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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


FANTASMI
Pareidolie (Seconda parte)

Parte 2 

Dal primo giorno, tutti i giorni a partire dalle sette di sera quando la biblioteca chiude al pubblico, Rosa Wolfe, che mi ha preso in grande simpatia, mi racconta un mucchio di storie interessanti. Interessanti non dice abbastanza, perché Rosa diventa ogni giorno più misteriosa, quindi profetica, infine apocalittica. Su Truro, questa sarà la sua conclusione, si sta addensando un “cataclisma psichico”. Usa proprio questa espressione, impropria, disturbante. Secondo lei, da forestiero e da giornalista, io solo posso fare qualcosa per evitarlo. La cosa mi imbarazza, sarà anche un po’ eccentrica, o una spostata, ma Rosa mi piace. E sento confusamente che “non è solo matta”, che c’è qualcosa di troppo strano a Truro per non portare a un qualche male.
Ma ora è ancora la mia prima sera, la bibliotecaria incaricata mi accompagna fino all’uscita. “Se ti va di ascoltare altre frottole, io domani sono sempre qui”, ride, forse mi prende solo in giro, come si fa con chi arriva da fuori. Sono le dieci e mezza, senza rendermene conto sono rimasto in biblioteca quasi quattro ore; è buio pesto, e domattina comincia il campionato. Alle 7 in punto.

Capisco l’impazienza del lettore, sempre che il campionato pareidolico abbia suscitato in lui un qualche interesse. Forse mi sono disperso troppo, ho imboccato viottoli laterali, ho divagato, sono andato fuori dal seminato. Mi succede, mi succede spesso, ma come dice il mio caporedattore, alla fine il cerchio si chiude sempre. E quando si chiude? Ora si chiude. Infatti, ecco che vi presento i sette concorrenti e le loro precipue caratteristiche e straordinarie abilità.
Numero uno: Il Polacco, quello con gli occhi bianchi che avevo intervistato al mio arrivo. Circa sessant’anni, un aspetto da profugo dell’est, voce stridula, sguardo allucinato. La specialità del polacco sono i felini. Lui nelle nuvole vede, immagina – millanta? – solo rappresentanti della famiglia dei felini, dal gattino miagolante fino al leone rampante in varie pose e maniere.
Poi c’è l’Inglese, le sue pareidolie si concentrano su treni, locomotive e vagoni di ogni marca, epoca e fattura. Il numero 3, il Gallese, nelle nuvole vede animali mitologici, preferibilmente divinità olimpiche e costellazioni.
Veniamo all’Irlandese: la sua specialità sono le figure della mitologia silvestre e celtica in particolare (quelle sopra elencate ed altre ancora).
Il Bretone invece è specializzato in grandi personaggi storici; al precedente Campionato Mondiale fece scalpore la sua performance: in una settimana vide 43 volte Napoleone in diverse fogge e posture. Perché questa ossessione per Napoleone? Gliel’ho chiesto, e la risposta mi ha spiazzato: “Perché Napoleone Bonaparte non è Corso, in realtà è nato in Bretagna”.
Che potevo dirgli? Nulla, ho girato l’angolo e ho cercato il sesto concorrente, l’Islandese, un tipetto scontroso, spigoloso, irsuto, non privo però di una asprigna eleganza: le sue nuvole sono popolate da foche giocherellone e da orsi polari. Bianchi naturalmente, e proprio su quel bianco Il Bretone aveva avuto in passato da eccepire e aveva protestato con la giuria. La tesi bretone era che vedere un orso bianco su una nuvola bianca significava un vantaggio indebito per il concorrente islandese. Lui, sosteneva, faceva cento volte più fatica a vedere il Bonaparte di quanto non ne facesse il piccolo Islandese con un semplice orso bianco.
Dopo averne discusso per tre ore, i tre vecchietti del comitato organizzativo, che funge anche da Giuria inappellabile, aveva respinto il ricorso. Come a dire: uno nelle nuvole ci può vedere ciò che più gli aggrada: “Perché, senza attenersi a un’assoluta libertà, ogni pareidolia si dissolve nell’aria”, leggo nel verdetto.

Manca solo il settimo, Il Praghese, nazionalità ceca ma di lingua tedesca e mamma ebrea (“lo sa, sono un lontanissimo cugino di Franz Kafka”). E’ lui  il fuoriclasse, il campione in carica, il vincitore di due delle tre edizioni già disputate. Si chiama Laszlo Hazek e decido di passare con lui la prima giornata di gara. Di lui mi aveva parlato malissimo la bibliotecaria. Quando aveva pronunciato il suo nome, avevo visto un tremito percorrere la signorina Wolfe dall’alto al basso, dalla cima della testa bionda cotonata agli stivaletti neri senza tacco.
Laszlo mi da dà appuntamento alle 7 precise davanti alla cattedrale, munito di bicicletta, borraccia e qualche sandwich. È vestito in abiti scuri e assurdamente pesanti, in cima alla testa a pera un cappellaccio nero a larga tesa.
Il polacco mi stava ancora esponendo la sua teoria sul Triangolo Magico, ma arriva lo sparo del presidente della giuria, allora mi congedo in fretta e per accodarmi alla bicicletta di Laszlo che punta deciso verso la campagna e il mare.
È una giornata di mezzo sole e vento leggero. Superiamo un piccolo dosso, basse sull’orizzonte ecco le prime nuvole. Laszlo si ferma, le osserva per qualche minuto, scuote la testa e riprende a pedalare. Anche se sono solo un neofita, mi sto appassionando al tema, punto il naso in alto e nel cielo vedo chiarissimamente un treno a vapore, con tanto di locomotiva sbuffante e tre vagoni al seguito. 
Ma intanto il Ceco mi ha già staccato, forse l’ho perso in quell’intrico di stradine; finché lo ritrovo fermo dietro una doppia curva, lo sguardo assorto, in una mano un taccuino, nell’altra una piccola matita. Non sembra un tipo molto socievole questo Laszlo, ma io devo fare il mio lavoro, e allora domando: “Sta annotando il suo primo avvistamento?”. Mi risponde in un inglese stentato, e mi accorgo che la sua voce è cambiata, assomiglia a qualcosa di inanimato, a una frana di pietre che rotola nella pioggia, o a un rantolo affannoso, al sibilo di un asmatico. Laszlo smette di scrivere e si volta verso di me: “Oggi si comincia bene, sono già al numero 9, e se la fortuna continua a assistermi…”.

Rifletto… 9 pareidolie, dico NOVE, e in meno di mezz’ora! Ma chi controlla la regolarità degli avvistamenti?
Non vedo nessun giudice all’orizzonte, nel raggio di chilometri ci siamo solo io, Laszlo e le nostre biciclette. Con tutto il rispetto per il campione, mi sembra che Lazlo l’abbia sparata grossa, come Giovannino senza paura che stermina le mosche posate sul cacio fresco: Sette in un colpo! Allora anche io potrei dire di aver visto in cielo non un treno ma un’intera stazione, un deposito ferroviario, una fabbrica di treni.
Devo assolutamente chiarire la cosa con la giuria. Ma intanto Laszlo è ripartito in direzione sudest, e io dietro, mentre il vento rinforza e il cielo si affolla di nubi. Lazlo sembra instancabile. Solo dopo una quantità non numerabile di strade, stradine, viottoli, andate e ritorni, curve, salite e discese, e nuvole naturalmente, alle sei e mezza del pomeriggio prendo congedo da Laszlo (lui andrà avanti fino al tramonto) per tornare in Truro e infilarmi in biblioteca.

Non so come sia andato il primo giorno di caccia degli altri concorrenti, ma la performance venatoria di Laszlo fa impressione. O bisognerebbe chiamarla pesca miracolosa? Devo credere o diffidare? Entro in biblioteca e mi butto sopra una sedia, stanco da morire. stanchissimo. Alla mia amica Rosa Wolfe, tenutaria della biblioteca e depositaria della memoria loci, ho però alcune domande da porre. La giornata in compagnia del praghese mi ha ingarbugliato i pensieri. Le chiedo se devo credere a tutti gli avvistamenti, e cosa avvista questo misterioso Laszlo, animali, piante o persone? “Non l’ha ancora capito? Lui nelle nuvole vede le persone che se ne sono andate”. Ancora non capisco. Rosa abbassa il tono della voce: “Lui vede quelli che non ci sono più, quelli che se ne sono già andati dall’altra parte”; e in un sussurro: “Lui vede i morti”. Perché, mi spiega, il praghese non è solo un esperto di nuvole presenti e viventi, lui è un evocatore, un tramite, una specie di medium. “Per questo Laszlo è pericoloso, molto pericoloso. Lui gioca col fuoco, capovolge il mondo.”.

La paffuta Rosa Wolfe sembra improvvisamente spaventata, mi correggo, Rosa Wolfe è in preda al terrore. terrorizzata: “Dobbiamo sperare solo che non succeda…”. Allora mi ribello a quel dire e non dire: MA SUCCEDA COSA? COSA CAZZO DEVE SUCCEDERE? Questo Rosa  non me lo dice, forse perché nominare una cosa può contribuire a farla accadere.

Mi è passata la fame, non ho nemmeno sonno, penso a Laszlo e a Rosa; le loro parole, gli sguardi, i silenzi mi hanno messo una pietra sullo stomaco. Come Primo Giorno può proprio bastare. Raggiungo la locanda, è una notte chiara illuminata da un miliardo di stelle, ma questa volta non riesco a sentire nessun incanto, nessuna emozione davanti a quella esibizione di infinito. C’è qualcosa di strano, e anche le stelle non mi sembrano le solite stelle. A Londra sono abituato a vederne una ogni tanto, qui invece si esagera.
Attraverso la piazza notturna di Truro a piedi, lentamente, tengo la bicicletta con la mano destra, come un cavallo alla briglia. In una frazione di secondo tutto si illumina a giorno, dal campanile all’ultimo granello di ghiaia. Accecato, lascio cadere a terra la bicicletta, e prima che raggiunga il selciato mi raggiunge un tuono spaventoso, e subito dopo un vicinissimo schianto, come se i tedeschi avessero minato la Torre di Londra.
Di quel fulmine a ciel sereno vedrò gli effetti la mattina dopo. La quercia secolare alle porte della cittadina è stata squarciata da una bomba di fuoco. I resti del suo tronco enorme e nero continueranno a fumare per tutta la settimana.

continua …

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FANTASMI
Pareidolie (Prima parte)

 

Pareidolìa: s.f. [comp. di para- e gr. εἴδωλον «immagine»]. – Processo psichico consistente nella elaborazione fantastica di percezioni reali incomplete, non spiegabile con sentimenti o processi associativi, che porta a immagini illusorie dotate di una nitidezza materiale (per es. l’illusione che si ha, guardando le nuvole, di vedervi montagne coperte di neve, battaglie, animali, ecc.).
Vocabolario Treccani

Truro (GB), 09.07.18: Quest’anno, per l’ultima e decisiva prova del massimo campionato erano rimasti in sette, un buon numero tutto sommato. Nella precedente edizione – nel 2005, la bellezza di tredici anni fa, vista la singolare periodicità di questa singolare specialità – i finalisti erano solo cinque, nel 1991 si qualificarono in nove, ma solo in tre nel 1978. Ecco, la statistica è già finita: nella seconda settimana di luglio, a Truro in Cornovaglia, sta per iniziare il IV Campionato Mondiale di Pareidolie.

Mentre scrivo, sopra Truro e fuori dal borgo, sopra i suoi piccoli campi cintati e i suoi pascoli, lungo il corso del River Fal, verso la grande ansa di Carrick Roads, e giù, fino alle scogliere bianche e al mare blu cobalto e bianco di schiuma, sopra tutto questo verdeazzurro splende un bel sole arrampicato sulla cima di un cielo altissimo e vuoto; il vento soffia forte e intermittente. Truro è un’antica, graziosa e sperduta cittadina della Cornovaglia, “la capitale della Cornovaglia” come vogliono i suoi ventimila abitanti; e io sono qui, presente!, per documentare questa stranezza. Sinceramente avrei preferito pericoli e gloria di una corrispondenza di guerra, ma qualcuno doveva pur venirci a Truro; il caporedattore mi ha guardato dritto negli occhi, l’ultimo arrivato, il pivellino, e ha mandato me per un bel pezzo di colore: “Non più di cinque cartelle, un po’ di folclore locale, un paio di interviste a quei pazzerelli dei concorrenti”. E le foto naturalmente – “Ne voglio almeno una con una bella nuvola bianca in primo piano.”
No, niente pericoli e niente gloria. Ma poteva andarmi peggio, di manifestazioni strane e bizzarre – ma sì voglio dirlo: idiote – se ne celebrano a ogni latitudine e in ogni mese dell’anno. Potevano spedirmi al Campionato dei Brutti, al Naso più grosso, alla Barba più dannatamente lunga. Invece a Truro il tema principale, il tema unico direi, almeno per una settimana, saranno le nuvole. Poetico vero? Nemmeno per sogno. Di nuvole e di pareidolie si interessava anche Jung. E comunque qui a Truro fanno maledettamente sul serio. Me ne accorgo subito, mentre la prima mattina aspetto il via ufficiale della competizione – funziona così: il giudice spara in aria un colpo tremendo con una pistola anteguerra, ma si può? manco fosse la finale dei cento metri piani – intanto cerco di avvicinare qualcuno dei concorrenti per una prima intervista. È o non è il mio mestiere?

Aspettate, c’è prima una domanda da evadere. E cioè: perché proprio a Truro? A leggere il comunicato stampa stilato dal Comitato Organizzatore – tre vegliardi che paiono usciti dalle file dell’esercito di Cromwell – la spiegazione è molto semplice. A Truro, come in tutta la Cornovaglia, soffia sempre il vento e il cielo è pieno zeppo di nuvole. Nuvole in gran movimento, visto il vento di cui sopra. Obietto, da perfetto profano, che vento e nuvole hanno il difetto di portare pioggia. Ma il vegliardo presidente, il meno suonato del trio, ha la risposta pronta: “Vede carissimo, è appunto per questo che abbiamo scelto la seconda settimana di luglio. Secondo le statistiche, in questa settimana a Truro non piove mai, o insomma… quasi mai. Per cui avremo sole, vento forte e nuvole a volontà”. “E su che dati vi basate?”, gli chiedo. “Dati certi ragazzo – e il vecchiaccio mi regala un sorriso composto da tre solitari faraglioni – la fonte è il nostro registro parrocchiale, compilato quotidianamente e con diligenza fin dal 1347”. Insomma, schifando la moderna scienza metereologica, il Comitato Organizzatore aveva trovato adeguate rassicurazioni nel registro del priorato della cattedrale di Truro. Secondo il quale, negli ultimi 80 anni, nella seconda settimana di luglio a Truro si erano registrati solo 2 giorni di fitta foschia, 4 temporali estivi, 11 brevi piogge e un uragano, uno solo però. Quand’è così.

La storia climatica, non ci metto molto ad accorgermene, ne nasconde altre e più succose. Truro non è proprio una cittadina qualsiasi. Ecco un breve e incompleto elenco delle sue stranezze. Per cominciare, nella piazza di Truro, a varie riprese, sono state messe al rogo un totale di 13 streghe. Va bene, quelli erano tempi bui. Allora parliamo di questi tempi. I casi locali di follia, ma chiamiamoli ricoveri per gravi disturbi mentali, risultano essere il doppio della media nazionale inglese. I fantasmi in attività e in circolazione (raccolgo il dato da un puntiglioso libretto edito a Truro nel 1978 a spese dell’autore) raggiungono le 44 unità, comprese le streghe di cui sopra. Circa la metà degli abitanti, più o meno di 10.000 persone, vecchi e bambini inclusi, presenta sintomi di claustrofobia, il 15% di loro in forma grave.
Poi ci sono “gli altri abitanti”, quelli propriamente o ingiustamente detti fantastici, o semplicemente buffi, se il sovrannaturale non vi fa neppure il solletico; oppure vivi e vegeti, se almeno un po’ vi piace crederci. Ma in ogni caso presenti e “disturbanti” gli abitanti di Truro e dintorni. Qui dimorano tutti, ma proprio tutti i rappresentanti della mitologia silvestre celtica: fate, banshees, folletti, elfi, gnomi, leprecauni e cluricauni. Se ho dimenticato qualcuno, mi scuso con voi e con lui. Ma perché tutti qui a Truro? Forse il Sidhe, l’oltretomba celtico, così colorato e felice, ha una porta d’uscita proprio in questo pezzo di Cornovaglia? C’è qualcuno che lo sostiene. In tutti i casi, a prestar fede a quello che scrivono i cultori di questa variopinta fauna, per gli umani che devono conviverci giorno e notte, la vita può diventare un vero tormento. Come difendersi? Un signore molto distinto mi informa che, nel caso fossi interessato, a un’oretta di cammino da Truro vive e presta i suoi servigi, a prezzi modici, un potente Druido. L’ultimo della Cornovaglia.
Alcune sette esoteriche – quante, dove, quando? Non è dato sapere, trattandosi per l’appunto di sette segrete – sostengono che Truro rappresenti l’ideale completamento del celebre Triangolo Magico. “Le dirò di più” – mi dice il concorrente polacco, un uomo con due occhi senza pupilla, talmente chiari da sembrare bianchi – “Truro non rappresenta il quarto punto, perché il triangolo deve rimanere triangolo, e non già diventare un quadrato. Il fatto è che, con Torino e Praga, è proprio Truro il vertice del Triangolo Magico. E basterebbe fare due calcoli fatti bene per eliminare Lione e collocare nel terzo vertice il legittimo proprietario”. Che ovviamente sarebbe Truro.

A Truro c’è una graziosa public library che ho subito visitato. Lì ho raccolto la gran parte delle informazioni e, come sempre avviene, la verità storica assieme all’immaginazione, le leggende con le dicerie, i miti, perfino le balle colossali. Lo avrei fatto comunque, amo le biblioteche con tutto il mio cuore, ma quello che volevo, dopo aver dato una bella guardatina al patrimonio librario, era incontrare e parlare con la bibliotecaria, la signora Rosa Wolfe. Sapevo bene che nella campagna inglese il bibliotecario è di gran lunga “la persona più informata dei fatti”. Più del prete, più del medico condotto, e senza nessun obbligo al silenzio da dover rispettare.
Rosa Wolfe ha un’aria tonda e gioviale. Nessuna somiglianza o parentela ma un viscerale amore per la grande Virginia, che pure a lungo ha abitato in Cornovaglia. Rosa è una bibliotecaria fatta e finita, in servizio da oltre trent’anni; ama i suoi libri, ama i suoi lettori, ama la catalogazione, ama le statistiche dei prestiti librari. Il vanto della sua biblioteca? Naturalmente il “Fondo Storico e Locale”, più di seicento volumi ed opuscoli, comprese due Seicentine. “Ma il parroco si è voluto tenere in canonica almeno una cinquantina di volumi antichi e rari.” A questo punto Rosa Wolfe si infervora: “Sto parlando di incunaboli, ha capito cosa intendo, incunaboli! E quel tipo li tiene chiusi a chiave nel suo studio, sottraendoli al pubblico degli utenti e degli studiosi”.
Annuisco gravemente e Rosa sembra sollevata dalla mia intima partecipazione alla sua pena. Ormai siamo diventati amici e lei potrà  aprirmi serenamente il suo cuore. Intanto mi presenta l’altro vanto della biblioteca contrassegnato dalla sigla FOIN, cioè a dire  il “Fondo Oltre Il Normale”. Sono senza parole, il FOIN non sta in uno scaffaletto ma occupa due intere pareti: 2.823 documenti, oltre un terzo dell’intero patrimonio della biblioteca.

continua domani …

 

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Festivaletteratura presenta la 25ª edizione

Da Ferrara a Mantova, città gemelle, il passo è breve. Quindi anche Ferraraitalia sarà presente con i suoi redattori ad alcuni degli appuntamenti della 25° edizione del più longevo, importante e creativo festival di letteratura. 

