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Fantasmi /
Il pioppo di Albino

La letteratura, per fortuna, non ha alcun debito 

Il pioppo di Albino

verso la verità storica,
tuttavia mi piace attestare il “vero per soggetto” di questo racconto.
Il suo nucleo, lo stupore per un incontro inatteso e abbagliante, viene da una storia di mio padre,
cui l’aveva a sua volta raccontata un indimenticabile capomastro, un
uomo della ‘Bassa’.
Da chi lui l’avesse appresa non è dato di sapere.
Io bambino lo ricordo già vecchio, ma ancora forte, grande,
alto come una quercia: la mia mano scompariva nella sua.
E ricordo che quando lo incontravo avevo la certezza che quella storia anonima fosse vera,
la storia di lui bambino in un Novecento appena nato.

ue figure sfocate, una grande e una piccola, camminano una fianco all’altra. Non si vedono, ma il narratore è certo della loro presenza. Si sentono i colpi secchi dei passi sull’erba ghiacciata. Non un altro rumore. C’è solo notte e nebbia intorno. E quando la prima si alza, la seconda resiste, si oppone alla luce con il suo grande dorso di animale addormentato. Ma infine qualcosa si vede, lo stradone della bonifica dritto dritto che parte e finisce nel niente. A destra e a sinistra, la terra arata nera come la cioccolata. Il padre e il figlio che camminano senza parlare.

La scena non cambia mentre passa il tempo. Lo stradone, le zolle nere, il battito ineguale dei passi dei due viaggiatori. Unica prova dell’avanzare del giorno è la nebbia sempre più spessa, padrona assoluta del campo visivo, e sempre più bianca. Non si sa da dove arriva quel bianco, non ha una fonte, un’origine, un punto di irradiazione. Scaturisce da ogni punto dello spazio, dall’interno stesso della materia, come la luce della pancia di una lucciola cosmica.

Il padre si ferma e fa un cenno con la mano. E’ il momento per fare una sosta. Il figlio ha sette anni, i capelli bagnati, il petto che si alza e si abbassa dentro un cappotto scuro troppo largo. Il padre gli tende il pane senza incrociare il suo sguardo, sulla faccia del figlio c’è un’ombra che non vuole vedere. Mangiano in silenzio, e in silenzio il freddo si infila sotto i vestiti.

Il padre fa un breve cenno. Riprende a camminare e parla sottovoce; “E’ ancora lontana. Non arriveremo prima di mezzogiorno.”

“Posso levarmi le scarpe?”
“No, devi abituarti. In città senza scarpe non si può stare”
“Sempre con le scarpe?”
“Sempre.”
“Sempre sempre?”
“Nossignore – ride il padre – quando vai a letto te le togli.”
“Come sono i letti di città?”
“Più morbidi credo. Credo che i letti di città siano più morbidi. E si dorme da soli. Avrai un letto solo per te, questo è deciso. Ho parlato con don Antonio. Fa parte dell’accordo: un letto con lenzuola bianche e un cuscino di piuma. E un vestito nuovo. E libri fin che ne vuoi.”
“Ma io non voglio fare il prete. Io sto bene dove sto.”
“Non vuoi vedere la città?”
“Voglio andarci e poi tornare indietro con te.”
“Tornerai a Pasqua. Poi a Natale. Poi dopo qualche anno, ti stancherai di tornare a Nuvolè. Non c’è niente a Nuvolè.”
“Io non voglio fare il prete.”
“Cosa ne sai?”
“So che non voglio.”
“Lo sai che i preti mangiano bene e viaggiano in carrozza?”
“Ma io voglio stare con voi.”
“Perché sei una testa dura.”
“Voglio stare a Nuvolè e della città faccio senza. Le scarpe mi fanno male ai piedi. Non mi va di portare le scarpe tutto il giorno.”
“E vediamo, testa dura, come farai a imparare a leggere?”
“Tu mica sai leggere.”
“Io no, ma tu sì. Tu sei nato nel nuovo secolo. Imparerai a leggere e a scrivere, è deciso. E vedrai che il mondo non è tutto piatto come a Nuvolè. E dopo, alla fine andrai anche in America e mi scriverai una lettera lunga così.”
“Ma perché proprio io?”
“Basta Albino, pensa a camminare!”

Albino, Il figlio che imparerà a leggere e scrivere, Albino che diventerà un grand’uomo, Albino che attraverserà il mare, adesso Albino non parla più. E’ arrabbiato con suo padre, con le scarpe, con la città, con don Antonio che l’ultimo Natale è venuto in visita e se n’è ripartito con il loro unico cappone. Cosa se ne fa del loro cappone don Antonio che è già grasso come un maiale?
E cosa c’è da vedere? Cosa c’è da imparare? Cosa c’è di più bello di Nuvolè?
Albino cammina gli occhi a terra. Ogni tanto calcia via una zolla. Cammina con i piedi stretti in quelle stupide scarpe. Cammina e non guarda niente.

Nel cielo è apparso un disco bianco. Adesso, anche se Albino ancora non lo sa, la nebbia batte in ritirata e il mondo ha finalmente un sotto e un sopra, e una linea diritta nel mezzo.
Albino, come se un amico lo avesse chiamato al gioco, alza la testa di scatto e rimane fermo a mezz’aria. Sente la sua bocca che si apre, si apre sempre più, ma non esce nessun suono- Sente caldo, sente la testa che gira, sente da qualche parte una cosa ingombrante che gli riempie le mani e le braccia, le gambe, il petto.
“Allora Albino, vuoi muoverti?”. Il padre si è voltato, ma subito gli passa la rabbia. Guarda incantato il figlio con gli occhi incantati.
“Allora Albino?”. Questa volta la sua voce è quasi un sussurro.
“Cos’è quello papà? Quello alto alto?”.
“E’ un albero.”
“Un albero?”
“E’ un pioppo. E stai sicuro che ne vedrai molti altri. E vedrai un mucchio di altre cose, più tutte quelle che ci sono dentro i libri.”
“Un albero pioppo?”
“Te lo spiegheranno a scuola cos’è un albero. E ti spiegheranno che a Nuvolè una volta c’era solo acqua. E adesso solo terra nera. Terra bassa e niente alberi.”
“E da dove arriva questo albero? A cosa serve?”
“E’ sempre stato lì quel pioppo. Tutti gli anni, quando vado in città, lo trovo al suo posto. Fermo, immobile. Vuol dire che siamo fuori dalla bonifica, fra poco incroceremo la strada grande che porta a Ferrara.”
“E perché è così alto?”
“Dai Albino, cammina che è tardi. Il Pioppo ti aspetta. Sarà ancora lì quando tornerai dall’America”:

Il racconto: 
Francesco Monini, “Il pioppo di Albino”, sta in Alberi Secolari, Ferrara, Corbo Editore, 1996

“Spostate il mega concerto dal Parco Urbano!”
Adesso si fa sul serio: ecco la lettera di diffida al Sindaco di Ferrara

Da molti mesi un foltissimo gruppo di cittadini sta portando avanti una pacifica mobilitazione per tutelare l’inestimabile patrimonio naturalistico e l’avifauna del Parco Urbano intestato a Giorgio Bassani. Si chiedeva semplicemente, e ancora si chiede, di individuare una location più idonea dove ospitare il mega concerto di Bruce Springsteen in programma il prossimo maggio.
Esistono alternative concrete alla location nel parco, ma il Comune di Ferrara non le ha mai prese seriamente in considerazione. E neppure, nonostante le ripetute richieste, ha disposto uno studio sull’impatto ambientale sul delicato equilibrio del parco urbano che provocherebbero 50.000 persone e migliaia di decibel.
L a grande petizione online (vedi sotto)  con 43.000 firme è stata ugualmente snobbata dal Sindaco e dalla Giunta di Ferrara. (le varie puntate della vicenda potete leggerle su Periscopio cercando le parole: parco urbano, Ndr)
Visto il silenzio e il disinteresse per le richieste di tanti cittadini da parte delle  Autorità Comunali, si è deciso di battere un’altra strada.
La lettera che trovate più sotto era già stata recapitata al Comune di Ferrara per vie normali nelle settimane scorse, non ricevendo alcuna risposta. A questo punto, la presente lettera di diffida da’ 7 giorni di tempo al Sindaco Alan Fabbri.  Se entro il 25 gennaio non si avrà riscontro, si procederà con il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica,
La lettera di diffida è stata inviata, tramite posta PEC, in nome e per conto dell’Associazione Animal Liberation, ITALIANOSTRA,  Associazione Piazza Verdi ed altre, e a nome e per conto dei 43.000 firmatari della petizione online. Crediamo importante renderla nota a tutta la cittadinanza.

Spett.li
COMUNE FERRARA
FONDAZIONE TEATRO FERRARA
APT SERVIZI EMILIA ROMAGNA
FERRARA TUA
p.c. BARLEY ARTS SRL
Oggetto: delibera 508\22 Convenzione per lo svolgimento del concerto di Bruce Springsteen
Scrivo la presente […] ad integrazione della mia precedente comunicazione per chiedere lo spostamento del concerto del 18 maggio 2023 in località diversa dal Parco Urbano “Bassani” di Ferrara.
Oltre all’Aeroporto di Aguscello che si è reso disponibile ad ospitare tale manifestazione, le associazioni mi hanno recentemente fatto presente che anche l’aeroporto di Ferrara aveva fornito la propria disponibilità.
A nome pertanto anche di Tommaso Mantovani, consigliere comunale che rappresenta l’adesione di 42700 firmatari della petizione online, si chiede di voler valutare  di spostare l’evento in altra località.
Il 18 maggio 2023 è stato programmato lo svolgimento del concerto di Bruce Springsteen nel Parco Urbano “Bassani” di Ferrara.
Per quanto l’iniziativa del concerto possa portare prestigio alla città di Ferrara, con tutti gli indotti conseguenti, i miei assistiti ritengono che la località prescelta per lo svolgimento del concerto possa nuocere in modo irreparabile alle specie vegetali e animali presenti all’interno del parco.
Al riguardo l’Aeroporto di Aguscello si è reso disponibile ad ospitare tale manifestazione.
Nella convenzione stipulata tra le parti, all’art. 5 è stato previsto il Parco Bassani come luogo di svolgimento dell’evento ma non sono stati considerati i rischi per le specie vegetali e animali che l’evento comporterebbe.
In particolare, come indicato dal biologo dott. Alessandrini, nella relazione qui allegata, “la posa in opera dei cavi per l’alimentazione elettrica richiederà lo scavo di trincee che danneggiano gli apparati radicali delle specie vegetali presenti, siano esse erbe o specie legnose. Qualora gli apparati radicali degli alberi venissero seriamente danneggiate, non è possibile escludere che gli alberi stessi mostrino immediatamente o a distanza di anni sofferenze fino alla morte”.
Allo stesso modo, l’ornitologo dott. Tinarelli ha evidenziato come il Parco urbano Giorgio Bassani è caratterizzato da elementi seminaturali di pregio quali prati, laghetti, boschetti, siepi e alberi isolati, che ospitano una ricca ed interessante comunità ornitica.
Lo svolgimento del concerto comporterebbe inevitabilmente degli impatti, sulla fauna presente e in particolare sugli uccelli, causati da emissione di rumori e incremento della presenza antropica nell’area con conseguente sottrazione di spazi seminaturali che determina la perdita temporanea di habitat per la fauna ivi presente.
Non deve essere trascurato che i rumori improvvisi e ad alto volume determinano l’immediato allontanamento degli uccelli con conseguente rischio di:
a) collisione con cavi di linee elettriche e vetrate di edifici illuminati se il disturbo avviene di notte,
b) raffreddamento (e quindi morte) di uova e piccoli e/o loro predazione se il disturbo avviene durante la riproduzione,
c) perdita di interesse verso siti idonei alla riproduzione se il disturbo avviene durante il periodo di insediamento,
d) perdita di interesse verso siti idonei all’alimentazione e alla sosta in ogni periodo dell’anno e del giorno.
Con la presente, pertanto si chiede di voler individuare un’altra località per lo svolgimento del concerto, evidenziando che, in assenza di altre “location”, l’Aeroporto di Aguscello si è reso disponibile ad ospitare tale manifestazione, avendo un’area di 120,000 mq disponibile.
Si chiede di dare riscontro alla presente nel termine di 7 giorni, eventualmente motivando l’inopportunità di individuare altre sedi per ospitare l’evento.
In difetto di riscontro l’associazione Animal Liberation si riserva la possibilità di adire il Presidente della Repubblica per esperire un ricorso finalizzato alla sospensione dell’efficacia della convenzione.
In attesa di riscontro si porgono distinti saluti.

Avv. Massimo Rizzato

 

Non hai ancora firmato la petizione popolare “Salviamo il parco Giorgio Bassani di Ferrara #Save the Park“?

Aperte le iscrizioni e le proposte alla seconda edizione di Eirenefest

 

La seconda edizione di Eirenefest, festival del libro per la pace e la nonviolenza si svolgerà ancora a Roma dal 26 al 28 di Maggio nel quartiere di San Lorenzo. Anche quest’anno Pressenza sarà media partner dell’iniziativa.

Le macro aree scelte dal comitato promotore per quest’anno sono riconciliazione personale e sociale,  libertà e diritti, conflitto e conflitti e conoscenza e futura umanità: come al solito si invitano realtà editoriali, associazioni e singole persone a iscriversi e a fare proposte di attività nell’ottica partecipativa che caratterizza il festival tramite un apposito form che verrà inviato a tutti gli iscritti che ne faranno richiesta.

Tutte le attività saranno gratuite e gestite da volontari: chi fosse interessato a dare una mano si iscriva precisando come vuole aiutare e verrà ricontattato dalla segreteria del festival.

Una novità di quest’anno sarà quella di un maggior coinvolgimento delle scuole nelle attività e di una apertura maggiore a livello internazionale sia come invitati che come associazioni e realtà editoriali partecipanti.

Quest’anno il Festival è sostenuto con i fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese.

Cover:  Vandana Shiva sul palco di Eirenefest 2022 (Foto di Associazione Futura)

Casa Triste Casa: l’altra faccia della transizione energetica.
La bidella Napoli-Milano, le casa green dei ricchi e i poveri costretti a vender casa

 

Giuseppina di 29 anni è diventata la bidella più famosa d’Italia: abita a Napoli ma lavora a Milano per 1.165 euro al mese. L’affitto le costerebbe 600 euro e, tra bollette e vitto, non ce la farebbe, le “spese obbligate” sarebbero infatti ¾ del salario, quindi prende il treno da Napoli alle 5.09 che arriva alle 9.40, giusto in tempo per lavorare dalle 10.30 alle 17. Poi riprende il treno alle 18.20 che arriva alle 22.53 a Napoli (salvo ritardi), ma spende meno (400 euro al mese) e così ce la fa anche se fa 10 ore in treno al giorno.
Ma anche il bidello Rocco Scoleri da Bovalino (Reggio C.) che prende 1.229 euro di ruolo da 2 anni dopo 9 anni di precariato non se la passa molto meglio a Modena. Affitto condiviso in 4 in una casa di 100 mq. con servizi in comune che gli costa 400 euro al mese più le utenze. Anche a Modena ci sono gli studentati a 24 euro al giorno (730 al mese) che però non sono sostenibili.

Giuseppina e Rocco fanno parte di quei 4-5 milioni di lavoratori poveri (su 23 che lavorano in Italia) che lo stanno diventando sempre di più con l’alta inflazione. Il lavoro si genera sempre più nelle grandi città dove affitti e case costano sempre di più. Mentre cresce l’impoverimento generalizzato per l’alta inflazione, crescono nell’eurozona i banchieri che guadagnano oltre un milione di euro all’anno: dai 1.383 del 2020 a 1.957 del 2021. In Italia sono 351 (fonte: Autorità bancaria UE).

Un’indagine dei sindacati negli anni ’80 aveva dimostrato che tra i poveri c’erano anche quei dipendenti che lavoravano nelle grandi città e che erano in affitto; inoltre che le spese maggiori erano quelle per il dentista (loro o dei figli). Negli ultimi 40 anni non solo nulla è cambiato, ma le cose sono peggiorate, con affitti sempre più alti nelle città e mancanza di un servizio pubblico per i denti.

Così a Firenze studenti e lavoratori non ne possono più degli affitti alle stelle e parte il referendum per impedire che gli studentati diventino “di lusso” (a 50 euro al giorno) e che il Comune consenta la trasformazione di edifici pubblici in ennesime case acquistate dalle immobiliari per i turisti che impediscono a chi lavora e studia di trovare una casa o un affitto a prezzi decenti. Firenze sta diventando gradualmente (come Venezia e Milano) sempre meno accessibile a chi vi lavora e studia, per essere disponibile ai turisti e ai “ricchi nomadi” di tutto il mondo.

Mentre peggiorano le condizioni materiali della grande maggioranza dei lavoratori e dei pensionati, nonni che spesso sono il welfare famigliare (aiutando figli e i nipoti a studiare), avanza la transizione digitale e “verde” che vuole rendere le case più efficienti. Per il digitale saranno “sollevati” i Comuni dal dare l’autorizzazione alle antenne di 28 metri del 5G, come chiedono le big company e l’Europa propone che si arrivi entro il 2030 alla classe E, ed entro il 2023 alla classe D. Per l’Italia alcuni stimano 8 milioni di case (ma l’Ance dice che sono solo 3,7 milioni) per un risparmio energetico stimato del 15%. Quanto costerebbe per appartamento/casa? Dai 20mila ai 40mila euro. Sarebbero 30-100 miliardi di investimenti all’anno per 7-10 anni. L’ipotesi è che almeno il 50% delle spese sia detraibile a carico dello Stato in 5 anni. Ma in questo caso gran parte delle famiglie povere non si potranno permettere di spendere il 100% e poi recuperarne la metà in 5 anni. Se la detrazione fiscale salisse al 90% si potrebbe fare, ma lo Stato può permetterselo? Vedremo.

I paesi più ricchi e le famiglie più ricche preferiscono stare in affitto, si spostano frequentemente in altre case e luoghi o per lavoro o per abitare in una casa più grande e sono invece i paesi più poveri ad avere un’alta percentuale di proprietari, perché tutto quello che hanno lo investono nella loro casa. L’Italia ha il 70% di proprietari, contro il 60% della Germania e il 50% della Svizzera. In quei paesi le proprietà sono spesso di grandi immobiliari che hanno le “spalle larghe” per poter ristrutturare e/o rivendere, mentre in Italia le spese sarebbero tutte o in parte a carico del singolo proprietario.

In Italia le case dove bisogna intervenire entro il 2033 sono in teoria il 76% del totale: 34,3% in classe G, 25,4% in classe F, 16,3% in classe E. Le altre sono: 9,8% in classe D; 4,4% in classe B; 7,3% in classe A. Le tre classi più energivore (E, F, G) avevano prima del superbonus 110%, il 77% delle case, ora sono il 76%. Ciò significa che l’80% degli interventi è stato fatto sulle case che avevano meno bisogno.
Sono 62 i miliardi di lavori pagati dallo Stato per il 110% che sono andati a 360mila case (inclusi condomini, stime Ance) per 4/5 alle fasce medio alte e seconde case (che sono 5,6 milioni) che avevano quindi già buone case in classe A, B, C, D.

Il superbonus è vero che ha prodotto un aumento degli occupati, del PIL e delle imposte riscosse (stime indicano il 43% di quanto lo Stato ha speso) e non voglio dire che fosse una cattiva misura (è anche un modo per generare moneta aggiuntiva), ma proprio alla luce di questa direttiva che avanza (e che immagino fosse conosciuta) doveva essere meglio disegnato con sussidi meno generosi e per un tempo più lungo e soprattutto con incentivi tanto maggiori quanto più le case erano in classi energetiche basse (per es. max 80-90% ma poi a scalare per chi ha case meno energivore); infine privilegiando i condomini ed escludendo le seconde case.
Così, dopo un’alzata di genio italico (per certi versi è una misura innovativa), ci troviamo messi quasi come prima nella maggioranza delle case e dei condomini energivori, in quanto il 110% è intervenuto solo nel 5% delle case unifamigliari e nello 0,8% di case plurifamigliari o condomini e per 4/5 in case delle classi migliori.

Secondo l’ANCE (Associazione Nazionale Costruttori Edili) servirebbero per 10 anni circa 40 miliardi all’anno solo per gli edifici residenziali (più altri 19 per gli immobili strumentali), per un totale di 59 miliardi all’anno, cioè il doppio annuo di quanto avvenuto col 110% e solo per intervenire su 3,7 milioni di immobili (il 15% dell’intero patrimonio). Sarebbe un intervento di enorme portata che potrebbe determinare un ingolfamento dei lavori e un aumento di tutti i prezzi come avvenuto col 110%. Bisogna quindi capire bene come sarà congegnata la proposta dell’Europa. Al di là delle imprese edili (che non abbiamo), sono in grado le famiglie più povere di pagare 15-40mila euro per efficientare la loro casa/appartamento (seppure agevolata al 50-60%)?

Chi sarebbero gli interessati? Uno studio della Fondazione Di Vittorio ci dice chi sono i “poveri energetici”: 6,4 milioni di persone (10,9% della popolazione), molti anziani che vivono soli e hanno poche conoscenze, dei quali la metà “vulnerabili”, che si trovano in condizione di difficoltà ad acquistare un paniere minimo di servizi energetici e che, oltre alla condizione di disagio economico, vivono in una casa non efficientata, 31% sono vedove/i, che vivono da soli o in due, 2/3 sono donne e nel 42% con la licenza elementare. Molti sono in affitto e 4/5 abitano in una casa costruita prima del 1970.
Le spese di efficientamento energetico degli edifici sono state affrontate da circa il 65%, dal 35% tra i vulnerabili e 25% tra i poveri. Si riscaldano con il camino tradizionale a legna o con gas e gasolio.  Solo il 5,5% ha pannelli solari o fotovoltaico e il 10% non ha proprio alcun riscaldamento. Spendono circa 650 euro per anno, mentre per la casa sui 900 euro per anno. Solo il 18% conosce i “bonus”.

L’ipotesi è un intervento non obbligatorio, in quanto una ristrutturazione di tutto lo stock in classe E, F, G non sarebbe possibile neanche con Mandrake alla presidenza del Consiglio, per cui le case e condomini non ristrutturati (sostanzialmente quelli dei più poveri che non hanno i soldi per farlo), verrebbero svalutati e molti, alla prima difficoltà economica (se perdono il lavoro o non riescono a pagare il mutuo), sarebbero costretti a vendere una casa svalutata. Una ghiotta occasione per le grandi immobiliari che non aspettano altro. Il che produrrebbe forse un milione di altri poveri. Spiace che sia la destra sociale a sollevare il problema, in altri tempi lo avrebbe fatto la sinistra, che oggi privilegia l’ambiente e non sempre chi lavora e i ceti deboli.

La transizione verde va coniugata con le reali condizioni dei cittadini, altrimenti il principio della “libertà di scegliere (che ben si adatta al “sovrano consumatore”) porta a dover vendere la propria casa svalutata e ad impedire di vivere nella propria città per chi ci lavora.
Due modi diversi di un neoliberismo che si richiama alla “libertà di”, senza tener conto della “libertà da condizionamenti di sopravvivenza delle persone.

Un capitalismo che si ammanta di “verde” ma che diventa predatorio e riduce il livello di vita e la natura attorno a noi e che rischia ora di espropriare la casa ai più poveri e impedire a chi ci vive e lavora di abitare nelle belle città italiane ai ceti deboli, all’insegna della “libertà teorica” di consumare. Così vanno le cose nel secolo XXI.

Reportage Palestina: “Nel cuore di Nablus c’è un campo di battaglia.”

di: Michele Giorgio
(da Pagine Esteri del 20-01.2023)

Pagine Esteri, 20 gennaio 2023 – Il traffico è quello caotico di tutti i giorni. Fabbriche, laboratori di artigiani e negozi sono aperti. Come fanno ogni mattina gli studenti dell’università al Najah a passo veloce raggiungono il campus e di pomeriggio affollano i caffè intorno all’ateneo riempiendo l’aria di suoni, parole, risate. Nablus sembra vivere una tranquilla quotidianità. È solo apparenza. La seconda città palestinese della Cisgiordania dalla scorsa estate vive in un clima di guerra, una guerra che si combatte soprattutto di notte e che non risparmia nessuno. Il campo di battaglia principale è la casbah, la città vecchia. Gli uomini delle unità speciali dell’esercito israeliano, i mistaravim in abiti civili che si fingono palestinesi, di notte con azioni fulminee aprono la strada ai blitz dei reparti dell’esercito a caccia di militanti della Fossa dei Leoni, il gruppo che riunisce combattenti di ogni orientamento politico diventato l’icona della lotta armata palestinese. Incursioni che sono accompagnate da intensi scontri a fuoco e che terminano con uccisioni di palestinesi, compiute quasi sempre da cecchini.

