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Stefano Gargioni, Giorgio Perlasca e il silenzio del Comune di Ferrara

 

Il post antisemita e neofascista di Stefano Gargioni – dirigente scolastico dell’Istituto Giorgio Perlasca, Giusto fra le Nazioni – ha prodotto, a Ferrara e in Italia, molte reazioni di sdegno e condanna. Stiamo aspettando la decisione del Ministero retto dal ferrarese Patrizio Bianchi –  e sarebbe bene che la sospensione fosse perpetua, tanto da impedire a una persona del genere di metter più piede in una scuola della Repubblica.

Oggi, però, la notizia più inquietante è un’altra. A più di  48 ore dall’uscita delirante di Gargioni, non registriamo nessuna reazione (stupore? presa di distanza? condanna?) da parte del Sindaco e Vicesindaco di Ferrara. Sappiamo che entrambi amano parlare tramite social, ma le loro seguitissime pagine Facebook si gingillano ancora riportando la ‘buona stampa’ sul governo cittadino e non spendono una parola sul preside fascista. 
(Francesco Monini)

Non intendo scrivere sulla vicenda del dirigente scolastico fascista Stefano Gargioni che paragona il Green Pass all’Olocausto, non perché non abbia pensieri al proposito ma perché credo che la vicenda, nella sua macroscopica gravità, non dovrebbe aver bisogno di parole ma di vere e proprie manifestazione civili di indignazione (che durino molto di più del tempo che serve per scrivere un commento sui social) da parte dei genitori, del personale scolastico, dei altri Dirigenti Scolastici, degli amministratori, dei cittadini.
Bene hanno fatto i dirigenti scolastici di Ferrara e Provincia ad inviare ai giornali una lettera di presa di distanza dell’accaduto. Bene hanno fatto le organizzazioni sindacali e le RSU/RSL dell’istituto Perlasca a comunicare pubblicamente il loro pensiero critico verso l’operato del preside.
Come in tutti i casi in cui una goccia, seppur grande, fa traboccare il vaso mi chiedo come mai siano state sottovalutate tutte le altre gocce che quel vaso hanno riempito: le messe in orario scolastico, i giudizi pesanti sul Presidente della Repubblica, gli organi collegiali convocati in presenza nonostante le disposizioni ministeriali, i protocolli di sicurezza non rispettati, i rapporti sindacali resi difficoltosi, il mancato controllo del green pass, eccetera.
Mi chiedo anche perché il sindaco non sindachi, il vicesindaco non vicesindachi, l’assessore non assideri ma soprattutto perché i consiglieri di destra di Ferrara non consiglino?
A volte il loro silenzio è davvero assordante. Speriamo almeno che il Ministro dell’Istruzione: Bianchi, provocato da simili comportamenti indecenti, provi almeno un po’ a “sbiancare” il troppo “nero” che sta dilagando a scuola oltre i limiti del civile confronto democratico.
In copertina: Salvacondotto collettivo Famiglia Harsanyi. Documento rilasciato dal finto console spagnolo Giorgio Perlasca che attestava la cittadinanza spagnola e il diritto all’ospitalità in case protette affittate dall’Ambasciata spagnola che godevano dell’extraterritorialità.  – Tratto dal sito della Fondazione Perlasca: www.giorgioperlasca.it

Le storie di Costanza /
La piazza e il ragno

Carla mi ha detto che a Teresa è entrato un ragno in un orecchio.
È andata a dormire la sera che non aveva nulla e la mattina dopo si è alzata con un fastidioso formicolio in un orecchio. Siccome non le passava, suo fratello l’ha portata al pronto soccorso e là, dopo un’attesa interminabile perché le sue condizioni di salute non erano complessivamente preoccupanti, le hanno estratto un ragno vivo da una delle due cavità auricolari.

Oristano dice che solo a sua sorella poteva succedere una cosa del genere. Non si spiega nemmeno lui come un ragno sia riuscito a infilarsi nel tunnel dell’orecchio mentre dormiva con la testa appoggiata sul cuscino. Di fatto è successo.

Oggi siamo seduti su una panchina sotto uno degli alberi della piazza principale di Pontalba, io Oristano e Carla. Teresa non c’è perché aveva appuntamento alle diciotto dal dentista.
“Non se ne capacitavano neanche i medici di quel ragno nell’orecchio di mia sorella” dice Oristano.
“Già sembrerebbe impossibile. Ma una cosa è impossibile fino a prova contraria. Quando succede non è più impossibile” dice saggiamente Carla.

Ora a Teresa è rimasta la preoccupazione dei ragni e vuole che suo fratello controlli i muri della sua stanza prima di andare a dormire la sera.
“Devo entrare nella sua camera da letto, e guardare molto attentamente le pareti, girando su me stesso in senso orario. Poi devo guardare sotto il letto con la pila. Non solo, se ha l’impressione che io abbia guardato con meno attenzione del solito, devo ripetere tutta l’operazione due volte” dice rassegnato Oristano.
Carla ride.
“Può capitare di peggio, sopporta” gli dice.

Storie di vita quotidiana a Pontalba. Storie della gente di questo paese di pianura dove il tempo dondola invece che proseguire deciso il suo cammino, storie di tutti e di nessuno.

Guardo la piazza dove siamo adesso. Una piazza grande con un obelisco ai caduti al centro. Una costruzione di cemento con l’elenco dei nomi dei militari Pontalbesi morti durante la Seconda guerra mondiale. I nomi di quei poveri giovani sono elencati uno sotto l’altro con le lettere dei nomi e dei cognomi incollate su una piastra di marmo posizionata nella parte centrale dell’obelisco. Tutt’intorno ci sono gli alberi, le panchine sotto gli alberi e un parcheggio che circonda il ‘monumento’, (così viene chiamata in maniera impropria l’area centrale della piazza che comprende obelisco, piazzetta con sassolini bianchi, alberi e panchine).

I bambini usano come sinonimi ‘andare a giocare in piazza’ e ‘andare a giocare nel monumento’ perché si identifica in questo modo l’area centrale delimitata dalle piante e il monumento ai caduti abbraccia la vegetazione diventando un tutt’uno col resto della piazza.

A giocare nel monumento ci siamo sempre andati anche quando eravamo piccoli. Era uno dei posti privilegiati di quella generazione di bambini che adesso ha intorno ai cinquant’anni. Si poteva giocare a nascondino, a rialzo, a bandiera, a rincorrersi. Nel monumento si facevano, e si fanno tutt’ora, alcune cerimonie ufficiali. Il quattro Novembre si depone una corona d’alloro sulla tomba dei poveri caduti e il Sindaco fa un discorso commemorativo.

La lunghezza e il contenuto del discorso dipende dalla bravura del Sindaco di turno. Ne abbiamo sentiti di molto lunghi e di telegrafici, di taglio intimista e, diversamente, di fedele ricostruzione storica. A parer mio poco cambia, quella povera gente è morta, le famiglie hanno sofferto, chi è rimasto ha convissuto con il trauma della perdita fin che ha respirato. La guerra è una vicenda umana tremenda: uccide un po’ tutti, chi combatte e chi resta.

Chi nasce e chi muore si trova travolto da un tempo in cui la vita normale è alterata da una vicenda drammatica che nessuno sa né come né quando finirà. Anche nella Seconda Guerra Mondiale è stato così. A maggior ragione in Lombardia, dove ci sono stati militari giovanissimi mandati al fronte, disertori, tedeschi, traditori, partigiani da sempre e partigiani dell’ultima ora che si sono intrufolati per puro opportunismo, come fanno sempre le cattive persone.

Alcuni Sindaci hanno letto il discorso, altri lo hanno declamato, altri ancora improvvisato. A volte hanno partecipato anche i bambini della scuola elementare e alcuni di loro hanno letto qualche poesia di guerra. Quasi sempre c’è stata anche la Fanfara dei bersaglieri. In un paese piccolo come Pontalba non si possono pagare fanfare particolarmente quotate. Sono piccoli gruppi di bersaglieri in pensione che suonano i tromboni.

Non corrono molto, ma tanto a Pontalba non serve, per attraversare il paese di corsa ci vogliono dieci minuti in tutto e chiunque riesce a farlo. Anche la premiazione degli Avisini (donatori di sangue) meritevoli si svolge nel monumento e anche l’ingresso del nuovo Parroco prevede sempre una tappa all’obelisco con tanto di discorso del prete uscente, del prete entrante, del delegato del vescovo, di fra Moreno e di suor Giorgina.

Anche altre iniziative si svolgono nel monumento e la partecipazione dei Pontalbesi è sempre assidua: è un luogo all’aperto circondato da strada e parcheggio. Ognuno può andare e venire quando vuole e non si paga niente per assistere alle cerimonie. Per tutti questi motivi c’è sempre tanta gente e il giorno dopo si commenta l’accaduto nelle botteghe e negli angoli delle strade del centro storico.

Sono convinta che il ‘monumento’ sia uno dei fulcri della vita civica di Pontalba e che tale resterà ancora per un bel po’. Tutti i miei concittadini sono affezionati a questa piazza, al suo obelisco, ai sassi bianchi e alle panchine di cemento.

Quando ero piccola la temevo un po’. Era un luogo in cui si tenevano molte cerimonie ufficiali, in cui si investivano preti e sindaci, in cui si ricordava la guerra e la pace, la vita e la morte. Un luogo in cui le autorità facevano grandi discorsi che io non sempre capivo ma che mi sembravano molto importanti. Ho sempre vissuto l’ufficialità di quel luogo con molto rispetto e conseguente timore. Una specie di chiesa laica e all’aperto.

Mi sembrava che in quel luogo bisognasse sempre entrare in silenzio e che all’obelisco ci si dovesse avvicinare con devozione. A differenza di molti miei coetanei sono andata poche volte a giocare là, mi incuteva timore. Tra l’altro, quando ero piccola, pensavo che dentro l’obelisco ci fossero le ossa di quei poveri militari morti e anche questo mi impediva di giocare con serenità. Poi ho scoperto che nell’obelisco di ossa non ce ne sono.

Ci sono solo i nomi attaccati a quella lapide di marmo, freddi e statici come ciò che ricordano. Quando sono un po’ cresciuta mi è venuto il dubbio che in realtà nell’obelisco non ci fossero ossa e ho chiesto spiegazioni a mia madre. Lei si è messa a ridere: “ma Costanza non vedi come è stretto e lungo l’obelisco e quanti nomi di militati morti ci sono scritti sopra? secondo te gli scheletri potrebbero stare tutti lì dentro?”

Ho dovuto riflettere e convenire che mia madre aveva ragione.
“Forse non ci sono scheletri interi, solo qualche pezzo” le ho risposto.
“Ma no Costanza, i corpi non sono mai tornati. Questi poveri ragazzi sono stati dispersi in guerra. Chissà dove sono finti i loro resti. Non sono mai stati trovati”.

È stato così che ho definitivamente realizzato che nella nostra piazza è conservata una grande tristezza, che il nostro obelisco è la rappresentazione di un dramma eterno, di corpi restituiti alla terra chissà dove e chissà come che non hanno mai avuto una definitiva sepoltura, come succede quando una famiglia accompagna un suo caro estinto al cimitero. L’obelisco è il ricordo di un dramma, di tante vite finite in fretta. In molte altre piazze d’Italia è così, per la verità.

In questa piazza si mescola il sacro e il profano, la vita e la morte, i sassi e le piante, i bambini e i vecchi, i giochi e l’amore, la rabbia e il rancore, la notte, il giorno, l’alba e la nebbia. Una piazza importante, un luogo necessario.

Ritorno al presente e smetto di pensare alla guerra. Adesso siamo qui seduti sulla panchina. Guardo i sassi bianchi e ripenso al ragno che è entrato nell’orecchio di Teresa. Carla sta parlando al telefono e Oristano si è messo a chiacchierare con Camilla che passava in bicicletta per andare al bar Della Torre a farsi prestare un po’ di monete da un euro, perché era improvvisamente rimasta senza.

“Ma cosa avranno mai tutti oggi di arrivare con i soldi di carta?” dice Camilla.
“Non chiederlo a me” gli risponde Oristano “Ho già sufficienti guai coi ragni”.
Poi comincia a raccontare a Camilla la storia del ragno e io guardo i sassi bianchi e penso che siamo davvero fortunati a non essere nati in tempo di guerra.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

Insisto nella proposta:
“Gino Strada e Teresa Sarti”, un bel nome per una scuola primaria.

 

Quattro anni fa scrissi un post dal titolo Cominciamo a chiamare le scuole con il loro nome in cui verificavo che una buona parte delle scuole pubbliche della provincia era ancora senza un nome e suggerivo alle colleghe, ai colleghi e ai cittadini di cominciare a riappropriarsi delle scuole anche a partire dal decidere insieme quale nome dargli.

Leggo sulla stampa locale che il Partito Democratico di Ferrara ha proposto di intitolare uno spazio della città a Gino Strada “simbolo di pace, di giustizia, di solidarietà, di educazione e collaborazione, di cura e vicinanza ai più deboli e fragili.”

Nel mio piccolo sono d’accordo, condivido la proposta e mi associo.
Suggerirei di ampliarla includendo anche il nome di Teresa Sarti Strada, prima moglie di Gino e fondatrice insieme a lui di Emergency.

Pensando ai vari spazi della città, proporrei una scuola infatti nel comune di Ferrara ci sono 6 scuole dell’infanzia statali di cui 2 non ancora intitolate, 29 scuole primarie di cui 11 non ancora intitolate, 11 scuole secondarie di primo grado di cui 5 non ancora intitolate, 10 scuole secondarie di secondo grado: tutte intitolate.
Riassumendo su 56 plessi, 18 devono ancora essere intitolati.

In dettaglio la indirizzerei verso una scuola elementare (che adesso si chiama “primaria” ma a me piace continuare a chiamarla così e a definirmi un “maestro elementare”), proprio perché si occupa degli ‘elementi’ base del sapere ma anche di quelli della relazione, in sintesi la scuola elementare educa (o dovrebbe farlo) anche alla pace, alla cooperazione, alla giustizia, alla solidarietà, alla cura ai più deboli e fragili.

Le modalità per le intitolazioni di scuole sono contenute nel post che ho citato all’inizio quindi ora si tratta di verificare concretamente quante altre persone sono interessate ad iniziare a percorrere questa ‘strada’; compagni di viaggio ce ne sono, ce ne saranno e altri se ne troveranno.
Comunque la pensiate, vale la pena ricordare una bella frase attribuita a Buddha: “Non puoi viaggiare su una strada senza essere tu stesso la strada”.

P.S. Non mi preoccuperei troppo delle falsità messe in giro dalla Destra [leggi Qui], visto che non hanno alcun riscontro ma ricorderei a chi pratica shitstorming (in pratica, il lancio della me…a, lo sport che praticano certe persone di destra) che c’è stato chi, come il direttore della Padania Luigi Moncalvo. che è stato condannato e ha pagato 150 mila euro di risarcimento per aver fatto le stesse accuse assolutamente prive di fondamento.

SE 20.000 VI SEMBRAN POCHI…
A Firenze nasce una nuova opposizione. L’unica.

Per raccontare cosa è successo ieri, 18 settembre 2021, a Firenze, bisogna partire dall’inizio.
partigiani
Firenze, 5 agosto 1944: La Brigata Partigiana “Vittorio Sinigaglia” entra in Oltrarno.
Comincia cosi la canzone dei partigiani della brigata. Nel corso degli anni, alla sua riscoperta è seguita una popolarità rinnovata, e Insorgiam è entrato a far parte del repertorio di diverse formazioni toscane e non solo:
Insorgiam
ci chiamano gli schiavi,
sbirri della Libertà,
i bastardi non figli degli avi
che fecero la nostra Unità.
Il fascismo ci rese ribaldi
vili servi del gran capital
freme a noi tra di noi Garibaldi,
muoia dunque chi vili ci fa.
La canzone continua: Passa passa l’orda gigante e si leva / l’era nuova di pace e d’amor. / Ogni popolo è il solo padrone / della patria e del proprio avvenir; / non più guerre, non più distruzione, / solo forza che sa costruir. [Un po’ di storia e il testo integrale di Insorgiam!] 

Ne abbiamo ampiamente parlato su questo giornale [Qui] e [Qui] La lotta dei lavoratori della GKN di Campi Bisenzio contro la chiusura dello stabilimento, la delocalizzazione della produzione e il licenziamento in blocco di tutti i dipendenti, ha assunto da subito un carattere nuovo, inedito.

I 422 della GKN, i protagonisti, non si sono limitati a scendere in strada, a occupare la fabbrica e a impostare una vertenza locale con il loro padrone, ma hanno subito ‘guardato oltre’.

Hanno coinvolto tutte le realtà sociali e di movimento di Firenze. Hanno preso contatto con i lavoratori che in tutta Italia subiscono oggi la minaccia del licenziamento. Hanno lanciato un appello che chiede la solidarietà di studenti, lavoratori, disoccupati e cittadini di buona volontà.

Hanno addirittura scritto insieme a un pool di esperti una proposta di legge che vieta il ricorso ai licenziamenti alle Aziende che oggi delocalizzano, ma che fino a ieri hanno ottenuto contributi pubblici.

Dunque una lotta esemplare, che cerca di bucare il muro di silenzio di partiti e media, ed è riuscita a costruire un larghissimo e colorato fronte comune. Da qui la scelta del motto partigiano fiorentino, quel #Insorgiamo! che da alcune settimane disturba il sonno del presidente di Confindustria Carlo Bonomi.

Il risultato di questo grande lavoro di base (i lavoratori della GKN stanno ancora girando l’Italia per raccontare la loro proposta), della loro  lungimiranza e maturità intellettuale nell’impostare la lotta come “una lotta di tutti”, si è visto nell’imponente manifestazione di ieri. Più di 20.000 persone, un corteo combattivo ma composto, tantissime bandiere (rosse i maggioranza).

E’ stata ‘una cosa così grossa’ che giornali e televisioni questa volta devono rompere il silenzio tenuto nei giorni che hanno preceduto la manifestazione. Questa volta, per dovere di cronaca, devono parlarne, almeno un poco. Per una manciata di secondi, e nelle pagine interne. Solo Il manifesto concede alla notizia la sua prima pagina.

E se, come previsto, il segretario nazionale della Cgil non si fa vedere, sfila tra gli altri lo scrittore e drammaturgo fiorentino Stefano Massini. Per raccontare questo grande fiume di gente – tantissimi i giovani e giovanissimi – e le decine e decine di facce, bandiere e striscioni, la cosa migliore è lasciar spazio alle immagini:

corteo manifestazione
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Scrivono nella loro pagina Fb i lavoratori della GKN: “Siamo giunti alla fine di questa immensa giornata di lotta. Firenze è insorta, ci ha abbracciato. Ecco le nostre parole”:
https://www.facebook.com/insorgiamoconilavoratorigkn/videos/409606300551155/

PRESTO DI MATTINA
Umanizzare il destino

Cosa è stata l’esperienza del Chassidismo/Hassidismo [Qui] (dall’ebraico ḥăsīd, ḥăsīdīm, “pii”) per gli ebrei del XVIII secolo, dispersi e perseguitati nell’Europa centro-orientale? Non è stata una dottrina, e tanto meno un’ideologia. Semmai è stato uno stile di vita, un modo di stare nella difficile e immiserita realtà quotidiana di quel tempo, tenendola comunque aperta agli altri, ai loro bisogni materiali e spirituali.