Come da tradizione, con una serata aperta dalla lettura della lista degli autori e autrici ospiti, il Festival presenta i protagonisti, le tracce e le novità dell’edizione 2021
Martedì 29 giugno 2021, ore 21.00
Bike-In, Campo Canoa, Via Legnago 1 – Mantova
(Ingresso libero)
L’incontro verrà trasmesso in streaming sulla pagina Facebook e sul canale YouTube del Festival

Dall’8 al 12 settembre 2021 il Festival, tra incontri in presenza, progetti digitali e la sua radio, racconterà il nostro tempo tra emergenze ambientali, questioni identitarie e geopolitiche, memorie del presente, urgenze narrative e poesia www.festivaletteratura.it

Mantova 22 giugno 2021
Martedì 29 giugno alle ore 21.00 negli spazi di Bike-In, nella suggestiva cornice di Campo Canoa a Mantova, Festivaletteratura svela al pubblico gli ospiti di una 25ª edizione che si annuncia già ricca di appuntamenti, con incontri, reading, percorsi, laboratori, un vivace palinsesto radio e progetti digitali.
La serata, condotta dai tradizionali portavoce del Festival Simonetta Bitasi, Alessandro della Casa e Salvatore Satta, si apre con la lettura della lista – aggiornata ad oggi – degli autori nazionali e internazionali che dall’8 al 12 settembre saranno i protagonisti dell’edizione 2021, e prosegue con un racconto per temi e suggestioni, tra novità e conferme, della struttura e dei contenuti della manifestazione di quest’anno.
La serata anticipa la pubblicazione del programma dettagliato della 25ª edizione, che verrà svelato alla fine del mese di luglio, ed è un’ottima occasione per rinnovare o sottoscrivere la propria adesione all’Associazione Filofestival, offrendo un prezioso sostegno all’attività del Festival.
Fino al 12 luglio inoltre è ancora possibile presentare la propria domanda di volontariato a Festivaletteratura 2021, attraverso il form disponibile sul sito www.festivaletteratura.it

Lara Facco P&C I viale Papiniano 42 | 20123 Milano I press@larafacco.com

mantova

Racconto:
Le cheppie del Canal Bianco

 

Molto difficile spiegare a chi non ha mai provato e a chi non vedeva la pesca come fine, scopo, riempimento, completamento ed essenza della vita. Per noi, intendo io e Manzo questo era la pesca. Poi aprile, la bella stagione, non che noi si smettesse di pescare nei mesi freddi, anzi. Ogni mese aveva il suo pesce, la sua pesca, sempre rigorosamente a spinning.

La pesca della cheppia non era particolarmente interessante come tecnica, grezza, poco raffinata, villana, ma il salmone della bassa sapeva darti, dopo la ferrata, emozioni indicibili.
Per noi la pesca era sport estremo, molto più pericoloso del parapendio e del bungee jumping, chi se la immagina come rilassante attività per anziani col cappello di paglia in testa non ci ha mai visto all’opera. Abbiamo rischiato denunce penali, di venire risucchiati dalle sabbie mobili, ci siamo arrampicati per manufatti alti decine di metri, siamo caduti nelle peggiori fogne della bassa, abbiamo preso pizzicate da19 insetti tropicali, rischiato di venire assorbiti da turbine idrauliche, eccetera. Ma la storia più eclatante, che non ricordo se l’ho mai scritta, ma che da trenta e passa anni viene narrata ad ogni cena (quando si poteva andare a cena) della ‘vecchia’, sempre con nuovi particolari, dettagli aggiunti, pezzettini veri e/o verosimili è quella che segue.
Oggi mi va di raccontarne la fredda cronaca, la tragicomica e semi esilarante avventura di due fratelli di pesca.

Il periodo era questo, gli anni ’90 erano agli albori, noi lavoratori precari o semi disoccupati, da ubriachi ci dispiacevamo pure per la nostra “dura” vita, ma poi lungo le sponde di un canale le turbe passavano in un attimo. Credo che mai nessun ex frequentatore del bar Trentino diverrà cavaliere del lavoro.

Dicevamo, le sponde del Canal Bianco a Baricetta, come il fiume Kitimat nella Columbia Britannica, al posto del salmone Coho, la famosa Alosa Fallax Nilotica, sua maestà la Cheppia o Cépa in dialetto ferrarese. Dalla sinuosità del King delle acque dolci e salate alla forma rustica di Arringona della regina delle risalite padane. La forza del pesce di mare in trasferta per due mesi l’anno in acque dolci, il richiamo della riproduzione e la fiera dei pescatori. Sia chiaro mai una cheppia è rimasta all’aria più del tempo necessario ad essere slamata e rimessa in libertà, questo per noi era un must, un dogma.

E vabbé, provo a stringere. Arrivare sull’argine del Bianco a fine aprile era come arrivare nel Circondariale durante i campionati del mondo di pesca. Traffico come in tangenziale Ovest a Milano, pescatori da tutte le parti d’Italia, dialetti dell’ovunque. I primi che arrivavano, a notte fonda potevano avvicinarsi alla chiusa, tra i sassi e i giri d’acqua, nella schiuma al detersivo dove le Alose si accalcavano alla ricerca di una difficile risalita al manufatto. Per accaparrarsi un buon posto spalla a spalla si rischiava, come gridare a Scampia “la camorra è una montagna di merda”. Quindi io e il mio compare, mai stati avvezzi alle levatacce, con bella calma ci appropinquiamo verso la ridente località polesana, dopo un buon caffè e una paglia al Bar da Claudio.

Ovviamente i primi quattro cinquecento metri di Canale, sponde orografiche destra e sinistra vedevano la calca del supermercato nel giorno del tre per due. Inarrivabili. Non bisognava però non allontanarsi troppo dalla zona hot. Parcheggio la mia Giulietta scarburata, in curva alla zio vigliàcc e ci lanciamo ad occupare una ‘posta’ abbastanza stretta ma pescabile. Poi per due pescatori esperti come noi quando mai questo potrà essere un problema (cit.).

L’attrezzatura per la Cheppia come dicevamo era grezza, canne da Lucci di 2,70 mt. mulinello robusto, io optai per una classico Abu 4, un piombo a goccia da 25 gr. a fine lenza e una amettiera a tre ami, con pennette bianche brillanti. Attenzione, filo dello 0.35, grosso, molto grosso, (particolare non secondario nel prosieguo della narrazione).

È risaputo dai miei compagni di pesca che io per i primi dieci lanci sono terribilmente pericoloso, la fregola, le rondini nello stomaco, la tachicardia e l’ansia da prestazione mi attanagliano, il tutto condito dalla mia atavica mancanza di attenzione (mi cugino direbbe “usta”). La leggenda epica, narra che quando il buon Dio nella notte dei tempi distribuì l’usta, io capii frusta e me ne scappai lontano.

Spalla a spalla come mille altre volte, il canneto da ambo i lati, una piccola apertura di forse tre metri ci fa vedere le fulgide acque color sciolta del Canal Bianco.

Si parte, inizia la rumba. Le canne a due mani presuppongono una buona forza di lancio, occorre cercare le ragazze argentate a centro fiume, nel filo della corrente ascendente dell’alta marea. Almeno quaranta metri di lancio, meglio di più.
Swiss, i lanci paiono sincronizzati, al secondo forse terzo lancio, sento un soffio, guardo Manzo, mi dice:
– C’è mancato poco, mi hai sfiorato il cappello.
-Tranqui – Rispondo io – Starò più attento.

E infatti il lancio dopo, a tutto braccio con la possanza dei miei bicipiti, inarco la canna come un fuscello e fiondo in avanti. Nessuno swiss, sento uno stock! Netto, ineccepibile, il piombo vola quasi sull’altra sponda, una botta da campionato del mondo, una violenza bruta e incredibile. Ma lo stock, cosa è stato? Mi giro verso Manzo, per chiedergli lumi. Ha lo sguardo fisso in avanti, la paglia in bocca con la brace appesa a un filo, gli occhi sbarrati, non recupera, ha la canna bloccata davanti a sé. Ruota le pupille di un micro millimetro verso di me, incrociamo gli sguardi.
-Ma ti ho preso? – Sussurro.
-Si! – mi dice con un filo di voce.

Mi avvicino per vedere il danno. Ha un amo con piumetta appeso all’orecchio, una specie di orecchino Punk Rock. Nemmeno una goccia di sangue, un lavoro che nemmeno in gioielleria.
Prendo la pinza a becco lungo per elettricisti, che io adopero da slamatore, mi appresto a effettuare l’estrazione.
-No,no,no,no, andiamo al Pronto Soccorso – Grida l’infortunato.
Accudisco le canne, smonto e preparo l’attrezzatura per risalire alla macchina. Ma che fa Manzo? È intento a recuperare una cheppia, finché non la slama, rimane concentrato. Poi, via con la mia Giulietta marrone verso il pronto soccorso di Adria. La corsa è breve, oltrepassiamo la chiusa in direzione est e i Caramba ci sbattono la paletta in faccia. È pur vero che volavamo troppo bassi. Faccio per scendere, ma Manzo mi anticipa, scende e dallo specchietto retrovisore vedo che mima l’infortunio, indicando il reperto appeso al suo orecchio.

Il maresciallo sgrana gli occhi, ci fa ripartire, ci fa strada e ci scorta verso l’ospedale con i lampeggianti accesi. In un attimo siamo al nosocomio polesano, entriamo al Pronto Soccorso che sembriamo Starsky e Hutch, ma vestiti da pesca. Gilet centotasche, pantaloni della mimetica, scarponi infangati e stupida in testa.
Il mio compagno va all’accettazione, effettua il triage. Io sono a distanza, vedo la scena ma non sento le parole. Osservo che si avvicina allo sportello indicando l’orecchio malato. L’infermiera sgrana gli occhi e poi comincia a ridere. Ma non è che sorrida, si sganascia proprio, chiama i colleghi, i quali passano da un secondo di incredulità ad una esplosione di risate sguaiate. Qualcuno mi indica e si piega in preda alle convulsioni scuotendo la testa. Due minuti e l’infortunato entra nella prima sala operatoria disponibile.

Io sono fuori, in ansia per l’amico mio, quando un degente in carrozzella mi si avvicina e in perfetto dialetto polesano mi dice:
-Ma sito stato tì?
Io accenno ad un si colpevole. Il malato scuote la testa con un leggero sorriso compassionevole.

Intanto Manzo sta ‘andando sotto ai ferri’, steso sul lettino il medico di turno gli chiede lumi sull’accaduto. Poggia le mani sul petto del ragazzo ancora con indosso il gilet. Un urlo sovraumano e il medico ritrae la mano destra, dalla quale penzola una Rapala snodato da 12 cm. Con l’esca ancora piantata nella mano chiede se il minnows è mai stato usato. – Certo che si! – risponde il mio amico pescatore.
Il chirurgo fugge in un’altra sala operatoria visibilmente scosso.

Un secondo medico, provvede all’intervento di asportazione. Puntura di anestetico, e in due minuti sfila, dalla parte corretta, non dalla parte dell’ardiglione come stavo facendo io sul posto di pesca, l’amo dal lobo del giovane.
Le infermiere in sollucchero, finiscono la medicazione e liberano Manzo, il quale prima di uscire chiede che gli venga restituito il Rapala. Così è.

Intanto all’accettazione del PS, sembra di essere a Zelig, gente che mi chiede di raccontare nuovamente l’accaduto, morituri che si piegano dal ridere e sprizzano felicità da ogni poro, giovani e vecchi mi domandano come sia potuto accadere. Mi sento un idiota.

Sbrigliamo le ultime formalità all’ospedale, nell’ilarità generale.
Usciamo in un lampo, uno sguardo d’intesa, accendiamo una paglia e ritorniamo di comune accordo sulle sponde del Canal Bianco a pescare.
La pesca non è uno sport, nemmeno un passatempo, men che meno un hobby. E’ la nobile arte.
E noi, modestamente, eravamo davvero degli artisti.

In copertina: Chiavica Pignatta sul Canal Bianco, Baricetta, Adria (foto OLYMPUS DIGITAL CAMERA. licenza Wikimedia Commons)

MBO: cosa succede se il management non è SMART

 

MBO è un acronimo sulla bocca di tutti, nelle aziende di servizi finanziari (e non solo). Anche smart è un vocabolo inglese in gran voga: nonostante possa corrispondere, in dialetto ferrarese, al nostro “sgagià” (una persona sveglia, dall’intelligenza rapida, veloce a comprendere ed agire) che è quasi un sostantivo, smart è più propriamente un aggettivo. Quando si parla di smart work si intende il lavoro agile, smart city è la città intelligente, Smart è il nome dell’automobilina che puoi parcheggiare in un fazzoletto anche nella metropoli (non a caso è l’auto più rubata a Roma). Dentro questo aggettivo convivono sfumature di senso che hanno a che fare con la rapidità, la semplicità, la sveltezza. Ma SMART, nel gergo dell’organizzazione aziendale, è anche un acronimo, coniato dall’ economista Peter Drucker, l’inventore del sistema MBO (Management by Objectives): per approfondire la storia del Mbo e la figura di Drucker [Vedi qui] 

Si tratta di un sistema tanto propagandato quanto tradito nei suoi elementi fondativi, almeno nel sistema bancario italiano, al punto da generare effetti opposti a quelli che dovrebbe indurre. Il motivo può essere sintetizzato con una frase: l’MBO (o “gestione per obiettivi”) dei nostri manager non è SMART. Peccato che SMART sia il metodo coniato dal suo creatore, Peter Drucker, la declinazione in cinque voci di una vera e propria “cassetta degli attrezzi” per far funzionare un MBO. Se non lo si conosce e non lo si utilizza, il rischio è quello di generare un mostro. Vediamo cosa si intende con l’acronimo SMART.

S sta per “specifico”: Un obiettivo deve essere definito, e va indicato anche come raggiungerlo.

M sta per “misurabile”. Deve essere possibile in ogni momento verificare dove ci si trova rispetto al traguardo.

A sta per “achievable”, cioè “raggiungibile”.

R sta per “rilevante”, cioè un obiettivo coerente con gli scopi aziendali

T sta per “temporizzato”, cioè legato ad una scadenza temporale predeterminata.

Facciamo qualche esempio.

Specifico: Aumentare del 30% la percentuale di risparmio gestito tra i propri clienti è un obiettivo specifico. Se non mi viene indicato come fare, quando la mia clientela è anagraficamente più vecchia della media, e il mio territorio ha avuto negli ultimi due anni il 20% delle filiali chiuse, mi si lascia in mezzo al mare. Non mi importa come lo fai, basta che lo fai. Esattamente il contrario di quello che teorizzava Drucker.

Misurabile: ci sono banche in cui i dipendenti stessi si costruiscono gli appunti excel artigianalmente per sapere come sono messi, perchè gli strumenti di controllo di gestione aziendali aggiornano i dati di produzione dopo settimane, dovendoli pescare da archivi coi quali spesso non dialogano. Come faccio a sapere dove arrivare se non so dove mi trovo?

Achievable (Raggiungibile): qui entra in gioco il termine “condivisione”, una delle parole dal significato più travisato all’interno delle banche. “Condividere” dovrebbe significare raggiungere un accordo sui contenuti. “Condividere”, per chi “discute” un budget con il proprio sottoposto, significa spesso metterlo al corrente che deve arrivare lì. Punto. Se l’obiettivo è raggiungibile in astratto, ma non in concreto, il problema si salda con quello della specificità, e porta alle distorsioni più gravi, come vendere prodotti alle persone sbagliate per raggiungere un obiettivo che è stato assegnato senza tenere conto delle condizioni di quel contesto.

Rilevante: ha senso concentrare le energie della rete commerciale in una campagna martellante per far indebitare la clientela “debole” (ad esempio cessione del quinto dello stipendio o della pensione per ripagare un debito) e nel frattempo perdere volumi importanti su clientela “forte” ma non adeguatamente presidiata, magari dopo essere stata assorbita per effetto di una incorporazione? (provare, per credere, a fare un giretto di opinioni ‘fuori dai denti’ tra i clienti e le associazioni di categoria di Bergamo e Brescia, orfane di UBI).

Temporizzato: se il tempo prefissato è un anno solare, non può in corso d’opera diventare (anche) tre mesi. Soprattutto, l’obiettivo trimestrale non può essere penalizzante ai fini del consuntivo annuale se non viene raggiunto, e non essere premiante ai fini del consuntivo finale se viene raggiunto, ma a fine anno per qualche ragione non si raggiunge il 100% del target. Troppo comodo (per l’azienda), beffardo (per il dipendente).

Poi ci sono i paletti. Primo esempio: se raggiungi gli obiettivi commerciali ma non completi i corsi di formazione, sei fregato: niente premio, o premio tagliato. Peccato che la formazione, fondamentale per Drucker proprio per fornire al manager gli strumenti per gestire i propri obiettivi e quelli della propria squadra, adesso sia quasi tutta on line: moduli lunghissimi, da fare a spizzichi durante i ritagli di tempo (quali?) tra un cliente e l’altro, che diventano folli rincorse di fine anno per passare il test (copiando le risposte da altri) e ottenere la certificazione. In questa spirale, il contenuto formativo che rimane addosso al dipendente è inconsistente. Eppure l’azienda si considera a posto, perchè tanto i moduli sono a disposizione e se la maggior parte dei dipendenti li completa, formalmente la formazione è fatta.

Secondo esempio: se il tuo responsabile ti valuta scadente, o carente in alcuni aspetti delle competenze, non vai a premio pur avendo raggiunto i targets. E pensare che Drucker aveva in mente proprio di rendere misurabile in maniera oggettiva la prestazione del collaboratore, sottraendola alle paturnie del capo di turno.

Terzo esempio: NPS negativo. Se i clienti assegnano un basso indice di gradimento al servizio (anche se dovuto a problemi organizzativi e non alla incompetenza o maleducazione del dipendente) il premio individuale può essere decurtato o non essere proprio assegnato. In questo modo si scarica sul singolo addetto il costo che dovrebbe essere addebitato ad una cattiva organizzazione.

In tutto ciò, mai che si possa cogliere un indice di qualità “sociale” della consulenza: quanto credito è stato erogato ad aziende del terzo settore; quali crediti erogati fanno assumere un rischio eccessivo, meritevole di correggere il dato quantitativo; quali indici introdurre per misurare il rischio reputazionale. Il risultato è che un sistema che dovrebbe essere semplice e misurabile diventa un interminabile manuale, cervellotico e bizantino, di regole ed eccezioni (tutte quantitative, o legate all’arbitrio del capo) aventi lo scopo fondamentale di rendere il raggiungimento del premio il più difficile possibile.

