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Ferrara film corto festival

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Cattive TERF e buone femministe

 

Nell’articolo di Elena Tebano sul Corriere della sera dal titolo “Chi sono le «Terf», le femministe «critiche del genere» che si oppongono al ddl Zan [Vedi qui] l’acronimo Terf (un termine che sono certa la maggior parte delle donne non conosce) è un’offesa pesante a tutte noi.
Sono una donna e sono una femminista tardiva (radicale lo scopro ora), e questo termine  ho cominciato a sentirlo solo da quando mi sono convinta che il testo del ddl Zan, così come è scritto, cancella le donne e il loro sesso.

Basta dirsi critiche verso quel testo per venire bollate come Terf, ​ e direi che l’articolo di Elena Tebano ne è la dimostrazione. Ma cosa vuole dire? Vuole dire, ce​ lo spiega la giornalista, che siamo “femministe radicali trans escludenti”.  Ma tutte sappiamo bene che Sesso e Genere non sono la stessa cosa. Sappiamo bene che essere incarnate in corpi femminili ha segnato e segna  la nostra esperienza nel mondo e nella storia. Avere le mestruazioni una volta al mese, banalmente, è molto reale e impatta sulla nostra vita anche economicamente. Ed è​ chiarissimo a tutte noi che è sul sesso delle donne che si è costruita l’oppressione millenaria sui corpi delle donne. ​
Ancora oggi 140 milioni di bambine subiscono la​ cliterectomia​ e questo a causa del loro ​sesso biologico.​

Ora, secondo la giornalista e chi usa il termine Terf, volersi dire  donne perché nasciamo con sesso femminile, vorrebbe dire che siamo contro i trans o contro i gay o le lesbiche.
Ma come si può pensare di fare un’associazione di questo tipo? ​ Vorrei informare tutti e tutte che l’acronimo Terf in Inghilterra ormai è considerato un termine dispregiativo bandito persino dalla policy twitter: questo un tweet di Bea Jaspert (@ hogotherforsaken del 5 agosto 2019  “ Twitter’s Uk govt head of Pubplicy Katy minshal agreed at Humanrightctte tha terf, like Bitch and cunt is gendered term and that tweet usin the term, like those cited below, violate twitter’ policies and should be removed.”​

Avrei da entrare poi nel merito di molte questioni affrontate da Elena Tebano, a  partire  dal suo ridurre la biologia e il sesso biologico a un fatto di poco conto,  salvo poi appoggiare quella pratica aberrante che è la maternità surrogata tutta fondata sulla biologia, che fa dei  proprietari dei gameti i veri genitori, a scapito della donna che lo fa crescere nel suo grembo e lo partorisce grazie al suo sesso.
Mi vengono in mente le parole della leader del movimento delle donne mapuchevoi intendete la natura come una forza produttiva (sottinteso – da cui estrarre ogni ricchezza) noi come qualcosa di identitario e spirituale..” più chiaro di così!

Curiosamente i promotori del testo Zan  sono gli stessi che dicono che la maternità surrogata è un atto di amore, che la maternità non è biologia ma cultura, che i nostri corpi sono macchine ai quali cambiare i pezzi per riconoscergli la possibilità di essere quello che “ci sentiamo di essere a prescindere dal dato biologico” includendo nello slogan tutta la bellezza e l’amore di una società che ti accoglie per quello che sei quando invece è una torsione falsissima che prevede un amore della società cosi grande e disinteressato (ironico) da aprirsi in modo sfacciato e senza alcun pensiero critico al mercato delle transizioni e dell’uso di bloccanti della pubertà in età prepuberale, al mercato dei corpi e dei pezzi di corpi, (banche di spermatozoi e ovuli, embrioni etc ) alla medicalizzazione esasperata della società, oggi unico mercato in fortissima crescita.

È bene dunque sapere che chi usa messaggi retorici di amore e inclusione in questo modo, fa riferimento a un’idea di amore e di inclusione basata su questi paradigmi. Oggi la narrazione transumanista, che sono certa la maggior parte  della gente non sa cosa sia, è strisciante e ovunque. Sono quelli  convinti che la chimica infallibile degli algoritmi e dei robot possono tranquillamente sostituire la biologia (limitata e limitante) dei nostri corpi, quelli che perseguono l’immortalità e i corpi perfetti fino a volerci convincere che un corpo di silicone è come l’essere umano. Quelli delle digitalizzazione estrema  che fanno si che un robot oggi risponda al telefono chiedendoti di parlare perché sta imparando a parlare la nostra lingua (provate a telefonare al numero Eni ti risponderà Lucilla!).
Per me invece biografia e biologia sono fortemente interconnesse,  e i nostri corpi sono così intelligenti perché sanno integrare continuamente le informazioni biologiche con quelle biografiche legate al pensiero, ai sentimenti, alle emozioni, all’ambiente che ci circonda e sono giunti ai giorni nostri proprio grazie a questa intrinseca intelligenza emotiva biologica razionale.

Viviamo tempi estremi ma è oggi che siamo chiamati a decidere quale è la visione profonda che anima la nostra idea di mondo e di vivente. Domani sarà troppo tardi.
Io la mia scelta l’ho fatta, sono contro la visione transumanista, perché questa è al servizio del mercato dei corpi e di una falsa idea di libertà e di amore, perché tradisce nel profondo il senso antropoligico di essere umano.
Vi invito ad approfondire e a dire la vostra. Va fatto ora, senza accettare come buoni, falsi e semplificatori slogan, per lo più urlati dalla sinistra, perché in gioco c’è la civiltà futura e il mondo in cui vivranno i nostri figli.

COSA SIGNIFICA UNA CULTURA PER TUTTI.
Il documento del Gruppo di cittadine e cittadini a difesa della Biblioteche

Il Gruppo di cittadine e cittadini a difesa della Biblioteche dopo aver raccolto oltre 1.000 firme su un appello che chiedeva il rilancio del sistema bibliotecario ferrarese, ha promosso una manifestazione in piazza Castello, affollata di adulti e bambini. dove sono state esposte con chiarezza le criticità e le inadempienze sul tema biblioteche della Giunta che oggi governa la città. Si chiede l’assunzione di nuovi bibliotecari , il rilancio e il potenziamento delle biblioteche decentrate e lo sviluppo complessivo del sistema pubblico della biblioteche. Questo movimento spontaneo appare sempre più nutrito e dimostra di avere idee precise su come e su cosa si dovrebbe fare. Vi invitiamo a leggere il documento, frutto di una elaborazione collettiva, che qui riportiamo integralmente. La speranza è che l’Amministrazione Comunale dia finalmente risposte adeguate a un bisogno diffuso di una cultura pensata, proposta, fatta e fruita da tutti i cittadini.
(Effe Emme)

Il sistema comunale delle biblioteche di pubblica lettura della nostra città ha una lunga tradizione in termini di qualità dei servizi resi alla cittadinanza e di professionalità dei bibliotecari in essi impegnati. Siamo giunti ad un punto importante nelle vicende che guardano il suo futuro. Nella commissione consiliare dell’ 11 maggio scorso, finalmente, l’Amministrazione Comunale, per bocca dell’assessore Gulinelli, ha esplicitato le proprie intenzioni in proposito.

L’Amministrazione non ha un progetto per le biblioteche comunali, solo un’idea di ridimensionamento e disinvestimento sul servizio

Da quanto abbiamo ascoltato in sede di Commissione consiliare, emerge che l’Amministrazione comunale non intende svolgere alcun ragionamento per il rilancio del sistema bibliotecario ferrarese. L’unica idea prospettata è quella dell’esternalizzazione delle biblioteche di S.Giorgio, Porotto e Rodari, peraltro dentro una logica di puro risparmio e deresponsabilizzazione del ruolo del pubblico. L’ipotesi avanzata è stata quella dell’esternalizzazione delle biblioteche di S.Giorgio, Porotto e Rodari, prevedendo peraltro un impegno di spesa per 100.000 € in un anno. Una cifra che, di per sé, dimostra che siamo dentro una logica di risparmio e disimpegno, visto che la spesa per il personale attualmente impiegato in quelle biblioteche ammonta a circa 150.000 € ( 5 unità per 30.000 € annuo di costo), mentre per far funzionare ad un livello minimo quelle biblioteche sarebbero necessarie almeno 6 persone. La spesa prospettata significa utilizzare personale sottopagato rispetto ai dipendenti comunali e, comunque, con questi numeri, non in grado di garantire servizi aggiuntivi rispetto agli attuali, come sbandierato dall’Amministrazione, per giustificare l’esternalizzazione del servizio di quelle biblioteche. In più, non è previsto alcun intervento di potenziamento dell’offerta dell’attuale sistema bibliotecario e di miglioramento del servizio di quelle che rimarrebbero a gestione comunale diretta. Insomma, siamo in presenza di un’impostazione per cui le biblioteche esternalizzate avrebbero l’unico “pregio” di costare di meno rispetto ad oggi e le altre continuerebbero a vivacchiare, come peraltro succede da lungo tempo in qua: nessun investimento per il futuro, solo un progressivo disimpegno e declino del sistema bibliotecario comunale.

Si può prendere un’altra direzione: progettazione partecipata e informata, forte investimento nella cultura del territorio e delle biblioteche, valorizzazione del loro ruolo pubblico

La nostra riflessione, invece, porta da tutt’altra parte. Dopo anni in cui non si è guardato al sistema bibliotecario come risorsa per la città, invece è possibile e necessario invertire la tendenza e tornare a investire nel sistema bibliotecario cittadino, con un’idea adeguata delle trasformazioni in atto e pensando al ruolo che esso può svolgere nella città degli anni a venire.
In primo luogo, riteniamo necessaria una progettazione partecipata e informata perché gli obiettivi culturali ed educativi delle biblioteche non si possono sviluppare in modo astratto, ma sono strettamente legati alle aspirazioni delle comunità che intendono servire. Parlando di bisogni e aspirazioni ci pare importante un confronto pubblico non solo sulle biblioteche come istituzioni che ospitano e mettono a disposizione collezioni di libri/media e risorse informative, ma anche su come le biblioteche possano contribuire attivamente alla ripresa economica e sociale post pandemia.
A questo proposito, ovvero del possibile ruolo delle biblioteche nel fornire servizi ai cittadini finalizzati all’inclusione sociale, all’apprendimento permanente, alla citizen science, alla ricerca e innovazione e alla promozione di una cittadinanza attiva per una società democratica e sostenibile, stanno prendendo vita diverse linee di azione all’interno delle nuove politiche europee. Da questi strumenti politici (ed economici) ci giunge una visione della biblioteca futura adeguata a nuove sfide: sia in termini di innovazione tecnologica, che di inclusione sociale, che di supporto (con la messa a disposizione del patrimonio documentale custodito, delle strutture e delle risorse umane) alla ripartenza delle attività economiche legate al territorio e al turismo.
Ancora prima di valutare soluzioni organizzative definitive (quindi a prescindere dal rispondere all’emergenza delle aperture di alcune strutture con una soluzione temporanea) occorre scrivere in modo partecipato, Amministrazione e Cittadinanza, una Agenda per le biblioteche pubbliche che tenga conto, appunto dei bisogni della comunità della quale sono al servizio. Riteniamo che la scrittura di una nuova Agenda necessiti di un approfondimento che consenta ai portatori di interesse, attuali e potenziali, di avere una visione delle Biblioteche pubbliche come strumento attivo per tutte le azioni e le sfide che ci aspettano come comunità. EBLIDA European Bureau of Library, Information and Documentation Associations e AIB Associazione Italiana Biblioteche stanno producendo interessantissimi documenti su come le Biblioteche possono partecipare alla realizzazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile contenuti nell’Agenda 2030. Pertanto chiediamo all’Amministrazione di mettere a punto anche un progetto informativo (che sia utile a cittadini, imprese, politici e tecnici) chiamando relatori da queste Associazioni che possano stimolare la collaborazione fattiva di tutte queste realtà alla redazione di un progetto di largo respiro per il rilancio del sistema bibliotecario, facendone un attore importante per le sfide che ci attendono in quanto comunità.
Per noi, poi, questo nuovo progetto deve basarsi su alcuni punti fermi di fondo, costituiti da:

La costruzione di un nuovo modello bibliotecario e dell’offerta culturale nella città.
Occorre pensare ad un’idea di promozione e di diffusione culturale, in cui le biblioteche siano sempre più luogo di incontro tra i cittadini, le Associazioni, i soggetti che sono attivi in questo campo e non semplicemente il punto in cui si effettuano i prestiti del patrimonio librario. In questi anni, già si sono fatti passi in questa direzione, ma essi vanno potenziati e, soprattutto, resi strutturali in un nuovo approccio del sistema culturale della città. Per noi il sistema bibliotecario significa un unico servizio offerto in varie sedi con caratteristiche specifiche per ogni sede legate alla collocazione territoriale. Il rapporto con le scuole è vitale per ogni struttura, almeno fino alle scuole dell’obbligo, come forma di educazione alla lettura ma anche alla cittadinanza: in questo senso ogni struttura bibliotecaria dovrebbe avere, in modo strutturale, personale in grado di gestire incontri con scolaresche, dal nido alla scuola secondaria di primo grado. In più, occorre mettere in campo flessibilità nell’adozione di pratiche richieste dal dialogo col territorio ( ad esempio, la possibilità di istituire laboratori o altre forme di proposte non necessariamente o non precipuamente legate al libro, pensando anche ad una “squadra” che gestisca le attività di tipo laboratoriale). In questo quadro, ovviamente, va prevista da subito la riapertura di tutte le biblioteche comunali con orari e modalità di fruizione analoghe a quelle esistenti prima della pandemia (misurandosi con la sua evoluzione) e, in prospettiva, anche con il loro ampliamento;

Il potenziamento della struttura bibliotecaria
Negli anni scorsi, si era progettato un nuovo investimento nelle Corti di Medoro, progetto abbandonato dall’attuale Amministrazione. La stessa poi si è pronunciata per la creazione di una nuova biblioteca pubblica nell’area Sud della città, peraltro in modo vago e con ipotesi non precise in proposito. E’ ora, invece, di dare gambe concrete a questo proposito, e, a questo fine, occorre un reale coinvolgimento dei soggetti e dei cittadini interessati a questa prospettiva, dando luogo ad un Tavolo partecipativo per la definizione e l’attuazione di questo progetto. In questo quadro, occorre anche sviluppare un’adeguata riflessione sulle sedi e sugli spazi per i magazzini per tutte le biblioteche. Alcune sedi risultano nettamente inadeguate, come per esempio la San Giorgio, o la Rodari che dovendo servire la zona sud della città ha bisogno di locali consoni ai servizi che dovrebbe offrire una struttura con quel bacino di utenza. Insomma, biblioteche accoglienti, con arredi adeguati e materiale librario nuovo e in buone condizioni: questo dovrebbe essere l’obiettivo che può essere raggiunto solo mettendo a disposizione depositi/magazzini capienti e sicuri dove collocare i volumi frutto dello svecchiamento delle raccolte. Dovrebbero inoltre essere messe in campo risorse adeguate per finanziare attività di promozione della lettura per tutte le biblioteche (presentazioni librarie, o altro che oggi avvengono su base volontaria) per ampliare e aumentare la qualità e l’appeal delle attività proposte;

L’assunzione di un numero congruo di bibliotecari comunali per dare continuità e realizzazione effettiva al rilancio del sistema bibliotecario pubblico.
Esso si è sempre configurato come rete che ha poggiato la sua forza sulla presenza di personale adeguato nel numero e nella professionalità potendo contare per lo più su un avvicendamento che ha consentito ai bibliotecari esperti di affiancare i nuovi ingressi provenienti da altri servizi comunali e ha garantito costantemente un assorbimento funzionale delle nuove professionalità arricchendo e valorizzando quelle esistenti. I periodici incontri di servizio e di autoaggiornamento hanno rafforzato la sinergia tra gli operatori delle diverse biblioteche e favorito lo scambio professionale, la circolazione delle informazioni e delle tecniche andando nella direzione della creazione di un gruppo di lavoro quanto più possibile omogeneo. Purtroppo negli ultimi anni il depauperamento delle unità lavorative con l’uscita dal lavoro proprio delle figure più esperte ha evidenziato tutte le fragilità di un corpus di addetti che, da una parte necessita di formazione e di confronto professionale continuo, dall’altra richiede come indispensabile e imprescindibile l’assunzione di personale qualificato in ambito bibliotecario sia attraverso concorsi ad hoc, sia utilizzando contratti di formazione lavoro. Oltre a questo sarebbe necessario ritornare agli incontri periodici tra i bibliotecari e gli addetti alle strutture bibliotecarie, magari da svolgere a rotazione tra le varie biblioteche: sarebbe questo un primo passo per mettere in circolo esperienze, dubbi, difficoltà in un dialogo costruttivo. Allo stesso modo, si tratta di pensare allo svolgimento di regolari conferenze di servizio per esporre/relazionare sulle esigenze territoriali delle singole sedi ed individuare linee di azione e risorse condivise (anche di personale). Il buon funzionamento delle biblioteche si basa molto sulla professionalità e sulla motivazione dei bibliotecari e delle bibliotecarie che, se non si sentono isolati, possono fornire il meglio di sé. Tutto ciò presuppone anche un’attività programmata e permanente di formazione del personale stesso.
Più in specifico, negli ultimi anni abbiamo assistito ad un numero significativo di pensionamenti di personale, senza che esso sia stato adeguatamente sostituito. Mancano almeno 6-7 bibliotecari in organico, la cui assunzione va prevista nel corso di quest’anno, oltre ai 2 che sono contemplati nel piano occupazionale elaborato dal Comune di Ferrara. E’ un’operazione assolutamente fattibile rispetto alle possibilità occupazionali del Comune ( vedi scheda tecnica in allegato), al di là di quanto proclamato in modo distorto dall’Amministrazione, e che, peraltro, si sta percorrendo in altri Comuni, anche nella nostra Regione ( vedi il Comune di Bologna, che ha indetto un bando di concorso nel novembre 2020 per 23 posti nei servizi culturali per arrivare, nell’arco di 2 anni a 44 assunzioni nel settore);

La costruzione di un rapporto positivo tra gestione pubblica e altri soggetti operanti nel settore
Su questo piano, nel momento stesso in cui riaffermiamo il valore centrale dell’intervento pubblico nel sistema culturale e in quello bibliotecario nella sua offerta e promozione, riteniamo possa esistere un ruolo anche per altri soggetti, in particolare per quanto riguarda l’intervento in campi specialisti ( ad esempio, progetti specifici anche rivolti alle scuole e al coinvolgimento del territorio, fondi e catalogazione particolari, aperture extra orario serali e/o domenicali) e in termini aggiuntivi rispetto all’attività “normale” delle strutture bibliotecarie. La stessa situazione della Rodari , che ha bisogno di interventi e di un rilancio urgente, potrebbe essere interessata da una riflessione in questo contesto.
Ciò comporta, peraltro, anche il fatto imprescindibile che le lavoratrici/lavoratori di altri comparti usufruiscano degli stessi diritti contrattuale e salariali dei dipendenti pubblici.
Al termine di questo processo di confronto largo e partecipato, che, quindi, dovrà vedere coinvolti tutti i soggetti culturali, sociali e politici della città, compreso, ovviamente, il nostro gruppo di cittadine e cittadini, andrà ovviamente investito l’insieme del Consiglio comunale per approvare gli indirizzi politici fondamentali di questo nuovo progetto, che non può certamente essere lasciato a semplici atti amministrativi.

GRUPPO CITTADINE E CITTADINI A DIFESA DELLE BIBLIOTECHE

PRESTO DI MATTINA
Pentecoste, la Pasqua delle rose

 

“Una rosa, solo una rosa”: questo chiese Belinda al padre che partiva per un viaggio in pieno inverno, nella fiaba scritta da Jeanne-Marie Leprince de Beaumont (1711-1780) [Qui] e poi inserita, nella sua versione toscana, da Italo Calvino nella raccolta di fiabe italiane. Anziché un gioiello o una veste splendente, come reclamarono le sorelle, Belinda, la Bella, domandò il folle dono di un’unica rosa, un dono all’apparenza impossibile, fuori tempo, fuori stagione, fuori di questo mondo. Chiese non già qualcosa che la migliorasse dall’esterno, ma un dono per la sua interiorità: un aiuto a vedere in profondità, quello che fa percepire, oltre la facciata, l’intimo di ogni cosa, lo spirito di attenzione: unzione penetrante. Una rosa appunto, una e molteplice, intima e manifesta, una pluralità unita, inscindibile nei suoi petali e nell’unzione del suo profumo, integra nel suo centro che è recondito e dovunque. L’interiorità, come la rosa, è custode del multiforme mistero della gioia, quello che scaturisce dall’esperienza dell’amicizia e della comunione.

Così lo spirito è l’ospite che ci ospita, e l’interiorità è la dimora in cui accade una metamorfosi non diversa da quella che si sviluppa nella fiaba di Belinda. Una metamorfosi dall’insipienza, dall’inconsapevolezza, dall’insensibilità ai sensi spirituali, che diviene passaggio dall’oscurità al chiarore, dalla chiusura all’ospitalità: il riconoscimento e l’accoglienza dell’altro, del quale scoprire, al di là delle apparenze, il dono nascosto. Restituita alla chiaroveggenza dello spirito che svela in profondità il vero, il bene e il bello che apparirà solo alla fine, Belinda esclamerà «non mi sembra più un Mostro e se anche lo fosse lo sposerei lo stesso perché è perfettamente buono e io non potrei amare che lui». È la metamorfosi così giunta a compimento, rotto l’incantesimo che oscurava la visione.

Scrive acutamente Cristina Campo «La metamorfosi del Mostro è in realtà quella di Belinda ed è soltanto ragionevole che a questo punto anche il Mostro diventi Principe. Ragionevole perché non più necessario. Ora che non sono più due occhi di carne a vedere, la leggiadria del Principe è puro soprammercato, è la gioia sovrabbondante promessa a chi ricercò per prima cosa il regno dei cieli. Per condurre a tale trionfo Belinda, il Mostro sfiorò la morte e la disperazione, lavorò con la pervicacia della perfetta follia notte dopo notte, apparendo alla fanciulla reclusa, rassegnata ed impavida nell’ora cerimoniale: l’ora della cena, della musica. Chiuso nell’egida dell’orrore e del ridicolo («oltre che brutto purtroppo sono anche stupido») rischiò l’odio e l’esecrazione di quella che gli era cara: discese agli Inferi e ve la fece discendere. Non meno – e non meno follemente – fa [lo Spirito di] Dio per noi: notte dopo notte, giorno dopo giorno».

Come ogni fiaba ‒ ha osservato Cristina Campo ‒ anche questa «ci narra l’amorosa rieducazione di un’anima affinché dalla vista si sollevi alla percezione, per riconoscere ciò che soltanto merita di essere apprezzato. Percepire è riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente. E che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo? L’amicizia del Mostro per Belinda è una lunga, una tenera, una crudelissima lotta contro il terrore, la superstizione, il giudizio secondo la carne, le vane nostalgie», (Imperdonabili, 11-13).

