruolo di primo piano nella gestione dei traffici commerciali del marito.

La sua vita viene restituita ai visitatori con una doppia esposizione, quella museale contenuta nella abitazione che fu dei due sposi, della figlia di lui Ginevra e della servitù. E quella in mostra temporanea nell’altra ala del palazzo presso l’Archivio, con il titolo accattivante di Paper in Motion. Il mondo di carta del mercante di Prato:

oltre un centinaio di documenti esposti nella sala delle conferenze scritti in italiano, latino, ebraico, arabo, olandese e in altre lingue ancora, a testimonianza degli ampi scambi finanziari e commerciali dell’azienda di Francesco tra il tardo XIV secolo e gli inizi del XV, nei paesi dell’Europa occidentale fino alle coste di Egitto e Inghilterra.

Che donna particolare fu Margherita. Andata sposa a soli sedici anni a un uomo di molti anni più vecchio di lei, secondo il costume dell’epoca, seppe affiancarlo non solo nelle vicende della vita familiare, ma si applicò per imparare a scrivere e coadiuvarlo nella attività mercantile, tra le più affermate del basso Medioevo.

Il Fondo Datini è sicuramente il più noto tra i fondi conservati nell’Archivio e presenta una ricchezza straordinaria di documenti sul sistema aziendale costruito da Francesco, con 8 filiali o fondaci  in città italiane ed europee e con una rete dicevamo più che europea di rapporti commerciali ed epistolari.

Nella sala conferenze dell’Archivio si può ammirare la scelta di documenti scritti a cui ho fatto cenno, tuttavia l’intero patrimonio documentario del Fondo, con i suoi libri contabili e le circa 150.000 lettere sia commerciali che private, costituisce il più importante archivio mercantile al mondo.

Sopra ogni altra in quella sala mi ha parlato la voce di Margherita. Prima attraverso gli esercizi a cui si è applicata per imparare la scrittura: il foglio su cui sono tracciati è pieno di parole sovrapposte o cancellate, e la mano che scrive è impacciata.

Poi col documento successivo, un foglio pieno zeppo di scrittura ordinata e regolare, che mostra quanto Margherita abbia appreso a scrivere speditamente. Il marito, che è spesso lontano per seguire i suoi traffici, le ha chiesto di gestire gli affari a Prato.

E allora le lettere che gli arrivano da lei, numerosissime, lo ragguagliano di tutto un mondo familiare e cittadino, non solo rispetto ai traffici di merci di ogni tipo, ma sulle consuetudini della casa di Prato e di quella a Firenze, la alimentazione e ogni altro aspetto della vita urbana che possa entrare nelle mura del palazzo.

Palazzo Datini Prato
Palazzo Datini – Prato

In una lettera, esposta nella loro casa in una sala del piano terreno, Margherita dà spazio alla loro vita privata, esprime per il marito lontano tutte le premure che riguardano la sua salute e il buon esito degli affari.

Se le esigenze del marito hanno allontanato lei dal cliché della donna medievale che resta chiusa tra le mura domestiche a occuparsi solo della famiglia, altrettanta influenza hanno avuto sulle fortune di Francesco le doti relazionali con cui la moglie rafforza amicizie e alleanze con i soci e gli alleati politici. Esprime anche le sue critiche sulla organizzazione del lavoro che ritiene troppo accentrata e gravosa, suggerendo a Francesco di delegare alcuni compiti agli impiegati.

Soprattutto la sterilità di Margherita cambia il corso delle loro vite. Le tracce di carta lasciate da Francesco, ovvero le lettere che ha inviato agli amici, parlano della tristezza e della delusione che prova per la mancanza di un erede maschio. Lui quarantenne l’ha sposata quando lei aveva sedici anni e per questo poteva aspettarsi una prole numerosa, o almeno il figlio maschio che avrebbe ereditato la sua impresa.

Ma i bambini non arrivano. Francesco ha relazioni e figli con altre donne, alcune sono schiave della casa, ma dei cinque figli che gli nascono sopravvive la sola Ginevra. Margherita impara a voler bene alla bambina, che cresce con lei e il padre nella loro casa, rivelando un temperamento generoso e attento alle necessità dei figli altrui.

Come avviene nel momento in cui Francesco stila il proprio testamento e ne ascolta i consigli: lascia infatti la sua eredità ai poveri, per metà all’Opera del Ceppo di Prato e per l’altra metà allo Spedale di Santa Maria Nuova di Firenze. Il  nome della moglie compare molte volte nelle volontà testamentarie, come segno della “grande fidanza” riposta in lei e della riconoscenza per avere supportato i traffici commerciali di famiglia.

Che donna, dicevo, è stata Margherita. Mentre mi raggiunge la figura di un’altra moglie famosa per la sua sterilità, monna Lucrezia sposa di messer Nicia Calfucci nella Firenze dell’inizio Cinquecento.

Siamo dentro le pagine della commedia più bella del nostro Rinascimento, La mandragola, pertanto Lucrezia è un personaggio di carta, essendo uscita dalla penna di Niccolò Machiavelli [Qui] e avendo lasciato il segno nella storia letteraria, ovvero nel nostro immaginario.

La beffa ordita ai danni di messer Nicia da Callimaco, perdutamente innamorato di lei, prevede che Lucrezia beva una miracolosa pozione a base di mandragola che la renderà fertile. Come si sa, il primo uomo che giacerà con lei potrebbe morirne e allora è Callimaco a entrare nel letto della donna sotto mentite spoglie, nel ruolo di capro espiatorio.

Non intendo ora mettere a confronto la parabola intera delle vite di Margherita e Lucrezia, la prima ricostruibile su documenti d’archivio, la seconda uscita dalla creatività del suo autore.

Me le ha fatte avvicinare il dettaglio della cura contro la sterilità, poiché a entrambe la sapienza medica del tardo Medioevo, come quella del Cinquecento, consiglia di fare bagni termali.

A Francesco gli amici scrivono anche di lasciare Avignone e tornare in Toscana, la cui aria salubre può giovare alla fertilità della moglie.

Resta il fatto che, dalla immersione nelle pagine di carta che di loro ci restano, si potrebbe uscire con la parabola delle loro vite in pugno. Per pensarci su, valutare il corso degli eventi, assumere modelli di vita da riportare al presente e magari considerare più accettabile, sicuramente arricchito, il nostro. Sono vite di carta. Sono vite.

In copertina: Lettera di Margherita Bandini a Francesco Datini, 12 settembre 1402 (su licenza commons wikimedia.org)

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

TERZO TEMPO
Le vite di Paul Canoville, primo giocatore nero del Chelsea

È la sera del 12 aprile 1982, e il giovanissimo Paul Canoville non vede l’ora che il suo esordio tra i professionisti finisca. L’ala originaria di Southall non ha paura di commettere qualche errore o di non essere all’altezza del derby londinese contro il Crystal Palace: è il primo giocatore nero a vestire la maglia del Chelsea, e al suo ingresso in campo è stato accolto da entrambe le tifoserie con insulti e cori razzisti.

Canoville ha preso il posto di Clive Walker – autore del gol decisivo di quel derby, nonché idolo della tifoseria del Chelsea – e già dai primi passi sul prato di Selhurst Park è stato pervaso da un’angoscia apparentemente insormontabile, alla quale purtroppo dovrà abituarsi negli anni a venire. Insomma, quei pochi minuti diventano l’ennesimo ostacolo di una vita già complicata: del resto, a soli vent’anni Paul Canoville ha già vissuto un’infanzia instabile – i suoi genitori si sono separati poco dopo la sua nascita – e un’adolescenza a dir poco alienante, durante la quale si è ritrovato più volte a dormire in strada.
Come se non bastasse, una scivolata dell’attaccante del Sunderland Dave Swindlehurst gli causerà, nell’autunno del 1986, un po’ di problemi al ginocchio destro: dislocazione della rotula, lesione della cartilagine e rottura del legamento crociato anteriore. Un anno più tardi, gli strascichi di quell’intervento lo costringeranno addirittura a ritirarsi dal calcio professionistico

Il periodo susseguente al ritiro sarà altrettanto problematico: nel 1991 diventa dipendente dal crack, e ciò porrà fine anzitempo alla sua breve carriera da DJ; nel 1996 e nel 2004 intraprende un percorso di disintossicazione in cliniche specializzate, e in entrambi i casi gli verrà diagnosticato un tumore del sistema linfatico, ossia un linfoma non Hodgkin. Una volta guarito, Paul Canoville darà una svolta alla sua vita a partire dal 2005.

Infatti, da circa sedici anni l’ex giocatore inglese mette a disposizione degli altri, e soprattutto dei più giovani, le sue esperienze: mentre la Paul Canoville Foundation intende aiutare gli adolescenti e i bambini in difficoltà con degli incontri motivazionali, lo stesso Canoville è solito supportare i centri di accoglienza per senzatetto di Londra, com’è accaduto in occasione delle prime due edizioni dell’evento benefico Stamford Bridge Sleep Out, organizzato in collaborazione col Chelsea [Qui]

Nella sua autobiografia del 2008 Paul Canoville dice che le suddette avversità lo hanno reso più fragile, ma anche più consapevole delle sue emozioni. Tuttavia, vuoi per la giovane età o per l’importanza dell’esordio, quei pochi minuti sul prato di Selhurst Park lo hanno scosso più di ogni altra esperienza, al punto che l’ex centrocampista del Chelsea ha cercato, invano, di rimuoverli. Il fatto che non ci sia riuscito è, nel bene e nel male, una fotografia della condizione umana: il passato si può nascondere, ma non dimenticare.

“Quando mi guardo indietro, una parte di me vorrebbe dimenticare quei primi giorni al Chelsea, ma non ci riesco. Le mie esperienze mi hanno condizionato, mi hanno cambiato, e ci ripenso ogni giorno. Ci sono domande che non trovano mai risposte nella mia testa. Perché è successo a me? Perché ho reagito in quel modo? Ci sono stati degli insegnamenti che non ho colto lungo il percorso? Perché ho fatto sempre la scelta sbagliata? Dimenticare non è un’opzione.”

Cover: foto di Chelsea FC

FERRARA : 9 Aprile-26 Giugno
Mostra fotografica di Luca Zampini

TRAME SOSPESE  alberi …la magia di un incontro

20 stampe fine art in medie e grandi dimensioni attraverso le quali Luca Zampini ci mostra l’anima degli alberi che immortala. Immagini poetiche, di movimenti sospesi, che avvolgono dolcemente l’osservatore facendolo diventare un unicum con loro.

 

Ferrara, dal 9 aprile al 26 giugno 2022  
 
Hotel de Prati – Via Padiglioni 5, FE      Tel 0532 241905

tutti i pomeriggi dalle ore 15 alle ore 20, ingresso gratuito
Per visite con l’autore:  +39 333 9746014

Trittico.jpg

 Il progetto HUGS – The Tree Calling   ABBRACCI – Il richiamo degli alberi
La mostra gode del patrocinio del Comune di Ferrara, del Garden Club Ferrara e  della FIAF (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche)

Una vergogna di livello universitario:
una studentessa russa scrive all’Alma Mater Studiorum

 

Una brutta storia. Bruttissima.
Chi sperava che almeno gli atenei italiani, i luoghi della cultura per eccellenza, fossero indenni dal furore atlantista di Draghi, dalla propaganda a reti unificate che santifica Zelens’kyj (da 3 anni presidente molto poco “democratico” e da un mese “martire della democrazia”), dalla fobia antirussa che sta montando nel Paese, che incolpa qualsiasi povero diavolo con passaporto russo di essere anche lui un dittatore sanguinario come Vladimir Putin. Chi pensava che la tragicomica censura di Dostoevskij al Politecnico fosse solo un piccolo equivoco o una grande gaffe, deve purtroppo ricredersi.

E’ una brutta storia. Che va raccontata dall’inizio.

La tragedia ucraina sembra non finire mai. Migliaia di morti, molti civili, tanti bambini. Almeno 80.000, secondo gli ultimi dati del Viminale, i profughi ucraini arrivati nel nostro Paese. Poi, e a volte ce ne dimentichiamo, c’è chi in Italia già ci stava – per lavorare o per studiare – prima dell’invasione russa. Sono parecchie migliaia in Italia le badanti dell’Est Europa. E sono migliaia gli studenti che frequentano le nostre università: studenti, e soprattutto studentesse, ucraine, russe, bielorusse, moldave, georgiane…

In tutte le città universitarie italiane, gli studenti dei Paesi in guerra si sono riuniti in assemblea. Tra di loro nessun contrasto, molti i legami di amicizia e di parentela, tutti egualmente vittime di una guerra insensata e fratricida. E tutti con i medesimi problemi di sopravvivenza.
Dalla Russia, grazie al boicottaggio generalizzato (e insensato), da più di un mese nessuno può ricevere un rublo: carte di credito e conti correnti bloccati. E vale per tutti, anche se non sei un oligarca o il cugino di Putin.

alma mater studiorum università bologna

Ma torniamo alle ragazze russe, bielorusse e ucraine. A Bologna sono almeno trecento. L’assemblea si tiene il18 marzo: discutono e insieme decidono di chiedere un incontro urgente al rettore dell’Ateneo per esporre i loro pressanti problemi e chiedere un aiuto alla università che frequentano. La prorettrice le riceve, ma separatamente: prima il gruppo delle studentesse ucraine, poi le studentesse russe. Alle prime, ucraine, esprime la vicinanza e la solidarietà di tutto l’Ateneo Bolognese. Promette la pronta istituzione di Borse di studio a loro dedicate e la sospensione dell’obbligo di pagamento delle rate universitarie.
Infine (gesto assai generoso) l’università è disposta a prestare ad ognuna di loro 3.000 euro. Un prestito senza interessi, da restituire “con comodo”.

Quando è il turno del gruppo numeroso delle studentesse russe e bielorusse, una si loro interviene dicendo che la loro situazione è disperata, “come essere in pandemia”. “No – risponde la Prorettrice, –  la pandemia è provocata da un virus, mentre qui c’è uno Stato che bombarda un altro Stato”. Ma chi sta bombardando?  Sono gli studenti russi fuori sede? Fatto sta che l’università più antica e più famosa del mondo, l’Ateneo di Bologna non ha da offrire nessun aiuto, nessun sussidio, nessun prestito agli studenti russi.
Forse, chissà, in futuro: “Leggeremo le vostre lettere, vedremo, valuteremo, vi risponderemo…”. E’ passato quasi un mese dal 18 marzo e l’Università di Bologna non ha dato nessuna risposta. Che sia un problema burocratico? Avranno chiesto un parere sul da farsi al Presidente del Consiglio Draghi?  

Non so come definire una scena (e una scelta) tanto surreale, quanto vergognosa. Un copione che si è ripetuto, con qualche variante, in diverse città e università italiane. Lascio il commento a Veronika, una giornalista russa di 32anni che frequenta l’Ateneo Bolognese per prendere una seconda laurea in Cinema.
Quella che leggete di seguito è la lettera che Veronica ha inviato per mail al Rettorato, appena dopo quell’incredibile incontro. Una lettera che assomiglia a una Lectio Magistralis.

” L’università è un luogo libero da pregiudizi di ogni genere; la dimora permanente del genio umano, garante e portavoce dei diritti e delle libertà civili. Dalla sua fondazione nella costituzione dell’Università di Bologna, con la cd ‘Authentica Habita’ (1158) [qui], sono stati stabiliti i diritti degli studenti fuori sede; fu proclamato il principio dell’indipendenza da ogni altro potere, e per secoli numerose associazioni di università difesero gli interessi degli studenti di tutto il mondo. Ancora oggi nella città universitaria giungono persone di diverse nazionalità, costituendo la maggior parte del totale degli studenti. Una volta anche noi abbiamo deciso di entrare a far parte di questa comunità, perché sapevamo per certo che qui tutti sono uguali.

Tuttavia, c’è un grande divario tra il “noi” di oggi e il “noi” di un mese fa, perché il 23 febbraio uno studente dell’Europa orientale era come un altro. In un istante, questa guerra criminale ha reso emarginati i cittadini bielorussi e russi, e li ha posti di fronte a un scelta: sopravvivere o andarsene. E sembra solo ieri quando hanno cantato con fervore Gaudemus Igitur, con questi versi: ‘Pereant dolores! Pereat Diabolus, Quivis antiburschius Atque Irrisores!’

Ma chi avrebbe mai immaginato che avremmo dovuto affrontare tali dolori? Sono disagi di un ordine diverso, non ovvi a prima vista, ma non meno insidiosi dei razzi sopra la testa: quando nessuno annuncia un allarme, ma la paura diventa la nostra più devota compagna.

Sappiamo che il nostro nemico comune è la guerra, ma non sappiamo chi siano i nostri amici.

Il 18 marzo si è svolto un dialogo con i rappresentanti dell’amministrazione universitaria, dove ogni studente russo e bielorusso ha potuto parlare delle nuove realtà della vita: carte bancarie bloccate, impossibilità di pagare l’affitto di casa, le utenze e persino il cibo; ottenere un lavoro part-time o volare verso casa! Siamo stati estremamente grati per la franchezza e l’opportunità di essere ascoltati, ma, purtroppo, dobbiamo affermare che non abbiamo visto un reale interesse per il nostro destino futuro.