In questa situazione, il problema dell’assegnazione di obiettivi individuali anche a dipendenti che non hanno incarichi manageriali (novità foriera di inquietanti scenari, se non circoscritta) diventa, per paradosso, l’ultimo dei problemi. Il primo dei problemi è che nessuno si fida del sistema, perchè nessuno ci capisce nulla, e questo, lungi dal creare dipendenti “orientati al risultato”, aumenta la demotivazione, la sensazione di essere presi in giro.

Ovviamente, non è così per tutti. Esiste una limitata categoria di quadri aziendali i cui riconoscimenti ad personam scavano un solco imbarazzante tra la loro gratifica e le briciole (quando arrivano) della truppa, fatto che contribuisce, tra l’altro, ad alimentare la malsana abitudine di alcuni “manager” di identificare la loro attività con la vessazione dei collaboratori. Ed è inevitabile: quando un’azienda premia il manager che usa il bastone, se questo bastone porta in un modo o nell’altro al risultato (ancora una volta: non importa come, mentre per Drucker era fondamentale), il manager riceve un incentivo a interpretare il suo ruolo in maniera bovina.

Appare, in conclusione, evidente che non basta adottare formalmente sistemi di gestione per obiettivi ricolmi di termini anglosassoni, a volte del tutto travisati(la parola budget viene costantemente usata al posto della più corretta target, per fare un altro esempio) per far funzionare l’azienda in modo sano. Sotto questo profilo, le relazioni industriali avrebbero urgente bisogno di fare un enorme salto di qualità, nella direzione di una contrattazione degli algoritmi che fungono da base di calcolo per l’ MBO, la cui interpretazione “all’italiana” accontenta pochi e scontenta molti; una sorta di riproduzione, su scala aziendale, di una cattiva politica redistributiva del reddito.

DIARIO IN PUBBLICO
Scarpe e balene

 

Vorrei iniziare l’articolo titolandolo ‘Scarpe e balene’. Si tratta di configurare il ‘ritmo’ delle scarpe dei leaders che in Cornovaglia si apprestano alla foto di gruppo dei potenti del mondo e, accanto a questa indicazione visiva, l’incredibile vicenda della balena che a Cape Cod in Massachusetts ha ingoiato un pescatore e lo ha risputato, perché forse ritenuto da lei stessa indigesto.

Commenta La Repubblica: “IN BOCCA alla balena! La crasi fra due dei più celebrati esclamativi beneauguranti di cui tradizionalmente disponiamo, è riuscita a un americano che si chiama Michael Packard. Ha cinquantasei anni, vive al nord della East Cost, nei paraggi di Provincetown, (Massachusetts), sulla punta adunca della baia di Cape Cod, dove impiega il suo tempo nel settore aragoste. Più precisamente è considerato un espertissimo pescatore subacqueo, forse l’ultimo veterano di un mestiere attualmente considerato un po’ troppo duro e pericoloso.”[Qui]

Come Giona o Pinocchio – quando si dice che la ‘realtà’ inventata è più vera di quella cronachistica! – il pescatore viene espulso dalla bocca del cetaceo, che non gradisce l’intrusione di un umano nella sua bocca. Ho vissuto in quei luoghi e so quanto quel paesaggio riesca a trasformare la capacità cronachistica in utopia e letteratura.

Dunque. La più straordinaria immagine è quella dei capi di Stato che, con passo marziale, tenendo per mano le loro compagne, salvo la brava Merkel che cammina da sola, vengono ritratti in atteggiamento guerresco, come se dovessero affrontare chissà quale lotta per la sopravvivenza e si dirigono tutti verso la linea del mare. Importante è seguire la sequenza delle scarpe. La severità di quest’ultima è ribadita dal lucore delle scarpe degli uomini accompagnati dalle vezzose scarpette delle mogli e fidanzate. Una, da sola, avanza con qualità e stile: la Merkel.

Dove sta allora il riferimento simbolico dell’avanzata delle scarpe? Probabilmente dalla visibilità di un particolare fisico, che assume significato simbolico. L’idea che il potere possa esprimersi anche con la lucidità delle scarpe e con l’uso di ciò che i piedi sanno dire, attraverso il loro abbrancancarsi al suolo esprime il senso della radicamento al suolo.

Tutto questo è bene espresso da un articolo apparso sull’Espresso della settimana scorsa, in cui si rimarca che il piede rappresenta il momento di agganciamento al suolo e quindi in qualche modo esprime la possibilità di riuscire a dominarlo. Le scarpe dei leaders sono dunque l’immagine di un dominio che si esercita sulla terra.

L’altro momento è rappresentato dalla incredibile avventura del pescatore del Massachusetts ingoiato dalla balena. Qui l’immagine simbolica propone pena e salvezza per chi osa scontrarsi col mostro. I riferimenti a Moby Dick sono talmente evidenti da suscitare il sospetto di una colossale bufala. Non a caso i luoghi sono quelli dove si svolge l’immane lotta tra il mostro e l’uomo, ma evidentemente la realtà dell’immaginazione coincide con quella della cronaca.

Ecco allora penso quanto sia mediocre la cronaca cittadina che ci parla di lettere minatorie, di espressioni di amore, intellettuali o meno, che agitano il campo politico, così come ancor di più la violenta polemica che ha coinvolto il critico Vittorio Sgarbi, l’assessore Marco Gulinelli e alcune tra le associazioni culturali ferraresi. Queste ultime si erano offerte di aiutare a comprare i disegni di un pittore settecentesco, un tempo appartenuti alla Biblioteca Ariostea e poi scomparsi; contestavano al critico l’acquisto dei disegni, ora ricomprati dal presidente di Ferrara arte, che li collocherebbe all’interno del rinnovato Museo di Schifanoia. Tuttavia le infelici e mediocri dispute ci rendono purtroppo compartecipi di un clima assai poco credibile per il concetto stesso di una città, che è vissuta e dovrebbe vivere d’arte e di cultura.

Per leggere gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Come nei film: ‘the day after’ pandemia.

 

Forse ci è sfuggito qualcosa nel marasma del fenomeno di una pandemia che eravamo abituati a vedere solo nei film catastrofici, quelli del ‘the day after’ adrenalinico, che accompagnavamo con popcorn, patatine e arachidi, comodamente seduti sui nostri divani di casa.

Anche là arriva l’esercito a organizzare, rassicurare, curare, sostenere con le divise che rappresentano solidità, concretezza, organizzazione, efficienza, accogliendo coloro che ce la fanno a raggiungerli. Hanno anche l’antidoto, nelle scene dei film, un prezioso farmaco risolutivo, quello che dovrebbe salvare l’umanità intera.

C’è sempre anche l’eroe solitario, un civile che si immola per il bene comune, anche a costo della vita, mettendo al primo posto i compagni. E i sopravvissuti: un’accozzaglia di persone di ogni estrazione, razza, appartenenza religiosa, che dovranno organizzarsi per una nuova vita, un nuovo assetto sociale, nuove forme di sopravvivenza, attorniati dalle macerie di una guerra nucleare, piuttosto che un virus letale che ha raggiunto ogni angolo di mondo. Ma ci sono anche le gang allo sbando, quelli che speculano sul momento esercitando la violenza: i branchi dei disperati prepotenti decisi ad accaparrarsi ad ogni costo ciò che rimane.

Abbiamo guardato questi film col fiato sospeso identificandoci, stigmatizzando, assolvendo, accusando, odiando ed amando, sicuri che non sarebbe mai toccata a noi, nemmeno nella più pessimistica delle ipotesi. L’evento pandemia è diventata la nostra realtà quotidiana, anche ora che entriamo nell’estate con il caldo, la voglia di vivere in libertà, i lidi aperti, la montagna in attesa.

C’è un turismo da rilanciare, ci sono aziende da riaprire e riportare a pieno regime, un’agricoltura che rappresenta un comparto da valorizzare appieno, aspettative e proiezioni piene di buone intenzioni. Ma forse ci è sfuggito qualcosa: scuola e salute, i due temi imprescindibili, irrinunciabili, strategici per poter ricominciare davvero.

C’è necessità di cultura, una vera cultura proiettata verso un futuro, che formi le nuove generazioni e rafforzi quelle meno giovani, forgiando, formando, preparando agli scenari del domani sugli strumenti necessari per vivere e vivere qualitativamente meglio.

C’è bisogno di investire nella scuola, nella formazione, nel sapere e nel conoscere perché rinunciando a questo, privilegiando altre priorità o pseudo tali, si rinuncia al domani. Lo dobbiamo ai giovani, a tutti coloro che dovranno farsi carico di ciò che sarà.

Altro tema focale è la salute, dovremmo averlo appreso forzatamente. In realtà stiamo vivendo nelle contraddizioni, affermazioni e smentite che generano incertezza e sfiducia, assistendo a un dibattito senza fine, che tiene impegnati i media, ma genera caos. La salute è il punto di partenza che meriterebbe la più profonda considerazione, attenzione e investimento. Riferimenti chiari, disposizioni uniformi e univoche, assunzione di responsabilità decisionale ed equilibrio tra emotività di massa e razionalità politica dovrebbero guidare su questo tema.

Non basteranno più letti in terapia intensiva, più strumenti diagnostici e terapeutici, big data condivisi, telemedicina, più capitale umano e prevenzione più puntuale: occorre una cultura della salute più consapevole e diffusa, affinchè la responsabilità parta dal singolo individuo attraverso nuovi stili di vita, informazione, conoscenza e consapevolezza individuale, prima ancora di arrivare alla responsabilità collettiva. Scuola e salute saranno necessariamente le due grandi sfide che ci attendono e chiederanno di non lesinare sforzi, risorse finanziarie e grande attenzione.

PER CERTI VERSI
Donare l’anima

DONARE L’ANIMA

La tua stella
Più piccola
È così vicina
Da stare nei nostri occhi
Non possiamo vederla
Nemmeno allo specchio
Dove svanisce
Non possiamo
Che guardare
Dentro
Nel buio
La radura
Della sua luce
E sentire una voce
Che dice
Che occhi che hai
Mi hai donato l’anima
Senza saperlo

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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PRESTO DI MATTINA
Aparecida: lo stile di papa Francesco

 

Salvata dalle acque, dal fondo fangoso di un fiume nella valle del Paraiba, a metà strada tra la città di Sao Paulo e la città di Sao Sebastiao (Rio de Janeiro), riemerse una statuetta in terracotta della Vergine Maria. Era il 17 ottobre del 1717. Ritrovata da tre pescatori, Domingos Garcia, Joao Alves e Filipe Pedroso, misurava appena 39 centimetri ed era annerita dal fango del fiume: le fu dato il nome di Aparecida.

Una storia, quella del ritrovamento, a dir poco evangelica. Quei pescatori erano usciti per la pesca, ma dopo aver gettato le reti per un’intera notte, non avevano preso nulla. Invocarono così Maria e, anziché pesce, la rete riportò alla superfice il corpo di una statuetta della Vergine della Concezione. Con grande meraviglia gettarono nuovamente la rete, ma ancora, impigliata tra le maglie, apparve una piccola testa raffigurante il volto della Vergine. Pieni di gioia si fecero coraggio e gettarono le reti una terza volta. Così accadde, come sul lago di Galilea ai pescatori divenuti poi discepoli missionari. La pesca fu abbondante: una grazia della Madre di Dio, che è madre del popolo brasiliano, pensarono quei pescatori.

Che cosa fece sì che questa devozione per l’Aparecida, nata dalla fede di semplici popolani, pescatori di un villaggio sperduto, diventasse continentale, in uno dei più grandi santuari mariani del mondo? Nel 1850, nonostante già da vent’anni fosse stata abolita la schiavitù in Brasile e una nuova legge avesse vietato definitivamente il commercio internazionale, questo continuò in ambito interprovinciale, convogliando gli schiavi dagli zuccherifici del nord-est oramai in declino e dalle miniere d’oro esaurite verso le piantagioni di caffe nelle fiorenti aziende nella regione del Paraibà. Il tutto senza che per gli schiavi, afflitti da un durissimo e opprimente regime lavorativo, cambiasse nulla.

Si narra che proprio in quel periodo uno schiavo, che era fuggito, venne catturato e nuovamente incatenato per essere riportato alla fazenda del suo padrone. Quando lo schiavo fuggito e incatenato chiese di pregare un momento davanti alla cappella e alla statua della Vergine Aparecida, tra la meraviglia dei presenti, gli caddero le catene dai polsi.

Fu attraverso queste narrazioni diffuse rapidamente tra la gente che la Vergine Maria, Nossa Senhora da Conceição Aparecida, cominciò a essere associata alla denuncia della miserevole sorte degli schiavi e alla compassione verso di loro, che rappresentavano più della metà della popolazione.

E si narra pure di un’altra statuetta di Maria, trovata da un meticcio ai margini della foresta amazzonica, che gli fu tolta e portata nella cappella del palazzo del governatore; ma là non volle restare e misteriosamente ritornò nella piccola capanna che gli aveva costruito quell’indios di nome Placido. Agli occhi dei poveri, degli umiliati, degli sfruttati, allo sguardo del popolo, la Madre di Dio preferiva rimanere nel luogo dei piccoli e non in quello dei potenti, sceglieva la popolazione indigena e meticcia decimata e sfruttata del bacino amazzonico o nella società schiavista di allora. Si metteva dalla parte degli schiavi incatenati, invitando i cristiani ad impegnarsi per il loro riscatto e a lottare per la dignità di ogni persona fondata sulla libertà dei figli e delle figlie di Dio.

Tutti questi racconti di liberazione, passati di bocca in bocca, nutrirono la pietà popolare e suscitarono un esondante, perdurante affetto e fiducia per Nostra Signora Aparecida. Avvertita, anche lei, dalla parte del popolo; compromisa, come il figlio, con il destino degli ultimi; unita a quella opzione preferenziale per i poveri, che caratterizzò la missione di Gesù e che i Padri conciliari al Concilio vaticano II, affidarono anche alla chiesa: «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa e chiamata a prendere la stessa via. Gesù Cristo “che era di condizione divina spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo” (Fil 2,6-7) e per noi “da ricco che era si fece povero” (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione. [Essa] riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo», (LG 8).

Quando Benedetto XVI decise di convocare la V Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano nel maggio 2007, presso l’imponente e sempre affollato santuario di Aparecida, se ne accrebbe la fama, non solo nella chiesa latinoamericana, ma anche di quella universale. «Discepoli e missionari di Gesù Cristo perché i nostri popoli abbiano vita in Lui» fu il tema di quell’assemblea sinodale.

Seppur contrassegnato dalle tensioni scaturite dalla contrapposizione delle prospettive che si confrontarono per ridefinire tanto la figura del discepolo missionario e di ogni battezzato come soggetto di evangelizzazione, quanto per riaffermare la centralità di Cristo e la sua opzione preferenziale per i poveri, fugando così il timore di alcuni di oscurare la centralità di Cristo tramite tale accentuazione. Così se ne riaffermò il loro essere testimonianza e presenza del Cristo stesso: «I volti sofferenti dei poveri» sono «il volto» sofferente «del Signore… L’opzione preferenziale per i poveri ci spinge, come discepoli e missionari di Gesù, a cercare vie nuove e creative per dare risposte alla realtà mutevole della povertà», (AP 393; 409).

Pur nelle diverse interpretazioni che caratterizzarono e seguirono quell’evento, i vescovi riuniti in assemblea si sentirono “sorpresi dallo Spirito” – come a Pentecoste – e coinvolti in una esperienza mistico-spirituale. Tutti furono concordi nell’affermare di aver vissuto un’intensa esperienza di chiesa, nella forma di una sinodalità aperta alla gente convenuta ad Aparecida. In quel continuo pellegrinaggio che andava e veniva si sentirono accompagnati in quell’esercizio di fraternità, immersi in un cammino di fede e di pietà con tutto il popolo, che con la sua presenza e preghiera si era stretto attorno a loro per chiedere discernimento nella ricerca di vie nuove di missione non solo continentale, ma mondiale.

Un’esperienza completamente diversa da quella che caratterizzò la IV Conferenza tenuta a santo Domingo nel 1992, quando l’incontro dell’episcopato latinoamericano si svolse in un ambiente appartato e isolato dal popolo, nonché ‘vigilato’ dall’alto. Ad Aparecida le cose andarono diversamente ed i vescovi riconobbero con umiltà, riaffermandolo nel documento finale, che quel popolo dei pellegrini li aveva toccati ed evangelizzati: «Ci siamo sentiti accompagnati dalla preghiera del nostro popolo credente, pastori e fedeli della chiesa di Dio in Aparecida e dalla moltitudine di pellegrini da tutto il Brasile, nonché dagli altri paesi dell’America, arrivati al santuario; essi ci hanno edificato ed evangelizzato (AP, 3).

Non solo. Ad Aparecida i vescovi latino-americani riaffermarono l’importanza delle comunità di base quali cellule germinali, insieme alle piccole comunità, nella strutturazione ecclesiale e quali punti focali per la crescita della fede e per evangelizzazione. Essi vollero riprendere così l’eredità e il metodo di Medellín (1968), la conferenza da cui iniziò la recezione del Concilio vaticano II in America Latina, motivando così la loro scelta: «questo documento fa uso del metodo “vedere, giudicare ed agire”. Questo metodo ha collaborato a che noi vivessimo più intensamente la nostra vocazione e missione nella Chiesa: ha arricchito il nostro lavoro teologico e pastorale, e, in generale, ci ha motivati ad assumere le nostre responsabilità di fronte alle situazioni concrete del nostro continente» (AP 19)

Anche per questo, nel 1974, Paolo VI con l’enciclica Evangelii Nuntiandi, accolse proposte e orientamenti pastorali della chiesa latino-amaricana riunita a Medellin, trasformandoli in contributi e orientamenti per la Chiesa intera. In modo particolare furono recepite le insistenze sulla liberazione e sul legame tra evangelizzazione e promozione umana, tra sviluppo e liberazione.

Ricordando il vibrante appello dei vescovi del Terzo mondo, eco delle voci dei loro popoli in lotta per superare tutto ciò che li condanna a restare ai margini della vita, Paolo VI fece proprie le loro parole: «La Chiesa ha il dovere di annunziare la liberazione di milioni di esseri umani, essendo molti di essi figli suoi; il dovere di aiutare questa liberazione a nascere, di testimoniare per essa, di fare sì che sia totale. Tutto ciò non è estraneo all’evangelizzazione. Tra evangelizzazione e promozione umana – sviluppo, liberazione – ci sono infatti dei legami profondi… È impossibile accettare che nell’evangelizzazione si possa o si debba trascurare l’importanza dei problemi che riguardano la giustizia, la liberazione, lo sviluppo e la pace nel mondo. Sarebbe dimenticare la lezione che ci viene dal Vangelo», (EN 30-31).

Perché ho ricordato Aparecida? Perché in essa si innesta e ha preso forma il ministero pastorale di papa Francesco. Aparecida è un passaggio obbligato per comprendere il suo stile pastorale e la sua riflessione teologica. È il punto di arrivo del suo episcopato brasiliano, ma anche un nuovo punto di partenza, snodo fondamentale, passante di valico attraverso cui il vissuto profetico ecclesiale e missionario di una chiesa particolare diviene patrimonio offerto a tutte le chiese per rilanciare il concilio e far ripartire i processi di riforma rimasti ancora inespressi e incompiuti nell’unica chiesa di Cristo.