«Viviamo come se fossimo in guerra, con gli occupanti (israeliani) che entrano quasi ogni notte nella città per uccidere o catturare qualcuno e spesso a pagarne le conseguenze sono i civili» ci dice Majdi H., un educatore che ha accettato di accompagnarci. «La casbah è l’obiettivo principale di Israele – aggiunge – perché rappresenta il rifugio della resistenza. Però i raid avvengono ovunque e si trasformano in battaglia alla Tomba di Giuseppe». Majdi si riferisce alle «visite» notturne periodiche dei coloni israeliani al sito religioso all’interno dell’area A, sotto il pieno controllo palestinese. Il loro arrivo, con una scorta di dozzine di soldati e automezzi militari, innesca scontri a fuoco violenti con la Fossa dei Leoni. «Vogliano vivere la nostra vita, senza più vedere coloni e soldati ma non ci viene permesso» prosegue Majdi che da alcuni anni svolge, assieme ad altri colleghi, attività di sostegno psicologico ai minori. «Sono i più colpiti da questo clima – ci spiega -, bambini e ragazzi sono i più esposti ai danni che procura questa guerra, a bassa intensità ma pur sempre violenta». La situazione attuale, ricorda a molti l’operazione Muraglia di Difesa lanciata da Israele nel 2002, quando l’esercito, nel pieno della seconda Intifada, rioccupò le città autonome palestinesi. Calcolarono in circa 300 i morti palestinesi a Nablus attraversata e devastata per mesi da carri armati e mezzi blindati. Oggi come allora, i comandi militari e il governo israeliano giustificano il pugno di ferro con la «lotta al terrorismo» e alle organizzazione armate palestinesi responsabili di attacchi che in qualche caso hanno ucciso o ferito soldati e coloni.La bellezza della casbah di Nablus è paragonabile solo a quella della città vecchia di Gerusalemme. I lavori di recupero avviati negli anni passati dalle autorità locali, grazie anche a progetti internazionali, hanno ridato nuovo splendore a edifici antichi e ad angoli nascosti. Gli hammam (bagni) che contribuiscono a rendere nota la città, sono stati ristrutturati così come le fabbriche di piastrelle e del sapone all’olio d’oliva e i laboratori a conduzione familiare che producono le gelatine ricoperte di zucchero a velo. «Ma la regina dei dolci di Nablus era e resta la kunafa» puntualizza Majdi riferendosi a una delle delizie della cucina palestinese. L’atmosfera è piacevole. Dopo la moschea al Khader si incontrano ristorantini con vasi fioriti e luci colorate che si riflettono sulla pietra bianca delle abitazioni. I commercianti espongono merci di ogni tipo e gli ambulanti a voce alta descrivono la bontà di frutta e verdura che hanno portato in città.conflitto

Entrati nel rione Al Yasmin, Majdi si fa più serio e teso. «Siamo nella zona rossa, questa è la roccaforte della Fossa dei Leoni e di altri gruppi armati. Qui ci sono scontri a fuoco quasi ogni notte tra i nostri giovani e i soldati israeliani. Non puoi scattare foto e se incontriamo i combattenti, mi raccomando, non seguirli troppo a lungo con lo sguardo. Il timore di spie e collaborazionisti è forte» ci intima a voce bassa. Sopra le nostre teste, nei vicoli, sono stati stesi lunghi teli neri per nascondere ai droni israeliani i movimenti degli armati. I muri sono tappezzati di poster con i volti di martiri vecchi e nuovi, quelli uccisi durante la prima Intifada trent’anni fa e quelli colpiti a morte nelle ultime settimane. Una sorta di mausoleo ricavato in una piazzetta ne ricorda i più famosi, tra cui Ibrahim Nabulsi, che lo scorso agosto, circondato da truppe israeliane, preferì morire e non arrendersi. Nabulsi prima di essere colpito a morte inviò un audio alla madre virale per mesi. Per i palestinesi è un eroe. Per Israele invece il primo leader della Fossa dei Leoni era un «pericoloso terrorista» e tra i responsabili di gravi attacchi armati a soldati e coloni. I mistaravim israeliani hanno già decapitato un paio di volte i vertici della Fossa dei Leoni ma il gruppo vede crescere i suoi ranghi ogni giorno di più. Ne farebbero parte tra 100 e 150 abitanti di Nablus e dei villaggi vicini. Un paio di loro ci passano accanto, non possiamo fotografarli o fermarli per fare qualche domanda, ci ribadisce secco Majdi al quale nel frattempo si è unito Amer, un suo amico che vive nella casbah per garantirci un ulteriore «lasciapassare». L’uniforme degli armati è nera, il volto è coperto dal passamontagna, una fascia colorata con il logo del gruppo avvolge la parte superiore della testa. L’arma è quasi sempre un mitra M-16.

Una «divisa» simile la indossano i membri del Battaglione Balata nel campo profughi più grande della città, noto anche per essere un bastione della resistenza alle forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese che tanti a Nablus, anche del partito Fatah del presidente Abu Mazen, ormai considerano «al servizio» di Israele. Le operazioni di sicurezza (repressive) a Nablus delle forze speciali dell’Anp sono la causa di proteste violente e le strade del centro cittadino si trasformano in terreno di scontro tra giovani e poliziotti. «Chiediamo, invano, da decenni la fine dell’occupazione israeliana, il problema principale di Nablus, di ogni città, di ogni palestinese» dice Osama Mustafa, direttore del centro culturale Yafa nel campo di Balata. «Ci abbiamo provato con gli accordi di Oslo, con i negoziati ma non è servito a nulla, restiamo sotto occupazione, le colonie israeliane ci circondano» aggiunge Mustafa. «Israele afferma che la sua pressione su Nablus è dovuta alla presenza in città di uomini armati e attua misure punitive che colpiscono tutta la popolazione». La frustrazione è palpabile, l’esasperazione per il disinteresse dei paesi occidentali deteriora il rapporto con l’Europa. «Al centro Yafa svolgiamo attività culturali e a favore dell’infanzia» spiega Mustafa «sono progetti civili, quasi sempre per i bambini. Eppure, per assegnarci i finanziamenti l’Ue chiede di firmare dichiarazioni di condanna della resistenza all’occupazione. Lo fa perché è Israele ad imporlo. Ma nessun palestinese può farlo».

(le foto in copertina e nel testo sono di Michele Giorgio)

Michele Giorgio
Nato a Caserta, dopo aver conseguito a Napoli la laurea in Scienze Politiche, si è formato come giornalista pubblicista a Radio Città Futura – Campania. Trasferitosi in Medio Oriente e divenuto giornalista professionista, lavora per il Manifesto di cui è corrispondente a Gerusalemme. Ha realizzato reportage e servizi da vari paesi del Medio Oriente e dell’Asia centrale e ha scritto tre libri su Israele e la questione palestinese. Dal 2021 è direttore della rivista di affari internazionali online Pagine Esteri.

Presto di mattina /
Di cosa parliamo quando parliamo di “consolazione”

Consolate

«A chi ti confronterò? A chi t’eguaglierò, o figlia di Gerusalemme? A chi t’assomiglierò per consolarti, o vergine figlia di Sion? Immenso come il mare è il tuo cordoglio: chi mai ti appresterà rimedio?» (Lam 2,13-15).

Il 17 gennaio è stata la giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo ebraico-cristiano. Nell’Evangelii gaudium leggiamo che «la Chiesa condivide con l’Ebraismo una parte importante delle Sacre Scritture, considera il popolo dell’Alleanza e la sua fede come una radice sacra della propria identità cristiana (cfr. Rm 11,16-18)» (n. 247).

La riflessione comune parte sempre da un testo delle Scritture e quest’anno si è scelto un passo del profeta Isaia. È un annuncio di consolazione per il popolo, chiamato a stare saldo nella fiducia che il suo Signore non lo abbandonerà: «Nahamù nahamù ‘ammì, Consolate, consolate il mio popolo» (Is 40,1).

Il testo isaiano ha una specifica collocazione nella liturgia ebraica: si situa al termine di tre settimane, in estate, segnate dal digiuno e dalla preghiera, durante le quali si ricordano le distruzioni del primo e del secondo Santuario di Gerusalemme insieme ad altri eventi luttuosi della storia ebraica.

All’inizio vengono letti testi profetici minacciosi che promettono guai per l’infedeltà e l’ingiustizia che Dio trova nel suo popolo, ma poi alla fine di questi tre sabati di desolazione e di minacce e di abbandono seguono sette sabati di consolazione. Come a dire il prevalere in modo esponenziale, esondante della consolazione sulla disperazione; la volontà smisurata di prossimità al posto dei pensieri minacciosi di separazione e lontananza.

Così le parole di Isaia si mutano da ostili, inquisitorie e sfavorevoli in parole di consolazione, di condivisione e di presenza dentro all’afflizione. «Il popolo di Israele, pur colpito da sciagure, sa che dopo il lutto viene la consolazione, la vita riprende, il legame con il Signore torna ad esprimersi su toni più sereni, nell’attesa fiduciosa della completa redenzione, su questo percorso il messaggio è sempre valido» (dal testo del Consiglio dell’Assemblea Rabbinica Italiana).

Isaia profeta dalle duplici profezie

I capitoli dal 40 al 55 di Isaia formano come un libro a sé chiamato Il libro della consolazione. Non per caso infatti viene detto: “Geremia ferisce Isaia risana”. Ma Isaia è anche il profeta delle doppie profezie: «Tutti i profeti fanno profezie semplici, tu invece le fai duplici: “Svegliati, svegliati” (Is 51,9; 51,17); “Gioisci, gioirò” (61,10); “Io, io” (51,12) e “Consolate, consolate” (40,1)» (in Pesikta de-Rav Kahana 16). Quasi un invito a credere veramente che l’ultima parola non è sventura, desolazione ma il suo contrario.

Ripetizione che intende rafforzare la veridicità e la certezza di queste parole: «”Io, io sono il vostro consolatore”. Perché si dice due volte “Io, io”? Perché sul Sinai ricevettero due io: Io sono il Signore tuo Dio (Es 20, 2). E Io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso (Es 20, 5). Per questo il Santo – sia benedetto! – è il vostro consolatore con due io: Io, io sono il vostro consolatore».

Il secondo io svela un’appartenenza di amore. Una doppia firma per un’alleanza nunziale, irrevocabile, ulteriore continuità della promessa a una duplice fedeltà, autenticata due volte, quasi a sottolineare la tenacia di una parola data, di un amore geloso.

Nei sette sabati si leggono selezioni di brani profetici disposti come a formare un dialogo ideale, un intreccio dialogico tra le parole dei profeti, del popolo e del suo Dio. Un’omelia rabbinica riporta questi dialoghi. Dapprima Dio manda Abramo, Isacco e Giacobbe con messaggi di consolazione, ma essi falliscono nel dare consolazione.

Poi ci riprova con i profeti, ma anche le loro parole non riescono a consolare. I sentimenti del popolo restano infatti confusi e incerti perché ad ogni parola di consolazione il popolo – rappresentato nella figura della figlia di Sion – ricorda anche le precedenti parole di minaccia e di ostilità, tanto da generare una grande insicurezza e profonda inquietudine.

Così il popolo diffidente, disperato e provato dalle sciagure non sa darsi consolazione e dice: «il Signore mi ha abbandonato, il mio Signore mi ha dimenticata» (Isaia 49,14). E ogni volta gli inviati ritornano a Dio senza esser riusciti nella loro impresa. Da ultimo ci proverà il profeta Malachia, pure lui senza esito; così dopo quell’ultimo tentativo andato a vuoto Dio prenderà una decisione: quella di andare lui stesso a consolare il suo popolo.

Nella seconda Omelia (Sete del Dio vivente, Omelie rabbiniche su Isaia, Città Nuova, Roma 1981, 83-84) la figlia di Sion dice al profeta Malachia: «Ieri mi hai detto: Non c’è in me alcun compiacimento di voi, dice il Signore delle schiere (Mal 1, 10). Ed ora tu dici: Voi sarete terra di compiacimento? A che crederemo? Alle prime parole o alle ultime? Come mi consolate invano! Perché? Perché delle vostre risposte non resta che perfidia! Di parole come queste ne ho udite molte, voi tutti siete consolatori di afflizione”. Tutti i profeti vanno dal Santo – sia benedetto! – e gli dicono: “Signore del mondo, abbiamo cercato di consolarla e non ha accettato!”. Dice loro il Santo – sia benedetto! -: “Venite con me. Io e voi andremo da lei e la consoleremo”».

Rifiutando le consolazioni dei profeti, perché vane, e volendo Lui solo, la figlia di Sion lo attira a sé. Sion ha vinto sul cuore di Dio; la consolazione del cuore è opera propria di Dio; essa viene raffigurata nei profeti a volte con l’immagine di una madre o con quella del pastore e infine essa viene rappresentata con la sponsalità.

«Sì, non ti si dirà più abbandonata e alla tua terra non si dirà più desolata, perché tu sarai chiamata: “Il mio compiacimento è in lei” e alla tua terra si dirà “Sposata” perché il Signore si compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo» (Is. 62, 4).

È questo è il vertice della consolazione, il punto ultimo della storia: «Tutte le Scritture sospingono qui, al compimento perfetto di ogni desiderio di Dio e di ogni desiderio dell’uomo. Anche la liturgia sinagogale ha cura di custodire la tensione del cuore verso questo punto, celebrando assai spesso il tema delle nozze. Ogni settimana Israele va incontro al sabato come alla sposa e nel mistero del sabato celebra l’unione trasformante di Dio con la sua creatura (Abrahm Joshua Heschel, Il sabato)» (ivi 101).

Duplice pure l’“Amen” del Cristo

Viene in mente l’evangelista Giovanni quando, a differenza degli altri sinottici, ripete due volte l’amen di Gesù ogni qual volta egli vuol sottolineare l’importanza decisiva di una sua parola: «Amen, amen dico vobis/ in verità, in verità io vi dico». Amèn è parola dell’ebraico biblico (aman) che significa fermo, stabile. Indica i pilasti di una porta, ma anche le braccia che portano un bambino e lo educano. Esprime così affidabilità, ma anche tenerezza come un cuore che sta sicuro, fidente davanti alla parola di Dio. Traslitterata nel greco del Nuovo Testamento significa ‘è così’, ‘così sia’; e come avverbio significa ‘certamente’, ‘in verità.

In Giovanni il doppio amen compare 25 volte e nell’Apocalisse giovannea diventa una parola personificata: il Cristo è designato come ò Amèn/ l’Amen di Dio, il testimone fedele e veritiero. E Paolo ricorderà che tutte le promesse di Dio hanno il loro «sì» in lui. Perciò pure per mezzo di lui noi pronunciamo l’Amen alla gloria di Dio. (Cf. 2 Cor 1,20).

Va sottolineato ancora come, nel vangelo di Giovanni, Gesù indichi indirettamente se stesso come il Consolatore, colui che è chiamato vicino, quando prometterà ai discepoli alla sua partenza la venuta di un altro consolatore: «pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi… In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi» (Gv 14, 16-17; 12).

Così lo Spirito santo aggiungerà consolazione a consolazione fino a fare di voi stessi capaci di consolazione. È l’intuizione di Paolo: “consolati per consolare”: «Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare” quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio»(2 Cor 1,4).

L’Amen è un compimento, un punto di arrivo della stessa fede ma pure un nuovo inizio; l’Amen è quella soglia raggiunta che dà stabilità e che permette una ripartenza che rimette in cammino, nell’amen la forza di ricominciare a sperare.

Di cosa parliamo quando diciamo consolazione?

Parliamo di un luogo di prossimità, di una terra di mezzo, una pratica di umanità nel tempo presente, nell’oggi. Consolazione come esercizio quotidiano, dare e ricevere il pane, farsi vicino e chiamare vicino che tiene insieme il già e il non ancora, l’utopia e il disincanto, direbbe Claudio Magris. La consolazione è la trama che permette la resistenza di comunanza nelle cose avverse; un passo ancora del cammino tra questi due poli; chi consola fa strada, avanza in compagnia, oltre ogni impedimento.

Scrive Magris: «Il destino di ogni uomo, e della storia stessa, assomiglia a quello di Mosè, che non raggiunse la Terra Promessa, ma non smise di camminare nella sua direzione. Utopia significa non arrendersi alle cose così come sono e lottare per le cose così come dovrebbero essere; sapere che il mondo, come dice un verso di Brecht, ha bisogno di essere cambiato e riscattato.

Il risveglio religioso, che pure così spesso degenera nei fondamentalismi, ha la grande funzione di ridestare il senso dell’oltre, di ricordare che la Storia profana di ciò che accade s’interseca di continuo con la Storia sacra, col grido delle vittime che chiedono un’altra Storia e che, nel Giorno del Giudizio, presenteranno a Dio o allo Spirito del Mondo il libro dei conti e li chiameranno a rendere ragione del mattatoio universale» (Utopia e disincanto, Garzanti, Milano 1999, 11).

Levatrice di speranze

Quando parliamo di consolazione parliamo di speranza. Essa è levatrice di speranza che paradossalmente nasce proprio nel travaglio del disincanto e del disamore: «Il disincanto, che corregge l’utopia, rafforza il suo elemento fondamentale, la speranza. Che cosa posso sperare? La speranza non nasce da una visione del mondo rassicurante e ottimista, bensì dalla lacerazione dell’esistenza vissuta e patita senza veli, che crea un’insopprimibile necessità di riscatto. Il male radicale – la radicale insensatezza con cui si presenta il mondo – esige di essere scrutato sino in fondo, per essere affrontato con la speranza di superarlo.

Charles Péguy considerava la speranza la virtù più grande, proprio perché l’inclinazione a disperare è così fondata, così forte, ed è così difficile, come egli dice nel Portico del Mistero della Seconda Virtù, riconquistare la fantasia dell’infanzia, vedere come tutto avviene e nondimeno credere che domani andrà meglio.

La speranza è una conoscenza completa delle cose, non solo di come esse appaiono e sono, ma anche di come devono diventare per essere conformi alla loro piena realtà non ancora dispiegata, alla legge del loro essere. Essa s’identifica con lo spirito dell’utopia, come insegna Bloch, e significa che dietro ogni realtà vi sono altre potenzialità, che vanno liberate dalla prigione dell’esistente. La speranza si proietta nel futuro per riconciliare l’uomo con la storia, ma anche con la natura, ossia con la pienezza delle proprie possibilità e delle proprie pulsioni. Questo spirito dell’utopia è custodito soprattutto nella civiltà ebraica, nell’indomita tensione dei suoi profeti» (ivi, 14).

Consolazione è un fuoco tra i rovi

Quando parliamo di consolazione parliamo di un roveto ardente simile a quello visto da Mosè al Sinai: l’esserci dell’altro tra le nostre spine, come un fuoco che brucia senza consumare: «Il Santo, benedetto sia, disse a Mosè: “Non senti che io sono nel dolore proprio come Israele è nel dolore? Guarda da che luogo ti parlo: dalle spine! Se così si potesse dire, io condivido il dolore di Israele”. Perciò si legge anche (Isaia 63,9): “In tutte le loro angustie Egli fu afflitto.”» (da Esodo Rabhah, 2,5).

Consolazione: il silenzio narrante degli alberi

Dicendo consolazione parliamo pure del silenzio degli alberi in inverno, spogli e gocciolanti sotto la pioggia, in pianto. Stando in mezzo a loro, consola la compagnia del loro silenzio, quella che si fanno l’uno all’altro, il silenzio di uno custodisce il silenzio degli altri; parole nel silenzio, le loro, in attesa che la nudità scheletrica del legno si rivesta ancora una volta di foglie e fiori fruttiferi.

Di queste azzurre argille, alberi, sono
come voi, figlio e tutti qua mi siete
dunque fratelli…
Qui frutto
divien quasi ogni fior; ma, sorta appena,
ogni speranza tua cade e si perde.
È vero; è peggio anzi ora: un nudo tronco
screpolato or son io: piante sorelle,
consolatemi voi! Foglie non ho
né frondi più da riparare un nido;
e d’invocar mi resta, unica e vera
grazia per me, la scure.
Oh tu, soave
brezza, che su dal mar prossimo spiri
e queste frondi amiche in un amplesso
lieve ed ampio commuovi, agita pure
col fresco soffio i pensier miei. Tu, vento
impetuoso, forse, in alto mare,
or brezza qui, d’un naufragio orrendo
vieni a cercar tra queste foglie oblio?
Pace è qui tutto: qualche foglia teco
vola, poi lenta cade a terra, dove
ferme radici han gli alberi. Da un altro
più fosco mar son qui venuto anch’io
per pace, come te.
Qualche bizzarra
storia d’uccelli, alberi miei, col lieve
frusciar continuo delle foglie, mentre
all’ombra vostra giaccio, orsù, narrate.
(Luigi Pirandello, Sinfonia rurale, Poesie sparse, in La vita letteraria, Roma, anno IV, n. 7, 22 febbraio 1907).

La consolazione della liturgia

Amico è colui che è invocato e chiamato vicino: il consolatore. Nella liturgia sinagogale del venerdì sera si dice: «Vieni, amico, incontro alla sposa [il sabato]; il volto del sabato accoglieremo».

Ancor più suggestivo è questa invocazione per la liturgia del sabato:

O Amico dell’anima,
Padre delle misericordie,
attira il tuo servo nel tuo beneplacito,
correrà il tuo servo come un cerbiatto,
adorerà prostrato davanti alla tua gloria,
gli piaceranno i tuoi amori
più del nettare di miele e di ogni sapore.
O Magnifico, o Amabile, o Splendore eterno,
l’anima mia è malata del tuo amore,
ti prego, o Dio, orsù, guariscila,
facendole vedere
la dolcezza del tuo splendore;
allora sarà forte e sana
e avrà gioia eterna.
O Antico, si commuovano infine
le viscere della tua misericordia,
abbi pietà del figlio della tua diletta,
perché di questo languisce.
Desiderando desidero con ardore
di vedere lo splendore della tua gloria.
Questo brama il mio cuore.
Abbi pietà, infine, e non nasconderti.
Rivelati, dunque, o mio diletto,
e stendi su di me
la tenda della tua pace.
Risplenda la terra della tua gloria.
Esulteremo e ci allieteremo in te,
affrettati, o Amato,
perché viene il tempo
ed abbi pietà di noi
come ai giorni dell’eternità. Amen.
(nel libro Rinnàt-Israel, in Sete del Dio vivente, 101-102).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

 

Autonomia differenziata, fermate quel treno!
di Domenico Gallo, magistrato

(da. Volerelaluna del 20.01.202)

Uno

Secondo l’ultimo comunicato di Palazzo Chigi, il Consiglio dei Ministri ha «definito il percorso tecnico e politico per arrivare, in una delle prossime sedute del consiglio dei ministri, all’approvazione preliminare del disegno di legge sull’autonomia differenziata». In questo modo è stato messo sui binari il treno che porterà all’approvazione dell’insano progetto dell’autonomia differenziata sulla base della proposta di “legge di attuazione” dell’art. 116, 3 comma Costituzione presentata dal ministro Calderoli. Grazie all’attivismo del ministro leghista, il dibattito sull’autonomia differenziata è uscito fuori dalla clandestinità ed è diventato di pubblico dominio. Per questo è importante chiarire all’opinione pubblica in cosa consista l’autonomia differenziata e quali sono i pericoli che si prospettano.

La possibilità di concedere alle Regioni non a statuto speciale «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», la cosiddetta “autonomia differenziata” trova origine nella riforma del titolo V della Costituzione approvata nel 2001. La riforma ampliò notevolmente l’autonomia legislativa delle Regioni. L’art. 117 definì (nel secondo comma) gli ambiti riservati alla legislazione esclusiva dello Stato e assegnò (nel terzo comma) alle Regioni la competenza concorrente in 23 materie, precisando che «nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata allo Stato». Gli effetti di questa riforma hanno determinato un contenzioso, che ha tenuta impegnata la Corte Costituzionale per oltre un ventennio, per tracciare i confini esatti fra la competenza delle Regioni e quella dello Stato per ciascuna materia. E tuttavia nella riforma c’è un criterio che rende modificabile il confine per le Regioni che siano interessate ad acquisire maggiori forme di autonomia, cioè più potere. L’art. 116, terzo comma, infatti, recita: «Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate nel secondo comma del medesimo articolo alle lettere l, limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, ed s, possono essere attribuite ad altre regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la regione interessata». È bene precisare che si tratta di una mera facoltà e non di un obbligo costituzionale, che non può essere avulsa dalla tela dei rapporti fra organi costituzionali e diritti dei cittadini come delineati nel testo costituzionale. Se le Regioni ottenessero la competenza piena in tutte le materie di competenza concorrente e nelle materie di competenza esclusiva dello Stato (norme generali sull’istruzione, tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali), verrebbe surrettiziamente ribaltata la norma che ha tracciato i confini fra i poteri dello Stato e quelli delle Regioni, senza ricorrere al procedimento di revisione della Costituzione, di cui all’art. 138. Verrebbe pregiudicata anche l’eguaglianza dei cittadini, in aperto contrasto col principio fondamentale di cui all’art. 3. Per non parlare dell’istruzione dove la possibilità di attribuire alle Regioni la competenza sulle norme generali si scontra con la disposizione di cui all’art. 33, che statuisce: «La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione».

