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Parole e figure /
Il mondo in un barattolo

Quante volte avremmo voluto mettere in un barattolo le cose più belle? Chiuderle al sicuro, per tirarne fuori un pezzettino nei momenti difficili e duri?

La prima volta che ci ho pensato è stato quando ho ricevuto in regalo, da un amico russo, una bottiglietta di vetro con sopra scritto “felicità”. Me la regalava, con tutto il suo cuore, racchiusa in quel piccolo scrigno ben sigillato. Potevo tenerla chiusa lì, gelosamente, tutta per me ma potevo anche decidere di togliere il tappo e lasciarla volare via, magari regalandone un po’. Lì per lì ho dato poco peso a quel regalo simbolico ma poi ne ho capito il valore e il significato. Che pensiero e dono potente!

Luis sa che questo è possibile. Ama raccogliere cose semplici, foglie, piume, sassi a forma di cuore e fiori: li colleziona in barattoli di vetro e li conserva premurosamente. Tutto ciò che ha visto e vissuto spunta da quella sua colorata collezione.

Quando incontra Iris, in riva all’acqua, insieme scoprono che nei barattoli si possono conservare tante altre cose: il colore ciliegia del tramonto e la sua luce, il suono dell’oceano, il vento che soffia prima di una nevicata. A lei regala un bel barattolo che, a sua grande sorpresa, nella calda e comoda cameretta, s’illumina per tutta la notte con i colori del tramonto.

Da quel giorno Iris e Luis cercano insieme e collezionano cose difficili da stringere tra le mani, come gli arcobaleni o le meraviglie delle stagioni. Paiono invincibili e le pareti della casa di Luis si riempiono di mille barattoli.

Un giorno, però, la magia sembra destinata a finire: Iris deve trasferirsi in città, e bisogna separarsi, dirsi addio.

Come salvare un’amicizia così speciale? Senza Iris il cuore di Luis è come un barattolo vuoto che fa ombra su un pavimento grigio.

Passa il tempo e Luis finalmente ha un’idea: raccoglie un barattolo di stelle…. Pacchetto con sicura destinazione. Pacchetti che vanno e altri che vengono. Fino all’arrivo di Max…

Una storia che a tutte le età arriva dritta al cuore, con il suo messaggio sulla capacità di trovare nuovi modi di comunicare e di stare insieme. All’ombra di foglie dorate.

Un albo da regalare e regalarsi, perfetto per il tempo che stiamo vivendo.

Deborah Marcero, Un barattolo di stelle, Terre di Mezzo Editore, 2020, 40 p.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.

Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

“Qualcuno era comunista”
(un altro contributo in vista del noncongresso del PD)

Ieri 20 anni anni fa moriva Giorgio Gaberščik, per tutti Giorgio Gaber. Magrissimo, un naso lungo in una faccia lunga, una voce calda e bellissima (“Parlami d’amore Mariù”), una mimica inimitabile, la passione per il palcoscenico, il sogno realizzato di sposare il Teatro con la Canzone. Amato da molti, odiato o mal sopportato da molti di più: a destra ma anche a sinistra. Io non l’ho dimenticato, non avrei potuto neanche volendo, ce l’ho spesso in testa, sulle labbra, in punta della penna.

Ma prima di dar spazio, e sarà sempre troppo poco, all’immenso artista (immenso è l’aggettivo giusto) che fu Giorgio Gaber, voglio raccontare una cosa che mi è successa quando ieri ho letto che erano passati vent’anni dalla sua morte. Una cosa piccola, molto normale, che credo capiti più o meno a tutti quando, davanti a un certo fatto, una particolare notizia, ti entra nel cervello il nitido ricordo di una persona che non c’è più. Magari il nonno, la mamma, un vecchio amico. Ma anche un personaggio famoso. Un potente, un politico, un artista, uno scrittore, un arguto pensatore…

E allora scatta automaticamente un’associazione di idee, inizia un monologo interiore, sei entrato nel loop, e formuli mentalmente le tipiche domande impossibili:
Che direbbe oggi Berlinguer davanti allo scandalo Qatar?
E se Adriano Olivetti incontrasse Briatore?
E se tornasse Ennio Flaiano, che aforisma inventerebbe per fotografare il borghese italiano della terza decade del terzo millennio?
E via fantasticando.

D’accordo, è solo un tic mentale, una curiosità destinata a rimanere nubile. Ma il meccanismo è scattato, non puoi non pensarci, e dentro la tua testa sfilano tutti i personaggi,  e ci parli pure; immagini anche la scena, battute comprese.
Cosa direbbe, che canzoni  canterebbe oggi Giorgio Gaber?
Chi metterebbe alla berlina, che coscienze andrebbe a disturbare, chi farebbe arrabbiare?

Io ho concluso che un redivivo Signor G se ne starebbe in perfetto silenzio. Perché puoi anche essere il più bravo di tutti, il più intelligente, il più autocritico, acuto, sottile, sincero, icastico (e Gaber lo era), ma anche l’ironia, l’invettiva, la satira a volte devono arrendersi. Davanti alla politica ridotta come è ridotta oggi, davanti allo sfracello delle idee e dei valori, davanti alla nostra televisione e stampa votate alla ipocrisia, davanti a questo e a tanto altro, anche la satira, maestra di verità, perde tutte le parole. Zitta e muta.

E pensateci, non è quel che già da anni è successo in Italia? La morte della satira.
Eccezioni non ne vedo. La navicella superstite di Fratelli di Crozza? No, nemmeno quella. Perché Maurizio Crozza è  un bravissimo professionista. Mi fa anche ridere certe volte. Ma il suo è un intrattenimento comico, non è la satira. La satira è quella cosa che “graffia fuori e scava dentro di te”.

Torno all’inizio. Ecco tutti gli anelli della mia catena mentale:
Povero Gaber morto 20 anni fa –  mi viene in mente lo straordinario monologo Qualcuno era comunista ricordo le facce recenti  televisive di Letta , di Cuperlo, della Serracchiani  – penso: “Ma cosa direbbe oggi Gaber ai post-post-post-comunisti del Partito Democratico?” – mi torna in mente mia nonna che mi dice quel che aveva detto il moribondo Francesco Ferrucci a quel lazzarone di Maramaldo “Vile, tu uccidi un uomo morto!” – penso un’altra volta al Pd – ora vedo il cartello: “Non si spara sulla Croce Rossa” – parlo con Gaber, ma lui è una statua:  zitto, muto, sbalordito –  una scena da post bomba, è la casapartito del Pd: mitragliata, demolita, sgretolataGaber si fruga nelle tasche, tira fuori i suoi piccoli arnesi di lavoro: uno stetoscopio, un martellino, uno scalpello che sembra un cacciavite. E li butta per terra.

Che satira vuoi fare? Anche perché Giorgio Gaber è un Signore, non un Maramaldo. Che altro potrebbe cambiare, cosa può aggiungere  a quel monologo che ha interpretato centinaia di volte in tutti i teatri d’Italia più di trent’anni fa? Niente. Allora l’unica è mandare a Letta e compagnia Qualcuno era comunista tale e quale, senza cambiare una virgola.

Giorgio Gaber è stato dipinto in cento modi:  il cane sciolto , l’anticlericale, il maestro di una nuova morale, il qualunquista e il compagno, il dissacratore e il moralista, il comunista e l’anarcoindividualista… Tutto e il contrario di tutto, secondo l’amore e l’umore dei cultori o l’ odio vigliacco dei detrattori della sua arte e della sua intelligenza. Ma una cosa è sicura, Giorgio Gaber è stato per decenni il grillo parlante, la scomodissima spina nel fianco della “Vecchia piccola borghesia” (Claudio Lolli) ma anche e soprattutto della Sinistra italiana. Bisognerebbe ascoltarlo e riascoltarlo oggi,  sarebbe un esercizio salutare.

Per questo , dopo il contributo al  non-congresso del Pd del grande Paolo Nori (cercatelo qui su periscopio), è venuto il momento di Qualcuno era comunista, il messaggio accorato e rabbioso di Giorgio Gaber.

Anche se ho il dubbio che sia un po’ troppo tardi. Perché Gaber non c’è più, ma non c’è più nemmeno il Pd.

Guarda il video del monologo

Il testo integrale:

Qualcuno era comunista

Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia
Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papàLa mamma noQualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessaLa Cina come una poesia, il comunismo come il paradiso terrestreQualcuno era comunista perché si sentiva soloQualcuno era comunista perché aveva avuto un’educazione troppo cattolicaQualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigevaLa pittura lo esigeva, la letteratura anche: lo esigevano tuttiQualcuno era comunista perché glielo avevano dettoQualcuno era comunista perché non gli avevano detto tuttoQualcuno era comunista perché prima, prima, prima, era fascistaQualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano ma lontanoQualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava personaQualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava personaQualcuno era comunista perché era ricco ma amava il popoloQualcuno era comunista perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolariQualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro DioQualcuno era comunista perché era talmente affascinato dagli operaiChe voleva essere uno di loroQualcuno era comunista perché non ne poteva più di fare l’operaioQualcuno era comunista perché voleva l’aumento di stipendioQualcuno era comunista perché la rivoluzione? Oggi, noDomani forse ma dopodomani sicuramenteQualcuno era comunista perché:“La borghesia, il proletariato, la lotta di classe, cazzo”Qualcuno era comunista per fare rabbia a suo padreQualcuno era comunista perché guardava solo Rai3Qualcuno era comunista per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazioneQualcuno era comunista perché voleva statalizzare tuttoQualcuno era comunista perché non conosceva gli impiegati stataliParastatali e affiniQualcuno era comunista perché aveva scambiato il materialismo dialetticoPer il Vangelo secondo LeninQualcuno era comunista perché era convinto di avere dietro di sè la classe operaiaQualcuno era comunista perché era più comunista degli altriQualcuno era comunista perché c’era il Grande Partito ComunistaQualcuno era comunista malgrado ci fosse il Grande Partito ComunistaQualcuno era comunista perché non c’era niente di meglioQualcuno era comunista perché abbiamo avuto il peggiore partito socialista d’Europa

Qualcuno era comunista perché lo Stato, peggio che da noi, solo l’Uganda
Qualcuno era comunista perché non ne poteva più
Di quarant’anni di governi democristiani incapaci e mafiosiQualcuno era comunista perché Piazza Fontana, Brescia
La stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica, eccetera, eccetera, eccetera
Qualcuno era comunista perché chi era contro, era comunista
Qualcuno era comunista perché non sopportava piùQuella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia
Qualcuno, qualcuno credeva di essere comunista e forse era qualcos’altroQualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americanaQualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e feliceSolo se lo erano anche gli altri
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovoPerché sentiva la necessità di una morale diversaPerché forse era solo una forza, un volo, un sogno
Era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vitaQualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era comePiù di se stesso: era come due persone in unaDa una parte la personale fatica quotidiana
E dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il voloPer cambiare veramente la vitaNo, niente rimpiantiForse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volareCome dei gabbiani ipotetici
E ora?Anche ora ci si sente come in dueDa una parte l’uomo inseritoChe attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidianaE dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del voloPerché ormai il sogno si è rattrappitoDue miserie in un corpo solo.

 

Post Scriptum
Volevo mandare il monologo/intervento del Compagno Gaber al quotidiano L’Unità. Insomma, capite, per correttezza professionale…
Ho  un caro amico, Franco, che una volta lavorava in redazione. Molto più in gamba di me, sempre informatissimo. Gli telefono e gli spiego la cosa.
Ma mi interrompe subito – Ma sei fuori?  Il giornale è morto e stramorto. Chiuso dopo lunga e penosa agonia, nel 2017.
– Morto stecchito?- dico io
– Secco.
– Ipotesi di resurrezione?
– Nulla.
Rimango un po’ intontito, ma mi riprendo subito – In effetti è un po’ che non lo vedevo più in giro. Ma, dico io, come caspita fa il partito senza il suo giornale? Mi par di sognare, ma non l’aveva fondato…
– Vuoi che non lo sappia? Io ci lavoravo nel giornale fondato da Antonio Gramsci!
– Incredibile Franco, sai che mi viene in mente?
– Che ti viene in mente?.
– Ho pensato adesso una cosa, ho pensato a che direbbe oggi Antonio Gramsci se gli chiudessero il suo giornale?
– Non so, ci devo pensare un attimo…
– Pensi che Antonio si incazzerebbe?
– Penso che ci rimarrebbe male. Magari direbbe: “ma siete diventati scemi?”
– Cioè si incazzerebbe di brutto.
– Beh, non era nel suo carattere.
– Mi stai dicendo che non si incazzerebbe?
– Beh, un po’ si incazzerebbe.
Cover: Giorgio Gaber in scena al Teatro Comunale di Ferrara (foto Marco Caselli Nirmal)

Ucraina, Donbass, Serbia, Kosovo…
Si può andare oltre il nazionalismo? L’esperienza del Rojava

 

Ucraina e Kosovo, ma anche molte altre aree, hanno alla base del conflitto la compresenza di etnie diverse e religioni diverse: musulmani e cristiani, ucraini e russi, etc. Ci sono anche logiche di potere che derivano da antichi imperi o da ‘nazioni’ inventate, i cui confini (spesso artificiali) sono stati disegnati col righello 100 anni fa come in Medio Oriente dagli inglesi e francesi, come scrive Dilar Dirick, ricercatrice dell’università di Oxford, (si veda il suo intervento ad Amburgo alla Conferenza Challenging Capitalist Modernity II) e proprio per questo hanno creato conflitti.

Eppure ci sono speranze di trovare forme nuove e stabili di convivenza. Un esempio è proprio in Italia in Süd Tirol dove il conflitto tra tedeschi e italiani è stato risolto (con molti soldi) e che rimane un modello per molte aree.

Un altro è quello del Rojava (nord Siria) che dimostra come sia possibile una Confederazione che unisca diverse etnie (curdi, arabi, turkmeni, siriaci, circassi, ezidi, armeni) in un unico popolo, al di là della logica statuale e nazionalista, che trova purtroppo sostegno tra i ‘grandi’ (Stati Uniti e Russia… l’Europa non esiste) e che usa proprio il nazionalismo (della Turchia in questo caso, appoggiato dalle milizie islamiste) per distruggere queste nuove forme di convivialità senza potere centrale e piene di futuro.

Il Rojava è a 40 km. dal confine turco nel nord-est della Siria; ha vinto l’Isis nel 2014-16 tramite le Forze della Siria democratica (Sdf) e portato alla liberazione le singole identità nascoste sotto le lunghe vesti nere e i copricapi delle donne che hanno riscoperto l’importanza di non subire una logica di patriarcato (sotto etnie diverse ma che sempre le opprimono).

L’identità di ciascun popolo è infatti preziosa (come il Natale e il Presepe per noi italiani di cultura cristiana e al di là del fatto se si è credenti o meno) e va difesa non solo per difendere i nostri usi e costumi, ma anche le altrui identità. Rinunciare infatti alla propria identità, in nome di un falso rispetto delle altrui, significa, come la globalizzazione vorrebbe e in modo fintamente democratico, negare le identità anche altrui e omologare tutto in un’ottica consumistica e affaristica che è quello che vuole la globalizzazione.

In Rojava oggi il Sdf conta su 100mila combattenti (metà donne) con una predominanza di curde/i (60%) che convivono armonicamente con le altre etnie. Per il Medio Oriente è solo in parte una rivoluzione perché da secoli etnie diverse convivono. Questo modello sociale si basa sulla convivenza tra popoli.

L’idea è una federazione di autonomie, un confederalismo democratico, che prevede a tutti i livelli istituzionali la presenza del 50% delle donne.

Il modello, nato a Kobane e in Kurdistan, si è esteso a città arabe come Raqqa e Deir Ezzor e siriache e all’ezida Shengal in Iraq. Vorrebbero una Siria decentralizzata in cui ognuna goda di pari diritti.

Il teorico fu Abdullah Ocalan e il Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) che volevano far convivere le diverse etnie e religiosità superando il concetto di Stato-Nazione (tipico occidentale, oggi fatto proprio da Erdogan e Assad) per cui esiste una sola identità (la loro), ma che non appartiene alla cultura locale e che è una gabbia per il multiculturalismo medio-orientale.

Il processo di partecipazione avanza ma è continuamente minacciato dagli Stati (Turchia in particolare, membro Nato) e supportato dalle grandi potenze.
Questa sarebbe un’occasione vera per l’Europa (se l’Europa ci fosse…) per difendere i diritti di tutti i popoli (e delle donne in particolare) in un’ottica piena di futuro (e non di passato). Un mondo diverso è però possibile, solo se il potere dell’amore prevalesse sull’amore per il potere.

Diario in pubblico /
Pericolose nostalgie

 

Tra uno Zecchino d’oro e Ballando…, mi debbo confrontare, con le pericolose nostalgie di Ignazio e della sua accolita della prima ora. Terrificante. E mentre Ignazio, ora Gnazio, addirittura ripreso dal sottosegretario Vittorio Sgarbi e Isabella (Rauti) continuano il loro ‘percorzo’ post-fascista, trovo assolutamente poco incisiva la risposta della cosiddetta sinistra che reclama cosa? Le dimissioni della seconda carica dello Stato. Ma va là!

Che poi i guru della stampa delibino tortuose risposte alla situazione… beh questo è pericoloso, in quanto inducono i lettori a improbabili quanto inutili considerazioni, quali quelle di arrivare a una nuova Fiuggi e come sottolinea Michele Serra su La Repubblica del 29 dicembre, commentando la risposta di Fini che bisognava uscire dalla casa del padre per non farvi più ritorno:

«Lo ricorda Umberto Gentiloni nel suo desolato e illuminante editoriale su questo giornale. Fini, per avere osato la profondità nel regno della superficialità (regnava Berlusconi), venne massacrato dalla sua stessa parte politica […] Meriterebbe quasi trent’anni dopo una rilettura intelligente. La destra faccia una cosa di sinistra: pensi

 A ‘Frara’, scrupolosamente evitata per non incappare nelle folle transeunti in cerca di regali e di occasioni, tengono banco le lacrime, anzi poeticamente ‘lagrime’, che bagnano e invadono i banchi del Consiglio Comunale, mentre il vicesindaco tenta di arginare la piena. Folle di spettatori assistono al melo-dramma. Io invece non vedo l’ora che arrivi il giorno per poter assistere al Pipistrello di Strauss al teatro Abbado.