Belinda ‒ ho pensato tra me e me ‒ chiedendo quell’unica rosa, non ha forse domandato la chiaroveggenza, il dono dello Spirito “il dolce ospite dell’interiorità”, “la beatissima, luce che invade nell’intimo”? È così che lo invoca l’inno liturgico nella festa di Pentecoste. Dono dell’attenzione profonda, quella generata dal desiderio dell’incontro con l’altro; dell’intimità aperta, capace di sviluppare l’esercizio della contemplazione senza la quale ‒ direbbe Simone Weil ‒ la bellezza invocata e ricercata non può rinascere. Dono che unisce differenziando, che scruta le profondità dell’umano in cui ospitare l’altro; unzione che fa splendere e porta in piena luce i volti; rugiada che impreziosisce e rinnova la faccia della terra: “Emitte spiritum tuum et creabuntur et renovabis faciem terrae”.

Invocare la venuta dello Spirito è chiedere di poter riconoscere e accogliere uno spirito di sapienza e di intelligenza, di conoscenza e di pietà, uno spirito di tenerezza e di resilienza, spirito fiducioso che crede invincibilmente all’amore e così genera speranza. È domandare di vedere con gli occhi interiori la potenza e la bellezza spirituale della Materia, del bene e del vero imprigionati nella sostanza informe o deforme, inanimata e spenta, per accorgersi dello sprigionarsi in essa del fuoco. È dello spirito sconcertare, scompigliare rimescolare, riplasmare, perché è forza e movimento di trasformazione e trasfigurazione. Egli “irriga ciò che è arido”, “sana ciò che sanguina”, “lava ciò che è sordido”, “piega ciò che è rigido”, “scalda ciò che è gelido”, raddrizza ciò che è sviato”.

«Spirito ardente, Fuoco fondamentale e personale, Termine reale di un’unione mille volte più bella e desiderabile della fusione distruttrice ideata da un qualsiasi panteismo, degnaTi di scendere, ancora questa volta, sulla fragile pellicola di materia nuova in cui oggi si avvolgerà il Mondo, per darle un’interiorità. Ancora una volta, il Fuoco ha compenetrato la Terra. Non è caduto fragorosamente sulle cime, come il fulmine nella sua violenza. Ha forse bisogno di sfondare la porta il Maestro che vuole entrare nella propria casa? Senza scossa, senza tuono, la fiamma ha illuminato tutto dall’interno. Dal cuore dell’atomo più infimo all’energia delle leggi più universali, essa ha invaso, uno dopo l’altro e nel loro insieme, ogni elemento, ogni meccanismo, ogni legame del nostro Cosmo in modo così naturale che questo, potremmo credere, si è spontaneamente incendiato», (Teilhard de Chardin, Inno dell’Universo, Milano Brescia 1992, 11; 13).

Domani è Pentecoste; la beata Pentecoste. Le celebrazioni dell’anno liturgico si sono sviluppate gradualmente secondo le esigenze delle comunità cristiane che all’inizio, la domenica, celebravano il giorno del Signore, la sua Pasqua. La celebrazione annuale della Pasqua era considerata la “grande domenica”, perché si allargava, moltiplicava i giorni come fossero un unico giorno. Essa incluse così i giorni del triduo pasquale e la settimana dell’ottava di Pasqua, per poi allargarsi in una cinquantina di giorni fino al culmine della Pentecoste: la grande domenica del Cristo risorto asceso al cielo e datore con il Padre dello Spirito. Da questa “domenica distesa” inizia il «giorno nuovo», che i Padri della Chiesa han chiamato «l’ottavo giorno» perché in esso confluiscono e trovano compimento i sette giorni della creazione e tutti i giorni del mondo a venire.

Come ricorda Alfredo Cattabiani in due suoi testi (Calendario, Milano 1993; Florario, Milano 1997) Pentecoste è chiamata anche “Pasqua delle rose”. Per questo, volendosi rappresentare visivamente la discesa dell’unico Spirito in multiformi fiammelle sui discepoli radunati con Maria nel cenacolo, in molte chiese durante la messa di Pentecoste si facevano piovere rose, fiori e talora addirittura batuffoli di stoppa accesa dal soffitto al canto della sequenza Veni, Sancte Spíritus,  emítte cǽlitus lucis tuæ rádium. Così le rose diventavano raggi di luce, simboli della discesa dello Spirito che, come narra l’evangelista Luca, quel giorno si manifestò sui discepoli come lingue di fuoco che si dividevano e si posavano su ciascuno di loro: tanto che, pieni di Spirito santo, essi cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.

Doveva essere uno spettacolo unico la Pentecoste celebrata nel Pantheon a Roma nel rione Pigna durante il medioevo. Costruito come tempio dedicato a tutte le divinità pagane dell’impero, fu trasformato in chiesa cristiana con il titolo di Sancta Maria ad Martyres. Mentre il papa benediceva la gente raccolta in preghiera, dal lucernario della cupola cadevano sui fedeli una pioggia scrosciante di petali di rose.

La rosa è classificata da Cattabiani tra i “fiori dell’assoluto”: tant’è che insieme al fuoco ben si presta a simboleggiare lo spirito e la sua audacia che spera contro ogni speranza. Non diversamente dal fuoco infatti, sensibile a ogni cosa, anche lo Spirito tutto attraversa senza mescolarvisi, tutto abbraccia senza che nulla lo possa comprendere. Ma non meno pregnante è l’analogia dello Spirito con la rosa, in cui tutto converge verso il centro, un’unità che, a sua volta, si irradia ed è irradiante di una pluralità differenziata e multiforme, delicata, odorosa, dipinta nei suoi petali che sprigionano, affrettandosi lentamente, da essa come ad intenerire perfino le spine dello stelo che la sorregge.

Lo Spirito a Pentecoste è audace, coraggioso, osa l’impossibile, ardisce là dove tutto sembra perduto. Si spinge fin dentro la morte di acque putride; riapre i giochi e le sorti che erano stati decretati chiusi con sentenza definitiva: quale illusione, mi viene da pensare al cartiglio (il titulus crucis) fatto scrivere in più lingue da Ponzio Pilato e appuntato alla sommità della croce.

Non viene meno lo Spirito alla sua missione, quella di inoltrarsi intrepido e consegnarsi all’oscurità muta e ambigua dell’Avvenire, penetrando in esso «con olio di letizia invece che con l’abito del lutto, con un canto di lode al posto di un lamento» (Is 61, 1-9). Non indietreggia in questo esodo cosmico. Precorritore e ‘cursore’ nell’infinitamente piccolo, ‘vettore’ nell’infinitamente grande, ‘errante’ nell’infinitamente complesso. Egli avanza, indicando sempre la posizione di inserimento o quella del raccordo, il punto di incontro, l’arrivo e la partenza, l’orientamento e le prospettive che si irradiano da essi. Questo lo fa e rifà anche con noi, come un vasaio al tornio che non getta l’argilla deformata, ma la riplasma sempre di nuovo, con la stessa determinazione ardente con cui spinse Mosè ed il popolo ad attraversare il Mare Rosso e ad abitare per quarant’anni il deserto prima di approdare alla terra promessa; con la stessa risolutezza con cui spinse Gesù nel deserto per poi discendere su di lui come dono di consolazione, di liberazione, di perdono, di gioia trasformandolo nel Vangelo del Regno, buona notizia per le genti.

E così, è ancora lui che genera l’audacia della nostra fede, di quella fede che opera come libertà che si affida, resa capace di praticare l’abisso dell’alterità per scoprivi anche Dio: «Se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede», (1Gv 4,20). Scrive ancora quel “pellegrino dell’Assoluto” che fu Teilhard de Chardin: «La Fede cristiana vi sembra lavorare nell’irreale, costruire nelle nubi? È perché, precisamente, non avete tentato di ‘lanciarvi’, sorretti da essa, nello spazio in cui, sola, essa vi permette di ‘vedere avanzando’. Il legame misterioso che correla, nella nostra anima, le facoltà di vedere e di agire, è questo: la realtà si rivela solo a coloro che sono abbastanza audaci per ‘deciderla vera’ e mettersi a edificarla in se stessi. Il Cristo ‘si sperimenta’ come tutti gli altri oggetti con l’operazione della Fede, è il Cristo stesso che appare, che nasce, senza nulla violare, nel cuore del Mondo… Ma ripetiamolo ancora una volta: “In verità, in verità vi dico, soltanto gli audaci accedono al Regno di Dio nascosto, sin d’ora, nel cuore del Mondo. Colui che, senza porre la mano all’aratro, penserà di averle intese, è un illuso. Bisogna tentare. Di fronte all’incertezza concreta del domani, bisogna esserSI abbandonati alla Provvidenza. Nella penombra della Morte, bisogna essersi costretti a non volgere gli occhi verso il Passato, ma a cercare, in piene tenebre, l’aurora di Dio: “più ci sentiamo affondare nell’Avvenire infido e oscuro, e più penetriamo in Dio, (La fede che opera, in La vita Cosmica, Milano, 423; 425).

Domani quando pregherò con le parole del nuovo messale sul pane e sul vino dicendo «Padre santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito» cercherò di ricordare questo frammento poetico di Th. S. Eliot: «E tutto sarà bene, e/ tutte le cose saranno compiute./ Quando le lingue di fiamma si avvolgeranno/ nel coronato sviluppo di fuoco/ E il fuoco e le rose saranno uno», (Quattro Quartetti, Book ed. Ferrara 2002, 76).

 

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Al cantón fraréś
Bruno Pasini: a Milva “Par na guranta”

 

Al primo concorso provinciale in dialetto ferrarese a Portomaggiore (1966) il primo premio è assegnato a Bruno Pasini con una poesia dedicata a Milva, come si evince dall’antologia 1966-1971 della manifestazione portuense.
Nella lirica spicca una sensuale figura femminile, il paesaggio al tramonto, i venti tra i filari. L’erotismo è risaltato dalla luna che illumina il mare, la Sacca, l’amante. Poi la solitudine: un passionale distacco fra musicalità e profumi del mare.
(Ciarìn)

Par na guranta
           a Milva
Agh jéra int i to oć da sgranadóra
al fógh dal sól ch’al filtra int la basóra
ad dré da j’éls, bariera vérda ai vént
che i vién dal mar, quand l’onda l’è in turmént;
agh jéra int i to oć al fiór dal mal
ch’l’iηspciàva la miseria dla to val!
Na zìηgana at parév, coi cavì d’ram;
al nòstar nid al jéra uη lèt ad stram!
At luśéva i cavdìη sót’a la luna
come pigη śerbi iηcór tacà a la fronda
dla to pineta, quéla iη faza a l’onda
dal nòstar mar, che sót’a cal luśór
al s’pituràva tut d’arźént e d’or,
come la dstéśa dla to Saca d’Gòr!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dop t’at n’andàv pr’al to santiér d’carśìna,
come na bisa tra l’intrìgh dil cann,
spaciarànd coi pié scalz int l’aquastrìn…
sól… mi a vaηzàva… col cuηzèrt dil rann…
e con adòs l’udór dl’alga marina!

Per una gorese

C’era nei tuoi occhi insaziabili / il fuoco del sole che filtra nel tramonto / dietro ai lecci, barriera verde ai venti / che vengono dal mare, quando l’onda è tumultuosa; / c’era nei tuoi occhi il fiore del male / che specchiava la miseria della tua valle! / Una zingara sembravi, coi capelli di rame; / il nostro nido era un letto di paglia! / Ti luccicavano i capezzoli sotto la luna / come pigne acerbe ancora attaccate alla frasca / della tua pineta, quella di fronte all’onda / del nostro mare, che sotto quel lucóre / si dipingeva tutto d’argento e d’oro, / come la distesa della tua Sacca di Goro!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dopo te ne andavi per il tuo sentiero di carice, / come una biscia tra l’intrigo di canne, / sguazzando coi piedi scalzi nell’acquitrino… / solo… rimanevo… col concerto di rane… / e con addosso l’odore d’alga marina!

Tratto da: Poesia dialettale ferrarese : antologia dei componimenti poetici premiati e segnalati a Portomaggiore nei concorsi 1966-1971, Ferrara, SATE, 1972.

 

Bruno Pasini (Massafiscaglia 1916 – Ferrara 1999)
Altre note biografiche nel Cantóη Fraréś in data 08 maggio 2020  [Qui]

 Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca (Qui)

In copertina:  Verso il mare – foto di Marco Chiarini, 2020

Gerusalemme! Gerusalemme!

 

Gerusalemme è da sempre la città crocevia tra Oriente e Occidente con un flusso costante di genti, luogo di fede e oggetto di devozione, posta in gioco di incessanti conflitti politici; una delle città più cariche di memoria e più controverse al mondo, dove lo spirito del tempo è presente in ogni pietra, sulla soglia di ogni portone, nelle stradine, sui muri a secco e tra gli uliveti. Islam e Cristianesimo vivono sullo stesso suolo in un perenne tentativo di convivenza sotto minaccia della guerra civile, al centro di una contesa millenaria che fa affiorare tensioni, odio, posizioni identitarie, rigide e intransigenti. E’ la Città Santa per le tre grandi fedi monoteiste che “insistono sugli stessi centimetri quadrati e perciò plesso solare, concentrato di nervi con più conflitti che altrove”, come la definisce Erri de Luca. E’ soffocata sotto la pressione delle proiezioni e responsabilità, stritolata dalle strategie e compromessi, ferita dalle rivendicazioni e appropriazioni. E’ una città-mondo, un palcoscenico sul quale il mondo intero si dà appuntamento per affrontarsi, misurarsi, scontrarsi, posto sotto i riflettori dell’intera comunità internazionale. Un osservatorio, un laboratorio in cui realtà diverse, storie contrastanti, sperimentazioni di guerra e di pace non hanno mai smesso di coesistere.
Gerusalemme non è solo Israele e Palestina: è molto di più.
L’immaginario su Gerusalemme porta Torquato Tasso a scrivere ‘Gerusalemme liberata’, la cui prima edizione autorizzata dall’autore – preceduta da altre pubblicazioni prive del suo consenso – avverrà a Ferrara nel giugno del 1581 per essere poi pubblicata, completamente riscritta dal Tasso, nel 1593 con il nuovo titolo ‘Gerusalemme conquistata’. Nell’opera si battono eroi cristiani come Rinaldo e Tancredi ed eroi musulmani come Clorinda e Argante. Duelli, inganni, amori e fughe, battaglie, pretesti, stratagemmi, arti magiche, rivolte e incantesimi animano i 15.336 versi dei 20 canti del poema, anticipando con la fantasia e l’immaginazione una storia che sfocia ai giorni nostri nella realtà più cruda, dove l’assenza di arti magiche e incantesimi riconduce il tutto a un realismo ineluttabile.

Ci hanno pensato gli scrittori Dominique Lapierre e Larry Collins con ‘Gerusalemme, Gerusalemme!’ (1972) a introdurci nel terreno dell’evidenza, nella Gerusalemme del 1948, mentre gli ebrei scendevano nelle strade per festeggiare la nascita dello stato di Israele e gli arabi si preparavano alla lotta. Una narrazione che racconta di uomini, fatti, drammi che accompagnano la decisione delle Nazioni Unite del 1947, con la quale si decretò la separazione della Palestina. Un romanzo che tratta con grande attenzione e sensibilità i sei mesi successivi, descrivendo i protagonisti politici dell’epoca, l’organizzazione degli schieramenti, la corsa agli armamenti, gli scontri per guadagnare territorio, le mattanze perpetrate. Niente di fazioso, semplicemente Storia.
E la storia continua in ‘Una storia di amore e tenebra’ (2002) di Amos Oz, un libro autobiografico in cui l’autore racconta quattro generazioni della sua famiglia ebrea, la sua infanzia e giovinezza a Gerusalemme e quindi nel kibbutz di Hulda. Una saga familiare che evidenzia la paura costante di un nuovo genocidio degli ebrei nella stessa Israele, fa emergere ricordi e rimpianti, spaziando in 120 anni di avvicendamenti di quella società eterogenea. “[…] Molti anni dopo mi resi conto che la Gerusalemme sotto mandato britannico, cioè negli anni Venti, Trenta, Quaranta, era una città culturalmente affascinante, popolata da grandi mercanti, musicisti, studiosi e scrittori, ebrei e arabi che si intrattenevano con inglesi illuminati. Tel Aviv pullulava di teatri, cabaret, arte d’avanguardia, il balletto e grandi sport. […]”. Città che ricorda con ammirazione e nostalgia.
La scrittrice palestinese americana Susan Abulhawa nel suo romanzo “Ogni mattina a Jenin” (2011) racconta la storia della sua famiglia costretta a lasciare la propria terra dopo la nascita di Israele, i suoi primi anni in orfanatrofio e ciò che ha significato per tutti loro vivere la condizione di “senza patria” dopo l’abbandono della casa degli antenati nel ’48, per essere internati nel campo profughi di Jenin. 60 anni di esodo, di sradicamento narrati senza odio o spasmodica ricerca di colpevoli ma con un profondo bisogno di lasciare a figli e nipoti il ricordo. C’è anche un capitolo particolare in quella storia: due fratelli, l’uno rapito e condotto a diventare soldato israeliano, l’altro votato alla causa palestinese.

E veniamo alle vicende attuali, che evidenziano ancora una volta la profonda spaccatura mai superata, l’odio, il disprezzo, il linguaggio politico violento, il rifiuto dell’altro, che nascono dalla decisione politica di espansione di insediamenti ebraici a Gerusalemme est, sconvolgendo l’equilibrio delicato e precario già molte volte infranto.
La storia del quartiere Sheikh Jarrah è ancora più controversa e complicata e attinge a un passato lontano, quando all’interno della comunità prevalentemente araba, si stanzia una piccola enclave ebraica. Di qua passa la green line di confine tra Israele e la Giordania, tracciata dall’ONU nel 1948. Le tensioni e gli scontri aperti di questo periodo nascono in seguito allo sfratto di diverse famiglie Palestinesi (circa 300 persone) sancito dai tribunali israeliani, a beneficio di cittadini ebrei che chiedono di riappropriarsi, secondo tradizione giuridica consolidata nel tempo, delle case abbandonate prima del ’48.  Ennesimo fatto che, partendo da una questione giuridica assume connotati politici e va ad aggiungersi alla storia infinita del Medioriente. Una brutta storia devastante che si snoda come una catena, anello dopo anello, in una continuità che non lascia intravvedere una risoluzione certa e definitiva finché esisterà il concetto di ‘buona guerra’ o ‘cattiva pace’: esiste solo la volontà di dialogo, l’aspirazione a vivere con dignità e la volontà di non perdersi nell’odio.

 

La settima costola di Emanuele Tumminelli in libreria dal 29 maggio

da BookTribu

Una storia ispirata a un fatto realmente accaduto: la nascita di due gemelli attaccati dalla settima costola in giù. Sarà in libreria da sabato 29 maggio La settima costola di Emanuele Tumminelli, edizioni BookTribu, per la collana Black Out. Nel Piemonte di fine Ottocento, la famiglia Bertocci viene sconvolta dall’arrivo di qualcosa di mai visto: un figlio con due teste, quattro braccia e due gambe. In paese il parto è definito demoniaco e i genitori accettano di far esibire i figli nel circo di due impresari senza scrupoli.

La settima costola è la storia di due vite straordinarie non solo per la loro particolarità fisica che li vede gemelli uniti dalla settima costola, ma per le vicende che li riguardano. Essendo il romanzo ispirato a un fatto di cronaca, il lettore è catturato dalla curiosità di comprendere a fondo i protagonisti, e dal desiderio di scoprire di più della loro vita e delle loro disavventure. A volte con gli occhi del padre. A volte con quelli della madre. Sempre interrogandosi sul valore della vita e al peso così diverso che ciascuno le attribuisce.

“Capire ciò che spinge un padre a detestare i propri figli fino a farli stramazzare per la stanchezza o sperare per la loro morte fin dal primo vagito – spiega l’autore Emanuele Tumminelli – è la riflessione che si estende lungo la narrazione. La diversità è sempre un valore, anche per chi non vuole accettarlo”.

E Tumminelli riesce, infatti, inserendo la narrazione in una ambientazione storica ricca di approfondimenti, a fare comprendere quanto il diverso sia in realtà simile, e come si può amare chi non è come noi, e odiare chi si crede normale in un mondo di pazzi.

Emanuele Tumminelli è nato e cresciuto a Vittoria, nel sud est della Sicilia. Lascia la casa paterna durante il liceo per seguire il suo amore per la pallavolo, praticata in seguito per molti anni. Abita a Bologna con la sua compagna e la figlia.

Parole a capo
Roberta De Tomi: “Human being” ed altre poesie

“Per me la poesia è un tentativo malizioso di dipingere il colore del vento.”
(Maxwell Bodenheim)

Madama le Triste (Le streghe hanno il becco al collo)

Ciondola dal suo collo
il vessillo del vassallo
che fu di Madre Terra
prigioniera per un deca.

Non si accorge il misero
di ciò che ha lasciato
nel cuore germinare
in bilico tra due poli.

Il male prolifera
come carie in un dente
senza più sane radici
tra labbra seducenti.

Si estende al resto
come una piaga d’Egitto
estesa oltre il bacino
di mare e oceano e cielo.

La morte è l’unica soluzione
ma anche il convoglio con
tanta voglia indietro torna
se il binario improvviso si rivolta

Il capotreno tiene una corona
innaffiata dal tè fluttuante
di una vecchia teiera
ricordo dei dì dell’Impero.

Da “Alice nel labirinto” – DAE – 2017

Human Being

Le illusioni si raggrumano
nel nodo della cravatta
che rimpiazza la frusta
con i sorrisi rassicuranti
di un buonismo che scivola
tra le maglie della retorica
che sciorina gli aiuti
sulla pelle di chi fugge
perché crede nel Paradiso
del grande Luna Park
che a Occidente regala
zucchero filato e firme
opulenti alla fragola
ammuffita quando ecco
la porta del retro si apre
sul campo di lerce baracche
bagnate da sangue e sudore
di lacrime che non scorrono
per evitare le crude sferzate
del vento e della frusta
dell’amico in maglietta
che le manette intorno ai polsi
fa scattare sulla libertà
di un’illusione indotta
a far numero sul terreno
delle nuove schiavitù
che di oro fan scintillare
le tasche silenti di eroi
che si chiamano salvatori
ma sono fulgidi cannibali
saliti sul carro allegorico
di un Carnevale di eroi
spinti dal nuovo vento del Sud.

De Tomi Roberta – Da “I versi che uniscono” di Autori e autrici vari – Antologia a cura di Luigi Golinelli

 

Inedite

Giustizie urgenti

Giustizie urgenti
per i fischietti,
mangiamo fagioli,
pomodori, piselli e patate,
aspettando la giustizia
di poter vivere un sogno
tracciando i solchi del CV
declassato in serie Z
mentre in A aspettano le ferie.
Le classi dormono in cielo
sperando nell’Uomo allo Specchio,
che dissolva la paura di toccare la Terra
sollevando il velo, ultimo titolo
ingannevole come il cuore
sopra ogni apparenza.