Un modo di vedere con uno sguardo mistico, di fraternità con lo slancio e il grido del cuore più che con l’ascesi, immedesimandosi negli occhi dell’altro, per accorgersi di una presenza di grazia, di una luce, di una gioia, nascoste proprio là dove non ce lo si aspetterebbe mai; un esserci nelle vicende e nelle storie degli impoveriti e dei disprezzati, in quei destini cui sembrava precluso ogni futuro, esistenze senza speranza perché private della gioia di vivere.

Agli ebrei isolati, schiacciati, la cui vita era stata confinata ai margini, in un contesto in cui l’Europa era sottosopra per le guerre tra gli stati, per il cambiamento delle frontiere e delle idee, il movimento degli hassidim ha ridato allo smarrimento dei singoli il senso del divino nascosto nell’umano e la fiducia di appartenere comunque alla comunità anche se dispersa, in diaspora perché «Dio passa attraverso l’uomo. Il bambino che dorme, la madre che lo accarezza, il vecchio che ascolta il brusio degli alberi: Dio è vicino a ognuno, in ognuno Dio è presente» (E. Wiesel, Celebrazione hassidica. Ritratti e leggende, Milano, 181).

«La leggenda hassidica [è stata il] tentativo di umanizzare il destino», ha scritto Elie Wiesel [Qui] (ivi, 87). Ad iniziarla fu il mistico, veggente ‒ il “Maestro dal buon nome” ‒ Israel Baal Shem-Tov [Qui], che seppe rincuorare moltissimi grazie al suo sorprendente appello alla gioia nascosta e da cercare nel fondo oscuro di ogni disperazione.

Era un uomo del popolo. Non aveva titoli, né amici influenti, né una vasta conoscenza del Talmud. Anzi, non essendo figlio di un rabbino, si atteggiava a illetterato, ignorante. «che salmodia alcune preghiere fondamentali con difficoltà e quasi controvoglia». Ma proprio questo abbassarsi gli aprì la strada presso tutti i diseredati, che si riconoscevano in lui attingendo alle visioni ardenti della sua fede in Dio: «Nel suo universo, i mendicanti sono i principi, i muti sono i saggi. Vagabondi dotati di poteri percorrono la terra, la riscaldano e la cambiano. È questo l’hassidismo: l’accento sulla presenza, e anche sul cambiamento. Nell’hassidismo tutto è possibile, tutto diventa possibile per la sola presenza di un essere che sappia ascoltare, amare e offrirsi» (ivi, 10-11).

Agli ultimi ed emarginati del suo popolo, il “Maestro dal buon nome” assicurava che ognuno di loro viveva nella memoria di Dio, costantemente alla sua presenza. Abitato da una luce divina nessuno di loro era escluso dai drammi e dalle feste del loro popolo, ciascuno a suo modo e secondo le proprie possibilità vi partecipava.

Dio infatti è oltre ogni frontiera: più grande delle classificazioni, distinzioni, degli uomini qualunque siano; egli si volge là dove lo si onora, è là dove lo si celebra con e nella vita, oltre ogni formalità rituale e liturgica. Non bisognava perdere il coraggio né la speranza, perché loro non erano inferiori a quelli che volevano imporsi con i loro titoli e con la loro scienza. Nessuno infatti può vantare diritti e privilegi sugli altri perché tutti, allo stesso titolo, apparteniamo a Dio.

Ciò che infatti occorre veramente imparare e che «il cercare è più importante del trovare; la grandezza dell’uomo sta nella sua capacità d’umiltà; cominci con il sottomettersi a Dio: crescerà e sarà libero.

Diceva loro che a volte deve bastare il “credere che ci sia segreto” (senza sapere di credere) e anche che l’uomo ha bisogno di poco per elevarsi e realizzarsi; basta che lo voglia, che lo voglia con tutto il cuore.

«La tristezza deve essere combattuta con la gioia e non con un’accresciuta tristezza. L’uomo che si guarda non può non sprofondare nella malinconia, ma quando apre gli occhi sulla creazione intorno a sé conoscerà la gioia. E questa gioia conduce all’assoluto, alla liberazione, a Dio» (ivi, 31-32).

Il Chassidismo, movimento della fratellanza e della riconciliazione ‒ ricorda ancora Wiesel ‒ costituì l’altare su cui fu immolato un intero popolo: «A volte il bambino che è in me mi dice che il mondo non meritava questa Legge, questo amore, questo messaggio di spiritualità, questo canto che accompagna l’uomo sulla sua strada solitaria, il mondo non meritava le favole e le parabole che gli hassidim gli raccontavano, per questo furono i primi a essere designati per la voragine. Questi hassidim di cui mio nonno condivise il destino nella vita e nella morte, io li ho conosciuti. Commoventi per la semplicità, innamorati della bellezza, sapevano adorare. E avere fiducia. In allegria sapevano dare, ricevere, sapevano spartire, partecipare. Nella loro comunità, nessun medicante pativa la fame lo shabbath. Nonostante la loro miseria e la costante minaccia che pesava sui figli e sugli anziani, non rivendicavano né esigevano nulla da nessuno, nulla dagli altri, non pensavano che tutto fosse loro dovuto. Eternamente sorpresi dal più piccolo segno di bontà, di compassione, rispondevano con la gratitudine. Non potevano quindi sopravvivere in una società in cui regnava la crudeltà fredda, organizzata e impersonale» (ivi, 9-11).

In questi racconti la realtà viene capovolta, e ciò che non si vedeva appare e riemerge dal fondo di essa: nell’assenza si scorge la presenza; nell’empietà la compassione; nella malattia la guarigione; nella povertà la ricchezza; nella stoltezza la sapienza e al fondo dal dolore, occhi stupiti, vedono rinascere la gioia e, al fondo di una indicibile empietà, fiorire la grazia della pietà:

«Sembra sorprendente che gli hassidim siano rimasti fedeli a se stessi all’ombra del filo spinato e dei carnefici. Nei ghetti celebravano la vita e la santificazione. Nei vagoni chiusi che li portavano a Birkenau gli hassidim danzavano la sera del Simkhat-Torah. Mi ricordo di alcuni che, nel blocco 57 a Auschwitz, si ostinavano a volermi insegnare a cantare. È un miracolo? Un miracolo mal riuscito? Forse, ma c’è ben altro. C’è la scintilla scoccata nei Carpazi e che non si è spenta. Anzi ravviva il fuoco in noi. L’hassidismo si consolida a Gerusalemme e risorge ovunque nella diaspora ebraica» (ivi, 41).

Similmente, non dobbiamo neppure dimenticare gli Tzadikim Nistarim (i giusti nascosti) che appartengono a tutti i popoli, adoperatisi per ribaltare le sorti già segnate degli ebrei. È dedicato a loro, “Giusti tra le Nazioni”, il Giardino dei Giusti a Gerusalemme, ove si ricordano tutti coloro che durante l’Olocausto hanno rischiato la vita per mettere in salvo gli ebrei dalla persecuzione.

Il Talmud e la mistica ebraica ricordano che in ogni generazione ci sono almeno 36 giusti nascosti. Essi vivono tra di noi, nessuno li conosce e nemmeno loro stessi sanno ciò che li accomuna, ovvero la capacità di riconoscere la sofferenza degli altri e di condividerla, portandola su di loro.

Incalzato e interrogato interiormente da questa “leggenda chassidica”, vite e storie intrecciate che hanno inteso “umanizzare” il destino contrario, oppositore, nemico e persino sciaguratamente malvagio, indicibilmente disumano, le cui vicende e memoria continuano ad essere narrate anche oggi, mi sono chiesto perché dopo tanti anni le leggo e rileggo senza stancarmi, anzi con accresciuto stupore e commozione più della prima volta?

Ho pensato che amo queste storie perché continuano ad umanizzare anche la mia fede e il mio ministero pastorale. Ti aprono gli occhi ogni volta perché tu riconosca il dolore della gente accostandoti a loro un poco, chiedendo loro cosa li affligge e provando a fartene carico e così un nuovo tratto di strada si apre per loro e per te.

Umanizzare è ricominciare sempre di nuovo a consolare, a “riscaldare” come dice Wiesel. Ed è pure credere contro ogni speranza al cambiamento. Con la stessa forza espressa da una bella frase di Bebe Vio la tiratrice di scherma campionessa alle paralimpiadi di Tokio deturpata e mutilata dalla meningite: “Se sembra impossibile allora si può fare”.

Umanizzare è rifiutare la disperazione, è anche assumere le proprie contraddizioni: «l’umiltà dentro l’orgoglio, la semplicità lungo il superamento, Khesed (amore) all’interno di Din (giudizio), la carità nella giustizia: non c’è scelta, non si può che imporre un significato a ciò che forse non ne ha e attingere gioia in una tristezza senza nome e senza fine», (ivi, 39).

Così si umanizza se stessi anche imparando dalle storie di ospitalità degli hassidim che trovano spazio all’altro, proprio là dove non sembra essercene più; che aprono ciò che è stato chiuso, rialzano chi è caduto e ‒ come dice un detto rabbinico ‒ se qualcuno eserciterà veramente l’ospitalità verso qualcun altro questi otterrà gli stessi privilegi e l’umanità dei suoi ospiti.

Godrà pure dell’umanità di Dio, della sua presenza, la stessa di quando egli visitò Abramo alle Querce di Mamre e fu da lui ospitato. Di qui, da questo gesto di ospitalità nacque a Sara e ad Abramo, coloro che non potevano più generare per la vecchiaia, nacque Isacco, il figlio della promessa, l’inizio di una discendenza numerosa come la sabbia che è sul lido del mare e come le stelle nel cielo.

E tuttavia, questo cammino di umanizzazione implica una lotta. Sì, è necessario scovare un nemico insidioso, furtivo, direi invisibile, fine come la polvere che si vede solo controluce, aprendo le finestre e lasciandone filtrare i raggi.

È l’orgoglio usurpatore: quello che scalza il posto all’altro, ne occulta la presenza, ne immobilizza l’azione, demolisce la socialità, inquina la religiosità rendendola mostruosa, idolatrica; tenta di eclissare la presenza di Dio anche agli occhi dei poveri, degli afflitti, dei miti, di chi cerca giustizia e persegue la pace e per esse è perseguitato, di chi ancora percorre un cammino di misericordia e riconciliazione. Ma per quanto duri, oltre il suo tempo, un’eclissi non basterà ad oscurare per sempre la presenza dell’Altro e degli altri. Questa presenza nascosta diverrà così un lievito generativo di trasformazione e cambiamento dello sguardo e delle pratiche umane.

La polvere dell’orgoglio ricopre tutto fino a rendere inconoscibile ogni cosa; uniforma la realtà, rivestendola di una coltre che annulla la dignità dell’umano e il valore delle cose; è così maestra ai suoi alunni di ignoranza. Ricopre infatti il loro volto con un velo di orgoglio. Ne basta un velo appena, come una cataratta che opacizza a poco a poco la coscienza, si accumula poi ispessendosi fino a portare alla cecità totale: “L’ignoranza è orgoglio, e l’orgoglio è ignoranza” (Detto Sufi).

Contro di essa muovono le storie degli hassidim, che mi avvincono l’animo perché sono fatte della stessa stoffa della fede. Sono come un sassolino impertinente, resistente, non rassegnato. Non diversa è la fede: una pietruzza da nulla che incastratasi tra lo stipite e il battente della porta della vita la tiene aperta, giusto lo spazio sufficiente a far passare un soffio d’aria, uno spiraglio, un respiro appena in cui palpita un alito di umanità. È allora umanità che si respira.

Disse il Baal Shem Tov: «Un uomo dotato tende all’orgoglio e non se ne accorge. Solo se si lascia umiliare, si rende conto di quanto sia pieno di orgoglio. L’orgoglio è come un uomo, che viaggia in una carrozza e si addormenta. Il cocchiere sale su una montagna e, all’improvviso, si trova su un vasto altipiano. Quando il viaggiatore si sveglia e gli si dice che si trova su una montagna, fa fatica a crederci. Solo quando inizia la discesa, comincia a rendersi conto di quanto fosse salito in alto».

E Rabbi Noah di Lekhivitz disse: «L’uomo viene spesso chiamato “piccolo mondo”. Questo appellativo si spiega così: se un uomo è “piccolo” ai propri occhi, egli è veramente un “mondo”. Ma se un uomo è “un mondo” ai propri occhi, allora è veramente “piccolo”» (D. Lifschitz, La Saggezza dei Chassidim, 651).

Come allora non sentirsi parte di questo piccolo (ma grandissimo) mondo degli hassidim per non celebrarlo, narrando sempre di nuovo le loro storie, tramandandone la memoria?

Scrive Elie Wiesel nella prima pagina del suo libro:
«Mio padre, Spirito illuminato, credeva nell’uomo.
Mio nonno, fervente hassid, credeva in Dio.
Mi hanno insegnato l’uno a parlare, l’altro a cantare.
Amavano entrambi le storie.
E a volte quando racconto odo le loro voci.
Quei sussurri, di là dal turbine, vogliono
ricongiungere il superstite alla loro memoria».

Siate tutti in benedizione, ora e sempre.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

LE ULTIME, TREMENDE PAROLE DI FRANCESCO.
Se anche il Papa dimentica il sacramento dell’Amore

 

Il Papa è tornato a parlare e lo ha fatto in una conferenza stampa nel viaggio di ritorno dalla Slovacchia. Ha toccato questioni delicate e complesse, con parole che mi sono giunte come pugni nello stomaco. Sentire dire che “l’aborto è un omicidio con l’aiuto di un sicario” a me, che sono madre di 4 figli, è sembrato un obbrobrio.

Per me la vita è sacra ma è altrettanto sacro il diritto all’autodeterminazione. Nel libro di Teresa ForcadesSiamo tutti diversi (edizioni Castelvecchi) che ho curato con Cristina Guarnieri, lei spiega che nel magistero la chiesa considera  il diritto alla vita un diritto fondamentale ma considera tale anche il diritto all’autodeterminazione.

Ora. nella questione complessa dell’aborto i due diritti confliggono: la domanda che sorge allora è:” chi può risolvere tale conflitto? “Per il magistero della chiesa  il diritto alla vita ha sempre la precedenza.
Per me la risposta è semplice, nessuno al di fuori del corpo/ spirito che porta in serbo quella vita, può risolvere tale conflitto.

Perché dico questo? Perché la vita umana non può essere usata in modo strumentale. La legge non sta sopra di noi ma sta davanti a noi e c’è uno spazio di libertà (anche se oggi parlare di libertà mi sembra quasi ridicolo) che si chiama coscienza/autodeterminazione, nel quale nessuno può entrare se non con il permesso.
Non riconoscere alle donne questo spazio è privarle della loro umanità.

Da millenni l’uomo maschio controlla i corpi delle donne in modo ossessivo, il controllo riproduttivo è poi il caposaldo su cui si radica il patriarcato. I figli sono del padre, a loro si dà il cognome del padre, il padre è l’autorità.
Forse oggi I padri sono meno ‘padri’ nell’immaginario collettivo, il loro ruolo si è modificato dagli anni 60′ in poi, ma il dio Padre, lo Stato Padre, il Santo Padre, i padri della scienza, continuano a dettare leggi prive di anima, negando un patto sociale che è alla base delle comunità.

Le donne di questa comunità sono parte, come tutti del resto, ma se a loro continua a venire negato il diritto all’autodeterminazione è forse possibile parlare di  comunità?
La mia amica Monaca (che non è a favore dell’aborto ma di una sua depenalizzazione, posizione che condivido) aveva risolto il caso con il magistero, ponendogli una domanda: come mai la chiesa nel caso di un padre il cui figlio abbia bisogno di un trapianto di un rene, se lo ha compatibile, non viene obbligato in alcun modo a donarlo?
Inoltrò la sua domanda al Vaticano, aggiungendo anche che la donazione di un rene ha un grado di mortalità e di complicanze ben minore di una gravidanza e di un parto. La sua domanda rimase senza risposta.

Con la stessa logica del controllo dei corpi delle donne sono, poi, le parole che Papa Francesco riserva al secco no al matrimonio di gay e lesbiche, ma a un compassionevole si ( sic) alle unioni civili. Il matrimonio è un sacramento che riguarda solo una donna e un uomo, a suo dire, perché nella teologia della complementarità il matrimonio è strettamente legato alla riproduzione. Ma non è forse vero che la chiesa non ha mai negato il matrimonio a una donna attempata che certo ha perso la sua prerogativa di riprodursi? O lo negherebbe a una donna priva di utero? O a un uomo infertile?

La teologia della complementarità, o la visione laica binaria, negano alla base l’unicità di ogni singolo essere umano, senza distinzione di sesso, perché l’ uno diventa la metà dell’altro.
Ma nella struttura sociale, e nell’immaginario che regge questa prospettiva, le donne si trovano sul gradino più in basso.

La cosa curiosa è che il sacramento del matrimonio è la manifestazione dell’amore di Dio e, l’amore di Dio lo troviamo nella trinità, e questo amore non ha nulla a che vedere con la complementarità.
Dunque, in questo caso, lo stesso Papa sembra non riuscire ad entrare in quella prospettiva trinitaria che è alla base della nostra fede cristiana.

Sempre la mia amica Teresa Forcades a questo proposito scrive: “Ecco perché sono a favore del matrimonio omosessuale. Non ritengo sufficiente che la Chiesa diventi tollerante nei confronti  degli omossessuali, né che semplicemente smetta di discriminarli o colpevolizzarli, sono a favore del sacramento dell’amore fra due persone, sia etero sia omosessuali, a patto che  fra loro vi sia un amore autentico […] il problema del matrimonio  non è se sia  etero o omosessuale, ma la qualità dell’amore che lo anima.”.

Nel 2015, in un articolo pubblicato sul blog 27ora dal titolo Il femminismo ci libererà dalla violenza sui deboli [Vedi qui], affrontavo la questione della assunzione di responsabilità alla pari delle donne nello spazio pubblico e  quanto questo mettesse in crisi gli immaginari di riferimento e le fondamenta della società patriarcale.

Scrivevo: “La venerazione per la Ragione pura che, dall’Illuminismo in poi è stato il motore del progresso in campo scientifico ma anche in quello politico sociale e culturale fino alla creazione degli Stati di diritto ai quali si deve l’abbattimento graduale di diseguaglianze e discriminazioni allora impensabili, oggi sembra in crisi e non risponde più alle esigenze di una democrazia sempre più avanzata. La ragion pura ha gradualmente spogliato l’immagine paterna, a cui l’idea di Stato è legata, della forza empatica e umana di cui era anche portatrice, trasformando la sua autorevolezza in autoritarismo, ha svuotato la parola del suo autentico senso incarnato riducendola a codice astratto privo della conoscenza esperienziale che passa per un corpo sessuato.”.