La città da lontano sembra in piena forma. Si sbandiera l’incendio del Castello che odio con tutte le forze. Si pensa alla ‘magnata’ di fine d’anno, che scrupolosamente osservo, rifornendomi dall’inarrivabile ristorantino dal nome di un giorno della settimana. Penso ancora che le feste oggi possano offrire solo suggerimenti, che a dir poco definire laici è un complimento.

E tiro su le spalle. E ringrazio ancora tutti gli operatori della radioterapia dell’ospedale di Cona.

E a tutti, anche se questo pezzullo sarà pubblicato dopo la fine dell’anno, auguro un felice o al più sopportabile 2023.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Per certi versi/La ballata del tempo che non

La ballata del tempo che non

Venne il tempo
Che il tempo si nascose
Non c’era più
I treni non passavano mai
E sempre
Le Chiese tutte aperte
Tutte chiuse
I negozi
andarono nello spazio
Con le agenzie di viaggio fallite
Il denaro perso il suo consociato
Si sciolse
nell’azzurro del Klondike
Rimasero i gatti
E gli uomini
Che furono ammessi
nelle vite dei gatti
Finirono le parole scontate
Non c’erano più saldi
Rimase il silenzio
E la neve
Cosparse
Di musica
La terra

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’OlioPer leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

L’anno che finisce e quello che verrà

 

Buone notizie? Una: fra poche ore ci sbarazzeremo  di questo avaro e interminabile 2022.
Ma ormai è mezzanotte. La televisione è spenta. Riempiamo i bicchieri, guardiamo negli occhi chi ci è vicino, inviamo un pensiero a chi amiamo da lontano… Ma insomma, dobbiamo continuare a fare la finta,  sottoporci ancora al rito dell’illusione?  E’ sempre più complicato credere ai brindisi, agli auguri, all’Anno Nuovo che arriva per  portare al mondo un qualche dono. Eppure
Periscopio ci prova, ancora ci crede.
Pubblichiamo di seguito l’editoriale degli amici di
Volere la luna a firma dell’ex magistrato Livio Pepino; è un bilancio tanto amaro, quanto realistico, dei mali  di un mondo sempre più malato.  Basta alzare lo sguardo, ascoltare il pianto di un dolore diffuso: davvero la speranza non abita più qui? Introvabile nelle stanze della politica come nei banchi del supermercato neoliberista. Eppure, per quanto sembri impossibile, è ancora e solo compito nostro, solo le donne e gli uomini possono aprire nuovi sentieri, proporre (imporre) il regime della ragione,  dell’uguaglianza, della cooperazione.
Ci vorrà tempo, ma è  il tempo di assumerci questo impegno. 

Francesco Monini

di Livio Pepino
Tratto da Volere la luna del 30.12.2022

Sta per andarsene un anno orribile. Come pochi altri nella vita della mia generazione.

Una guerra mondiale (per numero di paesi direttamente o indirettamente coinvolti) sta mietendo decine di migliaia di vittime, distruggendo un intero paese e provocando una catastrofe ambientale.
È una guerra, per di più, destinata a proiettarsi in un futuro in cui sono in gioco non solo le sorti dell’Ucraina e (forse) della Russia ma gli equilibri geopolitici che caratterizzeranno il mondo nei prossimi decenni con cambiamenti epocali, a partire dal ruolo della Cina e di altri colossi emergenti. E non è una guerra isolata.

Ci colpisce in modo particolare perché è nel cuore di un’Europa che ha conosciuto decenni di pace (con la sola tragica eccezione della ex Jugoslavia) ma, nel mondo, i conflitti dimenticati o rimossi sono decine, in Kurdistan, in Palestina, nello Yemen, nel Myanmar per citare solo i più noti.

Ci stiamo abituando e la guerra diventa normale, parte del paesaggio planetario e delle rubriche fisse dei telegiornali. E, con l’abitudine, sono riemersi – incomprensibilmente solo con riferimento all’Ucraina – lo spettro del nazionalismo, la retorica della guerra giusta, il mito della “vittoria finale”. Ciò ha diviso, nel nostro Paese, quel che resta della sinistra. Così, compagni di sempre hanno letteralmente indossato l’elmetto e impugnato le armi proclamando che non c’è trattativa o compromesso possibile, anche se tutti sanno che la guerra finirà – dopo decine, o forse centinaia, di migliaia di morti evitabili – con un compromesso analogo a quello che si sarebbe potuto raggiungere nove mesi fa.

E non ci sono solo la guerra e, al suo fianco, la violazione dei diritti civili, diffusa più che mai anche in Europa (e nei Paesi con essa alleati). Ci sono, per continuare nel linguaggio bellico, una questione ambientale e una questione sociale esplosive.

La crisi climatica e ambientale è sotto gli occhi di tutti: basta aprire una finestra, scorrere il bollettino delle temperature, leggere i giornali (che descrivono, anche qui considerandoli eventi naturali e all’ordine del giorno, fenomeni atmosferici estremi che distruggono vaste aree di un mondo che si modifica sotto i nostri occhi distratti). A fronte di ciò, capi di governo e leader mondiali dichiarano, a parole, la propria consapevolezza e determinazione ma, in concreto, non ci sono interventi significativi, a meno di considerare tali le inutili proclamazioni conclusive di conferenze internazionali sempre più stanche e ripetitive, incapaci di rinunciare al mito della crescita infinita, delle risorse illimitate, dell’energia a ogni costo, delle grandi opere inutili, del dio mercato.

Non meno grave la (connessa) crisi sociale.
Ovunque, nel mondo, i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri diventano sempre più poveri. Il patrimonio netto dei 10 miliardari più ricchi si è più che raddoppiato (+119%), in termini reali, dall’inizio della pandemia, superando il valore aggregato di 1.500 miliardi di dollari, oltre 6 volte lo stock di ricchezza netta del 40% più povero, in termini patrimoniali, dei cittadini adulti di tutto il mondo (https://volerelaluna.it/materiali/2022/01/21/la-pandemia-della-disuguaglianza/).

È il trionfo della disuguaglianza. Ma non è solo un fatto quantitativo. «Tutto – come ha scritto papa Francescoentra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”». Il rischio è quello descritto con lucidità da Luigi Ferrajoli: «È del tutto inverosimile che otto miliardi di persone, 196 Stati sovrani dieci dei quali dotati di armamenti nucleari, un capitalismo vorace e predatorio e un sistema industriale ecologicamente insostenibile possano a lungo sopravvivere senza andare incontro alla devastazione del pianeta, fino alla sua inabitabilità» (Per una Costituzione della Terra, Feltrinelli, 2022).

Intanto, mentre sul piano individuale non ci siamo ancora ripresi dallo shock della pandemia (che ha svelato la nostra vulnerabilità e insicurezza, quando vivevamo nell’illusione che le scoperte scientifiche e le tecnologie ci avessero reso invincibili e padroni dell’universo), su quello collettivo sperimentiamo, ovunque, il deperimento degli istituti della democrazia a cui siamo stati abituati con la fuga dei cittadini dal voto (e conseguente riproposizione, pur rivisitata, dell’antico “governo dei meno”), l’accantonamento dei parlamenti a vantaggio dei governi (che, a loro volta, si dichiarano impotenti di fronte allo strapotere delle multinazionali private), l’insediamento all’est e all’ovest, nel guscio vuoto degli istituti della rappresentanza, di regimi autoritari (definiti appunto, con evidente ossimoro, “democrazie autoritarie”).

Se, poi, guardiamo al nostro Paese la situazione è segnata – oltre che dagli elementi sin qui descritti – da una deriva politica e culturale senza precedenti nella storia repubblicana. Per la prima volta abbiamo un Governo dalle esplicite ascendenze fasciste che, come ha sintetizzato da ultimo Francesco Pallante «mentre, a parole, si autoproclama difensore della nazione intera, nei fatti opera a smaccato beneficio soltanto delle parti “amiche”, favorendo l’ingiustizia tributaria, ammiccando all’evasione fiscale, sostenendo le regioni già ricche, dimenticando la sicurezza sui luoghi di lavoro, aumentando le occasioni di sfruttamento, propugnando l’autoritarismo nei confronti dei più giovani, contrapponendo studenti meritevoli e immeritevoli, operando per la privatizzazione della sanità, annullando le politiche per la casa, reprimendo l’immigrazione con la negazione di ogni umanitarismo, osteggiando i diritti civili vecchi (la libertà di associazione) e nuovi (la libertà di autodeterminazione della propria sfera sessuale e vitale)»(https://volerelaluna.it/commenti/2022/12/19/meloni-la-retorica-della-nazione-e-il-neoliberismo-autoritario/).
Inutile insistere oltre data l’evidenza dei fatti, pur minimizzati – ed è un ulteriore segnale della deriva che stiamo vivendo – dall’establishment politico, mediatico e culturale.

È in questo contesto che sta arrivando il nuovo anno. Non arriverà – è facile prevederlo – l’anno evocato, tempo fa, da Lucio Dalla in cui «sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno» e «ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno». Sarà, al contrario, un anno difficile nel quale le tendenze emerse nel 2022 proseguiranno e si consolideranno ulteriormente.

Eppure non è consentito cedere alla rassegnazione e allo sconforto. Le difficoltà e la regressione che stiamo vivendo non sono ineluttabili ma frutto di scelte e di comportamenti individuali e collettivi. In una parola, di una cultura.

A qualcuno potrà sembrare strano ma, negli anni a venire, lo scontro sarà sempre più sul piano culturale e comportamentale, cioè là dove si annidano i presupposti e le motivazioni delle scelte economiche, politiche, sociali, ambientali. E, qui, nella grande storia, facciamo capolino noi con la nostra piccola storia. Piccola ma importante.

Cosa può fare in questo contesto una realtà come Volere la Luna? La strada è tracciata da tempo: «proporsi quello che può sembrare impossibile a molti, ma che in realtà dovrebbe essere normale: cambiare radicalmente il proprio modo di essere, di pensare, agire, cooperare e aggregarsi, tenendo fermi i valori di riferimento di un solidarismo radicale. Il mondo è cambiato, è ora di cambiare noi stessi. E il nostro modo di stare insieme. A cominciare da tre obiettivi primari: contrastare le diseguaglianze, promuovere ma soprattutto praticare forme di partecipazione solidale, favorire la rinascita di un pensiero libero e critico. Cioè non limitarsi a proclamare i propri valori, ma praticarli concretamente, con azioni positive quotidiane, creazione di occasioni di prossimità, di spazi, anche limitati, di relazione, di strumenti di comunicazione aperti e critici» (dallo statuto di «Volere la luna»). Si tratta di consolidare quegli obiettivi, di allargare la nostra comunità a tutte e tutti coloro che vorranno continuare a sostenerci in questo percorso difficile ma affascinante, di creare alleanze e collaborazioni ovunque possibile.
Basterà? Non nei tempi brevi, ma a medio termine contribuirà ad avviare cambiamenti significativi.
L’importante è tenere la barra dritta, non accettare aggiustamenti e compromessi al ribasso e continuare, nonostante tutto, a volere la luna.

 

Livio Pepino,
Già magistrato e presidente di Magistratura democratica, dirige attualmente le Edizioni Gruppo Abele. Da tempo studia e cerca di sperimentare, pratiche di democrazia dal basso e in difesa dell’ambiente e della società dai guasti delle grandi opere. Ha scritto, tra l’altro, “Forti con i deboli” (Rizzoli, 2012), “Non solo un treno. La democrazia alla prova della Val Susa” (con Marco Revelli, Edizioni Gruppo Abele, 2012), “Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli” (Edizioni Gruppo Abele, 2015) e “Il potere e la ribelle. Creonte o Antigone? Un dialogo” (con Nello Rossi, Edizioni Gruppo Abele, 2019).

Elena Gianini Belotti dalla parte delle bambine

di Daniela Brogi

Tratto da DoppioZero del 28 Dicembre 2022 

 

Nel giorno della vigilia di Natale se n’è andata l’autrice di uno dei testi più rivoluzionari del secondo Novecento. All’epoca della prima edizione, nel 1973, Elena Gianini Belotti (1929-2022) non immaginava il successo che avrebbe avuto questo piccolo libro, tradotto in quindici lingue e arrivato a vendere più di mezzo milione di copie. Sono numeri che, per un lavoro saggistico, potrebbero corrispondere a un protagonismo pacifico nella storia della cultura italiana del secondo Novecento; eppure questa centralità è vera e non è vera, perché anche se in tante e in tanti, in questi giorni, ci stiamo ricordando del libro più noto di Gianini Belotti, in pochi casi, d’altra parte, potremmo confermare di averlo incontrato a scuola, o all’università, o in ogni caso di averlo sentito citare nel contesto di analisi complessive della società e di verifica dei poteri.

Le tradizioni, i loro assetti, i discorsi che le garantiscono, raccontano e fanno capire anche il modo in cui, producendo memoria pubblica, le istituzioni e i campi culturali definiscono e delimitano i criteri attraverso i quali riteniamo pensabile e indimenticabile il passato, la storia. E così, rispetto a questa parzialità, che molto spesso è stata orientata dalle medesime logiche sessiste dimostrate così bene proprio in Dalla parte delle bambine, il modo migliore di non tradire la memoria di Elena Gianini Belotti è mettere in salvo il valore pieno, passato e presente, di quell’esperienza. Dalla parte delle bambine, infatti, che tra l’altro è uscito venticinque anni prima dell’edizione originale di Il dominio maschile (1998) di Pierre Bourdieu, è un testo bello, importante e famoso, che potrebbe forse rischiare di continuare a essere considerato riduttivamente una lettura “da ragazze”, “da donne”, un libro “generazionale”, nel senso che è stato letto da una generazione intera (ed è vero), o pure nel senso (questo sbagliato) che può essere interessante solo per un pubblico nato in una particolare e lontana epoca. Ecco, questo è falso. Io stessa ho letto Dalla parte delle bambine quasi vent’anni dopo la sua uscita, e quando propongo di leggerlo a studenti che hanno vent’anni oggi, ogni volta, anche per loro, è una scoperta.

Si tratta di un libro che, con autorevolezza gentile, affronta, come dice il sottotitolo, “l’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita”. Ha quasi mezzo secolo, e lo porta benissimo. È un classico, proprio per la sua capacità di continuare a parlarci, a “saperci” parlare: con una sapienza, per l’appunto, fatta di cultura messa alla prova dall’esperienza diretta e dalla civiltà della relazione.

Questo “avere ancora da dire” accade per ragioni che in parte sono positive, in parte no: le prime riguardano la doppia felicità di scrittura e di metodo, perché Dalla parte delle bambine, fin dal titolo, che definisce così perfettamente uno spostamento di prospettiva rispetto a un mondo pensato essenzialmente al maschile, è un libro nuovo e sperimentale. Sperimentale non in senso retorico, ma concreto: sperimenta sguardo e narrazione lavorando sul campo.

Le ragioni negative della sua attualità riguardano invece la persistenza, anche nell’Italia di oggi, di una cultura della disparità legata al genere; riguardano la persistenza (o il ritorno) di un mondo in cui le convenzioni che hanno stabilito ciò che è tipicamente maschile e ciò che è tipicamente femminile, come spiegava Gianini Belotti, funzionano da dispositivi materiali e simbolici di disuguaglianza, di esclusione e di complessi di inferiorità.

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Non è un manuale di comportamento, indirizzato solo a una certa categoria (quella, per esempio di chi affronta un’esperienza di genitorialità); è un testo che ci fa vedere dove portare gli occhi e far nascere i nostri pensieri, e in questo senso è una lettura fondativa per chiunque, perché mostra come per tanti aspetti il nostro destino si giochi attraverso il modo materiale (per questo l’educazione, come pratica, è così decisiva) in cui abbiamo imparato e ci è stato insegnato a stare al mondo. Ma volendo sinteticamente provare a fissare alcuni dei suoi meriti più importanti, potremmo intanto raccogliere quattro primi punti.

Il primo riguarda la capacità di mettere al centro l’educazione dei bambini, intesa però non in senso prescrittivo, retorico, meritocratico, classista, ma pragmatico, vale a dire non spiegando teorie astratte, ma osservando e costruendo un metodo che si avvale del modello delle Case dei bambini di Maria Montessori e della lunga esperienza di costruzione di una cultura della preparazione delle madri al parto. Attraverso una struttura in quattro capitoli (rispettivamente dedicati a L’attesa del figlio: I; La prima infanzia: II; Gioco, giocattoli e letteratura infantile: III; Le istituzioni scolastiche: la scuola infantile, elementare e media: IV), che ripercorrono le principali tappe di quella che potremmo definire la carriera di un bambino o di una bambina,  Gianini Belotti ci fa vedere che a seconda di come trattiamo le nostre piccole persone (perché tali sono: persone) li educheremo a desiderare fortemente oppure no certe cose, a vivere certi spazi e esperienze come naturali oppure inaccessibili e impensabili. E così, accanto all’educazione, ecco che il secondo importante fuoco del discorso riguarda l’istruzione delle bambine: argomento affrontato dalle più importanti pioniere del femminismo, anche da Woolf in A Room of One’s Own, e violentemente attuale oggi che ci arrivano notizie sull’interdizione della scuola e dell’università alle donne.

Eppure, anche qui Gianini Belotti può aiutarci a non consolarci troppo attraverso la nostra distanza geografica dai territori talebani, perché le pagine su come i bambini maschi sono educati (attraverso il comportamento dei genitori, il gioco) a pensare di realizzarsi a seconda di ciò che saranno, mentre le bambine sono avviate a un mondo dove troveranno posto a seconda di ciò che daranno o di quanto saranno pronte a usare la seduzione per ottenere le cose, quelle pagine fanno male nel senso che fanno comprendere meglio tante narrazioni più vicine a noi – e fanno perfino capire che una coscienza bambina può essere anche quella di chi, pur avendo raggiunto o persino oltrepassato l’età adulta, non ha consapevolezza della propria oppressione.