 

Siamo fatte

Siamo fatte di sangue,
di cicli che nascondono Selene,
di lacrime asperse nella notte,
di figli nati, di semi incolti e bulbi secchi.

Siamo anime sciolte da etichette
che chiudono le gabbie della mente
lasciando l’illusione di libertà
tra i ronzii e i pungiglioni delle api regine.

Siamo gatte e pantere di lussuria
che vendono i loro sogni alle luci del successo
spacciando l’asta per un volontario godimento
che nasconde il prezzo del cartellino.

Siamo il nostro nome che la morte non cancella
nella solitudine della notte
cerchiamo polvere di stelle e gocce di rugiada
ma troviamo graffi e indifferenza.

Siamo anime accese come candele
che nessun vento può spegnere,
seminando zizzania non si accorge
dei diamanti sparsi tra petali all’improvviso.

(A Sarah, ad altre donne)

Roberta De Tomi è nata a Mirandola (Modena) negli anni Ottanta. Dopo la laurea al Dams di Bologna, ha iniziato a collaborare con alcune testate giornalistiche. Parallelamente, ha svolto mansioni legate alla comunicazione e agli eventi culturali. Nel 2012 è stata curatrice, insieme al poeta modenese Luca Gilioli, dell’antologia solidale “La luce oltre le crepe” (Bernini), sul tema del terremoto che ha sconvolto buona parte del Nord Italia. Dal 2014 ha iniziato a pubblicare con alcuni editori indipendenti. Tra i titoli: Come sedurre le donne (How2 Edizioni, 2014), Chick Girl – Azalee per Veridiana (Delos Digital, 2016), Alice nel labirinto (Dae Editore, 2017). Quest’ultimo, seguito dei romanzi di Lewis Carroll in formato librogame, ha ricevuto il secondo premio ex-aequo all’interno del Trofeo Cittadella per il miglior romanzo fantasy 2019. Il romanzo ha anche ispirato il booktrailer musicale I’m a prisoner dei NovelToy, diretto dal regista Giulio Manicardi. Allieva di Bottega Finzioni nel 2019, Roberta tiene anche docenze di scrittura creativa, gestisce pagine Social per enti e cura il blog La penna sognante. Nel 2020 ha auto-pubblicato il racconto lungo urbanfantasy Melody, la Vestale di Inventia, il mistery Erika e il mistero della Regina delle Fate; infine, il thriller Trappola d’ardesia (Delos Crime). Nel 2021 ha autopubblicato il mainstreaming sui temi della precarietà e dell’amore, Il maledetto residuo nel cuore.

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
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FANTASMI
Luci e ricordi arrugginiti

 

Il telefono squilla nel cuore della notte e mi sveglia: dannazione! Un’occhiata fugace sul comodino, sono le 2:04. Chi sarà?

Cerco la vestaglia, inforco gli occhiali, infilo le pantofole, arrivo un po’ trafelato al telefono ma ora non squilla più. Utente sconosciuto. Torno a letto. E adesso, chi riprende più sonno? Mi chiedo ancora confuso e stralunato chi potrebbe aver chiamato: un uomo o una donna? un astronauta che si sente solo oppure magari un sergente che mi cerca…? Non ho alcuna risposta, probabilmente sarà stato un errore. Però quella persona ha fatto squillare almeno tre-quattro volte, forse cinque.
Quindi era qualcuno che voleva proprio parlare con qualcun altro, forse con me: dopo alcuni squilli potrebbe aver cambiato idea oppure ha ragionato sul fatto che fossero quasi le tre di notte. In realtà io non aspetto nessuna chiamata urgente o dall’altra parte del mondo, perciò posso anche rimettermi a dormire.
Ma ora lentamente nella mia memoria assonnata riaffiorano pensieri e ipotesi su tante persone che potrebbero avere motivo di chiamarmi da altre città, paesi, pianeti o dimensioni, anche di notte, soprattutto di notte. Fantasmi assopiti nella mia mente semi-sveglia: nessuno di loro mi fa paura, anzi con tutti vorrei parlare per chiarire qualcosa e raccontare cose non-dette. Così ritornano in superficie anche innumerevoli memorie quasi dimenticate, bollicine con la coda come le note di una lontana serenata, oppure veloci comete, di quelle che lasciano una traccia luminosa nel cielo. Alcuni pensieri sono dolci e piacevoli, avvolti da un alone colorato come stelle di un’aurora boreale, altri pungenti e duri come i diamanti che rigano i ricordi vetrificati. Ma spesso sono sfocati e ossidati dal tempo, ruggine che fa cigolare i cardini della porta della mia memoria.

Verso le tre arrivo a una conclusione: se il telefono non squilla più vuol dire che si è trattato semplicemente di un errore o di un banale contatto, se risquilla invece devo assolutamente rispondere. E così finalmente riprendo sonno.

All’improvviso squilla ancora il telefono, sono le 4:02: mi catapulto giù dal letto scatenando una folle tachicardia di cui non capisco il motivo, e rischiando fratture multiple arrivo fino al mobile su cui ho appoggiato il telefono, che la mia mano afferra prima del secondo squillo. Ma non risponde nessuno: solo un lontano suono acuto, che ricorda il cigolìo di un cancello che si chiude, oppure che si apre, chi può dirlo. Poi la linea si interrompe con un rumore secco, come quello di una porta sbattuta dal vento.

Ritorno a dormire. Mi sveglio con il suono della radiosveglia alle ore 7:00 e le note di una canzone di Joan Baez*: soltanto allora incomincio a capire chi fosse dall’altra parte del telefono.
*) Joan Baez: Diamonds and Rust [Qui]

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A Ferrara la cultura è un affare di famiglia

A Ferrara la cultura sembra diventata un affare di famiglia. Giuseppe Antonio Ghedini da Ficarolo è stato un pittore di un certo valore, attivo nel diciottesimo secolo. Da quello che leggo, Ghedini donò alla Biblioteca Ariostea di Ferrara trentuno disegni, risalenti al 1736, anno in cui era già a Venezia. Questi disegni sparirono dalla Biblioteca per riapparire dopo centinaia di anni nel negozio di un antiquario milanese. Amici della Biblioteca Ariostea, Amici dei musei e dei monumenti ferraresi, Ferrariae Decus e Deputazione di Storia Patria, nell’ottobre 2020, contattarono il Comune di Ferrara per consigliarne l’acquisto. Il valore stimato era di 20mila euro e le stesse associazioni si resero disponibili a fare una colletta per contribuire all’acquisto. Sorvolo sulla misteriosa sparizione dei disegni da un ente pubblico e sulla loro altrettanto misteriosa ricomparsa presso una bottega privata: credo che nel mondo dell’arte, dopo più di duecento anni, ipotizzare un reato di ricettazione sia impossibile, se non altro per l’impossibilità non di immaginare, ma di dimostrare la provenienza delittuosa (ad esempio il furto) di quelle opere, che potrebbero essere nel frattempo passate per chissà quante mani. Più difficile è sorvolare sulla condotta torpida dell’assessore alla Cultura Gulinelli, che, citiamo dall’articolo di estense.com (https://www.estense.com/?p=909149): “dopo lunghi silenzi e ripetute sollecitazioni”, fa sapere (in aprile 2021) che l’amministrazione sta “valutando anche la possibilità di acquistarli non direttamente ma attraverso una Fondazione privata che li donerebbe al Comune e questo agevolerebbe le procedure tecnico amministrative trattandosi di un antiquario privato”. E quale sarà mai questa fondazione? Se un bookmaker avesse deciso di quotare le probabilità che non si trattasse della Cavallini-Sgarbi, uno scommettitore che avesse puntato un euro ne avrebbe potuti vincere diecimila. Virtualmente, in quanto le probabilità che non si trattasse di quella fondazione erano simili a quelle che il razzo cinese cadesse su Ferrara. Infatti Vittorio Sgarbi, in occasione della presentazione del rinnovato e restaurato Palazzo Schifanoia, ha svelato l’inesistente arcano, affermando che la Fondazione di famiglia ha acquistato i disegni per poi prestarli al Comune, anzi al museo Schifanoia stesso, per una esposizione ad alto tasso di tecnologia, mentre se li avesse presi il Comune per rimetterli alla Ariostea, quei disegni sarebbero finiti dentro uno scrigno, invisibili ai più.

Rimane un mistero (questo sì) l’assioma secondo il quale il Comune non potesse fare la stessa cosa, ovvero rendere fruibile l’opera dopo esserne divenuto proprietario, invece di farsela prestare da una fondazione privata, intestata all’attuale Presidente di Ferrara Arte, che potrà deciderne il trasferimento altrove. A discrezione ed a spese di chi saremmo pronti a scommettere, consci che la quota di vincita stavolta sarebbe misera: a discrezione della fondazione, a spese del Comune. Questo almeno era lo schema originario della convenzione tra fondazione e Castello Estense sull’utilizzo della collezione privata in mostra al Castello stesso: una robusta percentuale degli incassi (compresi quelli di chi voleva solo visitare il castello e non la collezione) a favore della famiglia Sgarbi, tutte le spese (comprese quelle di eventuali trasferimenti dell’esposizione) a carico del Comune.

Il problema non è tanto (o non solo) la nuova filosofia della politica culturale a Ferrara, fatta di molte ombre (tra tutte, l’azzeramento della prestigiosa gestione delle mostre ai Diamanti in favore di pacchetti preconfezionati non originali e riproposti in mezza Italia) e qualche luce (Schifanoia?). Non sono scandalizzato dal “traffico di influenze” esercitato da Sgarbi per portare alla direzione del Teatro Moni Ovadia, almeno fino a che la sua libertà artistica e creativa potrà dispiegarsi in piena autonomia. Qualche dubbio sull’autonomia in effetti viene, pensando alla turbolenta conclusione dell’esperienza da Presidente del Teatro di Mario Resca. Tuttavia il percorso del Teatro si apprezzerà vedendone il cartellone e misurandone la qualità della proposta artistica. Non sono nemmeno sorpreso o, peggio, indignato per l’ingombrante ed egotista presenza di Sgarbi, che si sta prendendo la rivincita da “profeta in patria” dopo anni in cui i tentativi di collaborazione con il Comune sono falliti, o sono stati coronati da modesto successo (la mostra della collezione privata in Castello, sotto la vecchia Giunta, ha staccato molti meno biglietti del previsto). Uno come Vittorio Sgarbi non può che fare l’assessore alla cultura de facto: sotto questo aspetto, la scelta di assessore di diritto non poteva che cadere su un amico dimesso, dal profilo impalpabile, patetico nel ruolo di spalla dello Sgarbi sarcastico e veemente, tanta è la differenza di temperamento che ce lo fa quasi apparire un tenero e disadattato prestanome. Quello che disturba e reclama una attenzione anche formale è il costante conflitto di interessi tra il ruolo pubblico e quello privato, come se tutto quanto viene proposto alla cittadinanza dovesse risultare frutto di una “concessione” o di un “prestito” (non gratuito) della famiglia al popolo, con il Comune a fare addirittura da procacciatore d’affari, come nel caso dei disegni di Ghedini. A Ferrara la cultura sembra essere diventato un affare di famiglia. Sempre la stessa.

Le Sardine sulla questione inceneritore
La giunta Fabbri deve ascoltare i cittadini e il territorio.

Comunicato stampa Sardine Ferrara.

Le Sardine ferraresi sostengono la manifestazione in piazza:
«Bisogna unirsi e protestare contro chi fa gli interessi di pochi sulla pelle di tutti».

Le Sardine ferraresi sono preoccupate per il futuro ambientale di Ferrara e si schierano dalla parte dei cittadini, seguendo l’esempio della Rete per la Giustizia Climatica: scendiamo in Piazza Castello, venerdì prossimo, alle 17.30, e partecipiamo uniti a “Ci siamo rotti i polmoni”, la manifestazione contro l’aumento dei rifiuti bruciati nel nostro inceneritore. Perché la giunta leghista ha avvallato la decisione di aumentare lo smaltimento di scorie provenienti anche da altre regioni, oltre le 50mila tonnellate prodotte dalla nostra provincia, secondo l’accordo stipulato tra Comune ed Hera? Per quale possibile introito?

Invece di accrescere i rifiuti da infornare nel termovalorizzatore, peggiorando la qualità dell’aria di un’area geografica con alcuni tassi d’incidenza tumorale inferiori solo a Taranto, andrebbe ottimizzato il sistema della raccolta differenziata e del riciclo plastico, nonché incentivata una filiera occupazionale basata sul riutilizzo dei materiali e dello zero waste. Per mesi non è stato comunicato alcunché ai cittadini, costretti a subire un progetto che per il profitto di pochi calpesta la salute di tutti, specialmente dei nostri figli.

Eppure la Lega spende centinaia di migliaia di euro l’anno in comunicazione, ma decide di omettere una presa di posizione cruciale, che nulla ha a che vedere con la straordinarietà presentatasi in occasione dello smaltimento eccezionale dei rifiuti pugliesi di qualche anno fa. Un’occasione, quest’ultima, favorevole per l’attacco della Lega con a capo Salvini, che nel 2014 si presentò in loco per pura propaganda. E proprio Fabbri allora si espresse così: «Diciamo no a questa vergogna». Sono altrettanto vergognose, a nostro avviso, la falsa retorica e la grave omissione del Sindaco e del suo entourage. Non è da tralasciare la leva contrattuale che il Sindaco sta sprecando: in qualità di presidente Atersir ed essendo Hera in proroga sulla gestione del servizio, Fabbri potrebbe pretendere dalla s.p.a. dei comportamenti più benefici, rinunciando alla logica del profitto industriale a favore della nostra salute.

Parimenti, sono insufficienti e sconcertanti le giustificazioni dell’assessore all’ambiente Alessandro Balboni che si è rintanato pubblicamente dietro la conferenza dei servizi e ha sventolato tecnicismi prodotti, non a caso, dagli uffici di Hera in totale controtendenza con le esigenze ecologiche del nostro territorio. Non c’è alcun decreto che abbia obbligato il Comune ad assecondare la multiutility. La nostra salute non deve essere frutto di un compromesso, per di più essendo la prima città in Italia per la raccolta differenziata e grazie agli sforzi dei ferraresi. L’assessore Balboni, che sui social ci ha sommerso di foto in tenuta Plastic Free, strumentalizzando l’impegno e l’entusiasmo di decine di volenterosi, ci ha preso in giro? Che senso ha siglare protocolli d’intesa coi cittadini, se poi non coinvolge l’opinione pubblica su scelte fondamentali? Le apparenze con il sacco nero in mano e i guanti non bastano più, sono figlie dell’opportunismo e di un politicare vecchio stampo che finge di ascoltare le persone per poi favorire le carriere dei singoli. E i loro privilegi.

DIARIO IN PUBBLICO
Letture e avvenimenti: Ferrara e altro

 

mannekin pisIl Manneken Pis la celeberrima statuina di Bruxelles alta una cinquantina di centimetri è ormai nella mentalità maschile corrente il referente artistico più citato, in quanto nell’immaginario popolare per la ‘pissa’ di una certa età si propongono infiniti rimedi e pilloline.

Quanto alla donna invece è il Push Up ciò che infiamma il desiderio femminile: la ‘tetta erta’.push up

Su queste due immagini si costruiscono fortune che fanno dimenticare pandemie e lockdown.

Ma la continua ricerca che continuo a condurre sui canali tv più frequentati m’informano dell’orrido che avanza e che piace tanto agli italioti di ogni età. C’è ad esempio un programma il cui titolo leggermente blasfemo mette in mostra concorrenti mezzi scemi, che si combattono a suon di musica e danza. Si chiama Gli Amici di Maria. Ogni spiegazione del titolo risulta puramente pleonastica. Si passa poi agli orrori della cronaca quotidiana, dove veri (?) giudici comminano pene e premi a situazioni familiari egregiamente rappresentate da attori di strada, o giù di lì e il solenne titolo Forum ne è la garanzia. Infine l’ossessione della Eredità, che ogni sera mi vede perdente per la mia vergognosa ignoranza su quesiti sportivi, tiene ancora bene a causa anche delle due bambolotte smorfiosette chiamate professoresse e l’indubbia capacità del conduttore Flavio Insinna.

la città delle cento meraviglie
Ne La città dalle 100 meraviglie ovverossia I misteri della città pentagona. (Roma, Casa d’Arte Bragaglia, s.d. (novembre 1923). Copertina di Annibale Zucchini) Filippo de Pisis [Qui] mette in luce tra sarcasmo e ironia le lordure e non solo i pregi della ‘Frara’ da lui amata e studiata.

 

la poetica della meravigliaOra un nuovo libro ripropone la figura e la qualità della scrittura depisisiana: Miriam Carcione, La poetica della meraviglia. Filippo de Pisis scrittore, Bulzoni editore, Roma, 2021.
Finalmente si ripropone la figura del grande scrittore/pittore con una aggiornata bibliografia e con un’attenzione alla storia del testo, che sembra sia stata sempre più dimenticata in questi decenni.

La lettura di quel testo mi scaraventa nei meandri più infimi di ciò che a Ferrara, città del Worbas ( e non hélas come sfugge alla penna dell’introduttrice del libro del ‘Worpas’), è accaduto in questi giorni. Una nutrita schiera di persone, si parla di 300/400  l’8 maggio si è riunita per partecipare alla manifestazione titolata No paura day Ferrara in Piazza Castello, ad ascoltare tanti interventi che, come suona la recensione, sono stati “di scrittori, medici, farmacisti, naturopati, giuristi tutti attivisti per la Difesa della Libertà e la fine immediata dello Stato d’Emergenza.”

Peccato che molti di loro erano privi di mascherina, oltre a non rispettare le distanze di sicurezza. Da qui sono scattate le sanzioni, che hanno multato parecchi di loro, ma hanno innescato una sgradevolissima polemica con il proprietario dell’hotel Annunziata, che aveva protestato per la mancanza di attenzione a quelle regole che così faticosamente i più attenti si sono date. A questo punto il proprietario dell’hotel, che aveva espresso un parere molto equilibrato, viene attaccato nel modo più subdolo, in quanto uno dei promotori spedisce a Booking.com una relazione sull’albergo insultante e priva di verità, il cui titolo è già un esempio della livorosa e indecorosa recensione: “Albergo in perfetto stile DDR Germania dell’est”. L’estensore è un avvocato che non esita ad esprimere una opinione naturalmente legittima, visto che viviamo in una democrazia, ma che esprime una falsità di contenuti così evidente da sollevare l’indignazione di moltissimi nei social.
Non è proprio una decorosa medaglia che i No paura day si sono appuntata.

Ma ormai la città dalle cento meraviglie non ci risparmia nulla, pur nel tentativo – questo sì laudabile – di promuovere forme avanzate di cultura. Non mi addentro sul generoso input che ha spinto tanti fruitori del servizio bibliotecario a manifestare in difesa delle biblioteche pubbliche, promosso dal gruppo che si riconosce nell’associazione Salviamo le biblioteche ferraresi.

Resterebbe da parlare del docu-film in lavorazione sul “giardino che non c’è”, promosso tra gli altri da Dani e Noa Karavan e che riguarda ovviamente l’ubicazione o la realtà del famoso giardino del libro omonimo di Giorgio Bassani. Ho partecipato con grande emozione e compartecipazione ad una intervista che mi è stata fatta proprio a Casa Minerbi nel Centro studi bassaniani da solo e con Portia Prebys. La sensazione che ho avuto, e che spero sarà confermata a film realizzato, che si tratti di una pietra importante portata alla conoscenza del mondo e dell’arte del grande scrittore ferrarese.

 Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

LA VIGNETTA
Offerta vacanze

Gastone e Lucio, approfittando della zona gialla, si sono presi una breve vacanza di tutto relax alloggiando per una settimana in una spa tra i Balcani…
Volendo risparmiare hanno scelto l’offerta più economica che han trovato in rete. Avranno fatto bene?

illustrazione di Carlo Tassi
(tutti i diritti riservati)

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PRESTO DI MATTINA
Ascensione, quando la parola vola

 

«Surrexit Pastor bonus qui animam suam posuit pro ovibus suis, et pro grege suo mori dignatus est, alleluja!»: sono queste le parole di un’antifona liturgica, musicata dal compitore e organista Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525/6-1594), per il canto di comunione alla messa di Pasqua, prendendo spunto dal testo di Giovanni 10 sul Buon pastore. Lo ascolterò ancora una volta domani, prima di salire all’altare, per la festa dell’ascensione del Signore. Un’armonia capace di far rivivere spiritualmente un distacco e un’assenza che tuttavia si fa presente in altro modo, restando un’intima compagnia nel cammino.

Nell’esperienza dell’abbandono affiora più forte anche per Montale una presenza nell’assenza, almeno così ho inteso: «Ecco il segno; s’innerva/ sul muro che s’indora:/ un frastaglio di palma/ bruciato dai barbagli dell’aurora./ Il passo che proviene/ dalla serra sì lieve,/ non è felpato dalla neve, è ancora/ tua vita, sangue tuo nelle mie vene», (Tutte le poesie, 146).

Così, se gli occhi rincorrono il Signore fino a perdersi, e vanamente lo cercano mentre egli scompare dietro la nube dell’esodo in cui cela la sua presenza, i piedi riprendono invece di nuovo il cammino ricalcando le orme dello Spirito: come una luce per i nostri passi ‒ o meglio, riprendendo un verso di Mario Luzi ‒ una «non disabitata trasparenza».

È quanto accadde anche allora. Gesù nell’ascensione si allontanò visibilmente dai suoi discepoli, ma essi lo sentirono ancora presente, in modo nuovo, nello Spirito che si riversò su di loro con un’urgenza di amore, una spinta ad essere testimoni del Risorto ‒ «caritas Christi urget nos» (2Cor 5,14) ‒ che li indusse a spingersi fino agli estremi confini della terra.

Del resto, la Pasqua è tutto un saliscendi, un susseguirsi di salite e discese. Un abbassarsi che sarà innalzato e un innalzarsi che si abbasserà. Un andare e venire, tra cielo e terra, fuori e dentro il cuore del mondo. Come Cristo è risalito dagli abissi della terra risorgendo dopo esservi disceso con la morte ‒ culmine di incarnazione ‒ così ora nell’ascensione si compie in pienezza questa risalita che pone la sua umanità, il suo volto d’uomo, le sue mani, il suo corpo, nella piena comunione col Padre. Con la Pentecoste, poi, e la discesa dello Spirito, il movimento discendente sarà preludio di un nuovo unanime cammino di risalita: quello dell’intera famiglia umana attirata dal Risorto. «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me», dice Gesù in Giovanni, con un’espressione che unisce in sé definitivamente l’abbassamento di colui che fu innalzato sulla croce e l’innalzamento di tutti noi, ora confitti su questa terra, nella gloria del Risorto.