Due

Le disposizioni di cui al terzo comma di cui all’art. 116, sono compatibili con l’impianto costituzionale solo ove se ne dia un’interpretazione restrittiva. Vi sono materie che non possono essere parcellizzate per esigenze specifiche di un territorio: scuola, autostrade, ferrovie, salute, tutela e sicurezza del lavoro, grandi reti di produzione e trasporto dell’energia, chiamano in causa un indivisibile interesse nazionale. Invece, le richieste delle Regioni capofila – Veneto, Lombardia e, in misura ridotta, Emilia Romagna – hanno di mira tutte e 23 le materie di competenza concorrente e persino le due o tre materie che rientrano nella competenza esclusiva dello Stato. In altre parole si è aperto un processo politico che mira ad utilizzare il “baco” inserito nell’art. 116 della Costituzione come una breccia per squarciare l’intero impianto costituzionale e ribaltare il principio fondamentale dell’unità della Repubblica, trasformando l’Italia in una serie di repubblichette semi-indipendenti. Non a caso la legge Calderoli è stata denominata “lo spacca Italia”. Si tratta di un progetto “sovversivo” dal punto di vista della legalità costituzionale e particolarmente insidioso per le sue modalità procedurali. Infatti l’autonomia differenziata, una volta concessa, sarà potenzialmente irreversibile. Questo perché il processo di determinazione dell’autonomia differenziata si fonda sulle intese stipulate fra il Governo e la Regione richiedente e, raggiunta l’intesa, il Parlamento non può modificarla, ma solo approvarla in blocco o rigettarla. Una volta deliberata, inoltre, la legge che approva le intese non può essere sottoposta a referendum abrogativo. Né l’intesa potrebbe essere modificata con una nuova legge perché occorrerebbe il consenso della Regione interessata, senza il quale l’intesa raggiunta è destinata a durare in eterno.

L’art. 117 della Costituzione, inoltre, precisa che spetta alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Sono passati oltre venti anni e questa funzione non è stata mai esercitata per ragioni oggettive, visto che in Italia ci sono forti differenziazioni nella erogazione delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, per cui trovare un punto di equilibrio accettabile per tutti imporrebbe di mobilitare ingenti risorse che, in tempi di austerità, sarebbe stato difficile trovare. Ora, l’esigenza di procedere alla determinazione dei LEP è stata considerata un presupposto necessario per poter attribuire alle Regioni le risorse necessarie per l’esercizio delle nuove competenze trasferite dallo Stato. Per risolvere questo problema, che si trascina da vent’anni, il Ministro Calderoli ha innestato il turbo, facendo inserire nella legge di bilancio una decina di commi con i quali si prevede una procedura accelerata che, entro il dicembre del 2023, dovrebbe portare alla determinazione dei LEP, che avverrà con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM). Come si è visto, la Costituzione prevede che devono essere le assemblee elettive, con legge, a determinare quali prestazioni e quali livelli essenziali devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Nel disegno Calderoli, inserito nella legge di bilancio, invece, è il Governo che stabilisce i diritti che devono essere garantiti ai cittadini e il loro ambito di applicazione. Quello che è ancora più assurdo è che si pretende di fare questa operazione a costo zero. Il risultato sarà che l’asticella dei diritti civili e sociali sarà necessariamente determinata a un livello piuttosto basso. In questo modo verranno cristallizzate le disuguaglianze che affliggono il nostro paese, soprattutto a svantaggio del Meridione e delle Isole. Questo perché lo stesso disegno di legge Calderoli, nella norma relativa al trasferimento delle funzioni e delle risorse (art. 4), stabilisce che «le risorse necessarie per le funzioni relative a ciascuna materia o ambito di materia sono determinate in base al criterio della spesa destinata a carattere permanente (cioè la spesa storica) sostenuta dallo Stato nella Regione per l’erogazione dei servizi pubblici corrispondenti». Secondo gli ultimi dati, la spesa pubblica pro capite è pari a poco meno di 19.000 euro in Lombardia, viaggia sui 16.000 in Veneto, mentre si ferma a poco più di 14.000 in Sicilia, in Calabria a 15.000, in Campania a 13.700 euro. La determinazione dei LEP a costo zero non inciderà su questa situazione di disuguaglianza, ma la consoliderà. Pertanto il finanziamento della maggiore autonomia prefigura un drenaggio di risorse a favore delle regioni economicamente più forti. In sintesi, la proposta di legge di attuazione presentata da Calderoli apre la via, da un lato, alla frammentazione del paese in repubblichette semi-indipendenti e, dall’altro, a un sicuro aumento delle diseguaglianze e dei divari territoriali, tra cui in specie quello strutturale Nord-Sud.

Se il processo di spostamento della competenza legislativa dallo Stato alle Regioni venisse portato a compimento, per tutto ciò che riguarda le scelte fondamentali inerenti il sistema produttivo e la vita civile nel nostro paese, come l’istruzione, i trasporti, le comunicazioni, le reti dell’energia, le condizioni di lavoro e dei lavoratori, l’ecologia, l’ambiente, la sanità, al posto di una disciplina legislativa ne dovremmo avere venti, ognuna con efficacia territoriale limitata. Al posto del contratto collettivo di lavoro, torneremo alle gabbie salariali. Di fronte a una nuova pandemia, avremo l’impossibilità di determinare delle regole di profilassi comuni. Non sarà possibile programmare una politica energetica per la transizione ecologica e la decarbonizzazione dell’economia. Venti mini Stati regionali faranno decollare la spesa pubblica legata al costo degli apparati amministrativi. Si tratta di una scelta insensata, inefficiente, costosa e caotica.

Tre

L’insieme delle considerazioni fin qui svolte ha indotto il Coordinamento per la democrazia costituzionale a presentare una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, sostenuta da circa 120 costituzionalisti, docenti universitari di varie discipline, studiosi, sindacalisti, esponenti della società civile, recante una modifica degli art. 116, comma 3, e 117.

La scelta di una legge di iniziativa popolare trova la sua ragione in una recente (2017) modifica del regolamento del Senato (art. 74) che assicura si giunga al dibattito in aula. Un riscontro si è avuto da ultimo con la legge costituzionale n. 2 del 7 novembre 2022, che ha introdotto nell’art. 119 il riconoscimento dell’insularità, iniziando il suo percorso in Senato come legge di iniziativa popolare sostenuta da 200.000 firme raccolte in Sicilia e Sardegna. Dunque, è oggi possibile creare un contesto in cui le forze politiche siano chiamate a prendere chiara e pubblica posizione sull’autonomia differenziata nella sede appropriata, dove un confronto sul tema non c’è finora mai stato, pur essendo il tema dal 2018 una priorità nell’agenda di tutti i governi. E sarebbe battuto il tentativo del ministro Calderoli di ulteriormente emarginare il Parlamento.

Nel merito, la proposta punta a correggere i punti deboli prima evidenziati nell’impianto degli articoli 116, comma 3, e 117, togliendo così il fondamento normativo alle scelte perseguite dal ministro Calderoli. Quanto all’art. 116, comma 3, viene cancellata la natura pattizia, causa della potenziale irreversibilità dell’autonomia una volta concessa, recuperando una opportuna flessibilità. Viene altresì sottolineata la connessione a specificità proprie del territorio, per evitare la bulimia di competenze che nulla hanno a che fare con la regione richiedente, e viene introdotta la possibilità di referendum nazionali sia approvativi nel momento della concessione dell’autonomia che successivamente abrogativi. Nell’art. 117 vengono spostate dalla potestà legislativa concorrente a quella statale esclusiva le materie strategiche per il sistema-paese, l’unità e l’eguaglianza nei diritti, dalla scuola e università alla tutela della salute e al Servizio sanitario nazionale, al coordinamento della finanza pubblica, al lavoro, alla previdenza, alle professioni, all’energia, alle grandi reti di trasporto e navigazione, ai porti e aeroporti di rilievo nazionale e interregionale. Inoltre, i livelli “essenziali” delle prestazioni vengono ridefiniti come livelli “uniformi”. Infine, si introduce una clausola di supremazia riferita all’unità giuridica ed economica della Repubblica e all’interesse nazionale.

Il treno dell’autonomia differenziata lanciato da Calderoli ormai è partito ma può essere ancora fermato. Bisogna far conoscere a cittadini/e cosa c’è in fondo a questo processo: se lo conosci, lo eviti. La proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare può essere firmata con lo SPID sul sito www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it.

Domenico Gallo
Magistrato è presidente di sezione della Corte di cassazione. Da sempre impegnato nel mondo dell’associazionismo e del movimento per la pace, è stato senatore della Repubblica per una legislatura ed è componente del comitato esecutivo del Coordinamento per la democrazia costituzionale. Tra i suoi ultimi libri “Da sudditi a cittadini. Il percorso della democrazia” (Edizioni Gruppo Abele, 2013) e “Ventisei Madonne Nere” (Edizioni Delta tre, 2019).

Fantasmi /
Una svegliata

a sveglia suona.
Per spegnere quell’aggeggio infernale mi sono dovuta trascinare, lungo il corridoio, fino al comodino in ingresso. L’altra me, di ieri sera, ha tirato questo brutto scherzo perché mi vuole bene.
Il treno è tra meno di un’ora. Devo fare la valigia; ma perché la me di ieri non l’ha preparata? Ci butto dentro tutto quel che capita anche il ferro da stiro. Mentre mi lavo i denti penso che no, proprio no, il ferro da stiro insieme ai vestiti non si può: potrebbe strapparli con la punta d’acciaio. Torno in camera, sporgendomi sulla valigia aperta per terra, con lo spazzolino tra i denti. Scivola dalle labbra la schiuma del dentifricio. Gocce, bianche come latte, sul vestito di seta. No! Lo strofino sotto il getto d’acqua. Con il fiato del phon lo asciugo. L’alone più chiaro rimane. Chiudo la valigia. Meglio chiamare un taxi. Il mio cellulare si sta scaricando. Cerco il cavo. Lo trovo dentro a un libro. Nel prenderlo rovescio una birra aperta. Al diavolo! Attacco il cavo alla presa. “Sì grazie… Sì esatto al civico 47…. Scendo tra dieci minuti”. Oh! Stavo per dimenticare il regalo. È già stato infiocchettato dal negoziante per fortuna. E le mie solite scarpe basse e comode? Non c’è spazio.
Manca il bigliettino!
Calma! Respira. Espira. Scriverò una frase in treno.
Salgo sui tacchi.

“Ehi! Siamo arrivati!” Mi sono addormentata. Scendo dal taxi. Corro saltellando sui sampietrini. Uff! Mi lascio cadere sul sedile del treno. Vengo cullata. Mi riaddormento.

Il fischio mi fa trasalire. “Arriiivaaatiiii!”  Nella folla vedo qualcosa saltare, un braccio si agita. È la mia amica. “Ma quanto sei bella” mi bacia “Ma che fai la timida?” “Ma no! Ma che dici, è che sai, non sono riuscita a chiudere occhio da ieri”. “Per l’emozione! Che carina! Mi vuoi proprio bene tu”.
Mi piego in due per passare attraverso la porta del suo appartamento vuoto. Ci sono solo due sacchi a pelo in terra. “Staremo come ai vecchi tempi stanotte” mi dice. Istintivamente poggio le mani sui reni, ma lei me le prende stringendole tra le sue. “Per chiudere il cerchio bisogna ripartire dall’inizio!” Apre l’armadio e tira fuori il vecchio abito da Pluto. “Non posso credere che tu l’abbia conservato per tutto questo tempo”, mi viene da ridere. Era il primo costume costruito insieme, secoli fa, per carnevale. Rido, rido, rido forse troppo.  La mia risata diventa un singhiozzo. “Ma quanto mi vuoi bene tu! Sei più emozionata di me”. Mi abbraccia.
Sta per esplodere il mal di testa. Non so come ma ce l’ho fatta. Sono vestita a festa e pure pettinata: ho uno chignon. Siamo intorno a una tavola immersa tra ranuncoli e non ti scordar di me. Vicino c’è anche una piscina illuminata. Mi guardano. Perché mi fissano? Si aspettano il brindisi da me? Devo dire qualcosa? Oh cavolo… mi accorgo ora di non avere scritto il bigliettino da accompagnare al regalo. Vedo passare un vassoio di mousse traballanti. Vorrei essere una di quelle mousse per andarmene via su quel piatto d’argento. Non riesco a deglutire. La lingua è incollata, anzi, la sento più grande del solito. I piedi sono rigidi a paletta. Le gambe senza consistenza, da invertebrato, come pongo. Ma possibile che io non abbia proprio nulla da dire? Piccoli percussionisti battono le mie tempie. Vedo le parole, che non riesco a pronunciare, veleggiare per poi cadere infrangendosi in terra.
Mi guardano.
Continuano a fissarmi.
Ho candele di cera al posto delle orecchie: prima si incendiano e poi si sciolgono. Nella mia testa i percussionisti hanno chiamato l’artiglieria, colpiscono sempre più. Un sottofondo musicale emoziona la festeggiata. “Uuuh ragazze! Questa la dobbiamo ballare tutte insieme”. Lei mi tira per le braccia. “Andavamo matte per questa canzone al liceo. Ti ricordi?”. “Sì, sì! No! No! Davvero… dai! Vi guardo da qui… Vi scatto le foto.” Appena si allontanano, mi schiaffeggio, immergo i polsi nel secchiello del ghiaccio del vino bianco che tengo in grembo sotto la tavola. La bottiglia dell’acqua è troppo distante da me. Ho sete. Un gancio diretto allo stomaco mi lascia senza fiato. Un altro scherzo dei miei nemici invisibili. Ma guardati! Stai qua da sola nel tuo vestito in seta stile impero. Quello che avevi scelto con cura per starci comoda dentro. Ed eccoti qui, invece, incollata alla sedia strizzandoti il ventre. E pensare che attendevo da mesi questa serata. Volevo davvero star bene, divertirmi, condividere questa sua felicità. Oddio tornano! Tutte allegre e saltellanti loro. Le odio! Prima che propongano qualcos’altro devo inventarmi qualcosa. Qualcosa che le tenga calme e ferme. Mi butto e propongo: “Facciamo il gioco dei segreti!”. “Sì dai!”. “Ognuna deve dire il segreto che secondo lei nasconde un’altra”. “Secondo me tu sei gelosa che Sara si sposa.”. Abbasso la testa ma subito la rialzo. Guardo negli occhi il cecchino mascherato da biondina slavata che ha appena parlato. Sara fa un gridolino. Ha cambiato abito. O meglio si è mascherata. Indossa il vestito da Pluto. Soltanto ora riconosco la mia amica. Adesso sì che vorrei stringerla e abbracciarla forte, forte. È luminosa e tiene sotto il braccio, come fanno gli schermitori col casco, la testa di Pluto. Tutte ridono e poi si ammutoliscono mentre lei perde l’equilibrio cadendo in piscina. Riemerge. Tra i capelli gocciolanti solo il suo sorriso. È bellissima.
È così che voglio ricordarla.
Socchiudo gli occhi mescolando il passato al futuro:
siamo entrambe vestite di bianco, sull’altare delle nudità, con quel Sì che soltanto Sara ha pronunciato per gioco.
In quel Sì io sono rimasta impigliata.
Le altre si tuffano una dopo l’altra. Non le distinguo più.
Gli abiti, rigonfi d’acqua, danzano immersi in quel rettangolo turchese. Sembra sia caduto il cielo in terra con tutte quelle stelle galleggianti. Mi metterei seduta per terra, a gambe incrociate, per dipingere queste emozioni in un colore rosa pallido, argento e viola plumbeo. Vorrei fermare l’immagine per sempre.
Questa festa ormai è un quadro da appendere alla parete del passato.
Intorno tutto è indistinto e gommoso. Mi sento all’interno di uno di quei budini gelatinosi all’amarena che sfilano ora sulla tavola. Anche le note fanno fatica a muoversi trattenute da quell’aria densa.
È il momento della torta.
Abbraccio la pancia.  Prendo lo scialle, che avevo poggiato sullo schienale della sedia, lo annodo intorno alla vita, intorno all’alone bianco di dentifricio.
Mi alzo.
Prendo uno di quei budini vermigli e lo posiziono al centro della sedia del cecchino.
Ora sì che posso uscire di scena. Sono libera. Libera di non dare spiegazioni. Libera di lasciare gli altri interpretare. Libera di liberarmi. Libera di vomitare.
Scendo dai tacchi.

In copertina: Roma, Villa Doria Pamphilj. “Chi è la sposa solitaria tra le due? ” (Foto di Francesca Alacevich)

Parole a capo
Lucia Boni: alcune liriche da “Lembi e le sette chiese”

“La scrittura è l’ignoto. Prima di scrivere non si sa niente di ciò che si sta per scrivere e in piena lucidità.”
(Marguerite Duras)

(da “Lembi e le sette chiese”, La Carmelina editrice – Ferrara 2016)

lembi d’inverno

novedodici

lacrime
non le trattengo
in questi giorni ascolto
musica segreti
in queste foglie
d’inizio di dicembre
note piegate e secche
sul Platano e tenaci al
fremito forte del sottile vento
neri e rugosi
i toni più profondi
solchi nel tronco dell’Acacia
piume di struzzo verde-soffio invece soffice
sulle mani con le fronde
si manifesta e maschera di gialli
intensi e radi
chiari di tromba e ottoni
ori e illusioni
l’Acero dai ritti rami
espansi suoni dalla terra questi
fini altri così fini
sul capo e sui capelli campanelli
d’argento ha
il Pioppo bianco spoglio
Sophora intreccia fitto il cespo
verde vibra d’armonium
la cupola e la piccola cappella
suona nascosta e dolce
clausura la sua ombra tonda e scura
[nessuno sa se sotto sono i rami
come io li conosco serpentini
percorsi
liquidi] e intanto scende zigzagante
sulle guance di nebbia
la canzone

 

daccapo la mattina

a grovigli

muri d’albe d’inverno
superati ogni giorno al
buio fine che infine
io dipano

e daccapo

 

sempre

amo le
strade rare di incontri
scivolati così senza parlare

e gli spigoli rossi e le paraste
in aliti di nebbie e di misteri

ecco i ciottoli e curvo sui pedali
cigola l’uomo apparso e poi svanito

senti che da finestre lampi rossi
danza di radio e di cucchiai usciva

le porte logore talune
altre di ottoni lucidi e di rame

io raccoglievo mazzi di profumi
d’oltre i muri e venivo fuori

dagli androni umidi e dal buio
per trovarmi ancora oggi in faccia al sole

non metto mai le lenti scure amo
avere da ogni cosa il suo colore ai

passi non suggerisco le andature
e vado lenta e lesta grave o lieve

sempre

 

germinare a gennaio (I)

passa che passa
saltano lo steccato
interi ovili

nuvole di lana sul soffitto
ora su ora
e passa anche la notte

alle tue spalle
arriva tardi il sole
siepi di nebbia

estraniano la strada
ti aspettano davanti
poi spostano le quinte

di fronte ti confondono le
forme bulbi che pulsano
di deboli lumi

vanificano presto
fatue le cose
– strisciando avanza intimorito dondola

di tulle
pallido e a tratti ti urta
il giorno già di fine

dicembre – è breve
ed è gennaio

pronto a germinare

 

germinare a gennaio ( II )

qui è la provvidenza
e la pianura
a germinare giorni fermi e stesi

germinare nel gelo
nel contrasto di strati

duri glauchi di sopra sotto
e più giù nero di carbone e già calore
al confronto

ed è riposo lento e
senza strappi sereno tutto
d’aria tersa e terra

e lunghe – lunghe le ore
in notti e giorni

attenta avanza

di lentissimi passi
la natura con
estrema saggezza

accoglie il germe
fragile e lo fa forte
– ma nascosto – al fine di

futura fioritura

(Ringraziamo l’autrice per aver autorizzato la pubblicazione di queste sue poesie)

Lucia Boni. Nata nel 1952, vive e lavora a Ferrara. Ha coltivato una formazione artistica (conseguendo i titoli all’Istituto d’Arte “Dosso Dossi” di Ferrara e di Scultura all’Accademia di Belle Arti di Bologna) e la passione per la parola con gli studi di Logopedia presso l’Università di Padova.
È insegnante e dal 1982 al 2015 ha svolto la sua attività presso il “Laboratorio delle Arti” dell’Istituzione Servizi Educativi e Scolastici del Comune di Ferrara, progettando ed organizzando situazioni educative finalizzate a sensibilizzare ai linguaggi artistici ed espressivi. Nel suo lavoro ha collaborato con altri Enti ed Istituzioni come il Teatro Ragazzi del Comunale di Ferrara e con la Direzione della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, ha curato i rapporti con artisti nei percorsi espositivi a carattere didattico, come testimonia il volume generale “Palazzo dei Diamanti dal 1963 al 1993. Mostre, artisti, cataloghi”, con il Centro di Documentazione Raccontinfanzia ha curato diverse pubblicazioni didattiche del tra cui: “Porta su-la Torta”, “Creta. Terra in movimento” e le più recenti “Parole in un vaso. Il teatro e le arti visive nella scuola”, “La Visita attiva. Un incontro con l’arte”, “Incontro con l’arte. Un passo che vede e che sente”.
Dal 2000 collabora alla Direzione Artistica della Galleria “del Carbone” per l’associazione culturale Accademia d’Arte “Città di Ferrara” aps.
Ha pubblicato: “Imbuti di Cristallo” – Ferrara, La Carmelina Edizioni nel 2009; “Pensieri di cioccolato e menta” – Ferrara, Ideagramma, nel 2010; “noci & bauli” – Ferrara, La Carmelina Edizioni (2014) Primo Premio Narrativa al X Concorso Niccolini nel 2015; “Lembi e le sette chiese” – Ferrara, La Carmelina Edizioni nel 2016; “Custode di dune” – Udine, Campanotto Editore (2018); “Imbuti di Cristallo” – 2 ^ edizione riveduta ed ampliata – Ferrara, La Carmelina Edizioni (2021).
Suoi testi di poesia e prosa sono stati pubblicati su antologie, raccolte e riviste di letteratura. Inoltre sono presenti suoi scritti a commento e presentazione degli artisti, nei cataloghi della Galleria “del Carbone” Via del Carbone 18/a Ferrara.
Nella rubrica Parole a Capo sono state pubblicate altre poesie di Lucia Boni il 26 agosto 2021 e il 9 marzo 2022.

La rubrica di poesia Parole a capo, curata da Pier Luigi Guerrini, esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca[Qui]

Edward Hopper e le finestre illuminate

 

La notte è un buio pozzo magico che inghiotte le vicende del giorno. Le notti d’inverno, poi, sono ancora più buie, di un nero pece che compare presto, dura molto e non sbiadisce nemmeno con la luna piena. Sono le notti in cui le finestre illuminate delle case raccontano le storie più intense, parlano di vite, abitudini, segreti, stuzzicano l’immaginazione di chi passa col naso rivolto all’insù e per un momento si sente partecipe.

Non è una questione di voyeurismo ma un richiamo inevitabile, irresistibile, di quelle luci che trapelano e offrono sensazioni di calore o gelo, felicità o tristezza, perché ogni finestra racchiude i presupposti di amore o distacco, solitudine, disperazione, allegra convivialità.

La finestra è il confine tra il mondo interiore, teatro di sentimenti privati e il grande mondo esteriore, pericoloso, imprevedibile; una membrana tra il dentro e fuori che segna il confine, traccia le differenze, rivendica una sua presenza nel panorama urbano.

La finestra diventa il soggetto irrinunciabile e pretestuale nell’arte di Edward Hopper (Nyack 1882 – Manhattan 1967), pittore e illustratore statunitense, uno dei grandi artisti del realismo americano. Nella sua ricerca artistica, preferiva vagabondare per le città osservando, disegnando e dipingendo ciò che vedeva. Ed ecco che prendeva forma il famoso dipinto Room in New York del 1932, mentre camminava per le vie di notte nel quartiere di Washington Square, I nottambuli del 1942, Hotel room del 1931 e molti altri.

In Room in New York, l’intimità di una vita di coppia viene scrutata attraverso una finestra, che diventa la porta di accesso all’anima dei protagonisti. L’uomo è immerso nella lettura del giornale, la donna strimpella annoiata e senza convinzione sui tasti di un pianoforte. Immagini di una grigia ordinarietà della vita domestica.

Edward Hopper, Room in New York, 1932

I nottambuli descrive una scena attraverso l’ampia vetrata di un bar notturno: tre figure al banco, due uomini e una donna, ciascuna immersa nei propri pensieri, un cameriere intento nel proprio lavoro. Il desolante isolamento di ciascuno di essi è immediatamente raggiungibile e palpabile come l’indifferenza che li circonda.

Edward Hopper, Nighthawks, 1942

In Hotel room, 1931, una esile figurina di ragazza è seduta sul letto di un’angusta stanza d’albergo, con un libro in mano, ricurva su se stessa in una pausa di riflessione che esprime stanchezza esistenziale. Tutt’intorno i bagagli sono rimasti chiusi, le scarpe rovesciate sul pavimento, abiti e cappello sparpagliati qua e là. Tutto esprime un’intima sofferenza in un momento di passaggio.

Edward Hopper, Hotel room, 1931

Le finestre rivelano verità, permettono di esplorare e fanno scoprire momenti, solitudini, inquietudini. Le finestre d’inverno lasciano scorgere ombre gesticolanti sui muri, richiamando a una discussione accalorata, mostrano madri con neonati in braccio in attesa che si addormentino; si scorgono silhouette che percorrono avanti e indietro stanze troppo piccole per contenere irrequietezza, mobili vissuti, giganti piante d’appartamento o fiori secchi.

Alcune finestre mantengono luci e decorazioni nonostante il Natale sia passato da un po’, perché è difficile lasciare la festosa leggerezza appena trascorsa. Una nonna in sedia a rotelle è perennemente affacciata alla sua finestra, la sua vetrina sul mondo e anche un gatto comodamente accucciato sul davanzale scruta l’universo. Gli allegri commensali di una tavolata accanto alla finestra contagiano con la loro esuberanza mentre su un’altra facciata si scorge un uomo intento ad appendere uno scaffale.