Mai come oggi queste parole mi sembrano vere!
Sembra che lo stesso Santo Padre abbia perso il senso della parola incarnata.

RUSPE E DIRITTI UMANI:
come far passare un violento sgombero come “buona pratica”

Noi di Ferraraitalia eravamo presenti allo sgombero violento del Campo Nomadi di via delle Bonifiche, abbiamo visto il Vicesindaco Lodi troneggiare su una ruspa ad uso foto-ricordo, abbiamo sentito le dichiarazioni deliranti dei nuovi padroni di Ferrara e della fedelissima claque leghista. 

Oggi, anche noi rimaniamo allibiti dalla totale falsificazione, dal travisamento dei fatti da parte di questa fantomatica Associazione 21 luglio. Che nessuno conosce, che non ha mai messo piede a Ferrara, ma che ha evidentemente sponsor (politici) potenti ed entrature importanti, tanto da venire ascoltata da una Commissione del Senato della Repubblica. Ugualmente siamo stupiti e dispiaciuti che un quotidiano come Avvenire, un giornale e un corpo redazionale che abbiamo sempre stimato, si sia ‘bevuto’ la notizia falsa e pilotata politicamente, senza neppure alzare il telefono per fare le dovute verifiche.
Sotto riportiamo la risposta arrabbiata e dolente della
Associazione Cittadini del Mondo. La condividiamo parola per parola.
(Redazione di Ferraraitalia)

A Roma qualche giorno fa, alla Camera dei Deputati – apprendiamo da Avvenire.it del 13/9/21 –  l’Associazione “21 luglio”  ha presentato il libro “Oltre il campo : superamento dei campi rom in Italia”.  Il presidente dell’associazione Carlo Stasolla ha messo in evidenza le pratiche virtuose di 8 città, tra le quali Ferrara, che hanno superato i campi “integrando le persone e rispettandone la dignità”, insomma esempi virtuosi da indicare nelle linee guida.
Questo fatto sorprendente di citare il metodo ‘positivo’ ferrarese con le ruspe si è  ripetuto più volte nonostante varie smentite delle organizzazioni locali.

Già nel febbraio 2020 il Comune di Ferrara, su indicazione di Stasolla, era stato invitato, tra le Amministrazioni virtuose, alla Commissione per i diritti umani del Senato. In quell’occasione abbiamo scritto ai giornali e alla stessa Associazione 21 luglio portando anche testimonianze fotografiche del violento sgombero del campo.

Naomo Lodi con Ruspa
L’attuale vicesindaco fi Ferrara Nicola Naomo Lodi in posa sulla ruspa

Una storia alla rovescia che ha visto in successione: manifestazioni xenofobe sfociate nell’intervento immediato dopo-elezioni con il vicesindaco leghista – già noto in campagna elettorale per la sua maglietta “+ rum – Rom” – in bella posa su una ruspa; consiglieri comunali che invitavano ad usare mezzi ‘trincia-rom’; sostenitori  della Lega che si facevano fotografare con lanciafiamme contro i rom.

Ora anche la beffa: ci viene detto durante la stessa presentazione che Ferrara avrebbe “speso solo 12mila euro per superare l’area di via delle Bonifiche abitata da decenni da 44 sinti italiani”. Informazione chiaramente a scopo elettorale, di per se numericamente ridicola, forse questa è stata la spesa delle ruspe!

Corteo Lega contro campo nomadiNella realtà cittadina, abbiamo assistito ad una esplosione di fanatismo che ha coinvolto 44 persone, italiane, che hanno perso buona parte dei loro averi e sono state sparpagliate, sistemate provvisoriamente nella lontana periferia della città, in appartamenti comunali ripristinati per l’occasione e che hanno dovuto essere riforniti di tutto poiché quasi niente si è salvato del precedente insediamento dopo l’intervento delle ruspe (sempre presumibilmente con i 12mila euro di cui sopra).

Il diritto ad una casa dignitosa è fondamentale per tutti, per questo ci siamo sempre opposti a questo sgombero propagandistico che non ha mai prospettato una soluzione abitativa stabile, né inserimenti lavorativi, né miglioramenti di nessun genere.

Alcune organizzazioni di volontariato si sono preoccupate di tamponare gli effetti dello sgomberogarantire la scuola ai bambini e di mantenere, se non l’unità del gruppo, almeno l’unità di alcune famiglie. Questo intervento umanitario ha fatto comodo anche all’Amministrazione comunale che, con l’impegno degli altri, può vantarsi di non avere avuto gli sfollati per strada.

In questo quadro risulta incomprensibile il reiterato elogio dell’Associazione di Stasolla a queste pratiche violente, un tentativo di normalizzare una politica che ha poco in comune con l’integrazione e la dignità umana.

CITTADINI DEL MONDO
Ferrara, 16/09/2021 

Cover: L’attuale sindaco Alan Fabbri e il Vicesindaco Nicola Lodi (detto Naomo) guidano il corteo di sostenitori e simpatizzanti leghisti, per dare avvio allo sgombero. 

                                                                

I PICCOLI Contadini Libertari sfidano i GRANDI del G20.
Firenze, 18 settembre: Marcia per la Terra.

 

Sono passati già 10 anni da quando a Parigi si sono incontrati, per la prima volta, i ministri dell’agricoltura dei 20 Paesi ‘grandi’ della Terra per affrontare i problemi della Agricoltura con la A maiuscola, l’agricoltura globalizzata.
Il 17 e 18 settembre il G20 dell’Agricoltura – a presidenza italiana – si terrà a Firenze [qui il sito ufficiale del ministero]
. Giovedì sera, al Teatro della Pergola, il ministro dell’agricoltura Patuanelli aprirà i lavori con l’Open Forum [per seguirlo in streaming].

Purtroppo bisogna riconoscere che da quel primo incontro del 2011, nonostante i meeting internazionali che sull’argomento, dal 2015 in avanti, si sono susseguiti con cadenza annuale, il panorama dell’agricoltura mondiale non è migliorato un granché. Come la pandemia e le crisi migratorie originate dal cambiamento del clima ci testimoniano, i terreni sono sempre più sfruttati dall’agricoltura industriale e si impoveriscono, la desertificazione di vastissime aree del pianeta per il riscaldamento globale, i disboscamenti della foresta pluviale per far posto a coltivazioni intensive, gli incendi ecc.  Intanto, il problema della fame nel mondo è ben lontano dal trovare una soluzione.

In verità, i problemi negli anni si sono ulteriormente aggravati e di nuovi se ne sono aggiunti, vedi il passaggio sempre più frequente di forme batteriche e virali dagli animali all’uomo (l’encefalopatia spongiforme altresì detta Mucca Pazza nei primi anni 2000, l’ HPAI o Influenza Aviaria ad Alta Patogenicità nel 2009/2010 e nel 2019 il Covid, che si dice sia arrivato  dai pipistrelli venduti nei mercati cinesi). Perché la ricerca e la scienza non sono intervenute tempestivamente? Non hanno forse capito in tempo cosa stava succedendo? E i 20 Grandi cos’hanno fatto finora? Si sono riuniti … e poi?

Come sostengono i piccoli e piccolissimi agricoltori della rete Genuino Clandestino  [Qui] e di Terra Bene Comune [Qui] le questioni sono state affrontate, e continuano ad essere affrontate, dal punto di vista sbagliato.
Per i contadini che si ribellano all’industrializzazione sempre più spinta dell’agricoltura e alla mentalità del profitto ad ogni costo, che vede l’agricoltore come lo sfruttatore della terra e della natura: la Terra è un Bene Comune e come tale va difesa e conservata con cura; la Terra è di tutti, non deve essere accaparrata, non deve servire all’arricchimento di qualcuno, ma al mantenimento e al benessere delle comunità che vivono su quella Terra.
La Terra è un complesso di forme viventi e non viventi che vanno rispettate e quindi rigenerate, perché la Terra stessa è un Unicum vivente Generatrice di vita. L’agricoltura industriale ne causa l’impoverimento, la sterilità e la morte.

Tornando al G20 di Firenze, i 2 temi all’ordine del giorno, i focus dei seminari saranno: la Resistenza Antimicrobica (AMR), che si stima causi circa 700 000 decessi umani all’anno a livello globale, e Agricoltura e Cambiamento Climatico [Vedi qui].
Per fare un po’ di luce su queste due importantissime questioni, riporto informazioni e valutazioni espresse da una fonte difficilmente contestabile, l’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) .  Ecco quanto si legge nel loro sito:
“… la resistenza agli antimicrobici (AMR) è la capacità dei microrganismi di resistere ai trattamenti antimicrobici. L’uso scorretto o l’abuso di antibiotici sono considerati le cause della crescita e della diffusione di microorganismi resistenti alla loro azione, con conseguente perdita di efficacia delle terapie e gravi rischi per la salute pubblica.”.

L’Autority Europea continua a studiare, consigliare, raccomandare…
2007 – L’EFSA  pubblica istruzioni per il monitoraggio armonizzato della resistenza agli antimicrobici in due importanti batteri zoonotici (Salmonella e Campylobacter) in animali e alimenti.
Aprile 2008 – Gli esperti dell’EFSA esaminano in che modo il cibo può diventare un veicolo per la trasmissione all’uomo di batteri resistenti e formulano raccomandazioni per prevenirne e controllarne la trasmissione.
Novembre 2009 – L‘EFSA, l’ECDC, l’EMA e il Comitato scientifico della Commissione Europea per i rischi sanitari emergenti e di nuova individuazione (SCENIHR) pubblicano congiuntamente il parere  in cui è trattato il tema delle infezioni: joint scientific opinion on AMR focused on infections that can be transmitted to humans from animals and food (i.e. zoonotic diseases che possono essere trasmesse dagli animali e dagli alimenti all’uomo (ovvero le malattie zoonotiche).

Ma soltanto nel giugno 2017 la Commissione partorisce il Piano d’azione sanitario unico dell’UE contro l’AMR [Vedi qui], come richiesto dagli Stati membri nelle conclusioni del Consiglio del 17 giugno 2016.
Luglio 2017 – Una relazione dell’EFSA,EMA ed ECDC presenta nuovi dati sul consumo di antibiotici e sulla resistenza agli antibiotici. I dati evidenziano un miglioramento della sorveglianza in tutta Europa. Il rapporto conferma il nesso tra consumo di antibiotici e resistenza agli antibiotici sia nell’uomo sia negli animali destinati alla produzione di alimenti.

EFSA conclude: “…per contrastare la resistenza agli antimicrobici occorre un approccio OLISTICO e multisettoriale che coinvolga diversi settori (medicina umana, medicina veterinaria, ricerca, zootecnia, agricoltura, ambiente, commercio e comunicazione)…”[leggi dal sito ufficiale].
Questo approccio olistico manca completamente nell’agricoltura industrializzata, mentre è alla base dell’agricoltura biologica e naturale, quella praticata dalle piccole aziende dagli agricoltori e i contadini che curano la loro terra senza sfruttarla.

I grandi numeri negli allevamenti intensivi, le monocolture, le monosuccessioni colturali impediscono l’applicazione della visione olistica della produzione agricola, che spesso si riduce ad una sola e unica fase di produzione, in cui la terra rappresenta solo ‘un substrato’. e dove l’operatore agricolo non conosce nemmeno il processo che sta a monte e a valle del proprio ‘pezzo di produzione’. Proprio come in una catena di montaggio.

Il secondo argomento all’ordine del giorno al G20 è Il cambiamento climatico.
Così recita il trafiletto di presentazione del seminario sul sito ufficiale:E’ una delle più grandi sfide del nostro tempo e i suoi impatti negativi indeboliscono la capacità di raggiungere uno sviluppo sostenibile e minacciano la resilienza (sostantivo diventato di gran moda dal governo Draghi in poi, N.d.r.) del settore agricolo. Per questo motivo, sono necessari un forte impegno politico, investimenti nella ricerca e il trasferimento dei risultati agli agricoltori affinché essi possano trovare strategie e soluzioni efficaci per la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico”

La stragrande maggioranza degli esperti individua nell’agricoltura “industrializzata” e nell’allevamento intensivo una delle cause principali dell’emissione in atmosfera di gas serra:  Lo sostiene, ad esempio, un documento che trovo nel sito ufficiale della Confederazione Svizzera: “i più importanti [fattori che concorrono all’emissione di gas serra] sono il metano (CH4), il protossido di azoto (N2O) e l’anidride carbonica (CO2). Essi derivano dalla digestione dei ruminanti, dai concimi azotati o dalla combustione di carburanti e combustibili fossili per macchine ed edifici agricoli. La CO2 viene anche assorbita o liberata dai terreni agricoli tramite il loro utilizzo (lavorazione del suolo, concimazione, avvicendamento delle colture)” [Qui].

Se guardiamo all’Italia, l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) valuta che il settore agricoltura concorra per il 7% circa alle emissioni nazionali di gas serra, al 94% delle emissioni nazionali di ammoniaca. Sempre l’ISPRA sostiene che esistono delle tecniche agricole che ne permettono una sensibile diminuzione, purtroppo “a differenza di altri settori, le emissioni derivanti dall’agricoltura, proprio per la peculiarità del settore, cioè di produrre cibo, sono in parte incomprimibili e pertanto diventerà sempre più rilevante il contributo di questo settore alle emissioni di gas serra”. https://www.isprambiente.gov.it/it/archivio/eventi/2020/04/il-quadro-emissivo-in-italia 

Peculiarità del settore”? “Emissioni incomprimibili” ???
In realtà la produzione di cibo nei Paesi avanzati (G20) è ampiamente superiore alla domanda. A dispetto dell’enorme quantità di spreco alimentare nelle società cosiddette avanzate, c’è lo strozzinaggio che la rete commerciale che la GDO (Grande Distribuzione Organizzata) impone ai produttori agricoli in generale per raggiungere un reddito decente dell’impresa.
P- per inciso, dalla fine degli anni 80′ non si parla più, infatti, di contadini, ma di imprenditori agricoli, che possono anche non sporcarsi le mani con la terra, ma strizzano il lavoro degli operai agricoli i dipendenti e vivono sul profitto dell’impresa – che li obbliga a produrre sempre maggiori quantità di prodotti che devono vendere a prezzi sempre più bassi.
Insomma, una impresa agricola industrializzata funziona nel medesimo modo di una impresa industriale.

Al ricatto del prezzo di mercato si ribellano gli agricoltori della rete Genuino Clandestino e Terra Bene Comune . Dicono No alla logica del profitto, allo sfruttamento della Terra, degli animali, e delle persone: i lavoratori, gli operai agricoli. E vogliono essere ascoltati e riconosciuti, chiedono spazi di terra e di vita.
Sabato 18 settembre alle ore 13,00 i contadini libertari di Genuino Clandestino e Mondeggi Bene Comune, insieme ai simpatizzanti della Terra e ai difensori della Natura, si troveranno in Piazza Poggi a Firenze per dire basta alle falsità dei 20 grandi della Terra e riaffermare il diritto ad un’agricoltura veramente rispettosa della Terra, ad un cibo sano non malato all’origine, a una vita in armonia con la natura. La marcia partirà alle 14,00.

Su questo quotidiano potete leggere il testo integrale dell’Appello dei contadini libertari che convocano la Marcia per la Terra [leggi Qui].
Per partecipare alla Marcia – scherza uno dei giovani organizzatori – non è però necessario essere un contadino, lavorare la terra o coltivare un orto. La Marcia è aperta a tutti, perché la salute, l’ambiente e la giustizia sociale riguardano tutti.”.

VI GARDEN FESTIVAL: COLTIVA IL TUO GIARDINO INTERIORE
Nei Centri di Giardinaggio AICG di tutta Italia, dal 18 settembre al 17 ottobre 2021

 

VI Edizione Garden Festival:  COLTIVA IL TUO GIARDINO INTERIORE
Eventi, mostre e verdi connessioni
Nei Centri di Giardinaggio AICG di tutta Italia
dal 18 settembre al 17 ottobre 2021

Da sabato prossimo anche in provincia di Ferrara torna il Garden Festival d’Autunno

 “Il faut cultiver notre jardin” scriveva Voltaire, la vita va alimentata plasmando la nostra esistenza e gli ambienti dove viviamo.
E mai come dedicarsi al giardinaggio, mettere le mani nella terra, prendersi cura dell’orto – piccolo o grande che sia, in un campo o su un balcone – può influire positivamente sulla salute, rimettendo in moto e facendo rinascere il nostro mondo interiore. Un cervello va nutrito come è necessario nutrire le radici di un albero.

L’edizione 2021 del Garden Festival d’Autunno – promosso da AICG, Associazione Italiana Centri Giardinaggio nei Garden Center aderenti di tutta Italia – intende proprio far riflettere sulle connessioni strette che ci sono tra Natura e mente. Ecco che la grande ricchezza di sollecitazioni offerte nei Centri di Giardinaggio in Autunno aiuterà i visitatori ad ampliare le proprie conoscenze e prospettive sul mondo vegetale, animato da esseri intelligenti che applicano strategie di cooperazione, a trovare energie nuove per vestire la propria casa, il balcone, il terrazzo, il giardino, di quel riflesso di benessere interiore e di rinnovati ideali di vita.

Nei Centri di Giardinaggio AICG dunque si potranno trovare speciali angoli che racconteranno lo stretto legame esistente tra uomo e natura, partendo da una selezione di piante di produzione rigorosamente italiana.  Saranno molti gli stimoli proposti, ma tutti con un unico comune denominatore: l’abbinamento delle piante alle sfumature cromatiche per ciascun ambiente del vivere quotidiano, sia in casa che all’aperto. Questi angoli – di fatto dei moodboard o tavole di stile – saranno costruiti come una vera e propria narrazione visiva, dove nulla è lasciato al caso, con il preciso scopo di stimolare suggestioni e restituire una particolare atmosfera, uno stile di giardino interiore che può essere più o meno incolto, selvaggio, formale, ordinato, creativo.

Saranno angoli che racconteranno le piante e la loro infinita bellezza, evidenziando la magnificenza dei colori e delle vegetazioni, procureranno emozioni e regaleranno suggerimenti di attività tipicamente autunnali da svolgere per comprendere quanto importante sia questa stagione, spesso associata al letargo, ma che invece è una stagione del fare e del sapere per organizzarsi ed anticipare la rinascita.