«È asceso il buon pastore alla destra del Padre, veglia il piccolo gregge con Maria nel cenacolo». Così inizia l’inno dei primi vespri e poi di quelli solenni dell’ascensione. E così pure inizia, consonante, quasi corrispondente ad esso, una poesia di Mario Luzi dedicata alle “ascensioni della parola poetica”, del suo allontanarsi e sottrarsi, seguito dal suo misterioso ritorno nella coscienza del poeta ove essa permane come lievito del suo “crescere in profondità”. Quasi una supplica che chiede alla Parola/parola un distacco che non tolga la presenza; che essa non arrivi da sola alla pienezza del senso, a «quel celestiale appuntamento» per cui il poeta l’ha lasciata andare; che non giunga in quell’altrove «senza il caldo di me o almeno il mio ricordo». Ma non è forse questo ciò che chiederà domani l’assemblea liturgica con l’orazione di colletta al Padre, una preghiera in cui diverrà una volta di più consapevole che «nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro capo, nella gloria»?

Per nulla diverso l’auspicio del poeta: «Vola alta, parola, cresci in profondità,/ tocca nadir e zenith della tua significazione,/ giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami/ nel buio della mente – /però non separarti/ da me, non arrivare,/ ti prego, a quel celestiale appuntamento/ da sola, senza il caldo di me/ o almeno il mio ricordo, sii/ luce, non disabitata trasparenza/ La cosa e la sua anima? o la mia e la sua sofferenza?», (Tutte le poesie, 591).

Qui la parola è intesa come forma e comunicazione dell’umano, protesa verso il confine estremo del senso, al limite del mistero che nasconde e porta dentro, insieme, afferrabile e indicibile. In questo volo alto in cui accade che l’amore “cresca in profondità”, la parola è spinta a toccare i poli dell’orizzonte celeste: “nadir e zenit” e tentare l’incontro tra il segno e il suo contenuto, il significato con ciò che lo rappresenta. Si chiede così alla parola che in questa elevazione non si separi dalla corporeità, dal sentire dei sensi e degli affetti, dai ritmi della vita. La si prega che l’ascensione sia abitata dalla profondità, che la parola dimori nel silenzio e la luce nell’oscurità; che la gioia non cancelli la testimonianza dell’aver sofferto (il risorto mostra ai discepoli le ferite del suo corpo) e che il manifestarsi dell’altro non gli impedisca il suo nascondersi, perché è dall’assenza che germina una nuova presenza, ed è dal corpo del risorto che si sottrae che spira il soffio creatore dello Spirito.

Nell’evento dell’Ascensione Gesù crea uno spazio di autonomia e libertà per l’altro; il suo ritirarsi fa partire i discepoli e li rende protagonisti e responsabili del vangelo; il suo nascondersi li porta alla luce, il suo innalzarsi li radica ancor più alla terra e la vita dei credenti, il loro corpo, diviene la dimora dove lui si nasconde; egli li rende autorevoli: non servi ma amici: egli non fa, ma fa attraverso di loro.

Nel vangelo di Luca leggiamo che Gesù condusse i discepoli fuori dal luogo in cui erano rinchiusi, verso Betania (la casa dell’amicizia) e, alzate le mani li benedisse. Mentre li benediceva si separò da loro e veniva portato verso il cielo (Lc 24,50-51).
Benedire ed essere benedetti è come abitare ed essere abitati dall’altro: è abitare in lui e abitati da lui. La benedizione, anche nell’assenza, dischiude e fa riaffiorare una presenza.

«All’Ascensione – scrive Michel de Certeau –, quando questa partenza tante volte annunciata si rivela definitiva, gli apostoli sono meno presi da stupore che dà gioia. Dopo che Gesù fu sottratto ai loro occhi, sparendo nella Nube che manifesta loro il Mistero divino, essi rientrano a Gerusalemme per lodare Dio, con il cuore “tanto lieto”, dilatato dall’azione di grazia. Gioia apparentemente inspiegabile. Ma la loro fiducia in lui, purificata da tante meraviglie, li aveva fino ad allora disabituati di loro stessi e accordati alla sua persona. Probabilmente non sapevano ancora fino a che punto il loro desiderio era la sua presenza in loro; bastava che egli fosse lì e lo seguivano. Anche, quando si realizza la partenza, che compie il disegno di Gesù e dona alla sua umanità la felicità del faccia a faccia con il Padre, la sua gioia riecheggia fino al fondo di loro stessi.

Il mistero che era già presente nello smarrimento del loro cuore si svela infine nella loro gioia. Tra noi la presenza di un altro si misura non dalla sua prossimità fisica, ma dalla trasformazione che egli opera e che apre in noi delle profondità a lungo insospettate. Egli ci “abita”, letteralmente, sebbene la vita in comune nasconda questo lavoro oscuro. Ma, quando si interrompono questi incontri quotidiani, lo sguardo scopre improvvisamente la coabitazione interiore e vi riconosce colui che tanti ricordi e speranze designano. La stessa cosa avviene del Cristo, ma quanto più profondamente! Senza che essi se ne rendano conto, egli abita già i suoi con la sua presenza, dal momento che egli era con loro e che le sue parole e le sue azioni formavano già in loro il suo volto. La sua partenza rivela questa presenza. Ma i ricordi che ormai parlano loro di lui escludono del tutto la nostalgia: Gesù è eternamente vivente, e ritornerà; consacra, con la sua potenza divina, tutto ciò che la sua presenza umana ha misteriosamente suscitato in loro; egli trasfigura questo passato nella vita e nell’attesa», (L’ascensione, in Humanitas, 2012, 4, 655).

Una “non disabitata trasparenza” anche per me. Ne ritrovo traccia in una lettera che scrissi al vescovo Luigi Maverna, dopo che ebbe lasciato la diocesi. Una corrispondenza che è traccia delle “nostre ascensioni spirituali”.

«Carissimo vescovo Luigi, mi sono “acceso” davvero all’incrociarsi dei nostri pensieri con la Parola che salva. A volte la lontananza e il silenzio sembrano diluire l’intensità e l’immediatezza, sembrano relegare nei bei ricordi l’entusiasmo delle nostre conversazioni spirituali. Poi, d’improvviso, complice lo Spirito, quelle gioie di un tempo ritornano in tutta la loro bellezza e nuove, non ripetizione, ma nuova incarnazione dei nostri spiriti come se, irrorati dalla pioggia della Parola, generassero nuovi germogli insperati nel tempo dell’esilio. Mihi enim vivere Christus est (Phil. 1,21) Sì davvero per me è così, ho come paura a dirlo ma è tutta la mia vita, il suo senso, la sua gioia. Quante volte si fa grande il desiderio di vedere il Signore e maestro nel suo vero volto e abbracciarlo quasi fisicamente. Sento che è lui che mi conduce giorno per giorno, il desiderio più grande è quello di essere trovato alla “fine” dopo la “lotta”, fedele: Acceso! Acceso, anche se con piccolissima e pallida luce o almeno, – e forse sarà più vero così, – come fumo che sale da uno “stoppino” appena spento, che si mescola al velo profumato dell’incenso, segno della fede e della preghiera di tutta la chiesa, di domenica alla fine del vespro solenne. E mi piace pensare che Lui vedendo quell’ascensione di bianco fumo, che contorto sale, dapprima corposo, poi come un leggero filo, sappia la fatica e il dolore del credere, ma soprattutto odori il crisma ancora profumato, che ha segnato e la fronte e le mani ed intriso di struggente nostalgia di Lui ed ispirato, per tutto il tempo della mia vita fino ad ora, il desiderio e l’intenzione di piacergli, di compiacerlo, nel tentativo di realizzare quella figura di discepolo che il vangelo racchiude: «Il discepolo non è da più del maestro; ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro» (Lc. 6,40).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

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BIBLIOTECHE SENZA FUTURO?
La confusione e le inadempienze del Comune di Ferrara

 

Ricordiamo che, dopo aver raccolto parecchie centinaia di firme sull’Appello per il rilancio delle Biblioteche Comunali [Vedi qui], un folto Gruppo di Cittadine e Cittadini ferraresi ha indetto una manifestazione a difesa delle biblioteche, sabato 22 maggio alle ore 10,00 in Piazza Castello. (La Redazione)

A Ferrara è, da tempo, aperto un problema biblioteche, ancora non risolto. Nel 2019 ho convintamente firmato un documento promosso dai lavoratori della Biblioteca Ariostea; ho firmato qualche giorno fa quello presentato da un ‘Gruppo di Cittadine e Cittadini a difesa delle biblioteche’.

L’11 maggio 2021 si è riunita, su richiesta di una parte dei consiglieri, la II Commissione con all’ordine del giornoInformativa della amministrazione comunale di Ferrara sulle prospettive del servizio biblioteche’. Relatori l’Assessore alla Cultura, geometra Marco Gulinelli, il direttore del Servizio Biblioteche ed archivi, dottor Andreotti, la funzionaria dirigente del settore cultura, dottoressa Guidi, il direttore generale del Comune di Ferrara, dottor Mazzatorta. La seduta era pubblica e, come pochi altri cittadini, ho assistito da remoto.
È possibile rivederla nel sito della amministrazione comunale. [Vedi qui] Forse troppo ottimisticamente, mi aspettavo una esauriente informazione sullo stato della questione, con attenzione particolare verso le biblioteche decentrate, e la precisa indicazione del progetto che l’Amministrazione ha costruito e intende mettere in opera per una nuova organizzazione del sistema bibliotecario cittadino. Nulla di tutto questo: non un dato, non un numero, non una indicazione operativa, non una indicazione di soluzione per le molte criticità esistenti.
Gli unici dati concreti sono venuti dal direttore generale dottor Mazzatorta che ha illustrato le soluzioni poste in atto nei comuni di Parma, Modena, Reggio Emilia ed ha, correttamente, rimandato all’organo politico le scelte. Non posso pensare che per i ruoli ricoperti venissero meno ai relatori conoscenza e competenza; l’impressione è che, a partire dall’Assessore, i tre responsabili, politici e amministrativi, volutamente evitassero di fornire, come era richiesto, materiale per il confronto. La stessa scelta, data per già assunta, della esternalizzazione per alcune biblioteche decentrate non era accompagnata da alcuna indicazione su modi e forme.

Non si è detto se vi sarà cogestione, se sarà tutto affidato agli assegnatari, quanto e quale personale sarà addetto, se coesisteranno dipendenti pubblici e privati, i costi della operazione, gli spazi destinati, le attività previste, le forme di tutela e di formazione dei lavoratori, i programmi operativi, le acquisizioni, le disponibilità di bilancio.
Non si è detto come sarà il nuovo sistema. Sarà la Biblioteca Ariostea capofila e coordinatrice o invece sarà lasciata piena e completa autonomia alle biblioteche decentrate?
Non si è, a questo punto mi viene da dire ‘naturalmente’, parlato del ruolo della Ariostea che è, insieme, biblioteca di conservazione e di pubblica lettura, non si è fatto alcun cenno agli archivi che pure fanno parte del sistema.
Nulla sugli acquisti e l’aggiornamento della dotazione libraria. Non si è detto del rapporto con il volontariato, con l’associazionismo, con le scuole e l’Università; come, a partire dal libro, si debba organizzare il rapporto con i quartieri.

Viene da chiedersi se esista ancora un sistema o se invece lo si voglia, coscientemente e consapevolmente, smantellare: per sostituirlo con cosa? Fiduciosamente la maggior parte dei consiglieri intervenuti ha tentato di forare il muro di gomma costruito da luoghi comuni, da affermazioni bizzarre, da divagazioni non pertinenti: invano.
Ho avuto la tentazione di sottolineare qui alcuni dei problemi che, insieme a molti altri utenti della Ariostea, incontro nella sua frequentazione: mi chiedo a cosa servirebbe, di fronte alla opacità pervicace dei responsabili del settore, e tralascio.
Suggerisco a coloro che sono interessati a questo tema di andare a vedere la registrazione: è una rappresentazione istruttiva e chiarificatrice.

Cover: Ferrara, la Biblioteca Ariostea (foto Camera 24)

CONTRO VERSO
Il ragazzo tagliato a metà

 

Il ragazzo tagliato a metà
È scomodo vivere tra due culture che sono almeno altrettante vite possibili. Lo sanno gli adolescenti adottati o i giovani stranieri di seconda generazione. Lo sa questo ragazzo, nato da genitori rom. La mamma ha scelto una vita “regolare” per il bene proprio e dei figli, il padre si è perso nella droga, e questo ragazzo vive tagliato a metà.

Urlo in faccia a mia madre
ZINGARA DI MERDA
perché ha mollato mio padre
e lascia che si perda.

Era una ragazzina
quando si è separata
da lui, dalla campina,
dal mondo in cui è nata,
Ha tagliato le radici
(noi eravamo neonati)
per farci più felici.
Secondo lei ci ha salvati.

Io no, non lo conosco
il prezzo che ha pagato.
So che ha scelto al mio posto
e non mi ha consultato.
Mio padre si è distrutto
di droga e di prigione,
io non ricordo tutto
e non so la ragione
ma adesso che è mancato
ho voluto provare
e mi sono drogato
e sono andato a rubare.

Mia madre sembra pazza
e no, non ho capito
se odia la sua razza
(che le ho restituito)
o ha la preoccupazione
di me e del mio futuro,
ma non ce n’è ragione:
oramai sono un duro.

Niente può farmi niente.
Polizia o carabinieri.
Non m’importa della gente
e non voglio pensieri.
Perfino il tribunale
non deve aprire bocca:
io voglio farmi male
e guai a chi mi tocca.

Non si intravedeva una strada, allora, per far ragionare il ragazzo. La mamma era stata sposata per forza, messa in cinta di due bambini, tenuta segregata in una campina dove il marito e il suocero avevano via libera. Per lei sentirsi rimproverare la fatica sovrumana con cui era riuscita a liberare se stessa e i suoi figli è stato ripiombare nella colpa per un tradimento benedetto.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, torna su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Cover: Il carrozzone degli zingari – foto Flickr – licenza Creative Commons

Racconto:
La Gara

La Gara

Avrà otto, dieci anni.
Magrissima quasi spigolosa spinge sui quei piedini come una forsennata.
Gli occhietti sono vispi e furbetti, i capelli dritti si muovono a destra e sinistra accompagnando il movimento della corsa.
La gara è impari.
Suo fratello avrà due o tre anni in più.
Si assomigliano molto.
Lui le ha dato qualche metro di vantaggio, accompagnato dal sorriso di chi è sicuro del fatto suo.
Dai loro gesti penso di aver capito il percorso su cui si devono misurare.
Dovranno fare la breve salita proprio di fronte e fermarsi al terzo albero o poco oltre.
Faccio finta di aver bisogno di riallacciarmi le scarpe …voglio assistere alla gara.
Partiti!
Lei ce la sta mettendo proprio tutta, prova ad aiutarsi ad andare più veloce anche aiutandosi con le mani stringendole forte in un pugno.
Ma ecco.
Il fratello con poche falcate la raggiunge poco prima del termine della salita.
Lei non si gira per controllare la sua posizione.
Nel momento esatto del sorpasso chiude gli occhi e una smorfia mista tra dispiacere e stizza le riga il volto.
Un sorriso pieno di soddisfazione accompagna il fratellino alla vittoria .
Fanno ancora qualche passo per inerzia poi si fermano uno di fronte all’altro.

– Eh no…me lo avevi promesso prima! Voglio la rivincita!-
-Ma Terry…basta…sono più forte io…dai andiamo a casa…-
– No, no caro…adesso facciamo l’ultima…dai torniamo giù…subito ! –
Lei è serissima.
Si sistema i capelli della coda con le mani e scende velocemente a prendere per prima la posizione di partenza
Lui si attarda un poco…
Mi passa vicino , quasi mi sfiora
– Falla vincere !- sussurro piano
Si gira verso di me, con aria sorpresa, per vedere se fossi stato proprio io a parlare.
– Falla vincere dai…solo questa volta…- dico coprendomi la bocca con la mano per non farmi vedere da sua sorella
Lui mi sorride piano.
Sono fermi di nuovo alla partenza, uno accanto all’altro, come fratelli.
Improvvisamente lui grida forte:
-Pronti….-
-Via!- risponde lei e parte come una freccia.
Le gambe sottili volano , galleggiano sull’erba, quasi non toccare terra
Un attimo ed è già al termine della salita.
Non c’è nessuno al suo fianco .
Gli occhi guardano diritti di fronte a lei.
Sembra quasi non volere sapere, ma non ce la fa a rimanere nell’incertezza e si gira.
Gli occhi le brillano.
Suo fratello è più indietro!
Mancano solo pochi metri.
È sola lì davanti al traguardo.
È la prima volta
Non era mai successo prima
L’ultimo metro è più corto del sorriso che si appresta a illuminare il suo
volto di bimba.
Ecco il terzo albero
Alza le braccia al cielo mentre sente il passo di suo fratello appena dietro.
Ma dietro.
Ha vinto la sua gara
Lui le si avvicina e sportivamente le allunga la mano
Lei la tira verso di sé e se lo abbraccia tutto.

Li seguo con lo sguardo fino a che scompaiono dietro la prima curva
Sono ancora abbracciati.
Come fratelli.

Parole a capo
Diella Monti: “Guardati!” ed altre poesie

“La poesia è un manoscritto deposto nel cavo di un albero.”
(Czesław Miłosz)

Ricordi in reflusso

Impronte a seguire
il nero dell’inchiostro che trascina il pensiero.
Oggi e ancora oggi, a favore del ricordo
torna il vento a muovere la pagina di te.
E tu, tu che -spirito vitale-
ti fai rampicante,
abbracci la pergola ombrosa
e intrecci pàmpini acerbi di uva fragola.
E io, io che -ormai decadente e pavida-
allungo il passo per disperdere l’ascolto di un richiamo tagliente.

Guardati!

Guardati!
Vedi quelle parentesi aperte e chiuse fra le sopracciglia?
Sono l’inciso del tuo pensare accorto.
Vedi le salite e le discese impervie sul tuo volto?
Salgono e scendono
attraversando la fronte, un tempo pianura incontaminata.
E gli occhi?
Come buchi neri attraggono frammenti di mosaici
per riemergere in languidi sguardi dove immagini colorate  ritrovano casa.
Guardati!
Le vedi quelle farfalle agli angoli degli occhi?
Sono sorrisi trattenuti,
ali  timide, fermate al volo leggero.
Guardati!
Quei segni scritti sulla pelle
sono virgole fra i ricordi,
punti di domande senza risposte,
punti esclamativi di sogni sempre attesi.
Guardati!
Libera la tua anima,
non censurare la narrazione del tempo
e lascia respirare la poesia che non hai mai scritto.

 

Solo tu sei certezza

Solo tu sei certezza
ma nascondi gli artigli rapaci nella notte
pensando di evitarmi l’incubo del tuo arrivo…
Ti sbagli sai?
Non temo l’agguato improvviso;
in ogni fronda d’albero,
dietro ad ogni angolo di strada
cerco la smorfia del tuo volto.
Spio il tuo seguirmi,
mi fanno compagnia i tuoi passi felpati.
Sei nel soffio del vento gelido,
nell’onda che schiaffeggia rabbiosa
e nel brivido che improvviso scuote  la pelle calda.
Invece non amo i ritardi
e detesto le attese stremanti in balia di intemperie.
Degli appuntamenti feriti da un ritardo anomalo
disdegno lo sguardo basso di passanti pietosi
e le offerte di sostegno per un corpo decadente.
Oggi  incontreresti occhi vivi e ti darei il braccio
come si fa con l’amato,
camminando verso casa.

 

Piangono le foglie

Piangono oggi le foglie
mentre lasciano i rami, vestiti a lutto.
Scendono dopo improvvisi distacchi,
in malinconici dondolii
quando l’ora è giunta.
Piangono umide perle di nebbia,
le foglie
e in quel fremito ultimo vibra un sussulto,
per quel breve volo di libertà  ritrovata.

Diella Monti (Cesena, 1952) Penultima di dieci figli, ha vissuto in una famiglia numerosa, dove le difficoltà economiche all’ordine del giorno, non hanno inficiato però  la sua voglia di studiare e la passione  per la letteratura e la poesia, che ha seguito e coltivato aldilà  degli studi tecnici seguiti esclusivamente per esigenze lavorative. Una vita che ha ruotato sempre intorno alla poesia, dialettale o in lingua, in versi liberi o in metrica. Coordina il gruppo  Va in scena la poesia. Ha pubblicato una raccolta Il canto della Bambina, Book Sprint edizioni, 2014.[Vedi qui]
La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
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FANTASMI
Uno spettro si aggira per l’Europa: il capitalismo.
Me l’ha detto un teologo

 

L’altro giorno passeggiavo con un mio amico il quale, pur essendo un teologo cattolico, chissà perché preferisce la saggezza ebraica alla teologia cattolica. Su questo punto è sempre stato evasivo. Durante la passeggiata gli ho chiesto un’opinione sul Recovery Plan di Mario Draghi. Lui, di solito taciturno, inaspettatamente si è lasciato andare a questo lungo discorso:
“Vedi Sergio, queste non sono domande da fare a un teologo. Comunque proverò a risponderti. Il Recovery Plan è un piano, un progetto. Bene, un famoso proverbio ebraico recita: “Quando un uomo fa un progetto, Dio ride”.
Anche se, si potrebbe obiettare, qua c’è poco da ridere. Fatto sta che Lui ride, forse anche in modo sguaiato. Purtroppo, con o senza Covid19, siamo immersi in una nebbia intellettuale che impedisce a molti di noi di vedere, di capire cosa è accaduto e cosa sta accadendo all’umanità. Siamo immersi nella cura del particolare e ci perdiamo nei particolari. In fondo è normale che sia così, abbiamo bisogno di sopravvivere e lottare contro le minacce che si affacciano dietro ogni angolo. Guardiamo in basso perché ovunque ci sono buche e trappole. Non abbiamo tempo per contemplare le cose dall’alto e se non teniamo gli occhi bene a terra rischiamo di distrarci e cadere in una buca. Come diceva Spinoza, filosofo insuperabile, “Ogni uomo, come ogni ente, tende essenzialmente a autoconservarsi e a potenziarsi”, perciò non guardiamo molto oltre i nostri piedi. C’è chi la chiama concretezza. Ma se per un attimo riuscissimo a fendere questa nebbia mentale vedremmo qualcosa che, credo, pochi riuscirebbero a sopportare. Preferiamo girare la testa altrove, scatta una resistenza mentale, umana e comprensibile, che ci tiene al riparo da quella che Michael Moore chiamava ‘The awful truth’, l’orribile verità.