Le finestre lasciano intravvedere candele accese che, accanto a un accenno di risparmio energetico, fanno riscoprire un romanticismo perduto. Finestre che rimangono buie, tristi, vuote, indice di assenza o abbandono, finestre oscurate con tendaggi che decretano lo stacco tra il giorno e la notte, finestre da cui esce la fredda luce dei led negli ultimi uffici a chiudere.

Oggi la finestra ha però perso parte del suo ruolo simbolico e con esso il suo fascino, sostituita dall’iPad, l’interfaccia di Facebook o Pinterest che, con meno charme, portano dentro casa il mondo.

Le storie di Costanza /
Gennaio 2062 – Fiori-FF e ortaggi-JV

 

È cominciato da poco il 2062 con molte preoccupazioni e molte speranze, come l’inizio di tutti gli anni che ricordo.  Cosmo-111 è qui, sul tappeto di mollan a quadri rossi e marroni del nostro soggiorno, che canta la sua solita canzone: “Saputo, saputo aku aku, saputo saputo aku totù”.

Ogni tanto si ferma e mi guarda: “Valeria saa ballassama, anza stra-ballassama! (Valeria sei bellissima, anzi stra-bellissima)”. Già, bellissima. Bellissima forse lo sono stata quando avevo vent’anni, ma in aprile di quest’anno ne compirà quarantotto e ormai la mia bellezza è indissolubilmente legata all’investimento affettivo che ciascuno può fare sulla mia persona.

Sempre in aprile di quest’anno la zia Costanza compirà novant’anni, quella straordinaria donna ha raggiunto una ragguardevole età ancora arzilla. Le organizzeremo sicuramente una festa. Novant’anni sono tanti, vissuti come li ha vissuti lei, pieni di eventi, impegni e imprevisti, sono tantissimi.

Alla zia l’idea di festeggiare il compleanno non piace particolarmente, dice che si sente a disagio, che non le sembra bello festeggiare una vecchia tutta piena di rughe e con i capelli bianchi quale è diventata; invece, a noi piace proprio perché è così: sarà vecchia ma ha ancora uno spirito molto frizzante ed è sempre creativa.

Scrive ancora con lo pseudonimo Alba Orvietani e le sue poesie vendono sempre bene. Chissà se mai si deciderà a raccontare alla stampa che la Orvietani è lei. Credo che non lo farà, ormai è passato molto tempo da quando è nato questo pseudonimo e, nonostante il trascorrere degli anni, la zia non ha mai cambiato idea su questo mistero da svelare. Credo che si diverta così e che consideri Alba Orvietani un pezzo indissolubile di Costanza Del Re. Come se una sua falange avesse acquisito un nome proprio invece di chiamarsi solo, e un po’ banalmente, “falange”.

La zia non riesce più a correre, nuotare e marciare come quando aveva sessant’anni, ha smesso molto tardi con queste attività sportive, però è ancora atletica. Dice che le feste la intristiscono perché le ricordano i suoi parenti morti, i suoi nonni, i suoi genitori e alcuni suoi amici, tra i quali Albertino Canali, che ci ricordiamo tutti. Ma noi vogliamo organizzarle una festa lo stesso e faremo il possibile perché non sia una giornata di rimpianti, ma di buoni presagi per il futuro. Ormai ci sono molte persone che superano i cent’anni e noi speriamo che lei sia tra queste.

Mia madre Cecilia ha ottantantadue anni, anche lei non è più giovanissima. La sua folta chioma di capelli biondi è diventata candida e la sua altezza si è un po’ ridimensionata. Resta comunque alta e bella, come è sempre stata.

Gyanny, l’ultimo arrivato del grande clan dei Santoniani (gli abitanti di via Santoni Rosa o discendenti dei primi) ha un anno e mezzo, cammina, parla e gioca con Orsino-121, il robot che funziona con una pila a fissione nucleare e che ha delle prestazioni stupefacenti. Gliel’ha regalato mio marito Luca per il battesimo.

Il robot è resistente, veloce e sa eseguire compiti complessi, sovrapposti e multipli. Sa camminare, cantare, contare e verificare la presenza di altri robot tutt’assieme, neanche fosse un umano. La sua pelliccia di mollan marrone piace tanto ai bambini che, quando lo vedono con Gyanny, gli corrono incontro e cominciano ad accarezzarlo, a parlare con lui e ad offrirgli caramelle e marzapane.

Orsino-121 non ha alcun bisogno di mangiare per produrre l’energia che gli serve per funzionare, ma mangia lo stesso, per far contenti i suoi fans. Se ha già la bocca piena, mette l’ultima caramella ricevuta in tasca e la regala al primo robot-121 che incontra.

I bambini gli regalano anche mattoncini di Prigo, quei cubetti che stanno insieme perché dotati di calamite e che hanno colori sgargianti, oppure sono trasparenti o luccicanti. Ci sono anche Prigo che al loro interno hanno ologrammi, altri dei piccoli caleidoscopi colorati, altri ancora che si possono annusare e, quando i sensori interni al mattoncino individuano un naso umano in avvicinamento, emanano un forte profumo di rose, o di lillà, o lavanda.

I fiori da cui provengono queste essenze esistono ancora “in natura”, anche se il pianeta Terra è molto diverso da quello che ha visto la nascita della zia Costanza e, ancor di più di, da quello che ha accolto i natali della bisnonna Adelina.

Il modo in cui si propagano e annusano i profumi è sicuramente cambiato da quando la zia Costanza era piccola o da quando la nonna Anna stava a Cremantello e vendeva il profumo “La violetta di Parma” estraendo, le bottigliette di vetro che contenevano l’essenza, dal cassetto centrale della merceria di sua madre.

In questo nostro mondo attuale non ci sono solo i fiori naturali, ma ci sono anche quelli meccatronici che spuntano vicino agli altri e rendono i prati colorati in qualsiasi momento dell’anno. Anche in novembre, quando le giornate sono corte e nebbiose e lungo le sponde del Lungone si respira un’umidità sorprendente e malsana, si possono vedere i nostri fiori meccatronici sbocciare. Li si vede sbucare dalla terra come palline, distendere i petali, aprire il pistillo, girare verso la luce e diffondere l’essenza per cui sono stati programmati.

Ci sono così le viole-FF, le rose-FF, le margherite-FF che hanno la stessa fragranza delle loro antenate naturali. Ci sono anche le Giafio-FF, le Rofio-FF, le Viofi-FF fiori che presentano una fragranza sintetica complessa. Giafio-FF ha un aroma di margherita e bergamotto, Rofio-FF di rosa e menta, Viofi-FF di viola, calendula e limoncello.  Questi fiori sintetici possono sbocciare in qualunque periodo dell’anno e profumare intensamente e a lungo.

La zia Costanza dice che a lei quegli -FF non piacciono, che rovinano il vero profumo delle sponde del Lungone. A me invece piacciono, sono coloratissimi, resistenti e profumati. Il fatto che siano meccatronici, non vedo che differenza possa fare.

C’è molta resistenza all’apprezzamento dei fiori-FF, soprattutto da parte delle persone che appartengono alla generazione della zia Costanza. Sembra che proprio questi boccioli incarnino una idea di progresso discutibile, un’evoluzione verso un mondo con caratteristiche non migliori del precedente.

La zia Costanza pensa che se le peculiarità del novo mondo non sono belle, allora è meglio tornare al vecchio. Non sa cosa farsene dei fiori-FF, li trova un’orrenda deriva di questo mondo arrivato al 2062. Considera inimitabile l’efflorescenza naturale, la profumazione dei ‘fiori veri’ che colorano le sponde del Lungone soprattutto in primavera.

La presenza dei fiori meccatronici cambia radicalmente l’estetica delle sponde del fiume e lei li detesta.  Non li vuole nel suo giardino e non le fa nemmeno piacere che ce ne siano nelle vicinanze. Dice che rovinano il profumo delle sue ortensie che è più delicato, meno percepibile ma anche molto particolare, unico.

Io credo che ognuno debba poter fare come preferisce. Dove ci sono persone che non apprezzano i boccioli-FF bisogna avere l’accortezza di non incubarli. Ognuno ha il diritto di definire i confini e le caratteristiche del suo ‘mondo’, almeno per quel che riguarda la sua casa, i muri perimetrali che circondano i giardini privati e gli orti di famiglia.

In alcuni orti ci sono anche alcune verdure meccatroniche. Stanno negli orti per abbellirli. Ovviamente non le si può mangiare. Avere ferraglia in bocca non piace a nessuno. Ma i finocchi-JV, le rape-JV e le cipolle-JV possono fare bella mostra di loro in qualunque periodo dell’anno e riempiere l’orto di colore e di profumo di verdura in ogni momento, con qualunque tempo ed evento meteorologico, fatta eccezione per le catastrofi come i terremoti, i maremoti e le glaciazioni.

Gli ortaggi-JV stanno sempre lì e danno l’impressione che il padrone di casa sia un ortolano provetto. Ma se ci si avvicina bene, si vede chiaramente che sono dei -JV anche perché, se sono in vena, ti schiacciano l’occhio e ti salutano. “Ciao”, dicono. Non sanno dire altro, almeno per ora.

Per tutto ciò, la zia Costanza prova molto scetticismo e di finocchi che salutano non ne vuole proprio sapere. “Se a qualcuno piacciono, se li tenga pure” dice. “Io non li voglio. Mi fanno impressione e hanno un odore che mi infastidisce”. Dice che la verdura non deve parlare, che i fiori non devono sbocciare d’inverno e che le cipolle-JV puzzano quanto quelle vere senza servire a nulla, se non a far piangere i bambini che hanno gli occhi particolarmente sensibili.

Una volta, in un momento di nervosismo, che ogni tanto le viene e che ha caratterizzato tutta la sua lunga vita, ha preso tre cipolle meccatroniche che le avevano regalato i bambini di Parda e, saltandoci sopra con gli zoccoli, le ha distrutte. Poi ha raccolto la ferraglia rimasta e l’ha buttata nella pattumiera.

Subito dopo, con molta soddisfazione, ha estirpato tutte le palline di boccioli-FF che stavano per “squbare”, le ha cosparse di alcol etilico e le ha bruciate saltellando di qua e di là sempre con i suoi zoccoli malefici. Infine, finalmente tranquilla, si è dedicata alle sue ortensie.

La zia è cresciuta in un mondo diverso che il suo cuore e la sua pelle non hanno dimenticato. Vive con ciò che le piace e che considera familiare e così facendo annienta un pezzo della nostra storia recente e anche un pezzo della tecnologia che avanza e che sta affiancando ciò che di ‘vero’ esisteva già. Ma Costanza è Costanza e, a noi che la conosciamo da sempre, continua a piacere così.

Per leggere tutti i racconti/articoli di Costanza Del Re clicca sul nome dell’autore  

Resa dei conti in Vaticano con vista sul Conclave

Il 31 dicembre scorso nel monastero Mater ecclesiae in Città del Vaticano è morto all’età di 95 anni il papa emerito Benedetto XVI.

Giovedì 5 gennaio si sono svolte a San Pietro le esequie, con una messa solenne presieduta da papa Francesco e celebrata dal cardinale decano Giovanni Re.

L’atmosfera di silenzio e raccoglimento di una piazza gremita da sacerdoti, cardinali, vescovi, capi di Stato, re, premier, delegazioni di altre religioni, oltre a decine di migliaia di fedeli attorno alla bara di cipresso, è però stata rotta da una serie di dichiarazioni che hanno fatto parlare e scrivere di un clima da resa dei conti.

Un clima alimentato dalle parole di Georg Gaenswein, ex prefetto della Casa Pontificia, fidatissimo segretario di Joseph Ratzinger, prima da pontefice in carica e poi per nove anni da papa emerito, dopo le clamorose dimissioni il 12 febbraio 2013.

In un’intervista rilasciata al settimanale cattolico tedesco Die Tagespost del 5 gennaio, don Georg alza il velo su quanto sia stata scomoda e sofferta la coabitazione tra Francesco e Benedetto: in pratica, due personalità distanti anni luce nell’interpretazione della pur comune dottrina cattolica.

Il dito è puntato sul Motu Proprio Traditionis Custodes (luglio 2021), con il quale papa Francesco ha messo un freno alla messa in latino, ammessa come rito “straordinario” da Benedetto XVI con il precedente Motu Proprio Summorum Pontificum (luglio 2007), a fianco del rito “ordinario”, definito da Paolo VI alla fine del concilio Vaticano II.

Una mossa, quella di Bergoglio, che avrebbe “spezzato il cuore a Benedetto”, secondo Gaenswein: “quello è stato un punto di svolta”, è stata l’accusa.

Frasi che non potevano passare sotto semaforo e infatti il 9 gennaio papa Francesco convoca padre Georg in udienza privata. La notizia è stata diffusa da un bollettino della sala stampa vaticana. Poco o nulla si sa del faccia a faccia, ma il fatto che lo stesso Bergoglio all’Angelus di domenica 8 gennaio abbia detto che “Dio è nel silenzio” e che martedì 10 gennaio la stampa abbia riportato la frase: “adesso devo stare zitto” di un “amareggiato” Gaenswein, qualcosa lascia intendere.

L’amarezza di monsignor Georg – come scrive Gian Guido Vecchi sul Corriere della Sera il 10 gennaio – fa riferimento alle interpretazioni “malevole” degli stralci “fuori contesto” del suo libro, diffuse proprio mentre in piazza San Pietro si svolgevano i funerali di Ratzinger.

Il volume scritto a quattro mani con il vaticanista Saverio Gaeta s’intitola Nient’altro che la verità (edizioni Piemme, gennaio 2023), ed è stato pubblicato a meno di una settimana dalla sepoltura di Benedetto XVI.

Ne scrive Jean-Marie Guénois su Le Figaro il 10 gennaio. Uno dei dolori di padre Georg, scrive, è stato quando papa Francesco gli avrebbe ritirato la responsabilità di Prefetto della Casa Pontificia dopo la controversa pubblicazione del libro del cardinal Robert Sarah con un saggio dell’emerito Ratzinger Dal profondo del nostro cuore, uscito in Francia per i tipi di Fayard nel gennaio 2020. Il caso scoppiò per l’uscita ad orologeria di un libro che prendeva posizione in senso conservatore sull’intoccabilità del celibato dei preti, mentre papa Bergoglio con l’esortazione apostolica Querida Amazonia si accingeva a trarre le conclusioni del Sinodo del 2020, che aveva chiesto un’apertura sul sacerdozio dei diaconi sposati in Amazzonia.

Non si è mai capito quanto quel saggio di Ratzinger fosse stato dato consensualmente al cardinale Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti, in pratica il ministro della Santa Sede per la liturgia.

Sulla questione ho scritto su Periscopio nel gennaio 2020 [Vedi qui]

Anche in questo caso, dunque, la liturgia è terreno di scontro ecclesiale.

Ma il libro e le frasi di Gaenswein non sono l’unico motivo delle acque agitate.

Un altro libro-intervista in uscita dell’ex custode della dottrina cattolica cardinale Gerhard Muller, scritto con la vaticanista Franca Giansoldati, già si annuncia come una prossima bomba. In buona fede è infatti il titolo di un testo che conterrebbe profonde critiche al pontificato di Bergoglio.

Del resto, chi ha letto il libro di Massimo Franco Il Monastero (2022) sa quanto Mater ecclesiae, ossia il luogo del ritiro di Ratzinger in Vaticano, sia stato meta di cardinali e teologi conservatori con la loro lista di doglianze sul pontificato di Francesco.

Va detto che Ratzinger, ad eccezione forse del caso sul libro del cardinale Sarah, “ha respinto ogni tentativo di usarlo contro Francesco”, come scrive anche Alberto Melloni (Ispi on line 31 dicembre 2022), per quanto – afferma Nina Fabrizio su QN (5 gennaio) – lo stesso Gaenswein avrebbe regolato l’agenda del papa emerito “agevolando” quella processione di malumori.

Indiscrezioni riportate dalla stampa (Open.online, 8 gennaio), poi, parlano addirittura di un “piano segreto articolato su più assi e fasi per costringere Francesco alle dimissioni”.

Fra i motivi di preoccupazione ci sarebbe la “deriva protestante” verso cui la linea del papa regnante starebbe conducendo la Chiesa.

D’altronde non è un mistero la posizione di ostilità al pontefice argentino dell’influente episcopato statunitense, come da tempo racconta bene Massimo Faggioli, anche su Il Regno del 15 dicembre scorso.

Come pare evidente, oltre i dissidi e rancori personali emersi in concomitanza con i funerali di Benedetto, si ha l’impressione che nella Chiesa si stia giocando una partita ben più ampia dagli esiti imprevedibili.

Cosa c’è dietro lo scontro tra il papa e i tradizionalisti?”, si chiede infatti Massimo Franco sul Corriere della Sera il 9 gennaio.

I rapporti con la Cina, con la Russia, con il mondo ortodosso e il tema della rinuncia al pontificato, sarebbero alcuni dei temi scottanti su cui il fronte tradizionalista starebbe affilando le lame dello scontro.

Mentre sulla rinuncia si registrano divergenze sia tra i sostenitori sia tra gli avversari di Jorge Maria Bergoglio se considerare quella di Ratzinger un caso isolato oppure no, sull’accordo della Santa Sede con Pechino nel 2018, il cui testo per volontà cinese rimane segreto, i fronti sarebbero più delineati. In particolare, le critiche sono dirette verso le cautele vaticane nel condannare la repressione contro le proteste di Hong Kong e il silenzio sulla persecuzione dei cinesi Uiguri di religione musulmana. Cautele giudicate un sottoprodotto dell’accordo del 2018.

“Per i tradizionalisti – scrive Franco – è la conferma che Francesco avrebbe sacrificato la chiesa cattolica clandestina sull’altare del dialogo con Xi Jinping”.

Della partita fa parte il cardinale emerito di Hong Kong, l’ultranovantenne Joseph Zen, prima arrestato poi liberato dalla polizia cinese su cauzione. Ricevuto da Francesco nei giorni scorsi, da sempre Zen è un critico irriducibile dell’intesa con Pechino.

L’invasione russa dell’Ucraina e la solidarietà cinese con Putin, hanno poi aperto il fronte critico anche fra Santa Sede e Mosca.

Qui la critica mossa al pontificato è di avere privilegiato da anni i rapporti con regimi autocratici, con risultati giudicati fin qui assai magri.

Sul fronte russo c’è chi registra che la mediazione vaticana è stata ignorata da Putin, con il riflesso che sono regredite anche le aperture con il mondo ortodosso, dopo l’abbraccio a Cuba nel 2016 con il patriarca Kirill, lo stesso poi definito da Francesco “chierichetto di Putin”. Qui l’accusa è di una linea giudicata non abbastanza netta con Mosca.

Come si vede lo scontro è aperto e la partita pare destinata a essere giocata in pieno nel prossimo conclave, per cercare una risposta a quella che Melloni chiama una fase di disordine sistemico nella chiesa cattolica, che nel 2013 con le clamorose dimissioni di Ratzinger, prima, e con l’elezione di Bergoglio, poi, ha visto solo l’inizio della tempesta.

Vite di carta /
I cappotti, il venditore Cagnèra e il professor Lamis

Vite di carta. I cappotti, il venditore Cagnèra e il professor Lamis

È un mercoledì gelido. L’aria è tersa ma di ghiaccio e le bancarelle del mercato hanno intorno persone a piccoli grappoli che si contraggono per il freddo e intanto commentano coi fiati opachi la temperatura così bassa.

Mentre passo e mi contraggo a mia volta tra un banco e l’altro, ecco che mi torna in mente la filastrocca che mia madre mi ha recitato ogni inverno nelle giornate più fredde. C’è un signore che dice a chi passa nella piazza: “Che frio che frio! Non dico per io, ma dico per tanti che son senza guanti…”. E a lui risponde un altro, che lo squadra da capo a piedi e sbotta: “Badate piuttosto a voi, che siete senza paltò!”

Ecco che si crea il cortocircuito tra la letteratura e la vita: la parola ‘cappotti’ ora mi avvolge la testa, è leggibile ovunque io mi giri. I venditori hanno esposto i capi più pesanti, si vedono giacconi tremolare ai piani alti delle bancarelle gestite da cinesi, altri cappotti imbottiti e bordati di finta pelliccia sono ammucchiati su tutti i banchi di ‘roba da vestire’.

Percepisco la normalità di una situazione come questa e mi sento rassicurata: c’è un bisogno che il freddo dell’inverno ci impone e noi comprando cappotti diamo la nostra sensata risposta.
Però non mi basta pensare così. C’è uno scarto, anzi ce ne sono due che mi vengono in mente a proposito di cappotti. Il primo si riferisce a qualcuno che i cappotti li ha venduti per mestiere, come questi ambulanti che ho all’intorno, ma con un tocco di originalità.

Vado con la mente ad un episodio accaduto negli anni Sessanta del secolo scorso e mi par di sentire le grida festose del nostro venditore provetto, soprannominato Cagnèra (traducibile con “colui che stordisce con fiumi di parole gli avventori e poi vende alla folla appena catechizzata per alzata di mano”), che da un paese vicino al mio è andato a vendere un intero camioncino di cappotti a Vidiciatico, sull’Appennino bolognese. Andato e tornato nella stessa giornata, più soddisfatto che mai. Dov’è lo straniamento? Nel fatto che è il giorno di Ferragosto, e i cappotti a Ferragosto uno li guarda come se fosse la prima volta che li vede. Garantito.

Il secondo punta verso l’alto, fino alle vette della scrittura letteraria. L’autore è Pirandello, la novella ha per titolo L’eresia catara ed è per me una delle più toccanti perché vi campeggia un giovane studente che in nome della pietà umana protegge il suo professore dal dileggio di altri studenti arrivati in massa alla lezione. Mi fa pensare al valore e alla sensibilità di tanti giovani, e molti ne ho conosciuti e ne conosco, insegnando. Mi fa sentire, d’altra parte, il rischio del ridicolo che corriamo non appena ci esponiamo con le nostre passioni alla insensibilità altrui e ai paradossi della vita.

Il professor Bernardino Lamis vive solo per le sue lezioni di storia delle religioni alla Università di Roma. Non ha famiglia, non ha più una casa perché ha ceduto la sua alla petulante famiglia di un fratello morto. Non ha un letto in cui distendersi, non fa pasti regolari, accontentandosi di un po’ di dolciumi comprati lungo il tragitto dall’Università alle due stanzette che ha preso in affitto.

Ciò che gli preme, esclusivamente, è che siano apprezzati dalla critica italiana i suoi due volumi sulla eresia catara. Sull’argomento ritiene di essere il maggior conoscitore a livello europeo. Perciò è “rimasto ferito proprio nel cuore” dal recente saggio di un critico tedesco in cui non è tenuta in alcun conto la sua opera. L’opera della sua vita.

La lezione che ha preparato con cura per gli unici due studenti del suo corso dura da circa tre quarti d’ora, è davvero un capolavoro di retorica e di abilità argomentativa. Bernardino Lamis vi ha sintetizzato tutte le proprie ragioni, l’intero suo sapere sull’eresia catara.

Se ne rende conto l’unico dei due studenti che oggi è venuto a lezione nonostante l’uragano che si è scatenato sull’Urbe. Varca la soglia dell’aula e nella penombra si guarda in giro a fatica. Intravvede numerosi studenti intenti ad ascoltare il professor Lamis, che solo oggi è salito in cattedra, forse per dare imponenza a quel suo fisico gracile dalle spalle ricurve per il troppo studio.

Ecco lo straniamento: paiono studenti seduti sui banchi ad ascoltare in assoluto silenzio, in realtà sono i cappotti (per essere precisi i “soprabiti impermeabili”) lasciati “qua e là a sgocciolare nella buja aula deserta” dagli studenti di legge dell’aula vicina. La novella finisce con questi giovani che, tornati a prendere i loro cappotti, dapprima ridono della scena che si presenta ai loro occhi, poi vengono trattenuti sulla soglia dal Ciotta, l’affezionato studente del professor Lamis. Allora in silenzio si affacciano per godersi “lo spettacolo di quei loro poveri soprabiti che ascoltavano immobili, sgocciolanti neri nell’ombra, la formidabile lezione del professor Bernardino Lamis”.

Molte considerazioni mi si affollano nella mente, soprattutto tecnicismi letterari. Assaporo l’esempio lampante di umorismo che Pirandello ha voluto darci con questa novella, dove il pianto tiene dietro al riso suscitato dalla lezione ai cappotti del professore. Assegno ai paltò gocciolanti il ruolo di una straordinaria metonimia, dove i contenitori suppliscono chi di solito li indossa facendosi il loro contenuto. Rivedo i lineamenti vagamente grotteschi del professore, vero campione dell’espressionismo del suo autore.

Finisco però per ripetere tra me e me la filastrocca. “Che frio che frio! Non dico per io, ma dico per tanti che son senza guanti”. E intanto penso che il passante indicato di sopra a me non potrebbe muoverla la sua obiezione, con tutti i cappotti che ho!