Ogni nuovo giorno in uno stato di incertezza e nell’eloquente silenzio dei funzionari, fa dubitare dell’immutabilità di un principio, così fondamentale di qualsiasi comunità universitaria come la parità dei diritti (articolo 1 e articolo 10 della Carta dei diritti degli studenti), quindi lo consideriamo un nostro dovere di denunciare apertamente questo fatto e descriverlo come discriminazione etnica. Siamo inoltre convinti che, come contribuenti, abbiamo subito una violazione diretta delle nostre libertà economiche garantite dalla Costituzione della Repubblica Italiana (articolo 3). La situazione è tale che non solo il processo educativo è minacciato, ma anche i bisogni fondamentali dell’individuo e prima di tutto la sicurezza dell’esistenza.

Tuttavia, abbiamo molti esempi positivi di sostegno e vari tipi di istituti di istruzione superiore in Austria, Germania, Francia e altri indipendentemente dalla cittadinanza. La leadership di queste università ha dimostrato un impegno per i principi del pluralismo e la volontà di assumersi responsabilità in un ambiente politico turbolento. Nel 2021, grazie agli sforzi legali dell’Università di Bologna e la partecipazione attiva di migliaia di studenti premurosi, è stato raggiunto quasi l’impossibile: ottenere la liberazione di Patrick Zaki da un carcere egiziano. È stato un vero trionfo di un’unica volontà, un’unica visione del mondo circostante. Oggi gli studenti bielorussi e russi sono diventati come Patrick: da un lato, i nostri passaporti ci hanno reso complici involontari dell’invasione militare, dall’altro, ostaggi della guerra ideologica ed economica scatenata contro milioni di nostri connazionali. Però, noi, persone pacifiche, sappiamo per certo che la nostra unica arma è la nostra voce e questa voce suonerà finché la giustizia non prevarrà! Finché gli studenti italiani continueranno a consolidare la società civile capace di resistere alla burocrazia e di opporsi al prolungamento della guerra da parte del proprio Parlamento, non tutto è perduto.

Sappiamo chi siamo e dove stiamo andando! Abbiamo dei diritti e li proteggeremo! Diciamo a tutti voi – siamo per la pace! “

(Veronika Floria)

A dieci anni dalla scomparsa di Antonio Tabucchi.
rileggere “Requiem” inseguendo fantasmi nella sua Lisbona.

 

La tradizione vuole che alcune resine, pietre o colori abbiano una funzione protettiva. Tra queste l’ambra.
Così mi è sembrato un segno della persistenza del ricordo il fatto che la copertina del libro di interviste di Antonio Tabucchi – appena uscito da Feltrinelli per ricordare i dieci anni dalla scomparsa dello scrittore (Zig-zag. Conversazioni con Carlos Gumpert e Anteos Chrysostomidis) – sia del giallo dei fiori del Telling Yellow di Longley (il grande poeta irlandese), del colore giallo della pirite, di un giallo che assomiglia allo sfondo della ex-cava di San Frediano (a Vecchiano, il suo paese).

al suo giubbotto, perfino alle lenti degli occhiali che porta nello scatto di Elisabetta Catalano che lo ritrae, sulla quarta di copertina, concentrato, pensoso e sorridente. Come in movimento, verso qualcosa o qualcuno. Con una parvenza di reale che basta a muovere e a nutrire la saudade, la “parola indecifrabile” della nostalgia (come l’ha definita in Di tutto resta un poco: la sua ultima, splendida raccolta di saggi), una nostalgia da cui ci si libera solo se si riesce ad ammazzarla, a matarla.

Distraendoci magari, per immergerci nella lettura di Zig-zag, seguendo, tra botta e risposta (da intervistatore a intervistato e viceversa), la biografia, l’opera, le passioni, le amicizie, le idiosincrasie dell’ultimo grande narratore italiano. Scegliendo poi di ripercorrere, accanto a questo volume in parte firmato anche da altri, almeno uno dei testi più significativi della sua bibliografia che, intrecciato a quasi tutto quello che ha scritto, fa sfilare personaggi ricorrenti e ossessioni e aiuta a capire cosa lo abbia indotto a scrivere in portoghese Requiem, uno dei romanzi più belli, imprevedibili e complessi del nostro Novecento. Un romanzo (o una serie di racconti?) estremamente difficile da raccontare, a meno che non lo si semplifichi parlando di 24 ore di vagabondaggio allucinato, nelle quali un io narrante passa per luoghi e personaggi cercando, per ritrovare se stesso, di risolvere antichi misteri.

La storia inizia sotto un gelso in un mezzogiorno che schiaccia le ombre sul molo di Alcântara; prosegue   con incontri impossibili, nei sogni e in un cimitero, in una soffocante ultima domenica di luglio, a Lisbona. I capitoli/sezioni sono nove, proprio come nelle messe funebri, e servono a scandire le tappe di un requiem che dovrebbe pacificare rimorsi e placare fantasmi. Ci troviamo dentro una giornata di allucinazioni visive e uditive (nate a partire dalla lettura del Libro dell’Inquietudine), una giornata nella quale, dopo un incontro mancato con un grande poeta (Pessoa, ormai scomparso da tempo), il protagonista (una sorta di doppio dell’autore: già che è italiano, della sua stessa altezza, con occhi azzurri e capelli castani) intreccia dialoghi incongrui con strani personaggi per lo più senza nome, spesso usciti da libri, che appaiono e scompaiono con pari rapidità. E che ci lasciano sempre con domande irrisolte.

Perché, ad esempio, tra i tanti nomi possibili, menzionare al ragazzo drogato, assieme a Mozart (non a caso autore della Lacrimosa), proprio un musicista come Erik Satie, dato che non gli era stato ancora dedicato un requiem? Tabucchi si sarebbe divertito a sapere che vi avrebbe provveduto dopo il suo libro un musicista tedesco, ma non se ne sarebbe stupito, visto che come Pasolini pensava che la letteratura potesse sfiorare la profezia. E ancora, perché chiamare lo Zoppo della Lotteria Pereira de Melo, come un politico portoghese dell’Ottocento, o far lavorare la cameriera della pensione Isadora alla Praça da Alegria, usando nomi e luoghi che torneranno in Sostiene Pereira? Perché la prima destinazione incredibilmente sconosciuta al tassista che viene da São Tomé (località sospetta, dal nome dell’apostolo dell’incredulità e del dubbio) è la Rua das Pedras Negras (che per essere un toponimo assoluto è nota a tutti) mentre la seconda, da lui suggerita, è l’antifrastico Cimitero dos Prazeres (già che è difficile l’accoppiata di piaceri e di cimitero)? Delle soste nel Chado non ci stupiamo, e neppure dello champagne francese (Laurent-Perrier o Veuve Cliquot, a cui ci ha abituato la narrativa tabucchiana), né del percorso per vie che, oltre che alla meta prevista, portano in altra atmosfera con improvvisi squarci d’infanzia.

Quanto alle magliette Lacoste autenticabili con l’autocollante, è evidente l’allusione all’impercettibile differenza che esiste tra falso e vero, mentre, sempre a proposito di scelte binarie, una Vecchia Zingara segnala il rischio che comporta il ‘vivere da due parti’, tra realtà e sogno, individuando la peculiarità di un destino che deve giungere, per via di tribolazioni, a una qualche purificazione.

Ecco allora che potremo leggere la sequenza degli incontri che troviamo nel libro come le soste di una sorta di anomala via crucis. Lungo il cui tracciato può succedere che si appoggi una bottiglia di champagne su una bara, e che si cerchi, grazie a un numero palindromo (il 4664 della Campata destra del dos Plazeres), un amico dal quale non si è riusciti in vita a sapere la verità (l’immancabile, inquietante, ricorrente scrittore polacco-portoghese Tadeus Waclaw Slowacki). L’obiettivo è riuscire a interrogarlo di nuovo per chiedere ragione della fine di Isabel (un altro dei personaggi ricorrenti, fin dai tempi di Notturno indiano). Ma il tutto non può avvenire che dentro il sogno di un sogno che, in totale anacronia, chiede al presente ragione del futuro e di un ultimo criptico messaggio ancora da ricevere (è stata tutta colpa dell’herpes zoster).

Tra un piatto di sarrabulho à la moda do Douro e chiacchere in osteria (ricette culinarie comprese), l’inconscio del protagonista, infine libero dal super-io che aveva censurato il passato, ripercorre colpe lontane seguendo le tracce di una donna la cui scomparsa nutre da sempre il rimorso.
E fa due incontri decisivi, quello con il Padre Giovane (revenant nei sogni e nella vita, che chiede al figlio come e quanto gli resterà da vivere) e quello con il Barman del Museo di Arte Antica di Lisbona, inventore di un long-drink, il Janelas Verdes’ Dream, fatto di ¾ di wodka, ¼ di succo di limone miscelato con piccole dosi di menta piperita.

Finirà poi per trovarsi dinanzi al Bosch delle Tentazioni di sant’Antonio, un quadro che, esposto in un ospedale per malattie della pelle, era stato ritenuto a lungo artefice di miracolose guarigioni. Gli capiterà di scoprire, parlando con un copista che dipinge su commissione gigantografie di particolari, che il nome scientifico del Fuoco di Sant’Antonio è proprio quell’herpes zoster (già nominato da Tadeus morente) che appare quando sono indebolite le difese dell’organismo e aggredisce con la subdola violenza del rimorso. Il rimorso che “un bel giorno si sveglia e ci attacca”, per poi tornare a dormire…, ma rimanendo “sempre dentro di noi”.

Ma perché mai non deve esserci “niente da fare contro il rimorso”? e il rimorso cos’è? Potrei dire – stando ai testi fin qui convocati – che è la pena per eccellenza a cui condanna ogni tipo di amore, dal momento che la stessa parola (“amo”), unisce il “voler bene” a un “uncino” che lacera e spinge continuamente verso il bisogno di sapere. È così che, in un discorso libero indiretto sempre più ricco di digressioni, segnali interrotti, sentieri intravisti e perduti, la storia “balorda” e “affatturata” che abbiamo seguito finora, e che continuamente ha cambiato prospettive e comparse, si riavvolge necessariamente su luoghi del passato: dal faro di Cascais che a un tratto rivela una stanza senza soffitto dalla quale si vede il cielo, alla Casa do Alentejo dove dal risultato di una scommessa a biliardo dipenderà il riapparire tanto atteso di una donna.

Centro storico di Lisbona, particolare

Ma poi all’improvviso tutto sparisce, e la ‘notte’ calda, lunga che abbiamo attraversato, si rivela per quello che è: un grande contenitore di storie, di racconti. Che, oltre agli obiettivi dichiarati, hanno soprattutto quello di far parlare il non detto, di porre quesiti e inquietare. Altrimenti perché mai l’ultimo interlocutore (l’indimenticabile Pessoa) dovrebbe essere designato come ‘il Convitato’, con una vaga allusione al giustiziere del Don Giovanni? Perché nel suo brindisi viene mescolata al Saudosismo e alla sua nostalgia (che ci fa trovare in una saudade elevata al quadrato), un’autodichiarazione di colpa e il suggerimento che ogni cosa che è stata citata, raccontata o detta, altro non è che luogo letterario?

Centro storico di Lisbona, particolare

Quintessenza insomma della finzione e al tempo stesso della verità, come i vini e i cibi di cui si parla incessantemente, e le usanze locali, i tic fisiognomici di un Portogallo ancora povero, chiuso nell’isolamento e nel rimpianto della passata grandezza. Luogo per eccellenza delle emozioni (il paese, così come il protagonista, i suoi deuteragonisti, lo stesso scrittore) se è vero che di tutto quello che ha a che fare con i sentimenti si può parlare solo mettendo la maschera, visto che “la verità suprema” è la finzione. D’altronde – citando Tabucchi traduttore – anche questo l’aveva detto Pessoa: “Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente”.

E allora sarà fatale tornare sul quarto capitolo di Requiem, che racconta dentro un romanzo, vestiti i panni della finzione, una storia più che verisimile finita anche nei tribunali della Repubblica. Una storia che già era stata in qualche modo adombrata negli Archivi di Macao (dentro i Volatili del Beato Angelico), e che continua a riproporsi, nella mescolanza di falso e vero, di nomi reali e pseudonimi, di spazi e tempi confusi e mutati fino al gesto di addio con il quale Tabucchi in Requiem prende congedo dal padre letterario (Pessoa), quasi per occultare l’addio dato dal suo personaggio al Padre Giovane a cui ha dovuto annunciare la morte, prestandogli poi un significativo gesto di congedo. Entro un rapporto che passa anche dall’alloglossia tra pa’ (padre, in dialetto pisano-lucchese) e (dal portoghese rapaz, ragazzo), e dalla possibilità, che solo la letteratura può offrire, di stabilire un ponte tra vivi e morti, sottraendo gli uni e gli altri dal buio.
letteratura

Come suggeriscono le parole di Montale (in Voce giunta con le folaghe: “eccoti fuor dal buio / che ti teneva, padre”) messe in esergo, assieme ai versi di Kavafis (“Immaginate voci amate / di coloro che sono morti […]. A volte ci parlano in sogno / a volte ci vibrano in petto”), alle pagine di un perturbante commento a Requiem raccolto dal nostro autore in Autobiografie altrui. Un altro libro da leggere se si vuole riuscire a interpretare, tramite le riflessioni sulla scrittura della voce, sul silenzio, sui sogni, sulla funzione evocatrice della scrittura, la ragione privata di un romanzo nato in portoghese a Parigi perché il padre gli si era presentato in sogno parlando una lingua a lui incognita.

Come dire che in definitiva, al di là di tutte le esterne, possibili voci che si rincorrono nel libro, quelle che contano davvero sono quelle che “parlano in noi” e in forma schermata, come rivela Un universo in una sillaba (questo il titolo del dotto, coinvolgente capitolo dedicato al romanzo del 1991), sono capaci di ripercorrere e/o far ripercorrere la vita accompagnando fino alla fresca brezza serale su cui Requiem si chiude.

Concludiamo allora pure noi lettori il libro, usandone le parole finali, che sillabano un “buonanotte”, o “meglio” un “addio”.

“A chi, o a che cosa?”. A dei personaggi e al loro autore, che, come avviene ne Las Meninas di Velázquez, ci ha lasciato un’opera la cui chiave è costantemente nascosta e sta nelle figure di fondo, nei giochi del rovescio, nelle domeniche di luglio (e in quelle di marzo), nella riflessione che porta – alla maniera del protagonista di Requiem – a reclinare “il capo all’indietro” per mettersi in silenzio “a guardare la luna”.

PRESTO DI MATTINA
I tre giorni santi

 

I tre giorni santi: i giorni di Agape

Sulla via di Emmaus
Si avvicinò a noi
Andavamo con la testa bassa
Senza nemmeno levare lo sguardo
Si mise al nostro passo
Di cosa parlavate così tristi?
Tu solo sei l’unico che non lo sa?
Gesù Cristo è morto in croce
Il corpo fu tre giorni nella terra
Ma Egli non è più là

Anche se risorto
Al compiersi dei tre giorni
Io sono il sepolcro incredulo
Che sempre lo racchiude
Io sono la santa tomba
Attendo il suo Regno
(Pierre Emmanuel [Qui], Évangéliaire, Ed. du Seuil, Paris 1961, 221; 94)

Seguiamo Agostino che nella lettera a Gennaro scrive: «Ora considera attentamente i tre giorni santi della crocifissione, della sepoltura e della risurrezione del Signore. Di questi tre misteri compiamo nella vita presente ciò di cui è simbolo la croce, mentre compiamo per mezzo della fede e della speranza ciò di cui è simbolo la sepoltura e la risurrezione…

Queste realtà spirituali vengono celebrate durante la ricorrenza anniversaria della Pasqua in base all’autorità delle Sacre Scritture e per consenso della Chiesa universale sparsa per tutto il mondo. Nelle Sacre Scritture dell’Antico Testamento non è prescritto il tempo per la celebrazione della Pasqua se non nel mese delle nuove spighe dalla decima quarta alla ventesima prima luna;

ma poiché dal Vangelo risulta chiaro in quali giorni il Signore fu crocifisso e rimase nel sepolcro e risorse, dai concili dei Padri fu aggiunta pure l’osservanza di quei giorni e tutto il mondo cristiano si persuase che la Pasqua deve essere celebrata in quel modo», (Lettera 55, 14 24; 15,27; anche Consenso degli Evangelisti, III, 24,66).

I «tre giorni santi», detti anche il triduo pasquale, sono dunque quelli compresi tra la morte e la risurrezione di Gesù: il venerdì, sabato e domenica. Il giovedì santo non appartiene propriamente al triduo, ma in qualche modo lo anticipa, così come la Cena di Gesù con i suoi discepoli anticipa la Passione; l’eucaristia in Coena Domini diviene così il segno, e il grande sacramento dei giorni Agape: quelli del suo amore per noi.

Per i cristiani, il Triduo pasquale è il centro e il cuore dell’anno liturgico. Qui si raccoglie e si testimonia tutta la vita di Gesù nel gesto supremo della dedizione di sé al Padre e a noi. I tre giorni santi sono i suoi giorni, quelli dell’Uios agapetos, del Figlio amato, il diletto, primogenito del Padre tra molti fratelli e sorelle.