“C’è anche una canzone dei Rolling Stones che dice: The awful truth/is really sad…”

“Giriamo la testa dall’altra parte – mi interrompe lui infastidito – perché sprofonderemmo in una cupa depressione che sarebbe di ostacolo ai nostri sforzi di sopravvivenza immediata. Mario Draghi, il PRRN, la Commissione Europea e i cosiddetti 20 Grandi del mondo, ovvero le grandi menti strategiche, le grandi potenze, le grandi lobbies che spingono sull’acceleratore e tentano di guidare il treno impazzito del capitalismo mondiale, i cervelli più lucidi (o forse solo meno annebbiati) da molto tempo hanno fatto il seguente ragionamento: affrontare alla radice i guasti dell’economia globalizzata, le cause del disastro climatico e dei flussi migratori incontrollati non è realistico né conveniente. Mettere in discussione l’attuale modello economico e sociale rischia solo di creare problemi maggiori di quelli che già ci affliggono. Lasciamo certe utopie a Greta Thunberg e ai soliti idealisti stressati e frustrati, ai nostalgici del comunismo e a Papa Francesco. Noi siamo gente pragmatica.”

“Diceva Mick Jagger che il mondo è governato dal diavolo” insisto io nel tentativo di sfuggire alla predica, ma è tutto inutile.

“Invece di aggredire le cause del problema, una missione fallimentare – prosegue ispirato – dobbiamo difenderci dagli effetti provocati dal problema. Anche se non tutti hanno i mezzi per difendersi perché, come è ovvio, questo non è un mondo per poveri. Io non sono certo in grado di leggere nel pensiero altrui, ma dopo aver letto la suddivisione degli stanziamenti del PRNN uso un semplice procedimento indiziario. Non sono in grado di fare analisi puntuali e dettagliate, mi limito ai dati più evidenti: si punta tutto sulla ripresa economica nel breve e medio periodo, senza sottilizzare sui mezzi e sulla sostenibilità. La ricerca medica si deve concentrare su vaccini e medicine che ci proteggano dalle prossime inevitabili pandemie, protezioni che non saranno certo alla portata di tutti, ma pazienza. Bisogna capire come ridurre il riscaldamento globale senza danneggiare la crescita, ma soprattutto trovare dei sistemi per proteggerci dagli effetti più rovinosi dello stravolgimento del clima. Epidemie e catastrofi sono date per scontate e anche in questo caso le protezioni dalle conseguenze non sono alla portata di tutti. Ma questa è l’unica strada da percorrere. Poi, chi vivrà vedrà, da cui ne consegue che chi morirà non vedrà. Meglio rimediare al problema che prevenire. Difficile spiegare diversamente il criterio con cui sono stati ripartiti i fondi europei del famoso PRNN.”

“La scorsa settimana ho letto su Ferraraitalia un articolo di Corrado Oddi sul Recovery Plan [Qui]. Mi era parso interessante, con quel link al Recovery Planet [Qui] “

“L’ho letto anche io. Certo, decisamente interessante, a modo suo.”

Dopo una pausa a effetto mi guarda negli occhi e dice: “È questo, lo spettro che si aggira per l’Europa, lo spettro del capitalismo. Perché il capitalismo, di cui tante volte dall’Ottocento fino a anni recenti è stata annunciata l’inevitabile morte, approfitta di crisi, catastrofi ed emergenze per risorgere e rinnovarsi, per ristrutturarsi come si usa dire.
Perché, a ben vedere, il capitalismo è immortale, a prescindere dai morti che semina lungo il suo cammino. E alle sue spalle si intravede, nascosto sotto le sembianze di un liberalismo più o meno compassionevole, lo spettro gelido di Malthus, anche lui sempre in buona forma e soggetto a periodiche resurrezioni. Se questa, come sospetto, è la ‘terribile verità’, accontentiamoci di vivere in quella parte di mondo che certe protezioni dai disastri se le può permettere. E poi, se ne avremo voglia, ci permetteremo anche il lusso di denunciare sdegnati i nostri privilegi sapendo che tanto non li perderemo, come fanno Bill Gates e altri suoi simili.
E allora smettiamola di vendere illusioni o utopie di seconda mano. Meglio un sano cinismo invece di inganni e droghe ideologiche. Questo credo sia il retro pensiero dei grandi strateghi, di coloro che la sanno lunga. E a volte credo perfino che questi signori abbiano ragione. Poi chissà se Dio ride di loro, difficile a dirsi. Ma è anche vero che senza utopisti, eretici e visionari questo sarebbe il peggiore dei mondi possibili. Dopo averli mandati all’attacco dell’esistente, quando hanno svolto la loro funzione e ci siamo impadroniti di una parte delle loro idee, nulla ci impedisce di denigrarli, perseguitarli, incarcerarli e se è il caso di mandarli al rogo. E il ciclo continua.
Comunque, per favore, la prossima volta che ci vediamo lascia stare i Rolling Stones. Non sono argomenti da discutere con un teologo, è di pessimo gusto.”

Poi tira un gran sospiro e alza gli occhi al cielo, come se da lì potesse venire qualche indicazione utile.

“Eppure quando vedo la faccia di Greta Thunberg o quella di un vecchio gesuita come Papa Francesco – Dio solo sa se crede a quello che dice e forse neanche LUI lo sa – e accosto queste facce a quella di Mark Zukerberg o di Christine Lagarde, beh, non ho dubbi su quale sia il mio posto. E mi chiedo perché. Forse perché non ho capito niente.”

Ciò detto, con passo maestoso, se ne è andato a pranzo. Forse anche io non ho capito niente. Vado a casa a sentire Let it bleed dei Rolling Stones. Anche loro eterni fantasmi immortali, immortali come il capitalismo.

Per leggere tutti gli articoli, saggi, racconti, divagazioni della rubrica FANTASMI clicca [Qui]

LIBERI DENTRO
La libertà corre lungo i canali televisivi dell’Emilia Romagna

 

Irene Fioresi – Funzione Strumentale per la comunicazione – Cpia di Ferrara

Anche Ferrara nel palinsesto di Eduradio – Liberi dentro, il progetto regionale che ha lo scopo di sensibilizzare la cittadinanza sul tema della detenzione e sul reinserimento delle persone detenute nel contesto sociale, obiettivo prioritario per sconfiggere il problema della recidiva, e allo stesso tempo di continuare ad essere presenti nelle carceri della regione Emilia Romagna attraverso le voci e i volti di chi promuove attività riabilitative, istruzione e vari servizi di volontariato. 

Il Cpia di Ferrara sostiene una nuova tappa della programmazione che vedrà l’emissione di una decina di programmi costruiti in collaborazione con il Teatro Nucleo e Astrolabio, il giornale del carcere, assieme ai volontari di diverse Associazioni e Cooperative che regolarmente operano nella Casa Circondariale di Ferrara.

Mercoledi’ 12 maggio sul canale 118 Lepida TV alle ore 13.30 sarà in onda la prima emissione ferrarese, sul tema l’attesa, una delle dimensioni pervasive della vita in carcere.  I video, realizzati in collaborazione con Web Radio Giardino, avranno come filo conduttore “parole – chiave” che attraverso spezzoni del lavoro teatrale svolto nei laboratori in carcere del Teatro Nucleo risuoneranno con accenti diversi dentro e fuori le mura.

Il 21 maggio 2021 il progetto di Eduradio sarà presentato e discusso a livello nazionale, con un convegno online a cui parteciperà anche il Ministro per la Giustizia Marta Cartabia.  Nato dal desiderio di continuare, nonostante l’emergenza sanitaria, il servizio culturale, educativo, di assistenza spirituale nella Casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna, il Progetto Liberi dentro – Eduradio, è riuscito ad unire le voci impegnate nel difficile compito dell’esecuzione penale, per arrivare direttamente nelle celle e accorciare le distanze che separano il carcere dalla società.
Per raggiungere le camere detentive, sprovviste di collegamenti internet, le trasmissioni “a distanza” di informazione, cultura e didattica destinate al carcere e alla cittadinanza, hanno viaggiato, inizialmente attraverso gli apparecchi radio, acquistati dalla rete dei promotori e donate al carcere, su Radio Città Fujiko 103.1 FM, a partire dal 13 aprile dello scorso anno, in piena pandemia, per far sentire ai detenuti una presenza e un’attenzione alla loro situazione e per dare continuità alle attività sospese. In seguito la ‘famiglia Eduradio’ si è allargata agli altri volontari e operatori degli istituti di pena di Modena, Parma, Reggio Emilia, Ferrara e Faenza (Forlì), che hanno deciso di aderire all’iniziativa, che ha trovato spazio anche sul canale televisivo 636 e, da aprile 2021 è in onda quotidianamente anche su Lepida TV canale 118 alle ore 13.30.

Qui il link alla programmazione andata in onda: https://liberidentro.home.blog/podcast-liberi-dentro-regione-er/

Il gruppo di Ferrara, sostenuto dal CPIA, intende dare continuità alla propria partecipazione attraverso una trasmissione quindicinale di un contributo video su racconti dal carcere, per il carcere e sul carcere, che coinvolgeranno non soltanto i soggetti delle attività educative e rieducative, ma anche esperti ed interessati alla realtà carceraria.

 

Le rubriche a tema di Eduradio – alle 6.30 su Radio Fujiko 103.1 e alle 17.00 su Teletricolore 636
Su LEPIDA TV CANALE 118 tutti i giorni della settimana dalle 13.30 alle 14.00 (e il weekend dalle 13):

Lunedì 10 AVoC e Centro Internazionale del Libro Parlato, Voci da dentro

Martedì 11 Poggeschi, Ne vale la pena

Mercoledì 12 CPIA Ferrara con Sonni Boi; Segue Lezioni di cucina con Lost in translation

Giovedì 13 Cantieri Meticci

Venerdì 14 Ginnastica da camera; Segue: Spiritualità Islamica e cultura araba

Sabato 15 (6.00 Radio; 10.30 TV636; 13.00 Lepida): Cappellania della Dozza con Il Vangelo ti è
vicino. Segue (6.30 Radio, 11.00 TV636, 13.30 Lepida): Teatro del Pratello con
Scritture teatrali tra carcere e città. Al termine (6.45 Radio, 11.15 TV 636, Lepida
13.45) la rubrica Parliamo di Buddismo.

Domenica 16 (Ore 6.00 Radio, 10.30 TV636, 13.00 Lepida): CPIA Bologna con School on air. Segue
(Ore 6.30 su radio Fujiko, 11.00 su TV636, 13.30 Lepida) il Teatro dell’Argine

Cover: Carcere di Ferrara, esterno (foto: Cristiano Lega)

UNA VITA MIGLIORE

 

Provai grande delusione quando finirono le speranze di dar vita a una società migliore, trasformata dagli ideali del Sessantotto. Certo quel movimento aveva le sue contraddizioni e la lotta a una società ingiusta era troppo spesso motivata da frustrazioni e rancori personali, dalla noia di un’esistenza troppo comodamente borghese o dall’aspirazione a un potere alternativo non meno elitario. Ma è innegabile che in quel periodo fiorirono nobili ideali di emancipazione e fratellanza tra gli uomini che ancora oggi meritano di essere perseguiti. Per molti anni ho ricercato vanamente un’attività che in qualche modo potesse ridarmi quell’entusiasmo e quella voglia di realizzare qualcosa al di là dell’angusta sfera della dimensione personale.
Poi, un giorno, del tutto casualmente, ho cominciato a praticare lo Yoga e ho appreso così che lo Yoga classico, diversamente da molte fantasiose e discutibili interpretazioni contemporanee, non si limita solo a migliorare la gestione equilibrata delle risorse personali (fisica, energetica e mentale), ma che non può prescindere anche dalla ricerca dell’armonia con l’ambiente circostante: uomini, animali, natura. Questo perché alla base dello Yoga, così come di altre discipline orientali, c’è una visione di sostanziale unità della vita e dell’interdipendenza delle sue manifestazioni. Il benessere profondo, dunque, necessita di realizzare unione con la Vita (yoga vuol dire unione) e svolgere il proprio ruolo in sintonia con gli eventi, in ogni momento della giornata. Centrati quanto più possibile nel Sé interiore, si affrontano le diverse situazioni della vita, cercando di dare il meglio in ogni occasione. Si vive così profondamente soddisfatti per il solo fatto di essere, comunque, dovunque.

Questa visione della vita è evidentemente diversa dalla ricerca della felicità, così come viene intesa nella società occidentale contemporanea, in cui si ricerca generalmente il piacere che deriva dal possedere quantità sempre più crescenti di beni materiali e dalla capacità di assumere ruoli sociali che ci distinguano per importanza e ci facciano sentire ‘migliori’ degli altri. Realizzarsi è diventato desiderare qualcosa, essere qualcuno.
Ma il benessere materiale e il successo personale non sono mai sufficienti, e gli individui, per quanto possano avere o essere, sono ben lontani dalla felicità. Molte persone vivono una tensione ininterrotta e nevrotica verso un piacere effimero e di breve durata; stimolati da una costante pressione dei mezzi di comunicazione, ricercano in modo ossessivo la conquista di sempre nuovi desideri.
Con il prevalere dei valori tecnico-economici, per cui il successo è misurabile in termini di denaro e di notorietà, ci si allontana però dalle esigenze umane più profonde. Manca sempre più un quadro di riferimento condiviso e un comune senso della vita; ciò provoca l’accentuarsi di un individualismo che alimenta un concetto di libertà senza limiti, dove tutto è praticabile per riempire solitudine e vuoto esistenziale. Viene esaltata la retorica di una libertà di scelta che nasconde irresponsabilità, incapacità di autodisciplina e sacrificio. La vita è spesso percepita priva di senso e di scopi degni di essere perseguiti.

Credo sia ormai evidente la necessità di sviluppare un diverso modello sociale, in sintonia con l’attuale globalizzazione, processo di interdipendenze economiche, sociali, culturali, politiche e tecnologiche, che può essere visto come opportunità di operare con una visione unitaria del mondo.
L’importanza del singolo va inquadrata all’interno della comunità umana, dalla quale si può ricevere posizione e significato; è fondamentale che gli individui si sentano uniti dalla consapevolezza di lavorare in una comune direzione e sappiano perseguire esigenze e scopi comuni. Solo se si riesce a vedere il vantaggio di superare i propri interessi particolaristici, si può costruire un mondo giusto e solidale, in cui si ponga un limite allo sfruttamento delle risorse umane e ambientali e si adotti uno sviluppo sostenibile, finalizzando le politiche economiche globali alla lotta contro la disuguaglianza e la povertà. Un tale modello di sviluppo sposa «un modello ‘ecologico’, in base al quale la vita delle parti è tanto migliore quanto migliori sono le relazioni tra le parti» (G, Pasqualotto, East & West, Marsilio).
Risulta ormai urgente porre le basi di un nuovo umanesimo, che metta l’uomo al centro e consideri la tecnica come strumento per la sua realizzazione e felicità, contrastando la tendenza che vede gli uomini al servizio dei beni e della ricchezza. Determinante è un rinnovamento della cultura, tramite l’integrazione di tutte le conoscenze umane, e dell’educazione, con cui alimentare la crescita di individui capaci di costruire un mondo migliore.
Ritengo indispensabile che i diversi tipi di conoscenza sviluppati in ogni parte del pianeta possano connettersi utilmente; in particolare, ritengo auspicabile l’integrazione tra la scienza e la spiritualità.

Lo sviluppo dell’atteggiamento scientifico e del sapere critico-razionale, che hanno portato a indubbi successi relativamente alla qualità e alla durata della vita – (basti pensare agli effetti delle tecnologie di produzione alimentare e della scienza medica) – non è sufficiente a interrogarsi e a progredire sui significati del vivere.
La conoscenza sempre più forte del legame tra gli esseri e il loro mondo, la percezione di questo legame globale è piuttosto l’oggetto caratteristico di una “via del cuore”, una funzione dell’anima, la cui cura resta, ancora oggi, di fondamentale importanza. Proprio l’aspetto spirituale, con la sua visione di una dimensione unitaria dell’uomo e della vita, merita una rinnovata interpretazione, che ispiri azioni di ricerca e sperimentazioni, le quali pragmaticamente offrano soluzioni per superare le attuali criticità sociali dell’Era globale.
Può essere utile una spiritualità che non necessita dell’adesione ad alcun credo religioso, e che al tempo stesso non lo escluda, che non sia necessario catalogare con nessuna formula e che possa essere patrimonio di chiunque, ma che soprattutto si esprima e sia valutata in fatti concreti, in azioni e comportamenti che aiutino il cammino degli esseri umani; che si fondi sulla reale aderenza a principi e valori comuni di fratellanza umana e rispetto dell’ambiente, concretamente espressi nel quotidiano con sentimenti di vicinanza, comunione, condivisione e coesione tra gli esseri. Questi valori devono guidare le scelte, orientare il desiderio, indicare il senso di ogni attività, costituire oggetto fondamentale di trasmissione educativa, fornendo un senso di appartenenza che dia forza per superare le capacità meramente individuali.
Si potrà così coltivare un Uomo globale, che potrà affrontare utilmente le sfide del futuro, comprendendo quanto la collaborazione sia lo strumento più efficace per ottenere i risultati desiderati; egli dovrà avere come obiettivo il migliore destino comune per l’umanità intera, conscio dei legami tra gli individui. Sarà pertanto necessario coltivare apertura mentale, flessibilità e disponibilità a ridiscutere le proprie conoscenze, alla luce di nuove possibilità, trovando ogni volta il pensiero e l’azione più adatta per raggiungere un nuovo equilibrio adatto al mutare degli eventi. Sempre più privo di soluzioni già pronte per l’uso, ovunque e comunque valide, l’essere umano è spinto a sviluppare la consapevolezza, oltre che delle connessioni tra i vari saperi, dei limiti di ognuno di essi e a scegliere liberamente tra più opzioni, nonché a sapere ridiscutere le sue convinzioni quando queste si dimostrino superabili.

Questa consapevolezza è la base più adatta per disegnare un futuro pragmaticamente utile per una visione della vita da cui sviluppare chiarezza, ordine e valore, in sintonia con le conoscenze più moderne. Con questa idea pratico e insegno da molti anni EduYoga, un metodo che ho sviluppato a partire dalle ‘vie’ dello Yoga classico, che ha l’obiettivo di educare il praticante a realizzarsi con generale soddisfazione, esprimendosi in ogni momento della vita con la miglior sintonia possibile al mutare delle situazioni. Ritengo che un percorso di evoluzione e di cambiamento consapevole, nel rispetto delle proprie esigenze e di quelle dell’ambiente circostante, possa supportare lo sviluppo di individui che, migliorando se stessi e le loro relazioni con il mondo che li circonda, siano portatori di benessere, pace e cooperazione.
Nel corso della mia esperienza ho avuto modo di verificare che anche il mondo dello Yoga non nasconde pericoli e contraddizioni. Ho frequentato insegnanti che plagiavano i loro allievi, sono stato costretto ad allontanarmi dalla più grande associazione italiana di insegnanti di yoga perché, insegnando gratuitamente, sono stato accusato di svolgere concorrenza sleale nei confronti dei “professionisti” dello Yoga e ho commesso il terribile errore di credere che donare senza pretendere nulla in cambio fosse in sintonia con un percorso di ricerca spirituale. Ciò nonostante continuo nella mia attività di ricerca e di condivisione perché, indipendentemente dalle inevitabili contraddizioni, penso ancora che perseguire un ideale apprezzabile, seppur con un adeguato senso della realtà, mi aiuti a cercare un’esistenza migliore per me e per gli altri, con i quali condivido questo viaggio della Vita.

25 APRILE A METÀ
radici del razzismo e scheletri negli armadi:
aerei, bombe, iprite e record (VI Parte)

 giulio douhetBombardamenti aerei, armi chimiche, gas nervini, iprite, terra bruciata, terrorismo, sterminio, genocidio: gli orribili record dell’oppressione italiana in Libia. L’impiego operativo dell’aereo come fattore preponderante di superiorità nei conflitti fu teorizzato dall’italiano Giulio Douhet [Vedi qui] nel 1909 e nel 1911 gli italiani in Libia utilizzarono per primi la nuova arma come mezzo di ricognizione e di offesa durante la Guerra italo-turca della Campagna di Libia. Per la prima volta nel mondo, 4 aerostati, 2 dirigibili e 28 aerei furono impiegati a scopo bellico diurno e notturno. BIl 23 ottobre il capitano Carlo Maria Piazza fu l’autore della prima ricognizione tattica, mentre il 1º novembre il sottotenente Giulio Gavotti eseguì da un velivolo in volo il primo bombardamento aereo della storia, volando a bassa quota su un accampamento turco ad Ain Zara e lanciando tre bombe a mano.

aviazione italiana in africa
Attacco aereo italiano in Libia

Gli aerei erano piccoli, potevano caricare modeste quantità di bombe e gli attacchi contro le linee degli arabi o dei turchi sembravano efficaci a livello psicologico più che materiale. I primi anni della Guerra italo-turca, ricordata come ‘Campagna di Libia’, furono per l’arma dell’aeronautica una specie di rodaggio. Un rodaggio che valeva sia per le macchine che per gli uomini e che avrebbe lasciato spazio e tempo allo sviluppo di armi sempre più micidiali e a tecniche di bombardamento sempre più precise. Le vicende della guerra libica fecero sì che cinque o sei anni dopo il suo inizio entrarono in servizio nuovi aerei, più grandi e tecnicamente più capaci di svolgere il ruolo bellico al quale erano stati predisposti e le azioni militari assunsero aspetti diversi.
bombardamenti italiani in africaTra il maggio e l’agosto del 1917 furono eseguite in Tripolitania un centinaio di azioni offensive con il lancio di bombe incendiarie sui campi di cereali dei ribelli, con mitragliamenti nelle oasi di Zanzur, Sidi ben Adem, Fonduc ben Gascir, Fonduc Scrif, Gedida, Agelat, Sormen, Punta Tagiura, Zavia, Azizia.
I campi dei ribelli a Zanzur e a Zavia erano stati bombardati anche nel mese di aprile con 1.270 chilogrammi di liquido incendiario oltre a 3.600 chili di alto esplosivo.La politica italiana nei confronti dei ribelli era già da allora quella della terra bruciata: distruggendo i campi di cereali si costringevano i ribelli, armati e non, ad abbandonare la lotta e a disperdersi verso zone dove sarebbe risultato più facile indebolirli e sottometterli.

Dal 1924 al 1926 gli aerei avevano l’ordine di alzarsi in volo per bombardare tutto ciò che si muoveva nelle oasi non controllate dalle truppe italiane. Non si trattava di azioni militari contro altre forze armate, regolari o ribelli che fossero, bensì di bombardamenti indiscriminati della popolazione civile per fiaccarla e tentare di dividerla dagli uomini in armi.

aviazione italiana la stampa 1932
La prima pagina de La Stampa di Torino celebra i bombardamenti italiani

La politica della terra bruciata e del terrorismo, aveva spinto migliaia di uomini, donne e bambini a lasciare la Libia, chi verso la Tunisia e l’Algeria, chi in direzione del Ciad o dell’Egitto. I morti e i feriti non si potevano contare. E i bombardamenti diventarono più violenti, più scientifici e sperimentali.
Così come il bombardamento terrorista di Guernica nel 1937 fu sperimentale per l’aviazione nazista, l’Arma Aerea Italiana si servì della guerra di Libia per prepararsi alla successiva conquista dell’Etiopia.