La terza speciale eredità di Dalla parte delle bambine riguarda, oltre che questo libro, tutta l’opera di Gianini Belotti, autrice di quindici volumi, inclusi molti testi narrativi (romanzi storici per esempio), che continuano a sperimentare strade nuove per dare voce e racconto a punti di vista insoliti e silenziati dalle discriminazioni di genere, come quello di una bambina vissuta in epoca fascista (in Pimpì Oselì: 1995) o di una donna vissuta nella seconda metà dell’Ottocento artefice della scandalosa scelta di fare la maestra, in Prima della quiete (2003). Si tratta, in questo caso, di un romanzo ispirato a una biografia reale, quella di Italia Donati (1863-1886), portatrice di un nome ispirato alla nascita della Nazione, ma che d’altra parte ci parla anche di come l’unificazione italiana sia avvenuta sul corpo di tante donne oscurate dal racconto storico ufficiale. Attraverso il romanzo, qui come in molti altri casi, Gianini Belotti continua a cercare soluzioni nuove per inventare comunicazione, come dice il sottotitolo di un altro testo: Prima le donne e i bambini (1980).

E infine, ma solo per modo di dire perché con Gianini Belotti non si conclude mai ma si ricomincia sempre, il quarto importante punto che ci consegna è l’attitudine a ragionare di bambini, di bambine e di discriminazioni attraverso lo spazio della scuola, e ragionando in termini di logiche culturali complessive. Ecco, sinteticamente, perché sarà importante leggere e rileggere Dalla parte delle bambine. Finché ce ne sarà bisogno.

Presto di mattina /
L’uomo nascosto

 

Deus absconditus

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto (abscondito) in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13, 44).

Tu non sei il fiume
ma ti nascondi nel fiume,
non sei la foresta
ma sei nascosto nella foresta,
non sei il vento
sei il vento del vento:
e senza, non c’è tempo,
perciò viviamo
e saremo eterni.
(D. M. Turoldo, Ultime poesie, Garzanti, Milano 1999, 25).

Sto all’inizio del nuovo anno, come di fronte all’ignoto dei giorni ancora nascosti, inediti, con l’intimo desiderio di andare cercando, come anno dopo anno, il vangelo nascosto nella vita delle persone che incontrerò nel divenire dei giorni, pagine di nuovo vangelo.

Nel labirinto dei giorni tu sei
certezza di speranza in ogni inciampo,
filo d’Arianna a quanti van sperduti:
e il mostro è vinto, il Tesoro è trovato;
tesoro ai cuori, nascosto nel campo.
(Clemente Rebora, Le poesie 1913-1957, Garzanti Milano 1997, 337-338).

La prima e fondamentale ricerca di Dio la si fa senza conoscerlo, avventurandosi nella nube oscura della non conoscenza, come Mosè. Il suo mistero ci accompagnerà durante tutta la vita, anche dopo averlo incontrato, riconosciuto, creduto ed accolto.

Credenti o non credenti, appartenenti a questa o a quella religione, siamo infatti tutti spinti da un qualcosa in noi di indefinito, impalpabile, inafferrabile eppure capace di sommuoverci tutti o di esondare al di sopra di tutto – un poco come la musica o la gioia – di inquietarci interiormente e turbarci fino a scuoterci come il dolore, specie quello innocente, mistero che, possedendoci e facendoci sentire la fame e la sete di ciò che ci manca, ci butta oltre noi stessi pur restando profondamente e tenacemente radicato dentro noi stessi.

È quel mistero pure dell’uomo nascosto, intimo a noi più di noi stessi; l’uomo a venire della conviviale aperta a tutti; “l’uomo planetario” direbbe Ernesto Balducci.
Quest’esperienza ci accade quando non sappiamo ancora nemmeno nominare questa forza e presenza che ci inabita spiritualmente, così noi procediamo come a tentoni alla sua ricerca.
Ma cos’è questo mistero? questo Deus absconditus et ignotus e tuttavia non lontano da noi?

Eppure è così simile a quello che accade quando ci troviamo di fronte a qualcuno per la prima volta. Lo vediamo con gli occhi e ne conosciamo la figura, lo scrutiamo nella sua forma esteriore, sentiamo la sua voce, osserviamo il suo volto, il colore dei suoi occhi, ma in realtà, pur standoci di fronte, egli resta absconditus et ignotus.

Così, l’incontro con una persona ci spinge a cercarla ancora e ad andare più in profondità, a procedere oltre, a cercare l’uomo nascosto nel cuore, gettando la fiducia come il seminatore il seme, senza fermarsi all’esteriorità della prima volta. Non basteranno una volta e neppure cento; occorreranno tutti i giorni dell’anno, tutti quelli della nostra vita per sollevare un poco il velo.

E nondimeno, anche così, questa persona resterà nascosta ed ignota nella sua realtà più profonda, pur camminandoci a fianco ogni giorno, fino a quando non sarà lei stessa a manifestarsi a noi e a farci entrare nell’intimità della sua esistenza. Se così è con le persone, perché non dovrebbe esserlo con colui che il profeta attesta: «Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio di Israele, salvatore», (Is 45, 15).

Homo cordis absconditus

L’uomo nascosto nel cuore, è l’uomo in noi che sta al di dentro, potenziale, in gestazione, non ancora venuto alla luce: «homo qui intus est» (2 Cor. 4, 16), l’uomo interiore, «interiorem hominem» (Rom. 7, 22), quello del cuore, «absconditus est cordis homo» (1 Pt. 3, 4).

Più di quella esteriore – sembra dirci l’apostolo Pietro – è la bellezza interiore. Una bellezza segreta, che ci fa da guida perché capace di generare l’uomo ancora nascosto, in embrione in ciascuno di noi: mistero a noi stessi, che attende di disvelarsi e mostrare il suo “volto scoperto”.

Si potrebbe dire allora con Jürgen Moltmann che l‘identità umana nasconde in se stessa una profonda non identità: un’identità a venire. Che – secondo Moltmann – caratterizza pure l’identità cristiana: «non è un’identità chiusa, aggressiva, del tipo di quella che si profila nei rapporti ispirati allo schema amico/nemico, ma identità aperta, invitante, accogliente e salvante.

È quell’identità in cui gli esseri umani non solo giungono a se stessi, ma da se stessi pure escono; non solo vengono radunati, ma anche inviati. È l’identità che nasce dal movimento che va dall’uno ai molti, quindi non un’identità statica, di cui potremmo dire “semper idem“, ossia sempre la stessa, ma di tipo processuale, che si forma nel processo dell’effusione dello Spirito “ogni carne”.

Ogni identità personale nella fede in Cristo “trascende” se stessa nella speranza del regno di Cristo che viene; ogni identità di gruppo che si forma nelle comunità particolari “trascende” i propri limiti per aprirsi ad “ogni carne”» (La pienezza dei doni dello Spirito, in Concilium, 1 (1999), 60-61).

Non solo ecumenico ma anche planetario è l’homo absconditus cordis. Ce lo ha ricordato padre Ernesto Balducci (1922-1992) nel suo libro: L’uomo planetario. Testimone di pace a profezia di quei miti che erediteranno la terra, artigiano di pace pure lui, nonostante fosse oggetto di molte censure e “controlli” ecclesiastici e allontanamenti forzati.

Ma il soggiorno romano gli permise di avere parte alla primavera del concilio e di sostenerne in modo accorato la riforma. Fondatore della rivista Testimonianze e delle Edizioni Cultura della Pace diceva di se stesso di essere stato «fedele più che alle istituzioni alle coscienze delle persone».

Proprio oggi desidero ricordarlo alla chiusura dell’anno centenario della sua nascita. Significativa è così la scelta dell’ultimo giorno dell’anno sulla soglia di quello nuovo, tra quel che muore e quel che nasce: l’uomo ancora inedito si specchia in una storia e prassi di chiesa ancora da scrivere. (Cfr. scheda del Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani).

Beatitudini: il mondo dell’uomo nascosto

L’espressione “uomo nascosto” è ricorrente nei testi di Balducci come nelle sue conferenze sulla pace, specie in quella di Boves a Cuneo del 1989. In quell’occasione egli indicava Gesù di Nazaret come l’uomo nascosto che si rivolge all’uomo ancora inedito, non ancora modellato da una particolare cultura, soprattutto da quelle che rivendicano la pretesa di essere uniche ed esaurienti espressioni in sé dell’umano.

Gesù indica non tanto la cultura ma la profezia, come l’espressione più vera dell’uomo; egli si rivolge al non ancora nascosto, all’uomo potenziale, piuttosto che al già delle culture che tendono a rinchiuderlo, egli rivela e risveglia così nelle coscienze, con la parola e l’azione il non ancora dell’uomo che tuttavia gli abita dentro:

L’uomo nascosto è per un verso quello che porta in sé il sigillo dell’atto creativo di Dio e che aspira alla pace; nell’atto creativo Dio orienta l’uomo alla pace”. Nella risurrezione l’uomo nascosto di Nazaret sarà colui che affiderà ai discepoli la consegna della pace dicendo loro “pace a voi”. Egli è pure il Figlio dell’uomo nascosto negli uomini e nelle donne delle Beatitudini, sono questi, secondo Balducci, che vanno plasmando “il mondo dell’uomo nascosto”, la terra nuova dell’uomo planetario.

Così «le prospettive di vita enunciate nelle Beatitudini sono anche – si pensa poco a questo aspetto – enunciazioni di possibilità dell’uomo. Chiunque dicesse: “è impossibile per l’uomo essere mite” contraddice il Vangelo perché il Vangelo ha legittimato questa aspirazione come possibilità umana. E così: “è impossibile che i perseguitati siano beati”; chi dice così, mentisce, contraddice al Vangelo perché il Vangelo dice: “Beati i perseguitati”.

Le Beatitudini hanno questo di proprio hanno una enorme carica di consolazione perché legittimano, dinanzi a noi stessi, aspirazioni che la cultura in cui siamo delegittima e squalifica. C’è una porzione di noi che è screditata, vilipesa dalla cultura dominante, al punto tale che noi stessi ce ne vergogniamo e la rimuoviamo da quella sfera interiore dentro cui ci raccogliamo quando vogliamo costruire le linee del nostro esistere.

Le Beatitudini ci esortano a non conformarci ai modelli di vita dominanti, a guardarli con sospetto metodologico e a recuperare la fiducia in certe aspirazioni che invece il mondo esistente sconsacra e deride. Le Beatitudini ci restituiscono alla piena solarità interiore» (Il mondo dell’uomo nascosto. Le Beatitudini, E. Balducci et al., Borla, Roma 1991, 65-66).

Quando io annuncio ad un’assemblea qualsiasi: “Beati i poveri, beati i miti”, qualcuno può sentirsi a disagio, ma in realtà, dentro di lui, una risposta si leva: è l’uomo nascosto che si alza in piedi, che sente annunci di cui ha avuto il presentimento. Ecco perché il linguaggio profetico dà gioia: dichiara che l’impossibile è possibile. Nell’uomo nascosto c’è il futuro. Il suo tempo è il futuro e non il passato. Il linguaggio profetico è il linguaggio che mette in rapporto l’uomo nascosto e il suo futuro» (ivi, 74-759).

Uomo edito e uomo inedito

«Il futuro dell’uomo nascosto non è il tempo a venire i cui contenuti sono già nel presente – il futuro dei futurologi -, è il tempo che ci viene incontro portando con sé, come possibilità oggettive, nuovi modi di essere rispondenti alle possibilità soggettive latenti in noi. Ci manca, ed è questo il nostro vero dramma, una mappa delle possibilità umane, perché siamo imprigionati in un’immagine univoca di uomo costruita e imposta, con tutte le iridescenze dell’universalità, dalla cultura in cui siamo cresciuti.

Quell’immagine si sta lacerando e proprio per questo si riapre dentro di noi la dialettica tra uomo inedito e uomo edito. In forza di questa dialettica acquista senso la circostanza che è totalmente nuova nella storia: la compresenza, anzi in certi casi la convivenza di molte umanità, ciascuna delle quali ci apre un distinto spiraglio sulla totalità umana.

Di più: noi oggi sappiamo, come mai nel passato, che il destino dell’uomo e quello del cosmo sono tra loro indisgiungibili, sia nella loro origine, perché l’uno e l’altro prodotti da un medesimo processo evolutivo, sia nel loro fine, perché il mondo così com’è è un prodotto della versatile creatività umana, sia perché l’uomo così com’è è il centro di unificazione dei processi cosmici.

Per questo la verità dell’uomo non è nel rifiuto del mondo, è, semmai, nel suo oltrepassamento o per meglio dire nel suo farsi carico del gemito che sale dalla creazione e che, secondo la forte immagine di Paolo, non è il gemito di un morente, è il gemito di una partoriente» (La terra del tramonto. Saggio sulla transizione, Ed. Cultura della Pace, Fiesole 1992, 55-56).

Ed ancora: «Come l’uomo, anche dio ha mille nomi, ma la pluralità nominabile trova il suo senso unificante nell’asse che, sotto le forme storicamente espresse, corre dall’uomo nascosto, gravido di una universalità ancora inedita, al dio nascosto nel cui seno quell’universalità potenziale ripone se stessa, al sicuro dalle usure del tempo e dalle menomazioni delle culture.

In quanto tengono vivo questo trascendimento, le religioni sono una garanzia della libertà dell’uomo, o meglio della sua non identità con se stesso… Il senso delle religioni è il servizio all’uomo nella sua dimensione di trascendimento perenne fino al contatto con Dio, fino a quel disvelamento che aprirà definitivamente l’uomo a Dio e Dio all’uomo» (ivi, 128- 134-135).

«Ti rendo lode, Padre, hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.» (Mt 11,25)

Francesco d’Assisi – ha scritto ancora padre Balducci – è colui che ci permette di renderci conto dello stupore e dell’entusiasmo che suscitò nei suoi contemporanei, e continua a suscitarlo in noi, l’uomo nascosto disvelato nella sua vita.

Si riconoscono in lui, rispetto alla cultura e alla fede del suo tempo, i tratti di un profeta, di un uomo nuovo inedito per il suo tempo e per la sua stessa chiesa: «Potremmo dire che Francesco fece apparire possibile quanto per la cultura del tempo appariva “impossibile”, fece apparire ragionevole quel che appariva “irrazionale”», fece apparire del tutto ovvio quel che appariva “strano”.

E questo non con uno stravolgimento delle misure a cui la natura umana deve attenersi per non uscire dal proprio asse, ma perché, com’è nel potere dei profeti, egli portò alla luce l’uomo nascosto, voglio dire l’uomo che nelle sue inesauribili possibilità resta represso nel modello che l’educazione gli impone, dandogli così identità ma dividendolo da se stesso.

È da questa porzione inedita di umanità che salgono, tenute a bada dalla sorveglianza della ragione, le aspettative di nuove forme di vita che lascino uscire al sole e all’aria le possibilità mortificate dal divieto della cultura dominante.

Tutto sembrava ormai condannato alla vecchiaia, così Tommaso da Celano, testimone diretto di Francesco, apre il suo Trattato dei Miracoli: “quand’ecco, all’improvviso, emerse sulla terra un uomo nuovo, e all’apparire subitaneo di un nuovo esercito, i popoli furono ripieni di stupore davanti ai segni della rinnovata età apostolica. È ora d’un tratto portata alla luce la perfezione già sepolta della Chiesa primitiva, di cui il mondo leggeva sì le meraviglie, ma non vedeva l’esempio (3 Cel, 1)» (Francesco d’Assisi, Ed. Cultura della Pace, Fiesole 1989, 57-58).

Ne L’uomo planetario leggiamo infine: «Da qui trae origine una nuova forma di pietas, il cui contenuto è la premura amorosa per la specie in quanto tale e, più generalmente, per ogni forma di vita in cui si svela la profonda parentela dell’uomo con il cosmo.»

Una libellula rossa è passata ed è andata a posarsi su una palizzata, proprio davanti a me. Mi sono alzata con il cappello in mano per prenderla, quando …” , così scrisse un’allieva del collegio Sanyo Fukuhara Eiji, sopravvissuta all’eccidio di Hiroshima. La mano infantile tesa verso una libellula nell’attimo stesso dell’apocalisse è come un simbolo di questo amore fragile dell’uomo per tutto ciò che attorno a lui narra il poema della vita» (Ed. Cultura della Pace, Fiesole 1992, 1990, 8).