Uios agapetos è l’attestazione pronunciata da Dio, sia in occasione del battesimo di Gesù all’inizio della sua missione, sia al momento della trasfigurazione sul monte Tabor prima della sua passione, quando Gesù si incammina verso Gerusalemme (Mc. 1,11; 9,7).

Agape è un vocabolo del greco popolare parlato nell’Egitto del II secolo a.C., che ritroviamo nelle sacre scritture sin dalla Bibbia dei Settanta [Qui], volto a esprimere che il Dio d’Israele e di Gesù è un ‘Dio pro nobis’, che fa grazia, un Dio di elezione, libero nell’amore.

Agape è l’amore che implica scelta, predilezione, una preservante volontà di amore. Un amore – come ci ricorda Paolo − generativo di speranza: «La speranza poi non delude, perché l’amore/agape di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).

L’etimologia dice pure “mirare a qualcosa”, vedere di buon occhio, essere proteso verso qualcuno o qualcosa. Così pure l’altro sostantivo agapan indica l’amore che si irradia da Dio, l’amore potente che solleva l’umile e lo innalza al di sopra degli altri per pura grazia. E ancora è dimostrazione di affetto, amore diffusivo, attivo nel rendere giustizia, che vuole il bene dell’altro.

È stato il domenicano padre Ceslas Spicq (1901-1992) [Qui] ad indagare con acribia e un paziente lavoro i contesti letterari del termine agape nella sua monumentale opera di quasi mille pagine: Agapè dans le Nouveau Testament: analyse des textes, 3 voll., (Études Bibliques), J. Gabalda et C. Éditeurs, Paris, 1959 1966.

In questo studio p. Spicq ha illustrato l’inimmaginabile e indicibile preferenza che lega Dio agli uomini, e gli uomini a Dio per giungere ad attestare nell’etimologia della parola agape il significato di un “incontro sorprendente”.

Se infatti si riferisce apape alla radice aga del verbo agamai, ‘ammirare, sorprendersi’, agape diventa ‘l’accoglienza, l’ospitalità smisurata’, in cui si dà e accade la sorpresa della gratuità di chi riceve uno straniero: l’altro nella forma di un amore. Agape dice la radicalità veramente totale dell’amore che non è giustificato da niente, ma trova solo in se stesso la ragione d’essere, la sua scelta, la sua predilezione, la sua opzione preferenziale nell’amore.

Agape diventa pure il nome della giustizia di Dio, che amandoci genera una vita nuova per il tramite di Cristo: una porta che ci fa passare dalla morte alla vita. Questa giustizia − ha scritto il teologo Pierangelo Sequeri [Qui] − consiste nella volontà di “far-essere nel voler bene”.

«Far-essere nel voler-bene appare una buona traduzione di agape. Essa definisce esattamente l’agape tou theou. La migliore teologia biblica insiste sull’inquadramento non puramente denotativo, ma simbolicamente connotativo, della “invenzione” lessicale che sceglie di nominare con agape la rivelazione cristiana dell’amore di Dio. E ciò in senso anzitutto soggettivo: l’amore che Dio ha (Paolo), l’amore che Dio è (Giovanni).

La scelta mette in onore un termine relativamente desueto nell’uso e non fortemente caratterizzato nel senso, soprattutto rispetto a quelli di eros e philia. Il termine ha una generica parentela con i significati di ospitalità, accoglienza, inclusione nella sfera degli affetti parentali e famigliari.

Ma il suo valore e la sua forza sono determinati dal contenuto di rivelazione, al quale il termine viene associato. Non è tanto un tipo di amore che si aggiunge alla serie delle forme umane dell’amore, quanto piuttosto una dimensione teologale dell’amore (come è l’amore in Dio)» (La fede e la giustizia degli affetti, Siena 2019, 292-293).

I giorni dell’agapetos: il figlio prediletto

Nessuno può attribuirsi l’onore di stare davanti agli uomini in nome di Dio e davanti a Dio in favore degli uomini. Tanto che nemmeno il Figlio amato si arrogò questo onore, come ci ricorda la Lettera agli Ebrei (5,5-9): «gliela conferì colui che gli disse: “Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato”. Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono».

‘Pieno abbandono’ traduce il greco eulebeia, che significa ‘prendere bene tutte le cose’. È la piena umanità, quella che ha pietà di tutti e tutte le cose, che ascolta nel profondo (ob-audio) e si abbandona all’altro con smisurata dedizione in suo favore in un perdersi che diverrà un ritrovarsi: proprio per questo fu a sua volta ascoltato/esaudito.

«Al centro dei tre giorni sta quel punto delicatissimo − scrive Giuseppe Ruggieri − dell’esperienza della morte di Cristo, non solo come morire (venerdì santo), ma come morte effettiva, stato di solidarietà con i morti dello sheol, dell’Ade e cioè come ‘discesa agli inferi’. Cristo fu solidale con i morti e sperimentò la ‘morte seconda’, quindi tutta la profondità e l’abisso di quella condizione nella quale viene a trovarsi, dopo la fine della propria esistenza, l’uomo».

Il senso della discesa agli inferi, di cui abbiamo un potentissima immagine nel Crocifisso del Carracci a Santa Francesca romana, è simbolo reale del compiersi della estrema obbedienza di Gesù, del pieno abbandono del Figlio di Dio, che si specchia nel Servo sofferente descritto nei carmi di Isaia, la cui missione è quella di «dover cercare Dio dove non è, anzi dove non può essere, nell’essenza stessa del peccato del mondo» (Ruggieri, “Introduzione” a H. U. von Balthasar, La teologia dei tre giorni. Mysterium Paschale, Queriniana, Brescia 1992, 6-7; 10).

Così nella ‘figura sfigurata’ del Cristo si ha accesso all’Agape del Padre, nel Figlio si dà il superamento della violenza.

Agape: il lievito della storia

«Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e nascosto in tre staia di farina perché tutta si fermenti» (Mt 13,31-33). Così lo narra il poeta Pierre Emmanuel (1916-1984):

«Cristo è il lievito di una storia totalmente altra rispetto a quella che si limita alla cronologia./ Dall’Annunciazione al mattino di Pasqua lui l’ha vissuta tutta e compiuta in sé./ La vita di ogni uomo ne è un frammento dall’origine fino alla Pasqua eterna./ Il lievito lotta sia per non essere reso vano sia per sollevare allo spirito la materia./ Nel segreto di noi stessi una sola scelta ci rimane: o resistergli o abbandonarsi al lievito» (Le grand Oeuvre. Cosmogonie, ed. du Seuil, Paris 1984, 370).

Significativo allora risulta un testo della Commissione Teologica Internazionale del 2014 sul superamento della violenza, al modo del lievito quale metafora del consegnarsi/abbandonarsi del Figlio nelle mani di Agape:

«Gesù consegna se stesso e non i suoi discepoli. Nello stesso tempo, toglie spazio ad una alternativa ugualmente drammatica e apparentemente insuperabile. O ridimensionare l’altissima pretesa della sua rivelazione, o accettare il conflitto cruento con la parte ostile. Nel primo caso, si tratta di rinunciare all’obbedienza della verità ricevuta dall’Abbà-Dio; nel secondo caso, di accettare la logica della guerra religiosa. In entrambi i casi, il vangelo sarebbe revocato.

Gesù si scioglie dal ricatto di questa alternativa, scegliendo di consegnare nelle mani di Dio il destino della sua rivelazione e confermando la sua irrevocabile fedeltà al vangelo della giustizia di Dio: il quale “non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva” (Ez 18, 23-52; 33, 11).

Gesù disinnesca radicalmente il conflitto violento che egli stesso potrebbe incoraggiare, in difesa dell’autentica rivelazione di Dio. In tal modo egli conferma, una volta per tutte e per sempre, il senso autentico della sua testimonianza a riguardo della giustizia dell’amore di Dio. Questa giustizia non si compie mediante la legittimazione della violenza omicida in nome di Dio, bensì mediante l’amore crocifisso del Figlio in favore dell’uomo (cfr. Rom 8, 31-34).

Nel gesto della consegna di sé al supremo sacrificio, che risparmia il sangue dei discepoli e degli oppositori, risplende la potenza radicale dell’amore di Dio. “Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo morire in quel modo, disse: Veramente quest’uomo era figlio di Dio” (Mc 15, 39)» (Trinità e unità degli uomini, nn. 48-53).

Vi conosco perché sono stato uno di voi
Cristiano, senza comprendere veramente
Ciò che essere cristiano dovrebbe dire a chi si dice cristiano
Improvvisamente, un giorno
ho visto finalmente la croce:
Dio messo in croce.
Quale maestà più grande per l’uomo
Da sempre e per sempre?
La morte di Cristo l’ellisse atroce e divina
Di tutto il sangue d’uomo che bagna la terra,
Ora lo so: non sono né Pilato,
né Caifa, né i Giudei in rivolta
che ne portano il peso per la storia.
Tutta la storia dell’uomo
Sembra avere per scopo la morte di Dio.
Perché Dio vuole una cosa sola:
Che l’uomo sia capace di Dio.
Essere capaci di Dio
cioè essere capaci dell’uomo
Questo è troppo pesante per ciascuno di noi.
(Pierre Emmanuel, Le grand Oeuvre, 357)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

 

Al cantón fraréś
Flavio Bertelli: “La bòna nóva” (la buona novella)

 

Dopo Mi e la Frara da ier (ricordi, chiacchiere e fatti di un vecchio mondo) e Ferraresi ritratti (personaggi della Ferrara di un tempo), proposti in questa rubrica, Flavio Bertelli ci sorprende con un adattamento del Vangelo secondo Marco. Tale Vangelo, secondo gli studiosi, è il primo ad essere stato scritto. L’autore con una popolare traduzione in dialetto ferrarese delle parabole, ne rende accattivante la lettura.
Di seguito due brani per questi giorni che ci avvicinano alla Pasqua.
(Ciarìn)
 

Pietro al diś la so

Dit quest, Gesù al va, coi so, vers Cesarea, ai pié dal mont Ermon indù nas al Giordano. Strada faśénd al dmanda: – Cusa peηsa la źént? Cusa disla chi sia? –
– Mah! – a rispónd j’apòstul – Qualcdùn diś ch’at jé Giovàni Batista … –
“… D’j’àltar ch’at jé Elia… –
-… E d’j’àltar ancora ch’at jé un di profeta! –
– E ti? – al dmanda Gesù diretament a Pietro – Ti, chi pénsat che mi a sia? –
– Par mi t’jé Crist! – a rispond Pietro – al Fiòl ‘d Dio! –
Gesù al li guarda tuti uη pr’un e, sibén al gh’j’àbia tuti int al cuór, a tuti al s’arcmànda d’an dir gnént.

 

Confessione di Pietro
Poi Gesù coi suoi discepoli andò per i paesi di Cesarea di Filippo, e per la strada chiese ai suoi discepoli: La gente chi dice ch’io sia? Essi risposero: Chi dice che sei Giovanni Battista, chi Elia, chi uno dei profeti. Allora disse loro: E voi chi dite ch’io sia? Pietro rispose: Tu sei il Cristo. E vietò loro di parlarne ad alcuno.

 

Gesù al conta com sarà la so pasión

Ed eco che Gesù, ciacarànd ben ciàr par fàras capìr, al s’mét a cuntàr che as furmarà na cumbrìcula di sòlit ach sa ad létra e che, dop avéral fat patìr al so bel póch, j truvarà al mòd ad fàral murìr. Lu però, parché acsì al sarà al vlér dal Pàdar, al risusitarà tri gióran dop.

As punt chi Pietro al la ciama da na part e al la rimpròvera par quél cal diś, e alóra l’è Gesù che al g’dà al so avér e al la fa davanti a j’apòstul: – Ti t’aη raśóni briśa sgónd Dio, ma sgónd Pietro, e alóra at pó aηch far fagòt e andàrtin! –

E po’ al ciama tuti, źént e apòstul, e al precìsa ben: – Mitén iη ciar ill cundizióη na volta par tuti: chi vol gnir coη mi al dév tór la so cróś e purtàrsla iη spala, ma chi vol salvàr la so vita seηza peηsàr a l’anima, al pòl métar źó l’idea ad salvàr al Vangelo! Che intarès g’al un òm ad métras iη bisàca tut l’òr dal mond, se po’ al pèrd l’anima? E se, quand a gnirà al so mumént, al vra l’anima, cusa agh daràl iη cambi? Sia beη ciàr ‘n àltar quèl: chi vol gnir coη mi iη mèź a tuta sta źént pina ad pca, al faga iη mod da η’vargugnàras briśa, parché Dio al s’putrìa vargugnàr d’vuàltar! E, da źa ch’a c’sén, av vój aηch dir che iη mèź a vuàltar agh è źa soquànti ch’aη gustarà briśa la mort prima d’avér vist arivàr la Gran Luś ad mié Pàdar.– (…)

 

Profezia della passione
Poi incominciò a insegnare a loro come il Figlio dell’uomo dovesse patir molto e venire riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli Scribi, ed essere ucciso, e risuscitare tre giorni dopo. E parlava di questo apertamente. Ma Pietro trattolo in disparte, cominciò a biasimarlo. Ma egli voltosi in presenza dei discepoli, sgridò Pietro dicendo: Vattene via da me, Satana, perché non ragioni secondo Dio, ma secondo gli uomini.

E chiamata la gente insieme coi suoi discepoli disse loro: Se alcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché se uno vorrà salvare la sua vita la perderà; ma chi perderà la vita per me e per il Vangelo, la salverà. E che gioverà all’uomo guadagnare tutto il mondo, se perderà poi l’anima sua? E che darà l’uomo, in cambio dell’anima sua? Chi poi si vergognerà di me e delle mie parole in mezzo a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo, quando verrà nella gloria del Padre suo cogli Angeli e Santi, si vergognerà di lui. E diceva loro: Vi dico in verità che ci sono alcuni dei presenti i quali non gusteranno la morte prima di aver veduto il regno di Dio venire con maestà…

 

 

 

Tratto da:
Flavio Bertelli, La bòna nóva : dal Vangelo secondo San Marco, Ferrara, Editrice Universitaria, 1982.

 

Flavio Bertelli (Ferrara 1916 – 1983)
Autore e regista teatrale in lingua e in dialetto ferrarese.
Altre note biografiche nel Cantóη Fraréś del 5 marzo 2021 [Qui] .

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia,
esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]

In copertina: Gerusalemme, Orto dei Getsemani

I GATTINI NELLA STALLA
Ucraina, due secoli di deportazioni

La lunga storia di deportazioni dell’Ucraina: gli spostamenti forzati che sembra stiano avvenendo oggi sono solo l’ultimo capitolo di duecento anni di migrazioni imposte, dall’impero zarista all’Unione Sovietica.

L’Ucraina non è un territorio martoriato soltanto da febbraio 2022: da sempre, una nazione a cui a lungo non è  corrisposta un’entità statale è esposta alle pretese dei poteri più forti, che ne sottopongono la popolazione a deportazioni e migrazioni forzate. Questi sono tra i mezzi usati dal potere, funzionali allo smembramento dei paesi da assoggettare.

Direzione Siberia

Questo sistema di controllo della popolazione – e di volta in volta usato per raggiungere obiettivi politici o economici che spesso includono la colonizzazione dei territori più remoti –  è largamente impiegato dall’impero russo. Nell’Ottocento, epoca di antisemitismo endemico, tra i popoli presi di mira ci sono innanzitutto gli ebrei, che secondo i censimenti a fine secolo sono ancora il 12% della popolazione del territorio occidentale dell’impero, corrispondente alle attuali Bielorussia, Ucraina, Lituania e Polonia orientale; qui sono costretti a rimanere, perché è loro vietato spostarsi, fino a quando il potere non ne decide la deportazione. Ma a essere vittime dei trasferimenti forzati sono anche 200.000 tedeschi del Volga, i germanofoni discendenti dei contadini immigrati in Russia nella seconda metà del XVIII secolo su invito della zarina Caterina per stabilirsi lungo il medio Volga, ma anche in Ucraina e in Crimea.  Oltre un secolo dopo, i loro nipoti sono costretti a spostarsi di nuovo, ancora una volta verso est: la loro destinazione è la Siberia e le loro terre vengono distribuite a popolazioni di sicura fede zarista.

Queste popolazioni sono anche inviate a est per colonizzare più o meno volontariamente i territori nei quali l’impero si sta espandendo, dando vita a entità amministrative su base ucraina nell’estremo oriente russo.

Il cambio di regime

Con lo scoppio del Primo conflitto mondiale le deportazioni si sommano alla fuga delle popolazioni delle regioni frontaliere dell’impero, per allontanarsi dai pericoli del fronte di guerra, con il risultato che all’alba della rivoluzione bolscevica sono ormai 7,4 milioni i profughi nei territori sotto il controllo russo.