L’uso del gas non costituì un episodio isolato, faceva invece parte di un piano preciso e sistematico. I risultati delle incursioni aeree furono attentamente studiati per conoscere non solo il numero delle vittime che immediatamente provocavano come morte chimica, ma anche per conoscere gli effetti ritardati su coloro che risultavano avvelenati dai gas.
E’ un particolare, questo, quasi sconosciuto della guerra di repressione – meglio dire di sterminio – attuata da Rodolfo Graziani [Vedi qui] per conto del governo fascista di Roma contro la popolazione della Tripolitania, del Fezzan e della Cirenaica.
Dal novembre 1929 alle ultime azioni del maggio 1930 l’aviazione in Cirenaica eseguì secondo fonti ufficiali ben 1.605 ore di volo bellico lanciando 43.500 tonnellate di bombe e sparando diecimila colpi di mitragliatrice.

Le fonti, però, non precisano quante tonnellate di bombe erano cariche di iprite.

In Cirenaica pacificata, uno dei volumi con i quali il generale Graziani volle giustificare la sua azione repressiva e rispondere alle accuse di genocidio della popolazione libica che già all’epoca gli vennero rivolte, c’è un breve capitolo sul bombardamento di Taizerbo avvenuto il 31 luglio 1930, sei mesi dopo l’esortazione di Pietro Badoglio all’uso dell’iprite.
Nella lingua dei Tebu, una delle numerose etnie autoctone seminomadi nordafricane, Taizerbo indica ‘sede principale’. Oggi i Tebu vivono più a sud, nelle montagne del Tibesti ubicate parte in Libia, parte in Ciad, ma una volta essi avevano a Taizerbo la sede del loro sultanato: situata duecentocinquanta chilometri a nord‑ovest di Cufra, l’oasi è lunga venticinque‑trenta chilometri, larga dieci ed è solcata nel mezzo da un avvallamento che contiene stagni salmastri e saline. All’epoca dell’intervento italiano vi si trovavano gruppi di palme, tamerici, acacie, giunchi e vi sorgevano una decina di nuclei abitati. Per la conquista di Cufra, sede della Senussia, centro spirituale della resistenza anti italiana e roccaforte dell’imam Omar el Mukhtar, Taizerbo era considerata un’oasi di grande importanza strategica.

Scriveva Graziani: “Per rappresaglia, ed in considerazione che Taizerbo era diventata la vera base di partenza dei nuclei razziatori il comando di aviazione fu incaricato di riconoscere l’oasi e – se del caso – bombardarla. Dopo un tentativo effettuato il giorno 30 – non riuscito, per quanto gli aeroplani fossero già in vista di Taizerbo, a causa di irregolare funzionamento del motore di un apparecchio – la ricognizione venne eseguita il giorno successivo e brillantemente portata a termine. Quattro apparecchi Ro, al comando del ten.col. Lordi, partirono da Giacolo alle ore 4.30 rientrando alla base alle ore 10.00 dopo aver raggiunto l’obiettivo e constatato la presenza di molte persone nonché un agglomerato di tende. Fu effettuato il bombardamento con circa una tonnellata di esplosivo e vennero eseguite fotografie della zona. Un indigeno, facente parte di un nucleo di razziatori, catturato pochi giorni dopo il bombardamento, asserì che le perdite subite dalla popolazione erano state sensibili, e più grande ancora il panico”.

Vincenzo Lioy, autore di un libro sul ruolo dell’aviazione in Libia (Gloria senza allori, Associazione Culturale Aeronautica), ha ripreso senza modificarla di una virgola la versione riferita da Graziani nel suo libro.
Ma Graziani aveva tralasciato l’importante particolare dell’uso di grandi quantità di iprite ed aveva omesso una relazione agghiacciante che gli era pervenuta qualche mese dopo sugli effetti del bombardamento. Questa relazione, regolarmente archiviata, era a disposizione di Lioy quando fece la sua ricerca. Da un rapporto firmato dal tenente colonnello dell’Aeronautica, Roberto Lordi, comandante dell’aviazione della Cirenaica (rapporto che Graziani inviò al Ministero delle colonie il 17 agosto) si apprende che i quattro aerei Ro erano armati con 24 bombe da 21 chili ad iprite, da 12 bombe da 12 chili e da 320 bombe da 2 chili. Stralciando dalla relazione la parte che si riferisce all’avvicinamento, si può leggere “(…) in una specie di vasta conca s’incontra il gruppo delle oasi di Taizerbo. Le palme, che non sono molto numerose, sono sparpagliate su una vasta zona cespugliosa. Dove le palme sono più fitte si trovano poche casette. In prossimità di queste, piccoli giardini verdi, che in tutta la zona sono abbastanza numerosi; il che fa supporre che le oasi siano abitate da numerosa gente. Fra i vari piccoli agglomerati di case vengono avvistate una decina di tende molto più grandi delle normali e in prossimità di queste numerose persone. Poco bestiame in tutta la conca. II bombardamento venne eseguito in fila indiana passando sull’oasi di Giululat e di el Uadi e poscia sulle tende, con risultato visibilmente efficace.

II primo dicembre dello stesso anno il tenente colonnello Lordi inviò a Roma copia delle notizie sugli effetti del bombardamento a gas effettuato quel 31 luglio sulle oasi di Taizerbo “ottenute da interrogatorio di un indigeno ribelle proveniente da Cufra e catturato giorni or sono”.
E’ una testimonianza raccapricciante raccolta materialmente dal comandante della Tenenza dei carabinieri reali di el Agheila: “Come da incarico avuto dal signor comandante l’aviazione della Cirenaica, ieri ho interrogato il ribelle Mohammed abu Alì Zueia, di Cufra, circa gli effetti prodotti dal bombardamento a gas effettuato a Taizerbo. II predetto, proveniente da Cufra, arrivò a Taizerbo parecchi giorni dopo il bombardamento, seppe che quali conseguenze immediate vi sono quattro morti. Moltissimi infermi invece vide colpiti dai gas. Egli ne vide diversi che presentavano il loro corpo ricoperto di piaghe come provocate da forti bruciature. Riesce a specificare che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva ricoperto da vasti gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoruscita di liquido incolore. Rimaneva così la carne viva priva di pelle, piagata. Riferisce ancora che un indigeno subì la stessa sorte per aver toccato, parecchi giorni dopo il bombardamento, una bomba inesplosa, e rimasero così piagate non solo le sue mani, ma tutte le altre parti del corpo ove le mani infette si posavano”.

carico di armi chimiche per la Siria
2 luglio 2014: la nave cargo danese “Ark Futura” si prepara al trasbordo di armi chimiche dirette in Siria nel porto di Gioia Tauro, (Autore: LaPresse / AP / ADRIANA SAPONE | Ringraziamenti: LaPresse Copyright: LaPresse – licenza Flickr)

Secondo l’Enciclopedia Americana l’iprite può provocare malattie ereditarie ed i suoi effetti si potrebbero riscontrare, perciò, non solo nelle persone direttamente colpite dai bombardamenti ma anche nei loro discendenti. La Treccani afferma che questo aggressivo chimico, chiamato anche ‘gas mostarda’, venne usato dall’esercito tedesco nel settore di Ypres, Belgio, nel corso della prima guerra mondiale e attacca tutte le cellule con le quali viene in contatto, distruggendole completamente. Con la respirazione i vapori d’iprite entrano nel circolo sanguigno, distruggono i globuli rossi, producendo rapidamente la morte.
Non c’è dubbio che l’effetto dei gas sulla popolazione libica, priva peraltro di qualsivoglia possibilità di ricorrere a moderne cure mediche, dovesse risultare micidiale. L’uso dell’iprite, che doveva diventare un preciso sistema di massacro della popolazione civile in Etiopia qualche anno più tardi, fu certamente una scelta sia militare che politica così come i bombardamenti della popolazione civile in Libia doveva corrispondere a scelte di colonizzazione ben precise e sistematiche.

Leggi la Prima Parte [Qui]la Seconda [Qui],la Terza [Qui], la Quarta [Qui], La Quinta [Qui]

Franco Ferioli, l’inviato di Ferraraitalia nel tempo e nello spazio, è il curatore della rubrica Controinformazione. C’è un’altra storia e un’altra geografia, i fatti e misfatti dell’Occidente che i media preferiscono tacere, che non conosciamo o che preferiamo dimenticare. CONTROINFORMAZIONE ci racconta senza censure l’altra faccia della luna,

Ferrara in Movimento:
“Appello alla città per la difesa delle biblioteche”
Firma anche tu…

Il quotidiano online Ferraraitalia ha firmato all’appello per la difesa e il rilancio delle biblioteche di pubblica lettura e invita tutti i suoi lettori ad aderire.
(La redazione)

Appello alla cittadinanza
Vogliamo che le biblioteche tornino a dar vita al territorio

Le biblioteche comunali costituiscono una realtà importante per la costruzione e la diffusione della cultura nel territorio. Almeno per chi, come noi, pensa alla cultura non semplicemente come “fattore produttivo” o elemento di attrazione per il turismo, ma come ricchezza collettiva che fa crescere l’insieme della comunità, aiuta a costruire un pensiero informato e critico, crea legami sociali e di
cittadinanza tra le persone.
Da molti anni ormai non si investe sul sistema bibliotecario, che è stato lasciato a se stesso e che è andato verso un progressivo restringimento, ulteriormente aggravato dalle chiusure dovute alla pandemia. La voce dei cittadini e dei bibliotecari per invertire questa tendenza non è mancata. Solo per riprendere le iniziative messe in campo ultimamente, alla fine del 2019 9 è stata promossa, da
parte dell’assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori, con il sostegno dei sindacati di categoria CGIL CISL UIL, una petizione rivolta all’Amministrazione comunale sottoscritta da 2000 cittadini per rilanciare il sistema bibliotecario pubblico e tra settembre e ottobre del 2020, si sono svolti presidi davanti alle biblioteche Rodari, Porotto, S.Giorgio e Bassani per sottolineare la grave situazione in cui si trovano e le mancate risposte sui problemi aperti.

Il gruppo Cittadine e cittadini a difesa delle biblioteche che ha animato queste iniziative si rivolge alla cittadinanza, all’associazionismo, ai sindacati, alle forze sociali e politiche perché riteniamo che adesso serve una svolta nelle politiche culturali e nel ruolo delle biblioteche
pubbliche della città. In specifico, pensiamo che occorre mettere a punto un progetto complessivo per il rilancio del sistema bibliotecario pubblico, fondato sui seguenti punti:
– riapertura di tutte le biblioteche comunali con orari e modalità di fruizione analoghe a quelle esistenti prima della pandemia, ovviamente misurandoci con la situazione esistente e con la sua evoluzione;

– assunzione di un numero congruo di bibliotecari/e comunali, tramite concorsi pubblici che lo stesso governo dice di voler velocizzare, per risolvere il loro sottodimensionamento causato dai numerosi pensionamenti verificatisi negli ultimi anni e della mancata sostituzione degli stessi;

– elaborazione di un piano di potenziamento dell’offerta bibliotecaria pubblica, comprensiva dell’apertura di una nuova biblioteca nell’area Sud della città, che va comunque discussa nella sua dislocazione, nel suo rapporto con l’attuale biblioteca Rodari e nelle sue caratteristiche, dando vita ad un Tavolo partecipativo con tutti i soggetti interessati;

– conferma della gestione pubblica del sistema bibliotecario cittadino, non prevedendo quindi ipotesi di esternalizzazioni delle biblioteche decentrate Luppi, Tebaldi e Rodari. Al massimo, in via transitoria, tale scelta potrebbe realizzarsi per un periodo di tempo limitato, per consentire il rilancio del sistema bibliotecario pubblico, definendo quindi una data ravvicinata per la reinternalizzazione del servizio. In ogni caso, va comunque garantita la parità di diritti e di salario alle lavoratrici/ori coinvolti nell’eventuale esternalizzazione;

– promozione di un modello di gestione delle biblioteche che non si limiti alla sola distribuzione dei libri, di per sé elemento prioritario, ma, sia luogo di incontro con tutti i soggetti interessati alla promozione culturale, costruendo collaborazioni con tutte le scuole di ogni ordine e grado dei quartieri, interventi di guida alla lettura, animazione teatrale e culturale di riferimento anche per giovani e anziani.

Gruppo cittadine e cittadini a difesa delle biblioteche

Nel giro di 4 giorni sono state raccolte, 570 firme di cittadine e cittadini ferraresi e l’adesione di 26 tra Associazioni, forze sociali (le firme sono in calce). La raccolta firme continuerà anche nei prossimi giorni.
Per contatti:
Ridolfi Silvia   328.3912012
Pasti Ilaria      347.9532282
Oddi Corrado 342.9218650

Adesioni di Associazioni e forze sociali e politiche

ANPI
Associazione CIRCI
Associazione Cohousing Solidaria Ferrara
Associazione Orto Condiviso Ferrara
Associazione Piazza Verdi
Associazione Viale K
Azione Civica
Biblioteca popolare Giardino
Biblioteca UDI
Città in bici, l’informazione ciclabile
Cittadini del Mondo
Comitato delle famiglie di Ferrara
FerraraItalia quotidiano online
FP CGIL
Gruppo informale Parcolibro S. Bartolomeo in Bosco
Gruppo MCE Ferrara
Il Battito della Città
Intercultura Onlus, Centro Locale di Ferrara
Korakoinè APS
Priorità alla scuola Ferrara
Rifondazione comunista
Sardine Ferrara
Sinistra Italiana
Sinistra per Ferrara
Sonarte APS
UILFPL

Adesioni individuali all’appello
1) Bondanelli Elisabetta
2) Testoni Gloria
3) Venturoli Ombretta
4) Bondi Loredana
5) Chendi Arianna
6) Mezzetti Corinna
7) Cavalieri Gabriella
8) Ferrari Teresa
9) Cuoghi Tito
10) Giuliana Castellari
11) Galdi Elena Mariolina
12) Andreotti Elisa
13) Rasetti Luigi
14) Ridolfi Silvia
15) Grata Caterina
16) Pasti Ilaria
17) Tamari Giuliana
18) Marsili Marzia
19) Maccapani Matilde
20) Maccapani Gino
21) Cappozzo Lorella
22) La Torre Lidia
23) Scaramuzza Maria Teresa
24) Bannò in Galliani Laura
25) Schiavi Rita
26) Biolcati Fabio
27) Cirelli Zelima
28) Collini Silvana
29) Borsetti Silvia
30) Bersanetti Graziana
31) Rinaldi Raffaele
32) Oddi Corrado
33) Faccini Annamaria
34) Giovannoni Beatrice
35) Aldighieri Valerio
36) Pirani Claudia
37) Andreatti Giuliana
38) Pusinanti Cinzia
39) Kiwan Kiwan
40) Crepaldi Giampaolo
41) Bressan Lucia
42) Bottoni Stefano
43) Baraldi Alma Maria
44) Ravani Paolo
45) Messina Stella
46) Bonfà Silvia
47) Gabrielli Rita
48) Bottoni Edgarda
49) Lucina Letizia
50) Catani Oscar
51) Catani Irene
52) Venturoli Carlo
53) Belsito Andres
54) Fazzari Giuseppe
55) Melloni Federica
56) Calmistro Marco
57) Fergnani Patrizio
58) Satta Grazia
59) Contarini Marina
60) Gambi Silvano
61) Franz Gianfranco
62) Gabrielli Paolo
63) Pirani Cinzia
64) Poggi Tosca
65) Meliga Raffaele
66) Travagli Alessia
67) Pedriali Luca
68) Pisante Roberta
69) Grimaldi Lucia
70) Capozzolo Michele
71) Bovinelli Anna Maria
72) Lombardelli Annalisa
73) Ferraresi Marco
74) Pagani Roberta
75) Monteleone Federica
76)Monteleone Iolando
77) Pinnavaia Giangaetano
78) Andreotti Leonardo
79) Bertelli Stefano
80) Paparella Daniele
81) Bordini Maria
82) Bertoni Laura
83) Cavallini Stefano
84) Monini Francesco
85) Ghezzo Luisa
86) Ferraresi Caterina
87) Bonini Roberta
88) Travagli Simonetta
89) Rossi Eleonora
90)Bazzi Adriana
91) Capponi Anna
92) Famà Samantha
93) Zecchi Paola
94) Simonetta Fabian
95) Vita Finzi Rita
96) Marzola Sara
97) Balbo Rita
98) Azzi Massimiliano
99) Paliotto Elisabetta
100) Danieli Paola
101) Pagagnoni Fabrizio
102) Lombardi Paola
103) Galliani Vittorio
104) Galliani Tommaso
105) Galliani Gregorio
106) Galliani Rebecca
107) Galliani Virginia
108) Galliani Ginevra
109) Galliani Giuseppe
110) Braglia Maria Pia
111) Deledda Anna
112) Ferranti Marco
113) Cassoli Roberto
114) Lodi Bracciano
115) Mambriani Paola
116) Veronesi Elisa
117) Giorgi Dario
118) Tommasini Oriano
119) Antibo Rosaria
120) Giovanna Foddis
121) Tinazzo Anna
122) Rinaldi Rosalino
123) Mosso Angela
124) Frigeri Martina
125) Buzzoni Denise
126) Mariotto Tiziana
127) Casari Francesca
128) Bandinelli Roberta
129) Rauli Simona
130) Pellizzari Davide
131) Spanò Laura
132) Rubini Luca
133) Parmeggiani Elisabetta
134) Pinotti Erika
135) Mihaela Andrei
136) Mori Antonella
137) Gessi Sergio
138) Turchi Marco
139) Baratelli Fiorenzo
140) Baratella Luciana
141) Parmeggiani Daniela
142) Dalloca Sergio
143) Micai Sandra
144) Grossi Alessandra
145) Castagnotto Paola
146) Ronchi Alberto
147) Stefanati Gianni
148) Guarnieri Antonella
149) Zanoli Gustavo
150) MarchiMarzia
151) Morganti Antonella
152) Pieragostini Stefano
153) Blerina Feshti
154) Klodian Omuri
155) Tasselli Chiara
156) Simani Andrea
157) Menegatti Riccardo
158) Martulli Monnalisa
159) Pasquali Massimo
160) Kushnir Nataliya
161) Grotti Emanuela
162) Dario De Vivo
163) Gjini Mondi
164) Gjini Klodjana
165) Beltrami Maria Cristina
166) Tromba Cristiano
167) Porretta Chiara
168) Golinelli Sergio
169) Diolaiti Barbara
170) Guerrini Pierluigi
171) Guerzoni Paola
172) Ronchi Stefanati Michele
173) Bianchi Matteo
174) Barbujani Chara
175) Casanova Davide
176) Marzocchi Alessandra
177) Malaguti Maria
178) Rinaldi Roberto
179) Tabacchi Luigi
180) Celeghini Marcello
181) Zerbini Annamaria
182) Stefanini Milena
183) Pasetti Ombretta
184) Gregori Fabiana
185) Lepri Patrizia
186) Cornero Ettore
187) Rossi Gabriella
188) Zabini Matteo
189) Zabini Michele
190) Borini Anna
191) Marzi Davide
192) Bregoli Maria
193) Paganelli Maria
194) Piva Ida
195) Fusari Roberta
196) Barillari Antonio
197) Ferrigato Cristina
198) Padovani Stefano
199) Righetti Elena
200) Gioberti Sofia
201) Di Mella Patrizia
202) Bassi Paolo
203) Fioranelli Cinzia
204) Fregola Teresa
205) Manfredini Mauro
206) Felloni Daniela
207) Gallinelli Franco
208) Mondini Maria Grazia
209) Peca Debora
210) Sandri Massimo
211) Sandri Gianluca
212) Galeotti Gioia
213) Mori Roberta
214) De Michele Girolamo
215) Sacchi Luciano
216) Degasperi Sabrina
217) Bonino Barbara
218) Angeloni Patrizia
219) Goberti Alessandra
220) Mastella Maria Luisa
221) Roncatti Edoardo
222) Schmid Sandro
223) Ceramelli Jacopo
224) Cesarini Giada
225) Bonora Francesca
226) Collini Silvana
227) Forlani Chiara
228) Ferro Daniele
229) Finchi Giovanni
230) Preti Elisabetta
231) Zaniboni Gloria
232) Orioli Sara
233) Malacarne Andrea
234) Monini Tullio
235) Atti Raffaele
236) Martinelli Riccardo
237) Rossetti Sandra
238) Rostellato Marta
239) Dedè Cristina
240) Rongioletti Damiano
241) Ravagli Vittoria
242) Calabrese Maria
243) Utili Antonio
244) Cardinali Sandro
245) Frilli Maria Grazia
246) Di Pietro Adriana
247) Chiappini Anna
248) Trentini Diego
249) Bertaglia Nadia
250) Pazzi Paolo
251) Paparella Daniele
252) Trevisan Rossella
253) Peccenini Raffaele
254) Montezemolo Antonella
255) Bellistrazzi Giorgina
256) Pesci Elisa
257) Tassinari Cardin Marisa
258) Spettoli Elisa
259) Magrini Anna
260) Binelli Riccardo
261) Ferraresi Anna
262) Maregatti Lorenzo
263) Schiavi Daniela
264) Gavioli Morena
265) Sacchi Rita
266) Ricci Linda
267) Grillo Ludovica
268) Carion Alessandra
269) Scalabrino Sasso Giorgio
270) Soria Laura
271) Marzocchi Simone
272) Marabese Cristina
273) Soavi Gloria
274) Zucchini Emanuela
275) Galdi Maria Rosaria
276) Bonfante Tiziana
277) Graziani Marina
278) Tacchini Giorgio
279) Cogo Marcella
280) De Vivo Andrea
281) Sgarzi Dario
282) Baraldi Valeriana
283) Cogo Sergio
284) Ferretti Francesca
285) Ariatti Sara
286) Longhini Fiorella
287) Bajo Gena
288) Cataldo Daniela
289) Cenacchi Lorenza
290) Toschi Giulia
291) Nadalini Armanda
292) Galdi Elena Mariolina
293) Marzola Giuseppina
294) Ferretti Patrizia
295) Grata Giovanna
296) Mancino Rita
297) Sateriale Isabella
298) Zecchi Lucia
299) Sandri Cristiana
300) Pintus Federica
301) Cigala Francesca
302) Bergonzoni Luigi
303) Zanotti Claudia
304) Francesconi Ornella
305) Felisatti Morena
306) Merchiori Sebastiano
307) Burini Antonella
308) Savaglio Patrizia
309( Raisi Barbara
310) Sacchetto Elena
311) Ghiglione Lucia
312) Ciciliati Silvia
313) Peretto Silvia
314) Pocaterra Patrizia
315) Magnani Lara
316) Balboni Paolo
317) Mozzetti Lucilla
318) Piccini Filippo
319) Flachi Amedeo
320) Scida Alessandra
321) Magnani Renato
322) Fogli Leonardo
323) Nespolo Sonia
324) Cimino Federica
325) Stocchi Stefania
326) Bertacchini Giorgio
327) Gulinelli Daniele
328) Boschi Giuseppina
329) Palmisano Elisabetta
330) Ramaziotti Patrizia
331) Palmisano Serena
332) Rossi Davide
333) Massari Maria Caterina
334) Rossi Fabiana
335) Conoscenti Gianfranco
336) Talachian Matie
337) Soriani Margherita
338) Poli Davide
339) Soriani Angela
340) Vicentini Maria Teresa
341) Battaglioli Andrea
342) Battaglioli Nikolas
343) D’Olio Carla
344) Roboni Marco
345) Ferrari Loredano
346) Papandrea Donatella
347) Ghinato Rina
348) Semenza Pietro
349) Pedrinazzi Cristina
350) Moretti Graziella
351) Vaianella Sara
352) Morelli Maria Michela
353) Glanas Monika
354) Akhoundzadeh Yousefi Saba
355) Marzocchi Orazio
356) Di Pietro Adriana
357) Fontana Letizia
358) Bonfiglioli Maria
359) Ferioli Sara
360) De Giorgio Cecilia
361) Rossi Francesca
362) Rizzuti Olivia
363) Bianchini Sabrina
364) Ghelfi Ilaria
365) Balboni Maria Chiara
366) Del Favero Laura
367) Bortot Valentina
368) Bersanelli Sonia
369) Tonioli Annarita
370) Mavrikou Evangelia
371) Fattoumi Rihan
372) Pasqualini Roberto
373) Festa Lorena
374) Argento Angelo
375) Geusa Maurizio
376) Cervellati Anna
377) Sarto Davide
378) Munerati Massimo
379) Sulsenti Cristina
380) Martucci Nicola
381) Haro Tatiana
382) Leone Lorena
383) Baglioni Daria
384) Fratti Lara
385) Luciano Daniela
386) Mafodda Antonino
387) Salerno Pietro
388) Faggioli Ilaria
389) Savytska Oksana
390) Pavani Alice
391) Ruscigno Cecilia
392) Piazzi francesco
393) Aleotti Jessica
394) Forini Maria Elena
395) Masini Irene
396) Protomastro Antonia
397) Ferioli Paolo
398) Boarini Claudia
399) Zanella Lara
400) Pareschi Antonia
401) Caraffa Sandra
402) Flachi Giuditta
403) Boccafogli Anna
404) Zerbini Antonella
405) Calvi Claudia
406) Ceci Milena
407) Andreotti Claudia
408) Massellani Francesca
409) Bonati Elena
410) Game Malvina
411) Fabbri Cristina
412) Guerzoni Linda
413) Longhini franca
414) Accorsi Tiziano
415) Gamberoni Roberto
416) Fiorini Giuliano
417) Gaspa Paola
418) Bussolari Alessandra
419) Salmi Arianna
420) Bottoni Andrea
421) Galvani Irene
422) Finetti Daniela
423) Bellinazzi Susanna
424) Dieni francesco
425) Givanni Isabella
426) Orlandi Claudio
427) Biolcati Maurizio
428) Roncagli Laura
429) Rossi Eleonora
430) Gallio Rissana
431) Disarò Antonietta
432) Fergnani Maria Graziana
433) Slujitoru Valentina
434) Cavallari Serena
435) Natale Giovanna
436) Masetti Sara
437) Aragrande Gaia
438) Orlandi Annalisa
439) D’Amore Cristiana
440) Casadei Marta
441) Piazzati Luisa
442) Bolognesi Elisabetta
443) Bovi Vittorio
444) Chiappini Alessandra
445) Dominici Paola
446) Di Vece Francesca
447) Marchetti Elena
448) Zappaterra Manuela
449) Cappelli Anita
450) Zaccaria Silvia
451) Mattioli Luciana
452) Bianchi Giancarlo
453) Bonati Mario
454) Barbagallo Santina
456) Perrone Maria Sole
457) Rizzati Anna Rita
458) Scalambra Tonina
459) Fioravanti Anna Maria
460) Tassoni Costanza
461) Furini Damiano
462) Bononi Ilaria
463) Padovani Anna
464) Mori Simone
465) Previati Cristiana
466) Ferraresi Chiara
467) Poggipollini Paola
468) Marzola Luca
469) Pesci Antonella
470) Rona Tiziana
471) Michelazzo Cristina
472) Varani Vanna
473) Bellani Rolando
474) Cantoni Arianna
475) Ferioli Secondo
476) Mellone Francesca
477) Rossi Valentina
478) Bregola Daniele
479) Ferraresi Giovanni
480) Varani Vannia
481) Ciulla Maria Grazia
482) Ferrari Lucia
483) Morgagni Patrizia
484) Tromboni Delfina
485) Borgatti Paola
486) Gennari Franco
487) Cazzola Gabriele
488) Borgatti Maria Pia
489) Papi Paolo
490) Romagnoli Renza
491) Romanini Mauro
492) Comparato Laura
493) Rossi Valentina
494) Poltronieri ilaria
495) Bonsi Beatrice
496) Taddia Simona
497) Roncarati Paola
498) Finetti Gabriella
499) Borgogni Antonella
500) Orlandi Camilla
501) Cardinali Mariela
502) Neri Maria Cristina
503) Lioi Maria
504) Zuari Isabella
505) Lanzoni Monica
506) Bacilieri Claudia
507) Marchetti Sabina
508) Amarandi Giuliana
509) Pedroni Marino
510) Simoni Roberta
511) Sandri Federica
512) Stagni Carla
513) Randi Franca
514) Leonardi Barbara
515) Scialpi Tiziana
516) Faccini Beatrice
517) Cappagli Daniela
518) Giglioli Rodolfo
519) Stefani Piero
520) Sitta Davide
521) Borghesani Gianna
522) Golfieri Marco
523) Ammirati Angela
524) Furlan Simone
525) Venturi Gianni
526) Migliardi Giulia
527) Rondanin Fabrizia
528) Ferrari Massimo
529) Domanico Rosa
530) Iannaccone Anna
531) Nannini Milvia
532) Bonora Andrea
533) Borghi Valeria
534) Castellazzi Silvia
535) Baraldi Maria Lisa
536) Grillo Ludovica
537) Martinelli Annapia
538) Sandri Donata
539) Scaglianti Davide
540) Lazzari Andrea
541) Forini Giorgio
542) Corà Michela
543) Natati Claudio
544) Zucchini Nicoletta
545) Barbieri Piera
546) Grechi Rodolfo
547) Leo Grazia
548) Benini Eleonora
549) Gardin Myriam
550) Rizzioli Alessandra
551) Bettini Lorenza
552) Rosatti Eleonora
553) Mazzanti Stefania
554) Iodice Assunta
555) Bertoncello Barbara
556) Bagno Maria
557) Bellettini Annarita
558) Stefanini Patrizia
559) Cella Silvia
560) Canfora Ida
561) Manganello Grazia
562) Cosi Maria Donata
563) Rondini Enza
564) Guidetti Federico
565) Quercioli Manuela
566) Bandiera Andrea
567) Martelli Cinzia
568) Buzzoni Massimo
569) Bandiera Sofia
570) Verri Roberta