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IL PANTHEON DELLA DESTRA E DELLA SINISTRA

 

Abbiamo assistito nei giorni scorsi alle polemiche sulle dichiarazioni di nostalgico amore per il MSI, da parte di esponenti di vertice della destra al potere.
Niente di particolarmente elevato, in questo dibattito, eppure non privo di significato tale da suscitare qualche riflessione.
Il Presidente del Senato e una sottosegretaria del governo, La Russa e Rauti, i protagonisti di questa impresa. Oltreché due cariche istituzionali di prima grandezza, sono due nomi pesanti nella storia politica del nostro paese. Entrambi legati alla nascita e alla vita del Movimento sociale fiamma tricolore, erede diretto di Salò.
Figli d’arte dei fondatori fascisti di quel movimento e delle sue emanazioni ancora più estreme e, se possibile, ancora più fasciste. Come Ordine Nuovo, famigerata e funesta aggregazione terroristica di nazifascisti, di cui Pino Rauti fu creatore e ideologo. Come il padre di La Russa, che fu un caporione dell’ancien regime mussoliniano.
Commemorarne il 75mo anno della nascita, coincidente, scherzo della storia, con lo stesso anniversario della costituzione, democratica e repubblicana, nata, vedi tu, proprio dalla Resistenza a quell’ infausto regime. Se ne è dibattuto.
Ci si è scandalizzati, sono state chieste le dimissioni dei due, dalle importanti cariche istituzionali. Fuffa. La storia non si può riscrivere a piacimento. Così fu e così resta. Certo non è un bel servizio a quella democrazia, che ha consentito loro di scalare il potere, e che ora sono chiamati a rappresentare con “dignità e onore”. Semmai è proprio questo, la dignità e l’onore che difetta, segno di una incompiuta conversione alla democrazia.
Il fatto ci dice, invece, che questo è il Pantheon della destra oggi vincente. Se vogliamo dargli una verniciatina culturale si può aggiungere Gentile, Evola, Erza Pound. Ma questi chi li evoca mai?
La Russa, la nostra seconda carica dello stato, è un fanatico collezionista dei busti del Duce! Tutto qui, il pantheon e la cultura basica della destra nostrana.. Roba di una miseria da vergognarsi.
Eppure la maggioranza del paese li ha votati. Disperazione o straniamento?
Messo a confronto con la ricchezza del Pantheon della sinistra democratica, cattolica e socialista, non c’è proprio paragone che tenga. Valori culturali, politici, umanitari, democratici, testimoniati spesso con il sacrificio violento della vita, ad opera di quel terrorismo che, anche quando appariva di estrema sinistra, aveva sempre stretti e confusi rapporti con gli epigoni di quella cultura politica di destra, dei suoi gruppuscoli violenti, e dei suoi mille oscuri rapporti col peggio della società, fino a comprendere mafia e P2. Matteotti, don Minzoni, Moro, La Torre, Mattei, Ruffilli, Tarantelli, Bachelet…e quanti altri…
Ma anche chi ci ha lasciati morendo nel suo letto, da Berlinguer, a don Milani, La Pira, Jotti, Anselmi e tanti altri ancora, il patrimonio morale e culturale della sinistra è immenso. Di valore e di valori perenni.
Moderni. E non, certo, archeologia culturale.
Oggi che nella crisi del PD, avviato ad un surreale congresso, si cincischia intorno alla “ricerca di una identità”, nella illusione di un incerto rilancio, viene da imprecare il destino “cinico e baro”.
Che destino proprio non è, ma frutto di un tradimento di quanti hanno dimenticato e dilapidato quella eredità morale e politica, svendendola per il biblico piatto di lenticchie.
Un potere sterile senza più ideali e valori. Che nulla ha prodotto per la promozione umana e sociale di quelle classi più sfortunate ed emarginate, che è la missione irrinunciabile di una vera sinistra. “Sconfiggere la povertà non è un atto di carità ma di giustizia” diceva Mandela. Ciò che non viene fatto, però, se il potere si gestisce come interesse personale e non come servizio…
Quel potere che corrompe, se si tradisce il patrimonio ideale di riferimento, dal quale, e solo da esso, può trarre ancora alimento.
C’è davvero da domandarsi come possa essere accaduto che un popolo, il più povero, un tempo blocco sociale della sinistra, possa affidare il destino della sua vita ad una destra senza radici, senza cultura e senza valori. Abbandonando così quello straordinario patrimonio di ideali e sensibilità, ispirati invece a quell’ “umanesimo integrale” (Maritain, Mounier…) di vero riscatto.
Eppure è accaduto. In pochi anni ben sei milioni di elettori hanno voltato le spalle al Pd.
Ha ragione Cuperlo a dire che su questo deve riflettere il congresso del PD, e dare ragione delle responsabilità di avere dilapidato un patrimonio di così grande valore.
È per questo che occorre quella radicalità, su temi e regole, che inizia con il ricambio totale del vecchio gruppo dirigente e regole rigorose sulle ricandidatura, ad evitare che ci sia chi accumula sette legislature e, non pago, porti anche la moglie in parlamento! Vergogna, arroganza, avidità riprovevoli.
Ma fondamentali sono anche le battaglie sociali e di civiltà da affrontare con decisione e passione, a cominciare dalla lotta alla disoccupazione, alla precarietà e alle disuguaglianze. Con una speciale attenzione ai giovani, alle donne, ai poveri, all’ambiente.
Ma con politiche concrete e creative, e non con vuote e retoriche declamazioni, come è accaduto fino ad oggi. Recuperando così quel senso della vita sociale e individuale, partendo dalle classi più disagiate.
“Solo i poveri conoscono il vero significato della vita” scrive Bukowski. Un legame intimo e profondo da recuperare nella convinzione che la società è pervasa da un prevalente spirito di sinistra ideologica e sociale, che non può non tornare alla sua casa naturale. Questa la mia speranza. Questo il compito del nuovo partito democratico.

Lunga vita al Re

 

Non è mio uso commemorare i defunti con post strappalacrime e strappa like sui social, tantomeno cercare di scrivere un pezzo ad ogni scomparsa eccellente. Ma oggi è diverso. Ieri all’età di 82 anni è morto il Re, colui che sta al calcio come Elvis sta alla musica. Scriviamolo per intero: Edson Arantes Do Nascimento, per tutto il mondo Pelé.

Non mi appassionano i paragoni tra giganti. Era più forte Maradona? Di Stefano? Crujiff? Eusebio? Messi o i due Ronaldo?
Non è importante, ognuno di noi appassionati o ex appassionati di calcio ha il proprio idolo personale. Ma Pelé era diverso. Un padre calciatore sfortunato, la miseria come status sociale, la fibra, tutti i tendini del suo corpo assorbiti dall’Africa, trasformatisi in strumenti di difesa per gli schiavi che scappavano alla ricerca della libertà nelle foreste del Brasile dominato dai Portoghesi. Quegli stessi schiavi che divennero comunità nella foresta Amazzonica, ritrovando in un altro continente i colori e i sapori della loro terra lontana. Ed è lì che nasce il calcio bailado, la musicalità come strumento contro l’oppressione, la danza e l’autodifesa mischiate assieme nella capoeira, un’ arte marziale che si basa fondamentalmente sulle acrobazie mischiate all’eleganza dei movimenti. Ecco, lì nasce il mito, tra quel groviglio di rami, radici, umidità e calore, si sviluppa il gioco che per quaranta anni Edson diffonderà via etere di là e di qua dall’oceano.

Certo, c’è chi dice che Pelé mai giocò in Europa, con una malcelata supponenza velata anche da una sorta di razzismo, ma chiedetelo a Burgnich che era stopper perfino nel nome, Tarcisio, oppure a Trapattoni, chi era quel numero dieci con la maglia verde-oro.

I numeri e i record sono su Wikipedia. L’età del suo esordio in nazionale e la Coppa Rimet vinta in Svezia a diciassette anni, le altre due coppe del mondo, i suoi mille e duecento e passa goal in partite ufficiali, la sua media vicina a un goal a partita.
Ma non sono i numeri che fanno grande Pelé, è la sua essenza, il calcio non come sport, ma come gioco, la ginga (attacco e schivata) come stile e riproposizione dei colpi che tutti noi bambini abbiamo cercato di imitare nei cortili e nelle strade. Palleggio, sombrero, tunnel, dribbling, rabona, non per coglionare gli avversari, ma per divertirsi e divertire. La suola come parte fondamentale del piede, il goal come apoteosi, come orgasmo che coinvolge una moltitudine.

Pelé ballava e con la palla ci faceva all’amore, non la calciava, la accarezzava. Il pallone era la sua ragione di vita, proprio come noi bambini degli anni ’70 vedevamo nel super Santos (appunto) il motivo della nostra felicità. Ancora un rimbalzo e la palla tocca il muro del cortile, dentro il contorno di una porta segnata con uno spezzone di laterizio. E da lì esplodeva la gioia.

Insomma, nulla a che vedere con quel simulacro di sport per culturisti miliardari che è diventato “il gioco più bello del mondo” negli ultimi trent’ anni. Soldi, doping, target, budget, plusvalenze, sceicchi, americani, dollari, petrolio, una poltiglia percolante che ha trasformato i tifosi in fruitori passivi di un servizio.  La passione derubricata a audience.

Lo stadio sostituito dal divano, il telecomando come simulacro di libertà, la finta partecipazione nascosta dietro agli schermi viola dei telefonini.

Ecco, Pelé con tutto questo non c’entra nulla, lui è il Re dalle movenze sfumate in bianco e nero, come gli unici colori che indossò in carriera, il Santos come religione e il suo numero dieci come Dio.

Nulla più, nulla meno.

Assurdità statistica: Pelé non vinse mai il pallone d’oro, così come Maradona. L’incoronazione del più forte, del più bravo è da sempre espressione del Capitale, di chi detiene il potere, decide e definisce i canoni. E quali sono i canoni? Lasciamo stare le decine di campionati Paulisti vinti, quelli Brasileiri e pure quello del soccer nord americano dove Edson andò a fine carriera a dollarizzare i suoi ultimi tocchi, ma tre campionati del mondo? Migliaia di goal, certo, alcuni in partite non ufficiali, e con ciò? Le decine di record?

Ma è ancora poco.

Magari sarà banale ricordare senza la finezza del sapiente tecnico calcistico, che il ragazzo nato nelle favelas di Três Corações non aveva un piede preferito, non aveva un ruolo definito, lo decideva il campo, il pallone cercava il suo padrone, la forza fisica, l’incredibile elevazione, il dribbling, la finta, l’acrobazia, la danza.

Perché sprecare tempo in similitudini, senza senso, ritorniamo alle parole di Tarcisio nostro dopo la finale persa dall’Italia a Città del Messico: “Prima dell’ingresso in campo pensai: è di carne e ossa come me, mi sbagliai”.

Il calcio è quello sport nato in Inghilterra alla metà dell’800 – forse ne esistevano tracce ataviche anche nelle ere precedenti – morto il 29 di dicembre del 2022 a San Paolo in Brasile.

Ma il pallone, una rovesciata in un campetto senza porte, un dribbling fatto in strada con una lattina di birra schiacciata, una maglia bianca con il numero dieci disegnato col pennarello, non moriranno mai, finché ci sarà un bambino di qualunque età che rincorrerà il rimbalzo di un super tele in una strada di periferia.

Lunga vita al Re.

La ginga

figlia della capoeira

arma di difesa degli schiavi,

nel sangue la libertà e la musica.

Sangue rosso

figlio dell’Africa

gioia di vivere

nata nel fango della favela.

Riscatto di un popolo

nel gioco del pallone

una danza acrobatica

sopra gli altri giocatori.

Piedi nudi e palleggio

coi frutti dolci dei tropici

poi scarpette nere

e una maglia bianca.

Tu sei il metro di misura

il paragone

a cui tutti dopo di te

hanno reso omaggio.

Arrivederci O’Rey

il calcio è morto

il sogno di un goal in rovesciata

invece, non morirà mai.

Storie in pellicola / Odio il Natale

Ne parlano tutti, le recensioni non si contano, tutti la cercano, tutti la vedono, c’è chi è entusiasta e chi meno. Ma la curiosità è tanta, se non altro per il gran parlare (e scrivere) che se ne è fatto. È la prima serie italiana di Netflix, a disposizione sulla piattaforma dal 7 dicembre, Odio il Natale, commedia romantica in 6 episodi (ognuno di circa 30 minuti).

Remake della serie norvegese (in due stagioni sempre su Netflix) Natale con uno sconosciuto di Per-Olav Sørensen, la serie è diretta dai CRIC (Davide Mardegan e Clemente De Muro), ed è ambientata in una Chioggia fatta di lucine e presepi che odorano di muschio, che le regala una delicata atmosfera romantica.

Protagonista l’imperfetta ma sensibile trentenne Gianna (Pilar Fogliati) alla ricerca dell’amore (e non solo a Natale, che lo richiede) e del suo posto nel mondo.

Gianna (che i genitori hanno chiamato così a causa della canzone di Rino Gaetano, poteva andarle peggio, dice, potevano chiamarla Rina o Gaetana…) è un’infermiera con solide amicizie, il suo lavoro è una vocazione, ama il prossimo ma… non ha un fidanzato. È tremendamente single, e a Natale davvero non si può… È quindi convinta che il Natale ce l’abbia con lei, la odi e la giudichi.

Le domande dei parenti poi, “non sei ancora fidanzato/a?”, “stai con qualcuno/a?”, “sei ancora single?”, “cosa aspetti ad avere dei bambini?” sono sempre lì in agguato, un po’ come l’insopportabile “cosa fai a Capodanno?”

Tra canali, ponti e piazzette, sempre in sella alla sua bicicletta rossa, Gianna, che dialoga direttamente con lo spettatore in una sorta di videodiari, cerca la sua direzione fra appuntamenti quasi al buio con il liceale Davide (Nicolas Maupas, che abbiamo visto in Mare fuori o in Un Professore), con il ricco ma sfortunato Carlo (Marco Rossetti) o lo stranissimo Mario (Alessio Praticò).

Con Gianna ci sono le fedeli amiche, la donna in carriera Titti (Beatrice Arnera), l’ancora vergine Caterina (Cecilia Bertozzi) e una sorella, Margherita (Fiorenza Pieri) in crisi con un marito assente. Sarà proprio Caterina a vivere uno dei momenti più poetici della serie, quando Diego, un ragazzo sordomuto (Alan Cappelli Goetz) trova il coraggio di esprimerle i suoi sentimenti. Era lui che le lasciava degli origami nel cestello della bicicletta. Nella lingua dei segni, le apre il suo cuore: “Eri tu che trasformavi i miei giorni in vita”.

Ma il Natale continua a parlare di coppia e famiglia e lei avrà 24 giorni per presentarsi accompagnata alla cena della vigilia, la prova generale. Inizia il conto alla rovescia per presentarsi in coppia dai genitori (interpretati da Sabrina Paravicini e Massimo Rigo).

Un mix di racconti, sorprese, risate e sentimenti che fanno bene.

Tanti sono i motivi per vedere questa simpatica serie e passare momento spensierati sorridendo ma anche riflettendo. Siamo (o almeno siamo stati) tutti Gianna, tra errori e malintesi, voglia di starsene insieme ma anche di abbandonare chi, in fondo, ci faceva solo stare male (e quanto tempo per rendersene conto, a volte). Abbiamo avuto spesso voglia di confessarci, di essere ascoltati e presi per mano o sottobraccio, di ammettere errori e fragilità, senza essere giudicati.

La complicità femminile, fra le risate, e l’attesa della persona gusta, ci accomunano.

E ancora, come per Gianna, a sorreggerci ci sono famiglia e amici, quel calore rassicurante che avvolge e protegge. I pilastri che non crollano mai.

E poi ci sono le luci di Natale riflesse dall’acqua, i mercati del pesce, la nebbia del primo mattino, il calore di una comunità dalle antiche abitudini e tradizioni che continua a vivere la festa più attesa dell’anno come una benedizione. Oltre al piacere di ritrovarsi, di stare tutti insieme attorno a un tavolo imbandito, per condividere bei momenti. Sorridendo.

E poi e poi…Pilar Fogliati, l’attrice che ha esordito al cinema con Forever Young di Fausto Brizzi e che abbiamo visto nelle serie di successo Un passo dal cielo o Cuori, oltre che al timone di Extra Factor con Achille Lauro, è davvero bravissima.

Ecco perché Odio il Natale è da vedere, anche per ritrovare un po’ della magia perduta di questa bella festa, travolta dal consumismo.

In attesa della seconda stagione, intuita dal finale aperto (un clamoroso cliffhanger…) e già confermata.

Foto in evidenza di Erika Kuenka, Netflix

Emergency resterà in Afghanistan

da Emergency

EMERGENCY conferma di proseguire il suo impegno in Afghanistan nei suoi 4 ospedali e oltre 40 posti di primo soccorso pur esprimendo grande preoccupazione in merito al recente annuncio del Ministero dell’economia afgano secondo il quale organizzazioni non governative, sia nazionali che internazionali, non potranno più assumere donne afgane. Si tratta di un ulteriore provvedimento che mina i diritti delle donne e punta a ridurre il loro ruolo in diverse sfere della vita pubblica, dall’educazione al lavoro.

Il personale sanitario non rientra nel provvedimento previsto dalla legge, ma EMERGENCY chiede comunque alle autorità di riconsiderare questa decisione e permettere alle donne di continuare a contribuire allo sviluppo del loro Paese.

EMERGENCY dal 1999 ha garantito cure gratuite e di alta qualità a più di 8 milioni di persone in Afghanistan e attualmente gestisce tre centri chirurgici, un centro di maternità e 41 posti di primo soccorso distribuiti nel paese. Nel suo staff include e forma afgani in tutte le sue strutture; dello staff nazionale fanno parte 365 donne, 21% del totale. Le colleghe afgane sono una componente fondamentale del team, e permettono di curare pazienti donne che senza di loro correrebbero altrimenti il rischio di venire escluse dall’assistenza sanitaria.

Il Centro di Maternità di EMERGENCY ad Anabah, nella Valle del Panshir, è completamente gestito da donne e dal 2003 assicura cure prenatali, parti e cure postnatali a madri e bambini, contando oltre 470.000 visite ambulatoriali, 97.000 ricoveri e 73.000 nascite.

L’attività di questa struttura ha contribuito a ridurre la mortalità materno-infantile in una delle aree più complesse del Paese. Qui lavorano 114 donne tra ostetriche, ginecologhe, infermiere e personale non sanitario, e la sua scuola di specializzazione in ginecologia sta formando al momento 12 professioniste.

Qualsiasi tentativo di proibire l’assunzione di donne afgane avrà un impatto importante sulla capacità del personale di EMERGENCY di fornire cure e danneggerà, soprattutto, le attività rivolte a donne e bambini, incluse le prestazioni legate alla maternità, quelle ginecologiche e pediatriche.

EMERGENCY ha sempre dimostrato la propria sensibilità verso le differenze culturali durante il suo operato in Afghanistan, e si impegna a continuare le proprie attività finché sarà in grado di fornire assistenza a tutti coloro che si trovano in stato di necessità, senza discriminazioni e per mantenere la propria indipendenza. Le strutture di EMERGENCY proseguono nel loro lavoro come sempre con tutte le colleghe afgane che continuano a svolgere le proprie mansioni.

Attualmente EMERGENCY sta cercando di comprendere quali saranno le conseguenze di questa politica, quali le esenzioni del settore sanitario e l’impatto di questa decisione sulle sue attività.