Con il cambio di regime, però, non cambia troppo la strategia di controllo: anche l’Unione Sovietica usa le deportazioni per allontanare dalle aree strategiche i popoli ritenuti meno fedeli, per status socio-economico o appartenenza politica, con il pretesto della loro presunta pericolosità. Stalin, per silenziare i sentimenti indipendentisti e nazionalisti ucraini si spinge oltre, sfruttando l’ancor più radicale mezzo dello sterminio per fame, come fatto proprio in  Ucraina attraverso l’Holodomor.

E prima ancora della Seconda guerra mondiale in migliaia sono fatti trasferire dai territori occidentali dell’Unione alla Siberia e all’Asia Centrale, in direzione di “villaggi speciali” e gulag. Ancora una volta l’Ucraina è particolarmente colpita, finendo per veder cambiare nel giro di pochi anni la propria composizione etnica, con quasi 900.000 persone trasferite complessivamente verso le lande più remote dell’URSS, dai tedeschi ai ceceni, dagli ingusci ai tatari di Crimea, e ancora esponenti delle minoranze ebraica, balcara, calmucca, armena, curda, turca e greca, nei primi anni Quaranta.

I gattini nella stalla

Paradossalmente, per molti ebrei questa deportazione sarà la salvezza, evitando loro di finire nelle mani dei nazisti che fanno strage nei territori occidentali dell’URSS; grazie all’aiuto dei militari Alleati di origine ebraica, molti riusciranno a passare in Palestina e a farlo clandestinamente, dato che, in base agli accordi tra gli Alleati, in quanto cittadini sovietici non potrebbero ottenere lo status di rifugiati e dovrebbero, invece, essere rimpatriati.

Ma anche per chi riesce a ottenere assistenza nei campi profughi alla fine della guerra, il ricollocamento è difficile, perché gli ucraini non compaiono nelle liste di nazionalità che sono la base su cui si innesta l’accoglienza e la gestione dei profughi nelle strutture allestite dagli Alleati nei territori sotto il loro controllo; perplesso di fronte alle difficoltà e preoccupato all’idea di essere considerato sovietico, un profugo sintetizza efficacemente: “Se un gatto va in una stalla dei cavalli a partorire i gattini, li considerate cuccioli di gatto o di cavallo?”.

La difficoltà delle autorità alleate nell’orientarsi nel mosaico etnico-nazionale dell’Europa orientale è imbarazzante – nelle linee guida si afferma che “è impossibile provvedere a una definizione precisa di chi sono gli ucraini. Si può solo dire che essi sono quelle persone che parlano ucraino e che desiderano essere considerati ucraini” – e solo nell’estate del 1947, quando ormai i rapporti tra angloamericani e sovietici sono guastati, gli ucraini compaiono stabilmente nell’elenco delle nazionalità dei campi profughi.

Oggi

Ancora oggi, l’invasione russa dell’Ucraina avviata a febbraio 2022 con l’obiettivo di smembrare il territorio e assoggettare la popolazione, secondo alcune fonti giornalistiche, parrebbe recuperare anche lo strumento delle deportazioni per facilitare il compito. Dopo le polemiche sui corridoi umanitari da Mariupol concessi solo in direzione di Russia e Bielorussia, anziché verso i confini occidentali, la direzione dell’intelligence del ministero della Difesa ucraino ha parlato di 40.000 ucraini portati con la forza in Russia dall’inizio dell’invasione, 15.000 solo da Mariupol in un mese. Secondo il Cremlino, che nega deportazioni, si tratterebbe di migrazioni volontarie. Se i dati saranno confermati, sarà chiaro una volta di più che la lunga storia di deportazioni dell’Ucraina non è ancora finita.

Fonti
– Antonio Ferrara, Niccolò Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa 1853-1953, Il Mulino, Bologna, 2012Guido Crainz, – Raoul Pupo, Silvia Salvatici (a cura di), Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d’Europa, Roma, Donzelli Editore, 2008Silvia –  – Salvatici, Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2008

Silvia Granziero
Nata tra le nebbie della Pianura Padana, ma con il cuore a est. Laureata in Giornalismo e cultura editoriale, vive a Trieste, dove lavora come autrice freelance e non smette mai di studiare. Volontaria al Trieste Film Festival, è in East Journal da gennaio 2022.

East Journal è una testata registrata presso il Tribunale di Torino, n° 4351/11, del 27 giugno 2011, fondata il 15 marzo 2010, totalmente no-profit, che unisce ricercatori a giornalisti, offrendo un modello di informazione che associa la chiarezza del linguaggio giornalistico alla profondità e competenza del mondo accademico.

Cover:  Deportazione forzata della popolazione di un villaggio dell’Ucraina dell’est da parte di soldati del battaglione Poznan, 1947 (foto Wikimedia Commons)

Evtušenko: “La pace appesa a un sottile capello”.

 

“La pace era appesa a un sottile capello”, sono le parole di un grande poeta e romanziere russo, Evgenij Aleksandrovič Evtušenko, che oggi vogliamo riscoprire insieme, a conforto di tutti coloro che fermamente credono nell’indipendenza della letteraria e cultura di un popolo dalla follia di alcuni dei suoi governanti. Ho sempre seguito e amato la letteratura russa, fin dai tempi del liceo classico, curiosità e conoscenza rafforzate durante la mia vita lavorativa moscovita, che mi aveva portato anche a raccontare storie dalla Russia in una sorta di diario su questo stesso giornale (Sochi e dintorni: focus sulla Russia). Non posso oggi non rimpiangere quei tempi dove la bellezza e la scoperta dominavano su qualsiasi altra logica. Ma la letteratura resta, con la sua forza prorompente, ad illuminare le menti e le coscienze e a tracciare una strada che pare perduta per sempre. Ma che, grazie a lei, si può sempre ritrovare. O almeno, una volta giunti al bivio, provare a scegliere il cammino che ci pare più giusto per noi e per tutti. Dicevo, eccoci allora a ricordare che già in passato l’uomo letterato-scrittore-ma anche uomo comune si è trovato con la faccia al muro; d’altronde, la storia si ripete.

Ho ritrovato un libricino quasi miracoloso e terribilmente attuale, Condannato all’immortalità: due scritti autobiografici e una piccola antologia di poesie di un mito vivente della poesia mondiale, il russo Evgenij Aleksandrovič Evtušenko. Non so, sinceramente, quanto questo poeta, romanziere, autore di pellicole cinematografiche e professore emerito di letteratura e cinematografia sia noto in Italia. Per chi non lo fosse ricordo solo qualche nota biografica. Nato nel 1933 in Siberia, nipote di nonni arrestati come “nemici del popolo” nel 1937, durante il terrore staliniano, Evtušenko fu espulso dalla scuola, nel 1948, per “disubbidienza”. I suoi primi versi furono pubblicati nel 1949, il suo primo libro nel 1952. Nel 1957 fu espulso dall’istituto di Letteratura per il suo “individualismo” e le sue poesie divennero la prima voce solitaria contro lo stalinismo. Nel 1960, fu il primo russo a varcare la cortina di ferro e a recitare i suoi versi in Occidente.

Nel 1961 pubblicò Babi Yar, i suoi versi contro l’antisemitismo che ispirarono al grande compositore russo Dmitrij Dmitrievič Šostakovič la sua Sinfonia n. 13.

Da allora Evtušenko ha visitato 94 Paesi e le sue opere sono state tradotte in 72 lingue. Ha scritto e diretto due opere cinematografiche: Giardino d’infanzia nel 1982 e, nel 1990, Il funerale di Stalin, con Vanessa Redgrave e Claus Maria Brandauer.
Ha fatto sentire la sua voce contro i processi dei dissidenti, i carri armati sovietici in Cecoslovacchia e, con il fisico nucleare Andrej Dmitrievič Sacharov, ha fondato la prima associazione russa antistalinista, Memorial. Ha prestato la sua opera, dal 1988 al 1991, nel primo parlamento russo liberamente eletto, dove si è battuto contro la censura e altre restrizioni. Quando però, nel 1994, è stato invitato dal presidente Eltsin a ricevere dalle sue mani l’alta decorazione russa Ordine dell’Amicizia tra i Popoli, Evtušenko l’ha rifiutata, non approvando la guerra in Cecenia. Nel 2004, per il suo lavoro letterario, Evtušenko è stato insignito di una delle più prestigiose medaglie della Russia, quella per le grandi realizzazioni per la Madrepatria. È morto a Tulsa il 1° aprile 2017.

Oggi abbiamo un motivo in più per ricordarlo, anzi due.

Il primo riguarda un evento legato a questa terribile guerra in Ucraina: settimane fa, il 1° marzo, per la precisione, missili russi hanno bombardato Babi Yar, nella periferia di Kiev, quel luogo di massacri compiuti dalle forze della Germania nazista durante la campagna contro l’Unione Sovietica nella Seconda guerra mondiale.

Memoriale massacro Babi Yar, 1941 (AP Photo/Efrem Lukatsky)

Particolarmente documentato e noto fra tali massacri, fu, infatti, quello compiuto tra il 29 e il 30 settembre 1941, in cui trovarono la morte oltre 33.000 ebrei di Kiev, secondo il dettagliato rapporto fatto da personalità e militari tedeschi Fu uno dei tre più grandi massacri della storia dell’Olocausto, superato solo dal massacro della Operazione Erntefest in Polonia, nel 1943, con più di 42.000 vittime e dal Massacro d’Odessa con più di 50.000 ebrei nel 1941. La Shoah denomina l’eccidio come “massacro della gola di Babi Yar”.

Oggi, ancora una volta, capiamo che l’orrore non ha fine e che l’essere umano sembra non avere alcuna memoria. Gli errori continuano, la sofferenza non si ferma, non arretra. Odio gratuito. Eccoci allora qui a riportare alla mente, grazie al ricordo di Maria, una cara amica e collega esperta di storia, letteratura e lingua russe, una famosa poesia del grande artista russo dedicata a quel terribile massacro, quello stesso terribile luogo di sofferenza indecente. Per tutte le vittime.

Non c’è un monumento

A Babi Yar

Il burrone ripido

È come una lapide

Ho paura

Oggi mi sento vecchio come

Il popolo ebreo

Ora mi sento ebreo

Qui vago nell’antico Egitto

Eccomi, sono in croce e muoio

E porto ancora il segno dei chiodi.

Ora sono Dreyfus

La canaglia borghese mi denuncia

e mi giudica

Sono dietro le sbarre

Mi circondano, mi perseguitano,

mi calunniano, mi schiaffeggiano

E le donne eleganti

Strillano e mi colpiscono

con i loro ombrellini.

Sono un ragazzo a Bielostok.

Il sangue è ovunque sul pavimento

I capobanda nella caverna

Diventano sempre più brutali.

Puzzano di vodka e di cipolle

Con un calcio mi buttano a terra

Non posso far nulla

E invano imploro i persecutori

Sghignazzano “Morte ai Giudei”

“Viva la Russia”

Un mercante di grano

picchia mia madre.

O mio popolo russo

So che in fondo al cuore

Tu sei internazionalista

Ma ci sono stati uomini che con le loro

mani sporche

Hanno abusato del tuo buon nome.

So che il mio paese è buono

Che infamia sentire gli antisemiti che

senza la minima vergogna

Si proclamano.

Sono Anna Frank

Delicata come un germoglio ad Aprile

Sono innamorato e

Non ho bisogno di parole

Ma soltanto che ci guardiamo negli occhi

Abbiamo così poco da sentire

e da vedere

Ci hanno tolto le foglie e il cielo

Ma possiamo fare ancora molto

Possiamo abbracciarci teneramente

Nella stanza buia.

“Arriva qualcuno”

“Non avere paura

Questi sono i suoni della primavera

La primavera sta arrivando

Vieni

Dammi le tue labbra, presto”

“Buttano giù la porta”

“No è il ghiaccio che si rompe”

A Babi Yar il fruscio dell’erba selvaggia

Gli alberi sembrano minacciosi

Come a voler giudicare

Qui tutto in silenzio urla

e scoprendomi la testa

Sento che i miei capelli ingrigiti

sono lentamente

E divento un lungo grido silenzioso qui

Sopra migliaia e migliaia di sepolti

Io sono ogni vecchio

Ucciso qui

Io sono ogni bambino

Ucciso qui

Nulla di me potrà mai dimenticarlo

Che l’“Internazionale” tuoni

Quando l’ultimo antisemita sulla terra

Sarà alla fine sepolto.

Non c’è sangue ebreo

Nel mio sangue

Ma sento l’odio disgustoso

Di tutti gli antisemiti

come se fossi stato un ebreo

Ed ecco perché sono un vero russo.

Il secondo motivo è legato a quel piccolo libro che citavo, Condannato all’immortalità, edito in Italia da Interlinea nel 2008.
Vi voglio semplicemente condividere una poesia e l’incipit di un saggio qui compresi.
I brividi, per l’attualità cui ci riportano. 

Voglia il Cielo

Voglia il Cielo che torni la vista ai ciechi

e si raddrizzino le schiene ai curvi.

Voglia il Cielo non farci attaccati al potere

né falsamente eroi

e farci essere ricchi, ma ladri no,

naturalmente se è possibile ciò.

Voglia il Cielo farci vecchie volpi,

che cadano in nessuna tagliola,

e non farci vittime, né boia,

mendicanti neppure, né signori.

Voglia il Cielo che siano poche le ferite,

nel caso di una grossa rissa,

e che tanti paesi possiamo avere,

senza però il proprio dover perdere.

Voglia il Cielo che la nostra terra

non ci prenda a pedate.

Voglia il Cielo che le mogli ci amino,

anche se scalcinati.

Voglia il Cielo che ai falsi si serri la bocca,

udendo voce divina in un grido infantile,

che Cristo ravvisiamo nei vivi,

sua in volto d’uomo, sia femminile.

Non la croce portiamo – l’empietà

e come miseramente ci curviamo.

Per non avere in tutto sfiducia piena,

voglia il Cielo Dio in noi, anche se appena.

Voglia il Cielo che tutti abbiamo tutto,

e subito, perché non ci sia offesa.

Tutto sì, ma solo ciò per cui

non dobbiamo vergognarci poi.

1990

 

La pace era appesa a un sottile capello

D’un tratto nella noia trasalirono

Palme e ornelli.

La pace era appesa a un sottile capello

Della calvizie di Nikita….

La crisi caraibica nel novembre 1962 consisteva non solo nel conflitto Urss e Usa, ma anche nel conflitto tra il giovane Fidel Castro, circondato da un’aureola romantica, e la politica sovietica – goffa e talvolta semplicemente scorretta. Veramente, nel caso della crisi caraibica, la scorrettezza era dettata dalla fretta, quando la pace era letteralmente appesa a un sottile capello. Allora pochi capivano che due personalità assolutamente bipolari, a rigor di logica, per primi avevano compreso che erano costretti dalla storia a farsi partner, per la salvezza del globo terrestre dalla possibile distruzione. Il primo era un contadino del villaggio di Kalinovsk, giunto al potere dalla miseria, dal terrore di ogni notte di fronte all’arresto, negli anni del terrore staliniano (…). Il secondo era figlio di un milionario americano (…).

Entrambi questi leader (…) davano a tutti i futuri presidenti un invitante esempio di ciò che sono quei momenti in cui la politica di per sé, con tutte le sue ambizioni e gli apparenti grandi obiettivi, appare insignificante se confrontata con il problema della salvezza della vita sulla Terra, per la cui causa vale la pena rinunciare a tutto il resto e accordarsi umanamente. Tenere presente questo è assolutamente vantaggioso, proprio adesso, perché nell’aria instabile, sempre trasalente per le esplosioni, si delineano una certa quantità di potenziali sottili capelli, ai quali è di nuovo possibile appendere il sunnominato mondo, e non è chiaro se saranno abbastanza resistenti, come quello semidimenticato-indimenticabile della pelata di Nikita Sergeevic, che, a volte, infervoratosi, diventava di porpora e evidenziava le protuberanze, ma che, pure rapidamente, rassicuratosi, livellava la sua superficie. Nel diretto conflitto Usa-Russia non credo. Per esso non esistono motivi logici diretti (…) Meglio non darsi delle arie, ma scambiarsi l’esperienza dei propri errori e non ripeterli. (…) .  

Non si devono trasformare gli altri Paesi in carte da gioco, cercando di vincere l’un l’altro. Questo gioco per la vittoria si trasforma in una reciproca sconfitta e vince qualche terzo, e non si conosce ancora se per il bene (…). Le grandi potenze nucleari (…) devono accettare le piccole nazioni e non contrastarle. Anche i problemi interni possono diventare sottili capelli, che non reggeranno il carico appeso loro2003-2005

Foto in evidenza di Evgenij Aleksandrovič Evtušenko

C’è un’altra guerra sotto la guerra in Ucraina.
Verso un nuovo ordine monetario internazionale?

 

Donbass e Est Ucraina sono ricche di materie prime, gas (il più grande giacimento dopo quello norvegese), terre rare, grano, etc. Inoltre credo ci sia un interesse geopolitico di Putin nel creare una continuità con la Crimea, chiudendo lo sbocco a mare all’Ucraina. Non sono esperto di geopolitica ma credo che Putin voglia disporre di quest’area non solo per fini espansionistici.