Eurozona:
Gli squilibri della bilancia commerciale

La Banca Centrale Europea ha pubblicato i dati sulla bilancia dei pagamenti dell’Eurozona chiusi a febbraio del 2021 e da questi risulta un saldo attivo di 259 miliardi, che rappresenta il 2,3% del Pil. Il valore è in lieve calo rispetto a Febbraio dell’anno precedente ma rimane sotto stretta osservazione da parte della Commissione europea che l’ha giudicata una delle principali fonti di squilibrio per i paesi che utilizzano la moneta unica.
Questi i saldi:

L’infografica di seguito ci dice verso chi vantiamo questi crediti.

Come si nota, gli Stati Uniti sono il partner privilegiato per volume di interscambio e con loro abbiamo un saldo attivo di 79 miliardi mentre la Cina si trova in territorio negativo, cioè l’eurozona compra dai cinesi più di quello che loro comprano da noi.
Il Regno Unito è stato invece il Paese che ci ha dato più soddisfazioni. Anche in questo caso l’interscambio è molto alto, il che è sintomo di ottimi rapporti commerciali, ma è anche chiaro che i britannici comprano dall’Eurozona molto di più di quello che vendono ed infatti vantiamo nei loro confronti un surplus di 151 miliardi di euro. Elemento che dovrebbe essere tenuto in debita considerazione quando si discute di accordi politici post brexit.
All’inizio si è parlato di squilibri, ma perché un surplus sarebbe pericoloso almeno quanto un deficit?
Nell’eurozona abbiamo una sola moneta per 19 paesi ma non abbiamo una sola bilancia commerciale e di conseguenza il surplus non è distribuito equamente, come si vede dai dati Oecd.

Il deficit di un paese nei confronti dell’estero può essere percepito dai mercati come un elemento di rischio, questo perché quel paese potrebbe ritenere che per ristabilire la propria competitività con il resto del mondo sarebbe conveniente uscire dall’euro in modo da abbassare il proprio rapporto di cambio, cioè per poter svalutare in modo da rendere le proprie merci più convenienti.
I paesi in surplus commerciale consistente avrebbero pochi vantaggi a lasciare una moneta che tiene basso il loro cambio e che quindi rende competitive le loro merci, ma poiché il rapporto con l’estero di tutta l’Eurozona è determinata da un unico tasso di cambio, il surplus di alcuni paesi implica il deficit di altri paesi dell’area euro.
Ciò che bisognerebbe incentivare, secondo la Commissione europea, è un aumento della domanda interna in quei paesi che riescono ad accumulare maggiore risorse finanziarie dall’estero. L’invito ad incrementare le politiche fiscali, a seconda del portafoglio, era arrivato anche da Draghi quando era presidente della Bce.
Buoni risultati si potrebbero ottenere con una diminuzione della tassazione diretta oppure con aumenti salariali, cioè lasciando o dando più soldi ai cittadini, in particolare sarebbero chiamati a farlo Germania e Olanda. Paese quest’ultimo che a fronte di una popolazione di poco più di 17 milioni di abitanti ha un surplus maggiore di quello dell’Italia.
Oltre allo squilibrio interno ne esiste comunque anche uno esterno e relativo proprio al cambio nei confronti del dollaro, che sta continuando pericolosamente ad apprezzarsi con il rischio di ulteriori tensioni. Un aumento dell’inflazione dovuto ad un aumento della spesa interna porterebbe dei benefici, farebbe da calmiere e porterebbe a un deprezzamento del rapporto di cambio. L’euro, bisogna ricordare, non può contare su aiuti diretti in tal senso dalla Bce, a cui è vietato per statuto, e quindi se l’eurozona non imparerà a risolvere i suoi squilibri in nome di una migliore convivenza, l’equilibrio sarà sempre di più demandato al mercato, cioè alla forza e non alla solidarietà, oppure alla volontà degli stati più forti, che dovrebbero decidere di pensare un po’ di più agli altri e un po’ meno a se stessi.

Il topo spaziale
(racconto di un prossimo virus)

 

Ho un inquilino nella mia cabina. È già da un po’ che lo seguo nei suoi spostamenti. Beh non è proprio come uno se lo aspetterebbe. Prima di riuscire a chiudere occhio, lo sento mentre graffia con le zampe le pareti di lega. Cazzo, mi fa imbestialire quel rumorino notturno, specie quando sai che la notte qui non esiste e il giorno men che meno.
Una specie di topo. In ogni stiva ce n’è almeno uno, anche in quelle spaziali. Non è proprio come quelli di Terra, ha le orecchie più allungate tipo pipistrello e gli occhi di lince per guardare meglio nel buio. L’ho visto in un documentario a casa. Sono chiuso in questo buco, nel culo dell’universo fino a data da destinarsi. Forse dovrei farmelo amico. Dovrei allungargli un po’ della mia razione giornaliera e passare del tempo con lui. Sì forse dovrei.

«Ehi rifiuto, alzati, andiamo dal capitano Douglas, vuole fare due chiacchiere con te».
«Il tuo capitano lo sa che tratti così i suoi ospiti?».
«Sei proprio spiritoso numero 56, questo è solo il benvenuto, vedrai che risate con il capitano».
E mi prende di forza per il braccio, il bastardo, senza esitazione.
«Ah bene, finalmente un po’ d’intrattenimento. Cominciavo ad annoiarmi».

La cabina del famoso capitano Douglas era al 16° piano dell’enorme nave spaziale Tiberius, che faceva capo a una delle più grandi e fottute multinazionali del globo.
In realtà, era molto probabile che la società che dirigeva alcuni tra i più squallidi esperimenti terrestri, non esistesse più. Forse nemmeno tutto quel fottuto mondo che conoscevamo, che con le esplorazioni spaziali era rimasto solo un piccolo pianeta chiamato Terra, esisteva più. Erano anni che non si registravano comunicazioni da Terra, e nessuno se ne preoccupava. Tutti continuavano il loro lavoro nelle sedi distaccate, senza chiedersi il perché e seguendo gli ordini impartiti da Terra una decina di anni addietro. Per la Tiberius invece la scusa era sempre quella, mandare in avanscoperta un manipolo di scienziati in giro per lo spazio, per trovare una risposta alla malattia che stava sterminando la nostra razza. Certo quel bastardo di un virus – se davvero di virus si trattava – non aveva attaccato tutti indistintamente. Era ingegnoso, aveva ucciso solo i bambini. E quello che più faceva paura era che i poveretti non si ammalavano di febbre o chissà cosa – per poi morire come cristo comanda – quei mocciosi diventavano improvvisamente vecchi e decrepiti, fino a tirare le cuoia. Bah, trovare una risposta adesso che senso poteva avere? In dieci anni chissà che cazzo era successo lì. Che tipo di ottusaggine porta una massa di scienziati idioti a cercare risposte anche senza un vero motivo? Denaro e notorietà. Niente era cambiato. Nonostante si fossero superati da tempo i confini della galassia.
Comunque sia, non era certo bello per i genitori – lo devo ammettere – con tutte le restrizioni legali per avere una discendenza e tutti i problemi di procreazione degli ultimi anni, veder invecchiare un figlio invece della nonna. Non era davvero naturale.
Dopo tutto di naturale non era rimasto più molto ormai.

Nella lussuosissima cabina del capitano c’era la moquette più costosa e morbida che avessi mai visto, o meglio, calpestato. Che fosse stata di pelle umana? Era probabile. Questi scienziati non riescono mai a distinguere tra cosa è umano e cosa non lo è. Il più delle volte cercano di innestare impianti emozionali in un robot mentre riempiono – da capo a piedi – un povero cristo di chissà quali diabolici aggeggi meccanici.
Ci provano gusto a fare questi scambi, quasi fosse necessario. Quei bastardi avevano carta bianca quando si trattava di materiale umano da laboratorio, e io non facevo eccezione. Si facevano passare per medici e ci tenevano alla nostra salute. Sì che ci tenevano, da quando quella fottuta malattia era arrivata, subito seguita dal potere di decidere delle nostre vite.

«Signor John Earthman, come lei ben saprà abbiamo avuto l’autorizzazione per prelevarla dalla sua abitazione su Marte, semplicemente per qualche accertamento».
«Non ricordo di aver fatto nessuna richiesta del genere, tantomeno di aver rilasciato la mia autorizzazione».
«Signor Earthman, non sia sciocco. Lei sa benissimo che non c’è bisogno di nessuna richiesta né autorizzazione da parte sua. Ad ogni modo non deve preoccuparsi. Le faremo solo una piccola serie di analisi e accertamenti, quindi la terremo sotto osservazione per qualche settimana. Nessuno è mai morto per questo».
«Lo dice lei. Ne ho di amici ritornati ciechi o zoppi nel migliore dei casi. E nei peggiori… ».
«Solo cattiva pubblicità, signor Earthman. Solo cattiva pubblicità. Lei non ha niente di cui preoccuparsi qui sulla nave».
«La porteremo in camera sua appena finito il tutto, buona permanenza».

Lo stronzo predicava bene – pensavo – mentre due guardie mi portavano in laboratorio. Cosa cazzo c’entravo io coi bambini? Con la malattia? Perché proprio io, un adulto, che aveva vissuto quasi sempre su Marte e che della Terra aveva sentito parlare solo nei video giornali? Mi avevano insegnato a non fare domande e ancor meno a cercare di capire quali idee passassero nella loro mente contorta.
«Sicuramente non troveranno niente e mi riporteranno a casa quanto prima».
Continuavo a ripetermelo passo dopo passo, fino in laboratorio, ma a dire la verità cominciavo a non esserne affatto sicuro.

La “sala delle torture” era tutta bianca e stranamente ammobiliata con un solo metallico lettino posizionato proprio nel centro, gelido alla vista.
Dov’erano tutte le provette? Gli strani arnesi che ogni fottuto dottore doveva avere, tipo stetoscopio o cose del genere? E soprattutto dove nascondevano quello che più odiavo, ovvero siringhe e boccette per il sangue? Ma che razza di laboratorio delle analisi era quello?
Mi trovavo faccia a faccia con quella che pensavo fosse la “sala delle torture” ed era tutto qui? Un lettino gelido sperduto in una stanza? Sì, certo, mi aveva sfiorato il paragone con un lettino da obitorio e qualcosa mi diceva che non c’era di che rallegrarsi.

Quando mi svegliai nel mio letto – o meglio nel letto di quella che per qualche giorno era stata la mia cabina – capii perché i tanti racconti dei superstiti sulla “sala delle torture” fossero sempre vaghi e confusi.
La testa che girava come dopo una sbronza notturna. Le orecchie che fischiavano come dopo una giornata passata a sentire thrash metal. Eh sì, bei tempi! Non c’è che dire, il paragone calzava a pennello. Ed eccomi qui di nuovo a chiedermi se fare amicizia o meno con il mio coinquilino topo.
Il riflesso che vedevo nello specchio davanti al letto era rassicurante. Beh sì, avevo i capelli un po’ sconvolti, ma la faccia era serena e insolitamente più distesa. Mi accorgevo solo adesso di quella differenza. Lo specchio non c’era al mio arrivo. Che razza di test del cavolo mi stavano menando?
«La terremo in osservazione per qualche settimana».
Sì, dovevo arrivarci, lo stronzo me lo aveva promesso. In quel momento nessuno poteva negarmi un gesto di disapprovazione. Niente di che, il classico dito medio alzato. Rivolto allo specchio ovviamente.
Avevo sprecato metà delle ore in una prigione di latta a guardarmi in faccia e a immaginare cosa avrei fatto a quegli spioni di merda che sicuramente mi scrutavano dall’altra parte. Mentre l’altra metà era tutta impegnata su un altro fronte. A che razza di esperimento mi avevano sottoposto?
Domanda lancinante. Più passava il tempo e più pensavo che le due cose fossero collegate. Perché guardarmi allo specchio era diventato un’ossessione. Strano che non vedessi più quella cicatrice sul mento che mi ero fatto più di un anno fa. Era stato difficile fare l’abitudine a uno sfregio del genere, ma era quantomeno imprevedibile che potesse così tanto sconvolgermi la sua assenza.
Che strazio non aver niente da fare. Niente che t’impegni il cervello.

Uno scatto ed eccolo tra le mie mani. Il topo spaziale doveva essere un cucciolo. Dal rumore che faceva me lo ero immaginato più grosso. Chissà dove aveva la sua tana. Sicuramente nei condotti dell’aeratore. La curiosità morbosa è sintomo di noia. Lo lasciai libero e lo seguii con lo sguardo. Dietro il letto, esattamente verso la grata dell’aeratore. Bene, dovevo aspettare che si spegnessero le luci.

«Signor Memphis, come procede la mutazione?».
«Tutto secondo i nostri calcoli, capitano Douglas, al secondo giorno dopo l’uso del preparato, cicatrici e rughe di espressione cominciano a scomparire».
«Bene, bene. Tenga tutto sotto controllo e mi comunichi ogni minimo cambiamento: temperatura corporea, elasticità cutanea, sudorazione, pressione sanguigna… ».

Troppo facile infilarmi nel condotto dell’aria insieme al topo, dopo aver preparato un fantoccio nel letto. Ben altra cosa poi sarebbe stata cavarsela dopo la mia fuga, all’attivazione dell’allarme. Mi chiedevo come cazzo avrei fatto a scappare, ma forse avrei trovato qualcosa di più, almeno una spiegazione a tutto quello. Niente di speciale. Volevo sapere per cosa mi stavo giocando la pelle.
Stretto, troppo stretto il cunicolo. L’ideale per la mia claustrofobia. Ma cosa mi era saltato in mente, pensavo forse che il terrore passasse solo perché ero curioso di avere una risposta?
Anche perché morire per le stronzate era diventata una norma da noi, l’indolenza pure, e non si poteva scappare da una nave in mezzo al fottuto spazio. Le navette erano l’unica area militarmente sorvegliata, andare a zonzo per la Tiberius non era difficile, eravamo “ospiti” per il capitano Douglas. Ma la curiosità non era ammessa.
Sì, perché mentre mi dimenavo al buio nella ricerca disperata dell’ uscita, pensavo che era più la curiosità a spingermi oltre che non la paura di morire.
Luce, la luce… aria, sì aria!
Dopo aver fatto l’uomo-ragno ora dovevo diventare l’uomo-invisibile. Non mi ci vedevo proprio a fare il supereroe. Roba vecchia, fumetti del tempo che fu. Le guardie dormivano. Il loro lavoro era troppo pesante. Che fatica sudarsi quello stipendio da re! Cazzo, forse qualcuno avrebbe potuto svegliarsi. Era meglio affrettarsi. Si fa presto a sfilare dalla tasca di un dormiglione la key card, e sgattaiolare per il corridoio di chissà quale dei sedici piani. Stava per passare la ronda notturna. Era meglio infilarsi in una porta, una qualunque, senza pensarci.

Pessima idea. Quella che mi si presentava davanti era una specie di prigione per soggetti sottoposti a sperimentazioni invasive di quarto o quinto grado.
La stanza era tutta blu, con tante piccole gabbie di vetro disposte a semicerchio e perfettamente linde. Ogni celletta era collegata a un macchinario che monitorava i soggetti lì rinchiusi. “Soggetti”, quanto odiavo quella terminologia saccente tipica degli scienziati sottomessi al volgare dio denaro. Quelle – e mi ci mettevo anch’io – erano solo delle cavie da laboratorio. Sì, perché mentre il topo spaziale girovagava indisturbato per la nave, io e gli altri eravamo solo carne da macello.
Possibile si trattasse di bambini? Ne contavo almeno una trentina. Non credevo ne esistessero ancora! Erano lì per niente disorientati, austeri e dimessi alla volontà dei padroni, ormai rassegnati al peggio. Non era cosa da bambini. Tutti noi abbiamo avuto quel momento di pura anarchia del pensiero e delle azioni. Solo l’età della ragione ci aveva fatto diventare emotivamente statici e indolenti anche alla morte.
Mentre guardavo esterrefatto la tranquillità di quelle facce quasi sopite, mi piombarono addosso le guardie. Era naturale che succedesse, non mi ero neanche accorto dell’allarme che suonava. Mi dispiaceva soltanto non capire il perché di quella situazione.