Emergency

Cover: Foto di http://www.rimaflow.it

Parole a capo
Agnes MK: “Silenzi” e altre poesie

“Vedere un mondo in un granello di sabbia
e un paradiso in un fiore selvatico,
tenere l’infinito nel palmo della mano
e l’eternità in un’ora”
(William Blake)

M’incollo

Dolore marcisce radice
tradisce di vita la voglia
la figlia ferita è una foglia
che incolla di resina il cuore

Restare a galla

Sospendono vite gli amori
se le hanno sapute strappare
al tempo reciso dei fiori

Dalla finestra

Come nei cimiteri
fioche luci le sere
sulle vite mancate

Silenzi

Vieni
è aperta la porta
al suono distante dei passi
Tu temi alla soglia il dolore
io tremo pensando al fragore
che accese di voglie non nostre
Vieni
a noi spetta la pace
era fuoco
ora brace tra sassi del cuore
Ci piace ormai spegner parole
fa poco rumore l’amore che tace

Illusionismo

Vorrei un amore solo
odore di naufragio
di sogni tutti salvi
intatti alla deriva
mi basterà giocare
occhi chiusi sulla riva
fingendo sia un reperto
ogni conchiglia

Senza parole

Le parole del silenzio
sono voce dalla mente
che comincia col tuo nome
i discorsi e non li chiude

Preghiera

Prego amore farsi segno
farsi tocco del tuo corpo
farmi tempio del tuo nome
farsi altare di parole
che inginocchino le bocche

(Queste poesie sono tratte dalla raccolta “Dal circo”, ChiPiùNeArt Edizioni 2022, su gentile autorizzazione dell’autrice)

Agnes MK. Da ragazzina Agnes è solitaria e malinconica, suona la chitarra classica e scrive per parlare con Dio; in attesa di una Sua risposta, si interessa alle dinamiche terrene, mostrando particolare curiosità per l’amore romantico. Agnes trova nel sentimento amoroso la “violetta” da guardare per affrontare il peso del mondo, ispirandosi all’omonimo personaggio de “l’Immortalità” di Milan Kundera, da cui trae lo pseudonimo.
Nell’alternarsi di passioni, dolori e gioie vissuti con grande intensità (ma anche con il sospetto che la vita sia solo un gioco o una “palestra”), Agnes sviluppa abilità da funambola, sostenuta dalla tendenza a ridere di sé.
Attualmente Agnes scrive poesie, studia recitazione e pratica Ashtanga Yoga a Milano, dove interpreta anche un personaggio originario di Isernia, che lavora in banca e ha il suo stesso nome (Ines, in spagnolo).

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Parole e figure / Rosa à pois

La pioggia cade come ci si innamora, a dispetto delle previsioni – Martin Page

Passate le feste abbiamo ancora voglia di festeggiare, di ringraziare la bellezza della vita, di coccolarci con la vicinanza delle persone care, di passare ancora momenti a poltrire con in mano un bel libro. Fino all’Epifania ci sarà ancora qualche giorno per ritagliarsi uno spazio per sé e magari per donare nuovamente libri.

Eccoci qui, allora. Oggi è il turno di un bel libro delle Edizioni LupoGuido, Rosa à pois, di Amélie Callot e Geneviève Godbout. Un libro che rileggo per l’ennesima volta, una magnifica storia che racconta le giornate no della protagonista, e con lei quelle di ciascuno di noi, e che ci aiuta a capire che qualcosa c’è sempre da fare per superarle. Soprattutto se ci si circonda di rosa, una tonalità che domina queste pagine leggere.

Amélie Callot è cresciuta sulle Alpi prima di trasferirsi nel sudovest della Francia. È ostetrica e scrive per diletto. Ha scoperto di avere un debole per la scrittura durante un viaggio di diversi mesi in Québec, nel quale ha tenuto un blog. Geneviève Godbout, invece, cresciuta nella campagna del Québec, è illustratrice per l’editoria dell’infanzia e per la moda a Montréal. Dall’età di 16 anni studia animazione tradizionale presso il Cégep du Vieux Montréal, per continuare la sua formazione all’Ecole des Gobelins a Parigi (tutto ci riporta qui…) e vivere anche a Londra per 7 anni.

Due belle artiste che raccontano la storia di Adèle che, nel suo grazioso caffè, il Grembiule à pois, prepara ogni mattina i tavolini, armata di tanti mazzolini di fiori disposti ad ornare e profumare quei momenti di ritrovo di amici e innamorati. A portarle i fiori due volte alla settimana, il mercoledì e la domenica, è Lucas, il fruttivendolo, ragazzo gentile, forte ed educato. Una rosa, una margherita, un tulipano e Adèle è soddisfatta. Anche per quei dettagli i clienti del caffè la adorano. Ma quel luogo non è solo un caffè. A seconda dei giorni della settimana si trasforma in mercato, cinema, ritrovo per le feste. È racchiuso, come a voler ispirare i suoi frequentatori, tra un gruppetto di case che fan fronte al vento, davanti all’oceano. Costa, praterie, prati e colori sono il panorama che si può vedere dalle sue finestre. Il caffè di Adèle è il cuore del paese, un rifugio caldo per tutti.

Quando piove, però, non può farci niente, Adèle perde completamente il suo spirito gioioso: potrete dire quel che vorrete per provare a convincerla, ma sarà fiato sprecato: lei si rintanerà in casa, sotto le coperte, e non metterà fuori dalla porta neanche la punta del naso! Un giorno, nonostante la bella giornata, ritrova sull’uscio un paio di stivali rosa, piccoli, con due soli impressi sulle suole. Di chi saranno? Alla ricerca del proprietario, allora, un po’ come con la scarpetta di cristallo di Cenerentola. Ricerca vana, nessuna soluzione, quando, alla sera ritrova sull’attaccapanni all’ingresso un impermeabile rosa. Stesso mistero… Qualcuno la sta aiutando a vedere le cose da un altro punto di vista.

Quell’impermeabile le va proprio a pennello, così come gli stivali… spunta allora anche un delizioso ombrello rosa… forse qualcuno le ha fatto quei doni per combattere la paura e il fastidio di passeggiare sotto la pioggia? In fondo, sotto l’ombrello, lasciando sulla terra bagnata quattro piccolo passi radiosi, si sta bene camminando abbracciati…

Una storia d’amore, quella di un corteggiamento discreto, un’amicizia che è complicità e cura. In un’atmosfera tenue, delicata e luminosa.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.

Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

Per certi versi/La piccola ballata degli alberi

La piccola ballata degli alberi

Vorrei che fossimo
Come gli alberi
Divorare il veleno
Della terra
Rilasciare
L’aria per la vita
Ospitare i leggeri
Natanti del cielo
Mani verdi
Mani gialle
Ocra
Rosse
Marroni
Farfalle

Sibilare il vento
Crescere nel silenzio
Che parla
Con voce
Inaudita

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’OlioPer leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Presto di mattina /
Il pastore di costellazioni

Benedikt, il pastore d’Islanda

Benedikt aveva un modo tutto suo di vivere il Natale. Cominciava a prepararsi la prima domenica di Avvento mettendosi in cammino verso i monti. L’obiettivo era di ritrovare le pecore smarrite, quelle che erano sfuggite in autunno ai raduni dei pastori. Pecore perdute nel gelido e buio inverno islandese: «La vita, diceva, è un servizio imperfetto sostenuto dall’attesa, dalla speranza e dalla preparazione».

Nessuno osava andare con lui eccetto due fedelissimi amici: il suo cane Leó e il montone Roccia. A volte lo cercavano anche i mandriani di cavalli quando ne perdevano qualcuno tra i monti. Lo seguivano nella tormenta, certi che, con la sua guida, li avrebbero ritrovati. Stavano con lui per un tratto, finché, ritrovati gli animali se ne tornavano; ma lui proseguiva salendo più in alto oltre le colline innevate verso il suo scopo: ritrovare le pecore smarrite.

Lungo quel tortuoso cammino verso l’imprevedibile come verso l’ignoto, sostava nelle gelide notti prima in una baita di contadini alle pendici dell’altipiano, poi a mezza via in un rifugio che era anche un bivacco di pastori con una stalla per gli armenti ritrovati; e infine lassù dove nessuno osava, appena un buco, giusto una rientranza nella roccia, come una grotta per un pastore, il suo cane Leó e il montone Roccia.

In paese, quei tre, che si avventuravano in una regione diventata a dir poco inospitale e proibitiva, erano chiamati la “santa trinità”. Erano come un mondo, un sodalizio di amici, una benedizione anche, che entrava benefica in un altro mondo fatto di tormente di vento, spilli di ghiaccio e di neve che accecavano. Alleandosi poi con il vento la neve inghiottiva e annullava ogni punto di riferimento, ogni certezza esteriore ed interiore, cancellando ogni traccia di sentiero e finanche la speranza.

Un mondo fatto di vite sgretolate da riunire, esistenze perdute da ritrovare, con il rischio di perdere sé stessi in quel mescolarsi e rimescolarsi, sprofondare e riemergere, nel continuo scomparire ricomparire di orizzonti capovolti del cielo e della terra.

Erano stranieri in terra straniera; e tuttavia, non senza la compagnia di una fragile eppur indomabile speranza in una provvidenza, nascostamente presente, che custodendo i loro sogni, calcava le loro orme facendo silenziosamente strada con loro. Yhwh, Benedetto egli sia, non aveva forse detto all’amico Abramo che sognava una discendenza come le stelle del cielo: «Cammina davanti a me?» (Gn 17,1).

La storia del pastore d’Islanda inizia così: «Se il tempo lo permetteva, la prima domenica d’Avvento, si metteva in viaggio. Riempiva una bisaccia di provviste, calzettoni di ricambio, varie paia di scarpe di cuoio nuove e un fornelletto da campo; prendeva con sé una latta di petrolio e una bottiglietta d’alcol e se ne andava tra le montagne, che in quel periodo dell’anno erano popolate solo dagli uccelli predatori più resistenti, dalle volpi e da qualche pecora sperduta.

Proprio di queste Benedikt andava in cerca, bestie sfuggite ai tre raduni regolari dell’autunno. Dovevano morire di freddo e di fame solo perché nessuno aveva la voglia o il coraggio di cercarle e riportarle a casa? Erano pur sempre esseri viventi. E Benedikt aveva una specie di responsabilità nei loro riguardi.

Il suo scopo era semplice: trovarle e ricondurle a casa sane e salve, prima che la grande festa portasse la sua benedizione sulla terra, e pace e gioia nel cuore degli uomini di buona volontà… Avvento. Negli anni quella parola era arrivata a racchiudere tutta la sua vita. Perché cos’era la sua vita, la vita degli uomini sulla terra, se non un servizio imperfetto che tuttavia è sostenuto dall’attesa, dalla speranza, dalla preparazione?» (Gunnar Gunnarsson, Il pastore d’Islanda, Iperborea, Milano 2020, 8; 10).

Benedikt lavorava in una fattoria d’estate e d’inverno. Badava al gregge in cambio di vitto e alloggio. Aveva iniziato quei viaggi in montagna, quei pellegrinaggi d’Avvento a ventisette anni e aveva già attraversato la regione montuosa per ventisette volte.

I suoi sogni erano sepolti in quegli anni. Ma quali sogni? «Quelli che solo lui e Dio conoscevano. E le montagne, a cui li aveva urlati nella sua disperazione. Ma già al primo viaggio li aveva lasciati lassù. Ben nascosti. O forse no? Non comparivano a volte nella solitudine dei monti, come spiriti inquieti che vivono la loro vita effimera e distorta in un deserto di neve e pietre sgretolate? Era a causa loro che doveva tornare lì ogni inverno? Per vedere se ancora non s’erano dissolti e la terra non li aveva inghiottiti?» (ivi, 12-13).

Il loro cammino in salita, faticoso e rallentato dalla neve era ritmato di filastrocche, salmi e canzoni, e Benedikt aveva la sua:

Landa petrosa, neve e tempesta
Fanno piede sicuro e gamba lesta
Chi al riparo sempre resta
La sua vita perderà.

Piano piano, con prudenza,
lentamente e senza affanno.
Dopo la notte il giorno verrà
Quando lampeggia poi tuonerà.
(ivi 21-22).

Essi «avanzavano lentamente, si muovevano con prudenza, come viene naturale dopo diciotto ore di cammino, anche se avrebbero cavalcato volentieri una folgore, sfidando il pericolo, pur di risparmiarsi l’ultimo tratto di strada» (ivi, 22).

L’unica certezza era che loro tre camminavano insieme, sostenendosi l’un l’altro, uniti nella notte e al chiaro di luna, tra le montagne silenziose. E avevano uno scopo. Uno scopo che tutti e tre conoscevano e a cui acconsentivano ad ogni passo e con un altro passo ancora. Umile, forse, ma pur sempre uno scopo. Far diventare i sogni realtà, farli crescere concreti nella vita: “ritrovare ciò che si era perduto”, portare alla vita ciò che stava per morire.

Spesso, a Benedikt le montagne tenevano il broncio. La neve cancellava ogni traccia, ma «la fortuna che lo aveva tradito il giorno prima, sotto un cielo sereno, tornò ad assisterlo nella bufera. Ne trovò due già di primo mattino, una terza verso sera e un altro paio nel viaggio di ritorno, per cui alla fine erano cinque in tutto.

Cercare pecore nella bufera era come gettare le reti in un mare torbido, ma quella volta la pesca diede i suoi frutti. Perché quando si conosce ogni dettaglio del terreno e i rifugi prediletti dagli animali, e per di più si ha un cane che è un vero papa, si trovano pecore anche alla cieca. Il che non toglie che fu una gran fatica, per Benedikt, Roccia e Leó, avere a che fare con quel gruppo di viandanti.

Le due coppie se ne stavano ognuna per conto suo, rifiutando ogni contatto con altre creature. E un momento partivano di corsa verso punti cardinali differenti, e il momento dopo non c’era più verso di smuoverle, se non a forza di urla e latrati, quando non si dovevano portare di peso attraverso i cumuli di neve. Era spossante» (ivi, 35).

Giunse il momento in cui, sopraffatto dalla fatica, senza più viveri per sé e per gli animali, decise di scendere a valle e chiedere aiuto. Era ormai la vigila di Natale; così, messe al sicuro le pecore smarrite nel recinto del rifugio con il poco foraggio rimasto, le affidò alla custodia di Leo e Roccia per dirigersi silenzioso e mesto verso l’ultima fattoria da cui era partito ai piedi delle montagne.

Egli non sapeva ancora e non immaginava che i suoi sogni avrebbero contagiato altri. Sì, proprio il giovane figlio dei contadini della fattoria di Botn con cui conversava volentieri − pure lui di nome faceva Benedikt – anche in lui si era acceso uno scopo: quello di incamminarsi in cerca di chi si era perduto e provare a ritrovarlo.

Così il vecchio Benedikt, giunto alla baita, avrebbe voluto chiedere al giovane Benedikt di accompagnarlo ancora tra quei monti appena fosse schiarito; ma non lo trovò, perché questi era già partito e lo aveva preceduto andando a carcare proprio lui, insieme alle sue pecore e dopo di lui anche altri si erano messi in cammino.

Il finale della storia del pastore d’Islanda ha il sapore di una parabola evangelica: quella di una festa che è ancora capace di far germogliare i nostri sogni nascosti o andare in cerca di quelli perduti. Che essa continui dipenderà da noi, dai lettori e da quanti, narrandola di nuovo, faranno nascere da essa storie nuove.

Scrivere è andare in cerca di parole smarrite e far rivivere le parole morte con lo scopo di ritrovare i sogni nascosti sulle montagne. Come sementi, sotto la neve essi sono pane. Scrivere allora, −così credo − è essere “pastori dentro”.

Benedikt «raggiunse Botn a tarda sera, accolto come uno che è resuscitato dai morti. Tuttavia non badò alle molte parole di benvenuto – dov’era il giovane Benedikt? Ma il giovane Benedikt non si trovava in casa. Era partito verso le altre fattorie senza spiegare perché. “Sì, volevo chiedergli di venire lassù con me, quando la luna tornerà a farsi vedere”.

No, il giovane Benedikt non era in casa. Il mattino dopo arrivò a Botn la notizia che aveva riunito qualche coetaneo ed era partito per la montagna. E prima di sera era rientrato con il gregge – e avevano messo le scarpe a Roccia, avevano fissato una calzatura di cuoio agli zoccoli che si era ferito a sangue camminando sempre davanti a tutti e spezzando la crosta di neve tagliente.

Fu un vero spettacolo assistere al momento in cui s’incontrarono sull’aia di Botn, il vecchio Benedikt e il suo Roccia. E il giovane Benedikt. “Grazie, tu che porti il mio nome”, disse il vecchio Benedikt, che non era tipo da aggiungere molto di più. Quel giorno alcuni contadini del circondario, che erano in ansia per la sorte del vecchio e ignari del suo ritorno, si erano dati appuntamento a Botn per salire in montagna a cercarlo – e a cercare anche il giovane, naturalmente.

Quest’ultimo era adesso davanti a loro, con le spalle dritte e lo sguardo fermo: “I ringraziamenti vanno a chi li merita”, rispose a chi portava il suo nome da prima di lui. E così finì il cammino dell’Avvento. Il compito era stato portato a termine e Benedikt era tornato tra gli uomini – ancora per un po’» (ivi, 39).

Una piccola appendice gesuana: «Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta? Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli» (Mt 18,12-14).

La costellazione del Pastore

E nella notte fasciata di stelle, tra poveri pastori, venne il Pastore di costellazioni

Nostra vicenda

No, in misura nessuna e modo alcuno
a noi è dato raggiungerti:
sei tu che devi scendere e perderti
tu, pastore di costellazioni.
Tua natura non è la divina Indifferenza,
anche se presunzione che altera la mente
e fede inquina e devia, è credere
che umana colpa per quanto orrenda
ti possa offendere.
Tua natura è di essere Amore
inesauribile fonte
di ogni amore:
Amore che te rovina
e noi redime

***

Io sento i tuoi passi inseguirmi
di deserto in deserto, passi
infaticati e discreti
per non impaurire:
Tu, divino Inquieto
che rompe gl’incanti
e distrugge le paci
e non concede tregue …

* * *

E come peccato non te ma noi
– solo noi! – ferisce a morte
e tua pietà scatena, così
non vi è contrizione che valga
– pure se a cuori che piangono
ancor di più con noi tu piangi
d’un pianto che lava la terra –
e solo grazia ci salva!
A noi chiedi appena
volontà d’essere salvati:
il miracolo
di lasciarci amare.
(D. M. Turoldo, Ultime poesie, Garzanti, Milano 1999, 52-53).