Saranno anche angoli-scenografia dove i visitatori potranno sostare per fare selfie e shooting e poi condividere con hashtag universali come #autunnoingarden #gardenfestival #aicg.
In questi angoli, ognuno dedicato ad uno specifico ambiente della casa interna ed esterna, si potranno trovare:

  • Collezioni di piante
  • Tavolozza dei colori di tendenza
  • Complementi d’arredo
  • Consigli di lettura, con una selezione di titoli che interpretano il messaggio introspettivo di questa edizione
  • La guida ad un’attività da svolgere in Garden con i consigli sapienti del personale qualificato o a casa propria attraverso un piccolo manuale illustrato.
  • Attrezzature, nutrienti, terricci e vasi

Il tutto per sensibilizzare riflessioni sulla profonda esigenza del nostro tempo di un vivere sostenibile: conoscere la natura che ci circonda, di cui siamo parte, e generare benessere.

In settembre il progetto «Piantiamo Italiano» di AICG patrocinato da Ministero delle Politiche Agricole si fonde con il Garden Festival d’Autunno, ponendo l’accento sulla vasta e varia produzione delle piante aromatiche nel nostro Bel Paese; in ottobre promuovendo la produzione vivaistica italiana di piante da siepe e la sorprendente arte topiaria che ci ammirano in tutto il mondo. Il Progetto Piantiamo Italiano punta a sensibilizzare i consumatori ad un acquisto consapevole, attento all’impatto ambientale e al risparmio energetico a sostegno della filiera florovivaistica italiana. 

Il colore rosa sarà ancora una volta uno dei leitmotiv del Garden Festival d’Autunno: anche quest’anno, infatti, proseguirà la collaborazione con l’Associazione Italiana Ricerca sul Cancro e il Ciclamino AIRC ravviverà di rosa i nostri giardini interiori che si alimentano di solidarietà.

Il ciclamino, robusta e generosa pianta autunnale, in fiore anche per tutto l’inverno, sarà disponibile in molte varietà e sfumature di colore ma sarà, appunto, il ciclamino rosa a farla da padrone: dopo i risultati positivi dell’iniziativa “Margherita per AIRC” che ha consentito di finanziare cinque annualità di una borsa di studio per giovani ricercatori, AICG ha scelto nuovamente di sostenere, nell’ambito del Garden Festival d’Autunno, una Campagna AIRC quella del “Nastro Rosa AIRC”. Per tutto il mese di ottobre e per ogni vaso di ciclamino di colore rosa venduto, i Centri Giardinaggio aderenti devolveranno 1 euro a sostegno della ricerca contro il cancro al seno dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro.

Le sorprese in ogni Centro Giardinaggio
In ogni singolo Garden ci saranno anche aiuole dimostrative e didattiche, occasione preziosa per ricevere consigli dagli esperti sulle tecniche colturali migliori per le piante d’Autunno. Si troverà anche uno speciale QR code per approfondire conoscenze, creare connessioni con il mondo green di AICG e trovare guide da consultare anche da casa, sulle attività pratiche, sulle piante e sulle letture consigliate.
Il QR code verrà esposto nei cartelli dentro ai singoli corner dedicati al tema dentro al punto vendita.

Infine, poiché ogni Centro di Giardinaggio che aderisce al Garden Festival d’Autunno avrà la libertà di interpretare la Festa d’Autunno come meglio ritiene (anche in virtù delle normative Covid che si dovranno rispettare), saranno numerosissime le idee, le novità, i suggerimenti, le atmosfere, le ambientazioni che troveremo. Ma tutte saranno finalizzate a farci riflettere sull’importanza della riconnessione con la Natura, alla ricerca di ritmi più lenti e relazioni più trasparenti, di una vita più sostenibile a livello ambientale e sociale.

Su www.autunnoingarden.it si potrà visualizzare la mappa interattiva con l’elenco di tutti i Centri di Giardinaggio che partecipano al Garden Festival d’Autunno, divisi per regione.

A tavola in compagnia: la condivisione di un tempo di qualità
Il suggerimento su come decorare la tavola autunnale; da ricordare che ogni pianta può avere più usi per la circolarità dei prodotti; la lettura consigliata per questo periodo è “Come coltivare le erbe aromatiche. L’arte e la scienza di coltivare le proprie erbe aromatiche” di Holly Farrell; i consigli di piantumazione: Echeveria agaoides, orion e metallica, Monarda hibryda “Pink Supreme”, Muscari latifolium, Narciso tete a tete, Perovskya lancey blue, Viola cornuta.

AICG
È un ente senza scopo di lucro costituito nel 2012 per sviluppare un’identità professionale e un processo virtuoso di sviluppo delle aziende che operano nel settore specializzato del giardinaggio e florovivaismo (centri di giardinaggio o Garden Center),
L’Associazione ha lo scopo di tutelare, qualificare, promuovere e sviluppare la cultura del verde, con una particolare attenzione alle piante italiane, all’interno dei centri giardinaggio.

Per informazioni:
AICG Associazione Italiana Centri Giardinaggio
www.aicg.itsegreteria@aicg.it – tel. 031/301037

Ufficio stampa: Ellecistudio
Tel. 031301037
paola.carlotti@ellecistudio.itchiara.lupano@ellecistudio.it

A Ferrara dal 23 al 26 settembre 2021
TORNA LA FESTA DEL LIBRO EBRAICO

 

Torna per la XII edizione, la Festa del Libro Ebraico, uno dei principali eventi culturali ideato e organizzato dal Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS di Ferrara. Attraverso presentazioni di libri, incontri, performance live, proiezioni e concerti, il festival letterario ha permesso a migliaia di persone di entrare in contatto con la ricchezza culturale dell’Ebraismo e si è confermato un appuntamento fisso per la città estense.

Dal 23 al 26 settembre il giardino del Museo ospiterà sotto la sukkah, la tradizionale capanna costruita in occasione della festa ebraica di Sukkot, decine di ospiti prestigiosi: dallo scrittore israeliano Eshkol Nevo, al Professore emerito Luciano Canfora, dal politico ed economista Romano Prodi, agli scrittori Igiaba Scego ed Alessandro Piperno.

Il tema conduttore sul quale si interrogheranno e rifletteranno i protagonisti della XII edizione della Festa del Libro Ebraico è la CASA. Forse la parola più pronunciata in questi ultimi mesi, “Casa” è un luogo ma anche uno stato d’animo, un rifugio o una trappola; può significare famiglia, stabilità, sicurezza, ma alle volte anche oppressione e insofferenza. Per l’Ebraismo, la casa è sempre stato uno strumento di elezione per la trasmissione dell’identità e dei valori; una risorsa che ha permesso la sopravvivenza di un popolo in diaspora. Il vocabolo in ebraico usato per indicarla è Bayit, la cui lettera iniziale – Bet – è la prima consonante dell’alfabeto e ha una forma chiusa su tre lati, simbolo di protezione ma anche di permeabilità culturale.

L’iniziativa ha il patrocinio della Regione Emilia-Romagna, del Comune di Ferrara, dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e della Comunità Ebraica di Ferrara. È realizzata inoltre con la collaborazione dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara e la sponsorizzazione di Coferasta.

“La Festa del Libro Ebraico – spiega il Presidente del MEIS Dario Disegni – è da più di un decennio uno degli eventi cardine che rappresenta il cuore e la missione del Museo. Negli anni abbiamo avuto l’onore di ospitare a Ferrara autori italiani e internazionali tra i più rappresentativi della letteratura contemporanea. Per il secondo anno consecutivo, nonostante le difficoltà e i limiti imposti dalla pandemia, non abbiamo voluto rinunciare a un festival che porta con sé il valore inestimabile della cultura. Questi tre giorni saranno una vera e propria Festa di nome e di fatto, che celebra il libro, l’identità ebraica e il dialogo”.

“La capanna con il tetto di frasche nella quale, secondo la Torah, gli ebrei devono risiedere per sette giorni – aggiunge il Direttore Amedeo Spagnoletto – rappresenta la precarietà sulla quale deve riflettere l’umanità nel contesto più intimo della dimora. Ma è anche il simbolo di uno spazio aperto all’ospitalità, un luogo accogliente, proprio perché semplice ed essenziale, dove tutti possono riconoscersi e dialogare. Ambientare la Festa del Libro Ebraico in questa cornice così speciale significa, in fondo, riconoscere al testo scritto queste peculiarità. La lettura crea una relazione unica in ognuno e contemporaneamente ci apre a mondi nuovi con i quali instauriamo un contatto eterno”.

IL CALENDARIO
Si inizia il 23 settembre alle 17.00 con l’inaugurazione (evento su invito). Intervengono Dario Disegni, Presidente del MEIS; Daniele Ravenna, Ministero della Cultura; Mauro Felicori, Assessore alla cultura e paesaggio della Regione Emilia-Romagna; Alan Fabbri, Sindaco di Ferrara e Noemi Di Segni, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

Alle 18.00 si apre al pubblico con un tuffo nel passato: una conversazione a più voci dedicata alla vita a Pompei, Gerusalemme e Roma nel cruciale decennio 70/80 del I secolo. Il Direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli ne discute con il Professore emerito di Filologia classica all’Università di Bari Luciano Canfora (autore de “Il tesoro degli ebrei. Roma e Gerusalemme”, Laterza 2021) e Samuele Rocca (autore di “Mai più Masada cadrà”, Salerno, 2021). Modera l’archeologa e Digital Media Curator Astrid D’Eredità.

Venerdì 24 settembre, la mattinata (9.30-11) è dedicata alle scuole con “A cosa serve una casa?”, un laboratorio di filosofia per bambini a cura della filosofa, educatrice e scrittrice Sara Gomel.
Alle 12.00 si presenta il libro “Il merito dei padri. Storia de La Petrolifera Italo Rumena 1920-2020” (ed. Il Mulino, 2020) di Tito Menzani, Emilio Ottolenghi e Guido Ottolenghi: la storia di un’impresa e una famiglia, tra gli ostacoli della guerra e le leggi razziali, cadute e risalite. Guido Ottolenghi conversa con Romano Prodi (Presidente Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli) moderati dal neo Rettore dell’Università degli Studi di Ferrara Laura Ramaciotti.

Alle 16.00 il Direttore del MEIS Amedeo Spagnoletto e il Presidente dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara Anna Quarzi presentano il libro di Edith Bruck “Il pane perduto” (La nave di Teseo, 2021), vincitore del Premio Strega Giovani e del Premio Viareggio-Rèpaci, in collegamento con l’autrice.

Sabato 25 settembre si conclude con “Il violinista sul tetto” la seconda edizione dell’ARENAMEIS “Una risata ci salverà”, il cinema all’aperto ospitato nel giardino del Museo. A precedere la proiezione del celebre musical che ha fatto la storia del cinema, una imperdibile sorpresa riservata al pubblico. Per l’occasione si potrà inoltre visitare dalle 19.30 la mostra “Ebrei, una storia italiana”, mentre l’evento e la proiezione inizieranno alle 20.30.

La festa si chiude domenica 26 con una intera giornata dedicata ai libri: alle 10.00, un laboratorio per i bambini dai 7 ai 10 anni a cura del MEIS. Alle 10.15 il Direttore del CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) Gadi Luzzatto Voghera presenta il libro di Raniero Fontana “André Neher. Apertura di spirito, coraggio della fede” (Pazzini, 2020), dedicato al filosofo e teologo francese naturalizzato israeliano André Neher, grande conoscitore della Kabbalah, la mistica ebraica.

Alle 11.30 viene presentato in anteprima I-Tal-Ya Books, il progetto internazionale di censimento digitale di circa 35.000 libri ebraici, frutto della collaborazione tra l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, la National Library of Israel. Dopo i saluti di Noemi Di Segni, Presidente Unione delle Comunità Ebraiche Italiane; Oren Weinberg, Direttore National Library of Israel; Sally Berkovic, Amministratore Delegato Rothschild Foundation Hanadiv Europe; intervengono: Yoel Finkelman, Curator Judaica collection della National Library of Israel, Francesca Bregoli, Professore Associato di Storia (Queens College, NY), Andrea De Pasquale, Direttore dell’Archivio Centrale dello Stato, e Chiara Camarda, Catalogatrice dell’I-Tal-Ya Books Project. Modera Gloria Arbib (Steering Committee I-TAL-YA Books Project e membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione MEIS). Segue la TECA Digitale: dimostrazione e ricerca del Catalogo unico dei libri ebraici. Le traduzioni sono a cura dei tirocinanti della SSLMIT Università di Trieste – Pagine Ebraiche.

Alle 16.30 Shaul Bassi racconta il volume da lui curato “Il cortile del mondo. Nuove storie dal Ghetto di Venezia” (ed. Giuntina, 2021) assieme alla scrittrice Igiaba Scego, autrice di uno dei contributi contenuti nel libro. Modera la curatrice del MEIS Sharon Reichel.

Appuntamento conclusivo alle 18.00 con “Io sono la mia casa”, l’incontro che vede come protagonisti lo scrittore israeliano Eshkol Nevo, dal cui libro “Tre piani” (Neri Pozza, 2015) il regista Nanni Moretti ha tratto il suo ultimo film presentato al Festival di Cannes, e lo scrittore Premio Strega Alessandro Piperno, tornato in libreria proprio in questi giorni con il romanzo “Di chi è la colpa” (Mondadori, 2021), moderati dalla Direttrice del Circolo dei Lettori di Torino e scrittrice Elena Loewenthal.

INFO E PRENOTAZIONI
Tutti gli eventi tranne l’ARENAMEIS sono gratuiti. È consigliata la prenotazione. L’ingresso dei prenotati è consentito fino a 10 minuti prima dell’inizio dell’evento, dopo tale orario l’ingresso sarà possibile anche per i non prenotati nei limiti della capienza consentita dalla normativa Covid. Per accedere, sarà necessario esibire il Green pass. Per informazioni e prenotazioni: tel. 0532 1912039 e 342 5476621 (attivi martedì-domenica 10.00-18.00), email a meis@coopculture.it. In caso di pioggia gli eventi si terranno negli spazi interni del museo. L’ingresso all’ARENAMEIS ha il costo di 4 euro e comprende la visita alla mostra “Ebrei, una storia italiana”.

Alcuni eventi potranno essere seguiti in diretta sulla pagina Facebook del MEIS @MEISmuseum: scopri di più su meis.museum/fle2021/

LA FESTA DEL LIBRO EBRAICO IN PILLOLE
Giunta alla sua XII edizione, la Festa del Libro Ebraico è uno dei principali eventi culturali ideato e organizzato dal MEIS. Attraverso presentazioni di libri, incontri, performance live, proiezioni e concerti, il festival letterario ha permesso a migliaia di persone di entrare in contatto con la ricchezza culturale dell’ebraismo e si è confermato un appuntamento fisso per la città di Ferrara. Sono stati protagonisti delle passate edizioni ospiti internazionali del calibro di Abraham B. Yehoshua, David Grossman, Eike Schmidt e Christian Greco.
La Festa si terrà dal 23 al 26 settembre 2021 e avrà come tema conduttore il concetto di Casa. L’argomento scelto si sposa armonicamente con lo spazio nel giardino del museo che ospiterà la festa: la sukkah, la capanna costruita in occasione della festa ebraica di Sukkot, che ricorda la precarietà della vita e il valore dell’accoglienza.

IL MUSEO NAZIONALE DELL’EBRAISMO ITALIANO E DELLA SHOAH
Il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah nasce a Ferrara con la missione di raccontare oltre duemila anni di storia degli ebrei in Italia.
Da Sud a Nord, per secoli gli ebrei italiani hanno contribuito e partecipato all’evoluzione del Paese, attraversando periodi difficili, segnati dalla persecuzione e dall’isolamento e fasi di integrazione e scambio. Ciò che emerge è un’esperienza comune, che riguarda tutti. Al MEIS ognuno può riscoprire un pezzo della sua storia.

Ufficio Stampa
Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah – MEIS
Rachel Silvera
+39 0532 769137
ufficio.stampa@meisweb.it

La “Civiltà” prima dei Talebani:
la feroce violenza delle truppe di occupazione USA/Nato

 

di Patrick Boylan

Il noto programma TV australiano Four Corners ha trasmesso un video di un soldato australiano mentre uccide un civile afghano a sangue freddo. Si riaccende così la polemica intorno alle ‘forze speciali’ e a come vengono addestrate.


Questo video mostra l’uccisione spietata di un civile disarmato afghano

L’indifferenza degli altri soldati della pattuglia davanti a questa uccisione spietata dimostra come essa veniva considerata ‘ordinaria amministrazione’ da almeno una parte delle truppe d’occupazione nell’Afghanistan. E questo fatto ci deve far riflettere.

Talebani preferiti alle truppe occidentali: perché?

Come mai la stragrande maggioranza degli afghani ha preferito la repressione dei Talebani all’oppressione occidentale?  I nostri mass media cercano invano di negare questo fatto evidente, facendoci sentire in TV soltanto le voci di quegli afghani pro-occidentali che rimpiangono la partenza delle truppe di occupazione. Ma si tratta di una piccola minoranza soltanto, concentrata in alcune grandi città. In tutto il resto del paese, le popolazioni hanno festeggiato la partenza delle truppe USA/NATO. Come mai?

Michael Moore ci ha fornito la spiegazione nel lontano 2004 con il suo film-documentario Fahrenheit 9/11 che fa vedere alcuni video ripresi dalle truppe USA/NATO in Afghanistan e in Iraq mentre massacrano senza pietà i civili. Il film, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes 2004, è visibile gratis in streaming sul sito di Moore per tutta questa settimana.

The Guardian: “un ritratto devastante del fallimento della guerra”

Julian Assange ha dato poi la stesa spiegazione nel 2010, postando sul suo sito Wikileaks il celebre Diario di Afghanistan: migliaia di documenti autentici che forniscono, nelle parole del giornale britannico The Guardian, “un ritratto devastante del fallimento della guerra in Afghanistan e una rivelazione delle ripetute uccisioni, sempre taciute, di centinaia di civili.”

Uccisione a sangue freddo di un giovane afghano disarmato

Poi nel 2020 è spuntato fuori, grazie al giornalismo investigativo del noto programma TV australiano Four Corners (simile a Report e Presa Diretta in Italia), anche un video ripreso dalla telecamera fissa sull’elmetto di un soldato australiano.  Il video – che l’emittente australiana ABC ha riproposto quest’anno in occasione del ritiro delle truppe NATO dall’Afghanistan – fa vedere l’uccisione in sangue freddo di un giovane afghano che, per non essere visto dalla pattuglia che perlustrava i suoi campi, si era nascosto nell’erba alta.

Centrato con tre pallottole alla testa mentre alzava le mani

Il cane usato dalla pattuglia ha individuato il giovane e un soldato della pattuglia, avvicinandosi a lui, l’ha centrato con tre pallottole alla testa mentre alzava le mani.  In una mano teneva l’equivalente afghano del rosario – stava pregando.  Non aveva armi.
La ferocia dell’esecuzione non sembra turbare né l’assassino né gli altri soldati – sembra, per loro, ordinaria amministrazione.  E c’è una spiegazione per questo atteggiamento così spietato.