Le grandi potenze si muovono per interessi concreti e credo che dietro questa invasione ci sia “molto di più”, non credo come occupazione di altri Stati, ma un nuovo ordine mondiale basato su una nuova competizione monetaria.

Gli Stati Uniti fecero guerra all’Iraq non per le armi batteriologiche di Saddam (che proprio gli Usa gli avevano dato contro i curdi ma che erano finite) ma per disporre del petrolio di cui avevano una assoluta necessità in quegli anni.
Lo disse con grande chiarezza Alan Greenspan (L’età della turbolenza, 2007, pag.520), chairman della Federal Reserve dal 1987 al 2006, principale consigliere economico della Casa Bianca dal 1974 al 1977 e dal 1977 al 1987 e membro del CdA della Mobil (una delle maggiori corporation petrolifere al mondo): “Nonostante abbiano sbandierato ai quattro venti la paura delle “armi di distruzione di massa” (irachene), le autorità statunitensi (…) erano mosse soprattutto dal timore di veder precipitare nella violenza una regione nella quale si trova una ragione indispensabile al funzionamento dell’economia mondiale. Mi rincresce che sia così politicamente scorretto affermare una verità che tutti conoscono: la guerra in Iraq è stata soprattutto una guerra per il petrolio”.

Anche oggi c’è forse qualcosa di analogo in ballo con un’aggiunta: l’idea di creare un nuovo sistema monetario mondiale imperniato sullo Yuan cinese.
Prima della guerra il cambio dollaro/rublo era 1:80, poi il rublo con l’invasione si è svalutato fino a 1:160 rubli, ma ora (5 aprile) è ritornato ai livelli pre-guerra (1 dollaro: 83 rubli), la borsa di Mosca è salita del 6%, il titolo Gazprom del 12% ed è salito pure il prezzo del gas (127 euro per MegaWattora). Secondo gli analisti l’Europa continuerebbe a pagare in euro Gazprom che con la sua banca acquista con euro rubli per conto del cliente europeo e li trasferisce su un secondo conto in rubli. Un’operazione che consentirebbe di rivalutare il rublo…il quale però, senza che tutto ciò sia avvenuto, si è già rivalutato del 100%.

Significa dunque che ci sono aspettative negli operatori mondiali che vanno al di là del pagamento in rubli del gas.
Un primo indizio è che dal 28 marzo la banca centrale russa ha dichiarato che il rublo è stato agganciato all’oro (5mila rubli per un grammo fino al 30 giugno). E ciò ha indebolito il dollaro perché oggi conviene acquistare l’oro in rubli anziché in dollari (che è la causa della sua rivalutazione).

Ma c’è molto altro. In ottobre 2020 Russia, Armenia, Kazikistan, Kirghizistan hanno stipulato un accordo con la Cina al fine di creare non solo una zona di libero scambio (EAEU), ma un abbozzo di potenziale nuovo sistema monetario euroasiatico, il cui valore fosse fondato su un paniere di monete (le loro) e di materie prime (di cui Cina e Russia sono leader a livello mondiale). E’ una vecchia idea di Keynes che voleva ancorare la moneta internazionale al valore delle materie prime. E nel 2009 il governatore della Banca popolare cinese lo aveva proposto raccogliendo l’interesse di India, Russia e Brasile (i famosi BRICs).

Può essere che. finita un’epoca in cui forse era possibile una collaborazione dell’Europa con la Russia, Putin abbia deciso di invadere l’Ucraina e di accelerare questo progetto, guidato dalla Cina. Non mi stupirei se diventasse reale tra qualche mese.
Lo pensa anche Barry Eichengreen, della Berkeley University, che ha scritto sul Financial Times: “La guerra in Ucraina sta erodendo le basi dell’egemonia monetaria Usa”. Inoltre il Wall Street Journal conferma le trattative tra Cina ed Arabia Saudita per pagare in yuan il petrolio, che sarebbe un duro colpo all’egemonia monetaria Usa. Lavrov, il ministro degli esteri russo, si è recato in India proprio l’altro giorno.

Chi ha seguito la vicenda dei petrodollari degli anni ’70 sa bene quanto essi siano stati alla base dell’addio del Gold Standard (1944) e del fatto che nel 1971 venne sospesa unilateralmente la convertibilità del dollaro all’oro. Il segretario del Tesoro John Connally disse brutalmente: “il dollaro è la nostra valuta, ma un vostro problema”, inaugurando l’era del Dollar Standard nel 1978 sganciato dall’oro.

Oggi la fiducia al dollaro sui mercati è ancora forte e non si basa sull’oro, ma sulla forza dell’economia Usa, del suo potere militare e della ampiezza e liquidità dei mercati finanziari. Ma una moneta concorrente, fondata sulla solidità delle materie prime – che oggi servono non solo per cibo ed energia ma per tutte le tecnologie avanzate – avrebbe probabilmente un vantaggio competitivo sul dollaro. Soprattutto in un contesto dove il potere economico americano declina mentre quello cinese cresce e, al posto della liquidità finanziaria anglosassone, ci sono le materie prime alimentari ed energetiche di Cina/Russia e dei loro potenziali alleati (Africa, zone russofone).

E’ dunque possibile che si pensi di creare una moneta rivale al dollaro che abbia ben più dell’8% di circolazione che hanno oggi yuan-rublo e ciò avrebbe rilevantissime conseguenze in termini di potere e arricchimento di quei paesi che la emettono (in opposizione agli Usa) e a cui guardano con interesse immensi paesi come India, Pakistan, Africa, Brasile, Medio Oriente…Proprio quella ‘minoranza’ che si è astenuta all’ONU sulla condanna alla Russia e che rappresenta il 55% degli abitanti nel mondo.

Chi rimarrebbe più spiazzato se dovesse decollare un tale disegno bi-polare è l’Europa. Quell’Europa che, con la nascita dell’Euro nel 2001, si era trovata davanti un’immensa “prateria”, potendo diventare nei primi 7 anni in cui era in ascesa, un polo mondiale (amico degli Usa). ma dialogante con la Russia, sviluppando la pace nel mondo e armonizzando le unilateralità di Usa e Cina.

Ancora una volta tornano in mente le parole del “maestro” Alan Greenspan che aveva tuonato contro la malsana idea di Clinton di abolire nel 1999 lo Steagall Act, dando libera uscita alla speculazione mondiale di tutte le banche e dimenticando la lezione di Roosvelt che solo una sana finanza poteva rilanciare l’economia reale e non quella virtuale dei ricchi.

Nel nuovo ordine monetario l’Italia sarebbe (con l’Europa) la più penalizzata, avendo puntato (negli ultimi 30 anni) le sue carte sul solo ‘amico americano’, senza accorgersi che un altro mondo stava nascendo e dal quale (senza rompere con gli Usa) avremmo potuto trarre enormi benefici anche se non ne condividevamo certo lo stile dispotico di governo.

Trent’anni dopo: quo vadis Bosnia? Quo vadis Europa?

 

di MIchael L. Giffoni (

Esattamente 30 anni fa, il 6 aprile 1992, la Bosnia-Erzegovina veniva riconosciuta come stato indipendente dai paesi della Comunità Europea (che si chiamava ancora così e si componeva di 12 paesi membri), giorno che cadeva nell’anniversario della liberazione di Sarajevo nel ‘45 e del bombardamento di Belgrado da parte della Luftwaffe nel ’41. Veniva così legittimata a livello internazionale la validità del referendum sul distacco da quel (poco) che restava della Jugoslavia, svoltosi un mese prima e boicottato dalla componente serbo-bosniaca (pari a circa il 30%) della popolazione: l’indomani fu la volta di Washington e nel giro di poche settimane arrivò il riconoscimento di gran parte dei paesi, Russia inclusa, delle Nazioni Unite, alle quali la Bosnia-Erzegovina fu ammessa il 22 maggio dello stesso anno.

Nasceva ufficialmente quella che sarebbe destinata a diventare la più complessa e travagliata delle sette repubbliche indipendenti post-jugoslave: Franjo Tudjman e Slobodan Milosevic, emersi nel biennio precedente come padri padroni a Zagabria e Belgrado, si affrettarono a criticare la decisione negando l’esistenza stessa della Bosnia-Erzegovina come nazione, il secondo usando parole che, rilette ora, ricordano tremendamente quelle utilizzate 30 anni dopo da Vladimir Putin nei confronti dell’Ucraina. Conversando con l’inviato di “Time”, Milosevic ebbe infatti a dire, con tono ironico e beffardo: “La Bosnia non è mai esistita né mai esisterà, è solo un’opportunistica e cinica invenzione di Tito per bilanciare il potere serbo e croato nella Federazione jugoslava: il suo riconoscimento internazionale mi ricorda la nomina del cavallo di Caligola a senatore nell’antica Roma”.

È vero che c’erano stati solo alcuni brevi momenti di quasi autonomia o semi-indipendenza durante i secoli precedenti e che questa era la prima apparizione della Bosnia come stato indipendente sin dal 1453. È altrettanto vero che le animosità etno-nazionali erano arrivate al punto di massima violenza e confronto solo a seguito di pressioni provenienti dall’esterno del territorio bosniaco, soprattutto all’infuori delle principali città, da sempre terra di convivenza inter-etnica: così è stato anche negli anni successivi al ‘92, sia a livello regionale, nel drammatico contesto della disintegrazione jugoslava, sia dal punto di vista globale, nella fase di ridefinizione degli equilibri di potenza e dell’ordine internazionale dopo la fine della Guerra Fredda.

Come nasce una guerra

Quel 6 aprile 1992 era un lunedì e viene ricordato anche come la data d’inizio della guerra in Bosnia-Erzegovina, per una serie di concitati episodi che avvennero a Sarajevo, precisamente nello spazio di un paio di chilometri quadrati tra il palazzo del Parlamento, il “cubone giallo” dell’hotel Holiday Inn, il ponte di Vrbanja e le pendici della collina, nel quartiere di Grbavica dove si erano già posizionati i famigerati cecchini che saranno l’incubo dei sarajevesi nei 1425 giorni successivi, quanto sarebbe durato l’assedio più lungo del secolo.

In realtà, già nei giorni precedenti si erano alzate le barricate serbe in vari quartieri, si erano verificati scontri con vittime e l’assedio della parte centrale della città era un dato di fatto, nell’indecisione e spesso complicità delle truppe dell’esercito federale (la JNA, lì posta agli ordini del generale Kukanjac), ancora considerata come la quarta armata più potente al mondo, nonostante le pessime figure rimediate in Slovenia e in Croazia e che negli stessi giorni stava fiancheggiando i paramilitari serbi, le famigerate “Tigri di Arkan”, in veri e propri eccidi e operazioni di pulizia etnica a Bijeljina e nella valle della Drina, al confine orientale. Se quello che resta sono le immagini simboliche o iconiche, quella delle vittime innocenti della guerra bosniaca avrà il volto radioso di Suada Dilberovic, ventiquattrenne studentessa dalmata che il 5 aprile, nel “bloody Sunday” sarajevese, venne freddata da un cecchino mentre tentava di attraversare il ponte di Vrbanja con un gruppo di giovani manifestanti per la pace.

Il ritorno della guerra in Europa: anatomia di un conflitto

La guerra aveva fatto ritorno sul suolo europeo, per la prima volta dopo la fine del secondo conflitto mondiale (considerando solo come brevi fiammate le pur cruente e brutali repressioni sovietiche delle insurrezioni a Budapest nel ’56 e a Praga nel ’68), marchiando a sangue la disintegrazione della Federazione jugoslava, a differenza di quella dell’Unione Sovietica, avvenuta contemporaneamente con fortissime tensioni ma senza grandi spargimenti di sangue.

Dopo la breve e quasi incruenta guerra d’indipendenza slovena, era stata la Croazia a essere insanguinata e a Vukovar venne riesumato, per la prima volta dagli orrori e dalle distruzioni della Seconda guerra mondiale che avevano raso al suolo intere città, il termine “urbicidio” poi ripreso per Sarajevo, Mostar e Tuzla. Pochi anni dopo, un’altra terribile, quasi indicibile, parola verrà pronunciata in relazione alle atrocità sofferte dalla Bosnia, perché è stato a Srebrenica che l’Europa ha visto compiersi sul proprio suolo il più orrendo genocidio dopo l’Olocausto.

Pochi giorni dopo la firma a Parigi degli accordi di pace raggiunti a Dayton (Ohio, USA) alla fine del ‘95, Republika, l’unico giornale di opposizione a quei tempi a Belgrado, commentava così la guerra che aveva devastato la Bosnia nei quattro anni precedenti: “Questa guerra ha racchiuso in sé tutte le guerre conosciute dalla storia: è stata etnica, religiosa, civile, imperialista e d’aggressione, guerra della campagna contro la città, guerra per la distruzione della classe media, guerra per la terra e di sangue”. Il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan completò la frase aggiungendo un’ulteriore (e innegabile per coloro che quei fatti li avevano osservati costantemente e da vicino) definizione, quella di vera e propria, seppur nascosta, guerra mondiale: “In Bosnia-Erzegovina è in corso una guerra mondiale nascosta, poiché vi sono implicate direttamente o indirettamente tutte le forze mondiali e sulla Bosnia-Erzegovina convergono tutte le essenziali contraddizioni di fine secolo e d’inizio del terzo millennio”.

L’inerzia internazionale e la svolta a Dayton. Dall’inferno al purgatorio

La dimensione internazionale della disintegrazione jugoslava, e della “guerra dei 10 anni” che ne seguì, è stata caratterizzata dall’incapacità della comunità internazionale di intervenire, prima per evitare gli sviluppi bellici, prevedibili e da molti ben previsti, poi almeno per fermare la guerra ed evitare che toccasse, soprattutto in Bosnia, tali punte di atrocità e disumanità. Abbiamo assistito a un “triumph of the lack of will”, per dirla con l’espressione dello storico britannico James Gow: l’inadeguatezza e l’incoerenza delle politiche di tutte le “forze mondiali” citate da Annan, legate alla questione principale della volontà politica sull’uso della forza, sono state alla base del fallimento, che infranse le nozioni esistenti sulle modalità di intervento della comunità internazionale nelle crisi globali o regionali e di gestione delle loro conseguenze umanitarie.

In realtà, non mancò solo la volontà ma anche la visione, poiché tutti gli attori internazionali, anche multilaterali, erano guidati da analisi parziali e incomplete del conflitto e delle forze in campo, spesso infarcite di pregiudizi, per nulla verificati sul campo, e rispondenti in primo luogo ai propri interessi nazionali e di parte. Dopo quasi quattro anni di guerra, alla fine del ’95 si giunse alla fine delle ostilità, grazie al mutato atteggiamento internazionale – e degli Stati Uniti di Bill Clinton in primo luogo – e all’intervento aereo della NATO contro le postazioni e gli arsenali dei serbo-bosniaci situati a Pale, nei dintorni di Sarajevo. Da allora il nome di Dayton, cittadina nel cuore profondo americano, ha finito per rappresentare il destino stesso della Bosnia-Erzegovina, vale a dire il passaggio dall’inferno di una guerra orribile costata oltre 100 mila morti, a un purgatorio segnato dall’assenza di un vero e proprio conflitto armato ma dalla persistenza di una pace fredda, vuota e paralizzante, lontana da ogni situazione di normalità e da ogni prospettiva di progresso civile, sociale ed economico.

La trappola etnica

Il nocciolo della questione bosniaca può essere così riassunto: il sistema di “governance” instaurato con la costituzione inclusa negli accordi di Dayton (Annex IV), necessario, giustificato e finanche essenziale nel breve periodo per il mantenimento e il rafforzamento della pace, si è rivelato nel medio e lungo periodo del tutto inefficiente e addirittura dannoso per una vera riconciliazione e un autentico progresso del paese, risolvendosi nella cristallizzazione delle divisioni etniche, in una partizione “de facto” e nella costruzione di uno stato centrale debole e paralizzato, ostaggio di una classe politica inetta e interessata solo al mantenimento del potere e dei benefici connessi, basata sulla legittimazione etnica e con scarsa presa sulla maggioranza della popolazione, scivolata ormai in un fatale senso di rassegnazione diventato semplice fonte di riproduzione del consenso nazionalista e populista.

La chiave di volta per la stabilità e il progresso della Bosnia-Erzegovina, più degli altri paesi balcanici, doveva essere la “prospettiva europea”, sancita a Salonicco nel giugno 2003: tuttavia, dopo un promettente avvio, il processo che doveva gradualmente ma decisamente portare all’adesione all’Unione Europea, o quantomeno alla candidatura, ha prima rallentato e si è poi bloccato (come l’intero processo di allargamento nei Balcani Occidentali) con l’UE che, senza visione né volontà, invece di europeizzare i Balcani ha finito paradossalmente per balcanizzare sé stessa.