Ad Aparecida, il 15 maggio 2007, i vescovi scelsero Bergoglio – allora vescovo di Buenos Aires – come presidente della commissione responsabile della redazione del documento finale. Molti si sentirono motivati per il suo linguaggio suggestivo, pieno di speranza, deciso e rispettoso ad un tempo nel ‘compartir’ come un pane la gioia del vangelo. Il suo invito ed impegno ad Aparecida fu quello di “evitare una Chiesa autoreferenziale” e lavorare “per una Chiesa che arrivi a tutte le periferie umane”. Era l’inizio di un processo di riforma proposto a chiese regionali situate ai confini del mondo, per divenire grazia e proposta che sarebbe rimbalzata nella chiesa universale da quel giorno in cui Jorge Bergoglio, “venuto dalla fine del mondo”, divenne papa Francesco: era il 13 marzo 2013.

Significativo risulta allora un passaggio dell’omelia che Bergoglio tenne, alla celebrazione conclusiva ad Aparecida il 16 maggio 2007, come un seme che conteneva già in germe gli sviluppi futuri: «Lo Spirito proietta la Chiesa verso le periferie, non solo le periferie geografiche del mondo conosciuto della cultura, ma le periferie esistenziali. Lo Spirito ci guida, ci conduce sulla strada verso ogni periferia umana: quella della non conoscenza di Dio, dell’ingiustizia, del dolore, della solitudine, della mancanza di senso».

In un’intervista di pochi mesi dopo ricordava: «Il Papa, Benedetto XVI, ci ha dato indicazioni generali sui problemi dell’America Latina, e ha poi lasciato aperto il dialogo: fate voi! È stato grandissimo, questo, da parte del Papa… Il documento di Aparecida non finisce in se stesso, non chiude, non è l’ultimo passo, perché l’apertura finale è sulla sua missione. Per restare fedeli bisogna uscire. Questo è in fondo Aparecida, che è il cuore della missione».

Non si può non riconoscere da queste parole come Aparecida sia stata come un canovaccio e continui ad essere una bussola e l’ispirazione profonda del suo pontificato, la ‘camera’ fotografica, in cui si sono sviluppati poi i testi del vescovo di Roma, chiamato a presiedere alla comunione di tutte le chiese.

Il tema dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, «l’alegria de evangelizar», è stata sempre l’orizzonte del suo stile pastorale e della sua predicazione. Non a caso la parola gioia ricorre 61 volte nel documento di Aparecida e 85 in Evangelii Gaudium/ La alegría del Evangelio [Qui]. «La nostra gioia, dunque, ha le sue radici nell’amore del Padre, nella partecipazione al mistero pasquale di Gesù Cristo, il quale, per lo Spirito Santo, ci fa passare dalla morte alla vita, dalla tristezza alla gioia, dall’assurdo al profondo senso dell’esistenza, dallo sconforto alla speranza che non inganna. Conoscere Gesù Cristo, con la fede, è la nostra gioia; seguirlo è una grazia e trasmettere questo tesoro agli altri è un mandato che il Signore ci ha consegnato» (AP, 17-18).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

La “Transizione” ecologica non basta:
dobbiamo trasformare e reinventare un mondo ecologico

 

Sentire parlare dei progetti per la transizione ecologica mi lascia perplessa tanto quanto parlare della decrescita felice di Latouche e di Mercalli che sono, secondo me, due facce di un unico modello di organizzazione sociale che non pone al centro l’essere umano né come valore né come motivo dello sviluppo in quanto basate comunque sul mercato.
Sia la transizione ecologica sia la decrescita felice rimandano solo l’esaurimento delle risorse, non portano a una trasformazione di un modo di concepire la vita di un essere umano che si assume il compito di prendersi cura dell’ambiente e la responsabilità di renderlo un luogo dove la vita, pur nella sua complessità e difficoltà, prende gusto e bellezza.

Il concetto di ecologia non significa limitarsi ad un cambiamento superficiale o immediato, ma vuol dire acquisire la dimensione della complessità nella quale ogni elemento della realtà concorre allo sviluppo qualitativo di ogni altra parte.
Di conseguenza, acquisire la dimensione ecologica vuol dire riconoscere gli esseri umani come soggetti che vivono la vita come tempo per realizzare i propri sogni, e l’ambiente come spazio piacevole da condividere con coloro con i quali si trovano a vivere. Quindi, ogni attività umana dovrebbe essere finalizzata all’obiettivo di individuare e supportare la globalità delle strutture passando per la scuola, la ricerca, la conoscenza. E non limitandosi alla soddisfazione dei bisogni primari che risolvono la sopravvivenza ma non il futuro.

È assolutamente necessario ridurre lo spreco cambiando il modello di sviluppo in direzione del miglioramento della qualità della vita. Oggi, con le nuove tecnologie a disposizione, si potrebbero progettare fabbriche che garantiscano una produzione di oggetti in maniera flessibile e pianificabile, soprattutto se i prodotti sono di buona qualità e di durata almeno trentennale, perché il riciclo dei materiali non basta. Perché questo avvenga sarebbe necessario studiare una politica industriale creativa e davvero rivoluzionaria che prenda in considerazione l’uso delle risorse nel rispetto della terra, senza perdere di vista la salvaguardia del lavoro, che rimane un diritto inalienabile per tutti.

Cambiare i motori a scoppio con motori elettrici non è una trasformazione ecologica, ma solo uno specchio per le allodole, perché ciò che non si produce di scarto per il funzionamento della macchina, si produrrà nello smaltimento delle batterie o per la produzione dell’energia elettrica. Si continuerà comunque a produrre milioni di macchine che avranno bisogno di innumerevoli risorse per tutto il loro ciclo di vita.
Dovremmo usare la nostra fantasia per creare ciò che serve all’essere umano per vivere una vita qualitativamente degna e non, piuttosto, consumare per produrre per mantenere attive le industrie.

Oggi siamo ridotti a essere un ingranaggio di un sistema che noi stessi abbiamo creato, nel quale il lavoro umano deve costare il meno possibile, perché lo scopo non è la qualità della vita ma il ritorno finanziario. Inoltre, il nostro adeguamento al consumo rende impossibile qualsiasi condivisione se non una realtà disumanizzata e abitudinaria.
Questi due anni di pandemia hanno messo in evidenza quanto poco sappiamo del corpo umano, della natura, di noi stessi e di quanto ci circonda.  Se vogliamo cambiare veramente dobbiamo innanzitutto metterci in un atteggiamento di ascolto, di conoscenza, di ricerca, tenendo sempre presente le cose che in questi due anni ci sono mancate: la relazione con gli altri e con l’ambiente e la dimensione della libertà. Questi elementi faticosamente conquistati nel corso della storia, li abbiamo dispersi e vanificati come valori superflui negli ultimi trent’anni, mettendo al loro posto il consumo veloce delle emozioni e delle cose, come un necessario motore di una produzione che non trasforma niente in bellezza, ma che produce solo scarti e spazzatura.

Quando, agli inizi del primo lockdwon, abbiamo spalancato le finestre sulle strade deserte, ci siamo ricordati di quanto fosse bello stare insieme, stringersi le mani, prendere un caffè scambiando due chiacchere. Tutti abbiamo sperato che il dopo covid sarebbe stato diverso, abbiamo condiviso il piacere di vedere la natura tornare ad abitare in mezzo a noi. Abbiamo constatato che la natura è pronta a sostenere un nostro cambiamento di rotta se decidiamo di prendere la strada del rispetto, dell’utilizzo delle risorse e non dello spreco. Ma, finita l’emergenza, ce ne siamo prontamente dimenticati, travolti dalla necessità di tornare alla vita di prima, come se questa fosse stata di nostro gradimento e soddisfazione.
Per fare un passo avanti, e in questi mesi di chiusura ce ne siamo resi conto, dobbiamo trasformare l’intero il sistema educativo, formativo e informativo nell’intento di acquisire consapevolezza che il valore è l’essere umano e il suo ambiente nelle sue relazioni, mentre adesso è tutto fondato sulla competizione, sull’individuare l’errore, sul considerare l’altro come nemico.

L ‘accelerazione della ricerca sui vaccini di questo ultimo anno o poco più e la loro produzione in tempi inediti ha dimostrato che la condivisione della conoscenza, insieme all’obiettivo condiviso può accelerare il raggiungimento dei risultati. Perché non assumiamo questo modello, diffondendo la necessità di rendere attiva la Carta dei Diritti Umani che in pochissime realtà sono democraticamente esercitati? Sarebbe tempo di investire perché questi non rimangano solo enunciazioni su carta, ma siano pratica universale e corrente di tutte le società umane. In questo modo cadrebbero diffidenze e resistenze tra i diversi stati. Perché questo non avviene?  Forse perché le mafie, il mercato delle armi e della droga ne patirebbero?

Dovremmo investire il massimo delle risorse per la ricerca di base, perché la società deve cambiare e per questo cambiamento  è necessario investire in cultura, in strutture che possano supportare questo cambiamento di priorità di rapporti sia nell’organizzazione delle relazioni sociali sia del lavoro che diventerebbe finalmente ciò che dovrebbe essere: non solo sostentamento e necessità ma l’espressione della creatività di ciascuno nella costruzione di una realtà sempre più accogliente e sempre meno monotona.

La storia dimostra che se noi costruiamo accoglienza e bellezza, questo rimane per molte generazioni e migliora con il passare del tempo perché innesca un meccanismo di creatività positiva in chi ne gode. Dobbiamo dare un linguaggio a questa consapevolezza affinché si riconoscano queste azioni come valore, e perché ciò avvenga dobbiamo investire tutto ciò che possiamo nel creare occasioni formative e di scambio.

Dunque, c’è molto da trasformare e reinventare per costruire un mondo ecologico perché questo vuol dire proprio armonia fra le parti e gusto dell’incontro con l’altro. Il problema del futuro non sarà quindi la mancanza di lavoro, sarà piuttosto la difficoltà di rispondere a tanti interrogativi, di metterci alla prova nella nostra capacità di accoglienza dell’altro tanto da riuscire ad integrarci per risolvere le problematiche che via via ci si presenteranno.
Quando il mondo politico troverà il coraggio di riprendersi il suo spazio legittimo di lungimirante progettualità per una società migliore, più giusta e più democratica? Quando le università torneranno a essere i luoghi di una ricerca che investe sulla curiosità e sull’entusiasmo per la trasformazione del mondo? Diamo valore a queste doti che i giovani, se riconosciuti e supportati, hanno naturalmente.

Al cantón fraréś
Alessandro Corazza: “L’ùltim śmèrgul”

 

Il progresso che avanza, l’avvento della meccanizzazione agricola, l’acquisto del trattore, i debiti…
L’autore tratteggia simbolicamente il cambiamento sociale della campagna con l’immagine delle mucche, ormai inutili, che caricate sul camion lasciano la stalla, assieme ai vitellini, con un ultimo lamento.
Sono usati nel testo termini desueti ma efficaci.
(Ciarìn)

L’ùltim śmèrgul

Int la prima pòsta dla stala dal “Visdòm”,
la Biśa e la Biónda, cumè donn,
ll latàva i so fió, nat su la pàja
custudìda coη cura int la purdgàja.
Uη léch, na scuazà, fòrsi uη baśìn,
ill mustràva l’amór pr’i so biśìn.
Drit, impalà, col didulón int al gilè,
al marcànt al li squadra par da dré:
“Ill jè dó bèli bèsti, ma purtròp…
ill bèsti…
al dì d’iηquó ill jè sémpr ad tròp!”
Źanón al tira fòrt uη graη suspìr:
“Ill jè igl’ùltmi dó dal nòstar tir.
Ill val, ill val tant òr, tant quant ill péśa…!
S’aη fus parché eη fat na bèla spéśa..!”
Dó ciàcar fati avśìn al mandariòl
e ill bèsti ill jè vaηzà sól int ill fòl.
Al càmioη l’è rivà li vérs ill dó,
l’à cargà su ill màdar coi so fió.
Tra ill stargarlìη sćiaηźà dla spónda vécia
as intravdéva ‘l muś coη la murdécia.
Dal buś, ach jéra un po’ più iη su,
a spuntàva un oć négar e blu.
La Biśa la zarcàva l’aria fina…
l’udór dal fén e dl’erba dla pradìna,
ad védr iηcóra l’ombra di filàr,
la fadiga dal pió e dal carźàr…!
Cargà sul càmion e ligà cò pié
dla Bionda as a vdéva sól al dadré.
Coη la ruźa dal càmion è śvanì
l’ùltim śmèrgul struzà e argaì.

L’ultimo muggito (traduzione dell’autore)
Nella prima posta della stalla del “Vis Domini”, / la Bisa e la Bionda, come donne, / allattavano i loro figli, nati sulla paglia / custodita con cura nella porticaglia. / Una leccata, una scodinzolata, forse un bacino, / mostravano l’amore per i loro vitellini. / Dritto, impalato, col pollice infilato nel gilè, / il mercante le squadra dal di dietro: / “Sono due belle mucche, ma purtroppo… / le mucche… / al giorno d’oggi, sono sempre di troppo!” / Giovannone tira forte un gran sospiro: / “Sono le ultime due del nostro tiro. (1) / Valgono, valgono tanto oro quanto pesano…! / Se non fosse perché abbiamo fatto una grossa spesa!” / Due chiacchiere fatte vicino al mandriolo (2) / e le mucche sono rimaste solo nelle favole. / Il camion è arrivato verso le due, / ha caricato le madri con i loro figli. / Tra le stecche scheggiate della vecchia sponda, / s’intravvedeva il muso con la mordacchia. / Dal buco, che era un po’ più in su, / spuntava un occhio nero e blù. / La Biśa cercava l’aria fine… / l’odore del fieno e dell’erba del prato di casa, / di vedere ancora l’ombra dei filari, / la fatica dell’aratro e del carreggiare…! / Caricate sul camion e legate all’incontrario, / della Bionda si vedeva solo il posteriore. / Con il rumore del camion è svanito, / l’ultimo muggito strozzato e rauco.

(1) Traino di buoi. (2) Recinto per vitellini.

Tratto da:
Alessandro Corazza, Sbarlum dla ment : barlumi della mente, Portomaggiore, Edizioni Arstudio C, 2011

Alessandro Corazza (Portomaggiore 1932)
Insegnante nella scuola primaria e nella secondaria. Impegnato da sempre nel volontariato. Ha pubblicato poesie giocose in Palio in maschera (1994). Studioso del territorio ha dato alle stampe La persistenza della memoria : censimento dei monumenti, cippi, lapidi, targhe e vie di interesse storico nel comune di Portomaggiore (2011) oltre a Fra… cronaca, storia, situazioni, fantasia, passato, narrazione, avvenimenti, racconto, accadimenti, invenzione… del mio paese (2017).

 Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca (Qui)

In copertina:  Azienda Concato – foto di Marco Chiarini, 2021

25 APRILE A METÀ
Radici del razzismo e scheletri negli armadi:
Le pene di tre guerre (IX Parte)

Gli eremiti cristiani che fra il III e il IV secolo d.C. popolarono le grotte del deserto egiziano lo trovarono accogliente e favorevole alla longevità: il grande abate Antonio vi visse fino a 105 anni, otto in meno di Paolo di Tebe, che negli ultimi 60 anni si cibò solo del tozzo di pane che un corvo gli portava ogni giorno. Antonio sosteneva che “chi vive in solitudine sfugge alle pene di tre guerre: quella di ascoltare, quella di parlare e quella di vedere”.

Come un libro da sfogliare percorrendolo e da leggere calpestandolo, stando ben attenti a dove posare i piedi, in nessun altro luogo come nel deserto la superficie è il mondo, e sulla superficie del deserto libico egiziano è possibile studiare la storia del nostro passato imperialista e colonialista.

Molti popoli indigeni latinoamericani credono che il petrolio sia il sangue della terra. Chissà perché è a questo che sto pensando mentre percorro l’assolata e rettilinea strada che dal Cairo conduce ad Alessandria, affiancando per lunghi tratti il corso del Nilo.
Il contesto delle campagne nazionali promosse dal governo egiziano per contrastare l’avanzata del deserto che hanno offerto gratuitamente la terra a chi fosse intenzionato a coltivarla, qui evidenzia se stesso: alla mia destra, accanto alla riva del fiume, si susseguono frutteti e vivai; alla mia sinistra, a ridosso del ciglio della strada, incombe l’immensa aridità del deserto.

La strada davanti a me improvvisamente si perde in una superficie liquida e ho l’impressione di viaggiare in mezzo a una grande laguna, interrotta qua e là da qualche isola. L’illusione dell’acqua è così realistica che trarrebbe in inganno chiunque: mano a mano che proseguo si allontana e l’effetto visivo è quello di una marea che velocemente si ritira al mio avanzare.
Mi sono fermato per sgranchirmi le gambe, nell’aprire la portiera ho capito che l’aria condizionata dell’automobile è un vano concetto teorico e mentre cammino sotto un sole accecante, sento che la suola delle scarpe sprofonda e si appiccica su una crosta granulosa cosparsa di cristalli bianchi e conchiglie fossili.
Dopo pochi passi mi arresto e compio un giro completo su me stesso: la macchina sembra già lontana, la strada mai esistita, tutt’attorno a me nessun’altra presenza mentre vengo investito da una folata di un vento talmente caldo che sembra quello che è uscito poco fa dal cofano, appena l’ho aperto per tentare inutilmente di raffreddare il motore.

Paolo Caccia Dominioni: l’ultima battaglia del Samaritano del deserto

Ho raggiunto la depressione di Quattara, una regione sterile e salata che è diventata un deserto migliaia di anni fa, quando le acque del mare, lasciandosi dietro una spiaggia desolata, si sono lentamente ritirate più in là, proprio come hanno fatto le fate morgane che mi hanno accompagnato sin qui.
La depressione di Qattara costituisce il secondo punto più basso dell’Africa e occupa una regione del Deserto Libico dell’Egitto nordoccidentale che si estende per circa 18.000 km2. Circa un terzo della sua superficie è ricoperta da saline che ogni tanto si riempiono d’acqua e si presenta come un mosaico di oasi selvagge e disabitate disseminate tra laghi, boschetti, paludi e canneti.
Nella discesa verso il punto più basso, -133mt. al di sotto del livello del mare, attraverso il Passo del Cammello, si raggiunge la maggiore oasi nella depressione, quella di Moghra.
Frequentata da nomadi beduini in transito con le loro greggi solo come punto di sosta nei periodi di estrema siccità, sorge attorno a un lago permanente, le cui propaggini offrono alla vista una palude di alti e folti canneti cui succedono boschetti di palme e acacie.
Il sale, come molte altre cose nel deserto, giace al suolo, ed è solo da raccogliere, ma le saline possono essere pericolose perché la coltre superficiale può nascondere sabbie mobili non visibili in grado di sommergere persone, animali e automezzi.

Carri dell'Ariete ai margini della depressione di El Quattara
Carri dell’Ariete ai margini della depressione di El Quattara

Nella depressione di Quattara vi sono molte insidie di tal genere che durante la seconda guerra mondiale furono utilizzate come barriere strategiche invalicabili per la maggioranza dei veicoli militari e dei carri armati.
Le alte scogliere che la circondano e che con le loro scarpate rendono la depressione ancor più impraticabile, sono profondamente incise da trincee scavate nella roccia ed è qui, in un territorio di 3.500 chilometri quadrati, tuttora contaminato dalle mine e dagli ordigni inesplosi, che si è svolta la pietosa opera che ha portato alla costruzione del Sacrario Militare Italiano di El Alamein che comprende una Corte d’Onore, un Museo Storico e una piccola moschea con i resti di 232 caduti libici.