Addestrati al gusto di uccidere

 

I soldsoldato armatoati appartenevano alle forze speciali australiane (i SAS), quelle che un’inchiesta dello stesso Ministero della Difesa australiano nel 2020 aveva accusato di avere una “cultura della violenza” (1.)  Infatti, i giovani soldati del 2° Squadrone delle SAS venivano addestrati a sparare in testa a prigionieri afghani inermi per inculcare in loro il gusto di uccidere (2.).

La cultura della violenza

In seguito allo scandalo sollevato dal servizio della ABC australiana, il 2° Squadrone è stato sciolto dal Ministro della Difesa. Ma la cultura della violenza sembra tipica, non soltanto dell’intera arma, ma di una parte significativa di tutte le truppe di occupazione, come già dimostravano i video clip che Michael Moore ha fatto vedere in Fahrenheit 9/11 e i fatti che Julian Assange ha documentato nel suo Diario di Afghanistan.

La banalità del male

Non ci deve stupire, dunque, che le nostre truppe non abbiano conquistato le menti e i cuori delle popolazioni dei paesi che occupano. Né ci deve stupire la loro “tranquilla spietatezza” nello sterminare una parte di quelle popolazioni – stermini trattati come “ordinaria amministrazione” – perché è che la stessa guerra che inculca questa mentalità. E’ la stessa guerra che produce ciò che Hannah Arendt ha definito, descrivendo l’operato del Comandante SS Adolf Eichmann, “la banalità del male”.

(1.) “Killing Field: Exposing killings and cover ups by Australian special forces in Afghanistan. Four Corners. Australian Broadcasting Corporation. 16 March 2020. Archived from the original on 7 June 2021.
(2.) “SAS soldiers made to shoot prisoners to get their first kill, 39 Afghans ‘murdered’, inquiry finds”. Doran, Matthew (19 November 2020). abc.net.au.  Archived from the original on 19 November 2020. Retrieved 9 June 2021.

Nota: questo articolo è apparso con altro titolo su PeaceLink il 13 settembre 2021.

Le donne di Shamsia Hassani sui muri di Kabul

Le donne di Shamsia Hassani sui muri di Kabul

Shamsia Hassani è nata in Iran nel 1988 dove i suoi genitori sono emigrati a causa della guerra, è rientrata in Afghanistan, il suo paese. nel 2005. Ha studiato arte all’Università di Kabul, divenendo professore associato di scultura.
Si dedica, per prima in Afhanistan, alla Street Art dal 2010, le sue opere sono diventate famose anche in Occidente. I suoi lavori mettono al centro la difficile condizione delle donne e la lotta per la loro liberazione. Le donne afgane, che spesso Shamsia Hassani rappresenta mute, senza la bocca, in queste settimane si nascondono dentro le case, cercando disperatamente un luogo sicuro per sfuggire alle violenze.

Anche Shamsia Hassani si è nascosta. Dopo il ritiro americano e la presa del potere da parte dei Talebani, anche i suoi account sono rimasti muti per alcuni giorni, facendo temere il peggio per lei, finché su Instagram non è un comparso un ultimo post nel quale l’artista ringraziava per i tanti messaggi ricevuti e faceva sapere di essere al sicuro. Ora nel suo sito si legge un arrivederci: KABUL ART PROJECT tornerà presto”.[Vedi qui]

Visto il divieto del nuovo governo fondamentalista, non potrà più mettere piede all’Università di Kabul. Ma mentre scrivo mi piace immaginarla scendere in strada, col favore della notte, per continuare a dipingere il bisogno di libertà delle donne afgane sui muri di Kabul.
In una intervista del 2013 al giornale indipendente  Art Radar [leggi il testo integrale dell’intervista], Shamsia Hassani raccontava la scelta del graffitismo e il senso della sua arte: ” Non è come in Europa, [qui] i graffiti sono qualcosa di illegale, io Io uso in modo diverso per un messaggio diverso, Voglio colorare i brutti ricordi della guerra sui muri e se colorerò questi brutti ricordi, allora cancellerò [la guerra] dalla mente delle persone.”.

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Alle lettrici e ai lettori
In questi giorni drammatici, queste stesse opere di Shamsia Hassani stanno girando per i social network. Anche io vi chiedo di condividere questa mia breve presentazione e queste splendide immagini. Sarà un modo per dar voce a tutte le donne afghane che stanno vivendo l’inferno.

NOTA: Un grazie particolare all’amico Kiwan Kiwan che mi ha segnalato le opere di Shamsia Hassani

Festivaletteratura. Giuseppe Culicchia e Giorgio Bazzega:
le prime persone da incontrare sono quelle che non vorresti incontrare

Per Ferraraitalia sono tornato al Festivaletteratura di Mantova. Mi è stata lasciata piena libertà redazionale, per cui nell’ affollatissimo programma di quella giornata (il 9 settembre) ho scelto l’ incontro con uno scrittore che continuo a seguire dalla sua prima opera (circostanza per me singolare): Giuseppe Culicchia, che scoprii leggendo nel 1994 Tutti giù per terra, la sua opera prima – una di quelle opere d’arte seminali, prive di virtuosismi e di maniera e quindi tali da spingere all’emulazione, anzichè alla semplice ammirazione. Un po’ come fece il punk, o certa pop art.

Nell’iniziativa di Mantova l’occasione era rappresentata dalla pubblicazione del suo recente Il tempo di vivere con te (Mondadori, 2021), in cui Culicchia trova finalmente, dopo più di quarant’anni, le parole per raccontare il rapporto tra se stesso bambino e suo cugino Walter, più vecchio di nove anni, di Sesto San Giovanni, una figura mitica della sua infanzia.
Un ragazzo adorabile, pieno di vita, un fratello maggiore, un modello, la persona di cui aspettava impaziente le visite estive a Grosso Canavese. Giuseppe Culicchia, come tutti (tranne la madre di Walter, che custodiva il segreto), venne a sapere che Walter Alasia, il suo amato cugino, era un brigatista rosso la notte in cui la Polizia venne a cercarlo a casa, lui aprì la porta della camera da letto sparando ai poliziotti, venne ferito a sua volta e poi finito nel giardino di casa, mentre cercava di fuggire. Era il 15 dicembre 1976.
Walter Alasia aveva vent’anni, Giuseppe Culicchia undici.
Uno dei due poliziotti morti nello scontro a fuoco con Walter Alasia era Sergio Bazzega, maresciallo in forza all’Antiterrorismo.

Ebbene, a Mantova, seduti allo stesso tavolo a parlare di Walter e degli anni di piombo, c’erano Giuseppe Culicchia, cugino di Walter Alasia, e Giorgio Bazzega, figlio del maresciallo ucciso da Walter. All’epoca dei fatti, Giorgio Bazzega aveva due anni.

Giorgio ha ricordato il padre come un figlio che non lo ha potuto conoscere in vita: attraverso una ostinata, rabbiosa a tratti, opera di ricostruzione retrospettiva della sua figura. Così abbiamo saputo da Giorgio che Sergio era uno di quei poliziotti che si batteva per la democratizzazione del corpo di Polizia, tanto da aver scritto per l’Unità un articolo su questo tema il giorno prima di venire ucciso; tanto da essere soprannominato ‘il comunista’ in caserma.
Giorgio ha poi parlato del suo percorso di ragazzo con simpatie di destra, pieno di rabbia, che avrebbe voluto ammazzare i brigatisti uno per uno.

Poi un giorno incontra Manlio Milani, presidente dell’associazione vittime della strage di Piazza della Loggia, che gli fa cambiare il punto di vista sulle cose. Come solo può riuscire a fare chi attraversa il dolore dilaniante della perdita della compagna per un’esplosione, a tre metri da te, appena dopo averci parlato. Come solo può riuscire a fare chi attraversa il senso di colpa assurdo di non averla protetta abbastanza.
Manlio Milani ha cambiato la vita di Giorgio Bazzega, avviandolo a quel percorso di ‘giustizia riparativa’ che lo ha fatto uscire dal ruolo di vittima votata alla vendetta. Percorso durante il quale ha conosciuto anche ex terroristi – perché il fine del percorso è quello di unire i lembi di un’umanità lacerata (carnefici, vittime e rispettivi parenti) – e ha scoperto che sono persone, non mostri; e ha cercato di comprendere, non di giustificare, le ragioni che li hanno condotti a compiere certi atti.

Non sto divagando: la figura centrale dell’incontro di Mantova non è stata Giuseppe Culicchia, nonostante sia stato lui a scrivere il libro. La figura centrale è stata quella di Giorgio Bazzega, che ha confessato candidamente di avere incontrato lo scrittore ad un certo punto del suo percorso, già costellato di altre conoscenze anche più ‘pesanti’.
Viceversa, Culicchia ha evidenziato che la cosa più bella che gli ha portato il libro è stata proprio la possibilità di conoscere Giorgio, e di portare in giro il libro assieme a lui. E’ parsa evidente la sommissione dello scrittore all’ esperienza raccontata con trasporto da Giorgio Bazzega: una sorta di rispetto, un passo indietro che ha sgombrato il campo da ogni possibile personalismo legato alla sua veste di narratore. Raramente mi è capitato di vedere uno scrittore di successo spogliarsi così istintivamente della propria componente narcisistica, lasciando il proscenio non a Walter, suo amato cugino, ma alle sue vittime.

Culicchia ha infine ripreso una vecchia polemica tra Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini, quando il secondo rimproverava al primo di rifiutare il confronto coi fascisti. E in un’epoca caratterizzata da persone che urlano la propria verità e rifiutano, denigrano, odiano la verità degli altri, mi hanno particolarmente colpito le parole finali di Giorgio Bazzega, quando ha detto che “le prime persone da incontrare sono quelle che non vorresti incontrare”.

La patria della democrazia e il cortile di casa

 

Un fiume di bandiere bianche, azzurre e rosse sfila sul lungomare de L’Avana. Biciclette, moto, motorini, sventolano l’orgoglio cubano manifestando contro il bloqueo di cui soffre il grande alligatore da sessanta anni.
Sei decenni, da nove anni prima della mia nascita. Un embargo sostenuto e promosso da dodici presidenti americani, democratici e repubblicani, tutti uniti contro l’avamposto del terrore bolscevico, una piccola nazione a galla nel cristallino mare dei Caraibi.

Ovvio, le sanzioni ai tempi del “simpatico” dittatore Fulgencio Batista, mica c’erano. Allora no, il massacratore e affamatore del suo popolo era un amico, l’isoletta era un ottimo bordello a buon mercato, quattro bracciate da Miami, l’attraversata la si poteva fare sul pattino. E poi i diritti umani, sono scritti sulla carta dal ’48, mica poi valgono per tutti. Ma cosa avevate capito?

Cioè uccidere svariate decine di propri connazionali durante delle azioni di polizia, mica è reato dappertutto, ma che credete? L’occidente è democratico, loro sono comunisti, noi siamo per la libertà, che importa se non tutti se la possono comprare. Abbiamo pure una statua di donna con una costituzione sotto braccio, e una torcia sul pugno, davanti al mare che inneggia al nostro sogno.

Che c’entra se la sanità da noi è pubblica solo per chi ha un lavoro, una assicurazione, un conto in banca, mica possiamo curare tutti. Abbiamo i campus, dove menti eccelse hanno creato, inventato, portato alla luce tutto lo scibile umano, quei figli di nessuno di europei sono immigrati a frotte nel secolo scorso e noi li abbiamo accolti. Magari non tutti sul tappeto rosso, abbiamo fatto due corsie: coi soldi a destra, senza a sinistra. Che importa se la scuola non tutti se la possono permettere, c’è sempre quella pubblica, quella dove non ci si annoia mai e ogni settimana c’è un mattacchione che spara. Una colt per ogni americano, non siamo mica dei banditi barbudos come loro. Anche noi abbiamo i nostri martiri per la libertà, spesso li abbiamo pure uccisi noi stessi, ma che vuol dire?

Loro avevano il terrorista Che Guevara e quel loro leader (che quei barbari chiamano lidér), che abbiamo provato ad ammazzare alcune centinaia di volte.

Come non si può? Noi siamo la patria della libertà, uccidendolo cercavamo di rendere il mondo un posto migliore, così come abbiamo fatto qualche altro migliaio di volte.

Da loro non c’è dissenso, c’è gente in galera per le proprie idee. Il fatto che da noi il partito comunista fosse fuori legge non è un caso. Inutile andare indietro di un secolo e rivangare ancora la storia di quei due anarchici italiani. Se in galera da noi il novanta per cento dei detenuti è latino o afro americano, sono loro che delinquono, che colpa abbiamo noi.

Loro volevano fare la rivoluzione, pensate bene, che orrore. Che c’entra se l’abbiamo fatta anche noi due secoli prima. Loro sono dei guerrafondai, quel loro Che Guevara era un sobillatore, in Africa, in Bolivia e poi manco era cubano.

Come? L’abbiamo ucciso noi? E chi lo dice? La CIA. Ma sì, un errore, un piccolo processo lo abbiamo pure fatto. Gli abbiamo tagliato le mani e le abbiamo inviate alla casa Bianca. Ma era per capire se aveva le unghie pulite.

Siamo stati in guerra 222 anni in 239 anni di storia? Si ma per liberare il mondo e per esportare la democrazia, che credete, mica ci fa piacere. Non ci siamo divertiti nemmeno a far ammazzare Allende, ma era un marxista a due passi da casa nostra. Perchè loro invece? Nessuna guerra? Come nessuna! E la Baia dei porci? Ah, siamo stati noi a tentare di invaderli… del resto erano talmente vicini, voi che fareste con un ladro nel cortile di casa vostra?

Guantanamo è una nostra base sull’isola, qual è il problema? Come un campo di concentramento? E chi l’ha detto? L’ONU. Il solito branco di cazzoni.

E cosa c’entrano gli indiani adesso? Non andiamo a rivangare storie vecchie di secoli.

Noi siamo morti per liberare l’Europa.

Come? Non saremmo entrati in guerra se il Giappone non ci avesse bombardato la baia? Cazzate messe in giro dai soliti musi gialli. Tutti uguali, coreani, vietnamiti. Comunisti. Il napalm? E’ un defogliante, a volte in un campo bisogna disinfestare per poi raccogliere.

Insomma basta, mi avete stancato. A Cuba non c’è né libertà né democrazia, i diritti umani non sono rispettati (cazzo c’entra Floyd, quello era negro).

Un omicidio al minuto. E’ per ringiovanire la popolazione, noi siamo la patria di Rambo.

Medici non bombe”, come non l’abbiamo detto noi. E chi l’ha detto? Fidel Castro?

Il servizio sanitario nazionale migliore di tutta l’America? Come, quello cubano? Come, l’ha messo in piedi quel terrorista di Guevara? Come, il tasso di mortalità infantile è più basso a Cuba?

Ma noi stiamo sconfiggendo il Covid. Abbiamo avuto solo cinquecentocinquantamila morti.

Noi il vaccino lo paghiamo e ce lo teniamo pure. Soberana2 è gratuito e lo cederanno gratis alle nazioni del terzo mondo? Non hanno mai avuto fiuto per gli affari.

I dannati cinesi e palestinesi hanno preparato una mozione per eliminare il blocco e le sanzioni a Cuba, quelle sacrosante sanzioni che il nostro caro ex presidente con 242 nuove misure ha pure rafforzato. . La mozione è passata con 30 voti a favore, 15 contrari e due astenuti, ma a noi che ce ne fotte, noi siamo democratici, l’ONU è solo un branco di fannulloni. Per fortuna che i nostri cari alleati, come la Giovine Italia, hanno votato per noi.

Sì, quegli stessi cubani che un anno fa fecero sbarcare una brigata di medici per aiutarli durante la pandemia.  Ma che gli frega a loro della solidarietà, gli italiani sono allineati, sono cari amici nostri. Sono un popolo libero. Abbiamo solo cinquantanove basi in quel paese del sole, del mandolino e della mafia, con tredicimila nostri valorosi marines. Mica li abbiamo occupati, anzi li abbiamo liberati.

I partigiani? E che c’entrano. Noi li difendiamo dal pericolo di una invasione. Di chi? Ma dei sovietici.

L’Unione Sovietica non c’è più? E che significa? Comunque li abbiamo liberati dai comunisti. Abbiamo anche chiesto l’aiuto di amici all’interno della loggia Propaganda 2. Care persone.

E comunque con voi comunisti non ci parlo più, volete sempre avere ragione voi. Manteniamo le sanzioni anche se la mozione è passata, perché noi siamo democratici.

 

PER CERTI VERSI
Un giorno Pericle

UN GIORNO PERICLE

Un giorno Pericle
Decise
Che la democrazia
Dovesse essere esportata
Con ogni mezzo
Nessuno più rinunciò
A questa idea
Anche quando
La democrazia
Sprofondò
Nel suo stesso sangue
Venne sostituita
Da altri termini
Guerra santa
Impero
Civiltà

A un certo punto
La democrazia
Ricomparve
E immancabile
Come fosse una merce
La sua esportazione
Con ogni mezzo
Ancora una volta
Perché ciò che è giusto
È giusto
Ci mancherebbe

Questi trapianti
Perlopiù
Finiscono col rigetto
Con nuovi nemici
Da estirpare
Con ogni mezzo

E le vite umane
La natura…
Quelle vengono dopo
Dopo quando?
Dopotutto

Con rispetto…

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

Fuoco, fiamme e gas letali contro i curdi

 

di Gianni Sartori

Un video diffuso recentemente sembra dare ulteriore conferma a quanto si vociferava da tempo. Ossia che l’esercito turco – oltre che di droni, aerei e bombe – fa uso di sostanze chimiche, gas proibiti dalla Convenzione di Ginevra. Contro i curdi, ça va sans dire.
Non è una novità naturalmente. Ankara opera in tal modo – impunemente – da qualche decennio. Ora – per la precisione dai primi di giugno – anche nel Kurdistan del Sud (nord dell’Iraq), soprattutto per colpire i tunnel scavati dai guerriglieri. Le immagini del video realizzato da elementi delle HPG (Hêzên Parastina Gel – Forze di Difesa del Popolo, braccio armato del PKK) si riferiscono alla zona di Werxelê (regione di Avasin) e appunto mostrano in maniera evidente la fuoriuscita dei gas dai tunnel dove si riparano i combattenti curdi.
Da due mesi Ankara cerca – finora invano – di impadronirsi delle aree montagnose controllate dai guerriglieri. A quanto sembra per ottenere i suoi scopi non si fa scrupolo di commettere crimini di guerra. Stando ai dati forniti dalla resistenza curda, in questi due mesi i gas (di vario genere) sarebbero stati utilizzati decine di volte. Quello dei gas è solo un elemento della guerra pressoché totale – praticamente di sterminio – condotta da Erdogan sia contro i curdi che contro la natura del Kurdistan. Un’associazione ambientalista curda quantifica in più di un milione e trecentomila dunum (unità di misura corrispondente in genere a mille metri quadri, ma che in Iraq può corrispondere a 2500 metri quadri) le aree boschive incenerite dal fuoco. Praticamente il 35% delle foreste del Kurdistan del Sud. Distruggere l’ambiente naturale, incendiare le foreste, bombardare le montagne… rientra a pieno titolo nelle pratiche criminali – propedeutiche al genocidio – adottate da Ankara per risolvere manu militari la questione curda.
Ricordiamo che dal 2015 al 2019 l’aviazione turca ha bombardato – devastandolo – il Kurdistan del Sud circa 700 volte.
E nel solo 2020 già altre 300 volte. Oltre a causare morti e feriti, gli attacchi hanno costretto migliaia di persone a fuggire altrove. Incalcolabili poi i danni subiti dall’agricoltura e dalla fauna locale.Per esempio i recenti bombardamenti sulla regione di Bencewin avevano innescato rovinosi incendi che hanno ridotto in cenere centinaia di campi con la produzione agricola indispensabile per la sopravvivenza delle persone.
Di fronte a questa aperta violazione della sovranità nazionale, il sostanziale silenzio adottato dalle autorità curde locali (sia del governo che del Parlamento del Kurdistan del Sud) appare quantomeno criticabile (se non addirittura vergognoso).