L’ultima crisi e la minaccia esistenziale

Negli ultimi nove mesi, la Bosnia-Erzegovina è tornata al centro dell’attenzione mondiale a causa di un crescendo di tensioni innescate dalle ripetute e clamorose minacce di Milorad Dodik, da 15 anni l’uomo forte serbo-bosniaco, di trasferire all’entità serba competenze essenziali delle istituzioni comuni, in materie delicate come la difesa e la sicurezza, la fiscalità e la sanità. Molti osservatori hanno concluso che il già fragile status quo del paese stia affrontando la sua più grave minaccia esistenziale del dopoguerra, con timori di un’aperta secessione e perfino evocando lo spettro del ritorno alle armi. Esaminando la successione degli eventi, emerge una duplice crisi provocata dalle forze centrifughe delle due maggiori tendenze etno-nazionaliste, quella serba (in maniera estrema per le esternazioni e azioni di Dodik) e quella croata (in modo meno eclatante ma pur insidioso), ma la crisi è stata aggravata anche dalla dimensione esterna: i maggiori attori mondiali (Washington e Bruxelles da una parte, Mosca dall’altra, con Pechino silente e pronta a intascare i ritorni economici ampliando fino al cuore dell’Europa la via della seta) e regionali (Belgrado e Zagabria) hanno accentuato le divisioni invece di ricomporle.

È vero che Washington ha imposto sanzioni economiche a Dodik e ai suoi accoliti, ma è anche vero che gli effetti concreti di tali iniziative sono limitati e quasi simbolici. A Bruxelles, intanto, non si è trovato neanche il consenso necessario per imporre le più temute sanzioni europee. Al contrario, da Bruxelles sono arrivati segnali incerti e contraddittori, con una poco comprensibile pressione per far accettare le richieste croate per una riforma parziale della legge elettorale in senso favorevole al partito nazionalista croato (che renderebbe ancora più stringente la “gabbia etnica”) e addirittura con aperture alle richieste di Dodik sull’abrogazione degli emendamenti alla legge di negazione del genocidio, la cui imposizione è stata il pretesto per il boicottaggio delle istituzioni comuni da parte dei membri serbi. In definitiva, l’impressione è che stia prevalendo un approccio “minimalista” con la ricerca di compromessi a breve termine, ignorando l’amara verità: fino a quando non ci sarà una riforma completa del sistema costituzionale che permetta alla Bosnia-Erzegovina di diventare un paese funzionale, ogni crisi può solo essere alleviata e i suoi effetti nefasti solo rinviati e mai risolti alla radice.

Effetto Ucraina e “last chance café”?

In questi giorni il mondo intero è profondamente scosso dalle immagini degli orrori dell’invasione russa dell’Ucraina, di fronte alle quali è impossibile non tornare con la mente a quelle di 30 anni fa descritte all’inizio di queste note. Del resto, in Bosnia-Erzegovina, come nel resto dei Balcani occidentali (basti pensare al Kosovo), la crisi russo-ucraina è stata seguita sin dall’inizio con il fiato sospeso, per i timori di inevitabili ricadute.

Premesso che dal 24 febbraio di quest’anno sarebbe preferibile se si fosse tutti umilmente cauti nel dichiarare la probabilità o l’improbabilità di qualsiasi scenario internazionale, bisogna riconoscere che l’apertura di un “secondo fronte” da parte della Russia imperial-putiniana (tenendo presente che Mosca ha apertamente sostenuto le rivendicazioni di Dodik) nei Balcani, in Bosnia ancor più che in Kosovo (dove è presente tuttora un’ingente forza di stabilizzazione NATO), è uno scenario da non ignorare. A parte inutili speculazioni, la verità è che l’invasione russa ha sostanzialmente cambiato ogni equazione riguardante la sicurezza in Europa e l’intero futuro del continente.

Ciò richiede una calibrazione urgente, in teoria e in pratica, della strategia occidentale nei confronti dei Balcani e del vicinato orientale dell’UE: Bruxelles non può più rimandare una rapida ed efficace revisione delle proprie politiche di allargamento e vicinato che non sono riuscite né a catalizzare le necessarie riforme nei paesi “in lista d’attesa” né ad assicurare un coerente quadro di stabilità e sicurezza. In quest’ambito, abbandonare lo sterile tatticismo burocratico e l’approccio minimalista e tentare di risolvere il “conundrum” bosniaco affrontando il “nocciolo della questione” dovrebbe essere la priorità. Ma è questione urgente, di giorni o settimane, non di più: per la Bosnia ci sarà forse un “last chance café” e sarebbe un tremendo errore lasciarselo sfuggire.

Michael L. Giffoni (New York, 1965), da diplomatico di carriera dal 1992 al 2014 ha ricoperto numerosi e delicati incarichi nazionali ed europei. Dopo aver trascorso gli anni ’90 in Bosnia e nel resto dell’ex-Jugoslavia in guerra, è stato Capo della Task-force per i Balcani dell’Alto Rappresentante per la Politica estera Ue, Javier Solana, poi per 5 anni primo Ambasciatore d’Italia in Kosovo (2008-2013) ed infine (2013-14) Capo Ufficio per il Nord Africa e la Transizione araba al Ministero degli Affari esteri.

9 aprile ore 17 al Fienile di Baura
Antonio Viganò presenta il libro “?? ???????? ??? ???? ?? ??????”

 

La Cooperativa Sociale Integrazione Lavoro è lieta di invitarvi presso il Fienile di Baura in Via Raffanello 79 (FE)
al secondo appuntamento di ????????.
Dopo la prima semina autunnale (avvenuta il 9 ottobre 2021 con presentazione del libro “I cuccioli dell’ISIS” di Stefano Luca),
la seconda semina avverrà sabato 9 aprile 2022

CON L’ATTORE E REGISTA TEATRALE ANTONIO VIGANO’, DI TEATRO LA RIBALTA

☑️Alle 17.00 presentazione del libro “?? ???????? ??? ???? ?? ??????”, un volume che capovolge la prospettiva fra teatro e malattia sostenendo e dimostrando che non è il teatro che cura le ferite della condizione umana, ma che è quella stessa fragilità, in tutte le sue forme, a curare il teatro e rinnovarne le forme, le poetiche, lo scopo.

Il libro raccoglie numerosi contributi di studiosi, critici e operatori chiamati da Viganò a confrontarsi su un’idea di teatro che si oppone alla dittatura dell’Uguale e del Normale e propone nuove strade, muovendo dall’incontro con la differenza. Nel libro si trovano quindi pensieri e pratiche che scardinano regole, prassi consolidate e i codici stessi del teatro, facendo di questo spazio creativo un elemento di rinnovamento artistico, ma soprattutto umano.
Con Viganò sarà presente anche Stefano Masotti, psicoterapeuta esperto di teatro e marginalità, che per questo libro ha scritto il saggio “Arte teatrale, pedagogia, cura”.

?Per partecipare: accesso libero, Green pass base,
prenotazione al ??? ?? ?? ???.

☑️Alle 19.00 un momento di convivialità insieme agli ospiti, con l’????????? a cura del nostro staff, con finger food e stuzzicheria (15 euro, bevande comprese).
?Per partecipare: accesso libero, Green pass rafforzato,
prenotazione al ??? ?? ?? ???.

☑️Alle 20.30 Viganò ci accompagnerà nel racconto della sua stra-ordinaria compagnia Teatro La Ribalta, di cui è regista e direttore artistico. Con video e performance dal vivo scopriremo la sua comunità di danzatori e “attori-di-versi” che, come sostiene lo stesso regista, “… vogliono sviluppare la loro legittima stranezza. Lavoratori dello spettacolo dal vivo che sono stra-ordinari solo e unicamente nel loro modo di essere in scena e per la professionalità che hanno scelto di praticare”.
?Per partecipare: accesso libero, Green pass base,
prenotazione al ??? ?? ?? ???.

Le storie di Costanza /
Aprile 1959 – Il divanetto di Adelina

 

Intanto che mia madre e Giuseppina studiavano in città, la nonna Adelina faceva la sarta e gestiva la sua merceria. Quel piccolo negozio le permise di arrivare alla pensione e di vivere una vecchiaia autonoma e tranquilla.

Uno dei suoi grandi rammarichi era quello di non aver mai potuto fare la patente e di non avere una macchina che le permettesse di andare da Cremantello a Pontalba e da Pontalba a Cremantello ogni volta che se ne verificasse la necessità o, più semplicemente, ogni volta che le veniva voglia di vedere le sue nipoti e sua figlia. Mia madre infatti, nel 1966, si sposò e si trasferì a Pontalba, paese che dista circa 40 km da Cremantello.

La merceria era molto piccola, ci stavano tre persone per volta. Aveva il bancone e degli scaffali di legno scuro, le pareti bianche, una grande porta d’ingresso con i vetri che fungeva da antesignana vetrina. Il portone, che chiudeva l’entrata esterna del negozio, era fatto di tre sezioni di pesante legno che si aprivano piegandosi una sull’altra. Veniva chiuso internamente con una spranga di ferro, tenuta ferma da dei supporti dello stesso metallo. Il pavimento del negozio era di mattoni rossi, il colore veniva ravvivato una volta all’anno con uno smalto puzzolente che rendeva la superficie trattata color fuoco.

Ricordo anch’io quella bottiglietta di smalto rosso che si spargeva d’estate sui pavimenti della grande casa della nonna Adelina. Macchiava qualunque cosa o persona le si avvicinasse, anche semplicemente in maniera accidentale, e lasciava il suo marchio per molto tempo con una persistenza stupefacente.

Il negozio era collocato al piano terra, nella parte della casa che dava sulla strada, esattamente in mezzo alla costruzione. C’erano due stanze a sinistra e due a destra. Cinque stanze si trovavano al piano superiore.

La casa aveva inoltre un grande cortile con la pergola di uva fragola e un albero di pere color ruggine nel mezzo. In fondo al cortile c’era un fienile, una rimessa, un pollaio, la porcilaia e il “cantinetto” (la stanza sempre fresca dove si conservava olio e vino). Dietro questo secondo edificio c’era l’orto con cespugli di fiori, piante di ribes, verdure di ogni genere sapientemente coltivate in base alla stagione e alle caratteristiche della terra.

Nella grande casa, dietro al negozio, c’era una stanza dove era collocata la stufa a legna. Quel piccolo rifugio era nel 1959, l’unica sezione dell’edificio che veniva riscaldata, non c’erano i soldi per permettersi altro. In quel perimetro minuscolo ci stavano: un tavolo quadrato con quattro sedie e un divanetto su cui potevano stare due persone.

Molti anni dopo, proprio quel divano fu restaurato, rifoderato con del velluto color rosa antico e trasportato a Pontalba, nel soggiorno di casa nostra. Prese il nome di divanetto d’Adelina” e divenne il divano preferito di Tito, l’amico di famiglia, che lo incorniciava con la sua abbagliante presenza quando passava a trovarci e ad aggiornarci sui suoi novelli e vivifici pensieri. Le sue mani belle si muovevano come liane flessuose ed eleganti e i suoi occhi irradiavano di luce e d’azzurro il sofà.

Nella stanzetta dietro il negozio della nonna Adelina, sopra il tavolo, era posizionato un lampadario con il saliscendi, in modo che la nonna potesse cucire anche di sera. Appeso al muro c’era un calendario e uno specchio con il pettine appoggiato sul bordo sporgente antistante. La stanza veniva chiamata, in base al suo ruolo primario, “la stufa”. Aveva una sola finestra e tre porte, una dava sul negozio, uno sull’ala della casa di destra e una sull’ala della casa di sinistra.

Nessuna delle quattro mura era intera. Ognuna aveva un’apertura che rendeva “la stufa” il nocciolo perforato della casa. Un piccolo cuore a raggiera che pulsava di vita e di calore nel freddo di quell’inizio di primavera che stava spargendo ghiaccio e nebbia più in paese che in città.

Le tende della “stufa”, quelle che coprivano la porta del negozio, il divano e i suoi cuscini, erano tutte di tela robusta color bianco con applicati dei fiori colorati ritagliati da un’altra stoffa e cuciti su quella bianca dalle prodigiose mani della nonna Adelina.

Nel 1959 abitavano in quella grande casa: la nonna Adelina, mia madre Anna, lo zio Giovanni con Toti il suo cane, la prozia Ciadin e lo zio Rigoberto, che dopo poco si ammalò e fu costretto ad andare alla casa di riposo di Casalrossano.

Nessuna delle porte della “stufa” dava sull’esterno dell’edificio, anche per questo la stanzetta restava sempre calda. Di sera la nonna, mia madre, lo zio Giovanni e la prozia Ciadin stavano in quella stanza fino ad ora di andare a dormire. Giocavano a scala quaranta, dama cinese, briscola oppure leggevano e chiacchieravano un po’. La prozia Ciadin pregava i santi, le sante, i beati e i buoni di cuore.

Spesso di sera mia madre e la nonna Adelina cucivano asole (occhielli per i bottoni) di giacche e vestiti. Una specie di lavoro serale che si poteva fare “in casa”, difficoltoso e pagato pochissimo. I capi “da asolare” che spesso erano casacche blu di tela pesante che si usavano nelle fabbriche, venivano consegnati alle sarte all’inizio del mese. Passati i canonici trenta giorni, il corriere ritirava il lavoro finito, lo controllava e decideva se poteva essere pagato. Il lavoro era pesante, mal pagato e faticoso però permetteva di arrotondare un po’ il bilancio domestico e acquistare qualche scatola in più di “spagnolette” colorate da rivendere in negozio.

Alle 9,30 andavano tutti a letto. Le stanze del piano superiore, dove erano sistemati i letti e gli accessori per la notte, erano fredde e senza riscaldamento. Solo il letto era caldo, perché lo si imbottiva con uno “scaldino” di ferro contenete le braci. Lo scaldino veniva tolto appena prima di infilarsi sotto le coperte. Sono capitati, in quegli anni, incendi causati proprio da letti che si infiammavano e ardevano con le braci al loro interno.

Ancora adesso mia madre conserva un lenzuolo di lino con un foro causato da una brace. Lo usa sempre e ogni tanto guarda quello strano buchetto dai contorni frastagliati. Le ricorda la sua infanzia. Un semplice foro in un lenzuolo è più foriero di ricordi di un libro o di un film, perché è legato all’esperienza diretta della vita di una famiglia, al ricordo di persone che non ci sono più e di altre che ci sono ancora e continuano i loro passi in questo curioso mondo. Rispetto al 1959 la vita attuale è sia molto diversa che molto uguale, dipende da come la si guarda.

La scala che portava al piano superiore era di legno, ripidissima e con dei gradini stretti e smussati. Mi ricordo che da piccola mi faceva paura. Avvertivo un senso di pericolo tutte le volte che vi salivo.

Mia madre racconta che quando lo zio Giovanni aveva un anno era caduto proprio da là. Il giorno di Natale del 1948 il cielo era bianco e carico di neve, mio nonno si stava preparando per andare alla messa domenicale, quando sentì lo zio Giovanni piangere. Lo trovarono disteso in fondo alla scala. Era ruzzolato giù e strillava accasciato sull’ultimo gradino. Lo presero in braccio, lo osservarono e notarono che era pieno di botte all’inverosimile, con la testa tutta gonfia. Si spaventarono ma, per fortuna, la caduta non fu così grave e il bambino si riprese in fretta solo con l’applicazione di una pomata per le botte.

Ciò che mi impressiona sempre di questa vicenda è che nessuno pensò che il bambino sarebbe morto o sarebbe rimasto menomato (ipotesi che oggi qualsiasi genitore prenderebbe in considerazione), nessuno pensò di portarlo all’ospedale, non era previsto che si portasse “dai dottori” un bambino che aveva “semplicemente preso delle botte” (oggi si correrebbe al pronto soccorso a rotta di collo). Nessuno pensò che il bambino avesse bisogno di una radiografia (oggi verrebbe radiografato dalla testa ai piedi) e, infine, nessuno pensò di rifare la scala con gradini più grandi e sicuri e anche con uno scorri-mano.

Questo incidente mi sembra un bell’esempio di come alcune abitudini siano cambiate enormemente e di come alcuni comportamenti, ritenuti allora normali, siano oggi considerati inaccettabili.
Il tempo procede inesorabile il suo cammino e, accompagnate dal suo insidioso incedere, molte cose migliorano e altre no. Forse quello che abbiamo perso è la speranza che anche le situazioni più difficili si possano risolvere positivamente.

Trovo che l’idea di speranza (la sua definizione, la ricerca delle modalità con cui la si può trovare e perdere) sia un tema importante, che accompagna la nostra vita e la condiziona fino a definirla.

In quel mese del 1959 il governo cinese chiuse le frontiere con l’India. Il 13 aprile venne inaugurato ad Ispra, in provincia di Varese, il primo reattore nucleare italiano e, purtroppo, il 25 aprile si registrò il primo caso di AIDS nel mondo. Per molti anni questa malattia restò però poco conosciuta e diffusa. L’inizio ufficiale dell’epidemia fu fissato in data 5 giugno 1981.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore. 

Vite di carta /
Non ci sono santi, maschere sì: Veronesi e Romagnoli due libri a confronto

Vite di carta. Non ci sono santi, maschere sì: Veronesi e Romagnoli due libri a confronto

Sto leggendo contemporaneamente due libri, La forza del passato di Sandro Veronesi [Qui] e Non ci sono santi di Gabriele Romagnoli [Qui]. Non mi succede spesso di portare avanti letture parallele, ma in questo periodo ho un buon motivo per farlo (ricostruire alcuni incontri avvenuti quando ero in servizio al mio Liceo) e poi mi diverte scoprire i punti di contatto tra due libri così diversi.