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

In Italia e nel mondo cresce la povertà e il lavoro povero: combattere la diseguaglianza abbandonando le politiche neoliberiste

di Simona Ciaramitano ( da Collettiva del 17.01.2023)

La forbice si allarga

In occasione del World Economic Forum di Davos, Oxfam ha quindi presentato i dati di autorevoli fonti internazionali corredati dal frutto della sua presenza in 87 Paesi. Dati dai quali emerge che negli ultimi dieci anni i miliardari hanno raddoppiato le loro ricchezze, complici anche la pandemia da Covid e lo scoppio della guerra in Ucraina.  Tra dicembre 2019 e novembre 2021, l’incremento della ricchezza è andato all’1% più ricco ed è stata quasi doppia rispetto a quella andata al restante 99%. Per dirla in soldoni, dal 2020 la ricchezza dei miliardari è cresciuta al ritmo di 2,7 miliardi di dollari al giorno. Un esempio: lo scorso anno 95 big di cibo ed energia hanno raddoppiato i profitti, ma l’84% è andato agli azionisti.

I numeri in esame non risparmiano nessun Paese, ma a farne le spese maggiori sono gli abitanti delle aree già storicamente più povere e disagiate. A livello globale tra 702 e 828 milioni di persone hanno sofferto la fame nel 2021, quasi una persona su 10. L’inflazione crescente ha superato l’aumento dei salari e la situazione peggiorerà anche a causa della diminuzione della spesa pubblica da parte dei tre quarti dei governi mondiali.  Ancora una volta la peggio l’hanno le donne, sulle quali grava inoltre un sovrappiù d’insicurezza alimentare, con un conseguente aumento del divario di genere.

Allora è il momento di intervenire fiscalmente in modo serio, anche con una patrimoniale: “Un sistema fiscale più equo, a partire da un maggiore prelievo sugli individui più facoltosi – aggiunge Bucher -, è uno degli strumenti di contrasto alle disuguaglianze. Un’imposta del 5% sui grandi patrimoni potrebbe generare per i Paesi riscossori risorse da riallocare per obiettivi di lotta alla povertà a livello globale affrancando dalla povertà fino a due miliardi di persone”.

Il boom italiano delle disuguaglianze

E veniamo all’Italia. Dopo la pandemia quasi due milioni di famiglie vivono in povertà assoluta; il 5% della popolazione più ricco detiene una ricchezza superiore a quella dell’intero 80% di più poveri. I salari sono crollati per oltre sei milioni di dipendenti privati, senza che gli adeguamenti coprano l’inflazione. Anche in questo caso Oxfam interviene sull’insufficienza dei provvedimenti, affermando che “Se il dilagare del lavoro povero rappresenta una caratteristica strutturale del mercato italiano, destano preoccupazione le iniziative già messe in campo e le intenzioni del nuovo Governo – sono parole di Mikhail Maslennikov, policy advisor su giustizia economica di Oxfam Italia -. Piuttosto che disincentivare il ricorso a forme di lavoro atipico che intrappolano nella precarietà milioni di lavoratori, il governo allarga le maglie per il lavoro discontinuo e invoca ulteriori interventi di flessibilizzazione. La previsione di un salario minimo non è all’ordine del giorno e gli incentivi all’occupazione – all’insegna del ‘più assumi, meno paghi’ – non sono valutati sotto la lente della qualità e sostenibilità dell’occupazione promossa, lasciando il ruolo per lo sviluppo di una buona occupazione alle convenienze economiche e fiscali delle imprese”.

Quello che serve è un’agenda politica per l’equità, dice Maslennikov: contrasto al caro-vita e alla povertà; mantenimento del reddito di cittadinanza, ma rendendolo più efficiente; promozione di accordi tra le parti sociali per ridefinire una più efficace indicizzazione dei salari ai prezzi; maggiori risorse contro il caro-energia. Altre richieste sono le stesse formulate a livello globale, come il potenziamento della tassa sugli extraprofitti nel comparto energetico fossile e poi farmaceutico e assicurativo, l’aumento della contribuzione a carico dei più ricchi e lo spostamento della tassazione dal lavoro a rendite, profitti e interessi. In buona sintesi si chiede di abbandonare le politiche di “questa nuova stagione politica, che si sta contraddistinguendo più per il riconoscimento e la premialità di contesti e individui che sono già avvantaggiati che per la tutela dei soggetti più deboli”.

N.B. Rispetto alla versione originale, la redazione di Periscopio ha optato per un titolo e una cover diversi.

Diario in pubblico /
Il tanfo (che non è il tango)

 Avrei potuto usare il più usuale sinonimo: la puzza. Ma, consapevole della nostra dizione ferrarese, non avrei voluto che si pronunciasse ‘pussa’; perciò, ecco la scelta più colta: ‘tanfo’, applicabile alla sfera culturale, morale, politica e ovviamente scritturale. Ma cominciamo da quello che più mi ha ‘stupito’ per usare una metafora riduttiva, ovvero la dichiarazione dell’on. Sangiuliano, ministro della cultura. Le informazioni sul ministro recitano:

«Gennaro Sangiuliano è un giornalista, saggista e politico italiano, dal 22 ottobre 2022 ministro della cultura nel governo Meloni. È stato direttore del quotidiano Roma di Napoli dal 1996 al 2001 e del TG2 dal 2018 al 2022 e vicedirettore del quotidiano Libero e del TG1 dal 2009 al 2018.
Nascita: 6 giugno 1962 (età 60 anni), Napoli
Istruzione: Università degli Studi di Napoli Federico II
Carica: Ministro della Cultura dal 2022
Capo del governo: Giorgia Meloni
Inizio mandato22 ottobre 2022».

Quindi non un incompetente, né tantomeno un ignaro della cultura. Eppure, leggere la sua dichiarazione al convegno FdI intervistato dal giornalista Pietro Senaldi lascia veramente di sasso, specie per chi, come lo scrivente, ha una certa cultura su Dante, avendolo insegnato per 15 anni all’Università di Firenze, che ha fatto parte della Società dantesca italiana e via ‘col tango’. Ma ecco la dichiarazione:

Il fondatore del pensiero di destra in Italia è stato Dante Alighieri: la destra ha cultura, deve solo affermarla… Quella visione dell’umano della persona la troviamo in Dante – ha aggiunto Sangiuliano – ma anche la sua costruzione politica credo siano profondamente di destra. Ma io ritengo che non dobbiamo sostituire l’egemonia culturale della sinistra, quella gramsciana, a un’altra egemonia, quella della destra. Dobbiamo liberare la cultura che è tale solo se è libera, se è dialettica”.

Questo proclama il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano nel corso della kermesse milanese di FdI, Pronti, candidati al via.

A questa ‘esplosiva’ dichiarazione rispondono molto perplessi alcuni importanti dantisti.

Franco Cardini sul QN Il resto del Carlino del 15 gennaio. A domanda precisa così risponde:

«… il suo discorso su Dante resta singolarmente astratto e contraddittorio. Il pensiero politico dantesco, in termini trattatistici, è valutabile principalmente attraverso un trattato latino, il De Monarchia, e uno – programmaticamente divulgativo, e per giunta in lingua volgare, il Convivio». Per concludere che se il pensiero di Dante potesse essere assimilato alla destra «di una ‘destra’ ben altra da quella verso la quale la Weltanschauung dei Fratelli d’Italia sembra fino ad oggi tendere».

Altro punto di tanfo è che la seconda carica dello Stato, Gnazio Larussa sia andato a una riunione di partito ignorando i suoi obblighi istituzionali, come se, è stato detto, Mattarella si fosse recato a un congresso Pd.

Altrettanto pungente il commento del filosofo Cacciari che, come è suo uso, oracolarmente esprime il suo giudizio sulla Repubblica del 15 gennaio 2023.  Nell’intervista rilasciata a Raffaella De Santis, alla risata del filosofo e all’interrogazione della giornalista risponde: «Non si può che ridere di fronte a esternazioni del genere, che tra l’altro ricorrono a categorie novecentesche, come destra e sinistra, che non mi sembrano molto aggiornate».

Cacciari rileva che l’idea di appropriarsi dei ‘fondatori della patria’ è propria alla destra storica, come ad esempio il fascismo in Italia o in Germania il nazismo, ma supponeva che questa impostazione fosse stata superata. Perché “retorica nazionalista”.

E al punto cruciale che è il giudizio di Sangiuliano così correttamente risponde: «Dante è un rivoluzionario, un eretico, un uomo contro tutti. Dante è esule nei confronti di qualsiasi casa politica consolidata del suo tempo, a cominciare dalla teologia politica ufficiale».

Riaffermando la solitudine politica di Dante, Cacciari propone un’idea di Dante che verificherò a breve nella più importante pubblicazione dell’anno dantesco vale a dire l’Inferno edito dalla casa editrice Salerno con il commento di Enrico Malato e di cui darò conto in una prossima recensione. Così il collega Giulio Ferroni dell’Università La Sapienza di Roma e dantista da lunghi anni scrive:

«Quella del ministro è un’affermazione priva di senso, che rivela una incredibile mancanza di senso storico e della letteratura. L’uso politico della cultura è diffuso a destra come a sinistra, ma questa mi pare proprio esagerata».

Il professore ricorda un episodio: «Nel 1921, per i 600 anni della morte di Dante, gli squadristi di Balbo andarono a Ravenna, pregarono sulla tomba di Dante. Poi cominciarono a picchiare i nemici, a chiudere le sedi dei sindacati. Ecco, forse il culto del Dante di destra nasce dall’uso che se ne è fatto, più che dalla sua vita».

Non è il caso qui di riportare il giudizio dei politici di parte, a cui è o sarebbe troppo facile rispondere con altrettanti e rovesciati commenti.

Lascio al “dibbattito” in corso questo aspetto.

A questo punto spero che il simbolico tanfo si sia diradato ed almeno produca una respirabile ‘aura’ dantesca. Lasciamo allora il tanfo di una sana traspirazione, o come mi viene suggerito “uno sgradevole olezzo” di corpi giovani, impegnati in competitive partite agli spogliatoi degli stadi o di qualsiasi altro luogo in cui la fisicità si esprime con sforzo e competenza.

E al limite, se i nostri calzini emanano odore sgradevole non si perda il tempo. Li si lavi immediatamente. E a chi impregna l’aria di ‘puzzette’ rimando alla visione di un meraviglioso film Qua la zampa dove sono i nostri pelosi a giudicare i nostri odori. Ma questo sarà un altro discorso.

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In copertina: il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano (foto Agenzia Dire)

Dante Alighieri era di destra?

Il ministro Sangiuliano ha detto che Dante era di destra. Un’affermazione azzardata in quanto nel Trecento più che destra-sinistra c’erano guelfi (lui era dei bianchi) e ghibellini. Sarebbe come dire che i domenicani erano di destra e i francescani di sinistra (che se le davano di santa ragione non solo sul piano teorico). Un politico esiliato da Firenze in tempi in cui gli avversari erano sempre nemici.

Lo studioso marxista Edoardo Sanguineti scrisse che Dante era un po’ reazionario, forse perché credeva nella Chiesa cattolica, nella spiritualità e negli ultimi decenni il “cristianesimo” è stato più difeso dalla destra che dalla sinistra.

Se a questo pensa il neo ministro Sangiuliano non ha tutti torti, anche se il comunista Tullio De Mauro, ministro dell’Istruzione (linguista e amico di Asor Rosa con cui diresse il Dipartimento di filologia e linguistica a La Sapienza di Roma) disse nel 2001 che il vangelo doveva essere materia di studio in lettere e non nell’ora di religione, in quanto il cristianesimo è un elemento fondante e identitario della nostra cultura europea.

Per questo si fatica a classificare Dante “di destra”, il quale fu anche un feroce critico verso quel capitalismo nascente, fatto di banchieri e mercanti. In tal senso fu “visionario” di quello che sarebbe accaduto in particolare dopo il 1492 e il 1999 e difensore della “bona vita” e di valori cristiani e spirituali (oggi poco di moda) e criticò il “progresso”.

Oggi sarebbe in buona compagnia perché molti autori (tra cui Panikkar) considerano il “progresso” un mito del novecento che oggi mostra tutti i suoi limiti nella distruzione della Natura, cioè il ramo su cui siamo seduti. La favola del “progresso” si è trasformata in quella della crescita infinita, che, in realtà, l’unica cosa che sa far crescere è il denaro. Tutto il resto cala: dalle relazioni umane, alla qualità della vita, all’armonia che avevamo nella comunità e con la natura e le altre specie sulla Terra.

Dante (come altri mistici) lo intuì (allora c’era ancora l’intuizione come senso che la tecnologia ha distrutto) e ci avvertì che saremmo entrati nella “selva oscura 2.0”, e quindi non è un caso che nell’Inferno non ci fosse la Natura. Non penso che la sua profonda spiritualità avrebbe apprezzato un cambiamento con modalità violente, piuttosto si sarebbe ispirato alla non violenza di Gandhi o Capitini, ma certo era un radicale come Gesù, che rovesciò i banchi dei mercanti nel tempio.

Dante e Francesco d’Assisi hanno evidenziato come assolutizzare il denaro e la “mercatanzia” porta l’umanità all’Inferno. Cristo, buttando fuori i mercanti dal tempio (uno dei rarissimi esempi di un Cristo non “pacifico”), critica in modo durissimo non solo i Farisei, i Sadducei e il Sinedrio, ma anche la logica di potenza degli imperi (allora Roma). Dante pagherà con l’esilio (anche se ora è da tutti acclamato), una pietra scartata, come lo furono Gesù Cristo, Francesco d’Assisi, Pasolini, Raimon Panikkar, per citarne alcuni.

Un messaggio di Dante era quello di tornare a riunificare spiritualità e politica, sapendo che spesso il politico viene mangiato e sussunto dall’economico. Dante non era un nostalgico della società feudale e la sua speranza era in una futura Europa Unita sotto il segno della spiritualità (papato) e della politica. L’idea era la felicità terrena unita alla felicità extraterrena, mentre oggi è l’economia che tutto guida in un tragico monismo.

Dante seguiva il pensiero di Aristotele, per il quale l’economia era la buona “amministrazione della casa” (oikos), mentre la “produzione di maggior ricchezza” era la crematistica, che, se si pratica sotto il governo dell’economia è buona ma, quando si rende autonoma e fa della ricchezza il proprio fine (come oggi), degenera. Per Dante la ricchezza è un mezzo, non il fine della vita umana, che diventa “contro natura” perché distrugge l’armonia tra uomo e ambiente.

Max Fischer (editorialista del New York Times) ha scritto che “il capitalismo sta mangiando gradualmente tutto”. Si pensi alle nostre scuola e sanità diventate gradualmente aziende, dove le parole prevalenti sono: investimenti, spese, debiti, crediti (ora sicurezza) che non hanno nulla a che fare con l’educazione. Per gli scienziati del “panel clima” l’attuale sistema è insostenibile, anche nelle versioni edulcorate di “green” o “verde” o “compatibile” (come si dice in questi giorni a Davos).

Dante capì che la sua epoca (XIII e XIV secolo) vedrà iniziare il capitalismo nella forma della finanza e della cupiditas, la lupa che sbrana e che immiserisce. Dante non vede ancora la catastrofe climatica ma intuisce qualcosa perché nell’Inferno non c’è nulla di Natura.

Nel 1492 ci sarà un ulteriore accelerazione con la “scoperta” dell’America, che in realtà si dovrebbe chiamare la conquista dell’America e che porterà a 300 milioni di uccisioni e ad uno spostamento di materie prime e ricchezza immenso verso l’Europa. Già in quei secoli avvenne un cambio climatico pazzesco.

I giovani sono nativi digitali, ma noi tutti siamo nativi capitalisti e non ci rendiamo più conto di una narrazione dominante che abbiano interiorizzato, come le “magnifiche sorti e progressive” che sono anche il colonialismo post 1492 o il razionalismo di Cartesio (cogito ergo sum), in cui tutto è calcolo e quantità, un uomo oggi ossessionato dalla sicurezza, mentre la verità è semmai “sono, quindi penso” o, come avrebbe detto Dante “amo e quindi sono”.

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Parole e figure /
Un giorno in ascensore

Non amo molto gli ascensori, soffro di claustrofobia e poi sono un po’ il simbolo della vita, chi sale e chi scende. E a me scendere non piace molto…

Ma alcuni sono bellissimi, sanno di antico, come quelli Liberty intarsiati e ricamati di certi palazzi dell’elegante centro di Roma o di Vienna. Un gusto retro che porta indietro nel tempo e lascia immaginare raffinate e profumate signore degli anni Venti o Trenta, dall’odore di talco, in attesa di salire a un piano del palazzo per consumare un tè in compagnia di altrettante profumate amiche. Dolcetti e chiacchiere ad attendere.

Gli ascensori, in fondo, accolgono tutti e portano dove si vuole. Basta sapere dove. Basta chiamarli e arrivano, ti conducono proprio là. Fosse così per tante altre cose nella vita!

Il libro di oggi, Un giorno, un ascensore, di Cristina Petit e Chiara Ficarelli (Pulce edizioni) mi continua a far ronzare questa curiosa idea in testa.

Forse, non sono poi così male. Sono molto democratici. E disponibili, oltre che stakanovisti. E poi ci permettono di sbirciare un po’ nelle vite degli altri… Curiosando.

Accarezzo allora delicati disegni che portano idee altrettanto delicate, umanità che si sfiorano e s’incontrano, ogni giorno. Con attenzione, cura, rispetto, dedizione e pazienza.

Una giornata normale, in un condominio qualunque, di una città qualunque, e un ascensore che scende e sale, che sale e risale, e poi scende e riscende. Lavora molto, senza sosta, senza troppe pause o momenti di relax. Forse la notte c’è più calma.

Ognuno ha un motivo preciso per prenderlo, chi è allegro, chi più serio, chi va di fretta, chi meno, mentre la portinaia sorridente osserva, all’ombra della sua visiera bluette. Qualcuno si guarda allo specchio e si sistema il cappello, la sciarpa, gli occhiali o il trucco.

Primo viaggio. Inizia il postino, sono le 10.22, sale con 35 lettere dal mondo, 5 telegrammi dal mare e sette pacchi misteriosi. Chissà se porta sorprese, se reca belle o brutte notizie. Il telegramma magari annuncia una nascita o un matrimonio, i pacchetti potrebbero essere doni inaspettati, libri o giocattoli. Chissà, la curiosità è tanta. I viaggi continuano.

Scendono una simpatica zia che fa la maglia, fin dall’ottavo piano, una mamma tuttofare dalla comoda salopette e una mamma pilota. Tutte in quell’ascensore che sa un po’ di magico. Ci si scambia qualche parola. Alle 13.03 scendono i gemelli ribelli che si tirano i capelli, rumorosi, indisciplinati ma che prima o poi faranno pace.

Ci sono poi i due fratelli, noti artisti del quartiere, barba e occhiali rossi, a salire con pane, cioccolata e cibi vari, i sacchetti pieni di cose buone, chissà per chi.

Alle 16.33 compaiono altri bambini che si cercano, vocianti, i giocattoli in mano, amichetti di lunga data, nonostante la giovane età, si conoscono da sempre.

Ci sono poi allegre babysitter, vecchietti che portano a spasso il cane al vicino parco o giardino ingialliti dall’autunno, nonne con i capelli felici e tante caramelle blu che cercano i nipotini, signori con segreti nelle valigette, violinisti e cantanti, fattorini. Tutti salgono e scendono. Che viavai… quanta gente operosa e indaffarata. Quanta vita.

Ecco allora che alle 19.44 il simpatico vecchietto con il cane trova, sulla porta, un messaggio che dice: “ti aspettiamo di sopra, vieni, presto!”. Sorpresa da scoprire. In un giorno qualunque di un condominio qualunque. Perché la giornata finisca bene, tutto è bene ciò che finisce bene.

Un giorno, un ascensore, di Cristina Petit, Chiara Ficarelli, Pulce, 2020

Foto in copertina e  foto ascensore rosso dalla pagina Facebook di Paola Marella

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

Ho visto Rosy Bindi su Rai 3. Con rimpianto:
forse solo lei poteva salvare il Pd dalla nuvola del nulla.

Ieri pomeriggio su Rai 3 c’era Lucia Annunziata. Mezz’ora in più: mezzora d’aria, breve pausa di riflessione nel rissoso nulla politico televisivo. Perché Lucia – scuola Manifesto, poi corrispondente e columnist nei grandi giornali, persino una parentesi da presidente della Rai per 15 mesi – è di gran lunga la giornalista televisiva in circolazione più brava, intelligente, preparata. Rispettosa delle posizioni dei suoi ospiti, senza rinunciare al duro contraddittorio e al registro ironico.

Dunque la puntata di Lucia Annunziata; che consiglio a tutti, anche ai tanti che la televisione l’hanno eliminata portandola all’isola ecologica, ma che possono seguirla su raiplay: Mezz’ora in più – puntata del 15/01/2023
Questa volta Lucia Annunziata, dopo un benzinaio e dopo Gianfranco Fini, si dedica al Pd e alla sua crisi d’identità. E per farlo sceglie una domanda impegnativa per i suoi ospiti, non un commento o una previsione sulle prossime (abbastanza scontate) primarie di un ex grande partito da tempo in caduta libera, ma un quesito più radicale. La domanda di Lucia suona  più o meno così: “Cos’è che non va oggi nel partito, cosa gli manca, quando e perché ha smarrito la diritta via?”  

A rispondere, 3 pezzi importanti della storia del partito. Mario Tronti (91 anni), esponente dell’area operaista, da sempre in polemica con l’altro operaista illustre, Alberto Asor Rosa, morto la settimana scorsa. Claudio Petruccioli (81 anni) erede dell’ala migliorista di Giorgio Amendola e Giorgio Napolitano, giornalista, superdeputato e dirigente del Partito Comunista (e seguenti sigle) dagli anni ’70 in poi. E infine Rosy Bindi (71 anni), ex democristiana con in mente Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira e Tina Anselmi, poi tra i fondatori dell’Ulivo di Romano Prodi e del novello Partito Democratico lanciato in pompa magna da Walter Veltroni nel 2007.

Poco mi aspettavo, e niente di nuovo e interessante è arrivato dai primi due ospiti. Sia Tronti, perso nella confusione senile, sia Petruccioli, baldanzoso e sempre un po’ arrogante, hanno raccontato qualche pezzo di storia del partito (la loro storia soprattutto) ed evitato di rispondere alla domanda di fondo. Entrambi esponenti della destra del partito (anche se la tradizionale destra migliorista e stata diversa della destra falsa-sinistra operaista), non erano neppure in grado di cogliere una domanda che invitava a scavare in profondità, nel rapporto tra partito e società, passione e programmi.  Potevano parlare solo di nomi, organigrammi, alleanze, strategie e tattiche parlamentari… Così è stato.

Rosy invece delle cose da dire ne ha eccome. E sono cose scomode. Sembra così tranquilla e rilassata, ripresa nel salottino di casa sua con un vaso di fiori alle spalle, ma appena Lucia Annunziata le cede la parola, torna in campo la leader appassionata e coraggiosa di sempre; e  questa volta la sua analisi degli errori e dei tradimenti del Pd è implacabile, quasi crudele. Il suo partito l’ha già messa in pensione, ma è da lei – purtroppo solo da lei, non vedo nessun altro – che dall’interno del partito viene una critica capace di interpretare il sentimento diffuso, lo sconcerto di milioni di ex elettori.

Rosy Bindi parla a ruota libera. Della incapacità del Pd di rappresentare il nuovo. Della tiepidezza del partito a dare battaglia sui diritti. Della sua lontananza dai nuovi bisogni e nuovi movimenti, in particolare da quel grande moto di coscienza che si esprime nel movimento per la pace (c’era anche lei il 5 novembre a Roma, confusa in mezzo ad altri 140.000, e subito riconosciuta, accolta, applaudita da tutto il corteo). E ricorda l’impegno quotidiano di migliaia di volontari – tantissimi i cattolici democratici – contro i respingimenti, per l’accoglienza e i diritti di cittadinanza. Di come il partito anche sull’immigrazione abbia traccheggiato, senza il coraggio di scegliere la parte dei deboli. Di come anche la lotta alla povertà e contro l’ineguaglianza sia stata messa in sordina, derubricata dalla lista degli obbiettivi.

E il partito? Dice Rosy Bindi: “Quello che impressiona in questa fase” congressuale “è che si discuta di regole e di voto online ma non si ha il coraggio di dire ai candidati se questo Pd hanno intenzione di riformarlo o rifondarlo […]  E se lo rifondano che partito vogliono fare? Da che parte vogliono stare? In nome dell’unità, che è un valore sacrosanto, si rischia ancora una volta di non fare alcuna scelta”.
Quale scelta? la scelta di stare a sinistra, di “fare la sinistra”. Di raccogliere ed interpretare quella diffusa domanda di cambiamento, di giustizia, di sinistra che cresce nel paese e che invece il Partito Democratico nemmeno riesce a vedere. Con grave danno per tutti perché, conclude Rosy Bindi: “Io so che senza il Pd non si fa la sinistra in Italia”. 

Non ho mai votato Pd, ma so, proprio come Rosy, che in Italia la sinistra non può vincere senza, o addirittura contro il Partito Democratico (per questo mi viene l’orticaria quando alcuni amici e le micro-formazioni politiche ‘più a sinistra della sinistra’, invece di combattere la destra, individuano nel Pd il nemico da battere).
Per ora il Pd, la sua classe dirigente, non sembra aver nessuna intenzione di cambiare. Oppure la cosa è ancora più deprimente: interpreta e riduce ‘il cambiamento’ nella scelta di un ennesimo nuovo segretario. Sarebbero o Stefano Bonaccini o Elly Schlein, oggi contendenti ma finora presidente e vicepresidente di un’Emilia Romagna governata in unità d’intenti e perfetto accordo.  Ma allora a cosa servono le primarie, per scegliere cosa?
Così Rosy Bindi, la piccola donna che non rinuncia alle sue idee e non fa sconti a nessuno, ha dichiarato che questa volta non metterà il suo voto nell’urna delle primarie.