Pubblicato su www.kurdistan.it il 9 settembre 2021

CONTRO VERSO
La svergognata

 

Scegliere era un dilemma insolubile per questa ragazza. Su un piatto della bilancia l’appartenenza, le radici, la visione del mondo offerta dai genitori; sull’altro il proprio progetto di vita, per quanto imperfetto, con un ragazzo non esemplare e non musulmano ma che lei amava e con cui aveva concepito un bambino.

La svergognata

Mi ci han proprio costretto
qui, dentro casa mia.
Mi hanno dato un biglietto
per andarmene via.
Mio papà mi ha strappato
la carta di soggiorno
e così si è accertato
non facessi un ritorno.

C’è in Italia un fagotto
concepito per sbaglio
in un giorno d’agosto,
ed è stato un abbaglio.
Non dovevo sperare
che ci fosse l’amore,
non dovevo contare
su un domani migliore.

Io non sono credente
lui non è musulmano.
Il Corano è stringente
non darà la mia mano
a un ragazzo infedele
che oltretutto ha sbagliato,
mi seduce col miele
ma ha un destino segnato.

So che è stato in galera
per reati da poco.
Lui mi ha detto che aveva
cominciato per gioco.
Io lo amo ma ammetto
che è uno scavezzacollo.
Ora gli credo e lo aspetto,
il giorno dopo lo mollo.

Ho voluto abortire
ma non ero più in tempo.
Ho dovuto mentire
ed è stato un tormento.
Ero incinta quel giorno
quando m’han fidanzata.
Si è saputo al ritorno
ch’ero già svergognata.

Libertà non è data
libertà non esiste.
Sono stata avventata
e mio padre insiste
che la sua preferita
l’ha distrutto per sempre.
La sua vita è finita
e il Corano non mente.

Io l’ho ormai rovinato
demolito, travolto
con quel bimbo che è nato
di cui non so più il volto.
Non dovrebbe avvenire
che un bambino è un ingaggio.
Non dovrebbe servire
tutto questo coraggio.

Amputarmi il passato
tutto ciò a cui appartengo
o abbandonare un neonato
che è quel figlio a cui tengo?
Affrontare il rigore
l’ostracismo la rabbia
o congelare il dolore
e restarmene in gabbia?

È una scelta feroce
e ho vent’anni appena
non ho cuore né voce
e non sono serena.

Gli adolescenti stranieri di seconda generazione portano su di sé un compito gravoso. Costretti a scegliere tra identità e appartenenza, attanagliati dal senso di colpa per la sofferenza che infliggono ai genitori semplicemente osando immaginare un futuro diverso da quello pensato per loro, qualche volta vengono intercettati dalla giustizia minorile – che nella mia esperienza lavora in un’ottica di mediazione ogni volta che si può, e con un taglio netto verso comportamenti inaccettabili quando il pericolo è alto e la mediazione è rifiutata dalle persone in causa.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Se i lavoratori rialzano la testa…
Una risposta popolare all’Italia disuguale di Bonomi e Draghi

 

Il dibattito pubblico, se si eccettuano le vicende afgane, continua ad essere dominato dalle questioni legate alla sindemia [Vedi qui] e ai vaccini. Si presta, così,  troppa poca attenzione a cosa sta avvenendo in sfere fondamentali della vita delle persone. L’adagio ripetuto a più riprese che “niente sarà più come prima” viene confermato, con il rischio concreto però che “il dopo sia peggio del prima”, che non si torni alla normalità precedente, ma ad una ancora più brutta.

Ci sono alcune vicende emblematiche che ci dicono come sul tema del lavoro e dei diritti dei lavoratori il peggio sia già arrivato. La prima è senz’altro quella della GKN di Campi Bisenzio , che riguarda circa 500 lavoratori investiti da uno spregiudicato processo di delocalizzazione con conseguente chiusura da parte della proprietà, il Fondo speculativo inglese Melrose, che non si ritiene soddisfatto dei risultati aziendali e che ha aperto via WhatsApp la procedura di licenziamento per tutti i lavoratori che scade il prossimo 22 settembre.
Ora, quello che lascia interdetti, a fronte di una forte mobilitazione dei lavoratori e della creazione di un ampio fronte di solidarietà attorno ad essi, è il silenzio assordante della politica, che oscilla tra pensare a blande misure di contrasto alle delocalizzazione selvagge sulla base del modello francese (un modello che non ha funzionato per niente) e offrire qualche limitato periodo di ricorso alla cassa integrazione. L’unico che fa sentire forte la propria voce è l’immancabile presidente di Confindustria Bonomi, che spiega che questa è la normale logica di mercato e che non ci si può opporre ad essa, pena la scarsa attrattività del nostro Paese nei confronti dei capitali stranieri.
Sulla vicenda GKN e sulla grande mobilitazione in atto rimando al reportage di Marina Carli recentemente apparso su questo quotidiano. [leggi qui]

Altrettanto emblematica è la vicenda della nascitura ITA, la nuova compagnia aerea di bandiera che sta prendendo il posto di Alitalia. Qui siamo in presenza non solo di un piano industriale molto debole e di una grave mancanza di volontà di affrontare il tema dei cosiddetti ‘esuberi’, visto che la nuova società assorbirà circa 2500 addetti, 8000 in meno rispetto agli attuali 10.500 dipendenti Alitalia (a cui si aggiungono gli oltre 600 del call center Almaviva, anch’esso soggetto ad un destino di delocalizzazione ), e a cui si prospetta semplicemente un periodo più o meno lungo di ammortizzatori sociali.
In più, ITA non intende applicare il contratto nazionale del settore aereo, preferendo avvalersi di un contratto aziendale (o regolamento?) che peggiora le condizioni in essere dei lavoratori.
Non paga di tutto ciò, ITA ha chiesto a chi fosse interessato ad essere occupato a quelle nuove condizioni di mandare appositi curricula, ricevendone più di 20.000. Una scelta inequivocabile, che esprime precisamente un modo per bypassare o, perlomeno, fortemente condizionare la trattativa sindacale e per mandare in soffitta il principio basilare del passaggio dei lavoratori dall’azienda cessata a quella subentrante. 

In questo breve excursus, di cui si potrebbe dire, seguendo Agata Christie, che se due coincidenze formano un indizio, tre diventano una prova, non si può non fare riferimento al tema della mancata copertura economica nel 2021 per i lavoratori del settore privato, nel caso in cui essi siano soggetti a quarantena perché colpiti dal Covid o essere stati in contatto con essi. Oltre alla forte perdita economica (parliamo di circa 500 euro per 10 giorni), colpisce la ‘dimenticanza’ in materia da parte del governo, visto che si ragiona di una necessità di alcune centinaia di milioni di euro.
Nel momento in cui si continua a legiferare velocemente con decreti o, addirittura, a costruire soluzioni con DPCM, è solo un pensiero malevole quello che suppone che, anche qui, si voglia dire all’insieme del modo del lavoro che si può dimenticare le ‘protezioni’ di cui finora aveva goduto?

Potrei continuare, citando altre vertenze in atto, come quella che vede impegnati i lavoratori della Whirpool di Napoli, della Gianetti di Brescia o quella scandalosa della Texprint di Prato, dove la polizia ha sgomberato con la forza gli operai (stranieri) e i sindacalisti che sono ricorsi allo sciopero della fame per rivendicare l’applicazione del contratto nazionale di lavoro (8 ore per 5 giorni la settimana anziché 12 ore sette giorni su sette) – come giustamente segnalato da Nicola Cavallini su questo quotidiano [Vedi qui] – oppure ragionando sulla discussione che si sta aprendo su reddito di cittadinanza, pensioni e riforma degli ammortizzatori sociali, ma tutto ciò a me pare sufficiente per affermare che non siamo in presenza di singoli episodi, ma ad un’impostazione complessiva che guarda alla riduzione dei diritti dei lavoratori e al fatto di considerare gli stessi come merce, come tante altre, soli di fronte al mercato e ai suoi idoli.

E infatti, se ce ne fosse bisogno, ulteriore conferma arriva da quanto sta succedendo nel mercato del lavoro e rispetto all’occupazione. Da una parte, assistiamo alla celebrazione di una forte crescita nel 2021: il ministro Franco ha annunciato che siamo al +5,8% rispetto al 2020, con la possibilità di arrivare al +6%, risultato salutato come indicatore di una sorta di nuovo boom economico, anche se, molto probabilmente, non siamo di fronte a nient’altro che ad un forte rimbalzo rispetto al calo di quasi il 9% nel 2020 rispetto al 2019.
Dall’altra, la situazione dell’ occupazione appena diffusa dall’ISTAT rende conto che da gennaio di quest’anno gli occupati sono sì cresciuti di 550mila unità, ma ne mancano ancora circa 265mila per tornare ai livelli pre Covid. Soprattutto, nel periodo luglio 2020 – luglio 2021, la gran parte dei nuovi occupati, pari a 440mila, sono il prodotto di un calo dei lavoratori indipendenti e di una crescita di quelli dipendenti (+ 502mila), ma di questi ultimi solo 125mila sono contratti a tempo indeterminato, mentre ben 377mila appartengono alla categoria dei contratti a termine.
Insomma, tutte le tendenze e le scelte concrete in atto disegnano un quadro per cui i tratti della precarietà e della concorrenza tra i lavoratori diventano sempre più la normalità del lavoro, che essi segnano le modalità con le quali si affrontano le situazioni di crisi e di ristrutturazione aziendale, che lo stesso contratto nazionale va considerato uno strumento che appartiene più al passato delle relazioni industriali, destinato ad essere superato da regolamenti aziendali e dalla contrattazione tra le aziende e i singoli lavoratori.

Del resto, lo stesso scontro sulla questione del blocco dei licenziamenti aveva come posta in gioco esattamente questo: non si trattava tanto di una questione legata alla possibile devastazione di un crollo occupazionale, quanto piuttosto alla determinazione delle forze che decidono sulle dinamiche dell’occupazione e sui vincoli che la regolano. Mano libera dell’impresa e primato del mercato: sembra questo il mantra che viene ripetuto ancora oggi, dopo che esso è all’opera da molti anni, e che viene agitato con un’intenzione di arrivare ad una sorta di resa dei conti finale, scommettendo tutto sulla ripresa della crescita e sulla quantità ragguardevole di risorse pubbliche che provengono dal PNRR.
Può sembrare un paradosso, ma la più grande mole di investimenti pubblici che viene messa a disposizione da molti anni in qua è finalizzata a ricostruire la centralità del mercato e delle sue logiche. Se ci pensiamo bene, questa è la cifra del governo Draghi e del suo ‘ordoliberismo’, e cioè di un intervento pubblico volto a ricostruire e rilanciare il mercato. Peccato che esso sia destinato a produrre disastri sociali, a costruire possibilità per alcuni a prezzo della competizione tra le persone, chiamando tutto ciò meritocrazia, ma, in realtà, lasciandole sole di fronte al mercato e, soprattutto, generando situazioni in cui molte saranno ‘lasciate indietro’, a dispetto di quanto recita la propaganda ufficiale.

Fa decisamente tristezza, per non dire altro, sentire Enrico Letta dire che questo è il governo del PD.

Serve, invece, uno scatto di consapevolezza, che ad oggi manca anche anche al sindacalismo confederale, che non sembra comprendere le dinamiche che si stanno sviluppando e che non vede la necessità di unificare le varie vertenze che sono in corso.
Serve anche, un di più di ‘insorgenza’, come ci ricordano i lavoratori di GKN, che hanno ben chiaro che la loro non è una solo una lotta per la difesa dei posti di lavoro, ma una battaglia di valore nazionale – e per questo chiamano ad una giornata di mobilitazione il 18 settembre a Firenze, cui sarà bene partecipare in molti – , per la democrazia – e non a caso stanno scrivendo, con il supporto di numerosi giuristi, una legge per contrastare le delocalizzazioni -, per un altro modello sociale e produttivo.

In copertina: Campi Bisenzio (FI), 28 agosto, 2021: il palco della manifestazione davanti alla fabbrica GKN occupata (foto di Marina Carli)

ANTROPOLOGIA DEL VAXLEBANO

 

Voi siete di quelli per i quali il mondo, benché a colori, viene meglio fotografato in bianco e nero?
Di quelli che, pur consapevoli della sfuggevolezza della verità assoluta, si sentono di norma in grado di attingere con discreta sicurezza quella relativa?
Se sì, sentiamo diversamente. Più passa il tempo e più mi sembra di comprendere intimamente il senso del socratico sapere di non sapere: non la semplice ammissione del fatto che il volo della conoscenza è costellato di sistematiche turbolenze; piuttosto, l’affermazione radicale di un corto circuito tra conoscenza e consapevolezza, il cui rapporto autentico è sorretto da un ‘non’, cioè sospeso positivamente su una cavità essenzialmente incolmabile.
Immaginate, dunque, come possa sentirmi nel frastuono incontrollato del dibattito attuale su covid, vaccini, società.

Come tutti, mi auguro senz’altro che la situazione possa ben presto migliorare dal punto di vista sanitario, nonché da quello psicologico. Come tutti, spero che le vaccinazioni possano effettivamente avvicinare questo traguardo, e che altri strumenti possano concorrere nella stessa direzione.
Mi sento dunque molto lontano dai cosiddetti no-vax, ovvero da quelle persone che rifiutano le vaccinazioni per convinzioni a priori sottratte a ogni ragionevole dubbio.
Me ne sento lontano sulla questione specifica – le vaccinazioni – e almeno altrettanto sull’insensibilità di fondo verso il più longevo e forse nobile strumento del pensiero occidentale: quel dubbio radicale anch’esso edificato su una cavità, come il logos socratico.
Per fortuna, i veri no-vax sono piuttosto pochi, e il loro conflitto fideistico contro il dubbio sfocia nel clamore stridulo del settarismo.
A qualcuno però, nella situazione della pandemia, questa esiguità pare dar fastidio. Qualcuno sente l’esigenza di moltiplicare il numero dei no-vax, vedendone ovunque. Il meccanismo è semplice: chiunque nutra in qualsivoglia modo un dubbio a proposito delle vaccinazioni anti-covid è, ipso facto, no-vax.

Si tratta di una manipolazione alla quale si è dedicato lo stesso Ministero dell’Istruzione quando, in una pagina del sito istituzionale (si spera ora rivista) ha definito appunto ‘no-vax’ gli oltre centomila lavoratori della scuola ai quali non risultava ancora somministrato il siero anti-covid.
Indubbiamente, tra questi centomila vi saranno anche dei veri no-vax, ma la grande maggioranza è certamente composta da persone che, in circostanze diverse, si sono sottoposte a pratiche vaccinali e hanno ad esse sottoposto i propri figli, ma che dubitano, magari a torto, del reale beneficio degli specifici prodotti in questione.
In conseguenza della manipolazione, l’espressione di un dubbio determinato, e dunque a certe condizioni oltrepassabile, viene stigmatizzata e ingigantita nella professione di una fede superstiziosa e oscurantista.
Ciò che ci si rifiuta di esporre al dubbio è il dogma biopolitico della provvidenzialità dei vaccini anti-covid. Qualsiasi esitazione o riflessione in proposito sconfina di per sé nella blasfemia, nel quadro di una reazione allergica verso il dubbio equiparabile a quella che offusca l’autentico no-vax.

A questi sembra dunque opporsi, nel nostro tempo asfissiante, il devoto vaccinale, l‘integralista del siero: il vaxlebano.
Il vaxlebano contrappone instancabilmente a ogni proposizione di dubbio la mozione autoritaria: come fai a dirlo tu, che non sei virologo? Dimentica di non esser virologo neanche lui, ma soprattutto che la Costituzione italiana non assicura solo ai medici la facoltà di decidere dei trattamenti sanitari che riguardano la propria persona, perché la democrazia è diversa dalla tecnocrazia – e in particolare dalla iatrocrazia – in quanto, laddove la legge non disponga diversamente, i cittadini sono liberi di abitare il proprio corpo e di prendersene cura in base a convinzioni e sentimenti soggettivi.
Il vaxlebano si fa un selfie con dei cucchiaini da caffè rovesciati sugli occhi e un ghigno alieno. Poi, naturalmente, posta il tutto, irridendo nel commento il dubbio eretico (coltivato anche dall’EMA) sugli effetti indesiderati a medio e lungo termine e, nel contempo, le non poche persone che di reazioni avverse gravi, persino mortali, hanno sofferto anche nell’immediato.
Il vaxlebano lancia anatemi sui non vaccinati perché per colpa loro non si raggiungerà mai l‘immunità di gregge. Quando si fa chiaro che l’immunità di gregge è un sogno, lancia anatemi ancor più densi, perché i non vaccinati sono il cardine della diffusione del contagio. Quando si fa chiaro che il passaggio del virus non è così frenato dall’avvenuta vaccinazione, escogita anatemi supremi ed esige che il non vaccinato non usurpi il posto in terapia intensiva di chi se lo è guadagnato onestamente fumando due pacchetti al giorno, sfondandosi di superalcolici o cibandosi forsennatamente di grassi saturi. E, se proprio lo deve occupare, almeno se lo pagasse di tasca sua! (Quest’ultima, purtroppo, non è di un vaxlebano anonimo, bensì dell’Assessore alla Sanità della Regione Lazio).

A proposito di quattrini, il vaxlebano arriva a chiedere persino forme di persecuzione tributaria. Ho visto con i miei occhi sui social post in cui si proponeva di avviare accertamenti fiscali a tappeto sui non ancora vaccinati, quindi no-vax, .
Il vaxlebano plaude al fatto che un quattordicenne sia messo, a scuola, nella posizione di chi impedisce al resto della classe di eliminare la mascherina, determinandone una condizione di etichettamento che, se discendesse da ragioni razziali o di orientamento sessuale, farebbe giustamente inorridire il vaxlebano stesso.
Il fatto, poi, che se il quattordicenne in questione vivesse nel Regno Unito, il paese che più tempestivamente e forse più intensamente di tutti ha pigiato sull’acceleratore delle vaccinazioni, non verrebbe oggi ‘immunizzato’ [vedi l’articolo su La Stampa] non riconcilia minimamente il vaxlebano con il dubbio.