Per la costruzione del cimitero inglese, lunghe file di tombe tutte uguali scavate in terra ognuna con la propria lapide, vennero impiegati anche quarantesette prigionieri italiani, detenuti nel campo n.308 di Alessandria.
Al termine di quell’opera, durata quasi tre anni e iniziata immediatamente dopo la fine del conflitto, furono però solo in quarantaquattro a tornare dopo essersi guadagnati la libertà: tre di loro erano saltati sulle mine.

In occasione delle celebrazioni del cinquantenario della Battaglia di El Alamein occorse il 24 Ottobre 1992, venne posta questa lapide dal Commissario Generale per i Caduti di Guerra Italiani:

ALLA MEMORIA
DEL COLONNELLO DEL GENIO ALPINO
PAOLO CACCIA DOMINIONI
CONTE DI SILLAVENGO
NERVIANO (MI) 14 MAGGIO 1896
ROMA 12 AGOSTO 1992
GIA’ COMANDANTE DEL 31° BATTAGLIONE
GUASTATORI DEL GENIO
NELLE BATTAGLIE DI EL ALAMEIN,
VISSE QUI PER DODICI ANNI
ALLA RICERCA DEI CADUTI SPARSI
TRA LE SABBIE DEL DESERTO,
A MOLTI DIEDE UN NOME,
PER TUTTI PROGETTO’
E COSTRUI’ QUESTO SACRARIO
A TRAMANDARNE LE GESTA
A COLORO CHE SEGUIRANNO
INGEGNERE, ARCHITETTO,
SCRITTORE ED ARTISTA,
PIU’ VOLTE DECORATO AL V.M.
LASCIO’ MIRABILE TRACCIA DI SE’
IN OGNI SUA OPERA,
LA PATRIA LO ANNOVERA
FRA GLI UOMINI MIGLIORI
CHE L’HANNO SERVITA IN UNIFORME,
E GLI PORTERA’ PERENNE GRATITUDINE
INDICANDONE L’ESEMPIO
ALLE GENERAZIONI DI DOMANI.
IL SUO SPIRITO E’ QUI CON QUELLO
DEI SUOI ANTICHI COMPAGNI D’ARME,
AD ONORARE PER L’ETERNITA’
IL NOME D’ITALIA

Paolo Caccia Dominioni appartenne ad una straordinaria tipologia di guerrieri, fino a divenirne un raro simbolo. Nel corso della Prima Guerra Mondiale combatté prima tra i ‘volontari ciclisti’ poi come ufficiale del genio pontieri e infine in un reparto di lanciafiamme.
Trasferito a Tripoli, fu congedato nel 1920, si laureò in ingegneria in Italia e visse al Cairo. Data la sua conoscenza delle regioni nordafricane, nel 1930 fu richiamato nel corpo dei meharisti per effettuare esplorazioni e missioni in Libia.
Nel 1935 combatté nella Guerra d’Etiopia; dal 1942 la Seconda Guerra Mondiale.
Come Maggiore gli fu assegnato il comando del 30° Battaglione Guastatori Alpini, ma a El Alamein combatté a capo del 31esimo, che venne annientato.
Fu ferito e rimpatriato.
Un anno dopo ricostituì il 31° Battaglione dei Guastatori Alpini, erede dei reparti andati distrutti.
L’8 settembre 1945, giorno dell’armistizio, disertò, si unì alla Resistenza e venne condannato a morte per tradimento, ma si salvò e tornò in Egitto.

Esumazioni, disegno di Paolo Caccia Dominioni
Esumazioni, disegno di Paolo Caccia Dominioni

Qui, dal 1948 al 1962, si dedicò ininterrottamente alla ricerca delle salme insepolte dei caduti a El Alamein, percorrendo 30.000 chilometri nel corso di 355 ricognizioni che lo portarono a recuperare, riconoscere e raccogliere, ad uno ad uno, i resti dei suoi commilitoni e a creare il sacrario italiano con pochi finanziamenti pubblici, qualche aiuto e tanto lavoro volontario.
Guerriero fino in fondo: dopo aver combattuto in tante battaglie vinse la sua personale guerra contro il pericolo di dimenticare un immane sacrificio.

cimitero di guerra provvisorio El Alamein
Cimitero di guerra provvisorio El Alamein

 

Si guadagnò tre medaglie al valore militare e una Croce di Guerra, ma Paolo Caccia Dominioni, conte di Sillavengo, il Sandgrafil Conte della Sabbia – come lo avevano soprannominato i generali tedeschi, verrà soprattutto ricordato come il ‘samaritano del deserto’, per la sua pietosa opera di infaticabile becchino in uno dei più grandi ed emblematici cimiteri e monumenti di guerra coloniale presenti sulla faccia della terra.

In copertina: disegno di Paolo Caccia Dominioni

Leggi la Prima Parte del reportage storico [Qui],

la II [Qui],

la III [Qui],

la IV [Qui],

la V [Qui],

la VI [Qui]

la VII [Qui]

la VIII [Qui]

Franco Ferioli, l’inviato di Ferraraitalia nel tempo e nello spazio, è il curatore della rubrica Controinformazione. C’è un’altra storia e un’altra geografia, i fatti e misfatti dell’Occidente che i media preferiscono tacere, che non conosciamo o che preferiamo dimenticare. CONTROINFORMAZIONE ci racconta senza censure l’altra faccia della luna,

Problemi ambientali, soluzioni sociali:
un dossier per agire

da: Pressenza – redazione Italia

Si scrive sostenibilità, si pronuncia equità: così potrebbe essere sintetizzato il dossier infografico realizzato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo in collaborazione con Riccardo Mastini, ricercatore in ecologia politica all’Università Autonoma di Barcellona, e che ha per titolo “Problemi ambientali, scelte sociali”.

Siamo abituati a pensare che la questione climatica e più in generale quella ambientale richieda solo interventi di carattere tecnologico, tutt’al più nuovi stili di vita; in realtà impone anche scelte di carattere fiscale e di spesa pubblica, perché questione ambientale e questione sociale sono intimamente intrecciate fra loro. Per cominciare la responsabilità del degrado ambientale è diversificata in base al tenore di vita. Basti dire che a livello mondiale il 10% della popolazione più ricca è responsabile del 49% di CO2 emessa a livello mondiale, L’1% da solo è responsabile addirittura del 15%. Per contro il 50% più povero contribuisce solo al 7% delle emissioni globali. Le stesse disparità le riscontriamo anche a livello di singole nazioni. Nell’Unione Europea l’impronta pro capite di anidride carbonica dell’1% più ricco corrisponde a 55 tonnellate all’anno. Quella del 50% più povero  è undici volte più bassa.

Nel valutare quali misure assumere per porre un freno alle emissioni di anidride carbonica, occorre considerare che nella nostra società c’è chi può decidere come vivere e chi invece lo deve subire. Chi si trova in povertà non può scegliere se vivere in centro o in periferia, se mangiare biologico o cibo spazzatura, se avere la casa coibentata o ad alta dispersione termica. Deve semplicemente adottare lo stile di vita meno dispendioso. Che non è automaticamente il meno impattante.  Molti poveri, ad esempio, sono costretti a vivere in periferia dove gli affitti sono generalmente più bassi. Ma  contemporaneamente mancano di servizi essenziali (scuole, negozi, presidi medici) e di trasporti pubblici. Di conseguenza l’auto si rende indispensabile con inevitabile aumento dell’impronta di carbonio. Ed arriviamo all’assurdo che al di sotto di certi livelli di reddito, l’impronta ambientale non è determinata dalla ricchezza, ma dal livello di povertà che non lascia possibilità di scelta come invece hanno i facoltosi.  Se sei così ricco da poterti permettere un’automobile di alta cilindrata, allora sei anche sufficientemente ricco da poterti permettere una vita senza automobile. I soldi ti permettono di scegliere il tuo stile di vita, e se finisci per condurne uno ad alto impatto ambientale, ne sei responsabile. Non altrettanto per i più poveri la cui mancanza di libertà annulla anche la responsabilità per le conseguenze che la propria vita arreca all’ambiente.

E a dimostrazione di come per i più poveri non esista una diretta correlazione fra impronta di carbonio e responsabilità, c’è che molti di loro hanno chiaro che investire in incrementi di efficienza per la propria casa, per i propri elettrodomestici e per la propria vettura può fare la differenza. Molti sanno che a parità di consumi, una famiglia che vive in una casa ben coibentata ed utilizza elettrodomestici e veicoli ad alta efficienza energetica può arrivare a produrre fino a tre volte meno emissioni climalteranti rispetto ad una famiglia costretta ad utilizzare beni a bassa efficienza. Ma pur sapendolo non investono in innovazione perché non hanno i soldi per farlo.

Le proteste dei gilet jaunes vanno lette in questa prospettiva. Vogliono dirci che le misure fiscali per ridurre il consumo di benzina e di elettricità si trasformano in misure contro i poveri se non sono accompagnate da maggiori servizi e da adeguati contributi alle ristrutturazioni.

Considerato il ruolo centrale giocato dalla collettività per il raggiungimento di una sostenibilità che non lasci indietro nessuno,  è  fondamentale garantirle tutto il denaro che serve per lo svolgimento delle proprie funzioni. Per questo il sistema fiscale assume importanza strategica,   tanto più che non serve solo a raccogliere denaro per le casse pubbliche, ma anche a  ristabilire equità fra cittadini e a orientare i comportamenti di famiglie e imprese affinché le loro scelte di consumo e di produzione non entrino in rotta di collisione con l’interesse generale. Ecco perché è arrivato il tempo di porre con forza una seria riforma del fisco, coerente con l’articolo 53 della Costituzione. Ossia che ogni forma di ricchezza (reddito, patrimoni  eredità) siano tassati secondo criteri di progressività e cumulo. Ricordandoci che i tre individui più ricchi d’Italia possiedono la stessa ricchezza del 10% più povero, ossia sei milioni di persone. Disuguaglianze che pesano come macigni  e che paghiamo su tutti i piani: umano, sociale e ambientale.

Centro Nuovo Modello di Sviluppo

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OIM e UNHCR condannano il respingimento di migranti e rifugiati in Libia

da: UNHCR, 17.06.2021

L’OIM, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, e l’UNHCR, Agenzia ONU per i Rifugiati, confermano che oltre 270 migranti e rifugiati sono stati consegnati alla Guardia Costiera libica dalla nave “Vos Triton”, battente bandiera di Gibilterra.

La “Vos Triton” aveva soccorso i migranti e rifugiati in acque internazionali lo scorso lunedì, 14 giugno. Il 15 giugno la Guardia Costiera libica li ha riportati indietro nel porto di Tripoli, dove sono stati mandati in detenzione dalle autorità locali.

OIM e UNHCR ribadiscono che nessuno dovrebbe essere riportato in Libia dopo essere stato salvato in mare. Secondo il Diritto Marittimo internazionale, le persone salvate devono essere fatte sbarcare in un porto sicuro.

Il personale dell’OIM e dell’UNHCR è presente in Libia per fornire assistenza umanitaria salvavita. Tuttavia, le due organizzazioni ribadiscono che mancano le condizioni di base per garantire la sicurezza e la protezione dei migranti e dei rifugiati soccorsi dopo lo sbarco; pertanto, la Libia non può essere considerata un porto sicuro.

In assenza di meccanismi di sbarco prevedibili, chi opera soccorsi in mare non dovrebbe essere obbligato a riportare rifugiati e migranti in luoghi non sicuri.

La Guardia Costiera libica ha riportato più di 13.000 persone in Libia quest’anno, un numero che ha già superato il totale di tutti i migranti e rifugiati intercettati in mare e riportati indietro nel corso dell’intero 2020. Altre centinaia di persone sono morti in mare.

Le continue partenze dalla Libia evidenziano come sia necessario istituire un meccanismo prevedibile di sbarco lungo la rotta del Mediterraneo centrale, con effetto immediato e nel pieno rispetto dei principi e degli standard internazionali sui diritti umani.

I migranti e i rifugiati riportati in Libia spesso si ritrovano in condizioni inumane e possono essere esposti ad abusi ed estorsioni. Altri scompaiono e sono irreperibili e si teme che alcuni possano essere stati incanalati in reti di traffico di esseri umani.

Le organizzazioni chiedono anche la fine della detenzione arbitraria in Libia, attraverso l’istituzione di un processo di revisione giudiziaria, e sostengono la necessità di trovare alternative alla detenzione e di rimettere immediatamente in libertà i più vulnerabili.

Parole a capo
Federica Gullotta: “I treni sono molto caldi per me” ed altre poesie

 

“Scrivi poesie perché hai bisogno di un posto dove essere quello che non sei.”
(Alejandra Pizarnik)

Anche io domani

Anche io domani sarò sotto
questo potente bombardamento
e aprirò la coperta del silenzio
con cui la gente sotto le tende
si tapperà le orecchie e io starò
per ore a guardare
i loro piedi scalzi e crepati
che pestano le croste di pane e
gli avanzi dei cani
tutto sommato, un giorno
sarò irreale
prenderò le loro croste
e i loro avanzi
li getterò in un burrone profondo
come una cava
prenderò i loro cani e li farò
adottare dalle famiglie
che desiderano un cane
li allontanerò e non sentiranno più
puzza di bruciato
un odore salirà delicatamente
nel cielo
e si unirà al frastuono e
alle armi
senza aver fatto
niente di male
questi uomini si ritireranno sotto
le tende, e con la plastica in mano
pregheranno di finire
qualcosa che non ha cervello
e continueranno a pregarlo
per tutta la sera fino a quando
si addormenteranno esausti
e nel cielo navigherà
una piccola nave arancione

 

Ho lavorato quarant’anni

Ho lavorato quarant’anni, dice,
mi sono svegliata alle sei
per PULIRE LA CASA
fare centinaia di chilometri
in autostrada
DA QUANDO NE AVEVO 25
E qui la scena cambia
nessuno le ha chiesto di venire
al mondo, probabilmente un gioco
del silenzio e della paura
– ora nessuno ha avuto una vita,
nessuno è stato
quando c’era molto buio
nessuno ha chiamato
mentre noi trascinavamo
senza amore un mondo dopo
l’altro
con giornate molto luminose
e notti normali
nelle loro case
senza cercare,
guardando questi uomini mortali
risultare unici
mentre noi esaltati e perfetti
sul muro d’estate
eravamo idioti
senza speranza

 

Si può vedere molto più di quello che si pensa

Si può vedere molto più di quello che
si pensa
e di solito sono immagini meno favorevoli
di quelle che uno vorrebbe
non brutte, anzi bellissime
piene di grazia
direi quasi sottomesse al delirio della bellezza
qualche religione ci spodesta e ci invade
non era un mostro, era un’agitazione di tetti
come quelli che osserviamo qui
è solo una pastiglia, è solo
un’impalcatura
deve sorridere, sorride
deve essere, è
gli abitanti sono stesi su una grande superficie e
si spendono nella ricerca
nulla li abbatte
aldilà delle tue convinzioni qualcuno si sta
discolpando dalle tue accuse
la serie binaria continua calma

i soldi ti volano attorno ma tu non sei
i soldi
non sei nemmeno uno specchio
e non sei una falsa aurora o quella vecchia speranza che si
nasconde mordendoti la mano
non sei colui o colei che appoggia un solo piede non sei
nemmeno un piede
non sei la loro immagine nel filosofo non sei la loro ombra
nel deserto che non hai mai visto
non sei colui o colei che non hai mai
potuto vedere
non sei quel perfetto ricambio
il perfetto albero ti trafigge ma tu non
lo sei
questo ti rovina

 

I treni sono molto caldi per me

I treni sono molto caldi per me
non sono mai abbastanza freddi
all’interno
ci nasce una vita odiosa e sporca
mentre fuori la vita è impeccabile
e trasparente
fuori è gelida dentro è animale
nasce il sudore continuo della morte
ma la morte non si compie
non si compirà mai
sono felice come le bestie più stolte
non si compirà mai
nel treno mi comporto come
se fosse il mio regno
faccio pipì, mi lavo il viso duecento volte
se vado in bagno lascio il libro
e porto con me il telefono
– Mi scusi il sedile era mio, si alzi –
si alzano, io so stare in equilibrio
so fare tutto
Non si compirà mai
tanto il treno è sempre lo stesso
il tempo è enorme
in quelle terre ci sono laghetti
e canali strani vicino alle ferrovie
non sembrano fantasmi
le gole abbandonate degli amici?
Non sempre è giusto dirlo
vederli accompagnare questa radiosa malattia
li ho dimenticati
esiste un vero più vero
esiste un presente più antico che incrina
non vogliamo più essere che
nella vita successiva

Federica Gullotta è nata a Faenza, dove vive. È laureata in Sociologia.
Ha pubblicato il suo libro d’esordio “La bestia viziata” (LietoColle, 2016) nella Collanina Apolide curata da Mary B. Tolusso, e la sua seconda silloge “Gli angeli bianchi escono dai frigoriferi” presso EdB nella collana Poesia di Ricerca curata da Alberto Pellegatta, insieme al poeta portoghese Manuel De Freitas. Alcuni suoi testi sono stati pubblicati su blog online e sulle riviste cartacee Il Segnale e Gradiva. Ha partecipato alle antologie Planetaria (Taut Editori) e Abitare la parola (Ladolfi).

La rubrica di poesia Parole a capo esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. 
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

DIARIO D’ESAME

Oggi inizia quella che chiamiamo “la maturità” o, più correttamente, l’Esame di Stato che conclude il ciclo di studio delle scuole superiori.