Nel primo il narratore-protagonista, Gianni Orzan, racconta, mentre la vive, la fase più strampalata della sua esistenza. Uno sconosciuto lo avvicina e in più occasioni gli svela il passato di suo padre morto da poco, con rivelazioni che a ogni puntata paiono sempre più assurde: era una spia russa comunista, che aveva vestito i panni di un militare dell’esercito italiano e che per tutta la vita si era nascosto sotto una falsa identità anche al figlio (ma non alla moglie che sapeva la verità).

Il secondo contiene i resoconti che Romagnoli fa del suo giro attraverso l’Italia e delle strane figure di Italiani in cui si è imbattuto, tutte vere, in carne e ossa, anche se finiscono per essere le undici Maschere paradossali, che meglio rappresentano la natura italica antica e nuova.

I libri li ho davanti a me come due grandi mosaici e mi diverte accendere le tessere che si richiamano tra loro, guardandole ora di qua, ora di là nei punti del disegno narrativo in cui si trovano. Ora accendo per esempio quelle che fanno luce su due padri che si somigliano: da una parte illumino la figura del padre misterioso di Gianni Orzan, dall’altra il Generale che Romagnoli incontra a Trieste e che, nel capitolo L’inverno del generale o dell’invecchiamento, racconta le fasi della propria vita e la sua recente felicità.

Maurizio Orzan si chiamava in realtà Arkady Fokin, era un giovane ufficiale del controspionaggio di Stalin durante la Seconda Guerra Mondiale ed “era una specie di genio”; a lui era stata affidata una missione estrema: assumere l’identità di un italiano, entrare nei servizi segreti militari italiani e mantenere una posizione di comando tramite regolare carriera. Missione di importanza radicale nel periodo della divisione in due blocchi che stava interessando l’Europa dopo la fine della guerra.

Missione che Maurizio Orzan aveva portato avanti fino all’ultimo dei suoi giorni, dietro la maschera di padre severo e di democristiano incallito. Inevitabilmente in disaccordo con il figlio. Veronesi racconta benissimo lo straniamento che questa verità provoca in Gianni Orzan, la sua destabilizzazione totale. Anche se Gianni, che è uno scrittore di libri per ragazzi, alla fine sa ritrovare un nuovo equilibrio personale e familiare e si destreggia a tessere una nuova osmosi tra il vero della sua vita tutta rivisitata e il verosimile dei suoi libri.

non ci sono santi 2006Del vecchio Generale  Romagnoli deve avere cambiato il nome, ma non i fatti della vita, non le parole dette durante il loro incontro nel centro di Trieste. Il Generale ha una giovanissima moglie cubana che lo rende felice, ma racconta che le due figlie “indipendenti e progressiste”, che gli hanno dato anche dei nipoti, non la vogliono conoscere e anzi si rifiutano di incontrare anche lui. Imprigionate nello stereotipo della vecchiaia come ultimo e decadente stadio della vita, non gli perdonano di avere aperto invece un nuovo ciclo nella propria esistenza.

Ma il discorso che rende il Generale ancora più simile a Maurizio Orzan è un altro. Anche ora sorrido mentre rileggo questo passo, in cui Romagnoli, dopo averlo ascoltato mentre ripercorre la sua lunga carriera a partire dalla avventurosa campagna d’Africa nel 1941, conclude: ”Non capì mai l’Esercito e l’Esercito non capì lui. Non sapevano, per esempio, che era comunista. Non si limitava a votare comunista, aveva proprio la tessera”. Bel colpo e bella Maschera sul volto del generale.

Dalla somma di ritratti come questo Romagnoli ricava il quadro di una sorprendente Italianità, ancora più straniata per lui che gira il Belpaese dopo essere stato a lungo all’estero e perciò percepisce se stesso come un alieno e gli Italiani con cui dialoga come lo specchio dell’Italia di oggi. “Un paese che gioca con le illusioni, si convince di avere un futuro perché ha avuto un passato. E non si accorge del declino, che non è quello raccontato dalle cifre dell’economia.” È un sogno nel cassetto della avvocatessa laureata a pieni voti che sogna di apparire come soubrette in tv; sono le consapevoli bugie del maresciallo di Varazze, che mette insieme notizie improbabili e le divulga ai giornali. È un Paese che ha accettato di barattare la realtà con la rappresentazione.

Di mercoledì una settimana fa, dopo avere fatto la spesa consueta al mercato nella piazza del mio paese, sono stata di nuovo in banca. L’incontro è durato quasi due ore e ne sono uscita provata, con addosso una stanchezza sconosciuta. Quanti numeri percentuali, quante schermate di computer piene di parole lontane dal mio mondo, o del lessico bancario, o dell’inglese della tecnologia e del software.

Mi sono domandata che moneta ho io da spendere in un mondo così. Che chiocciola sono e quale casa porto con me sulle spalle. Porto con me l’interesse alle situazioni che formano i destini. Ne conosco tantissime, quelle che mi sono capitate e quelle che ho letto nei libri. Alla pari. Porto anche l’abitudine a decifrare le dinamiche del comunicare; so riconoscere se il direttore della filiale spara i paroloni che solo lui conosce, perché è a corto di argomenti. Riesco a fare presente al momento giusto quello che la normativa dice a mio favore e me la cavo, per stavolta.

Altre volte ho saputo riconoscere nei miei interlocutori certe timidezze mascherate da fredda competenza, da moti di ostentata spavalderia. E sempre più spesso, se vedo l’altro in difficoltà, mi vengono le parole giuste per metterlo a proprio agio, farlo sentire accolto nella interlocuzione. La letteratura avvicina alla vita, anche a quella pratica, anche quando da un incontro bisogna portare a casa un risultato e un utile. Lo fa con dinamiche tutte sue e, anche se è la cosa più disinteressata che io conosca, sa arrivare a un piccolo successo, un ‘profitto’. Se non altro esercita alla tolleranza. Permette di risalire dalla piccineria di un atteggiamento contingente alle potenzialità delle persone che, più spesso di quanto si creda, è collocata in un punto più alto.

Credo di avere condiviso nella mia maturità quello che dice Romagnoli in una delle ultime pagine: oltre le differenze e la varietà delle esistenze le altre persone ci riguardano.
Dal libro di Veronesi invece traggo una riflessione bellissima che il protagonista fa quando riceve la visita di sua madre, mentre si trova in ospedale con una spalla rotta. Vuole farle capire che ora anche lui sa la verità su suo padre, ma prima di far uscire le parole pensa di dirle:

“Dev’essere stata ancora più dura per te, che non sei mai stata russa, comunista, mandata in missione, per te che eri solo una ragazza piccolo borghese del Nomentano… Eppure, in un certo senso, deve essere stato anche più facile, poiché per te si è trattato di amare e non d’altro… Tu quello sapevi fare, amare, e quello hai fatto: hai amato, e sei andata avanti amando, senza stare a distinguere cosa c’era di vero e di finto. Per te è stato tutto vero, in fondo, perché per non sbagliare, davanti a quella vita così complicata, hai amato tutto”.

I libri a cui faccio riferimento nel testo sono:

  • Sandro Veronesi, La forza del passato, Bompiani, 2000
  • Gabriele Romagnoli, Non ci sono santi. Viaggio in Italia di un alieno, Mondadori, 2006

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

Crimea, una terra ricca, contesa con le armi:
paradigma di tutte le (3.000!) guerre oggi nel mondo

 

La Crimea (in russo: Крым e in ucraino: Крим) è una penisola fra Russia e Ucraina. Si affaccia sul Mar Nero ed è collegata alla terraferma dall’istmo di Perekop che lo unisce alle regioni sudorientali dell’Ucraina. Dal 2018 è collegata alla Russia dal ponte di Crimea, situato sullo stretto di Kerč’. È de facto una repubblica federata della Russia, corrispondente grosso modo alla penisola omonima, fatta eccezione per la città di Sebastopoli.
La crisi della Crimea del 2014 è stata una crisi politica scoppiata nella penisola, la cui popolazione è per maggioranza di etnia russa, conclusasi con la separazione dall’Ucraina dopo l’intervento militare russo di occupazione del territorio. Il 16 marzo 2014 si è tenuto un referendum in base al quale le due entità della Repubblica autonoma di Crimea hanno sottoscritto il trattato di adesione alla Federazione Russa. Tale atto [qui] è considerato valido solo da una parte minoritaria della comunità internazionale.

In Crimea esistono diversi tipi di suoli, tra cui il chernozem che occupa oltre il 45% della penisola e contiene una quantità altissima di humus e calcio. Il Chernozem è molto fertile, resistente alla compattazione, alla lisciviazione, agli agenti atmosferici e alla formazione di croste. Attraverso questo terreno, il sistema radicale delle piante riceve la quantità ottimale di umidità e aria. A causa della sua composizione, il chernozem ha sempre un colore più o meno nero, che è una caratteristica tipica del suolo Crimeo. Nel sottosuolo ci sono anche depositi di varie risorse naturali, come minerale di ferro, sale, petrolio e gas e vengono estratti vari materiali da costruzione. La terra di Crimea, su cui è possibile dedicarsi tra l’altro all’allevamento del bestiame e all’agricoltura, ha reso la penisola oggetto di migrazioni consistenti. [qui] Proprio questa penisola, per la sua posizione strategica e per la sua ricchezza, è sempre stata oggetto di conflitti fra nazioni e martoriata da guerre senza fine il cui ricordo si perde nella notte dei tempi.

Le motivazioni che portano alla guerra sono sempre molto complesse. Tra queste: la rivendicazione di diritti (che può essere allo stesso tempo causa e conseguenza del conflitto); il cambiamento climatico e le devastazioni ambientali; lo sfruttamento e l’accaparramento delle risorse (acqua, petrolio, minerali, gas, terra e legname); gli interessi economici in senso lato, che si legano spesso alla pessima redistribuzione della ricchezza; la conquista di autonomia e indipendenza. Tutte queste ragioni spesso si intersecano tra loro e questo mix, insieme alle differenze culturali, religiose e di comunità, alimenta e prolunga la situazione di conflitto in maniera esponenziale. [qui]

I civili continuano ad essere le vittime per eccellenza di tutte le guerre. Secondo i dati dell’Agenzia delle Nazioni Unite per gli aiuti in emergenza, nel 2021 il numero di persone bisognose di aiuti umanitari è il più alto mai registrato. La situazione è ulteriormente peggiorata in questo ultimo mese. La stima dell’Alto commissariato Unchr prevede un esodo dall’Ucraina di almeno 4 milioni di persone, il dieci per cento della popolazione residente nello Stato. Un dato impressionante, preoccupante che contribuirà a ridefinire assetti geo-politici in mutamento e a massificare ulteriormente lo stato di povertà della popolazione di questa povera terra. Quella della Crimea è una delle storie politiche e sociali più travagliate dell’intero pianeta:

  • Nel 1261, in seguito al trattato di Ninfeo, i Genovesi sostituirono i Veneziani nel controllo degli stretti del Mar Nero e nel 1266 riuscirono a conquistare i porti e alcune città Crimee. Le città commerciali in mano ai genovesi vennero poi conquistate nel 1475 dal generale turco ottomano Gedik Ahmet Pascià e divennero una provincia dell’Impero ottomano.
  • Nel 1854-1855 la Crimea fu il principale teatro della Guerra d’Oriente, che è oggi nota come “Guerra di Crimea”: gli eserciti congiunti di Gran Bretagna, Francia e Regno di Sardegna riuscirono ad espugnare la cittadella militare russa di Sebastopoli, ponendo così termine alle mire espansionistiche dell’Impero Russo verso Costantinopoli. In quell’occasione Cavour mandò i bersaglieri del Regno di Sardegna a combattere a fianco degli alleati per avere l’aiuto della Francia contro gli Austriaci. Fu un massacro, i bersaglieri morirono quasi tutti. [qui]
  • La Crimea fu anche teatro di alcune delle più sanguinose battaglie della Seconda guerra mondiale. Dopo la liberazione il 18 maggio 1944 l’intera popolazione dei Tatari di Crimea venne deportata dal regime sovietico di Stalin per punizione, in quanto i tatari, dopo aver creato la Wolgatatarische Legion, avevano combattuto a fianco delle truppe del Terzo Reich. Si stima che il 46% dei deportati morì per la fame e le malattie.
  • Al termine della Seconda Guerra Mondiale, la Crimea ospitò la Conferenza di Jalta e fu trasformata in un oblast’ della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa (RSFSR). [qui]
  • Dopo il collasso dell’Unione Sovietica del dicembre 1991, la Crimea proclamò l’autogoverno il 5 maggio 1992, ma in seguito accettò di rimanere all’interno dell’Ucraina indipendente come repubblica autonoma.
  • Nel 2014 la Crimea è stata occupata militarmente e annessa alla Russia come Repubblica di Crimea a seguito di un referendum popolare avvenuto il 16 marzo. Tale referendum è stato considerato illegittimo e illegale e non riconosciuto dalla comunità internazionale, in quanto in violazione di norme cogenti del diritto internazionale, e condotto sotto occupazione militare. (La secessione ha contagiato immediatamente il Donbass. Gruppi militari Russi hanno preso progressivamente il controllo del territorio, specie nelle enclavi di Lugansk e Donetsk, fino a dichiarare l’indipendenza e la nascita delle due repubbliche riconosciute il 21 febbraio 2022 da Putin in diretta tv. Questo sancisce, di fatto, una rottura degli accordi di Minsk, con cui erano tornate sotto l’egida di Kiev).

Allo stato attuale, la base navale di Sebastopoli, strategica per la posizione di Mosca nel Mediterraneo, ospita una delle quattro principali flotte della Marina militare russa, che comprende la flotta del Nord con sede a Severomorsk, quella del Pacifico collocata a Vladivostok e quella del Baltico a Kaliningrad, alle quali si affianca la flotta del Caspio. L’importanza della base non si esaurisce nell’aspetto militare, in quanto attraverso i porti del Mar Nero transita il 30% del totale delle esportazioni marittime russe. Una storia di guerre senza fine, di deportazioni, massacri, soprusi, cattiveria senza ritegno. Una terra martoriata all’inverosimile perché ricca di risorse e in una posizione geopolitica strategica. A tutti i “potenti della terra” è interessata e/o interessa la Crimea.

Esistono altri territori del mondo che hanno subito un destino simile, tutti accumunati da presenze di risorse e posizione geografica strategica. Se consideriamo tutti i focolai di guerra, che allo stato attuale sono circa 3.000 in tutto il mondo, ci rendiamo conto di quanto si possa (in senso lato) parlare di “guerra mondiale” in corso, cioè di una guerra che ha focolai ovunque e che è accomunata dall’uso di armi sempre più distruttive, quali le bombe chimiche.
Nel mondo, USA, Russia e Cina sono i paesi con la forza bellica più imponente. Gli Stati Uniti hanno l’esercito più potente, la Russia ha il primato delle scorte nucleari e la Cina quello del maggior numero di militari in servizio attivo (2 milioni di persone.) USA e Russia hanno inoltre nelle loro mani il 90% delle testate atomiche presenti sulla Terra. Secondo il SIPRI – Stockholm International Peace Research Institute – gli arsenali atomici sono così suddivisi: Russia: 6225 bombe atomiche, Usa: 5550, Cina: 350, Francia: 290, Regno Unito: 215, Pakistan: 165, India: 156, Israele: 90, Corea del Nord: 40.

L’Italia non ha un proprio arsenale atomico ma ospita sul proprio territorio bombe atomiche americane, come anche Belgio, Germania, Paesi Bassi e Turchia in quanto membri della NATO.
Ce n’è a sufficienza per diventare tutti della carne bruciata, per pensare che semplicemente utilizzando parte di questo arsenale, sulla faccia della terra non resterà un solo essere umano. C’è il rischio che l’intero pianeta diventi come una immensa Cernobyl, quel territorio invaso dalle radiazioni, abbandonato e adesso ricco di vegetazione che si è riappropriata degli spazi umani con una prepotenza e una arroganza che impressiona. Un messaggio del pianeta Terra che non si può sottovalutare. Una Natura piegata alla cattiveria dell’uomo sa ribellarsi molto più e molto più prepotentemente di quanto può fare una nazione e un popolo. La forza della natura può annientare il maleficio che proviene dalle armi riemergendo nuova e libera, senza più la presenza di alcun essere umano, però.

E allora non resta che tornare a parlare di pace e di disarmo. riposizionandoli all’interno delle agende mondiali come temi centrali. Solo così sipotrà salvare la vita su questo pianeta. Proprio su questi argomenti e su tutte le loro possibili implicazioni, tutte le menti illuminate del mondo dovrebbero indirizzare le loro risorse, conoscenze e abilità.

In copertina: Marcia della Pace (Mosca 15,03.2014) Nello slogan: “L’occupazione della Crimea è una vergogna della Russia” (su licenza Creative Commons)

Ucraina, arrestato Gleb Lyashenko, blogger oppositore di Zelensky

Dopo la messa fuori legge  di tutte le opposizion[Vedi qui] , il regime ucraino conferma la sua deriva fortemente autoritaria.