Perché, dunque, il vaxlebano non dovrebbe anche plaudere al fatto che il suo vicino di casa o sua cugina vengano privati del lavoro, del reddito e, quindi, della dignità, per non essersi sottoposti a un trattamento sanitario al momento facoltativo secondo la legge?
Dunque, si plaude. Così, se il no-vax vero genera il clamore stridulo del settarismo, il vaxlebano produce il fragore sinistro del conformismo nichilistico, il quale di solito accompagna il passo della massa.
Speriamo non sia così, speriamo che anche i vaxlebani siano meno di quel che appaiono nel caleidoscopio mediatico, perché se no la domanda sarebbe: ne usciremo in questo modo?
Perdonatemi il vizio: ne dubito.

Parole a capo
Roberto Paltrinieri: “L’amore delle donne innamorate” e altre poesie

“Coloro i quali affermano che la parola, il suo profilo, il suo aspetto fonico condizionano lo sbocciare della poesia hanno diritto di vivere. Costoro hanno scoperto la strada che conduce all’eterna fioritura della poesia.“
(Vladimir Vladimirovic Majakovskij)

L’AMORE DELLE DONNE INNAMORATE

Le donne innamorate
ti guardano
appena sveglie
al primo mattino
con occhi che ridono di sogni
La risacca del mare
è la loro voce
riempie le orecchie
Come il frangersi
di spumose onde
su alte scogliere
sommerge l’anima
il loro amore
Sanno del profumo
di asfalto bagnato
dalla pioggia d’estate,
di erba falciata,
del corpo
appena fatto l’amore
Trattengono nei pugni chiusi
sempre la stessa innocenza
della prima volta
Le senti ridere
di giorno
fino nella pelle
ma non senti mai
il sale delle lacrime
asciugate in tutta fretta
di notte
Il loro amore
vince anche il Tempo…
quando amano
e quando lasciano
è per sempre.

GRAZIE PER L’ AMORE

Grazie per l’amore
che scende
a sigillare tutte le fessure
Grazie per le mani aperte
strette
sull’ultimo saluto
per i piedi che scappano
noia e banalità
Per le parole sempre nuove
per quelle della notte
non trattenute
Grazie per le passeggiate
nel bosco dei silenzi
Per gli accostamenti
di sospiri
Per la casa senza specchi
senza porte
Grazie perché invecchi
Perché ti fermi
per farti trovare sempre
sui battiti del cuore

GIULIETTA E ROMEO
(out of order)

Ho perduto la mia Giulietta
è rimasto solo
il tuo Romeo
I dottori hanno tentato
ma nulla han potuto contro
il pugnale del tuo male
Te lo avevo promesso
con mille baci
tenendoti per mano
in ospedale
non ti lascio sola
ti raggiungo subito
dovunque andrai
Ma poi dopo di te
mi son perduto
anch’io
e non mi rimane che
aspettare tutto il giorno
fuori nella via
il tuo impossibile ritorno
Nella notte
il cuore
rimbalza sempre più forte
sul pavimento
e sbatte sul soffitto
al pensiero di te
adesso cosi lontana
Perdonami Giulietta
non sono stato un buon Romeo
non ho avuto il tuo coraggio
non sono riuscito a bere
il mio veleno
E diventar vecchio
senza di te
mi è insopportabile
Adesso i baci
li posso mettere solo
nelle parole
per far baciate
almeno queste rime
mentre provo
a ritrovare coraggio
con questa poesia
per te

PUOI ENTRARE QUANDO VUOI

Sarò fuori
ma è sempre aperto
La porta è solo accostata
puoi entrare quando vuoi
Ho messo da parte
i tuoi colori preferiti
quelli sfumati
quelli del cielo
Sono accanto
alle essenze
dei profumi fioriti
dal bosco ricavati
Di silenzio poi
ne trovi quanto ne vuoi
Appena arrivo
travolgimi
abbracciami
raccoglimi
Vorrei farti subito
ridere di gusto
prima che il tuo sguardo
si faccia triste
come sempre
al calar della sera
Lo so
si è fatto tardi
Non dimenticarti
i tuoi colori preferiti
e i tuoi profumi fioriti
ma non chiudere
accosta solo
prima di partire…
è il mio cuore
non c’è nulla
da rubare

IL PIU’ BEL COMPLEANNO

Nel giorno del tuo
più bel compleanno
ti auguro
la Notte di Natale
Ti auguro un amico
che porti  gentilezza
Ti auguro l’aurora
Ti auguro i vespri cantati
e subito dopo il silenzio
Ti auguro di perderti
e poi perduto di ritrovare
le follie fatte per amore
Ti auguro
una lunga camminata
Ti auguro una mano stretta
ma stretta forte
Ti auguro che ti manchi
sempre qualcosa
e pochi soldi per comprarlo
Ti auguro davanti a te un padre
e a fianco una madre
di avere dei figli
per sapere che esiste qualcosa di più del sole
Ti auguro di non rubare nulla
Ti auguro di non venderti mai
e di perdonare sempre
di non conoscere la violenza
di essere di aiuto almeno
per un po’
Ti auguro di essere buono
o di diventarlo presto
Ti auguro di girarlo questo mondo
ma anche di stare bene a casa tua
Ti auguro di accontentarti
Ti auguro di accompagnare i sentimenti
con le parole
e ti auguro di usarle con Dio
di sentirlo vicino
e quando non lo sentirai più
di essergli vicino tu

Roberto Paltrinieri (1958), docente di scuola superiore a Ferrara, collabora a Ferraraitalia scrivendo articoli, racconti e poesie.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

“Il punto di dio”?
Spirito e ragione, da che parte pende la bilancia

 

Pare che abbiamo “il punto di dio”: non dimostrerebbe l’esistenza di un dio, ma spiegherebbe perché abbiamo la tendenza a porci le cosiddette “domande ultime”.

Secondo le ricerche condotte alla fine degli anni Novanta da un team dell’Università della California esisterebbe nel nostro cervello un “punto di dio”, una sorta di centro spirituale, incorporato tra le connessioni neurali nei lobi temporali del cervello. Il punto si attiva alla menzione di dio, ma le reazioni variano tra Occidente e Oriente, tra Cristiani, Buddisti e Musulmani a seconda dei simboli significativi per ciascuno.

Al punto di dio si aggrappano i sostenitori del SQ, il quoziente di intelligenza spirituale. Il secolo scorso si era aperto con la scala Binet-Simon [Qui] per misurare il QI, il quoziente di intelligenza. Da allora è stato tutto un misurare le intelligenze fino al blasonato Mensa [Qui].

Con la metà degli anni ’90, però, i neuroscienziati hanno complicato le cose, scoprendo che l’EQ, il quoziente di intelligenza emotiva, è altrettanto importante del QI. Anzi, secondo Daniel Goleman [Qui], autore di “L’intelligenza emotiva”, l’EQ è un requisito fondamentale per un uso efficace del QI. Insomma, non ci sarebbe ragione senza cuore, come scrive l’autore del Piccolo principe: “Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.”

Già Howard Gardner [Qui] ci aveva spiegato che le intelligenze sono multiple, almeno sette, ma pare che non sia del tutto così. Ora un libro, che ha inaugurato il secolo nuovo, SQ.Spiritual Intelligence.The Ultimate Intelligence di Danah Zohar [Qui] e Ian Marshall ci spiega che c’è uno stato più alto di intelligenza che comprende sia il QI che l’EQ, si tratta dell’SQ: l’intelligenza spirituale.

L’intelligenza con cui collochiamo le nostre azioni e le nostre vite in un contesto più ampio, ricco, dotato di significato, l’intelligenza con cui attribuiamo valore al nostro agire. SQ è la base necessaria per il funzionamento efficace sia del QI che dell’EQ. È la nostra ultima intelligenza.

Il Dizionario Webster, quello di Noah Webster [Qui], considerato il padre dell’educazione e della scuola americana, definisce lo spirito come “il principio animatore o vitale; ciò che dà vita all’organismo fisico in contrasto con i suoi elementi materiali; il soffio della vita “. Gli esseri umani sono essenzialmente creature spirituali, perché sono spinti alla ricerca dei significati fondamentali della loro vita.

Alcuni antropologi e neurobiologi sostengono che è stata questa ansia di significato a premere sull’evoluzione, a spingere gli esseri umani a lasciare gli alberi circa due milioni di anni fa. Il bisogno di significato, dicono, ha dato origine all’immaginazione simbolica, all’evoluzione del linguaggio e alla straordinaria crescita del cervello umano.

L’intelligenza spirituale non ha nulla a che fare con la religione, ci sono atei con un SQ molto alto e religiosi con un SQ molto basso. Si può testare il proprio SQ. Un’intelligenza spirituale altamente sviluppata include la capacità di essere flessibili, attivamente e spontaneamente adattivi. Un alto grado di consapevolezza di sé. La capacità di affrontare e utilizzare la sofferenza, di affrontare e trascendere il dolore, essere ispiratiti da visioni e valori, insomma una sorta di ‘Giovanna d’Arco’.

C’è la riluttanza a causare danni inutili, che evidentemente non è una qualità spirituale particolarmente diffusa nella nostra epoca. Avere una visione olistica delle cose, essere in grado di creare connessioni. Possedere una marcata tendenza a porre domande ‘Perché?’ o ‘E se?’, a cercare risposte agli interrogativi fondamentali, lavorare contro le convenzioni.

Pare che una persona con un alto SQ sia anche un servant leader, custode di visioni e valori superiori, capace di mostrare agli altri come usarli, in altre parole una persona che ispira gli altri. Magari Gandhi, Martin Luther King, ma poi basta, il SQ deve essersi esaurito.

Uno si chiede come curare i suoi tre Quozienti. Passi per QI che puoi allenare con i giochini di logica e la Settimana Enigmistica, ma per gli altri due, quello Emotivo e Spirituale le cose si complicano.

La società moderna in cui viviamo risulterebbe avere un SQ piuttosto basso, la nostra cultura sarebbe spiritualmente stupida. Secondo i sostenitori del SQ ad essere spiritualmente stupido è soprattutto il mondo occidentale.

A detta del drammaturgo americano John Guare [Qui] manchiamo di immaginazione, scrive nel suo Six Degrees of Separation: “Una delle grandi tragedie dei nostri tempi è la morte dell’immaginazione. Perché cos’altro è la paralisi? Credo che l’immaginazione sia il passaporto che creiamo per portarci nel mondo reale. È un altro modo di esprimere ciò che è più singolare in noi. Per affrontare noi stessi…. l’immaginazione è il luogo in cui stiamo tutti cercando di arrivare …”

Detta così l’intelligenza spirituale non sembra tutta questa novità. L’élan vital di Bergson [Qui] è qualcosa di simile, ritorna in auge con il New Age, il prana, il Ki, delle filosofie orientali, energie fondamentali dell’universo, energie residuali della creazione, che si trovano in ogni essere umano.

Tra i tre Quozienti quartum non datur. QI, EQ e SQ, non contemplano necessariamente il QR che non è quello del code. Il QR è il Quoziente Razionale, che è quello che pare mancarci più di tutti, la propensione al pensiero riflessivo, ovvero la capacità di fare un passo indietro rispetto al nostro modo di pensare usuale, per correggere le tendenze difettose.

Intelligenza e razionalità sono attributi cognitivi separati, con il vantaggio che la razionalità, se esercitata, si migliora e ci migliora, aiutandoci a non cadere nelle fallacie cognitive.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

PER CERTI VERSI
8 Settembre

8 SETTEMBRE
Otto settembre
Tutte le volte
Con intonsa
Puntualità
Il rigurgito
Acido
Gastroesofageo
Si certo
L’apogeo
Della meschinità

Cover. Korfu, soldati italiani dopo l’8 settembre 1943 (Foto Cuno, licenza Wikimedia Commons)

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

… a Mantova … al Festivaletteratura!
Un’emozionante lezione en plen air

 

Apre oggi la 25° edizione del Festivaletteratura di Mantova [qui il programma completo]. Di festival è ormai piena l’Italia, ogni borgo e città si inventa una materia, un argomento, e chiama a raccolta scrittori, critici e professori di chiara fama. Il Festivaletteratura è qualcosa di più e di diverso. E non solo perché è il capostipite, il primo di tutti i festival sorti sulla scia del suo successo, o per l’inarrivabile ricchezza degli appuntamenti in programma, ma per quello che ci sta dietro. Non uno scaltro manager culturale, o un assessore in cerca di gloria riflessa, ma un gruppo di lavoro appassionato e competente. Da qui nasce un’offerta culturale – sociale e culturale – che riesce a parlare tante lingue per tanti pubblici diversi: lettori resistenti, appassionati di libri, bibliotecari, studenti, insegnanti, adolescenti, fino ai piccoli e piccolissimi.
Si va a Mantova per assistere a quel particolare incontro, evento, reading, per ascoltare dal vivo l’autore preferito, per partecipare a un’intrigante iniziativa collaterale. Ma si va, e si ritorna ogni anno, anche per respirare un’aria tutta particolare, un garbato profumo di cultura che sembrava scomparso, fagocitato dal divismo o dallo sciocchezzaio dei media.
Roberta Barbieri, assieme ad altri due redattori inviati di
Ferraraitalia, seguiranno il festival nei prossimi giorni. Ma Roberta è una veterana, per oltre 10 anni ha partecipato attivamente al Festivaletteratura, andando regolarmente a Mantova assieme ai suoi studenti del liceo. Ecco il suo racconto.
( Francesco Monini)

– Arrivati! Forza ragazzi, bisogna scendere.  L’ho detto per molti anni di seguito all’arrivo a Mantova, o l’ho sentito dire alla mia collega, ogni volta che siamo sbarcati dal treno alla stazione ferroviaria. Sempre di mercoledì, nella tarda mattinata del primo giorno del Festival.
– E’ lontana la palestra, profe?
– No, ci carica i bagagli un pulmino dell’accoglienza volontari che è già fuori dalla stazione. Noi lo seguiremo con le bici fino al Piazzale Gramsci, la palestra è lì vicino. Ci staremo poco, il tempo di sistemare le nostre borse; poi dobbiamo passare in Piazza Leon Battista Alberti a ritirare la lista dei nostri servizi per i cinque giorni e di corsa in mensa, che non è vicina. Qualcuno di noi potrebbe avere già il primo servizio oggi nel primo pomeriggio. Coraggio.
– Chi ci dirà cosa dobbiamo fare, profe?
– Il vostro capo squadra vi darà gli incarichi. In genere si accoglie il pubblico stando all’entrata, si  gestisce la cassa, oppure si rassetta la platea ogni volta e la si prepara per l’incontro seguente. Cose così. Chiamate pure se avete bisogno, ma vedrete che vi inserirete bene nella squadra a cui sarete assegnati.

Volontari Festivaletteratura
Mantova, settembre 2019: Foto ricordo di un gruppo di ragazzi volontari del Festivaletteratura

Il gruppo si muove, in media sono quindici tra ragazze e ragazzi del nostro Liceo, che anche quest’anno abbiamo scelto con fatica tra i tanti che si sono candidati, più noi due docenti che li accompagnamo. Lo dico meglio: ogni anno, almeno dal 2003, siamo diciassette appassionati di lettura, che vengono qui a fare i volontari, con la voglia di essere dentro agli ingranaggi del Festival:  incontrare autori già conosciuti tramite le letture, oppure autori nuovi e chiedere loro un contatto telefonico o una mail per invitarli a venire a scuola durante l’anno scolastico, fare la conoscenza di altri relatori e delle loro idee sul mondo e di altri giovani volontari, perché no.
C’era da dormire (poche ore) sui letti di cartone pressato nella palestra che ci veniva assegnata ogni anno; tutti insieme a esibire i nostri pigiamini leggeri per le prime notti fresche di settembre; a darci il cambio per le docce con spugne e biancheria di ricambio tra le mani. Non ricordo che ci fosse tutto questo imbarazzo: si parlava fitto fitto di eventi già avvenuti e di come era andata.
Chi aveva avuto incontri carismatici, o era rimasto folgorato da un autore nuovo non la finiva più di dare dettagli. L’anno in cui ci venne dato un buono acquisto per i libri esposti in piazza Castello, sotto il tendone della libreria del Festival, fu tutto un citare titoli o mostrare gli acquisti già fatti, anche se era la mezzanotte passata e alcuni crollavano per la stanchezza accumulata in dieci ore di servizio, più le lunghe corse in bici per spostarsi in città.

Non ricordo alcuna lamentela. L’unica, ma è successo di rado, quando la postazione assegnata a qualcuno di noi era un po’ defilata e non dava l’opportunità di fare grandi incontri. Una volta mi sono lamentata io perché mi era toccato il servizio all’evento delle 5.30 al Campo Canoa e la sveglia andava puntata alle 4.30. La sera, però, ho dovuto ritrattare il mio disappunto. Avevo visto sorgere il sole dietro le torri della città, una meraviglia, attraversando a piedi il ponte sul Mincio insieme al gruppo dei visitatori. Molti, in realtà, venuti in quella mattina di settembre del 2008 ad assistere a Sottosopra Mantova e a seguire la guida mirabile di Stefano Scansani.

Voglio ricordare così tutti i ragazzi che sono venuti a Mantova insieme a me, come dei lettori appassionati e adulti e voglio sperare che abbiano percepito noi docenti come delle giovani e appassionate lettrici.
Avevano sedici anni o poco più. Scavalcate le ansie delle famiglie, che prima di partire chiedevano dove dormirete, dove mangerete, starete insieme o sarete sparsi per la città; superate le enormi difficoltà del viaggio per ferrovia, neanche Mantova fosse di là da un oceano; trovate in loco o portate in qualche modo le bici da Ferrara, i cinque giorni del Festival, dal mercoledì alla domenica della prima o seconda settimana di settembre, erano un intenso tempo magico, uno spazio magnetico, in cui ad avere importanza erano prima di tutto gli eventi.

Qualcuno posso ricordarlo.
Per esempio quella volta al Blurandevù, di sera tardi. Tutti di corsa verso la Piazza Virgiliana sulle bici stanche come noi alla fine dei rispettivi servizi in diverse postazioni nella città.
C’è David Grossman [Qui] e due delle nostre ragazze sono nel gruppo che ha preparato l’intervista. Arriviamo e ci sediamo a terra, ai margini della siepe che il pubblico ha formato con le schiene accalcate. E comincia un dialogo intenso tra lui e i giovani che gli fanno domande, un dialogo che ascoltiamo nel silenzio totale che si è fatto.
Grossman estrae uno alla volta dei bigliettini da un’urna di vetro che i suoi intervistatori hanno preparato: ogni foglietto contiene una parola chiave, che diventa una domanda. Quando l’ospite risponde alla parola pace siamo tutti rapiti dalla profondità delle sue parole, dalla semplicità con cui si apre a noi.