Anche come docente sono sempre un po’ emozionato quando arriva questo momento.
Ricordo la mia di “maturità”.
Si finiva tardi allora, anche agli ultimi di luglio.
Caldo assurdo.
Mai studiato tanto in vita mia!
Per stare più tranquillo mi ero trasferito nella casa dei nonni.
Loro erano andati al mare, a Bellaria, e i miei mi avevano proposto di andare nel loro appartamento per preparare l’esame senza essere così disturbato da nessuno.
Ricordo come se fosse ieri la mia espressione di contrita rassegnazione, come se avessi dovuto adempiere ad un ordine superiore e necessario. Acconsentii facendo una smorfia di assenso con un viso ipocritamente triste
Appena fuori di casa diedi sfogo con canti e alte grida di gioia alla mia totale felicità per quell’occasione che mi si presentava nell’aver a disposizione una casa tutta per me, senza genitori intorno, dove potevo chiamare chi volevo io, ragazza compresa !
In verità non ebbi molto tempo da dedicare alle “relazioni sociali”.
Tra filosofia, greco, lettere e latino mi immersi ben presto in un mondo irreale popolato da personaggi che adesso vedevo con occhi diversi rispetto al racconto subito negli anni passati dai miei insegnanti.
In un qualche modo la poetica di Leopardi, il pensiero di Schopenhauer, le ragioni della crisi del ‘900…mi parlavano veramente!
In loro compagnia dalla mattina alla sera, non obbligato da nessuno, in una casa tutta a mia disposizione, piano piano cominciavo sempre più a sentire quei contenuti riferiti a me, mi interrogavano…stavano entrando nella mia storia.
Ricordo che di sera andavo a parlarne con Rita Montanari, una prof. straordinaria mia amica, e stavo là molto tempo a cercare di capire…di comprendere…
I miei amici venivano a suonare il campanello nel pomeriggio sul tardi.
Andavamo o dalla Gigina a farci un panino e una birra o a prendere un “cucciolone”(un gelato dell ‘Algida) ai giardini del Parco Massari…
Non era iniziata ancora l’era dell’aperitivo, (casomai c’erano altre esperienze attorno a noi segnate dalla droga ma questa è un’altra storia), ma anche li alla fine si arrivava a parlare dei temi degli autori da studiare.
Il sabato poi si correva tutti da chi aveva la casa al mare per un bagno liberatorio lungo fino alla domenica
Quel giorno alla fine arrivò.
Il pomeriggio precedente una drammatica telefonata mi raggiunse contribuendo a calare tutto quel periodo in una dimensione ancora più irreale.
Il nostro compagno di classe Nicola Bonetti era stato assassinato al lido di Spina da uno sconosciuto mentre si era appartato con la sua ragazza!
Ricordo che non riuscii a dire nulla all’amico chi mi aveva telefonato per darmi quella notizia tanto assurda.
Tornai in cucina a ripassare…con la mente che però lì non ci voleva più stare.
Era come se la realtà, che per più di un mese avevo lasciato fuori dalla porta, adesso, proprio nella notte prima degli esami, reclamasse drammaticamente il posto che le spettava.
Erano oramai le due.
Stanchissimo presi in mano il canto trentatreesimo del Paradiso per un ultimo ripasso.
Il mattino alle 8,30 entrai nell’aula 19 del liceo Ariosto per sostenere il colloquio finale dell’esame.
Dopo le formalità di rito il commissario di Italiano mi disse:
“Bene Paltrinieri possiamo iniziare . Cominciamo da Dante.
Prenda il Paradiso , il canto trentatre e commenti l ‘ultimo verso : l’amore che muove il sole e le altre stelle….”.

Ferrara 16 giugno 2021

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FANTASMI
Fantasmi all’alba

 

Era ancora notte, una notte d’estate, e fra un paio d’ore il sole sarebbe spuntato dietro il palazzo di fronte, quello rivolto a oriente. Roberto, detto Bobby, era ancora in piedi con la testa appoggiata ai vetri della finestra: magro, in mutande, un po’ curvo sotto il peso degli ultimi bagordi. Provato, sì, ma sempre indomito. Aveva dormito per quasi tre ore e adesso era pronto per partire. Documenti, occhiali da sole, zaino con tutto il necessario per il viaggio, anche se non sapeva quanto il viaggio sarebbe durato: forse una settimana, forse un giorno, forse più. È così, al buio, che gli uomini liberi affrontano il futuro, si disse, perché a volte la vita non è altro che una mano di poker. Nella sua testa la libertà, il rischio e la disperazione erano sogni fatti della stessa sostanza, e spesso la sostanza era di natura chimica. Questa volta si trattava di LSD. Era pronto a tutto, tranne che al viaggio senza ritorno che stava per inaugurare.

Jeans bermuda, cappello NY, maglietta dei Metallica con su scritto fade to black, barba di tre giorni. Non si era nemmeno lavato i denti perché aveva calcolato che si sarebbe sciacquato la bocca con l’acqua di mare. Così fanno gli uomini liberi, si disse, anche se a volte la libertà si confondeva con le inquietudini dell’adolescenza e i trentadue anni che ogni tanto si dimenticava di avere compiuto poche sere prima. Aveva festeggiato al solito pub di Primavalle con un gruppo di vecchi amici, quelli che frequentavano la sua officina, e poi, verso mezzanotte, a casa sua insieme a Sara. Ma la vera festa, quella doveva ancora incominciare.

Sara era dolce, piena di attenzioni, non faceva troppe domande e lo ammirava in silenzio, non interferiva col suo bisogno di solitudine e con le sue divagazioni filosofiche, ma era anche la donna che non gli poteva più bastare. Lei lo considerava una specie di mago, un romantico capace di irretire chi lo stava ad ascoltare con i suoi racconti, i suoi aforismi sulla vita e i suoi sogni, ma ne era affascinata senza capirlo davvero. E questo era un problema.

Molti, oltre che Bobby, lo chiamavano Golden Boy, e poi, dopo i trenta, il Golden e basta. Lo chiamavano così per le sue mani da mago, perché nessuno amava, capiva e riparava le motociclette come sapeva fare lui, soprattutto quelle d’epoca. Quando metteva mano a un motore, a un cambio o a una marmitta, lo faceva con delicatezza sapiente, lo sapevano tutti, e mentre molte officine della zona chiudevano i battenti lui continuava ad accumulare clienti e guadagni. Ma anche se amava le motociclette non era uno di quei fanatici che si radunano in branco coi loro cavalli cromati e le giacche di pelle e i tatuaggi e i capelli lunghi e le donne da sellino posteriore, che pensano solo ad esibirsi perché nella vita non hanno altro di bello in cui credere. Lui era un cavaliere solitario, disprezzava quei pagliacci da circo rombanti, capaci solo di sbronzarsi e fare i buffoni gonfi di birra, di film americani e musica country o metal da due soldi. Gente come suo padre, che da ridicolo vecchio patetico motociclista che si atteggiava a Hell’s Angel con la sua coda di cavallo, i tatuaggi rossi col drago e il volto da caprone del demonio stampigliato sul serbatoio della moto, i muscoli da palestra fuori tempo massimo e i capelli bianchi, si era schiantato a sessanta anni come un coglione contro un albero della Braccianense. No, lui aveva una sua filosofia, non aveva bisogno di dimostrare agli altri quanto fosse speciale. Parlava poco e con pochi, era autosufficiente, e non una vittima di mode idiote. Tatuaggi sì, ma poco visibili, discreti, come anche i muscoli da palestra. Perché l’eleganza non è ostentazione, ma allusione discreta. Lo sapevano in pochi, e lui faceva parte di quei pochi.

Nessuno, né gli amici dell’officina né Sara, potevano capire di che stoffa era intessuta la sua anima. Lui era il Golden, era di un’altra razza. Solo lui e pochi altri sconosciuti, che in questa vita prima o poi avrebbe incontrato, erano iniziati alla vera conoscenza: solo loro sapevano che i sogni sono la realtà mentre il mondo intorno a noi è solo una trappola infida e senza sostanza, qualcosa che non ha nulla a che fare con la vita vera. Sua madre era una di quei pochi, lei sì che lo sapeva. Era una semplice parrucchiera, ma anche una donna romantica e intelligente, aveva letto tanti romanzi e certe cose gliele aveva fatte capire fin da quando era bambino. Gliele ripeteva con la sua voce dolce e un po’ malinconica, gli raccontava favole e aneddoti, lo faceva viaggiare con l’immaginazione in luoghi dove non erano mai stati, né lei né lui, fino a quando non si era suicidata dopo essere stata abbandonata da quel coglione di suo padre che si era innamorato di una ragazzina viziata che a sua volta si era innamorata della sua Honda 500. La stessa Honda sulla quale, gonfi di birra, erano crepati entrambi.

Roberto scese i gradini di casa caracollando fino al garage, sollevò la saracinesca, accese la luce al neon e rimase lì fermo a rimirare la Aermacchi-Harley Davidson 250 color amaranto, un gioiellino che il padre non aveva fatto in tempo a distruggere e lui aveva rimesso a nuovo. Poi, con movenze lente da dominatore, la inforcò e la spostò fuori dal garage. Spinse il pulsante di accensione e con un rombo al rallentatore attraversò in quella notte poco illuminata da vecchi lampioni e da stelle sempre più pallide tutto Montespaccato fino a Via Boccea. Da lì, da quell’incrocio a quattro semafori, il viaggio verso il mare avrebbe spalancato i suoi cancelli.

L’LSD è roba per gente cattiva, in cerca di vendetta, aveva detto qualcuno che se ne intendeva più di lui, qualcuno di cui non ricordava il nome. Ma lui non era cattivo né vendicativo, era solo stufo della solita vita, delle solite facce degli amici del pub, della solita Sara con cui divideva a volte le notti e il letto, quel corpo di donna che solleticava la sua vanità, che lo assecondava ma non riusciva a farlo sognare. E soprattutto non aveva nulla da insegnargli, mentre lui proprio di quello aveva bisogno: di imparare da chi sapeva sognare, perché i pochi sogni notturni che la sua insonnia crudele gli concedeva non bastavano più.

Il vento notturno era ancora fresco, niente casco, niente polizia in giro, niente di niente. ‘Me ne frego della polizia’, si disse godendosi l’aria della notte, il rombo profondo della Harley Davidson, l’asfalto deserto. Dagli auricolari gli si diffondeva nel cervello la musica degli Angry Mothers e degli Autofficina, la colonna sonora che da sempre lo accompagnava nei viaggi fuori città.

Dopo le ciminiere di Civitavecchia, con quelle luci strane da stazione spaziale che ricordavano un’astronave atterrata da un altro pianeta, percorse ancora un po’ di chilometri quasi senza accorgersene e si fermò all’area di sosta subito prima di Talamone. Parcheggiò la moto e si accovacciò su un’aiuola ancora umida di rugiada. Sfilò dallo zaino la busta di plastica dove custodiva il francobollo: dopo la hawaiiana e il bambulè rosa, dagli effetti per lui ormai scontati, era giunta l’ora del superhoffman, il francobollo con le gocce di LSD pura. Lo svolse dall’involucro di carta stagnola e per un po’ rimase a rimirarlo. Poi, dopo un attimo di esitazione, aprì la bocca e se lo infilò delicatamente sotto la lingua.

Aspettò che si sciogliesse lentamente tra le papille gustative e rimase lì un paio di minuti. Poi risalì in moto e in una volata rapida raggiunse il bivio per Talamone, mentre l’alba di un rosa livido incominciava a scivolare lenta sulla spiaggia, sulle dune di sabbia ancora fragranti di quella notte di inizio estate.

Era stato altre volte lì, tra quelle dune, ma in quel momento il paesaggio gli parve trasformato in una campagna sconosciuta che sconfinava nel mare con alberi, orti e cespugli che si mescolavano alle onde del mare e a quelle della spiaggia. Sentiva le gambe un po’ molli, così si sdraiò sulla sabbia e rimase a contemplare le nuvole i cui bordi cominciavano ad assumere forme geometriche, mentre si vestivano di colori sempre più cangianti, vividi, e il suo corpo si allungava e si sollevava lievemente da terra. Un poco alla volta prese a trasferirsi tra quelle nuvole che pulsavano e respiravano e somigliavano sempre più a una metropoli illuminata da luci verdi e porpora. Sensazioni già provate, ma questa volta più intense, accompagnate da una crescente beatitudine, mentre si faceva strada la strana sensazione di essere non solo lì, ma anche altrove.

‘Onnipresente. Ubiquo. Come il Padreterno’ pensò, e si mise a ridere. ‘Sono giovane, ma adesso sono vecchio come lui e non importa se e quando mi capiterà di morire. E chi lo dice che non sono eterno?’ Gli giunse da lontana l’eco della sua risata. Provò a canticchiare qualcosa e gli sembrò che la sua voce provenisse da un luogo lontano, forse da un’altra persona nascosta dietro una duna. Il mare emanava un profumo che si diffondeva nell’aria attraverso una nebbiolina purpurea dal sapore di cioccolato.

Era lo sregolamento dei sensi, quello annunciato dai Pinkfloyd e prima ancora dagli indiani mescaleros, quelli di cui aveva letto sui libri di Castaneda, e ancora prima annunciato da Rimbaud. Ne aveva già sentito parlare, ma ora finalmente, per la prima volta, lo stava sperimentando. Sì, il viaggio procedeva sui binari giusti e probabilmente sarebbe durato tutto il giorno. A volte un giorno vale una vita, tutti lo sanno, e a volte ci sono vite che valgono meno di un giorno e lui aveva bisogno di un jet supersonico, di un superhoffman, per vedere in poche ore tutto quello che in una sola vita non si fa in tempo a vedere.

Il sole ormai si era alzato alle sue spalle, dietro le dune, quando finalmente vide prendere forma ed emergere tra le onde qualcosa che da tempo attendeva. Aveva seni piccoli da adolescente e fianchi larghi da donna matura e soprattutto non era una creatura fantastica, una sirena, ma una donna, una vera donna. E sicuramente conosceva tutti i segreti del mondo sottomarino, quello che lui non era mai riuscito a esplorare perché non aveva mai imparato a nuotare sott’acqua. Nulla nella vita era mai riuscito a fargli paura, solo il mondo sottomarino, per qualche misteriosa ragione, aveva sempre provocato in lui un terrore indicibile.

La donna si avvicinò, nuda, appena abbronzata, i capelli biondo cenere arricciati dietro il collo fino alle spalle. Era in quell’età dorata tra la prima e la seconda giovinezza, e sarebbe stata lei a descrivergli i paesaggi sottomarini, a raccontargli le avventure di Atlantide e di quelle misteriose popolazioni scomparse. Poi, un poco alla volta, gli avrebbe insegnato a nuotare sott’acqua tra quei territori inesplorati e lui finalmente avrebbe scoperto l’indicibile, l’inaudito.

Lei si scostò i capelli dalla fronte. Poi gli si accovacciò davanti. Le sue cosce erano a pochi centimetri dal viso di lui. Tutto il suo corpo profumava di elicriso, si muoveva con quella grazia che solo certe donne sanno donare ad ogni minimo movimento. Le nuvole si allontanarono e si dissolsero, il sole si ritirò nell’angolo che annuncia l’arrivo del crepuscolo e il cielo si colorò di infiniti colori, freddi e luminosi come se miliardi di diamanti fossero stati incastonati lassù.

Mai era stato così eccitato in tutta la sua vita. Non aveva la lucidità necessaria per sospettare che le tante immagini di Venere, con le sue infinite varianti, si annidano da sempre dentro la fantasia di tutti gli uomini quando la vita gli concede il tempo di fantasticare. Avrebbe dovuto dubitare di ciò che vedeva, sentiva e poteva ormai toccare, ma non era più in grado di dubitare. Era quella la realtà, l’estasi a portata di mano, mentre dal mare si sollevava una musica celestiale di pianoforte che introduceva il coro satanico e la chitarra solista di David Gilmour e dei Pinkfloyd, accompagnati da tutta l’orchestra filarmonica di Londra affittata per l’occasione. La musica proveniva dal cielo o dalla superficie del mare o da un angolo remoto del suo cervello. Non lo sapeva, ma non aveva nessuna importanza.

Intanto lei lo guardava, dalle iridi verde nocciola scivolavano minuscole gocce di acqua marina, le ciglia imbiancate di salsedine. Poi lo baciò a lungo sulla bocca e si sdraiò accanto a lui. Quando entrò dentro di lei, fianco a fianco, sembrò l’inizio di un tempo iniziato da un’eternità che non sarebbe mai finito. Come se lui avesse sempre vissuto lì, su quella spiaggia, dentro i fianchi di quella donna, come se nessuno avrebbe mai potuto sfrattarlo da lì. Lì dentro si poteva anche invecchiare, morire e poi rinascere. E si accorse, in un bagliore di lucidità, che stava recitando parole d’amore senza senso.

Poi arrivò l’orgasmo totale, abbagliante, sommersi lui e lei da lacrime di felicità salate come il mare dove avevano finito col rotolarsi. Stavano lì, sul bagnasciuga, sconvolti, lui stava appena cominciando a capire che qualcosa che non sarebbe mai dovuto finire era finito, quando arrivò la catastrofe. Vide sollevarsi dalla risacca un’onda alta tre metri, poi il rombo, lo tsunami, il cielo e la spiaggia che crollavano uno sull’altra e le onde che lo trascinavano via verso il mare aperto. Le nuvole protendevano lunghe braccia colorate verso di lui. La paranoia, improvvisa e devastante, aveva preso il sopravvento e regnava su di lui e su tutto il territorio circostante, sul mare e sul cielo. Back to black, urlò, chissà come gli sovvenne la canzone di Amy Winehouse, mentre avrebbe voluto urlare qualcos’altro che non sapeva più cosa fosse e dai suoi neuroni impazziti si levavano scariche elettriche fuori controllo.

Riuscì a fatica a raggiungere la motocicletta, i bermuda e la maglietta dei Metallica zuppi di acqua di mare. Si rivestì, risalì in sella e con un rombo selvaggio fuggì come un disperato verso l’Aurelia. Scese la rampa che riportava in direzione di Roma, poi imboccò il bivio senza guardare. Fece appena in tempo a udire lo stridore di un clacson e il frastuono della ferraglia.

Da quel viaggio non si è più ripreso. Ha salvato la pelle, solo un paio di fratture presto sanate, ma la sua mente è stata conquistata da quella donna, da quell’amore, da quel fantasma all’alba sulla spiaggia di Talamone. Non parla d’altro e del resto parla molto poco. Passa gran parte del suo tempo con la fronte appoggiata alla finestra della sua camera da letto nella casa famiglia che lo ospita. Pende su di lui, come un’imputazione, una diagnosi di schizofrenia, ma di questo nessuno lo ha informato. Del resto non avrebbe dato retta a chi glielo avesse riferito. Rimane lì per intere giornate, solo con i suoi pensieri.

Quei fantasmi sono la sua sola ragione di vita. Il resto, il mondo, gli altri, la realtà, non esistono, proprio come gli diceva sempre sua madre. Sono solo un inganno. Sono il nemico, il mondo stupido e crudele dominato da quelli che uccidono i sogni dentro la culla. Nessuno lo avrebbe mai capito, era solo come non mai, ma in compenso quell’isolamento gli garantiva che nessuno lo avrebbe mai derubato dei suoi fantasmi.

“Io sono un uomo felice – diceva allo psichiatra che una volta alla settimana si occupava di lui e ascoltava ogni volta le stesse visioni e la stessa storia d’amore vissuta sulla spiaggia di Talamone – Non ho bisogno di lei, né delle sue droghe né di quelle che prima prendevo io. Lasciatemi in pace. Io sto altrove e ci voglio restare. Datemi solo, ogni tanto, qualche motocicletta da riparare. Non vi chiedo altro.”

Un paio di volte lo psichiatra provò a spiegargli che su quella spiaggia c’era un camping e che probabilmente una delle ragazze che alloggiavano lì gli aveva rivolto la parola per qualche ragione banale, che la musica probabilmente proveniva dalla tenda di qualche campeggiatore e che non c’era stato nessuno tsunami. Quel giorno tutto si era svolto in modo tranquillo e normale, il mare era calmo, tentava di spiegargli lo psichiatra. Ma la reazione di Roberto, detto il Golden, il suo sguardo sprezzante, indussero lo psichiatra a desistere.

Lo sedavano, a forza o di nascosto, quando qualche infermiere si accorgeva che stava per sopraggiungere una di quelle crisi di autolesionismo violento durante le quali era capace di tutto, anche di uccidere o di uccidersi.

“Io sono un uomo felice. Voi che ne sapete? – diceva quelle poche volte che si confidava con gli assistenti sociali e con gli infermieri – Io sono felice. E invece voi… Voi non siete niente.”

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Le storie di Costanza /
Giugno 2060 – Ho compiuto ottantotto anni da due mesi…

Giugno 2060.
Ho compiuto ottantotto anni da due mesi. Accidenti come sono diventata vecchia. I miei capelli sono bianchi candidi e il mio viso è solcato da una miriade di piccole rughe, come il greto di un torrente in secca. Mio marito Pietro ha ottantasei anni e sta ancora abbastanza bene, a parte l’artrosi che gli sta deformando le ossa delle mani. I miei tre nipoti: Rebecca, Valeria e Enrico sono diventati grandi e hanno intrapreso percorsi di vita diversi.