Se posso aggiungere una cosa, a me le primarie, così veltroniane e così americane, non sono mai piaciute. Le ho sempre disertate, tranne una volta, parecchi anni fa. E quella volta, pur senza speranza, ho votato Rosy Bindi.

Gli spari sopra /
Teniamoci per mano in questi giorni tristi

Ma poi, siamo davvero così sicuri che questo nostro testardo bisogno di sogno (che rima di merda!), non sia proprio la realtà? Che questa necessità di immaginarci l’utopia, vestita coi panni degli eroi perdenti che ci hanno accompagnato per mano durante tutta la vita, non sia realmente la vita? Ecco, non sono sicuro nemmeno io di avere capito cosa voglio dire, ma nella mia testa queste parole hanno un nesso, hanno un senso. Parlo di noi perché ci sarà pure, da qualche parte, qualcuno che ha le mie stesse turbe, magari in qualche centro di igiene mentale non ancora basaglizzato, accucciato in una cella dove la Legge 180 non è ancora arrivata.

Sì, perché credo che questo bisogno di immaginario, non tanto di eroi comunemente detti, quanto di sconfitti che ci rappresentino, abbia un suo filo rosso che ci unisce.

Penso che alcuni personaggi della fantasia di illuminati scrittori di ogni tempo e persone vissute realmente possano tranquillamente scambiarsi i ruoli. Don Quijotte De La Mancha, Ernesto Guevara de La Serna, Don Diego De La Vega, Salvador Guillermo Allende Gossens forse sono la stessa persona, oppure sono parenti tra loro. Magari la fantasia e la realtà si sono scambiate i ruoli.

Io non ho bisogno di eroi senza macchia e senza paura, ho bisogno di sconfitti che mi prendano per mano in questi giorni tristi (cit.). I giorni tristi non sono riferiti ad un evento in particolare, ma sono collegati alla strada che ha imboccato il mondo. La vittoria a mani basse del capitale mi riporta alla mente i mille perdenti che hanno significato tanto per me bambino, adolescente, adulto e (quasi) vecchio. Capitan Harlock, Michele Strogoff, Sandokan, Lucio Magri, Pino Pinelli, Tiziano Manfrin, si assomigliano tra loro. Molti di questi non-eroi hanno i capelli lunghi, ciuffi scompigliati da attori anni ’50, sigari o sigarette in bocca sfrontate, desiderio di ottenere l’impossibile.

Come è possibile sentirsi fuori tempo in ogni epoca e ad ogni età? Come si può essere fuori tema dalle elementari? E’ una domanda che mi pongo spesso. La mia autostima ha il bisogno, la necessità, l’obbligo di vivere tra le nuvole, adolescente datato che immagina l’anarchia come un mondo di regole autoimposte, al contrario di chi pensa che essere anarchico sia rincorrersi a braghe calate facendo il bombarolo.

Vi rappresento questo mio disagio, liberando qualche internato dal tugurio ammuffito della propria prigione, vera o presunta. Un mondo di salnitro, dove i muri impregnati di un liquido percolante  prendano nuovamente una luce.

Vorrei strappare le pagine dei libri per fare rivivere i personaggi intrappolati nella carta.

Vorrei fermare il tempo, correre all’indietro e liberare i sogni incastrati sui fondi delle clessidre.

Credo che il bisogno di vivere tramite le parole scritte o lette sia una vera e propria patologia, che ti comprime lo stomaco, ti costringe a picchiettare su una tastiera come un pianista pazzo che suona senza spartito.

Oltre il mezzo secolo, abbandonata la speranza che un allenatore rimanga colpito dalle mie doti pedatorie, accantonato il sogno della cattura di un luccio di dieci chili, alla continua ricerca di un imprenditore illuminato che veda in me competenze che nemmeno io vedo, ricercando un editore folle che capisca quanto siano necessarie le mie parole alla causa degli ultimi, mi restano i pensieri infantili a cui aggrapparmi.

Nella consapevolezza che i sogni rimangono la componente più vera di ogni realtà.

Nella photo cover, una formazione della Spal 1976/77

Il bosco del Corniolino è salvo! E la storia continua.
“Su Heidi, le storie d’amore, i sogni e altre cose”

Lo si era chiamato sogno appena pochi mesi fa [leggi qui l’inizio della storia] , quello di rendere area tutelata un bosco privato in vendita (un lembo di 12 ettari adagiato sul limitare dei confini del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi) e destinato a taglio commerciale.
Un sogno (un bosco protetto dall’azione dell’uomo) che ha immediatamente scavalcato i labirinti della mente razionale, tramite la quale si sarebbe data senza fatica una potatina agli entusiasmi e agli idealismi. Ma la potenza del sogno sta anche in questo, nel lasciapassare intrinseco che permette di vedere le cose istantaneamente come vorresti che fossero.
E così fu. La moderna Heidi di cui abbiamo già detto, vide e insieme seppe. Tutto quel che venne dopo è presto detto.

Quel sogno apparve subito non essere una semplice fantasticheria perché era vivo e, questo lo abbiamo compreso meglio dopo, celava tra le proprie maglie una solida intenzione. L’idea fu dunque condivisa in punta di piedi, come si fa quando si vuole tastare il terreno prima di compiere un passo importante, avanzando qualche domanda esplorativa tra i propri contatti e mettendo avanti le prime ipotesi. In poche ore e in un fine settimana che si rivelò più impegnativo del previsto, l’annuncio ebbe decine di condivisioni e un numero impressionante di contatti diretti e richieste di adesione.

I segni propizi c’erano già tutti: Anna-Heidi, che invece di parlare alle caprette stava già sussurrando agli alberi del bosco di Corniolino il futuro che aveva intravisto, si mise all’opera.
Fatica sì, ma i tasselli del domino andavano tutto sommato insieme con una certa inaspettata facilità. La Provvidenza ci stava mettendo del suo per sostenere un progetto che, in un’epoca ripiegata sui consumi e sul possesso, apariva a dir poco “rivoluzionario”: comprare per non-usare, in un’azione costruita dal basso, senza istituzioni, fuori dalla politica e a memento degli obiettivi di tutela dell’ambiente strombazzati ormai anche nel più modesto dei piani strategici.

Il sogno del “Salviamo il bosco!”, con la sua schiera di sostenitori uniti, si mise in cammino. Come in ogni viaggio avventuroso, i compagni non sono sempre e solo quelli che trovi alla partenza o quelli che hai scelto o immaginato: i buoni sogni, normalmente, hanno in serbo trame più complesse e propizie.
Fu così che quel sogno in men che non si dica incontrò altri sognatori di altri sogni e, insieme, altri visionari. Due su parecchi, che spostarono di molto, in senso positivo, la barra della fattibilità: l’Associazione Fondo Biodiversità e Foreste che per statuto acquista boschi allo scopo di conservarli, lasciandoli alle dinamiche naturali e proteggendoli dall’azione dell’uomo, che in questo scenario sarebbe stata la depositaria dei fondi raccolti e dunque l’acquirente formale; e un variegato gruppo di amici di Agostino, un giovane Carabiniere Forestale mancato prematuramente all’affetto dei suoi cari, in cerca di un modo in linea con lo spirito di Agostino per onorarne la memoria e  suggellarne il ricordo. All’appello rispondono anche i camminanti di Trekking Italia E.R. che decide di versare al fondo 1 euro per ognuno dei suoi 1800 soci.

Il bosco del Corniolino e il suo progetto di tutela mettevano insieme tutti questi intenti in modo talmente sinergico che l’obiettivo dei 15.500 euro fissato per l’acquisto dei 12 ettari fu, non solo raggiunto in poche settimane, ma più che raddoppiato, arrivando con circa 200 donatori a ben 38.000 euro di fondi raccolti, consentendo di andare all’acquisto di un’area continua complessiva di 24 ettari.

Tutto è bene quel che inizia e si conclude bene. Ma che cosa abbiamo imparato?
A credere nei sogni, ma a distinguerli dalle fantasticherie. A credere nel cambiamento, anche quando tutto sembra marciare forsennatamente in una direzione contraria. . A liberare il denaro dai processi di produzione e consumo, dandogli concretamente uno scopo etico. A credere in noi stessi e nelle nostre intuizioni affinché azioni di questo tipo diventino sempre più la regola piuttosto che la sparuta eccezione.

Lanciamo nel vento questa storia, con l’augurio che sia di ispirazione ad altre storie e ad altri sognatori.

Le foto del Bosco del Corniolino e del Bidente sono state realizzate da Rosella Ciman di Trekking Italia

Dalla piramide al cerchio:
L’organizzazione decentralizzata degli alberi

Wow! Si chiuderà il buco dell’ozono: quindi cambiare è possibile…ma la concentrazione media di CO2 nell’atmosfera nel 2022 è stata di 417 ppm (parti per milione), 2,1 ppm in più rispetto al 2021. Non accadeva da 2 milioni di anni…ci stiamo avviando verso la 6^ estinzione di massa? L’ultima (la 5^) è avvenuta 66 milioni di anni fa; scomparve il 75% delle specie viventi (e i dinosauri). Furono individuate da Sepkoski e Raup in un noto lavoro del 1982 (Mass Extinctions in the Marine Fossile Record, Science, 215).

Le nostre organizzazioni sono basate sul modello gerarchico del capo. La piramide è l’archetipo e, nonostante il faraone sia scomparso 3mila anni fa, esso vive nelle nostre organizzazioni. La Chiesa cattolica non è da meno, nonostante Gesù Cristo avesse lasciato il messaggio “amatevi l’un l’altro, come io ho amato voi”.

L’ingegnere Frederick Taylor inventò la catena di montaggio per Ford nel 1913 abbassando la produzione di un’auto da 12 ore a 1. La gerarchia imperava in un mondo in cui i prodotti erano tutti uguali (un’auto T nera) e il lavoro era parcellizzato. Charlie Chaplin che scivola dentro la catena di montaggio lo ricorda. La gerarchia vive anche nel modello di scuola che abbiamo oggi, introdotto dai gesuiti nel XVI secolo: una cattedra con un maestro-pastore e allievi seduti, mutuato dal gregge dove il pastore conduce le pecore che però vivono all’aperto e si muovono nella natura.

Negli ultimi 70 anni sono cresciute le esperienze che riducono la gerarchia nelle fabbriche e umanizzano il lavoro. Per primo fu Adriano Olivetti che già negli anni ’50, mosso da un impulso spirituale e umanitario (a cui aveva contribuito il padre socialista e la madre cristiana valdese), introdusse per primo in Italia le “isole” di lavorazione (e molto altro).

Per Olivetti il differenziale salariale poteva essere max di 7-8 volte tra il dirigente più pagato (lui incluso) e l’ultimo operaio. Lo ricorderà il Papa Francesco nell’udienza a Confindustria: «Se la forbice tra gli stipendi più alti e quelli più bassi diventa troppo larga, si ammala la comunità aziendale, e presto si ammala la società. Un vostro grande collega del secolo scorso (Olivetti ndr) aveva stabilito un limite alla distanza tra gli stipendi più alti e quelli più bassi, perché sapeva che quando i salari e gli stipendi sono troppo diversi si perde nella comunità aziendale il senso di appartenenza a un destino comune, non si crea empatia e solidarietà tra tutti; e così, di fronte a una crisi, la comunità di lavoro non risponde come potrebbe rispondere, con gravi conseguenze per tutti».

Con una produzione diventata sempre più personalizzata si è capito che meno gerarchia c’è, meglio funziona l’azienda, in quanto chi sta in “basso” è bene operi in équipe, risolva i problemi e sappia cosa si sa in alto e viceversa.

Così sono nate nuove organizzazioni teal (si veda Reiventare le organizzazioni di Frederic Laloux), che riducono i livelli gerarchici, creano équipe di lavoro e crescente autonomia. Anche nelle fabbriche tradizionali (di auto…) i livelli gerarchici sono passati da 7 a 3-4 e oggi si lavora molto in équipe. Tra i capi che stanno in alto c’è chi ha capito che nelle équipe è opportuno che ci sia un coordinatore (anziché un capo) e che sia eletto dagli stessi operai anziché nominato dall’alto.

Di recente si sono affermate organizzazioni in cui la leadership non è più verticale ma orizzontale: fornitori e clienti vanno trattati come se fossero in “orizzontale” e il leader è sempre meno uno che “dà ordini o interviene”, ma uno che, oltre a fare quello, “motiva, aiuta, dà la visione”: più allenatore che capo. Segni di evoluzione dalla piramide al cerchio o al mosaico, un modo nuovo di lavorare che dà più soddisfazione a chi lavora e spesso più ricavi.

I babbuini hanno un’organizzazione molto gerarchica e si è dimostrato che i loro glucocorticoidi (ormoni dello stress come il cortisolo) erano molto più alti in quelli che stavano nei ruoli più bassi. E il grasso si addensava nella pancia, mentre nei maschi Alfa su tutto il corpo, come se i subordinati fossero anche nella forma più rotondi, oltrechè passivi, consoni al ruolo gregario. Un giorno accadde che i maschi Alfa morissero per tbc e il gruppo superstite (femmine e maschi in ruoli bassi) instaurò una nuova organizzazione più orizzontale: le analisi del sangue mostrarono che il cortisolo (stress) era diminuito.

Le organizzazioni gerarchiche sono anche più vulnerabili (non a caso internet non lo è). Così si spiega come mai Cortes e Pizzarro riuscirono a sconfiggere con pochi uomini i potenti imperi atzeco e inca, nonostante le migliaia di soldati: erano centralizzati a differenza degli indiani d’America, che infatti resistettero per molti anni alla straripante maggior potenza degli yankee. La loro forza era un’organizzazione decentrata.

La gerarchia è anche capace di fare molto “male”, come dimostrò Hannah Arendt nel suo libro La banalità del male. Ascoltando come cronista Adolf Eichmann, responsabile della morte di milioni di ebrei, capì che ciò che aveva consentito ad un essere umano di fare cose indicibili erano alcuni fattori: a) l’obbedienza ad una forte gerarchia, b) la distanza tra la propria azione e risultati attesi, c) i rapporti spersonalizzati all’interno della gerarchia.

Quando uscì il libro nel 1963, una pietra miliare per capire l’essere umano, fu duramente criticata perché, in base a queste considerazioni, gli umani avrebbero potuto ripetere questo orrore; ma, come sappiamo, Arendt aveva ragione: non ci vuole necessariamente una particolare disposizione al male, basta una organizzazione gerarchica di quel tipo.

Chi ha una organizzazione non gerarchica, scrive Stefano Mancuso nel suo bel libro La nazione delle piante (pag.140, euro 12 ed. Laterza), sono gli alberi che hanno i centri decisionali a livello periferico, e che risolvono i problemi dove nascono, con un’organizzazione decentralizzata e reiterata.

L’Homo cosiddetto ‘sapiens’ (nato 300mila anni fa), in meno di 12mila anni (da quando ha avviato l’agricoltura) ha creato un disastro sulla Terra e, se non cambia rapidamente, produrrà la 6^ estinzione di massa, lasciando liberi gli alberi (nati tra 350 e 700 milioni di anni fa), insieme al resto del creato. Un’apocalisse in corso, di cui la maggioranza – dice Mancuso – non si rende conto.

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Per certi versi /
La ballata del giradischi

La ballata del giradischi

E mio babbo mise il disco
Di quel jazz
Che venne dall’America
Con la libertà
Sentire la puntina
Strofinare e
Friggere
Le uova del ritmo
Tra clarinetto e blues
Che mondo si andava
Ricomponendo
Come se non fosse mai passato
Il viso di mio nonno in sartoria
E che fossimo nel pieno
di un rinfresco
di cosa voglia dire la vita
I vestiti della povera gente
Di quella miseria accanita
Su un vestito solo della festa
Che la musica drammaticamente spensierata
Toglieva via
Ho sentito improvvise
le lacrime nuotare
In un cuore fradicio
Di memorie
Gira gira giradischi
Così si rivive
Lo svanire

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’OlioPer leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Processo Open Arms; le deposizioni di Conte, Di Maio e Lamorgese

Il 13 gennaio si è tenuta a Palermo una nuova udienza del processo che vede l’ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini accusato di sequestro di persona e rifiuto di atti di ufficio. Nell’agosto 2019 costrinse la nave Open Arms ad attendere 19 giorni prima di poter sbarcare le 147 persone che aveva a bordo, soccorse in vari salvataggi.

Sono 7 anni che le ONG del mare vengono indagate, diffamate, ostacolate, bloccate, eppure finora l’unico indagato è l’ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini. Siamo a Palermo per il processo a suo carico, testimoni Conte, Di Maio, Lamorgese. La verità è una: noi salviamo vite” ha ricordato su twitter la Ong spagnola.

Le deposizioni dell’ex premier Giuseppe Conte e dell’ex vicepremier Luigi Di Maio hanno mostrato come la ricerca da parte di Salvini del consenso elettorale sul rovente tema dell’immigrazione prevalesse su ogni altra considerazione e in particolare sulla salvaguardia degli elementari diritti umani di persone vulnerabili reduci da esperienze traumatiche.

Conte ha smentito uno dei cavalli di battaglia di Salvini, affermando: “Non ricordo di aver mai sentito parlare della presenza di terroristi a bordo della Open Arms che aveva soccorso i migranti ad agosto del 2019. Non ricordo neppure che qualcuno mi abbia parlato di possibili accordi tra la Open Arms e gli scafisti alla guida dei barconi soccorsi“. Ha poi rincarato la dose aggiungendo: “Sollecitai il ministro Salvini a far sbarcare i minori a bordo della Open Arms perché secondo me era un tema da risolvere al di là di tutto. Cercai di esercitare una moral suasion sulla questione perché mi pareva che la decisione di trattenerli a bordo non avesse alcun fondamento giuridico.”

L’affermazione successiva dà l’idea del clima di quel periodo: “Ci avviavamo verso la crisi di governo e una probabile competizione elettorale, il tema immigrazione è sempre stato caldo per la propaganda politica ed era chiaro che in quella fase Salvini, che ha sempre avuto posizioni chiare sulla gestione del problema, volesse rappresentare me come un debole e lui invece come rigoroso”.

“Non ho mai detto che la condizione per autorizzare lo sbarco dei migranti dovesse essere la loro redistribuzione preventiva. È evidente che ottenere la solidarietà europea e un riscontro su distribuzione e poi arrivare allo sbarco sarebbe stata la situazione ottimale, ma non ho mai sostenuto che se non c’era la redistribuzione non si poteva concedere il porto sicuro” ha aggiunto Conte.

Molto simile la posizione dell’ex Ministro degli Esteri Di Maio: anch’egli ha sostenuto che la concessione del porto sicuro non era subordinata al completamento della procedura di redistribuzione dei migranti e con le sue dichiarazioni ha dipinto un quadro desolante delle dinamiche all’interno del governo: “La maggior parte delle volte sapevamo del rifiuto di Pos da parte di Salvini dai media che riportavano le sue dichiarazioni. Non ci sono mai state riunioni del Consiglio dei Ministri, né informali né formali, sulla questione della concessione del porto sicuro alle navi con i migranti. Casomai le riunioni vennero fatte per affrontare le conseguenze del diniego di Pos dell’ex Ministro dell’Interno. Seppi della vicenda Open Arms dalle dichiarazioni ai media di Salvini, non da lui, anche perché eravamo in piena crisi di governo”. E per finire: “Tutto ciò che veniva fatto in quel periodo era per ottenere consenso“.

Ha poi testimoniato l’ex Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, sostenendo di “aver messo sempre in primo piano il salvataggio delle persone”. Peccato che si sia dimenticata dei numerosi fermi amministrativi a cui ha sottoposto le navi umanitarie. Un modo di agire più “tecnico” e meno urlato e mediatico di quello di Salvini, ma ugualmente efficace nell’intralciare e bloccare le operazioni di soccorso nel Mediterraneo da parte delle Ong.

Sempre nell’ipocrita tentativo di distinguersi da Salvini, ha precisato che quando era Ministra dell’Interno “i tempi di attesa del pos per le navi delle Ong era di media 2 o 3 giorni. Si arrivava a 7-8 solo se c’era da concordare la redistribuzione con altri Paesi“.

La risposta di Salvini alle stoccate degli ex alleati e ai distinguo del successivo Ministro dell’Interno ha seguito il solito copione – un misto di vittimismo e retorica: “Rischio fino a 15 anni di carcere per aver difeso l’Italia.”

La prossima udienza del processo, fissata il 24 marzo, approfondirà le vicende legate alla presenza del sottomarino della Marina militare al momento del primo soccorso della Open Arms, con la deposizione dei consulenti di accusa, difesa e parti civili e di Oscar Camps, fondatore della Ong.

In copertina: Nave di soccorso Open Arms (Foto di Antonio Sempere)

Ferrara Off in tournée con “Futuro anteriore”
uno spettacolo dedicato al rapporto col tempo

Uno spettacolo dedicato al rapporto con il tempo, dove i protagonisti diventano piccoli, vecchi, giovani, lucidi, stralunati. È “Futuro anteriore”, una rappresentazione di forte impatto, rivelatrice e coinvolgente – a tratti comica e in eguale misura toccante e drammatica – quella messa in scena con la regia di Giulio Costa al teatro Ferrara Off e da qui partito per una tournée nazionale, dove protagonisti in scena e spettatori in sala guardano e vivono in modi tutti personali il rapporto con l’invecchiamento.
Che sia quello dei propri cari o quello che si prospetta a ciascuno di noi, il domani ha una certezza, che è quella della ridotta autonomia, della smemoratezza che si fa patologica, della fragilità che cerca di puntellarsi con certezze, esperienza, abitudini e affetti, mentre la gioventù resta a guardare tra lo sbigottito e l’incredulo, mescolando reazioni interventiste con atteggiamenti di resa esterrefatta.

Matilde Buzzoni e Antonio De Nitto in scena (foto Giacomo Brini per teatro Ferrara Off)

“Forse dimenticare è un buon modo per svanire piano piano – dice una delle giovani attrici in apertura dello spettacolo – vorrei lo sguardo acquoso degli anziani, vorrei che l’aria non fosse irrespirabile per fare delle passeggiate. Aria, aria fresca, aria calda, il venticello, il raggio di sole… Sono queste, in fondo, le cose davvero importanti?”. Una ricerca di sbocchi futuri che diventa anche una ricerca di altro: il senso ultimo della vita, la memoria, l’importanza dei legami, la storia che rende ciascuno di noi l’individuo che è, in relazione con gli altri. Ecco allora i ricordi della cera sui pavimenti, i centrini di pizzo, le stanze con il divano dove non ci si poteva sedere ma sul quale si mettevano le tagliatelle ad asciugare, la tv che negli anni è diventata sempre più grande e il volume sempre più forte, la proiezione di sé, l’idea di un traguardo da cui ci si potrà guardare indietro (“Da vecchia avrò fatto tutto, un figlio con i capelli rossi”).

“Futuro anteriore” (foto Giacomo Brini)

Lo spettacolo – come accade quasi sempre al teatro Ferrara Off – si completa con il momento di confronto e commento finale, a luci accese, quando attori e regista si siedono davanti alla platea, raccontando dettagli e retroscena della costruzione dell’opera e raffrontandosi con l’opinione di chi la messa in scena l’ha appena vista, vissuta, condivisa.
“L’idea di base – spiega il regista Giulio Costa – era quella di narrare l’invecchiamento visto dalla parte dei giovani. Io e Margherita – a parte il prologo – facevamo prove all’impronta e ancora c’è grande parte di improvvisazione, è una materia viva, che ha scavato dentro ciascuno di noi”. E sottolinea ciò che è saltato agli occhi anche a me: “A seconda della fase della vita in cui il pubblico si trova, l’argomento viene vissuto in maniera diversa. Più si è giovani, più il racconto della vecchiaia appare comico. Per chi si avvicina alla vecchiaia, o per chi comunque la tocca con mano sui propri cari, gli episodi vengono vissuti invece in maniera via via più drammatica”.

Antonio De Nitto (foto Giacomo Brini)

Insomma, come si legge sulla scheda descrittiva “Uno spettacolo sul futuro senza spade laser, alieni e tute spaziali, ma con girelli, apparecchi acustici” e tanti ricordi e certezze che si fanno evanescenti.
In una società dove la speranza di vita è più che raddoppiata, “Futuro anteriore” si propone come indagine collettiva sull’evoluzione di sé, dove un gruppo di giovani attori esplora in scena nuovi possibili scenari di invecchiamento, formulando strategie creative, anche solo esplorative e descrittive. E alla fine – come ha fatto notare Monica Pavani, presidente dell’associazione culturale Ferrara Off – la rappresentazione relativizza il tempo e rivela ciò che ovvio, ma che quasi sempre dimentichiamo: essere vecchi, essere giovani, stare bene, stare male non sono tratti distintivi o connotati di riconoscimento. Giovinezza, maturità e vecchiaia sono fasi che attraversiamo tutti e che ogni volta si vivono in maniera assoluta. Il mito dell’eterna giovinezza che domina la nostra società ci fa dimenticare – anche grazie a ritocchi più o meno virtuali –  che i bambini e i ragazzi tali non lo resteranno per sempre e che i vecchi, a loro volta, sono stati giovani davvero.