Era forse l’edizione del 2006: ricordo a flash che parlando della situazione in cui si trovava l’area arabo palestinese si disse molto preoccupato per i suoi figli; che lo scrivere romanzi gli permetteva di allontanarsi dalla sua città, Gerusalemme, e dalla bruttezza del mondo circostante e di cercare nella dimensione dell’immaginario la propria identità. Ricordo la sua intensità nel dare le altre risposte su parole come amicizia, diritti e altre così. Alla fine fu un applauso liberatorio per tutti, lungo e bello. Che bravi i ragazzi a fare così l’intervista, continuavamo a dirci nel fresco della notte tornando più tardi del solito, tutti in fila indiana verso la palestra.

Per esempio quella volta che ritrovai nel ruolo di capi squadra, nonché responsabili della postazione al teatro Ariston, due ragazzi che erano venuti inizialmente col nostro gruppo dell’Ariosto, poi avevano ‘fatto carriera’ e ora da universitari continuavano ogni anno a esserci. Che bei ricordi abbiamo rispolverato insieme, ricordando gli aneddoti della loro prima volta al Festival.
Poi non posso non ricordare in parata le esperienze del mio servizio presso il Cortile della Cavallerizza, quando era ancora agibile, e in seguito a Palazzo San Sebastiano. Lì ho conosciuto e ascoltato tanti intellettuali, scrittrici e scrittori, economisti, giornalisti, attori e interpreti bravissimi, che hanno non solo fatto la traduzione simultanea in italiano, ma hanno animato il dialogo tra ospite e pubblico.
E un compositore, che mi avevano tanto invidiato i ragazzi; avevo l’incarico di raccontare come si era svolto l’evento per filo e per segno, al rientro in palestra. Era Giovanni Allevi [Qui], di cui poi ho ascoltato quasi tutto.

Festivaletteratura volontari
Mantova, settembre 2019: Foto ricordo di un gruppo di ragazzi volontari del Festivaletteratura

Non posso tacere dei pranzetti alla mensa, e perché no delle cene. Quando si arrivava alla spicciolata e ci si cercava con lo sguardo se i posti liberi erano sparsi tra i tavoloni che occupavano il cortile della scuola alberghiera. Quando si mise al tavolo accanto al nostro Stefano Rodotà [Qui], che aveva appena finito di parlare in Piazza Castello. Fu un momento: ci vide preparare le mani per applaudirlo e con un cenno ci fece no, continuate a mangiare. Vengo a pranzo dove pranzate voi. E i ragazzi per primi lo lasciarono essere uno di noi, che mangiava alla mensa del Festival.
Devo chiudere con due ricordi personali, ai quali tengo particolarmente. Del primo non so dire la data: finisco il mio ultimo servizio la domenica mattina e mi precipito a sentire Gianni Clerici [Qui], che parla della sua carriera di commentatore sportivo e di scrittore. Trovo anche posto a sedere ed è da lì che verso la fine, quando la parola passa al pubblico, mi vedo alzare la mano e mi sento dire che leggo da talmente tanti anni i suoi articoli sul tennis nella pagina sportiva di Repubblica da avere assorbito alcuni suoi modi di dire. Il che fa di lui nella mia carriera di lettrice un compagno di viaggio, e di questo vorrei ringraziarlo. Si alza e si mette la mano sul cuore guardando nella mia direzione. La gente applaude. Mi alzo e sul cuore metto la mia. Quando viene portato il microfono a Beppe Severgnini, che si è prenotato dopo di me, non sento quello che dice e non sentirò nient’altro fino alla fine dell’incontro.

Dell’ultimo ricordo dico invece luogo, data e ora esatta: Teatro Bibiena, ore 11.30 di sabato 6 settembre 2008. Una delle sue allieve, Elia Malagò [Qui], dialoga con Ezio Raimondi [Qui] “della sua avventura di insegnante e dell’ininterrotta pratica della lettura”, così recita il programma. Che dice anche: “Ezio Raimondi è uno dei pochi intellettuali italiani di respiro davvero europeo”.

Sono cose che so dal primo giorno in cui ho seguito la sua lezione delle 9.00 alla Facoltà di Lettere di Bologna, all’aula 2 del primo piano. Erano gli ultimi anni Settanta e io per due anni accademici mi sono seduta in prima fila: arrivavo con grande anticipo, dopo avere preso un treno all’alba e riguardavo gli appunti della lezione precedente mentre aspettavo.

Mentre ci parlava e ci affascinava (e ci dava saggi su saggi da leggere, tanto da venire soprannominato il libridinoso) le lunghe mani del professore si muovevano davanti a me. Gliele ho anche strette: il giorno della laurea quando ha proclamato il mio voto e una volta per strada a Ferrara, molti anni dopo. Era venuto per una Lectura Dantis alla Biblioteca Ariostea, nell’incontro casuale che ne era seguito lungo la Via Mazzini mi aveva riconosciuta e salutata. E ora ero qui, seduta ad applaudirlo nel teatro gremito di suoi ex allievi, in una atmosfera così struggente da essere elettrica. Durante l’applauso finale che non finiva mi sono scese due belle lacrime e le ho lasciate scorrere.

Di mercoledì, quest’anno il giorno 8 settembre, comincia l’edizione n.25 del Festivaletteratura e io, anche se da un anno non insegno più e non posso portarci i ragazzi, non posso nemmeno mancare.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

#INSORGIAMO
Si allarga la lotta degli operai licenziati GKN:
il 18 settembre a Firenze la Manifestazione Nazionale

 

Sono passate diverse settimane da quando, in prima pagina o in modo meno evidente, tutti i giornali hanno riportato il caso degli operai di GKN Driveline, cioè la vergognosa comunicazione della chiusura dello stabilimento di Campi Bisenzio (FI) ai 422 lavoratori attraverso il messaggio email del 9 luglio scorso. [Vedi qui] la cronaca sul giornale La Nazione di Firenze.
Non sempre però è stata riportata la grande reazione dei lavoratori, non solo degli operai metalmeccanici, ma di tutti i lavoratori coinvolti: le operatrici delle pulizie, gli addetti alla mensa, gli attrezzisti, gli elettricisti, eccetera:  80 persone tutte coinvolte nella chiusura dello stabilimento e oggi impegnate nell’occupazione della fabbrica. Fabbrica che non ha mai smesso di essere “a regime e perfettamente funzionante, pronta per riprendere la produzione in qualsiasi momento”, come riferiscono gli stessi lavoratori occupanti.
Da quel 10 luglio scorso in cui tutti i lavoratori dello stabilimento di Campi Bisenzio hanno deciso di occupare immediatamente la fabbrica senza più abbandonarla, come prima e spontanea reazione alla lettura della mail del padrone, le ragioni e gli obiettivi della lotta sono stati subito chiari: il ritiro dei licenziamenti e necessità d’imporre un cambio di passo nelle scelte della politica aziendale. 

Campi Bisenzio (FI), 28 agosto, 2021: il palco della manifestazione davanti alla fabbrica GKN occupata

La maledetta mail è partita a seguito del provvedimento di sblocco dei licenziamenti approvato con il con Decreto Legge del 30/06/2021 [Qui], dettato dalla linea confindustriale di Bonomi e fatto proprio dal governo Draghi senza colpo ferire, come se fosse inevitabile e necessario, come se fosse terminata l’emergenza pandemica. grazie anche – occorre dirlo – il benestare dei sindacati confederali che in cambio hanno preteso una inutile (e naturalmente inascoltata) “raccomandazione” sull’attivazione di tutti gli ammortizzatori sociali esistenti.
Quando, puntualmente, è arrivata la raffica di licenziamenti, tutti (governo, sindacati confederali, perfino Confindustria) si sono detti sorpresi e indignati (Sic!) per i licenziamenti a sorpresa. Lacrime di coccodrillo? No, non credo che nessuno dei firmatari di quell’accordo scellerato abbia versato una lacrima.
Sui licenziamenti e gli effetti scellerati della globalizzazione liberistica vedi il bellarticolo di Nicola Cavallini, pubblicato qualche giorno fa su questo giornale [Qui]

Intanto la GNK ha fatto subito scuola. In una gara di velocità, impressionante ma prevedibilissima, diverse aziende dislocate nelle diverse aree industriali del Paese, naturalmente più a nord che a sud, senza distinzione di stile, cioè quasi sempre con comunicazioni rigorosamente ‘a distanza: la Henkel a Lomazzo, la Gianetti Ruote a Ceriano Laghetto, la Whirlpool a Napoli, la Shiloh a Verrès, in Valle d’Aosta, eccetera [vedi servizio su Internazionale].
Da subito le manifestazioni di solidarietà con gli occupanti la fabbrica GKN sono state numerose. I primi a farsi avanti sono stati i lavoratori che maggiormente hanno risentito del lockdown per la pandemia, come i lavoratori dello spettacolo, sempre presenti a tutte le iniziative, ma anche i disoccupati, i lavoratori atipici e precari, gli studenti, i cittadini impegnati, i pensionati e gli amministratori pubblici locali. Ognuno ha dato il suo contributo alla riuscita della lotta.
Ma per capire e condividere gli obiettivi concreti e le modalità che stanno caratterizzando tutte le iniziative del Collettivo di Fabbrica della GKN, abbastanza atipiche nel panorama delle lotte sindacali che normalmente vengono messe in atto in casi analoghi, bisogna andare a parlare con loro, con gli occupanti, partecipare ai momenti di lotta e di presidio dello stabilimento, raccoglierne le testimonianze e le preoccupazioni.

festa operaia
Campi Bisenzio (FI), 28 agosto 2021. Il gruppo fiati in azione: quando la lotta diventa una festa

Per questo sabato 28 agosto sono andata con la mia bicicletta alla stazione di Borgo San Lorenzo e con un biglietto treno+bici sono arrivata a Firenze S. Maria Novella. Poi ho proseguito pedalando verso Careggi e da lì tutto a diritto fino a superare il ponte sul torrente Marina  per entrare nel territorio di Campi Bisenzio, in prossimità del Centro Commerciale I Gigli, proprio a fianco dello stabilimento GKN.
Quando sono arrivata davanti alla fabbrica occupata, nel piazzale di via Fratelli Cervi, c’era già moltissima gente e dal palco eretto al centro grazie alla collaborazione volontaria dei lavoratori dello spettacolo. Dario Salvetti introduceva la serata di musica e di lotta animata da 4 gruppi musicali e dalle testimonianze dei lavoratori e delle lavoratrici, dei sindacalisti della RSU della fabbrica e delle realtà solidali, che sono l’altra anima della lotta [Vedi qui],
Poteva essere l’occasione ideale per porre alcune domande ai protagonisti della serata. Il primo con cui ho parlato è Claudio, operaio GKN, che riassume gli antefatti e mi spiega l’origine del motto “insorgiamo” che ha dato significato fin dall’inizio questa lotta. Ecco la storia: nell’agosto 1944, dopo 20 anni di regime, i partigiani si ribellarono all’occupazione fascista di Firenze e liberarono la città chiamando tutti i lavoratori, i cittadini e le cittadine, tutte le forze antifasciste a partecipare attivamente a quella che sarà in seguito ricordata come “la battaglia di Firenze”  a lottare contro il nazifascismo, proprio  al grido: INSORGIAMO!  Oggi, mi dice Claudio, dopo 20 anni di leggi e decreti con cui tutti i governi, indistintamente, non hanno fatto altro che favorire gli interessi e i profitti della grande imprenditoria a scapito dei diritti dei lavoratori che sono andati via via riducendosi progressivamente, abbiamo pensato a quell’antica storia, e come allora i partigiani difesero le fabbriche dalla distruzione nazista, oggi tocca a noi, agli operai, lottare per difendere le fabbriche dall’attacco padronale che le vuole chiudere per delocalizzare.

Claudio spiega come la mossa di Melrose industries PLC, la finanziaria inglese che 3 anni fa ha acquistato la GKN Driveline, sia del tutto speculativa: la produzione di componentistica per auto (il settore di produzione dello stabilimento fiorentino) non è un settore in crisi; ha subito alti e bassi, come tutto il comparto auto, ma a periodi di cassa integrazione hanno fatto seguito periodi di contrattazione per straordinari. GKN Driveline non versa in difficoltà economiche e non ha fatto alcuna segnalazione relativa alla Unità di Crisi del lavoro della Regione Toscana. Anzi, di recente ha acquistato, anche con l’aiuto pubblico, macchinari nuovi e nuovo software, pertanto le prospettive non erano certo quelle di chiudere lo stabilimento.
Quindi, se GKN ha goduto di fondi pubblici, la soluzione del contenzioso non può essere che lo Stato metta a disposizione altro denaro per sostenere i lavoratori che poi diventano disoccupati. L’avviso di chiusura dello stabilimento è arrivato del tutto inaspettato per tutti, la modalità di prendere e scappare in pochissimi giorni testimonia la volontà della proprietà di voler semplicemente delocalizzare la produzione in un altro Paese, magari dell’Est-europeo, dove i vantaggi fiscali, gli stipendi  bassi e le normative che regolano i rapporti di lavoro sono ancora, se possibile, più vantaggiosi per la proprietà, che vedrebbe accrescere i profitti contraendo semplicemente le spese.
Del resto una finanziaria è fatta per garantire profitti sempre più alti agli azionisti e non certo per condurre al meglio gli impianti industriali.  Alla proprietà non importa  se i risultati dello stabilimento di Campi Bisenzio sono stati raggiunti con un sostanzioso contributo pubblico, cioè di tutti, operai compresi, non importa che la chiusura dello fabbrica causerebbe una ferita grave a tutto il tessuto sociale della zona, oltre che al comparto automobilistico italiano.
Chi invece dovrebbe cambiare strada dovrebbe essere il governo e le sue scelte di politica economica. Ma perché questo succeda, cioè che si cambi direzione e si metta al primo posto la difesa dei posti di lavoro e le condizioni di tutti i lavoratori,  la lotta dovrà continuare e diventare sempre più diffusa. Non sarà un percorso facile, qui alla manifestazione ne sono tutti consapevoli. Ma. si sente nell’aria, si legge nella faccia della gente, da qui può davvero incominciare una nuova stagione di lotta.

manifestazione operaia
Campi Bisenzio (FI), 28 agosto 2021. Davanti al palco della manifestazione contro i licenziamenti alla GKN

Ad esempio,  c’è bisogno di una legge  che penalizzi la delocalizzazione, che preveda congrue sanzioni per le aziende che vengono sul territorio, incassano aiuti pubblici e poi scappano, che imponga un giusto preavviso da parte delle imprese quando intendono chiudere. Il Collettivo dei lavoratori GKN sta già lavorando con giuristi ed esperti costituzionalisti ad una proposta in questo senso, “per scrivere una legge con le proprie teste, e non subire una legge sulle proprie teste!”

“Per la prima volta –  racconta Claudio –  non siamo stati noi operai a doverci muovere per andare a Roma a trattare, ma abbiamo chiesto ed ottenuto che fosse il MISE (Ministero dello Sviluppo Economico) a venire qui per seguire la vertenza. Questo è solo un piccolo esempio per far capire cosa intendiamo per il ‘cambiamento di passo’ che pretendiamo dalla politica. Il MISE si è incontrato con l’azienda a Firenze in prefettura una prima volta il 14 luglio, quando abbiamo chiesto il ritiro dei licenziamenti, a cui è seguito un nulla di fatto, e una seconda volta il 5 agosto, quando a seguito di una trattativa lunga ed estenuante GKN ha chiesto alcune ore di riflessione. La riflessione è tuttora in corso. Nel frattempo abbiamo fatto iniziative importanti, come la manifestazione in piazza S.Croce, quella del 14 agosto in piazza della Signoria proseguita con il corteo di 3000 persone sui lungarni; tanti gli incontri e le assemblee per coagulare le realtà vicine e solidali con la nostra lotta. Vogliamo stimolare gli amministratori pubblici a prestare maggiore attenzione  a quello che sta succedendo nel mondo del lavoro in generale, non ci interessa solo il nostro caso ma vogliamo dare voce a tutti i problemi e alle diverse situazioni in giro per l’Italia: durante la pandemia sono stati persi almeno 1.000.000 di posti di lavoro, vogliamo evitare che le aziende prendano e chiudano dall’oggi al domani e lascino per strada i lavoratori. La nostra lotta non vuole rimanere chiusa dentro i cancelli della GKN ma la vogliamo portare dappertutto in Italia e far convergere su di essa tutte le realtà perché la lotta sarà vincente se coinvolgerà tutte e tutti le lavoratrici e i lavoratori.”.

Lasciato Claudio al suo compito di servizio d’ordine della manifestazione, incontro Giovanna, un’amica mugellana, pensionata ex lavoratrice dell’azienda urbana di raccolta rifiuti, anche lei sempre presente alle diverse lotte dei lavoratori e cittadini dell’area metropolitana di Firenze. Condivido con lei l’impressione positiva sull’affluenza di persone di tutte le età alla manifestazione. Ci sono anche le famiglie dei lavoratori e delle lavoratrici al completo dei bambini, che si addormentano appesi al collo dei babbi e delle mamme,  cascati nel sonno nonostante il rumore della folla e la musica ad alto volume, mentre altri, i più grandicelli, ballano e si scatenano seguendo il ritmo dei fiati o della batteria. E’ una serata eccezionale per loro, ma anche per noi che, armati di mascherina, ci aggiriamo tra i banchetti di libri e di gadget partecipando alla festa.
A serata inoltrata, quando, nonostante sia tardi, diverse persone stanno ancora arrivando (in fondo è l’ultimo sabato sera di agosto) mi avvio al parcheggio, per rientrare a casa.

Due giorni dopo la manifestazione, Il 31 agosto, l’incontro per l’avvio della fase amministrativa della procedura di licenziamento collettivo avviata da GKN Driveline, convocato dal Ministero del lavoro, e a cui hanno partecipano l’azienda, Fiom, Fim e Uilm, il MISE e la Regione Toscana, si conclude con un niente di fatto: sindacati e Regione continuano a chiedere il ritiro dei licenziamenti, l’azienda ribadisce la volontà di chiudere lo stabilimento e accusa i sindacati di fare muro. [cronaca del 1 settembre, La Nazione]  
Il tempo stringe, il 22 settembre scadono i 70 giorni previsti per il primo tavolo dove si sta trattando. Dopo, se non verrà decisa una proroga, partiranno le lettere ufficiali di licenziamento.
Gli operai di GKN danno appuntamento a tutti i lavoratori e le lavoratrici per unire le vertenze in atto e proseguire assieme la lotta, perché solo uniti si può cambiare il corso delle cose, il 18 settembre a Firenze per una grande Manifestazione Nazionale.
Cover: Striscione all’ingresso dalle fabbrica occupata GKN, Campi Bisenzio (FI)