Rebecca ha cinquantotto anni, abita da sola a Portici, un piccolo cascinale ristrutturato sulle rive del Lungono. Un posto splendido pieno di poesia e di storia. Fa la giornalista per TresciaOne, uno dei nostri  giornali locali. Le piace intervistare personaggi famosi e spesso mi viene a chiedere cosa ne penso di quello che scrive. Valeria ha quarantasei anni, è sposata con Luca, ha due figli che si chiamano Axilla e Gianblu, abita nella zona industriale di Pontalba e insegna geometria analitica in Università a Trescia. Enrico ne ha trentotto e fa il direttore del Museo civico di Bugnolo. Ha un bambino di otto anni che si chiama Marlon e un secondo maschio in arrivo, chissà come lo chiameranno e come sarà.

Axilla e Gianblu vengono sempre a trovarmi con Cosmo-111, il loro super-robot. Luca, il loro papà, è un ingegnere del Centro-Trescia-111 e la programmazione di Cosmo-111 è stata fatta dai migliori ingegneri del centro. Cosmo-111 è un essere straordinario. Un “mezzano” di prim’ordine, che sa stupire, tanto è capace di imparare e reagire velocemente a qualsiasi stimolo le sue apparecchiature elettroniche intercettino. Anche ora che ha dieci anni e comincia ad essere un po’ vecchio è ancora un mezzano di prim’ordine.

Quando penso alla mia vita così lunga e piena di eventi e accidentalità la cosa che riempie maggiormente i miei ricordi sono le persone che ho incontrato. Quelle buone che hanno cercato di lasciarmi un po’ di bene e quelle cattive che mi hanno fatto del male. La distinzione tra bene e male è in questo caso estrema, non esiste un male assoluto e non esiste un ben assoluto. La forma assoluta di queste due caratteristiche appartiene all’aldilà, se un aldilà esiste.

I miei nipoti mi hanno regalato un robot-canarino che si chiama Pit-x. Vive nella gabbia con Nuvola e Nembo, due bellissimi canarino arricciati. Formano un trio straordinario che mi fa compagnia e diverte le mie giornate da vecchia arzilla.

Ieri Axilla voleva sapere com’era Albertino Canali, il mio vicino di casa che faceva il trebbiatore e che è morto da un anno. Sa che era un mio amico e che gli ero molto affezionata, anche se discutevamo sempre e non ci piacevano le stesse cose. Ho provato per una vita a fargli apprezzare la bellezza dei miei cespugli di ortensia, ma non ci sono mai riuscita.

Grazie alla domanda di Axy, mi sono trovata a ripensare all’Albertino Canali di molti anni fa, quando avevamo cinquant’anni e lui voleva spalarmi la neve davanti al portone di via Santoni, mentre io mi ostinavo a farlo con la vecchia pala del nonno senza raggiungere grandi risultati e poi all’Albertino di qualche anno fa, prima che ci lasciasse improvvisamente una bella mattina chiara di marzo.

Albertino Canali non amava i “mezzani”, diceva che lo mettevano a disagio perché avevano più memoria di lui, più vista di lui, più agilità di lui. Diceva anche che, nonostante avesse ormai quasi novant’anni, era molto più bello lui di questi “esseri di latta”. I “mezzani” non hanno gambe, sono bassi e hanno delle braccia lunghe e snodate. Solo se ti abitui a vederli puoi riconoscere anche in loro qualche grado di beltà.

Alcuni hanno braccia molto snodate e altri si muovono un po’ più a scatti, alcuni hanno telecamere perfettamente posizionate nelle orbite degli occhi e sembra effettivamente che siano dotati di pupilla, iride, cornea e cristallino, mentre altri roteano gli occhi in modo tale che è evidente l’azionamento di componenti meccaniche. Alcuni hanno la testa di una forma più tondeggiante e più simile alla nostra, mentre altri più squadrata.

Siccome noi siamo esseri umani con una forte tendenza alla socialità e con una predilezione marcata per i nostri simili, più i “mezzani” assomigliano a noi, più ci sembrano belli. Poi c’è una componente affettiva che non va mai sottovalutata: il tuo robot è più bello degli altri, perché è tuo e la sua bellezza aumenta nella stessa proporzione in cui lo senti veramente tuo.
Come tutti i rapporti affettivi, anche quello con i mezzani si deteriora se l’affettività viene tradita e il robot diventa improvvisamente brutto, meno intelligente, meno appetibile, poco unico. I sentimenti traditi sono l’origine di molti mali, il motore di molte vicende nefaste, l’inizio delle peggiori guerre, la fine di moti idilli vagheggianti.

Quando Marlon ha compiuto cinque anni (tre anni fa) Enrico gli ha regalato il suo primo robot. Un mezzano costruito al Centro-Tresia-111 direttamente da Luca, il marito di Valeria. La cosa buffa è che quando è stato chiesto a Marlon come voleva chiamarlo, lui ha riposto: “Canali-111”, il cognome di Albertino. Siamo rimasti di stucco. Di solito ai robot si danno nomi astrali. Axilla gli ha proposto di chiamarlo Nettuno, Gianblu di chiamarlo Saturno e io di chiamarlo Sole, ma non c’è stato nulla da fare, Marlon ha voluto chiamare il suo robot Canali-111 e così è stato.

Ricordo che, in una limpida mattina di gennaio con tanto bianco in cielo e in terra (era appena nevicato), Marlon è arrivato in via Santoni Rosa 21 a farci vedere il suo “mezzano”. Canali-111 è un robot con delle braccia agilissime e la testa tonda come i migliori mezzani, ma la cosa davvero particolare di questo robot è che ha un occhio per colore. Le sue telecamere sono protette da una retina in vetroresina di due colori diversi. L’occhio destro è viola, come le violette che a Pontalba riempiono gli argini del Lungone in primavera, l’occhio sinistro è verde scuro, come il corso del Lungone dopo il temporale estivo, quando la molta vegetazione trascinata nel fiume dalla furia del temporale, rende l’acqua dello stesso colore delle foglie agostine. Io non avevo mai visto un robot così bello, l’ho detto a Luca e lui mi ha risposto che ultimamente molti bambini preferiscono i robot con gli occhi di colore diverso. Gli è capita una bimba che ha chiesto per il suo robot un occhio giallo come la buccia del limone e uno bianco come lo yogurt alla vaniglia. Un occhio giallo e uno bianco, davvero una strana combinazione.

Canali-111 è anche molto intelligente, impara velocemente e se non lo trattengono, fa i compiti scolastici di Marlon in un baleno. Tutti eseguiti alla perfezione e rapidamente. Una vera tentazione per Marlon, che appena può glieli sgancia, perché sa che a Canali-111 piace farli, si diverte e poi dice di se stesso “Canali-111 bravo, bravo, davvero bravo”.
“Si, si bravissimo!” gli risponde Marlon e questo rinforzo continuo fa si che l’esecuzione del compito sfiori la perfezione ogni volta. Ma la cosa stupefacente è che, se anche Marlon non fa i i compiti perché li fa il mezzano, questo non cambia nulla del suo profitto a scuola. Anzi, sembra che sia sempre più bravo. L’avere un supporto sicuro, efficiente e colto per l’esecuzione dei compiti, ha dato una grande sicurezza a Marlon, che è bravissimo sia a scuola che a casa. Se Canali-111 fa i compiti, Marlon legge le esecuzioni e impara le soluzioni a velocità supersonica, nessuno riesce a prenderlo in castagna.

Così in maniera tacita si è creato un accordo familiare per cui Canali-111 può fare i compiti a patto che il profitto di Marlon continui a essere  eccellente. Funziona perfettamente. Marlon è bravissimo. Questa vicenda insegna, cambia delle prospettive. Per facilitare l’apprendimento più che la ripetitività dell’esercizio, che quasi sempre un compito propone, serve la sicurezza, un riferimento competente a cui attingere, una reiterazione dei successi, che facilita la riproduzione del comportamento vincente. Serve l’autostima, che la prevedibilità del risultato finale garantisce. Serve una mente libera e senza preoccupazioni. Vedere Marlon e Canali-111 fa riflettere sulle modalità migliori per insegnare ai bambini nozioni e compiti esecutivi. Tutt’altro discorso si potrebbe fare se si tratta di stimolare la creatività, che resta una caratteristica tipicamente umana.

Quando Alberino Canali ha scoperto che il Robot di Marlon si chiama Canali-111 gli sono venuti gli occhi lucidi. Senza parlare li ha messi entrambi, il bambino e il mezzano, su Marghera (il suo carretto verde) e si è avviato verso gli argini del Lungone con evidente soddisfazione. Il caso di omonimia tra il suo cognome e il nome del mezzano di Marlon, che poi un caso non è, gli ha provocato una grande gioia, che abbiamo visto suppurare da ogni poro della sua vecchia pelle e che l’ha riempito di allegria. Altro che le mie povere ortensie, per un attimo Albertino Canali ha dimenticato tutti i guai della sua lunga vita.
Lasciate fare ai bambini e ai loro robot: chi volete li possa battere!

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

“L’altro piano”
intervista ad Antonio Facchiano sul suo romanzo

 

L’altro piano di Antonio Facchiano, (Graus Edizioni) è un thriller che racconta la storia di un uomo coinvolto suo malgrado in un ricatto di predoni ai danni di una Onlus che raccoglie bambini soli e malati. Sullo sfondo la carenza di organi da trapianto e il traffico clandestino di organi e di esseri umani, la determinazione di chi, da solo o in gruppo, combatte questi traffici quotidianamente, e le sofferenze di chi ne è vittima.
È possibile considerare L’altro piano un ‘giallo religioso’? E secondo te esiste un genere che possa essere così definito?

In L’altro piano la componente religiosa è importante ma credo non sia quella predominante. Direi che è soprattutto rappresentato il mondo del volontariato, che collabora spesso con quello religioso ma ha una sua completa autonomia. Il volontariato è a stretto contatto con le povertà e le difficoltà esistenziali, ed è poco presente nel panorama letterario pur essendo una possibile fonte di ambientazioni e storie umanissime, molto coinvolgenti. Nel libro compare il sentimento del tempo che passa malgrado tutto. Compare la pietà verso i ‘cattivi’, che hanno, a dispetto della loro evidente malvagità, caratteristiche nascoste di umanità. In qualche punto può essere presente un riferimento al thriller di ambientazione religiosa di Dan Brown o ai complotti raccontati da Umberto Eco ne Il nome della Rosa, ma ho cercato di armonizzare le diverse componenti in una maniera originale.

Quali sono i diversi significati del titolo del romanzo?

Nel libro i protagonisti mettono a punto un piano per non cedere al ricatto dei predoni africani; ma nel corso della storia si scopre che i piani sono almeno due. Ecco perché ‘L’altro piano’.Tuttavia, nel titolo si fa anche riferimento alla molteplicità dei possibili piani di lettura. C’è il piano di lettura puramente investigativo con i suoi colpi di scena, ma a ben guardare c’è anche il piano della denuncia, che riguarda il traffico di organi; poi c’è il piano più introspettivo che riguarda il sentimento solitario di impotenza di fronte al male, ma anche il piano contrapposto a questo, in cui è protagonista il coro di volontà diverse orientate verso un obiettivo comune. Il coro, il lavoro di team, l’unione di volontà e competenze diverse allargano in maniera imprevedibile i limiti della possibile efficacia contro il male. Nel libro è raccontato anche un coro musicale assolutamente inedito. In più di un punto si racconta il potere della musica sull’animo umano. Inoltre, mi sono divertito ad inserire piani aggiuntivi che lascio scoprire al lettore attento.

Perché il nome di Tommaso per il prete?

La scelta dei nomi non è stata casuale. I nomi hanno un ruolo evocativo e in qualche caso questo ruolo è più evidente.Tommaso è il discepolo incredulo di Gesù, raffigurato dal Caravaggio con una mimica che a me ricorda maggiormente la curiosità piuttosto che la incredulità. E forse proprio per il suo carattere di curiosità, Tommaso mi ha sempre ispirato simpatia. Tommaso è un nome legato a grandi personaggi come Tommaso D’Aquino, Tommaso Campanella. La doppia labiale ‘mm’ di Tommaso e la doppia labiale ‘pp’ di Filippo si adattano al carattere forte e determinato dei due protagonisti maschili; forza e determinazione che nella protagonista femminile sono descritte dall’origine mitologica del nome Diana, dea della caccia e simbolo della Luna. Infine, ‘Tommaso’ in aramaico significa ‘gemello’ e questo ha un potere evocativo molto forte per me, che sono gemello.

Leggendo ho pensato all’inizio di Nero come il cuore’di De Cataldo, poi, procedendo nella lettura, la tematica che emergeva mi ricordava alcune opere di Dostoevskij. 

Ho cercato di raccontare una storia basata su un tema principale (denuncia del traffico di organi) associato a temi universali presenti nella letteratura di tutti i tempi (lotta contro il male, relazione genitore-figlio). Tuttavia, nell’intreccio compaiono altri temi (ad esempio, la ricerca del senso da dare alla propria vita) che rappresentano ulteriori spunti di riflessione e stimolano l’attenzione del lettore. Sin dall’inizio per me era chiaro che non volevo scrivere solo un romanzo giallo; volevo invece scrivere un giallo che restasse nel cuore e nella memoria del lettore, che lo coinvolgesse emotivamente. La scrittura di molte pagine mi ha sinceramente emozionato e sarebbe bello se riuscissi a trasferire al lettore quelle emozioni.

A proposito dell’Africa non ho potuto evitare di pensare anche a Cuore di tenebra di Conrad. Ma forse le tue fonti di ispirazione non sono tanto di natura letteraria ma piuttosto legate alla tua professione di medico/ricercatore. È così?

L’ambientazione africana è legata ai riferimenti espliciti alle diverse sofferenze nelle periferie del mondo. Le mie fonti di ispirazione provengono in parte dalla mia professione di medico e di ricercatore nel campo della farmacologia dei tumori. Il mio lavoro è cercare i punti deboli del ‘sistema tumore’ da attaccare con le armi che abbiamo e con nuove armi che stiamo costruendo, per aumentare la nostra capacità di riconoscere il tumore precocemente e per ridurne la aggressività. Nella storia de L’altro piano si parla di cancri non meno pericolosi, che possono essere affrontati con la stessa astuzia e determinazione e con simile coordinazione di competenze diverse. Tuttavia, ho tratto spunti anche dalla mia attività di volontariato presso associazioni e Onlus che si occupano della lotta alla sofferenza e di aiuto a chi è in difficoltà. Ho tratto spunti dalla realtà che quotidianamente ci circonda ed è colma di storie intensissime che spesso passano inosservate. In un punto del libro il protagonista dice: “I romanzi sono pieni di storie finte che ci piacerebbe fossero vere, e la realtà è piena di storie vere che ci piacerebbe fossero finte“.

Qual è il personaggio a cui tieni particolarmente e perché?

Pur essendo questa storia per nulla autobiografica, mi sento particolarmente vicino ai personaggi coinvolti come genitori, Filippo, papà di Giacomo, e Lars e Lucy, genitori di Robin; capisco i loro drammi e condivido le loro paure e le loro speranze. Tuttavia, mi rispecchio un po’ anche nel ricercatore Grossi, che è in parte quello che mi piacerebbe essere professionalmente, e mi piace molto anche il cardiochirurgo Glambert, che salva le vite con le sue mani agilissime. Inutile sottolineare che sono affascinato dalla protagonista femminile Diana, ingenua ed entusiasta come solo i giovani sanno essere.

PER CERTI VERSI
Ta Adynata (le cose impossibili)

TA ADYNATA (LE COSE IMPOSSIBILI)

Lo sai
Forse…
Forse lo sai
Quando
La tua voce
Accade sempre…
Ah sempre no
Sei allergica…
Apre il mio cuore
Da dietro
Una porticina
Nel retro
Tu l’hai vista
Da sempre….
Ancora!
L’hai vista
L’hai dipinta
Non di più
Perché non sei pratica
Ci hai messo
Il tuo piedino
Chiedi permesso
E io sogno
Di trascorrere con te
Il mare
Non mi vergogno
Anzi
L’infinito impossibile
L’infinito impossibile
Mi prende
Ta Adynata
Le cose stupende

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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PRESTO DI MATTINA
Uscì il seminatore a seminare….

 

Uscì il seminatore a seminare… «Ed il seme di un nuovo cielo s’interra nel freddo infinito./ È l’aurora del frutto. Quella che ci dà i fiori/ e ci unge del santo spirito dei mari./ Quella che diffonde vita sulle sementi/ e nell’anima tristezza di qualcosa di vago. È un bacio azzurro che la Terra accoglie.»(Federico García Lorca, Tutte le poesie e tutto il teatro, 366; 101; 1258).

Sono come cento sementi, ho pensato rileggendo le Cento parole di comunione di Carlo Maria Martini [Qui] nel cono di luce delle cinquanta parole García Lorca. Il testo fu scritto da Martini nel settimo anno del suo ingresso come vescovo di Milano il 10 febbraio 1980, ministero episcopale retto fino al 2002. In quella tappa del settimo anno Martini si domandava se non fosse stato possibile scrivere una Carta di comunione di intenti, non più ampia di un biglietto da visita, per dire in cento parole il cammino pastorale che stava facendo con la sua chiesa, lo stile pastorale volto a favorire l’incontro con la gente, il modo della parola di Dio di donarsi agli uomini e le donne del nostro tempo.

Non fu difficile per lui trovare una parabola di cento parole – per la precisione 98 – nel testo greco di Mc 4,3-8: la parabola del prodigo seminatore. Più di qualunque altra essa contiene infatti quello che si potrebbe chiamare un «abbozzo di antropologia pastorale». Quale uomo è incontrato dalla Parola di Dio? Chi è colui che è chiamato alla sua amicizia, a vivere l’alleanza e la comunione racchiusa in quell’invito? Divenendo uditore di quella Parola, l’uomo si scopre capace di una relazione dialogica; non terra desolata, ma capace di ospitare il seme della parola dell’altro. Per la via del linguaggio sente allora di doversi incamminare verso un ‘dove’ che non conosce ancora; chiamato fuori di sé a divenire ciò che segretamente è fin da principio, dimora degli affetti che si genereranno con la pratica dell’ospitalità che costruisce poco a poco comunione. La parola è per l’uomo la sua aurora, come il seme lo è per la terra; ed il “bacio azzurro” di cielo, che la terra riceve dal seme, è promessa di fecondità futura per l’uomo, di commensalità che sarà piena, attorno a una mensa comune, che principia allo spuntare dell’aurora quando “il seme di un nuovo cielo s’interra nel freddo infinito”.

La parabola del seminatore prodigo – letteralmente il gesto del “cacciare in avanti”, di chi “agisce avanzando”, “spinge fuori” e che in Giovanni si fa pastore che fa uscire il suo gregge, chiama ed è seguito perché riconosciuto dalla sua voce – ci interroga sullo stile della Parola che si dona senza sapere prima il suo destino. E ancor più ci chiama a comprendere il senso di uno stile pastorale, quello del Seminatore, che va incontro alla gente senza parsimonia, senza risparmio, senza selezionare prima il terreno su cui gettare il seme e verificare se sia buono oppure no.