Il blogger ucraino Gleb Lyashenko, oppositore di Zelensky, è stato arrestato a Leopoli per alto tradimento e rischia 15 anni di carcere. Il suo “crimine” è aver scritto: “Per 8 anni la Russia ha chiesto e persino implorato l’Ucraina di cambiare rotta… L’Ucraina ha rifiutato per 8 anni. Ed ecco il risultato”.

Per lui nessuno si straccia le vesti, vero? L’Ucraina è un paese democratico, non come la Russia governata da un dittatore…

Queste notizie i media italiani non le fanno arrivare. D’altronde non è il primo attacco alla libertà di espressione in Ucraina dal 2014, tra persecuzioni di giornalisti, di attivisti di sinistra, di antifascisti ed attivisti per i diritti umani. 15 anni di galera per aver scritto pubblicamente la tua opinione non li fai solo in Russia, ma anche in Ucraina.

Non dimentichiamoci dei giornalisti uccisi in Ucraina, come l’italiano Andrea Rocchelli.
Forse non tutti sanno che all’epoca dell’uccisione, il 24 maggio 2014, Andrea si trovava in Donbass per documentare le atrocità commesse dall’esercito ucraino nei confronti della popolazione locale. La prima versione fornita alla Farnesina fu che il nostro reporter venne colpito accidentalmente da un colpo di mortaio insieme a un altro giornalista russo e attivista per i diritti umani, Andrej Mironov.

Questa versione dei fatti fu poi smentita da un disertore dell’esercito ucraino, che accusò un suo superiore di aver dato ordine di sparare contro un gruppo di civili e soprattutto da un giornalista francese, William Roguelon, che si è salvato per miracolo da questo attentato e ha fornito la reale versione dei fatti al governo italiano, confermando la versione del disertore ucraino.

Dovremmo ricordare che riguardo all’uccisione di Andrea Rocchelli l’attuale governo ucraino ha proseguito nella linea scelta dal governo precedente, cioè ha negato la dinamica ricostruita dalla magistratura italiana, mentendo e soprattutto costruendo false verità.

Alla luce di ciò e del paventato “Premio Nobel per la Pace” a Zelensky, ci sarà giustizia per Gleb Lyashenko?

Fonti:
https://uarefugees.news/news/gleb-lyashenko-detained-for-treason-political-expert-taken-into-custody/
www.rt.com

Lorenzo Poli
Sono Lorenzo Poli, sono nato a Brescia e dopo la maturità classica, ho iniziato a frequentare il corso di Scienze Politiche Relazioni Internazionali Diritti Umani all’Università di Padova. Appassionato di attualità politica, politica internazionale, questione di genere e studi postcoloniali mi interesso di temi riguardanti diritti umani, antirazzismo, femminismo, liberazione animale e antispecismo con particolare attenzione all’intersezionalità dei contesti. Da qualche anno mi occupo, da autodidatta, di popoli in lotta contro l’imperialismo, di America Latina, di conflitti in Medioriente, in particolare la Palestina in una prospettiva decoloniale. Nel 2019 ho contribuito a fondare Progetto EcoSebino, progetto di rigenerazione eco-sociale che interseca le lotte per la giustizia ambientale e per la giustizia sociale sul territorio del Lago d’Iseo. Collaboro con Il Periodista ed ho pubblicato nel 2016 il mio primo romanzo “Luce al di là del Buio”, edito da Marco Serra Tarantola Editore.

Cover: il blogger ucraino Gleb Lyashenko (Foto di https://uarefugees.news/)

Ragioni della pace, ragioni della guerra

 

C’è un certo imbarazzo nel parlare di quel che sta succedendo ad est.
C’è un certo scoramento nel constatare che, accanto al conflitto militare, è in corso una guerra a livello mediatico: una guerra nella quale la prima vittima è la verità, dove la propaganda, la disinformazione, le fake news prosperano.
C’è un po’ di delusione nel vedere ripetersi un copione che è stato usato nei conflitti che hanno coinvolto l’occidente: iper-semplificazione dei fatti, ridotti allo scontro bene (noi) male (loro), costruzione della figura del nemico come dittatore, attribuzione al nemico di ogni responsabilità e di ogni crimine.
C’è frustrazione nel vedere ripetersi in Europa quel che era successo nella ex Jugoslavia e, su scala più ampia e drammatica, in Iraq, in Afghanistan, in Libia, in Siria.
Nulla di strano, nulla di nuovo purtroppo: la storia, si sa, è buona maestra ma non ha allievi.

L’imbarazzo aumenta e diventa disillusione nel constatare che questa guerra prolunga il periodo di paura e di odio generato dall’esistenza di una pandemia e dalla sua gestione, proprio quando sembrava che questa emergenza fosse finalmente finita. Da oltre due anni, il quadro di paura diffuso tra la popolazione è diventato strumento di governo e, oggi, costituisce la precondizione necessaria per sostenere e legittimare la violenza e la guerra.
I media hanno avuto ed hanno una grande responsabilità nella creazione di tale contesto negativo; ma anche ognuno di noi ha una precisa responsabilità: gode infatti di uno spazio di libertà che consente di scegliere se alimentare le ragioni della guerra o sostenere quelle della pace. Accettare pedissequamente la narrazione mainstream e quindi prendere partito per uno dei contendenti senza conoscere il contesto e il passato è il primo passo attraverso il quale ognuno di noi alimenta, piaccia o meno, il conflitto.

Per capire meglio quel che sta succedendo bisogna almeno tornare al dicembre 1991, data che segna la fine ufficiale dell’URSS dopo il crollo del muro di Berlino il 9 novembre 1989 e lo scioglimento di fatto del Patto di Varsavia (1991). La Glasnost e la Perestrojca di Gorbaciov sembravano aprire una stagione nuova, l’uscita dalla guerra fredda, la rinascita dell’Europa in un nuovo orizzonte di pace e collaborazione. Erano i tempi in cui sembrava possibile agli spiriti più visionari una grande Europa libera da Gibilterra agli Urali ed oltre. Non è andata affatto cosi. Il vecchio e corrotto sistema sovietico è crollato prima che il nuovo cominciasse a funzionare e la crisi si è fatta ancora più acuta nella misura in cui i cambiamenti radicali in un Paese così vasto non potevano e non possono passare in modo indolore, senza difficoltà e sconvolgimenti che si ripercuotono a livello globale.

Con la crisi del sistema statale centralizzato, della sua burocrazia e dell’ideologia che ne era il cemento, è venuto meno il collante che teneva insieme le tante etnie e le innumerevoli repubbliche che costituivano il sistema comunista sovietico, che veniva presentato in occidente come un grande monolite nascondendone la complicata realtà multietnica.  All’interno di molte di esse, sono scoppiati drammatici e sanguinosissimi conflitti etnici e religiosi abilmente fomentati dall’esterno, fino alle più recenti “rivoluzioni colorate” che hanno portato alla sostituzione dei regimi amici di Mosca con regimi amici degli USA, come successo anche in Ucraina prima con la “rivoluzione” Arancione del 2004 e poi con la “rivoluzione” di Maidan del 2014.
Con il crollo del muro di Berlino e il ritiro dei sovietici dalla Germania e dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia, l’intero equilibrio scaturito dalla seconda guerra mondiale è andato in frantumi senza che il processo fosse governato come sarebbe stato necessario. Alla Russia è rimasto però un arsenale atomico enorme, obsoleto forse e quindi ancor più pericoloso.

A fronte di questo il sistema antagonista, la NATO non si è affatto sciolto ma, anzi, ha iniziato ad espandersi verso est incorporando paesi un tempo satelliti di Mosca e, infine, cercando di mettere radici in Ucraina. Un passaggio, questo, incauto e pericolosissimo che nessun paese con rinascenti ambizioni di potenza (tale è la Russia di Putin) poteva accettare impunemente (basti ricordare, a parti invertite, la crisi dei missili a Cuba del ’62).
In questo lungo processo, oggi sfociato in una guerra largamente prevedibile e prevista, l’Europa non ha saputo agire dimostrando la sua assoluta inconsistenza politica e culturale, malgrado l’entrata nel sistema europeo dei paesi dell’est.
Anche qui nulla di nuovo se solo si guarda agli avvenimenti in ottica geopolitica e col disincanto che la politica internazionale richiede.

La rottura del vecchio equilibrio geopolitico ha anticipato la distruzione di ogni idea non solo comunista, ma anche socialista e la sua sostituzione con i valori del mercato dominati dalla finanza e dalle multinazionali. La parola competizione ha sostituito quella di cooperazione; il consumo ha sostituito l’etica della cittadinanza; il capitale ha surclassato il lavoro mentre le macchine intelligenti sostituiscono l’uomo. Il bene privato ha surrogato il bene pubblico e il bene comune. Gli Stati sono stati indeboliti cedendo grandi quote di sovranità e sono ormai tutti legati alla logica di funzionamento della finanza. Il crollo del capitalismo di stato ha lasciato mano libera al capitalismo di impronta neo-liberista ovvero ad una élite finanziaria che ha iniziato ad espandere il suo potere su tutto il pianeta. Il dominio assoluto del mercato è diventato la cifra distintiva di una globalizzazione planetaria a senso unico.
E’ venuta meno la speranza di costruire una grande Europa comprendente tutti gli ex satelliti sovietici e la Russia stessa insieme all’Ucraina; un blocco pacificato che a livello geopolitico sarebbe diventato in grado di competere a livello globale nel giro di pochi decenni. A questa utopia politica si è preferita una tecnocrazia burocratica basata esclusivamente sull’economia, sulla finanza e sul diritto.
E’ questo il Nuovo Ordine Mondiale che ha sostituito quello bipolare nato da Jalta e dalla seconda guerra mondiale (curioso: Jalta si trova in Crimea e proprio la Crimea insieme al Donbass sta al centro del contenzioso attuale). Questa guerra non è la fine della globalizzazione perseguita negli ultimi 30 anni, bensì, al contrario, la globalizzazione mercatistica fallita a livello globale è la causa della guerra in Ucraina.

Di tutto questo noi siamo spettatori, spesse volte spaventati e rancorosi, immersi in un flusso di informazioni alle quali diamo senso in base al pregiudizio e quasi sempre in assenza di riferimenti concettuali adeguati in grado di collocare il fatto e la narrazione complessiva in una prospettiva più ampia connessa alla propaganda, alla storia e alla geopolitica. Siamo spettatori indignati nella misura in cui l’agenda dei media sottopone alla nostra attenzione la guerra in Ucraina tacendo su tutte le altre guerre che proprio adesso insanguinano il mondo.
Siamo spettatori inconsapevoli nella misura in cui ignoriamo che in un contesto di guerra le fonti di informazione sono sempre tendenzialmente censurate e l’informazione è controllata, filtrata e diffusa dai governi, dai militari e dall’intelligence.
Siamo spettatori incoscienti nella misura in cui accettiamo e diffondiamo notizie la cui finalità non è quella di informare imparzialmente, ma quella di creare emozioni e sentimenti sempre più estremi, che servono solo a generare l’odio e la paura che servono per alimentare la guerra e la violenza.

Potrebbe sembrare un quadro deprimente ma proprio qui risiede l’opportunità di cambiamento: infatti, in quel che resta della nostra democrazia, ai potenti e ai signori della guerra serve ancora il consenso e solo noi cittadini possiamo concederlo.
In un contesto di conflitto aperto ognuno di noi diventa, nel suo piccolo, protagonista della guerra, di questa guerra cha da oltre un mese sta al centro della cronaca e dello spettacolo. La guerra ha assoluto bisogno di fiancheggiatori che ne garantiscono la legittimazione culturale: nessuna guerra che cada sotto i riflettori dei media sarebbe infatti possibile e potrebbe durare a lungo senza questo tipo di appoggio diffuso. La guerra ha bisogno di te.

Ma se questo è vero, è anche vero che si possono sostenere le ragioni della pace. Lo si fa rifiutando la contrapposizione manichea tra bene e male, evitando ogni azione che possa contribuire a causare ulteriore paura e alimentare l’odio. Tutte le persone che si agitano sostenendo la ragione delle armi sono perfettamente funzionali allo scontro, sostengono gli interessi dei poteri che lo vogliono e ne traggono profitto.
La logica della pace può anche fare a meno di “fatti” spacciati per veri dai media. La pace ha una sola bandiera ed è di colore bianco; non è finalizzata a difendere una parte e a criminalizzare l’altra: mira semplicemente a ridurre il conflitto, a favorire le trattative, a ricondurre al buon senso, a tutelare ed aiutare le vittime civili che accompagnano ogni conflitto.
Il pensiero di pace si sviluppa ad un livello superiore rispetto alle ragioni del potere; sa che la logica del potere e del capitale usa i drammi dei civili per sviluppare il proprio disegno nefasto.
La logica di pace, deve guardare al futuro nel lungo periodo: non solo a pacificare adesso, ma a costruire un futuro che sia generativo di pace. Solo dopo, a pace fatta, si potranno scrivere sulla bandiera bianca che non separa parole autentiche di ogni colore. Esattamente quello che oggi non sta succedendo.

Poco più di 100 anni fa (1917), la Rivoluzione Russa irrompeva nella storia di un secolo caratterizzato da guerre, rivoluzioni e scontro ideologico. Oggi, dai medesimi luoghi, potrebbe sorgere l’alba di un Nuovo Mondo oppure, se non prevarranno le buone ragioni della pace, concludersi definitivamente e drammaticamente la parabola del vecchio mondo che conosciamo.

DIARIO IN PUBBLICO
Cosa farò da grande?

 

Il continuum di pensieri non seguiti dall’azione (o tempora…) producono notevoli quantità di libri sul tavolone da lavoro. Sfilano, Morante, Bassani, Canova, Cicognara tra affannati consulti, problemi (guai a chi osa scandire anche solo nel pensiero l’orrido ‘problematiche’!) esecutivi, scansioni temporali.

Invano chiedo conforto alle idiozie televisive, che mi rimandano l’immagine di un’Italietta ormai irrecuperabile. Pochi conforti (per citare ancora una volta l’Amatissima, ovvero Elsa) splendono nel buio della notte, tra i quali la certezza di avere dato casa dignitosa ai miei ‘bambini’ siano essi libri o dischi.

Ora il distacco più triste, ma più necessario: quello per cui affiderò alla Biblioteca Ariostea i libri più amati e importanti della storia del giardino, che ancora occhieggiano qui vicini al computer, atteso che, unici in Emilia, possediamo – da me voluta e avviata – la raccolta più specializzata in questa disciplina. Ovviamente attraverso l’aiuto e l’appoggio del Garden Club di cui un tempo ho fatto parte.

Ed ora è tempo di scalare la montagna. A Parigi trionfa al Petit Palais la mostra su Giovanni Boldini [Qui] organizzata dalla bravissima Barbara Guidi, amica che, in quel di Bassano, sapientemente conduce la direzione del Museo-Biblioteca.

A breve l’Edizione Nazionale delle opere di Antonio Canova [Qui], di cui mi pregio essere presidente, organizzerà con il Comune di Bassano un grande Convegno dedicato al bicentenario della morte dell’autore, e la presentazione del volume – primo della serie delle lettere di Canova – nei luoghi da lui frequentati: da Bassano, a Roma, Venezia, Firenze.

Ma ciò che rappresenta l’omaggio ‘ferrarese’ più importante sarà un convegno internazionale su Leopoldo Cicognara [Qui], che si terrà nella Biblioteca Ariostea. Almeno spero!

Ma ora l’impegno più pressante e certamente il più difficile sarà quello che dovrò sviluppare sui rapporti tra Proust [Qui] che ‘racconta’ l’arte e i suoi referenti, i pittori, tra cui in primo piano è ovviamente Boldini.

Un impegno che non so se riuscirò a portare a termine, ma che già avevo cominciato a scandagliare studiando di Proust l’amico Robert de Montesquiou [Qui] e l’omonimo parigino di Boldini, Paul César Helleu [Qui]. Nel frattempo, l’amica e collega Anna Dolfi annuncia l’uscita di un volume proustiano dove, se le forze reggeranno, scriverò il saggio sul tema qui annunciato. Basterà a confermare cosa farò da grande?

Tra uno scroscio di pioggia e un timido raggio di sole, che esalta la fioritura straordinaria di camelie, giacinti e tromboncini del giardino, ancora una volta la mente è oppressa dalla tristezza della malvagia guerra in Ucraina condotta dall’orrido dittatore russo.

Ma il pensiero, per non condannare una storia così necessaria al progresso della civiltà occidentale e mondiale, va ai meravigliosi luoghi dell’arte russa, che con diversi toni si declina anche tra Russia e Ucraina. E bene ha fatto il ministro Franceschini a convalidare l’impegno di ricostruire il teatro di Mariupol, come si evince da un suo twitter.

Come è possibile dimenticare l’influsso dell’arte russa nel mondo? Ancora una volta mi vengono in mente i viaggi a Mosca, San Pietroburgo e nel territorio russo, fatti con entusiasmo e impegno ed organizzati dalla CGL ferrarese forse ‘un milione di anni fa’! Eravamo giovani e bambini. Ora da grande il ricordo di quei luoghi conforta e riscalda.

Mai ne potremo fare a meno!

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]