Bravi e convincenti in scena gli attori Matilde Buzzoni, Antonio De Nitto, Gloria Giacopini, Matilde Vigna, che interpretano e personalizzano in maniera sentita la drammaturgia firmata da Margherita Mauro per questa produzione Ferrara Off che ha avuto il sostegno del MiBAC e di Siae. La loro interpretazione getta un ponte tra generazioni, in cerca di un approdo di rispetto, tolleranza e comprensione.

Cover:” Futuro anteriore” in scena al teatro Ferrara Off (foto Giorgia Mazzotti)

Dall’Europa all’Italia: il buon esempio delle comunità energetiche rinnovabili

di Marianna Usuelli ( Valigia Blu 11 Gennaio 2023)

Dall’Europa all’Italia: le comunità energetiche rinnovabili sono un esempio di decentralizzazione, condivisione di energia, autoproduzione e protagonismo dei territori

1975. Nel pieno della crisi energetica, il governo danese vuole scommettere sul nucleare per emanciparsi dalla dipendenza dal petrolio mediorientale. Ma la popolazione si ribella. In un paesino della costa occidentale della penisola, i cittadini riuniscono competenze e manodopera e in tre anni costruiscono una turbina eolica da 2 MW per sfruttare la risorsa più abbondante e libera del paese, il vento, e produrre e condividere elettricità locale e pulita. Vogliono abbassare il prezzo delle bollette, ma anche dimostrare che un’alternativa al petrolio e al nucleare esiste, ed è alla portata di tutti. 

La crisi petrolifera degli anni ’70 ha dato uno slancio al movimento per l’energia eolica danese e oggi la Danimarca è uno dei paesi con una più antica tradizione di “comunità energetiche”, radicate sul territorio da ben prima che l’Unione Europea emanasse la Direttiva REDII 2018/2001 che ne definisce le caratteristiche.

Da allora infatti la popolazione danese ha cominciato a investire in parchi eolici, tanto che nel 2013 circa il 75% delle turbine era di proprietà delle comunità locali. Questo è anche il risultato di una serie di politiche del governo, a partire dal Danish Renewable Energy Act che già nel 2009 richiedeva che tutti i nuovi progetti eolici fossero per almeno il 20% di proprietà della popolazione locale. 

Gli Stati pionieri

Con la Direttiva sulle rinnovabili REDII del 2018, l’Unione Europea ha introdotto la definizione, i diritti e i doveri delle comunità energetiche rinnovabili (CER), richiedendo agli Stati Membri di seguire un modello più decentralizzato e rinnovabile di energia elettrica, sulla scia di quanto già avviato in Danimarca, Olanda e Germania. 

Il recepimento della Direttiva varia di paese in paese, ma in generale le comunità energetiche sono soggetti giuridici che possono produrre, consumare, condividere, accumulare e vendere energia rinnovabile tra i loro membri. Possono riunire cittadini, PMI, associazioni e enti locali di un territorio sotto lo stesso impianto di energia e non possono essere finalizzate al profitto, ma devono invece produrre benefici economici, sociali e ambientali per i membri e per i territori. 

“Se in molti paesi con una limitata tradizione storica di comunità energetiche la normativa europea ha provocato una vera e propria esplosione del fenomeno, negli Stati ‘pionieri’ non c’è stato un così forte cambiamento”, spiega Nicolien Van der Grijp, senior researcher presso l’Institute for Environmental Studies della Vrije Universiteit Amsterdam. “Ad oggi in Olanda sono già attive oltre 700 comunità energetiche perché il governo già prima della Direttiva aveva provveduto ad introdurre incentivi a favore dell’autoproduzione e della condivisione di energia tra i cittadini”. Inoltre, nel 2019 con l’Accordo olandese sul clima è stato fissato un target del 50% di energia rinnovabile di proprietà e produzione locale al 2030.

Lo slancio della normativa europea

“I paesi con sistemi elettrici decentralizzati hanno solitamente un più forte radicamento di cooperative e comunità energetiche”, spiega Maria Luisa Lode, ricercatrice dell’Università Libera di Bruxelles, “Nei sistemi energetici centralizzati di paesi come Italia e Francia, seppure molto diversi tra loro, la creazione di comunità energetiche è più complessa e meno spontanea”. Ed è proprio qui che l’introduzione della normativa europea è stata un’assoluta novità e ora vediamo la maggiore crescita del fenomeno.
La federazione delle cooperative energetiche rinnovabili europee REScoop.eu sta monitorando lo stato del recepimento della direttiva europea nei vari paesi membri attraverso il Transposition Tracker.
Secondo Stavroula Pappa, avvocata esperta di energia e project manager di REScoop, “l’Italia è uno dei paesi che si trovano allo stadio più avanzato e c’è un fermento e una crescita fortissima del numero di progetti”.

Dopo il primo recepimento con l’art. 42bis del Decreto Milleproroghe nel 2020, si è aperta una fase sperimentale. Con il successivo D.lgs. 199/2021 e l’attesa emanazione dei provvedimenti di implementazione relativi alla condivisione dell’energia e agli incentivi, inizierà una fase più matura con progetti di taglia maggiore. Se la comunità energetica italiana di oggi ha in media una ventina di membri e non supera i 200 kW di potenza, il nuovo decreto aprirà a un più ampio perimetro geografico permettendo il coinvolgimento potenziale di migliaia di famiglie e una potenza degli impianti candidabili fino a 1 MW ciascuno. Inoltre il PNRR ha allocato 2,2 miliardi di euro per sviluppare comunità energetiche in comuni al di sotto dei 5.000 abitanti e ha fissato un target di 2 GW di capacità di rinnovabili da installare entro il 2026 tramite le comunità energetiche nei piccoli paesi. 

Nonostante tutto ciò, l’iter burocratico complesso e i tempi lunghi di risposta del Gestore dei Servizi Energetici (GSE) hanno rallentato fortemente lo sviluppo di CER in Italia, tanto che al giugno 2022 Legambiente ha mappato appena un centinaio di comunità energetiche di cui solo 16 sono registrate sul portale e solo tre hanno ricevuto i primi incentivi. Nell’ultimo anno e mezzo l’Italia è stata però l’arena di significativi progetti di sperimentazione, distinguendosi dalla tradizione nordica e diventando oggetto di studi per la loro innovazione sociale.

Il carattere sociale delle Comunità energetiche rinnovabili italiane

Se nei paesi “pionieri” l’iniziativa è promossa quasi sempre dal basso, dalla volontà della popolazione locale di accelerare la transizione e di risparmiare producendo energia locale e pulita, in Italia le comunità energetiche nate da cittadini e associazioni sono solo il 14%. 

La maggior parte è infatti il risultato della mobilitazione di risorse pubbliche da parte di enti locali. Oltre alla disponibilità di tetti degli edifici comunali, questo è anche dovuto al fatto che le sovvenzioni regionali e nazionali e le fondazioni bancarie – ad esempio Fondazione Cariplo, Fondazione San Paolo e Banca di Cuneo – premiano proprio i Comuni per l’installazione di impianti fotovoltaici. E come afferma Matteo Caldera, ricercatore di ENEA, “i progetti a fondo perduto consentono di distribuire tutti i benefici tra i membri della CER oltrepassando la barriera dei costi iniziali e permettendo una maggiore focalizzazione sugli obiettivi sociali”. 

L’Associazione Comunità Energetica di Fondo Saccà – E.T.S, ad esempio, è nata nella zona periferica Maregrosso di Messina su iniziativa della Fondazione di Comunità di Messina. La CER, che trae origine da un progetto di cohousing sociale, riunisce tre edifici che ospitano quattro persone provenienti da un ex ospedale psichiatrico giudiziario impegnate in un percorso di inclusione sociale, un centro per l’infanzia, una famiglia con difficoltà socio economiche e un ufficio. I benefici economici derivanti dalla produzione dell’impianto fotovoltaico da 200 kWp, saranno redistribuiti tra i membri della comunità energetica seguendo un “algoritmo sociale”, che tiene conto del loro grado di fragilità sociale ed economica secondo logica di mutuo soccorso.

“Le CER italiane sono maggiormente centrate sulle ricadute sociali rispetto alla maggior parte dei paesi UE. In Olanda, tra le oltre 700 comunità energetiche presenti solo una dozzina ha tra gli obiettivi la lotta alla povertà energetica”, spiega van der Grijp, aggiungendo però che con l’attuale crisi energetica la situazione sta cambiando perché un numero sempre maggiore di famiglie è in difficoltà.

Così, oltre alla tutela ambientale e al risparmio energetico ed economico, in Italia hanno un ruolo preponderante la lotta alle disuguaglianze ma anche il contrasto allo spopolamento dei piccoli paesi rurali, la rivitalizzazione del tessuto sociale e la creazione di nuove opportunità di lavoro locale. E questi obiettivi sono più facilmente perseguibili quando alla guida del progetto c’è un ente locale. 

Ma ci sono anche casi di CER italiane nate dal basso, in cui il ruolo dei cittadini è stato cruciale per l’avvio dei progetti. Queste esperienze emergono soprattutto da quell’humus di cooperative che da lungo tempo promuovono un modello energetico decentralizzato e decarbonizzato. È il caso, ad esempio, della comunità di Santeramo in Colle (Bari), nata sulla spinta di un socio della cooperativa di energia rinnovabile ènostra, che è andato a bussare alla porta degli assessori della città per spingerli a costituire una CER a beneficio della cittadinanza alimentata dal fotovoltaico da 42 kWp realizzato con finanziamenti a fondo perduto sul tetto di una scuola. Ènostra, che fornisce consulenza per aiutare i promotori di comunità energetiche a districarsi nel complesso iter burocratico, ha coordinato la nascita del progetto e ha assegnato al socio un incarico retribuito in qualità di facilitatore locale del progetto CER.

Comunità e cooperative

Anche l’Italia ha una storia antica di comunità e cooperative energetiche, interrotta nel 1963 dalla nazionalizzazione del sistema elettrico e dal monopolio di Enel e riemersa dopo la liberalizzazione del mercato. È un ambiente fertile che stimola le iniziative collettive e dal basso. Al tempo stesso, è la natura stessa delle rinnovabili a spingere verso progetti locali, partecipati e decentrati. Come si legge nel libroCome si fa una comunità energetica a cura di Marco Mariano (Altreconomia 2021), “sono proprio le caratteristiche delle energie rinnovabili, estremamente diffuse sul territorio, a suggerire un modello alternativo di organizzazione del sistema energetico e in particolare del sistema elettrico. Un sistema diffuso, dove il consumatore possa anche essere produttore”. 

In questo sistema, in cui il prosumer (termine inglese crasi tra produttore e consumatore) acquista un ruolo centrale, la comunità energetica diventa lo strumento per permettere anche a chi non ha la possibilità di installare il proprio impianto fotovoltaico di diventarlo. 

Secondo uno studio del 2016 di CE Delft, metà della popolazione europea (264 milioni di persone) nel 2050 potrebbe autoprodurre energia elettrica da fonti rinnovabili. “Vista l’attuale situazione possiamo sperare di raggiungere questi numeri anche prima”, sostiene Stavroula Pappa. 

Di certo le CER non possono da sole garantire la decarbonizzazione del sistema elettrico italiano, visto che per renderci indipendenti dal gas russo seguendo lo schema di RePowerEu, dovremmo installare 10 GW di potenza rinnovabile all’anno, quasi 10 volte i tassi attuali. Nell’ottica di un così forte aumento dell’elettricità in rete, Matteo Caldera sostiene che le CER non siano solo ottimi strumenti a impatto positivo ambientale, economico e sociale, ma “premiando l’energia consumata nel momento stesso in cui l’impianto la produce, potranno anche avere un ruolo determinante nell’alleggerire il sistema elettrico e nella riduzione dei consumi energetici”.

Quando si dice che la transizione energetica non è solo un passaggio di tecnologie ma richiede anche un cambio di mentalità, le CER rappresentano uno dei pochi strumenti già esistenti per sperimentarlo, attraverso decentralizzazione, condivisione di energia, autoproduzione e protagonismo dei territori.

In copertina: la turbina eolica costruita dagli abitanti di Tvindkraft in Danimarca nel 1975

Marianna Usuelli
Giornalista, collabora con la rivista Altreconomia e Valigia Blu. È tutor del Master Interdisciplinary Approaches to Climate Change della Università Statale di Milano e collabora con l’Unità Aria e Clima del Comune di Milano.

Presto di mattina /
Fede migrante

Fede migrante

Avere fede equivale a migrare, fare esperienza di relazione, l’aprirsi di un nuovo spazio nell’altro e nell’altrove, affacciarsi su un mondo ignoto per riconoscerlo ed esser conosciuti. È così la stessa fede di migranti – di un perdersi per ritrovarsi – che accompagna e rinnova lo spirito del vangelo tra di noi.

Ce lo ha ricordato a modo suo il papa nel giorno dell’Epifania, compresa come migrazione dei popoli alla ricerca di una nuova luce. Francesco ci ha rammentato che è necessario rischiare il cammino per incontrare la luce, anch’essa perennemente migrante sino a tracciare essa stessa un cammino di riconoscimento.

Da quel primo e abissale “grande scoppio” – sia la luce – la “voce” di Dio Qol in ebraico è paragonata ad un’esplosione cosmica nel salmo 28 (29), assimilata al folgorante e fragoroso lampo dentro alla tempesta e sulle acque.

Così la luce, chiamata fuori dalle tenebre all’inizio dei tempi, si è pure lei incamminata nel suo sorgere, illuminando tutte le cose per cavarle fuori dal caos oscuro in cui erano immerse, rendendole conoscibili a loro stesse perché illuminate e benedette fin dall’inizio nella pace.

Luce migrante è non di meno quella della natività. Irradiazione tra le genti, il suo cammino va ad accendere la luce pasquale, senza fermarsi neppure al mattino di Pasqua, ma proseguendo oltre, tra le nuove genti, sui cammini dei migranti della storia, alle periferie dell’esistenza e ai confini del tempo. Come la luce migrante, primordiale è generativa della stessa espansione dell’universo, così la luce della fede dilata la nostra umanità rendendola planetaria.

La fede non è se non migrante, perché – come ha ricordato ancora Francesco – essa «non cresce se rimane statica; non possiamo rinchiuderla in qualche devozione personale o confinarla nelle mura delle chiese, ma occorre portarla fuori, viverla in costante cammino verso Dio e verso i fratelli».

Credere significa partire, come nascere e morire, come leggere e scrivere: comportano una migrazione nell’altro, l’aprirsi di uno spazio nell’altrove. Così migrando tra le pagine e le parole nella scrittura d’altri, mi si aperto uno spazio inedito per questa riflessione sulla fede come migrazione.

L’input non è partito in verità da Francesco, come può sembrare dall’incipit di questo testo, ma leggendo una conversazione pubblicata sul Corriere della sera (1 ottobre 2009, 50-51) tra lo scrittore Claudio Magris e Édouard Glissant, (1928-2011) un altro scrittore, noto etnografo delle culture e delle pratiche dei gruppi umani, e poeta pure, nato nella Martinica dei Caraibi, arcipelago delle Antille, luogo di civiltà differenti che prende il nome da La Antilla, terra lontana da cui provenivano gli scopritori di quelle isole.

«Vivere significa migrare: ogni identità è una relazione»

Ogni relazione è una “complessità multipla”, implica nell’incontro il riconoscimento dell’altro, dell’estraneo in quanto tale. Riconoscere non è sinonimo di comprendere, nel senso di appropriazione, di chi vuol ridurre l’altro a sé stesso, alla propria scala di valori. Per essere solidali con l’altro occorre condividere l’imperfezione, in una relazione che lasci aperto quello spazio di mistero, di diversità irriducibile, di opacità – la chiama Glissant – che salvaguarda l’altro dall’assimilazione all’identità altrui.

«Non mi è necessario “comprendere” l’altro per sentirmi solidale con lui, per costruire con lui, per amare quello che fa». L’amore sa accogliere anche l’estraneità, la solitudine, la distanza che segna ogni relazione; sa comprendere senza ghermire, rinunciando ad esercitare sull’altro una presa totalizzante che genera il più delle volte pratiche di violenza. Per questo Glissant fu durissimo nel denunciare la brutalità dei genocidi, della tratta degli schivi, durata per secoli, e della segregazione razziale nelle piantagioni dell’arcipelago.

Glissant, a cui sta a cuore ogni cultura minacciata, compresa la sua, ricorda che ogni identità ed il mondo stesso si costruiscono in un processo creativo e armonioso. Un processo che egli definisce “creolizzazione”, ispirandosi al creolo, la lingua formatasi dalla commistione dei dialetti francesi dei padroni delle piantagioni con i differenti linguaggi di uomini e donne ridotti in schiavitù.

A me sembra che le categorie dello scrittore creolo siano illuminanti anche per ogni credente. A partire dal concetto di erranza, in quanto «ogni identità esiste nella relazione; è solo nel rapporto con l’altro che cresco, cambiando senza snaturanti».

Ma quella narrata nei suoi libri è pure la poetica del diverso: «di un diverso che non si isola», perché «la muraglia è la prigione dell’identità». Senza dimenticare infine l’opacità di cui parla Glissant, la stessa verso cui si protende la nostra fede, come un’apertura sulle cose che si sperano, una proiezione dello sguardo e della vita verso quelle che non si vedono. «Bisogna vivere con l’altro e amarlo, accettando di non poterlo capire a fondo e di poter essere capiti a fondo da lui». Non è questa la fede che camminando insieme crede sperando e spera amando?

L’erranza delle parole dall’oralità alla scrittura

La Bibbia è storia di un vissuto che nasce da migrazioni di popoli; è pure quella biblioteca scritta da migranti che narra di un Dio che si nasconde e dimora tra loro. Nell’oscurità delle migrazioni ha così luogo e germinano profezie di futuro.

È proprio mentre sono in fuga o in viaggio che Giacobbe, Elia, e Giona incontrano Dio, particolarmente vicino, esondante sulle acque e inesauribile nell’immaginazione. Abramo viene spinto a partire: “vattene dalla tua terra verso un dove che ti mostrerò cammin facendo, non temere la legatura di Isacco tuo figlio”.

Davanti al roveto ardente, in mezzo al deserto, di fronte al Sinai a piedi nudi, pascolando un gregge di nomadi con il volto coperto, Mosè chiede a Dio quale sia il suo nome. E Dio gli risponde: “Colui che fa partire” (Michel De Certeau) e il predicatore errante della Galilea delle genti dice di sé di non avere una tana come le volpi, né un nido, né una pietra su cui posare il capo. (cfr. Mt 8,20; Lc 9,58).

Claudio Magris sottolinea poi come in Glissant «l’erranza sia un principio che vale in tutti i campi della vita, anche nella scrittura. Ogni realtà è un arcipelago; vivere e scrivere significa errare da un’isola all’altra, ognuna delle quali diventa un po’ la nostra patria.

La verità umana non è quella dell’assoluto bensì quella della relazione. Ogni identità esiste nella relazione; è solo nel rapporto con l’altro che cresco, cambiando senza snaturarmi. Ogni storia rinvia ad un’altra e sfocia in un’altra … Ci sono molte radici; se una si proclama unica o esclusiva distrugge la vita, sia che si tratti di una radice piccola gelosamente chiusa nella sua particolarità, sia che si tratti di una grande e potente, come la civiltà universale reclamata dal colonialismo…

Nell’opera di Édouard Glissant – continua Magris – vivono il narratore orale anonimo che nella stiva delle navi negriere e nelle piantagioni trasmetteva la memoria dell’Africa perduta, e i classici francesi, di cui la sua prosa è geniale e organica erede, in una continuità perpetuata nell’ardita innovazione strutturale delle forme narrative».

Radice e rizoma

Ci sono delle culture “a radice unica”, a freccia, quelle che tendono all’auto-conservazione. Altre invece sono “a rizoma”, perché si espandono in diverse direzioni: specie quelle nate da una recente “creolizzazione” e quindi coscienti della loro realtà plurima.

Riproponendo la distinzione tra i termini radice e rizoma mutuata da Gilles Deleuze e Felix Guattari ne La poetica della relazione (Macerata, Quodlibet, 2007, 23; 29), Glissant scrive: «La radice è unica, è un ceppo che assume tutto su di sé e uccide quanto lo circonda; essi le oppongono il rizoma, radice demoltiplicata che si estende in reticoli nella terra e nell’ aria, senza che intervenga alcun irrimediabile ceppo predatore.

La nozione di rizoma manterrebbe quindi l’aspetto del radicamento, rifiutando però l’idea di una radice totalitaria. Il pensiero rizomatico sarebbe all’origine di quella che io chiamo una poetica della Relazione, secondo la quale ogni identità si estende in un rapporto con l’Altro…

In questo consiste l’immagine del rizoma, che conduce alla scoperta di un’identità che non è più solo nella radice, ma anche nella Relazione. Il pensiero dell’erranza è, di fatto, anche pensiero del relativo, che è il ritrasmesso ma anche il relato. Il pensiero dell’erranza è una poetica, e sottintende che a un dato momento essa si dica. Il detto dell’erranza è quello della Relazione».

È sempre del giorno dell’Epifania l’uscita di un documento di papa Francesco con cui indica gli orientamenti e le nuove norme per la riorganizzazione/riforma del Vicariato di Roma: la costituzione apostolica «In Ecclesiarum communione».

Così un passaggio e un’espressione inusuale del testo sull’identità ecclesiale mi ha ricordato proprio la molteplicità radicata e in relazione del rizoma, che non ha centro su sé stesso ma fa riferimento all’altro da sé: l’identità ecclesiale: «una trama sacramentaria».

Trama deriva dal latino “trameare”: passare al di là, oltre, oltrepassare. È ciò che esprime il sacramento, segno di una presenza che non è solo o tutta nel segno; non si esaurisce in esso, ma rimanda oltre invitando a instaurare una relazione, a farsi erranti verso un’ulteriorità che chiama fuori a vivere una relazione.

Il volto è sacramento di tutta la persona che manifesta e nasconde insieme la realtà dell’altro; senza iniziare un cammino si rimane in panchina come spettatori. «Per comprendere l’identità della Chiesa, anche della Chiesa di Roma, è necessario riconoscere la sua “trama sacramentaria”, cioè il suo essere riferita ad altro da sé… Torniamo così alla lezione dei Padri che, guardando all’esperienza dell’esodo e dell’esilio, leggono la necessità per la Chiesa di essere come la tenda mobile nel deserto, da smontare, rimontare e “allargare” lungo il cammino (cfr. Is 54, 2)».

«Non si emettono parole nell’aria»

Guardare la realtà e abitarla cercando il mistero al suo interno per esprimerlo in presenza di tutte le lingue del mondo. Scrive Glissant: «Parlo e soprattutto scrivo in presenza di tutte le lingue del mondo… Ma scrivere in presenza di tutte le lingue del mondo non vuol dire conoscere tutte le lingue del mondo. Vuol dire che, nel contesto attuale delle letterature e del rapporto fra la poetica e il caos-mondo, non posso più scrivere in maniera monolingue.

Vuol dire che la mia lingua la dirotto e la sovverto non operando attraverso sintesi, ma attraverso aperture linguistiche, che mi permettano di pensare i rapporti delle lingue fra loro, oggi, sulla terra – rapporti di dominazione, di connivenza, d’assorbimento, d’oppressione, d’erosione, di tangenza, ecc. – come il prodotto di un immenso dramma, di un’immensa tragedia cui la mia lingua non può sottrarsi. Di conseguenza non posso scrivere la mia lingua in modo monolinguistico; scrivo in presenza di questa tragedia, in presenza di questo dramma» (Poetica del diverso, Meltemi, Roma 1998, 33.

Credo che così debba essere pure per lo stile del linguaggio pastorale e teologico: un’apertura verso linguaggi altri. Occorre ritornare a mettervi dentro il mistero del sensus fidei dei credenti e dei viventi accomunati nel segno di una pluralità di migrazioni e intessuto con le loro situazioni esistenziali.

Oggi abbiamo bisogno che l’immaginario della fede in cui si declina e coniuga la riflessione teologica e pastorale vada cercato abitando tutti i linguaggi, credenti e non; una riflessione teologica non sistematica, autreferenziale, ma induttiva, relazionale come le confluenze, le intersezioni, i chiaroscuri di una vita in un arcipelago.

È significativo che alla domanda come dovrebbe essere una teologia della migrazione papa Francesco risponda che se vuol essere tale deve essere “situata”: «tante volte abbiamo visto i mari trasformati in cimiteri di vite e storie, di sogni e aneliti di una vita dignitosa, e ci siamo uniti in preghiera, lavoro e presenza per far fronte all’indifferenza e creare ponti di fratellanza.

La migrazione, così tipica della condizione umana, è anche espressione feroce delle disuguaglianze. Il nostro impegno con i migranti deve essere a sua volta propiziatorio di una pedagogia della cura, del rispetto per il prossimo, in definitiva, di una proposta creativa e creatrice di una genuina cultura dell’incontro dove imparare a riconoscerci e a trattarci come fratelli», (Prefazione di Papa Francesco al libro «A Theology of Migration: The Bodies of Refugees and the Body of Christ», di Daniel G. Groody, Orbis Books, Maryknoll NY 2022).