«Ehi calma. Calma teste di cazzo, portatemi dal capitano, devo parlargli… ».
«Che avevi intenzione di fare? Pensavi di poterci sfuggire? Tranquillo, è proprio lì che vogliamo portarti, rifiuto! Te la vedrai direttamente con lui, numero 56».
«Ah bene, così potrò dirgli che dormivate mentre io me la squagliavo».
«Continua a fare lo spiritoso, non sai quel che ti aspetta».

Il capitano Douglas era tutt’altro che allarmato. Sedeva alla scrivania disteso e calmo.
«Signor Earthman, cosa dobbiamo fare con lei? Mi spiega perché la lasciamo nella sua confortevole cabina e poi la ritroviamo in altre aree non autorizzate della nave?».
«Curiosità, semplice curiosità. Mi annoiavo a stare in cabina tutto quel tempo, sa com’è…».
«No, non lo so numero 56. Sa benissimo che la curiosità non è ammessa. Né qui, né sul distretto Marte, dovrebbe saperlo».
«Allora perché non mi dice com’è riuscito a trovare tutti quei bambini? Non erano tutti morti? E se li avete trovati perché continuate a fare esperimenti del cazzo su di noi?».
«Calma signor Earthman. Quelli non erano bambini. Ha detto giusto, sono morti tutti, anche su Terra. Se fossimo arrivati a questa scoperta non avremmo continuato a ospitarvi qui per qualche semplice test».
«Stia tranquillo ora, la riportiamo nella sua cabina. Avrà modo di pensarci e lo capirà molto presto, glielo assicuro».
Le guardie già provvedevano a spintonarmi per eseguire gli ordini del capitano.
«Non sono pazzo! Ho visto bene! Erano bambini e voi non volete dirci la verità, maledetti!».

La visione della mia stanza vuota – sempre più paragonabile a una cella – era ormai una consuetudine insopportabile e anche quel rumorino di zampette di topo che mi faceva impazzire giorno dopo giorno.
Continuavo a pensare alla stanza dei bambini. Com’era possibile che ci fossero tanti mocciosi tutti assieme, dopo anni che quella peste continuava a imperversare sulla Terra? Erano sopravvissuti. Sì, solo così era spiegabile. I contatti con la Terra erano cessati dopo dieci anni di malattia e morte. Nessuno se n’era preoccupato, si continuava solo a pensare alla risposta dello scatenarsi della malattia e all’eventuale vaccino per uccidere il virus. Nient’altro. Molti degli adulti si erano trasferiti al distretto Marte – compreso me stesso – e per paura di portarsi dietro il virus da Terra si era vietato di fare altri figli, definitivamente. Allora come si spiegavano quei marmocchi chiusi nelle celle?
Quello stronzo matricolato di Douglas, bravo a raccontare balle e poi che significava «lo capirà molto presto, glielo assicuro»… Uff, era ricominciato. Mi arrovellavo il cervello. Era brutto stare senza far niente: noia totale che ti assale sempre più. Dov’era il topo? Il mio unico amichetto?

L’infermiere entrò nella mia cabina dopo qualche ora e senza guardarmi in faccia mi sparò qualcosa nelle vene. Gli chiesi: «cos’è?». Lui, sorpreso dalla domanda, mi rispose: «un tranquillante, la farà stare meglio».
Troppe domande. Da tempo non mi capitava di pensare così tanto. Forse qualche volta da bambino. Non ricordo neanche come fosse essere bambino. Era passato troppo tempo. Sì, ricordo. Tutto era una sorpresa, una scoperta. Mi chiedevo il perché di tutto e avevo paura di stare male e di soffrire. Tutti pensavano ad altro che a giocare e si era curiosi di tutto quello che si vedeva o toccava. Belle emozioni. Bei tempi davvero.

Che dolore sento la pelle tirare in faccia. Alzo gli occhi verso lo specchio. Non riesco a credere a quello che vedo. Sembro più basso. Che strano rinfoltimento ai capelli. La mia faccia è più paffuta e colorita del normale. E… sembra incredibile… le incipienti rughe stanno scomparendo.

Ambra Simeone, Monza, 2015

PER CERTI VERSI
Per mia mamma Diva

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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PER MIA MAMMA DIVA

Tu sei la voce
Quella voce
Del ventre
La voce dolce
Delle fiabe
Sottile voce
Della buonanotte
Della tavola
Che non mangiavo mai
Senza la favola
Mi hai ascoltato
Negli anni della crescita
Della incauta adolescenza
Eri sempre quella voce
Un canale di luce
Per allungarmi
Provare sì
Provare
A diventare grande
Senza farne senza

Guido, il primo

 

Guido è stato il primo dei miei fidanzati. Siamo stati fidanzati un anno e poi ci siamo lasciati perché eravamo troppo giovani e troppo diversi. Da allora gli eventi della vita si sono susseguiti, indifferenti ai nostri sentimenti mutati ma rilevanti per altri aspetti dell’esistenza, facendo sì che il legame che ci accomunava abbia continuato a mantenersi buono e un po’ alla volta si sia trasformato in un’importante amicizia.
Guido abita a Pontalba vicino al fiume e a Villa Cenaroli, la bellissima villa che costeggia il Lungone. Proprio grazie a quell’antica costruzione, il nostro paese è conosciuto anche fuori dai confini Lombardi. La sua casa, come tutte quelle antistanti Villa Cenaroli,  è della contessa Malù che gliel’ha affittata a un prezzo vantaggioso perché le sta simpatico Guido e ama Reblanco, il suo cane. L’abitazione si trova di fronte all’ingresso principale della Villa ed è una vecchia casa con i mattoni a vista, ristrutturata di recente. Ha un ingresso ampio, una cucina-soggiorno, un bagno e un ripostiglio al primo piano, una camera da letto, lo studio e un secondo bagno al secondo piano. Inoltre ha una soffitta mansardata, un cortile, un piccolo orto e un garage. Per una persona sola è una reggia, impegnativa da pulire, molto accogliente e adatta per gli ospiti che Guido invita spesso a casa. Guido è un professore di Storia, insegna in università a Trescia.

Reblanco (Re) è il cane di Guido. Un Akita Inu interamente bianco dal pedigree importante. I suoi genitori sono stati dei campioni di bellezza ed eleganza e, guardando Reblanco, si capisce quanto la genetica influisca sull’aspetto fisico e sul carattere dei discendenti.
Guido e Reblanco sono una coppia fissa. Abitano nella stessa casa. Reblanco ha anche una piccola casa di legno nel cortile, ma non ci sta quasi mai. E’ l’ombra di Guido. Di giorno sta nello studio su una stuoia posizionata vicino alla scrivania dove Guido lavora e, di notte, dorme nella stanza del suo padrone in una specie di ‘cuccia’ di lattice, fatta apposta per le dimensioni e le esigenze degli akita, che gli garantisce uno standard di confort molto alto.
Quando vanno a spasso per Pontalba li guardano tutti. Camminano sicuri, sempre ben tenuti, maestosi nel loro incedere. Guido tiene Reblanco al guinzaglio perché così si deve fare. Ma credo che sia per lui una sofferenza, preferirebbe vedere il suo cane correre libero anche per strada. Appena la strada provinciale finisce e si arriva a quella sterrata che porta agli argini del fiume, Gudo libera Reblanco che comincia a correre felice fermandosi ogni tanto ad annusare la terra o a osservare il fiume, come se fosse indeciso se buttarsi in acqua oppure no.

La presenza di un docente di Storia in un paese piccolo come Pontalba è un evento raro. La gente si ferma spesso a parlare con Guido e lui racconta loro delle stranezze che sta scrivendo e elargisce bizzarri consigli sulla vita politica del paese, sulla salute della gente, sulla salvaguardia dell’ambiente e sul modo in cui una società debba essere sana, generante, rigenerante. Ha una madre e un fratello sposato che abitano a Trieste, quattro nipotini: due maschi e due femmine.  Suo fratello si è sposato due volte e, sia dalla prima moglie che dalla seconda, ha avuto una coppia di gemelli: due bambini nel primo caso (Claudio e Cesare), due bambine nel secondo caso (Bianca e Viola). Le femmine sono le figlie di Emma, la sua attuale moglie, mentre i maschi sono i figli di Aurora, la prima. Siccome Aurora fa la reporter e non c’è quasi mai, anche Claudio e Cesare stanno quasi sempre con la seconda famiglia del padre. Una famiglia allargata che, per fortuna, sembra funzionare. Bianca e Viola hanno sei anni. Claudio e Cesare dieci. Vengono spesso tutti e quattro a Pontalba e dormono in letti a castello che si trovano nella mansarda dello zio Guido. Si divertono molto e credo preferiscano Pontalba ad una vacanza in Sardegna. Sono ancora piccoli. Il “piccolo” ama il “piccolo” perché lo riconosce come simile a lui, della stessa misura.

Questi quattro bambini sono uno dei motivi che rendono il mio legame con Guido perenne. Due coppie di gemelli sono una delle cose più curiose e interessanti che io abbia mai visto. Si comportano in maniera simbiotica due a due. Sembra inoltre che i due maschi che sono più grandi,  abbiano sviluppato un’importante senso di protezione nei confronti delle bambine, le difendono a spada tratta da tutto ciò che considerano un’insidia alla loro incolumità. Ciò che un bambino di dieci anni considera un’insidia è terreno di scoperta. E’ un modo unico per studiare l’infanzia da vicino. Non solo, i due maschi hanno una particolare forma di protezione per una sola delle due gemelle. Ognuno di loro se n’è scelta una. Claudio protegge Bianca e Cesare è il parafulmine di Viola. Le coppie si ricompongono sempre allo stesso modo, non sbagliano mai, così si sono organizzati e così stanno crescendo tutti e quattro. Ognuno di loro con un doppio legame insostituibile. Uno col gemello, l’altro con uno dei due componenti l’altra coppia gemellare. Una cosa del genere non può non stupire, ci si potrebbe fare una tesi di laurea.

Anche a Guido, che è alquanto intelligente e curioso, i suoi quattro nipoti piacciono e incuriosiscono non poco. Li ospita sempre volentieri nella sua casa e li porta lungo gli argini del Lungone appena può. A Pontalba si vede spesso uno spettacolo che esercita un grande fascino su tutti. Guido, Reblanco trainato al guinzaglio da Claudio e Bianca o in alternativa da Cesare e Viola, e gli altri due gemelli che inseguono i primi quattro liberi e divertiti. Questa è la famiglia di Guido. Come sempre lui batte tutti, è sopra le righe, vive così, sa vivere solo così.

Un giorno li ho incontrati mentre anch’io passeggiavo lungo l’argine del Lungono. Mi ero fermata sulla stradina dei castagni per fotografare un albero che aveva alcune foglie illuminate dal sole. Guardando dal basso verso l’alto si vedevano piccoli bagliori di luce che filtravano fra i rami e le grandi foglie del castagno. Piccole fiammelle che accecavano e morivano subito dopo. Ho orientato la macchina fotografica verso l’alto e, stavo cercando di metter a fuoco, quando ho visto l’allegra brigata di Guido in avvicinamento. Reblanco era libero e correva sulla stradina, i quattro bambini erano allineati tenendosi per mano ed erano sfalsati come sempre: un maschio e una femmina e poi ancora un maschio e una femmina. Camminavano in mezzo alla strada. Devono aver imparato da Guido, anche lui cammina sempre in mezzo alla strada. Il vialetto dei castagni è sterrato, macchine non ne passano, al massimo bisogna spostarsi perché passa qualche mezzo agricolo che procede lentamente e si vede da lontano. Dietro alla quadriglia si vedeva Guido che camminava per ultimo in modo da godere di una panoramica privilegiata dei suoi quattro nipoti. Siccome mi conoscono bene, mi hanno riconosciuto da lontano e i  bambini e il cane si sono  messi a correre per venirmi in contro, mentre Guido ha continuato a camminare con il suo solito passo. I piccoli sono arrivati vicino a me tutti affannati. Claudio e Bianca hanno messo il guinzaglio a Reblanco per evitare che si buttasse in acqua, visto che ansimava ed era agitato.
“Cosa stai facendo?” mi ha chiesto Viola.
“Sta facendo una fotografia” gli ha risposto Cesare.
“Perché stai facendo una fotografia al castagno?” mi ha chiesto Bianca.
“Perché le piace” ha risposto Claudio.
“Perché ti piace?” mi ha chiesto Viola.
“Perché è romantico” gli ha risposto Cesare.

Mi sono sentita inutile. E’ stata una conversazione che ho sentito, ma dalla quale sono stata esclusa. Questo è l’incredibile mondo dei gemelli. Sono autonomi, protettivi, curiosi, a volte un po’ assenti. Quasi sempre felici perché bastano a loro stessi e non si sentono mai soli. L’incrocio tra diverse età e la differenza di sesso completa l’opera. Questi quattro bambini sono un mondo, una visione della vita. Un mondo di affrontare le responsabilità, un modo di essere curiosi, una rarità.  Sono affascinanti.

Nel frattempo è arrivato Guido.
“I gemelli sono spettacolari” gli ho detto.
“Certo” ha risposto lui.
“Forse ho fatto un’affermazione banale” ho detto.
“Si” mi ha risposto.

Ci siamo fermati a guardarli mentre sono corsi via tutti e quattro seguendo Reblanco. Sono belli, vivi, giovani e appartengono a un mondo un po’ diverso dal nostro. Forse migliore, sicuramente differente.
“Domani se ne vanno tutti e quattro” mi ha detto Guido.
“Passi da me? Ti faccio vedere il mio ultimo lavoro.”
“Ok” gli ho risposto e poi ho guardato di nuovo i quattro gemelli.
“Loro faranno la storia” ho detto.
“Già loro” mi ha risposto Guido e poi ha sorriso guardando Reblanco che stava abbaiando felice.

 

PRESTO DI MATTINA
L’immagine attesa

 

Immaginare, lungi dall’emulare, è come generare, o meglio farsi portatore di un altro. L’immagine è grembo del pensiero, che attraverso la corporeità sensibile viene alla luce e riceve la sua forma. In questo processo non può prescindere dalla relazione all’altro che si rivela, e implica perciò l’attesa operosa. È quindi, al contempo, ospitalità e raccoglimento, l’essere soglia e dimora, una distensione in tensione, ovvero – come direbbe Clemente Rebora – “Immagine tesa”.

Ne La Vita cosmica Pierre Teilhard de Chardin scrive «Anzitutto espongo vedute ardenti […] Ma non è permesso all’uomo innamorato della verità e della realtà abbandonarsi indefinitamente e con incoerenza a ogni vento che gonfi e amplii la sua anima. Anche se lo volesse, non lo potrebbe fare… Per la stessa intima logica degli oggetti e degli atteggiamenti, viene presto o tardi il momento in cui dobbiamo infine disporre in noi l’unità e l’organizzazione, mettere alla prova, selezionare, gerarchizzare i nostri amori e i nostri culti, rovesciare i nostri idoli e lasciare un solo altare nel santuario» (26-27).

Questo luogo di rivelazione, di autenticità e offertorio cui allude Teilhard de Chardin altro non è che la nostra coscienza. E riscoprirne l’integralità, la sua struttura simbolica, significa divenire consapevoli che in essa non si dà separazione tra pensiero e immaginazione, tra concetto e valore. L’istanza etica (il bene) e quella estetica (il bello) formano con il vero un’unità attraente, desiderabile, appetibile per coscienza e la libertà in essa, quando cerca la strada del proprio comprendersi e conoscersi, quella dell’ ‘intelligere’ il reale per trovare, passo dopo passo, figura dopo figura, azione dopo azione, il senso e la verità di se stessa e del mondo in cui dimora.

Così Pierre Teilhard de Chardin, assumendo la valenza immaginativa e simbolica per esprimere il suo pensiero, non solo nei testi mistici, ma anche in quelli scientifici come visioni e modelli su cui articolare la propria riflessione, li anima di un’intelligibilità nuova, di una ratio imaginis, di un senso, di un orientamento, di una razionalità che scaturiscono dall’immaginazione, dispiegando un ambiente che ospita lo spirito e il corpo, la ragione e la libertà, e per questo muove alla scoperta e all’azione.

La forza dell’immaginazione non è solo quella di operare un’integrazione dei vissuti, ma di essere vettore creativo e pure soglia di superamento e di interiorità per le esperienze fatte e i vissuti stessi. Attingendo alla memoria per protendersi sull’avvenire, l’immaginazione sta in mezzo tra passato e futuro, tra archetipo e creazione, originale e riproduzione, è ad un tempo ancorata e libera. Essa genera una stabilità protesa, un “rimanere” in movimento, una passività creativa, che attinge alla storia per generare altre storie. Anche per questo Teilhard direbbe che l’immaginazione non è fenomeno secondario, o peggio accessorio (epifenomeno), ma una realtà che veicola in germe l’energia di tutto il “fenomeno umano”. Al punto che immaginare può considerarsi il mezzo tramite il quale l’intelletto compie l’atto stesso del suo conoscere.

Come nasce infatti un’idea? «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; un’altra sul terreno sassoso, un’altra cadde sui rovi, un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno» (Mt 13,3-9). Idea è voce che attinge al verbo eidèo connesso al senso del vedere, del mostrarsi, dell’apparire, come il venire alla luce di un’immagine.

La prima tappa di questo processo consiste pertanto nella semina interiore sulle orme del prodigo seminatore; nel terreno della coscienza, come in un caleidoscopio, vengono seminate le immagini che si formano attraverso il sentire complesso e scompigliato dell’esperienza.

La seconda tappa dipende dalla capacità di mettere in relazione e generare sintonie e accordi: trovare e stabilire legami, sinapsi, congiunzioni tra le immagini che si accumulano con l’esperienza. L’idea si origina da una capacità combinatoria con altre e precedenti immagini, che danno vita a nuove combinazioni. Per questo essa richiede una propensione alla ricerca e al cambiamento, all’invenzione. Viene così in mente l’immagine evangelica della vite ed ei tralci (Gv 15, 1-11), una sequenza di immagini che si rincorrono cangianti in molteplici e fantasiose direzioni e si protendono in uscita oltre la vite, figura questa di una stabilità in movimento, che si sviluppa nei tralci e si amplifica rivestendosi di forme nuove, di iridescenti foglie e pampini, inflorescenze e grappoli che sono, come l’idea attesa, il frutto del suo travaglio: i suoi gioielli.

Vi è poi un terzo momento che attende al formarsi dell’idea. Un ulteriore passaggio che può essere reso con un’altra immagine del vangelo: «è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga» (Mc 4,26-28). Ecco: simile è il processo di gestazione e sviluppo nella coscienza del pensiero. L’idea, per venire alla luce, ha bisogno infatti di riposo, di nascondimento, una sorta di gestazione delle immagini in cerca di combinazioni. È questo il tempo in cui nella coscienza si attua una sintesi di ciò che in essa è molteplice, e che si sviluppa e viene fissato a un livello più profondo della stessa coscienza: le immagini latenti vengono introdotte nella camera oscura dell’inconscio.

L’attesa pensierosa e sospirata di maternità in questo tempo senza tempo dell’affiorare dell’idea verrà interrotta solo dalla gioia del suo apparire alla coscienza. Certamente un punto di arrivo, che tuttavia diviene un nuova partenza. Come ogni nascita, infatti, da subito dovrà confrontarsi e misurarsi con la realtà e rigenerarsi sempre di nuovo in essa. Così la realtà sarà il terreno di verifica dell’immaginazione e dei suoi frutti. Sulla soglia fra reale e immaginario essa deve sempre discernere tra due alternative, una che la condurrà ad essere «maestra di errore» – come direbbe Blaise Pascal – e l’altra che la farà valere come «potenza di verità».

La coscienza di ognuno comunica con la realtà e con se stessa mediante il corpo e la sua pluriforme capacità di sentire la vita e comunicare con essa. È Tommaso d’Aquino a ricordarci che il passaggio dall’ignoranza alla scienza deve essere attribuita direttamente al corpo e solo accidentalmente alla parte intellettuale (cf. De Veritate, q. XXVI, art 3, ad 12). Per lui non si dà pensiero senza immagine, poiché le cose esistono solo nel particolare, ma il particolare, il frammento, si coglie solo con i sensi, (cf. S.Th l. q. g4 a. 7 ad 3): «il campanello/ che impercettibile spande/ un polline di suono» (Clemente Rebora).

Nelle lettere di Giovanni la spiritualità si esprime attraverso lo stile di un linguaggio sensoriale volto a comunicare l’esperienza della conoscenza e della comunione con Dio, in Gesù Cristo; non solo la sua immagine, il volto, ma pure le mani, i piedi, il suo stesso corpo: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile) quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi», (1Gv 1,1-3).

Scrive Jean-Pierre Sonnet: «Nelle nostre membra, nell’articolazione dei nostri corpi, nei nostri gesti più elementari, si nasconde un vangelo, che il linguaggio e lo sguardo poetico (immaginazione poetica) portano alla luce», (La scorciatoia divina, 5). E citando una cantica del 1680 Le membra del nostro Gesù, egli evidenzia come l’immaginazione, soffermandosi sui versetti del vangelo che si riferiscono al corpo di Cristo in croce contempli i piedi, le ginocchia, le mani, il costato, il petto, il cuore, la testa. Il corpo di Cristo diviene così come il sentiero più breve e diretto per arrivare a conoscere il Padre, come chiedeva con insistenza l’apostolo Filippo a Gesù: «Mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,8-9). E il poeta gesuita Gerard Manley Hopkins così scrive: [il Cristo] «come Martin pescatore guizza, come libellula attrae la fiamma; in ognuno dimora, si attua, corre le sue vie; attua di fronte allo sguardo di Dio ciò che nello sguardo di Dio egli è: Cristo. Gioca (play) in diecimila posti, amabile (lovely) nelle membra, in occhi non suoi, amabile a Dio Padre, nei tratti dei volti umani», (Poesie, 99).

L’immaginazione ha nel corpo di Cristo il suo evangeliario, e nel pane eucaristico vede la moltitudine dei credenti, dapprima seduti alla mensa con lui a spezzare il pane e poi incamminati, in via, a condividerlo ad ogni incontro. L’immaginazione distende così, lungo la storia dell’universo come un planetario di relazioni, quell’ambiente umano e divino del suo corpo reale e mistico, unità e miriade, monade e pleiade del suo corpo cosmico (Teilhard de Chardin).

In questo testo poetico di Clemente Rebora l’“immagine tesa” è invito a vigilare uno sbocciare che ancora non si vede; sguardo, attento com’è all’istante, di rendere visibile l’udibile: un suono, un bisbiglio, figure d’ombra, profumi, intravedendo alla fine, stupito, nell’attesa di “nessuno” il venire di qualcuno:

Dall’immagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:
ma deve venire;
verrà, se resisto,
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.

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