Quella del Pastore (di “Boote”=pastore, mandriano di buoi) è una costellazione detta circumpolare, perché resta sempre al di sopra dell’orizzonte in un dato luogo. È visibile tutto l’anno nel cielo del nord, ed è molto ricca di stelle doppie a cui deve la sua visibilità. È facilmente individuabile perché vicina al grande carro come tirato da buoi, l’Orsa Maggiore, che le sta in alto a destra.

La costellazione del Pastore, vicinissima alle tre stelle che stanno alla fine della stanga del grande carro, sembra afferralo, come a volerlo orientare verso la stella polare. Almeno così a me pare, guardando una mappa del cielo stellato. Ma allora il suo lo scopo non è forse quello di indicare il cammino alla ricerca dei sogni e indirizzarli verso un compimento?

«C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia. E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2,8-9; 12-14).

Perché è apparso ai pastori per primi? Perché il loro sguardo è vicino alla terra, al gregge, dentro alla vita delle pecore; ma lo stesso sguardo è rivolto a scrutare il cielo e oltre, verso le costellazioni, e dunque verso i sogni dell’umanità, verso il suo futuro.

A loro il primo annuncio; loro per primi ad arrivare alla grotta, perché − ha ricordato papa Francesco − «ai pastori spetta il compito di alimentare i sogni della comunità, essi sono chiamati a far sognare altri… Pastori dentro alla vita delle persone, delle comunità, del Paese, dentro allo sguardo di chi è ferito ed escluso, di chi non smette di vedere il futuro da vivere con gli altri e per gli altri».

Così infatti si legge nel racconto di Luca: «E dopo averlo visto riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro» (2, 18-20).

Scrive Giovanni in una mirabile pagina, al capitolo 10 del suo vangelo, che il buon pastore dà la vita per le pecore: «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore, non è come il mercenario. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore». Ma il sogno di Dio sulla vita che vince la morte non è perduto perché «il Dio della pace ha tratto dai morti il grande pastore delle pecore, il nostro Signore Gesù» (Eb 13,20).

Dio nelle scritture è detto “Signore dell’universo”, che traduce l’ebraico Sabaoth “degli eserciti”, ma va compreso nel senso di schiere e costellazioni celesti, prima che di schiere angeliche. Poi nella Genesi il termine lo si trova riferito ai cieli e ad ogni creatura; «quando furono portati a compimento i cieli e la terra e tutte le loro schiere», come a dire tutto il creato e l’intero universo.

Tornare pastori per ritornare a sognare la vita

Ma quando facevo il pastore
allora ero certo del tuo Natale.
I campi bianchi di brina,
i campi rotti al gracidio dei corvi
nel mio Friuli sotto la montagna,
erano il giusto spazio alla calata
delle genti favolose.
I tronchi degli alberi parevano
creature piene di ferite;
mia madre era parente
della Vergine,
tutta in faccende
finalmente serena.
Io portavo le pecore fino al sagrato
e sapevo d’essere uomo vero
del tuo regale presepio
(D.M. TuroldoNatale, in O sensi miei, Rizzoli, Milano 1997, 230).

Un Natale in compagnia di Benedikt; non solo una poesia, ma pure una benedizione e una preghiera, perché non sia ogni giorno un’abitudine, ma una benedizione:

Insegnami, mio Dio, a benedire e a pregare
sul mistero d’una foglia che muore, sul fulgore d’un frutto maturo,
su questa libertà: vedere, percepire, respirare,
conoscere, aspettare, fallire.
Insegna alle mie labbra alleluia e benedizione
al rinnovarsi del tuo tempo con mattino e notte buia,
perché oggi il mio giorno non sia come ieri,
perché non soffra il mio giorno assuefazione.
(Lea Goldberg, Lampo all’alba. Poesie, Giuntina, Firenze 2022, 92).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

 

Vite di carta /
È un lunedì di dicembre e sono a Mantova

 

Non sono Marino Moretti nella sua Cesena ma sì, mi trovo a Mantova nei giorni che precedono il Natale. Ho camminato fino a Piazza delle Erbe e a Piazza Sordello in cerca dell’albero grande con le decorazioni e le luci, e ora mi stupisco di non trovarlo; gli addobbi sono sobri anche davanti ai negozi del centro. Vengo regolarmente a Mantova nei giorni del Festivaletteratura e la conosco gremita di gente, perciò oggi mi sembra addormentata.

Tra poco raggiungerò il Teatro Sociale per prendere servizio; ho risposto alla chiamata degli organizzatori del Festival che per il lancio del tesseramento 2023 hanno invitato Alberto Angela a parlare qui oggi del suo ultimo libro, Nerone. La rinascita di Roma e il tramonto di un imperatore. Sono emozionata e curiosa di conoscerlo di persona, almeno per quel po’ di contatto che il servizio mi può consentire: vederlo arrivare un po’ prima delle 18 e seguire la fila al firmacopie per regolare il flusso dei lettori in coda.

La vitalità che manca nel centro della città la trovo qui, arrivando davanti al teatro due ore prima dell’evento. La gente in fila è tanta. La evito entrando nel foyer e facendomi riconoscere per avere il pass. Ritrovo facce note mentre ricevo le consegne: assegnare i biglietti numerati alle persone, che dalle 17 possono entrare e prendere posto in platea e nei palchi dei quattro ordini superiori.

Puntuale alle 18 Alberto Angela entra in scena e comincia a parlarci, armato solo di un telecomando per la proiezione delle immagini alle sue spalle. Alla sua sinistra un tavolino e sopra una bottiglia d’acqua e un bicchiere che non toccherà nemmeno. Affacciata a un palchetto che guarda direttamente sul palcoscenico –  un privilegio – mi sembra naturale trovarmelo a pochissima distanza e ascoltarlo. Mi succede solo con i desideri forti nel momento in cui si avverano.

Angela ha l’eloquio che tutti conosciamo per averlo seguito chissà quante volte sullo schermo tv, ma dal vivo emana da lui un valore aggiunto. Ci guarda mentre parla, punta lo sguardo verso la platea e poi ai palchi alla sua sinistra e alla destra, come riconoscendo a ognuno dei presenti la titolarità a essergli interlocutore. Siamo una somma di preziosissimi addendi, non una massa di 750 ascoltatori senza volto.

Presenta il terzo volume della trilogia dedicata all’Imperatore Nerone. Il libro è uscito in dicembre presso Harper Collins e ho già seguito la presentazione che ne ha fatto a Che tempo che fa l’11 dicembre, eppure scrivo appunti su appunti mentre parla distesamente della figura di Nerone e delle tante fake news che si sono diffuse nel tempo sulla sua persona.

Cita fonti antiche e moderne, fa riferimento ai collaboratori che lo hanno supportato nella ricostruzione rigorosa dell’operato di Nerone, suggerisce paragoni tra il primo secolo dell’Impero e il tempo presente. Che vita è stata quella di un Imperatore salito al potere a diciassette anni e morto quando ne aveva 31! Ce lo avvicina così, usando parole della colloquialità quotidiana.

Tra gli intercalari che usa più spesso c’è il verbo “pensiamo”. Vale anche per la tesi su cui si regge l’intero libro: a scatenare l’incendio di Roma nel 64 dopo Cristo è stato presumibilmente un incidente domestico, una lucerna caduta su qualcosa di infiammabile da cui si è propagato il fuoco che ha distrutto interamente tre circoscrizioni cittadine, ne ha danneggiate seriamente sette, lasciandone intatte solamente quattro. Quattro come gli anni di vita che restano a Nerone dopo il disastro, sono pochi ma esiziali per lui e per noi.

Cito dalla Introduzione: “E’ un breve periodo per la Storia, eppure vi accadono fatti di enorme portata, con conseguenze che arrivano fino a oggi. Nerone scatenerà la persecuzione  contro i cristiani, mandando al martirio centinaia di fedeli, compreso l’apostolo Pietro”. E via a costruire una catena di eventi che sono conseguiti alla caduta casuale di una lucerna, chiama in causa la Basilica di San Pietro e il Colosseo. Esisterebbero oggi senza l’incendio dell’Urbe?

Passa in rassegna i ‘tanti volti’ di Nerone, le abilità e le follie, il difficile rapporto col senato e la vicinanza al popolo, la sanguinaria repressione delle rivolte e la passione per le arti. Fino a concludere: “Eppure… paradossalmente Nerone non era più malvagio di tanti altri imperatori”. Fino all’ultima frase: “Al di là della lucerna caduta dobbiamo pensare a qualcuno che l’ha posata malamente. Intendo dire che siamo sempre noi a determinare il nostro destino”.

Parla senza sosta per un’ora e quaranta ed è subito firmacopie. Insieme agli altri volontari mi avvio al foyer e subito mi rendo conto che è gremito di persone, è la sala intera che attende una sua firma. Riesco a raggiungere il tavolo a cui siede e prima di cominciare a firmare lo vedo bere, finalmente.

Due assistenti gli porgono una copia dopo l’altra e suggeriscono il nome del dedicatario. Serve a sveltire l’attimo iniziale, cui segue una frase scritta per bene col pennarello e il disegno di una faccina sorridente. Accanto al nome proprio la parola “sogni”. Per commiato una stretta di mano occhi negli occhi a ciascuno dei lettori, anche a chi come me è retrocesso diligentemente in coda e ha atteso un paio di ore.

Esco dal teatro e la piazza è di nuovo deserta, sono quasi le 22 del resto. Per fortuna mi aspettano una cena veloce e una stanza d’albergo a due passi da qui.  Poco fa, stanca di fare la fila, ho dubitato di potercela fare, ho pensato ma perché sono venuta qui. Ora non più.

Ho una esperienza toccante da aggiungere alle altre che Mantova continua a darmi dal 1999 e un libro la cui dedica dice così. “A mio padre, amico che manca, che mi ha trasmesso l’entusiasmo di viaggiare tra le stelle della conoscenza con la semplicità delle parole e la profondità del pensiero”.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

Immagine della cover su licenza Wikimedia Commons

La vera storia del palloncino Charlie

Come ogni mattina sono andata a cercarlo. In cucina, in sala, nello studio.
Oggi l’ho scovato appoggiato al muro, semi-nascosto — si fa per dire — dalla gamba del tavolo bianco.
— Ma che ci fai, lì? — l’ho interrogato.
Naturalmente, non ha risposto. Cosa può rispondere un palloncino a forma di stella?
Sono impazzita? Fate voi.
Vi presento il mio palloncino Charlie. Fu gonfiato dalla figlia con bomboletta all’elio per il compleanno del papà. Quasi due mesi fa.
Questo palloncino è dunque l’esempio di un ottuagenario tenace e in ottima forma.
O meglio, “in ottima forma” fino a poco tempo fa. Oggi, infatti, è floscio, raggrinzito, come ci si può aspettare da un vecchio parecchio in là con gli anni. Eppure resiste. E ha resistito fino ad ora. E fino ad ora, si è sempre dato da fare per palesarsi, in modo più o meno evidente, durante la giornata.
Quando era gonfio e turgido se ne stava lassù, tronfio della sua forza, quasi arrogante, a guardare tutti dall’alto. E noi, i “tutti”, a non considerarlo. Nel senso che, conclusi i festeggiamenti, l’avevo relegato insieme ai suoi fratelli palloncini di diversa forma e misura, di fianco al camino spento. Ormai lo, anzi “li” davamo per scontati. Solo il marito, talvolta, a insistere a liberarli e lasciarli librare nell’etere, all’esterno, e io a fare resistenza.
Il tempo passò — il tempo, si sa, sfilaccia anche i più indomiti.
Ad uno ad uno, i suoi simili si afflosciarono, alcuni di colpo, altri meno celermente, nella sorte che tutti noi consideravamo “naturale”.
Questi, no. Lui, no.
Assistette impassibile alla dipartita dei suoi compagni, senza un moto, un’oscillazione finanche del filo argentato di cui era fornito. Anzi: più i suoi compagni si svilivano, riducendosi, appiattendosi, aggrumandosi, più lui sembrava prendere forza, rimpolpare la propria tracotanza, giungendo a aderire a ventosa — ma sempre ben panciuto — contro il soffitto. Quasi a voler creare maggior divario tra la sua virilità e il decadimento degli altri.
Passarono i giorni, le settimane.
L’alterigia del palloncino sembrò scendere — nel vero senso della parola — a più miti consigli. Ma solo talvolta e per pochi istanti. Come infatti il suo lungo filo ci passava davanti al naso — mentre guardavamo la televisione, seduti sul divano, la sera — facendosi sussultare, subito egli s’inorgogliva per l’attenzione suscitata, e con un guizzo si riposizionava lassù, irraggiungibile.
Il tempo, però, non fa sconti a nessuno.
Per quanto non demordesse, un giorno non gli riuscì più di raggiungere le sue massime vette.
Comprendevo la sua frustrazione. Mi accorgevo che tentava di risalire (magari aiutato dall’aria calda del camino ormai in funzione) per giungere a lambire il suo cielo (il soffitto), ma più che restargli a due spanne di distanza, non gli riusciva.
Con rincrescimento scese, di quel poco per non infierire troppo sulla sua anima fiera, e trovò conforto, assestandosi a posizioni via via inferiori, nel poter fluttuare con più agio per l’intera casa — e gli architravi delle porte non gli furono più d’ostacolo.
Ecco, qualcuno non ci crederà, ma man mano che abbandonava la sua posizione privilegiata, accettando compromessi, anche noi incominciammo ad affezionarci a lui, a considerarlo con rispetto, quasi a farcelo amico. E gli affibbiammo un nome.
È proprio vero che l’umiltà paga…
La sua presenza, talvolta inquietante (specie se, voltandoci all’improvviso, ci trovavamo a tu per tu con il suo faccione sornione) ci divenne consueta. Quasi ricercata.
Sì, perché da quando si abbassò al nostro livello, e ancor più quando, compreso il filo, divenne alto quanto un bambino, fu considerato la “terza” presenza in casa.
E il suo giocare a nascondino ci induceva a cercarlo allegri nelle stanze del piano terra, e poi nelle camere del piano superiore, che raggiungeva salendo silente la scala, e ad essere un divertimento anche per i nipoti, che gli regalavano strilli, risate e non indolori strattoni di filo.
Ormai, però, non si muove più di tanto.
Specie dopo essersi bruciato, l’altro ieri, avvicinandosi incautamente al vetro rovente del camino chiuso, in cui ardeva crepitante la legna. Quel giorno, per fortuna, ero presente in sala e, percepito il suo lamento sfrigolante, mi precipitai a scollarlo a forza dalla trappola mortale.
Temetti il peggio. Che esalasse l’ultimo respiro… Invece no.
Malconcio, tutto una ruga, parzialmente ustionato, aveva continuato, frastornato, pencolante, ad esplorare l’ambiente, come ad imprimerselo nella mente. Anche se talvolta mi sembrava che perdesse l’orientamento…
Oggi l’ho trovato appoggiato al muro, dietro la gamba del tavolo bianco. Sembra un gatto. E non so più se impaurito o in attesa, perché i felini domestici sono insondabili. So solo che se ne sta lì. Tra il tavolo bianco (di plastica, orribile, ma posto in sala perché ospita una serie infinita di mattoncini da costruzione, divertimento per eccellenza dei nipoti) e la vecchia credenza di mia suocera dove, sul ripiano, mio marito ha allestito il Presepe.
E non so neppure se per questa storia ci sia una morale. E, se esiste, quale possa essere.
Se ci sia una morale per questo mondo così abituato al dolore e all’ingiustizia. E se ci sia una morale per chi cerca di comportarsi bene, nonostante tutto. E magari di scrivere con leggerezza un raccontino che narra di un palloncino e della sua assurda umanizzazione, mentre poco tempo prima ha ascoltato notizie di guerre, prepotenze e reati di ogni genere per televisione.
Buon Natale. Buon Anno. Buone Feste. Comunque. Per continuare a credere che possa esistere un mondo e un modo migliore per vivere.
Ecco: penso che sia questa, la morale.

Storie in pellicola / Donne misteriose

Atmosfera degna di un romanzo di Agatha Christie, ambientazione teatrale estremamente colorata e curata, qualche brivido e tanta ironia. Il momento e il luogo? La Vigilia di Natale in una villa antica dal sapore e gusto un po’ retro. E in essa sette donne (c’è pure l’Ornella, la simpaticissima e perfetta Vanoni, in un ruolo che non ti aspetti) riunite per festeggiare ma che, invece, scoprono che l’uomo di casa, Marcello, è stato ucciso, accoltellato.

Vent’anni dopo, Alessandro Genovesi firma 7 donne e un mistero, remake del film di  François Ozon (Otto donne e un mistero).

Gli ingredienti del mistero ci sono tutti: la bufera di neve, i fili del telefono recisi, il cancello bloccato da un catenaccio, la macchina che non parte per un sabotaggio al motore, la luce che va e viene, le candele. Tutto girato rigorosamente in interno in una piccola cittadina dagli orribili delitti di una provincia francese un po’ malata, alla Claude Chabrol.

Ornella Vanoni @Loris Zambelli

Questo strano e strambo gineceo dovrà capire chi è l’assassina, che è sicuramente tra loro, manca solo il Tenente Colombo che sbuchi ad interrogare serratamente le (poco) intimorite sospettate. Margherita, la padrona di casa (Margherita Buy) è diventata un’estranea per il marito Marcello, ancora invaghito dell’amore di sempre Veronica (Micaela Ramazzotti), amante segreta.

Micaela Ramazzotti @Loris Zambelli

La figlia maggiore di Margherita, Susanna (Diana Del Bufalo), arriva da Milano con una sorpresa e la figlia minore Caterina (Benedetta Porcaroli) contesta sia la sorella che la madre. La zia Agostina (Sabrina Impacciatore) è una zitella da sempre innamorata di Marcello, e Rachele (Ornella Vanoni), la suocera del defunto, in sedia a rotelle, gli ha sempre nascosto quei titoli che lo avrebbero potuto tirare fuori dai guai finanziari. L’unica a sembrare dotata di buon senso è Maria (Luisa Ranieri), la domestica venuta dal Sud e cuoca eccezionale.

Gruppo @Loris-Zambelli

Intreccio di caratteri e personalità, con i loro segreti e vizi, di gag, segreti, silenzi e battute che rendono il film piacevole e divertente, fra comico e grottesco.