Un triplice abisso

Una barca aperta sull’ignoto: è questa l’immagine con cui Èdouard Glissant descrive la tratta degli schiavi: «La Tratta passa per la stretta porta della nave negriera, la cui scia imita la “reptazione” della carovana nel deserto: “L’agghiacciante abisso, tre volte annodato all’ignoto”.

«Ciò che lascia impietriti, nell’esperienza degli africani deportati verso le Americhe, è senz’altro l’ignoto, affrontato senza preparazione né sfida.

La prima tenebra venne dall’essere strappati al paese quotidiano, agli dèi protettori, alla comunità tutelare. Ma questo è ancora nulla. Anche quando fulmina, l’esilio si sopporta. La seconda notte venne dalle torture, dalla degenerescenza dell’essere, portata da tante incredibili geenne.

Immaginate duecento persone ammucchiate in uno spazio che a malapena ne avrebbe potuto contenere un terzo. Immaginate il vomito, le carni lacerate, le frotte di pidocchi, i morti accasciati, gli agonizzanti marcescenti. Immaginate, potendo, l’ebbrezza rossa delle uscite sul ponte, la rampa su cui inerpicarsi, il sole nero all’orizzonte, la vertigine, quell’abbacinamento del cielo appiattito sulle onde. Venti, trenta milioni, deportati per due secoli e più. Il logoramento, più sempiterno di un’apocalisse. Ma tutto questo è ancora nulla.

L’agghiacciante viene dall’abisso, tre volte annodato all’ignoto.

La prima volta, quindi, inaugurale, quando cadi nel ventre della barca. Una barca, secondo la tua poetica, non ha ventre, una barca non inghiotte, non divora, una barca si muove a cielo aperto. Il ventre di questa barca invece ti dissolve, ti scaglia in un non-mondo in cui gridi.

Questa barca è una matrice, l’abisso-matrice. Generatrice del tuo clamore. Produttrice inoltre di ogni futura unanimità. Perché, anche se sei solo in questa sofferenza, condividi l’ignoto con altri che ancora non conosci. Questa barca è la tua matrice, uno stampo, che però ti espelle. Incinta, tanto di morti quanto di vivi sospesi a una morte differita.

Così la seconda voragine viene dall’abisso marino. Quando le regate danno la caccia alla nave negriera, la cosa più semplice è alleggerire la barca buttando a mare il carico, zavorrato di palle di ferro. Sono i segni di una pista sottomarina che va dalla Costa d’Oro alle isole Sottovento…

L’aspetto più gorgoneo dell’abisso è proprio, ben oltre la prua della nave negriera, quel pallido rumore di cui non si sa se sia nube foriera di tempesta, pioggia, piovisco o fumo di un fuoco rassicurante. Ai due lati della barca sono scomparse le rive del fiume. Che fiume è mai questo, privo del centro? È unicamente un avanti tutta? Questa barca non voga forse per l’eternità ai limiti di un non-mondo, che nessun Antenato frequenta?

La terza incarnazione dell’abisso proietta quindi, parallela alla massa d’acqua, l’immagine capovolta di tutto quello che è stato abbandonato, che per generazioni non si ritroverà se non nelle savane azzurre, sempre più consunte, del ricordo e dell’immaginario» (Poetica della Relazione, 19-20).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

 

Immaginario /
On the road

Si arriva ad una certa età che si prende una direzione o meglio una strada. Questa strada non è sempre libera né, per forza o per fortuna, una sola. Non è sempre tracciata da subito, né imboccata sempre per tempo. Ma poi quale tempo? Ognuno ha il proprio. Leggevo in un articolo che non ci si deve paragonare agli altri: lui si è già laureato, lei ha già un figlio, lui ha già un lavoro ben pagato, lei ha già il lavoro che ama.

La strada è sempre un’ottima metafora… mannaggia a me e alle similitudini! Ma come si fa a non pensare alla strada, una qualunque da prendere e che ti porti verso qualcosa o qualcuno? Viaggiare sulla strada con una macchina, un camper, una bicicletta o a piedi (come mi faceva notare un’amica) non è come farlo in aereo o in treno, c’è un sapore diverso un senso di libertà, pari solo a quello di viaggiare per mare (e non dico in crociera).

Ingranare la marcia, frenare, accelerare, correre, rischiare un sorpasso, fermarsi e sostare, avere la premura di rimpinguare il serbatoio, oleare i freni, mettersi le scarpe buone, evitare gli ostacoli, prendere un’autostrada per velocizzare (pagare per questo), oppure rallentare, godersi gli orizzonti, le montagne, passo dopo passo, il sole che sorge e tramonta, ascoltare la musica preferita o il fruscio del vento, mentre si fa tutto questo da soli o in compagnia.

La sensazione è la stessa di quando prendi una strada invece di un’altra. Di quando ti accorgi che a un certo punto devi per forza deviare. Al comando ci sei tu, tu sola. Non lasci che le cose accadano, supinamente, anche se quelle arrivano e comunque ci dovrai fare i conti. La sensazione però è una e perfettamente sognante. Sai che il motore è pronto, il serbatoio è pieno e, più o meno consapevolmente, ci sei tu che decidi di partire per una nuova avventura.

 

Cover: On the road di Ambra Simeone

Climate change, uscita dal fossile o riduzione del danno?
La COP27 nei media italiani e stranieri

“Per rispettare gli Accordi di Parigi bisogna alzare l’asticella in materia di mitigazione e adattamento: ad oggi gli impegni presi ridurrebbero le emissioni del 5-10% al 2030. Troppo poco: serve tagliarle del 30-45%, altrimenti arriveremo a toccare i 2,4°C entro il 2100!”. Ridurre le emissioni: è questo il tema centrale trattato alla COP tenutasi a Sharm El-Sheikh, la ventisettesima conferenza delle parti sul clima. Ne hanno parlato a Radio3 Scienza, intervistati da Elisabetta Tola  – poco prima del termine dei lavori previsti per il 18 di novembre, ma slittati al 20 – Ferdinando Cotugno, giornalista freelance, collaboratore del quotidiano Domani, e Serena Giacomin, climatologa, presidente dell’Italian Climate Network. Altro tema della massima importanza nell’agenda dei lavori della Conferenza, la questione del “loss and damage”, il risarcimento delle perdite e dei danni provocati dalla crisi climatica, obiettivo questo fissato nell’incontro tenutosi nel 2021 a Glasgow. Fa rilevare Cotugno quanto nei negoziati sul clima, visti i tempi ristrettissimi e la complessità delle questioni, contino le singole parole e addirittura la punteggiatura.

In un editoriale apparso il 26 novembre su Domani[1], Cotugno scrive chenon c’è leva di marketing, o politica, o economica, che non tenteranno di usare gli oltre seicento lobbisti che si aggiravano per la COP27, ma anche la retorica saudita ai tavoli negoziali per concentrarsi sul clima e non parlare di specifiche fonti di energia. Volevano che i combustibili fossili rimanessero fuori dalla bozza di accordo e ci sono riusciti”. Diverse sono le analisi a livello mondiale apparse sui più importanti quotidiani, dice Cotugno, “su come funziona lo sforzo dell’Arabia Saudita (e del suo «rinascimento»), di continuare a perpetrare la dipendenza globale da petrolio per decenni, ben oltre qualunque margine per avere un aumento della temperatura entro il limite di 1,5°C. Saudi Aramco, l’azienda petrolifera di stato, già oggi produce un barile di petrolio su dieci. Non esiste un futuro sostenibile se questa produzione non cala: è questo il mandato della scienza. Ma negli ultimi cinque anni i soldi del regime saudita hanno prodotto 500 studi universitari per dimostrare il contrario, gettando dubbi sull’elettrificazione dei trasporti, promuovendo benzine alternative o addirittura sistemi di cattura delle emissioni mobili da inserire sui tubi di scappamento dei veicoli”. “Solo negli Stati Uniti – continua Cotugno – il regime saudita ha pompato 2,5 miliardi di dollari negli atenei. Secondo una nota ufficiale del ministero dell’Energia «gli idrocarburi devono continuare a essere una parte essenziale del mix energetico globale per decenni». Il paradosso è che l’Arabia Saudita sta lavorando per arrivare a produrre metà della sua elettricità da fonti rinnovabili nel 2030. Il punto, però, non è quello che fai a casa tua. Il punto è il petrolio che continui a estrarre e vendere nel mondo”.

Ma cosa è successo realmente a Sharm el Sheikh?
Ne scrive Gwynne Dyer, che commenta i risultati della COP su Politics, in un articolo ripreso da Internazionale.it. “Dopo lunghe trattative, anche notturne, i presenti sono riusciti a concordare la creazione di un nuovo fondo che compensi i paesi poveri di loss & damage (perdite e danni) subiti a causa di eventi climatici estremi. Il denaro verrà dai paesi sviluppati le cui emissioni passate e attuali sono all’origine dei danni provocati, e – dice il giornalista canadese – dovrebbero bastare altri due o tre anni per istituire la nuova agenzia per perdite e danni”.

Il risultato della Conferenza è confermato anche da Sofia Belardinelli, che, sul sito di Micromega (https://www.micromega.net/ambiente/), scrive del “successo raggiunto al termine dei negoziati in una delle COP sul clima più lunghe di sempre, storica per alcuni aspetti, ma deludente sotto moltissimi punti di vista. Tra i principali successi raggiunti va senz’altro annoverato il fatto che nel testo finale sia stata inserita la risoluzione di istituire un fondo economico internazionale per far fronte alle perdite e ai danni causati dal cambiamento climatico. In tal modo, viene per la prima volta riconosciuta ufficialmente la centralità della giustizia climatica, che porta con sé il riconoscimento implicito della diversa ripartizione delle responsabilità storiche nell’aver causato i cambiamenti climatici. Di questo successo – scrive Belardinelli – hanno gioito soprattutto i paesi in via di sviluppo, che si trovano nella posizione di essere al tempo stesso coloro che hanno meno contribuito a causare l’attuale crisi climatica ma che ne pagano, già oggi, le più aspre conseguenze”.

“La creazione del fondo loss & damage è il più grande risultato di giustizia climatica mai ottenuto, ribadisce Cotugno. “In cambio si è dovuto rinunciare a sforzi più incisivi sulla mitigazione, rinviando il tutto a Cop28, ma c’è una cosa che non si deve sottovalutare: il fondo danni e perdite è anche uno strumento di mitigazione”, e poi “questa gigantesca opera di responsabilizzazione degli inquinatori è anche una vittoria dell’attivismo e della società civile ambientalista. Per trent’anni i paesi industrializzati avevano ignorato la questione danni e perdite perché non volevano prendere atto delle conseguenze della crisi climatica. A Sharm el-Sheikh hanno dovuto farlo, ed è stato un grande risultato”. Si può dire che a Sharm el-Sheikh “un pezzo di colonialismo è finito”, perché gli Stati Uniti e l’Unione Europea “hanno dovuto non solo concedere il fondo, ma anche accettare una decisione a cui erano contrari senza ricevere nulla in cambio”.

“E’ anche una questione culturale”, afferma sempre Cotugno nell’intervista a Radio 3 Scienza. Nei paesi «occidentali», il Nord del mondo, si è ancora abituati a vedere la crisi climatica come qualcosa che riguarda il futuro, nei paesi del Sud come qualcosa del presente. Il Nord del mondo “vive ancora come si fosse nell’ultimo dopo-guerra”. Un profondo cambiamento è quindi necessario.

E una spinta in questo senso è venuta dalla grande sorpresa di questa COP, la vera leader del fronte dei “vulnerabili”, Mia Mottley, premier delle Barbados. “È stata lei – scrive Sara Gandolfi, inviata del Corriere della Sera – a lanciare una proposta nuova e dirompente sulla finanza climatica e sulla riforma dei prestiti internazionali, che sarà sicuramente e presto al centro del dibattito mondiale”, raccogliendo una standing ovation quando in sessione plenaria ha spiegato “come una tassa del 10% sui profitti delle grandi aziende produttrici di combustibili fossili avrebbe contribuito alla finanza per il clima con ben 37 miliardi di dollari nei soli primi 9 mesi di quest’anno. Cifra che equivale più o meno alle perdite economiche dell’alluvione in Pakistan”.

Mottley, scrive invece Repubblica.it, nota per gli impegni climatici promossi dalla sua isola e per il programma Roof to Reefs di protezione della biodiversità, è stata inclusa fra i “campioni della Terra” delle Nazioni Unite, e c’è chi la vede come futura segretaria generale dell’Onu. Il Time poi l’ha inclusa tra le 100 persone più influenti del mondo. Ma a lei interessa soltanto una cosa: “In questo mondo possiamo avere un senso di responsabilità verso il nostro ambiente, ma anche verso le generazioni future. Ecco cosa desidero più di tutto”.

Intervenendo a Radio 3 Scienza, Serena Giacomin, climatologa, presidente dell’Italian Climate Network, il movimento italiano per il clima, fa presente invece come si parli di “mitigazione e adattamento, ma ancora poco di riduzione dell’uso dei combustibili fossili” e come “occorra più coraggio da parte delle grandi economie del mondo che devono prendersi maggiori responsabilità nel cambiamento”, considerando che “la permanenza della CO2 in atmosfera può arrivare anche a 100 anni!”.

Anche in questa edizione i 35.000 delegati in rappresentanza di 195 nazioni non sono riusciti a mettersi d’accordo sul fatto che il mondo debba smettere di bruciare combustibili fossili per produrre energia e a definire azioni decisive e immediate per contenere l’innalzamento delle temperature entro il grado e mezzo previsto come limite dagli Accordi di Parigi del 2015. Altrimenti nel 2100 vivremo in un modo più caldo di 2,4-2,8 gradi. “Questo – scrive sempre Gwynne Dyerè ciò che si ottiene quando un’istituzione globale è governata dal consenso.
Tutti hanno diritto di veto, compresi i paesi che dipendono dal carbone, dal gas e dal petrolio, e gli interessi a breve termine di alcuni (denaro e rapida crescita economica alimentata dai combustibili fossili) si scontrano con l’interesse a lungo termine della collettività”. “Questo è il prezzo da pagare per appartenere a una specie che sta ancora emergendo da un lungo passato tribale e che ha sviluppato una civiltà ad alta tecnologia e ad alta energia prima ancora di essere culturalmente attrezzata per gestirla”, argomenta il giornalista.

Marinella Correggia sul Manifesto del 19 novembre parla di una COP senza accordo, e riporta una dichiarazione del vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans sulla questione del fondo per i disastri climatici chiesto dal blocco G77+Cina. La mossa a sorpresa dell’accettazione viene giustificata così da Timmermans: “Non eravamo convinti dell’utilità di un Fondo ad hoc per le perdite e i danni causati da eventi climatici nei paesi più vulnerabili, ma siccome i G77 sono affezionati all’idea, li abbiamo ascoltati”. Motivazione quanto meno bizzarra!
“La proposta europea, continua Correggia, oltre a circoscrivere i destinatari ai «paesi più vulnerabili», impone «precise condizioni», e proponendo quello che chiama un «accordo pacchetto», chiede in cambio maggiori ambizioni da parte di tutti nel taglio delle emissioni e pretende una base di donatori ben più ampia rispetto al blocco occidentale”.

Meena Raman, coordinatrice della rete di attivisti Third World Network, cogliendo il nodo della questione, evidenzia che “la scala dei disastri è così enorme che i paesi sviluppati ne temono le implicazioni finanziarie”. Ma la proposta Ue aveva anche lo scopo di rompere l’asse negoziale G77 e Cina, mettendo nell’angolo quest’ultima che sarebbe vincolata sia a target nelle emissioni nazionali sia a esborsi finanziari per il loss and damage.
Un negoziatore cinese sulla questione ha infatti dichiarato: “Anche noi siamo un paese in via di sviluppo e subiamo enormi danni climatici”. Il paese, pur essendo ormai al primo posto al mondo quanto a emissioni totali (ma non a quelle pro capite), nella Convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici del 1992 era classificato fra quelli in via di sviluppo, e finora aveva evitato l’obbligo di contribuire alla finanza climatica per i più poveri.

Visti i tanti nodi sul tappeto, quando ormai si era giunti al termine previsto della Conferenza, la presidenza egiziana ha annunciato che i negoziati sarebbero continuati oltre i termini. Questo anche a causa del silenzio degli Stati Uniti sulla proposta europea; Stati Uniti che più di tutti dovrebbero contribuire al Fondo, a cui lavorerà un Comitato di transizione con 24 paesi membri e che sarà reso operativo entro fine 2023. “Per ora, è il commento del think tank Power Shift Africa (https://www.powershiftafrica.org/), abbiamo una cassaforte vuota”. Chi darà, chi riceverà, come, quando e quanto si chiedono in molti, specie tra i rappresentanti dei paesi più vulnerabili. “Del resto – aggiunge Correggia – sempre più lobbisti del fossile (sponsor a parte) affollano le annuali conferenze al capezzale del clima”, a cominciare da Hill & Knowlton, l’agenzia multinazionale di pubbliche relazioni con oltre 80 uffici nel mondo, che ha curato la comunicazione per la conferenza delle parti COP27 a Sharm el Sheikh, malgrado i suoi decenni al servizio della disinformazione e greenwashing dei suoi clienti fossili.

Massimo Tavoni e Pietro Andreoni, in un lavoro presentato sul sito de lavoce.info[2], hanno mostrato come la scienza economica del clima, sviluppatasi di recente, permetta di quantificare, seppure con margini di incertezza, i rischi economici legati al cambiamento climatico e di identificare sistemi di finanziamento compensativi. Una delle ragioni per cui le negoziazioni alla COP hanno proceduto molto lentamente “è che quantificare i danni dei cambiamenti climatici e le relative richieste finanziarie è un compito complesso”. L’Agenzia europea per l’ambiente ha stimato una cifra di mezzo trilione di euro per la sola Europa negli ultimi 40 anni.

Sul sito greenreport.it[3] del 20 novembre è invece descritta la delusione del segretario generale dell’ONU, António Guterres, per i limitati risultati raggiunti, dopo i due giorni in più di drammatici negoziati in cui è stato raggiunto l’accordo che ha stabilito il meccanismo di finanziamento per compensare i vulnerabili per “perdite e danni” dovuti ai disastri indotti dal clima. Il luogo dove si è tenuta la Conferenza delle Nazioni Unite, non lontano dal Monte Sinai, ha ricordato Guterres, “è appropriato per parlare di una crisi di proporzioni bibliche i cui segni sono ovunque, come ci indicano le vittime delle recenti inondazioni in Pakistan che hanno inondato un terzo del Paese”. “Dobbiamo ridurre ora e drasticamente le emissioni (oltretutto alla luce dei nuovi report IPCC usciti quest’anno sempre più duri e incalzanti), e questo è un problema non affrontato da questa COP, anche se è stato compiuto, ma non sarà sufficiente, un passo importante verso la giustizia accogliendo la decisione di istituire un fondo per perdite e danni e di renderlo operativo nel prossimo periodo, e che ha permesso di evitare, in extremis, il totale fallimento dell’incontro”.

Facendo riferimento a Maurizio Pallante, fondatore del Movimento per la decrescita felice, e al suo libro «L’imbroglio dello sviluppo sostenibile»[4], Costantino Cossu, sul Manifesto del 23 novembre, nell’articolo «L’ambiente e la crescita non vanno a braccetto. L’inganno delle COP», riprende le parole di Guterres. “Il tentativo di tenere insieme la crescita economica con la sostenibilità ambientale, cioè il cosiddetto sviluppo sostenibile, è stato l’obiettivo delle ventisei Conferenze delle parti che si sono svolte a partire da quella sull’ambiente e lo sviluppo organizzata dall’Onu a Rio de Janeiro nel 1992. Poiché la crescita economica è la causa dell’insostenibilità ambientale, i due obiettivi sono inconciliabili, come dimostra il fatto che dal 1992 la crisi ecologica si è aggravata”.

L’agire umano – afferma Pallante – in particolare quello economico, non è più ambientalmente sostenibile. In altri termini, sviluppo economico e mantenimento degli equilibri ecologici sono incompatibili. Perciò parlare di sviluppo sostenibile è una truffa, alla quale si prestano persino molti ambientalisti”. Allora tutti “i tentativi di frenare la corsa verso il disastro ambientale che non prevedano una riduzione, ragionata e programmata a livello globale, della crescita economica sono inefficaci. Tutt’al più rallentano quella corsa, ma non la arrestano”.
L’esempio più stringente è quello delle fonti energetiche rinnovabili: eolico, fotovoltaico e idroelettrico. Per attenuare l’effetto serra “la strada maestra non è la ricerca di fonti pulite che consentano di accrescere l’offerta di energia riducendo al contempo le emissioni di gas climalteranti. Questo è necessario, ma non basta”. Secondo Pallante “per portare nuovamente in equilibrio il rapporto tra attività umane e ambiente occorre ridurre la domanda complessiva di energia”, attraverso un modello di decrescita che introduca “criteri qualitativi nella valutazione delle attività produttive e quindi di riduzione selettiva del Pil facendo scendere la quantità delle merci inutili e dannose che peggiorano le condizioni di vita: la decrescita allora non è il meno contrapposto al più, ma il meno quando è meglio”. Un argomento molto complicato da affrontare, mentre si preferisce puntare ad una transizione verso modelli produttivi che riducano drasticamente le emissioni solo attraverso soluzioni tecnologiche.

A conclusione di questa rassegna, qualche annotazione sulla partecipazione italiana alla Conferenza di Sharm el-Sheikh. Cosa ha fatto e quale ruolo ha svolto il governo italiano? Molto poco, viene detto dai vari osservatori e commentatori, specie nella fase più “politica” del negoziato dove i nodi tecnici andavano risolti politicamente. Se le figure più importanti dei governi europei, ministri e vice-ministri dell’ambiente, sono state presenti e hanno partecipato concretamente ai tavoli delle contrattazioni, per l’Italia nessuna figura di rilievo del governo ha seguito le fasi cruciali del negoziato e senza un’agenda per seguire i lavori: è di fatto mancata la presenza italiana.

Il ministro dell’Ambiente e della Sovranità Energetica Gilberto Pichetto Fratin – si legge sul sito del giornale on-line fanpage (www.fanpage.it/)[5]  – lascia la COP27 prima dei negoziati decisivi, e il governo di Giorgia Meloni è l’unico tra i grandi paesi industrializzati a non gestire direttamente i negoziati più importanti sul futuro del mondo”.
Alessandro Modiano, ex ambasciatore in Egitto nel ruolo di inviato per il clima e capo delegazione per l’Italia è l’unico rimasto a Sharm el-Sheikh, ma con un mandato debole e senza ruoli politici nel nuovo governo. “L’Italia – scrive fanpage – che dovrebbe essere preoccupata dei cambiamenti climatici al pari di altri paesi europei e del mondo, è anche la prima linea dell’Europa per quanto riguarda un altro fenomeno che è destinato ad aumentare in maniera significativa: quello dei migranti climatici, la cui spinta non può che essere destinata ad aumentare”.

ECCO, think tank italiano dedicato alla transizione energetica e ai cambiamenti climatici (https://eccoclimate.org/it/), a pochi giorni dall’insediamento del nuovo governo, rilevava “impegni vaghi e una scarsa attenzione all’agenda climatica da parte della premier e della sua maggioranza, a cominciare da una «sorta di reticenza nell’identificare la decarbonizzazione quale variabile chiave per ridisegnare i sistemi energetici nazionali»
La priorità dell’azione di governo sembra essere il «perseguimento della sicurezza energetica indipendentemente dalla tipologia delle fonti di energia e a prescindere dalle ricadute sul clima». A ben vedere, conclude fanpage, “l’impegno del governo a COP27 è andato esattamente così, e di fatto il risultato più importante di Meloni è stato quello di aprire alla collaborazione sul gas con l’Egitto, dopo due parole di circostanza sui casi Zaki e Regeni”.

Il sito greenreport.it riprende il tema del ruolo e della presenza italiana alla COP27 partendo da quanto ricordato dal direttore delle Campagne di Greenpeace Italia, Alessandro Giannì, relativamente alle affermazioni di Giorgia Meloni che, intervenendo al vertice sui cambiamenti climatici di Sharm El-Sheik, ha dichiarato “al mondo intero che l’Italia farà la sua parte per il clima”. Ma in che modo? Puntando su trivelle, rigassificatori e depositi di gas e continuare a favorire le solite compagnie che stanno macinando extraprofitti miliardari?
Il che vuol dire – conclude Giannì – “ignorare gli urgenti appelli della comunità scientifica che ci invita ad abbandonare al più presto i combustibili fossili”.

Note:

[1] https://www.editorialedomani.it/ambiente/cop27-lezioni-fossili-loss-damage-cina-torino-inquinamento-newsletter-cg3ov1m6.
[2] https://www.lavoce.info/archives/98787/dalleconomia-del-clima-un-aiuto-ai-negoziati-sulle-compensazioni/
[3] grennreport.it, quotidiano on-line per un’economia ecologica – https://greenreport.it/news/clima/il-quasi-fallimento-della-cop27-solo-un-piccolo-passo-aventi-verso-la-giustizia-su-perdite-e-danni/.
[4] L’imbroglio dello sviluppo sostenibile, di Maurizio Pallante, LiNDAU, 2022.
[5] https://www.fanpage.it/attualita/la-cop27-decide-il-futuro-del-mondo-ma-il-governo-italiano-vola-via-al-momento-dei-negoziati/