Una storia al femminile, dove l’unica figura maschile è ridotta al silenzio, anche se tutto ruota intorno a lui. Il messaggio? Intrattenimento e divertimento puri.

7 donne e un mistero, di Alessandro Genovesi, con Margherita Buy, Ornella Vanoni, Sabrina Impacciatore, Luisa Ranieri, Diana Del Bufalo, Micaela Ramazzotti, Benedetta Porcaroli, Italia, 2021, 90 mn.

Foto in evidenza di Loris Zambelli

Parole a capo
Alberto Ronchi: Quasi una… poesia

“Scrivere non è niente più di un sogno che porta consiglio.”
(Jorge Luis Borges)

siamo persone semplici
siamo disertori
non amiamo le competizioni
e
la meritocrazia
nemmeno
i giovani artisti
non vendiamo mozzarelle
al museo
e
non sopportiamo
il punk da balera
come jack e allen
seguiamo i consigli
di william burroughs
denton welch
joseph conrad
carson mccullers
djuna barnes
jane bowles
louis-ferdinand celine
oswald spengler
passeggiamo
per le vie della città
con lou reed
nelle orecchie
e alla domenica mattina
siamo consapevoli
di quanta fortuna
abbiamo avuto
nello scoprire
nick drake
da ragazzi

quasi un’autobiografia

Questa poesia fa parte della prossima raccolta poetica di Alberto Ronchi dal titolo “quasi un’autobiografia” che vedrà presto la luce.
Alberto Ronchi è nato a Ferrara l’1 ottobre del 1961. E’laureato in filosofia. Ha svolto diversi mestieri: operaio, operatore culturale, amministratore pubblico. Attualmente è un insegnante (precario). Ha pubblicato due piccoli libri di poesia: “Catastrofi naturali” (2017) e “Anni meravigliosi” (2019), entrambi nella Collana fotocopie, editi da Modo Infoshop di Bologna.
In Parole a capo sono state pubblicate altre poesie di Alberto Ronchi il 14 maggio 2020 e il 6 maggio 2021.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Diario in pubblico /
Che succede a Frara?

 

Negli incubi notturni mi riappare l’immagine di una donna che si faceva largo dietro Bruno Vespa alla prima della Scala: terribile! Con sorriso sadico ammiccava alle telecamere vestita come una marziana, mostrando per colmo di autoesaltazione gambe da vecchia.

Mi sveglio di soprassalto e ricordo che è tutto ‘vero’. Ma quale vero? Quello costruito dai media nell’universo parallelo? Quello che in realtà crea la nostra esistenza? Si va alla Scala per ascoltare Boris Godunov o per esercitare l’impellente bisogno di esserci?

A riprova di ciò che è e come si fa cultura leggo non capacitandomi a ciò che veniva prospettato nella classifica del Sole 24 ore [Qui] che a Ferrara la cultura langue. Anzi scende nei parametri tanto da essere all’ultimo posto in Emilia-Romagna.*

Leggo  sulla cronaca di Ferrara del Qn Il Resto del Carlino del 13 dicembre 2022 a p. 3 “Cultura. Il territorio sembra perdere terreno anche su quella che per vocazione dovrebbe essere la sua forza propulsiva: la cultura. Infatti, nella posizione della cultura, Ferrara sprofonda al numero quarantacinque.”

Non va dimenticato poi che nella classifica generale Ferrara occupa il cinquantunesimo posto. Certo va tenuto conto degli ‘indicatori’ che regolano il giudizio e che tengono conto non solo della città ma dell’intera provincia. Ma che nell’indicatore “cultura e tempo libero” si sia raggiunta solo il quarantacinquesimo posto non è certo confortante.

Da cosa dipenderà? Sappiamo che il sottosegretario alla cultura e presidente di Ferrara arte si adopera a restituire la centralità di Palazzo dei Diamanti attraverso la programmazione di mostre. Che il programma del teatro Abbado è di primaria importanza. Che le associazioni culturali svolgono un lavoro encomiabile e che la Biblioteca Ariostea registra fino ai primi mesi del 2023 il pieno della sala Agnelli.

Della volubilità del pubblico, di ogni pubblico in ogni città, abbiamo riscontri oggettivi; eppure, si dovrebbe tentare una spiegazione meno superficiale e la prima, la più evidente, è che si risolve in un affaire politico. La maggioranza odierna rimprovera la dittatura culturale della sinistra in 50 anni di amministrazione, e da sinistra si sottolineano le ultime imprese, secondo loro sbagliate, tra cui il concerto al parco Bassani di Springsteen.

Ovviamente le voci meno allineate sia da una parte che dall’altra vengono definite, come massimo di rimbrotto, radical chic! E che, nonostante il mio ritiro dalla politica culturale attiva, sia da molti – se non da tutti – definito con questo termine è per me motivo d’orgoglio.

Un grande amico quale è Fiorenzo Baratelli, già presidente dell’Istituto Gramsci, che ora impavidamente continua a tenere sui media una rubrica di altissima qualità, mi esorta a ragione che la cultura si fa sui libri e solo dai libri otteniamo risposte degne.

È evidente che una specie di stanchezza sia calata sulla città; ma la radice di questa stanchezza dove si trova? Nei cittadini? Nelle istituzioni? Oppure è connessa alla forma stessa della cultura? Un problema certo non di poco conto. E Ferrara ne prova gli effetti anche nelle sue più ingenue manifestazioni, a cominciare dal diradamento dei crocchi degli umarel che commentavano i fatti del giorno in piazza.

Il tempo e solo quello potrà dare ragione di svolte, apparentemente incomprensibili, ma che si situano nel concetto di evoluzione/involuzione di ogni forma di espressione, prima fra tutte quella della cultura.

*N.d.A.: Nella discussione sul contenuto di questo diario una persona competente m’informa sulle modalità con cui vengono elaborati i modelli a cui si conforma l’indagine del Sole 24 0re e mi comunica inoltre che:
L’amministrazione di destra s’insediò a giugno 2019. In quell’anno come Ranking Generale Ferrara era 64esima passando poi al 34esimo posto nel 2020 e scendendo al 45esimo nel 2021.
Per quel che riguarda invece l’indice CULTURA E TEMPO LIBERO andrebbero esaminati anche i sottoindici che lo compongono perché ci sono i ristoranti, i bar, lo sport per i bimbi, ecc. ecc.
Di alcuni sottoindici relativi alla “cultura” Ferrara nel 2022 è: 17esima per indice di lettura, 37esima per patrimonio museale e 14esima per offerta culturale
e che Ferrara era: 72esima nel 2015 e 78esima nel 2016.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

 Cover: Ferrara – Labirinto verde di Palazzo Costabili

Parole e figure / Fra abeti e giardini, Strenne natalizie 3

Natale si avvicina, resta ancora qualche giorno per mettere libri sotto l’albero. Due parole magiche per me (e scusate se sono noiosa), connubio perfetto: libri e alberi. E se sotto l’albero addobbato a festa mettessimo libri che parlano proprio di alberi e giardini?

“Per fortuna esiste qualcosa che non si può abbattere”.

L’albero azzurro, dell’iraniano Amin Hassanzadeh Sharif (Kite Edizioni, 2015), sarà il primo a finire fra i pacchetti colorati all’ombra morbida e caldamente profumata dei dolcetti appesi dalle mille forme (ghiottonerie che si spera sempre arrivino al 25…). Il libro narra la storia di un ostinato albero che rivendica solo il diritto di esistere, testimone e spettatore muto della storia delle persone, un gigantesco albero azzurro al centro di una città, così grande che i suoi rami attraversavano le case. Tutti lo amavano e molto. Tutti eccetto il re, uomo ciecamente tiranno che ne era invidioso – la bellezza di quell’essere vivente accecava la fama del palazzo reale -, tanto che un giorno ordinò di abbatterlo e sostituirlo con una sua statua. Soldati sull’attenti a vigilare. Ma i rami tagliati, rimasti nelle case, non ci stavano: ce n’era sempre uno che sfuggiva e si riproduceva altrove, piano piano, con tenacia, ostinazione e perseveranza. E allora iniziarono a crescere ovunque per divenire, ciascuno a sua volta, un albero azzurro (il colore del cielo, dell’acqua, della purezza, della vita, della creatività e dell’anima). Oggi l’intera città è una bellissima foresta.

Con una bella tecnica dello scratch che segna come ferite le figure, i muri e le strade, Amin Sharif disegna una potente metafora sulla libertà, un atto di lotta per mantenerla, di coraggiosa e potente ribellione contro l’ingiustizia. Perché pur in un mondo dove il male continua a imperversare, il bene non finirà mai di crescere. Quale messaggio più bello in questo Natale di guerre e crudeltà?

La speranza non si può abbattere. Quella speranza che è felicità. Di un dono, di un sorriso, di una caramella tanto aspettata. Regali, regali e ancora regali allora! Magari al buio, il buio dietro l’abete! Potere all’immaginazione! Eccovi, allora, un bel racconto di Natale, L’incanto del buio, di Francesca Scotti e Claudia Palmarucci, Orecchio Acerbo Editore (2022), che riporta all’infanzia spensierata.

Oggi è Natale. In attesa di scambiarsi i regali, Pietro e Giulia, amici da sempre, giocano al buio, di cui non hanno affatto paura: il loro gioco preferito che può occupargli interi pomeriggi, uno scambio di immaginazione, fantasia e sensazioni. Nell’oscurità della camera, al tatto, gli oggetti che hanno raccolto e sparso sul pavimento diventano altro nelle loro parole, si trasformano: una forchetta può essere la chiave di un forziere, una scarpa è forse il letto elegante di una fata. Quando le loro mani s’incontrano al buio, viene naturale per Giulia e Pietro dare un nome anche ai loro sogni reciproci: un’archeologa e un airone sta per dire Pietro, un pilota d’aereo e un cervo, sta pensando Giulia. Qualcuno apre la porta e accende la luce. Il buio svanisce e l’incanto s’interrompe, i loro sogni tornano svelti svelti a nascondersi, ma non spariscono, perché è nel domani la chiave per diventare realtà. La magia di una storia che, non solo a Natale, vogliamo possa essere vera. Quando intendersi è un gioco da ragazzi.

Dall’abete profumato di ieri e di oggi, finiamo con un volume illustrato che è davvero bellissimo anche per i più grandi: Viaggi nel mio giardino, di Nicolas Jolivot, sempre di Orecchio Acerbo Editore, fresco di stampa.

Un viaggio tra scienza e arte, un ritratto delicato di un giardino e dei suoi abitanti, una storia di intrecci di vite dal 1821 in avanti. È il magico giardino dei nonni di Nicolas, artista visivo e grande viaggiatore, che, per tutto il 2020, ha studiato piante e animali, dal vero. Un taccuino di viaggio, che però ha riguardato una parte del mondo, il suo, per raggiungere la quale non è stato necessario nessun cammino, se non quello attraverso il tempo e le stagioni. Stando semplicemente fermi ad osservare.

Tutto comincia con il primo ricordo nel giardino dei nonni: un convolvolo in fiore che sembra volergli parlare e che l’artista non esita a definire come “una delle cose più belle del mondo”. Consapevole che il giardino continuerà a vivere e cambiare, con tutte le sue creature, il libro percorre anni e stagioni, con colori appassionanti e avvolgenti, degni della fiaba più bella, che immortalano il moto perpetuo della Natura.

Attraversando piene dell’impetuosa Loira, sorprese da colorate scatole di legno scoperte in cantina, episodi della Prima e Seconda guerra mondiale, pagine di quaderni di giardinaggio, bagnetti fatti nelle tinozze di zinco, scorci romantici di finestre quasi alate, abbaini curiosi, merli e poi vasi, orti, siepi, fiori, rose, cespugli e ancora fiori, il volume percorre gli anni, anch’esso impetuoso come un fiume, e si conclude con una dedica a coloro che verranno: nuovi bambini che faranno le loro prime scoperte del mondo e nuovi genitori che lo cureranno. Mille avventure. Sempre giocando, al ritmo del soffio del vento.

Il compito di artista finisce qui: aver trasmesso il piacere di osservare la vita, la natura. Duecento pagine di assoluta meraviglia, in cui luci, suoni, tintinnii, cinguettii, sospiri, piccoli animali, piante, insetti, fiori, persone vivono, si sfiorano e passano.

Libri che mettono in pace con l’Universo. Consigliati per un Sereno Natale. E non solo.

Immagine in evidenza, Viaggi nel mio giardino, Nicolas Jolivot

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

In memoria dell’Avvocato Paolo Ravenna dieci anni dopo la sua morte.

In memoria dell’Avvocato Paolo Ravenna dieci anni dopo la sua morte

“Assenza, più acuta presenza”; quella famosa sentenza poetica di Attilio Bertolucci vale anche in occasione della memoria di Paolo Ravenna, dieci anni dopo la sua morte. L’avvocato di Via Palestro ci manca, oggi, per orientarci in un mondo che è molto cambiato negli anni della sua assenza.

Cosa avrebbe detto, lui, su un Sindaco Leghista a Ferrara o sul successo enorme di un Partito come ‘Fratelli d’Italia’ (forse fascista, quasi-fascista, un pò fascista ma sicuramente rappresentante di una Destra nell’epoca digitale), in una città come Ferrara per decenni colorata di rosso, quasi rosso, ma decisamente sempre antifascista. 

Per chi ha avuto la sua formazione culturale e politica negli oggi leggendari e molto discussi anni Sessanta, non è poi cosi difficile trovare un modello di cultura in grado di dare un orientamento alla propria vita e di maturare la visione di una città colta, vivace, civile.

Ci sono, per dare solo qualche esempio, nel mondo culturale, sia dell’Italia che della Germania, uomini come Benedetto Croce, Thomas Mann, i fratelli Scholl, Piero Gobetti, Bertoldt Brecht, Rita Levi Montalcini o Norberto Bobbio.

Ma, ricordando Paolo Ravenna, si può nominare come un modello anche Fritz Bauer, in Italia quasi sconosciuto, un giurista ebreo molto importante per la cultura democratica della Germania del dopo guerra. Odiava come l’avvocato Ravenna l’antifascismo retorico e preferiva un lavoro concreto e sobrio contro i responsabili della Shoa, per difendere lo Stato democratico fondato sui valori antifascisti.

Ma non sono certo che questi orientamenti, questi fari intellettuali abbiano ancora qualche peso culturale per i discendenti del passato. Speriamo di si, ma per essere realistici, bisogna ammettere che il mondo di quei grandi vecchi non trova più un eco clamorosa fra i viventi attuali.  Il loro mondo non c’e più. 

“Basta la lamentazione del passato!” avrebbe detto l’Avvocato secco e sobrio a modo suo.
Viviamo oggi  e dobbiamo fare oggi le nostre battaglie per un mondo più giusto e per una città più umana e vivibile per tutti. Come architetto, artista, avvocato o giornalista, per parlare della mia categoria, si deve continuare con il lavoro di ogni giorno, ma in un modo ‘kantiano’, come ci hanno insegnato sia Fritz Bauer sia Paolo Ravenna.

Ci si deve aspettare dagli altri (professori, artisti, giornalisti ecc.) un lavoro serio, competente, pieno di coscienza ed anche di fantasia e curiosità; reciprocamente siamo anche noi responsabili per il nostro lavoro, per la nostra vita come cittadini d’Europa: un’appartenenza questa che era per l’Avvocato un titolo d’onore e non di vergogna, come urlano oggi sempre di più i bulli del populismo più sciocco. 

Resistere, resistere, resistere” come slogan contro il degrado della vita pubblica e della responsabilità per la “res pubblica”: ecco la spinta per “fare una battaglia civile”, sopratutto per salvare la famosa mura di Ferrara.
Purtroppo, finora, uno dei grandi sogni dell’Avvocato giace dimenticato nella città di Giorgio Bassani, maestro ed amico di Paolo Ravenna: si tratta del monumento di Karavan in memoria del ‘Giardino dei Finzi Contini’, il romanzo che ha portato il nome della città di Micol in tutto il mondo. 

Paolo Ravenna ha avuto sempre in mente la biografia molto contraddittoria del suo padre Renzo, rappresentante di una vecchia famiglia ebrea e contemporaneamente e per tanti anni amico stretto di Italo Balbo. Non voleva rompere il rapporto personale con suo padre ma, sapendo della grande colpa dei fascisti, voleva decisamente rompere con la cultura fascista ferrarese dopo la guerra.

Mai come oggi abbiamo bisogno di una “Vita attiva” (Hannah Arendt), di una creatività umana, di un senso profondo per l’urgenza di un nuovo ‘Impulso civile’. Oggi non si può parlare o scrivere solo sulla cultura dentro le mura di Ferrara nemmeno d’Europa.

Dobbiamo aprire le finestre delle nostre case per ravvivare l’aria, talvolta soffocante e piena di polvere culturale, ma anche piena di una storia civile, umana e di grandi valori per i quali si deve lavorare e confrontarsi con quelli passatisti conservativi dei fratelli populisti d’oggi. Non dobbiamo solo difendere il nostro gran tesoro di cultura, d’arte, di valori democratici, dobbiamo anche aprire le nostre finestre per nuovi orizzonti culturali.  

In questi giorni di cash & carry e dell‘elogio della irresponsabilità come virtù ci mancano uomini che rappresentano altri valori di vita. Ci servono, come ha scritto una volta lo scrittore triestino Claudio Magris, “valori freddi, i quali stabiliscono condizioni di partenza uguali per tutti, che permettono a ognuno di coltivare valori caldi, di inseguire la propria passione.  

Anche oggi la città di Ferrara ha un grande bisogno dei cittadini che difendono con “valori freddi”, ma con una “passione calda” l’identità urbana di una città come Ferrara. 

Ecco perché, oggi, l’assenza di un uomo civile come Paolo Ravenna è la più acuta presenza.

Per certi versi/La ballata della neve

La ballata della neve

Danza la neve
Collegando terra e cielo
Con fili sottili
E occhi di vento
In leggero
Ritmato movimento
lascia
Cristalli di perfezione
Incantando
Di vera illusione
quel suono
Di oboe
Che appena vibra
Posandosi
Sul grigio asfalto
Gli abeti resistenti
Abbottona i monti
Di cobalto
Pattinando luce
Impercettibile
La sua idea
Di Magia
Ricrea il mondo

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’OlioPer leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Storie in pellicola / Sulla via degli invisibili

La speranza, l’ironia e l’ottimismo restano sempre le migliori alleate di ogni situazione difficile. Semplice a dirsi per chi si trova in situazioni di serenità e agio, ma la regola resta. La società moderna è spesso crudelmente impietosa, non scorge le violenze nascoste, le fragilità dell’essere umano, i suoi momenti up and down, l’incapacità di essere ascoltati e, spesso, semplicemente di essere visti. Molti sono gli invisibili. Oggi più che mai.

Dopo Discount (2015), con cui aveva affrontato la lotta di cassiere sottopagate contro l’introduzione della cassa automatica che minacciava il loro lavoro con una soluzione alquanto alternativa e Carole Matthieu (2016), che affrontava il tema dello sfruttamento sul luogo di lavoro, il regista francese Jean-Louis Petit affronta ancora importanti temi sociali, con la sensibilità e il tatto di sempre.

Non parliamo di Chef – La Brigade, appena uscito al cinema (che andremo a vedere) ma della toccante e coinvolgente pellicola Le invisibili (2018), storia di Lady D, Edith Piaf, Brigitte Macron, Beyoncé, Salma Hayek e di tante altre, che scalpitano davanti all’Envol (che, forse non a caso, significa “prendere il volo”), centro di accoglienza diurno di un uggioso nord della Francia che accoglie donne senza fissa dimora. Si nascondono dietro pseudonimi celebri per preservare l’anonimato e fra quelle mura protette e accoglienti trovano conforto, calore e riparo. Un percorso: perché non si nasce senza fissa dimora, ma ci si arriva, dopo aver vissuto, anche amando e lavorando.

Una brillante commedia sociale – la dramedy che per certe ambientazioni e tematiche ci ricorda Samba – con protagoniste quattro donne (le bravissime Audrey Lamy, Corinne Masiero, Déborah Lukumuena e Noémie Lvovsky) che, con una dozzina di attrici non professioniste, non si arrendono allo sfratto da quel luogo in cui, fra una doccia di venti minuti al massimo, una chiacchierata e un caffè, si trova ancora uno po’ di calore umano e di empatia. Ecco allora che, con un autentico atto di disobbedienza civile, si allestiscono clandestinamente un laboratorio terapeutico e un dormitorio dai quali ottenere una rivalsa e uno spazio nel mondo, anche del lavoro. In quel mondo dove lo scarto non ha spazio. Quella cultura dello scarto che tanto preoccupa Papa Francesco.

Ci sono tanti temi diretti ma anche sottintesi e insinuati: la violenza della strada ma anche dei compagni di vita, l’aggressione sessuale, l’emarginazione, la fragilità, la sofferenza, la paura, l’intolleranza, l’isolamento, la solitudine. E la ricerca di una bellezza perduta.

Ispirato dal libro di Claire Lajeunie, Sur la route des invisibles: Femmes dans la rue, Petit ha trascorso un anno nei centri di accoglienza per raccogliere testimonianze e realizzare un film che dà voce alle donne dimenticate dal mondo e, con loro, a quelle che le sostengono, accogliendole senza condizioni e alleviando la loro angoscia quotidiana.

Una cronaca di tragedia quotidiana trasformata in una commedia sensibile e toccante, che lascia spazio alla solidarietà, all’umanità e alla speranza, dove la vittoria finale sarà semplicemente quella dei valori, quella di individui nell’ombra, esclusi, umiliati, ignorati e dimenticati che ritrovano la propria dignità denunciando un sistema sociale iniquo e asettico che spesso non perdona. Con il sorriso. E per prendere davvero il volo.

Le invisibili, di Louis-Julien Petit, con Audrey Lamy, Corinne Masiero, Noémie Lvovsky, Déborah Lukumuena, Sarah Suco, Francia, 2018, 102 mn

Racconto portoghese

 

Come ogni sera entrò a passo lento nel lussuoso caffè – ristorante appoggiandosi al bastone e si diresse al tavolo in fondo a destra che occupava sempre, da dove poteva osservare gran parte della splendida sala. Erano le nove e mezza, l’ora in cui il centro di Porto si animava. Coppie, gruppi di turisti e di giovani entravano nel locale per cenare, salutati cerimoniosamente da camerieri in giacca bianca.

Il vecchio gettò sul divano coperto di velluto rosso il bastone e si sedette pesantemente senza togliersi il cappotto di cammello un po’ spiegazzato. Il cameriere sapeva cosa avrebbe ordinato e portò sul tavolo un caldo verde e una bottiglia d’acqua, non prima di aver mostrato che non era fredda.

Il vecchio lo liquidò con un gesto nervoso e secco e cominciò lentamente a sorbire la zuppa di cavolo, gettando ogni tanto occhiate oblique in giro. Controllare. Questo aveva fatto per molte volte nella sua vita: controllare per poi arrestare e far torturare.

Era stato un dirigente potente e temuto del regime di Salazar prima a Lisbona, poi a Porto, con alti incarichi nella Pide, la polizia politica, poi nella Dgs, la Direção Geral de Segurança, fino all’ultimo, sino alla fuga di Marcelo Caetano, dopo la rivoluzione dei garofani del 25 aprile 1974.

Guardava, infastidito dal brusio e dal chiacchiericcio che proveniva da un gruppo di turisti seduti ad un tavolo vicino. Allontanò sgarbatamente il giovane cameriere che gli chiedeva se avesse bisogno d’altro.
Non aveva fretta di tornare nella sua casa di Porto, dove abitava dopo quindici anni di prigionia a Caxias, nelle stesse celle dove aveva fatto rinchiudere tanti oppositori politici.

Viveva solo, tra i simulacri di un passato potere. Era riuscito a conservare un po’ di denaro e con questo campava. Sua moglie e i suoi due figli lo avevano abbandonato poco prima della rivoluzione, stanchi di lui e impauriti, emigrando negli Stati Uniti, nel Rhode Island, dove avevano trovato accoglienza nella comunità portoghese. Con loro non aveva più contatti.

Terminò la cena continuando a gettare occhiate in tralice a destra e sinistra. Quando venivo qui molti anni fa, ricordò, ero riverito, tutti si facevano in quattro per me. Avevano paura, mi temevano. Guarda adesso, pensò ancora, sembra quasi che mi sopportino. Non mi cacciano via perché ho aiutato i proprietari a salvare questa baracca.

Senza di me la Pide avrebbe fatto chiudere il locale e i padroni sarebbero finiti in galera, a Caxias o a Peniche. Non ho fatto nulla perché ho avuto il mio tornaconto. Pagavano bene la mia protezione. Poi i militari traditori, i comunisti con la divisa hanno mandato all’aria l’Estado Novo, le nostre colonie e tutto il resto. Una rovina.

Uscì a fatica e si diresse verso il quartiere vicino, dove abitava in un vecchio palazzo. Entrò nell’androne e dietro di lui il massiccio portone si chiuse lentamente. Non prima di impedirgli di udire che nella casa di fronte, un vecchio edificio popolare, dall’ultimo piano uscivano le note di Grândola vila morena, la canzone operaia di José Afonso che da Radio Renascença diede il via alla rivoluzione.

La conosceva bene, quella canzone proibita dal regime di Salazar, ma sentirla ancora una volta gli procurò un accesso di rabbia impotente. I sovversivi sono sempre tra noi, si disse, ed io non posso più farli tacere. Non posso fare più nulla.

Poi il buio lo inghiottì.

(Da “Tre sguardi in uno” ed. Pendragon, Bologna, 2015)

 

Lingua madre e sacralità della parola

 

Nelle radici delle parole, nellorigine dei termini linguistici si nasconde una rappresentazione del mondo, una forma di pensiero e perfino un destino”.
Inizia così larticolo Le radici della pace di Gianpaolo Caprettini sullIndipendente.
E non potrei essere più daccordo.

Da diverso tempo mi occupo di maternità surrogata e mi batto contro questa pratica che considero aberrante. Proprio su Ferraraitalia ad aprile 2020 avevo scritto un articolo sul perché sono contro la maternità surrogata, e dimostravo come le parole contenute nei contratti e dunque promosse dalla legge che regolamenta tale pratica, sono parole disincarnate, perdono le loro radici originarie, causando la crisi del linguaggio e contribuendo a distruggere il senso stesso di essere umano.

Quando scrissi questo articolo eravamo nel pieno del primo lockdown e da allora lo stravolgimento delle parole è aumentato in maniera esponenziale. La narrazione della pandemia è stata segnata dalla perdita di senso delle parole. Come se vivessimo in una babele, parole di senso comune sono diventate parole che acquistavano significati diversi  a seconda di chi le ascoltava, creando scompiglio e incomunicabilità.

Questo processo, che sembra appunto molto recente, in realtà è in azione da parecchi decenni e, a mio modo di vedere, è stato costruito a tavolino con grande pazienza e determinazione dallideologia neoliberista, mondialista, globalista e finanziaria, che fonda i suoi principi sul transumanesimo, che punta a trasformare il senso stesso di umanità e, in nome della cancellazione della sua fragilità, a farne una macchina onnipotente grazie allintelligenza artificiale.

Basti pensare al fatto che oggi la differenza dimoformica,  quella differenza ontologica biologica dei corpi, viene cancellata in nome di un sentire – io sono ciò che mi sento nel pensiero – rinnegando la realtà biologica e le parti di corpo invisibili (quelle interne a noi).

La famosa dicotomia cogito ergo sum” di Cartesio contrapposta al ”sum ergo cogito” di Anna Maria Van Shurman, (poeta, filosofa e scienziata  eccellente, poco conosciuta, ma contemporanea a Cartesio) invece di trasformarsi in una olistica visione dellumano raggiunge, ai giorni nostri nelle democrazie occidentali, lapice a favore della tesi cartesiana e cancella il sapere ancestrale dei corpi, proprio come vuole il transumanesimo.

Ora, durante la pandemia, questo assioma cartesiano è diventato un diktat. È della settimana scorsa il comunicato della Corte Costituzionale che anticipa la decisione sul dibattimento sull’ammissibilità dellobbligo vaccinale decretato durante il periodo pandemico.

La Consulta ha prontamente ribadito che le decisioni prese dal governo Draghi non sono incostituzionali. Ora come semplice cittadina ho seguito il dibattimento (per fortuna visibile in diretta). Le argomentazioni scientifiche ma anche quelle a carattere logico e di diritto, portate dagli avvocati che avevano impugnato le leggi che decretavano lobbligo vaccinale per certe categorie,  mi sono parse molto chiare.

Con dati alla mano, argomentazioni legate al diritto naturale, di senso logico, anche una profana e non preparata nel campo giuridico, quale sono io, ha potuto seguirne la traccia senza trovarci alcuna contraddizione, mentre le argomentazioni degli avvocati a sostegno delle azioni del governo sono state fumose, astratte e tutte caratterizzate dal ridondante ribadire il dovere della collettività a perseguire un bene collettivo più alto, di cui il Padre Stato, o forse meglio dire lo stato padrone, è il decisore.

Non stupisce la celerità del comunicato della Corte Costituzionale a difesa delloperato del governo. Fa male, però constatare che per lennesima volta le istituzioni non sono più garanti dei diritti delle cittadine e dei cittadini. La celerità delle decisione a mio parere mette in risalto quanto il potere si senta braccato dal dilagare della verità e tenti in qualsiasi modo di fermarne la corsa.

Eppure resta importante che il dibattimento sia registrato e che tutti possano ascoltare le ragioni portate da ambo le parti. Forse per la prima volta da anni ho sentito forte e chiaro chi usava una lingua che aveva radici comuni con la mia e in questa babele ho ritrovato casa nella lingua madre, una parola che risuona nelle mie viscere.

Come femminista so quanto il principio di autodeterminazione sia alla radice del mio sentire e faccia parte di un sentire non solo legato al logos, ma anche a quello materico. Sono le femministe che, nel loro enorme lavoro di disvelamento delle parole che riguardano le donne e i loro corpi, sono riuscite a rendere sempre più concreto e semplice da comprendere il diritto inalienabile e naturale allautodeterminazione.

La legge 194 è un esempio dellenorme lavoro fatto. Allora, al contrario di oggi, il dibattimento sui corpi delle donne ha portato alla conclusione che nessuna autorità esterna può entrare nel campo del sentire biologico e biografico dellindividuo fino ad obbligarlo a un agire sul suo corpo che non corrisponda alla sua coscienza profonda.

Questa consapevolezza è una conquista dellumanità che spaventa  il transumanesimo, perché riconosce allindividuo un ortus conclusus, uno spazio di libertà che appunto nessuna ‘ragione collettiva’ può invadere senza che questo sia vissuto come un abuso.

Il sistema patriarcale, che ha fondato il suo potere sulla legiferazione dei corpi delle donne, subì, allora, un colpo quasi mortale, e come reazione ha perseguito una propaganda di mistificazione dei significati della parola, che è causa della babele che oggi ci avvolge.

Eppure la lingua madre è una lingua che nasce dalle viscere e che oggi muove le pance di moltissimi. Come un vulcano in procinto di eruttare ribolle sotto le nostre membra ed è pronto a fuoriuscire con tutta la sua lava incandescente. Ci hanno provato, in pandemia, a zittire quella voce interiore, ma hanno fatto male i conti.

Troppe le parole disincarnate che continuano a circolare e che oggi, superata la grande paura, cozzano con la vita dei più. E così, nonostante la pressante propaganda, qua e là si aprono dei varchi a un ripensamento delle narrazioni main stream, alluso delle parole e dunque alla rappresentazione del mondo.

Lenorme lavoro di ricerca di quegli avvocati per affrontare il dibattimento ne è la dimostrazione, ma non è lunica. Penso ad esempio allo sconvolgente ma garbato documentario di Paolo Cassina Invisibili, che raccoglie le testimonianze dei danneggiati dal vaccino contro il Covid-19.  Un documentario carico di umanità, di un’umanità sofferente, che con enorme dignità chiede di essere riconosciuta.

Viviamo tempi estremi, siamo a un bivio epocale, come dice bene Susanna Tamaro, ma siamo in tempo ancora per dire no alla parola disincarnata, e riattivare lenergia nascosta ma miracolosa della parola sacra.

Il verbo si è fatto carne” non è una trovata letteraria dellevangelista San Giovanni, ma è una forma pensiero” e il destino dellumanità.

Parole a capo
Floriana Porta: “La mia non è poesia”

“È sempre così, per tutta la vita sono arrivato alle cose dopo averle incontrate nei libri.”
(Jorge Luis Borges)

 

LA MIA NON È POESIA

 

la mia non è poesia
è una strada sterrata
una nebbia che s’infittisce
un incedere a tentoni

la mia non è poesia
è il suono del diapason
un abito di seta
una figura a metà cancellata

in fondo cerco solo d’imprimere
i miei versi sulla carta

la mia non è poesia

 

L’ANIMA È NUDA

 

l’anima è nuda
ruota in un’orbita
di plasma e cartilagini

ad ogni sorso d’acqua
a me sembra più viva

 

CARTILAGINI DI FIATI E D’INCHIOSTRO

 

è virginale il segreto
di ogni poesia
parola femminea
stretta nei versi

lavora a fondo la materia
e accoglie nel suo morbido grembo
cartilagini di fiato e d’inchiostro

 

IL MIO POETARE

 

ha maturato con forza
il caldo seme del mio poetare

involucro verbale
nato per sorprendere e incantare

involucro di dettagli
rarefatti e profondamente vivi

involucro che nasce
da un accordo di incensi e resine

involucro che resiste
nel tempo immobile del presente

non esiste confine più puro

 

UN LUNGO INVERNO


un non-sguardo
mescola il suo vedere
a strappare dall’oblio e dal nero
il proprio vissuto

sensi e carne raggelati
nel disordine del loro grafismo
lembi di un tempo lontano
ognuno nel proprio alfabeto
che sembra non avere mai fine

una pagina bianca
intorno al corpo
e al centro del foglio
uno schizzo frettoloso
di mani colme di neve

quel nascere insieme
di fogli di carta sparsi
segnerà l’inizio
di un lungo inverno

 

QUALCOSA IN LONTANANZA

 

qualcosa in lontananza
ruota il palmo della mano
e sembra dirci qualcosa
su cosa sia questa mia preghiera

tra carne e carne
a mani giunte

(Le poesie che pubblichiamo, su autorizzazione dell’autrice, fanno parte della raccolta “La mia non è poesia” uscita nel 2017 per Aljon Editrice. Nella prefazione leggiamo che “le poesie di Floriana Porta incarnano i percorsi interiori che ognuno di noi vive nel suo io più profondo, dove la natura, il surreale e il sogno coesistono in maniera sorprendente. (…) una poesia dallo stile ermetico, che fa a meno della punteggiatura, e lontana dalla retorica e dal sentimentalismo.”)

Floriana Porta è nata a Torino nel 1975, vive a Vinovo e fin da piccola ho avuto la necessità di scrivere, comporre e disegnare. Si presenta con forme espressive di rara intensità e la sua opera – poetica e figurativa – si dispiega fra la natura e la bellezza, l’introspezione e il sogno, elementi imprescindibili della sua riflessione esistenziale. Uno stile, il suo, caratterizzato da raffinatezza, contemplazione e armonia. Ha esposto nel Torinese e nell’Astigiano le sue opere ad acquerello; attualmente collabora con diversi siti culturali e artistici. Titoli delle sue principali pubblicazioni: Verso altri cieli (Edizioni REI, 2013), Quando sorride il mare (AG Book Publishing, 2014), Dove si posa il bianco (Sillabe di Sale Editore, 2014), L’acqua non parla (Libreria Editrice Urso, 2015) Fin dentro il mattino (Fondazione Mario Luzi Editore, 2014), La mia non è poesia (Aljon Editrice, 2017), I nomi delle cose (Edizioni L’Arca Felice, 2017), In un batter d’ali (AG Book Publishing Editore, 2018), Offro respiro ai versi (La Ruota Edizioni, 2018), Il Giappone in controluce (AG Book Publishing Editore, 2020), L’infinito è in me (AG Book Publishing Editore, 2021).

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]