E «il terreno – scrive Martini – è l’uomo, è l’umanità, sono i singoli uomini, è ciascuno di noi. Noi siamo terra in attesa del seme, terra ricca di potenzialità e di succhi vitali… La terra significa dunque l’uomo, la nostra gente, pronta a ricevere il seme della parola di Dio, capace di accoglierlo e di fargli produrre frutto. La terra senza seme è brulla e infruttuosa, la terra seminata può diventare un giardino rigoglioso. Accogliere la Parola significa credere. L’uomo si realizza nel credere, così come il terreno si realizza nel ricevere il seme». Noi siamo fatti allora per accogliere la Parola e portiamo frutto nella misura in cui ci rendiamo disponibili all’ascolto, a riceverne il seme. Ma non si può forzare la libertà con mezzi esteriori. Sarebbe vano piegarla con costrizione, perché ciò che viene seminato è un amore, un’amicizia, un’alleanza di comune destino che fruttifica solo nella forma di una libertà che si affida e che acconsente anche all’altro, sempre tramite la sua libertà, di donarsi.

Nel simbolo del seme entra in scena l’altro personaggio della parabola: «Il seme è la parola di Dio (Lc 8,11). Il vero protagonista di tutta la storia del campo è la Parola. La Parola seminata, la Parola calpestata, la Parola soffocata, la Parola dissipata, la Parola accolta e che mette radici nel terreno per poi germinare, fino a produrre il cento per uno. Questa Parola non è semplicemente qualcosa di estrinseco, di aggiunto all’uomo – ricorda ancora Martini – qualcosa di cui l’uomo possa fare anche a meno. Terreno e seme sono stati creati l’uno per l’altro. Non ha senso pensare al seme senza una sua relazione con il terreno. E quest’ultimo senza il seme è deserto inabitabile».

Favorire, sostenere, incoraggiare, difendere pure il rapporto con la Parola è dunque mettersi dalla parte dell’uomo, rispettarne la coscienza, come il terreno più sacro e inviolabile in cui entrare solo se invitati, in punta di pedi, con le scarpe in mano, a piedi nudi come fece Mosè avvicinandosi al Roveto ardente; «difendere semplicemente l’uomo, i suoi spazi di espressività e di relazione autentica, i suoi orizzonti di senso». Essere cristiani significa allora anche «avere riconosciuto il primato e la principalità di questa Parola. Vuol dire riconoscere che essa è attiva fin dalle origini del mondo, e che ci raggiunge e ci interpreta in ogni momento della nostra vicenda umana».

La Parola è schierata per l’uomo, spalla a spalla nella lotta della vita. Si pone in sua difesa, è suo partner, è amica e compagna amorosa nel viaggio che condurrà il seme caduto nel terreno a diventare spiga. Anche per la parola di Dio: «Quanto morir perché la vita nasca», ci ha ricordato Clemente Rebora.

Così tra semente e terreno non solo destini incrociati, ma un unico destino: «La Parola è per il terreno. La sua efficacia si manifesta non in astratto, ma nel suscitare, interpretare, purificare, salvare la vicenda storica della libertà umana. La Parola incontra e incrocia le aspirazioni dell’uomo, i suoi problemi, i suoi peccati, le sue nostalgie di salvezza, le sue realizzazioni nel campo personale e sociale». Un unico destino di umanità e santità lega la Parola a noi.

«Ma chi è questa parola?» – si domanda Martini e la sua risposta: – «è la Parola che si è fatta uomo e ha preso la sua dimora in mezzo a noi. La centralità e l’unicità di Gesù Cristo è infatti anche la “singolarità” di Gesù Cristo: cioè il suo essere non un qualunque ideale religioso, sia pure altissimo, non una personalità profetica generica, ma “questo Gesù, che voi avete ucciso – annuncia Pietro alla folla che lo ascolta nella narrazione degli Atti degli Apostoli – e che è stato risuscitato dai morti». È questa stessa Parola sprofondata nella sterilità del terreno a capovolgerne il destino, a renderlo fecondo, abitabile sino a generare in esso la risurrezione.

Scrive ancora Martini che «il vero protagonista dell’azione pastorale è dunque la Parola: tutta la storia del cammino pastorale di una comunità è la storia, non tanto delle sue realizzazioni esteriori, dei suoi raduni, dei suoi congressi, delle sue processioni o delle sue iniziative; ma quella della semina abbondante e ripetuta della Parola, e della cura affinché questa parola trovi le condizioni per essere accolta»; ed invita a praticare l’interiorità nello stile conciliare: “Tutti i cristiani apprendano la sublime scienza di Gesù Cristo con la frequente lettura delle divine Scritture. L’ignoranza delle Scritture infatti è ignoranza di Cristo” (cf. Dei Verbum, 25).

Se la Parola mette radici nel cuore, nell’intimo, nel luogo delle decisioni più profonde e umane si «inizia un cammino di interiorità e di convinzioni non solo di gesti e di abitudini. I gesti e le abitudini sono utili se nascono da una convinzione interiore, la esprimono, la incarnano e la irradiano. Senza libera convinzione interiore non c’è cristianesimo. L’uomo è fatto per la Parola e trova se stesso nell’ascolto della Parola; l’uomo merita perciò il massimo rispetto e va servito con attenzione e dedizione, sempre, aiutandolo a trovare la verità di se stesso e la sua autenticità; la “contemplazione” è la dimensione ideale e necessaria per l’accoglienza della Parola: togliere sassi le spine, la dissipazione».

Presentando questo testo delle cento sementi di Martini, così scrive il vescovo di Novara Franco Giulio Brambilla: «Credo che tutto il magistero di Martini possa essere riassunto in questo intento: favorire il «meraviglioso scambio» (admirabile commercium) tra la coscienza e la Parola, tra il terreno dell’umano e il seme della Parola. È l’incontro in cui coscienza e Parola, terreno e seme devono perdere qualcosa per arricchirsi reciprocamente: il terreno perché deve essere dissodato e diserbato per accogliere il seme; il seme perché deve morire nel terreno della coscienza per far germogliare in esso lo stelo e il frutto».

Perché così prodigo il seminatore? Perché disperdere e scialacquatore così il buon seme? Perché gli sta a cuore l’uomo più di se stesso e non smette di seminare in lui la parola, al modo del pastore che va in cerca della pecorella smarrita, lasciando le altre novantanove con grande rischio e pericolo nell’ovile. Cento sono le pecore e non si siederà a mensa a fare festa se ne mancherà anche una sola. La risposta di Martini è questa: «La coscienza si sviluppa e si evolve in maniera misteriosa e imprevedibile. Persone su cui avevamo posto fiducia e cure che procurano amare delusioni e, viceversa, altre su cui non avremmo scommesso niente rivelano potenzialità insospettate. È per questo che la parola viene seminata dappertutto, anche sul terreno sassoso, perché qualsiasi terreno, anche il meno adatto, può dare il suo frutto. “Non esiste nessuna persona che per sua natura sia del tutto impenetrabile alla Parola”».

Uscì il seminatore a seminare, camminando sulla seta.
Già si è aperto il fiore dell’aurora …
Che infantile dolcezza
nel mattino quieto!
Gli alberi protendono
le loro braccia a terra.
Un soffio tremulo
ricopre le sementi,
e i ragni distendono
le loro strade di seta
– raggi sul cristallo limpido
dell’aria

(García Lorca, Poesie).

 

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Una parte microscopica del cosmo

Ho ripescato dall’archivio di Internazionale (https://www.internazionale.it/opinione/oliver-burkeman/2017/09/19/ansia-consuma) un interessante articolo di questo scrittore e giornalista. Il pezzo parla dell’ansia, uno stato d’animo sul quale, in questi giorni, sentivo il bisogno di leggere qualcosa di terapeutico. La prospettiva eccentrica dell’articolo risiede nella considerazione di come l’ansia non si combatta “vivendo nel presente” secondo un precetto di ispirazione buddista, ma anzi dandole tempo, anche solo qualche giorno, per capire che ciò che ci preoccupava qualche giorno fa, oggi potrebbe addirittura farci sorridere; come ogni presagio di catastrofe allenti la sua presa emotiva, non appena ci si rende conto che la catastrofe non è arrivata, e la nostra ansia per il disastro mai avvenuto era, proprio lei, il vero e unico disastro. E che siamo “una parte microscopica del cosmo”, come potremmo verificare con Google street view e Google earth, partendo dall’immagine di casa nostra e allargando il campo fino a mostrare l’intero pianeta.

Quasi tutte le cose che ci preoccupano si dimostrano sopportabili, se non addirittura positive, o semplicemente non si verificano mai. La prossima volta che avrete paura che qualcosa vi rovini la vita, provate a pensare che se in passato aveste avuto ragione, oggi la vostra vita sarebbe già rovinata.”

Oliver Burkeman

Ferrara. “Vogliamo un incontro pubblico sulle biblioteche”
L’Amministrazione Comunale non risponde.
I cittadini insistono

Ferrara, 8 giugno 2021

Sabato 22 maggio abbiamo promosso, come Gruppo di cittadine e cittadini a difesa delle biblioteche pubbliche, una partecipata manifestazione per sostenere il rilancio delle stesse. In quell’occasione, oltre a criticare l’idea delle esternalizzazione delle biblioteche Rodari, S.Giorgio e Porotto presentato dall’Amministrazione comunale perché priva di un progetto complessivo e ispirato ad una pura logica di risparmio e disinvestimento, abbiamo presentato anche le nostre proposte. In particolare, abbiamo evidenziato la necessità di costruire proprio un nuovo e strutturato progetto, basato su un reale processo partecipativo e di coinvolgimento dei vari soggetti presenti nella città, capace di esprimere un nuovo modello per l’offerta culturale nella città, anche in connessione con la rete provinciale, fondato sul potenziamento delle strutture, sull’assunzione di un numero congruo di bibliotecari comunali e di un rapporto positivo tra gestione pubblica e altre realtà operanti nel settore.

Nei giorni successivi, sempre come Gruppo di cittadine e cittadini a difesa delle biblioteche pubbliche, abbiamo inviato una lettera al Sindaco, all’Assessore alla Cultura e al Dirigente del servizio per chiedere loro la disponibilità a partecipare ad un incontro pubblico per discutere i temi da noi sollevati e le scelte per il futuro del sistema bibliotecario comunale. Ad oggi non abbiamo ricevuto nessuna risposta in proposito. Nel frattempo, abbiamo appreso dalla stampa l’intenzione espressa dall’Assessore Gulinelli di dar vita ad un percorso partecipato, coinvolgendo vari soggetti in esso, ma ci tocca constatare che a quest’annuncio non è poi seguito più nessun atto conseguente.

Ora, da parte nostra, ci teniamo a ribadire che riteniamo importante che si promuova un percorso partecipato di confronto con l’Amministrazione e altri soggetti che possono intervenire sul futuro del sistema bibliotecario, ma quest’ intenzione deve essere suffragata dalla volontà di partire senza posizioni precostituite e precisando i passaggi che si intendono compiere per dar vita a tale percorso. In caso contrario, dovremmo prendere atto che siamo in presenza più di operazione di immagine che di reale disponibilità al confronto. Per questo, rinnoviamo la richiesta al Sindaco Fabbri, all’Assessore Gulinelli e al Dirigente Andreotti di svolgere un confronto pubblico con noi e di esplicitare come si intende procedere per costruire un reale percorso partecipato con tutte le realtà interessate.

 GRUPPO CITTADINE E CITTADINI A DIFESA DELLE BIBLIOTECHE PUBBLICHE

Giovani e scuola: l’aria che tira

 

La fine della pandemia prometteva che l’aria sarebbe cambiata, meno viziata dai miasmi del passato. Invece tira aria di restaurazione. Sembra che i giovani siano minori, non perché più piccoli, ma perché ‘minus’, cioè meno dotati, meno dotati di noi adulti. Dove inizi e dove finisca la minore dotazione è tutto da stabilire. Intanto Frida Bollani Magoni, a soli sedici anni, suona la sua interpretazione dell’Inno d’Italia alla presenza del Presidente della Repubblica e il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, rivendica il voto ai sedicenni.

Eppure c’è sempre qualche adulto che sente il bisogno di dare una qualche lezione ai giovani, perché i loro modi di essere non combaciano con la sua cultura, con i modelli comportamentali introiettati. Così Chiara Saraceno [Qui] concorda con la dirigente dell’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Milano, che con circolare interna ha dettato il dress code, a cui si devono attenere le sue studentesse e i suoi studenti. Perché l’abito fa il monaco, ogni luogo ha il suo abbigliamento, in particolare le istituzioni come la scuola. Secondo la sociologa i giovani devono essere educati al rispetto che si deve ai professori e all’ambiente scolastico e questo rispetto passa prima di tutto attraverso a come ti vesti.

Pretendere di insegnare questo rispetto puzza sempre di accusa, di punitivismo nei confronti dei minori, preoccupa perché denuncia le frustrazioni che nascono da un senso di impotenza comunicativa con i giovani, vuoto che si pensa di colmare dettando le regole, le norme, i principi di normalità a cui attenersi, gli unici accettati per essere ammessi nei santuari del sapere. Come ti devi regolare se vuoi vivere in un mondo in cui ci sono anche gli adulti con le loro pretese.

Puzzano di rivincita sui patimenti subiti negli anni della propria adolescenza per via dei soprusi del mondo adulto. Semmai si condannano quei soprusi, ma non il rispetto di quelle, che nonostante la rivoluzione dei costumi, si continua a considerare buone regole, abitudini da inculcare, la ‘buona educazione del tempo che fu’. Le ragazze acqua e sapone e grembiule nero, i ragazzi giacca, cravatta, scarpe lucide e capelli corti.

Pensavamo di essere riusciti ad andare oltre, ma pare che ora si esageri ed è dunque necessario tirare il freno. Spuntano le mutande dai jeans, alcune magliette e braghe pare lascino trasparire troppo del giovane corpo che le indossa, poi ora ci sono i piercing, che sono ammessi solo se all’orecchio, per non parlare dei tatuaggi, delle scritte insidiose su magliette e felpe. Poi la scuola non è una spiaggia, niente infradito e occhiali da sole, a meno che lo ordini il medico.

Se si consultano i siti delle scuole nostrane, come quelle del mondo, i dress code sembrano copiati gli uni dagli altri. Dunque milioni di studenti dagli Usa all’Arabia, dall’Europa all’Australia hanno bisogno di essere educati all’abbigliamento, cosa è consono e cosa non lo è a seconda dei luoghi, a partire dalla scuola. Qualcuno l’ha risolto da tempo con le divise del college, che pure inculcano un senso di appartenenza e di identità, altri restano affezionati al grembiule delle elementari con nastro rosa per le bimbe e azzurro per i bimbi, addirittura l’Istituto Comprensivo Leonardo da Vinci di Milano indica ai genitori dove andarli a comprare, in modo da essere sicuri di rispettare il dress code della scuola.

Siamo sempre alla solita questione, quando l’istituzione non sa accogliere e dialogare, creare un clima di parità e di intesa nel rispetto delle differenze, si ricorre a proibire, a scrivere regole e catechismi, anziché contaminarsi, capirsi reciprocamente, assegnare valore ai luoghi e a quello che in quei luoghi si fa e si vive insieme. Non accade in famiglia, non accade a scuola e la scorciatoia che solleva gli adulti da ogni responsabilità è scaricare sulle spalle dei giovani un bel dress code, in nome dell’autorità degli adulti e dell’inviolabilità sacra dell’istituzione.

Il problema è che abbigliarsi è un’esigenza e un’arte, è l’arte dell’identificazione, del ritrovare se stessi, dell’interpretare la vita, del comunicare il proprio tempo, il proprio mondo e se la scuola è luogo di socializzazione e come tale viene vissuto, la socializzazione ha le sue regole e i suoi codici. E se una generazione ha un suo linguaggio, perché dovrebbe lasciarlo fuori dalla porta della classe, lasciare una parte di sé fuori dalla scuola, essere a scuola sempre dimezzati. Così la scuola non è la vita, è una para-esistenza, quello che puoi indossare per strada, in famiglia, quando incontri i tuoi amici non va bene, può dare scandalo, distrarre l’attenzione dalle lezioni e dai compiti scolastici, può indurre pensieri carnali, attrazioni sessuali. Ma dove sta tutto questo se non nella mente patologicamente sospettosa di qualche adulto?

L’ossessione del dress code ha accompagnato anche la didattica a distanza, nel sospetto che qualche studente, sotto il mezzobusto della webcam, indossasse i pantaloni del pigiama, bermuda e le detestate infradito, una imperdonabile mancanza di rispetto nei confronti dell’istituzione seppure virtuale, perpetrata per di più clandestinamente. Il sospetto è che gli insegnanti non siano stati da meno.

A leggere Week Education, rivista statunitense online, si scopre che durante la pandemia la maggior parte degli insegnanti impegnati nella Dad ha vissuto come un vantaggio, in un periodo particolarmente stressante, potersi disinteressare dell’abbigliamento dalla cintola in giù.
Ora per ridurre lo stress dovuto alla ripresa della didattica in presenza agli insegnanti di un distretto scolastico del Missouri è stato consentito di continuare a vestirsi in modo casual.

Negli Usa i codici di abbigliamento degli insegnanti non sono una novità. Un contratto dei dipendenti della Ohio Education Association, datato 1923 e rivolto esclusivamente alle insegnanti vietava i colori vivaci o di tingersi i capelli, richiedeva di indossare “almeno due sottovesti” e abiti non più di due pollici sopra la caviglia. I tempi sono cambiati ma non mancano i ritorni di fiamma.

Nel 2018, We Are Teachers ha compilato un codice di abbigliamento per insegnanti con quattordici regole, tra le quali il divieto di indossare jeans e scarpe da ginnastica.
Fortunatamente a calare il sipario sulla assurdità di tutto questo ci hanno pensato gli insegnanti spagnoli del movimento La Ropa non Tiene Genero.Dal 2020 sempre più alto si è fatto il numero dei docenti, che hanno scelto di accantonare l’uso dei pantaloni in classe durante le lezioni, per combattere gli stereotipi di genere e per sostenere Mikel Gómez, lo studente cacciato da scuola per essersi recato in aula con una gonna.

Invece noi siamo il paese in cui, mentre in parlamento si discute il disegno di legge Zan contro pregiudizi e stereotipi di genere, ci si preoccupa di come le nostre studentesse e i nostri studenti si vestono per andare a scuola, senza rendersi conto di quanto rasentiamo il ridicolo e che le circolari sull’abbigliamento a scuola meriterebbero di essere sepolte da una solenne risata.
Considerate le statistiche relative all’abbandono scolastico, sarei tentato di suggerire ai presidi di usare lo slogan: “A scuola come ti pare purché tu ci venga per imparare”.

L’impressione però è che a scuola tiri una brutta aria, un’aria di reazione e di ostilità nei confronti dei giovani. Allarma il post di un docente su Facebook, che esalta il suo consiglio di classe, perché allo scrutinio di fine anno su 25 alunni ne ha promossi solo quattro, tutti gli altri respinti o con il giudizio sospeso. Inquietante perché quel docente, anziché inorgoglirsi, dovrebbe preoccuparsi seriamente del fallimento professionale suo e di un’intero consiglio di classe.

Dovremmo essere vicini ai nostri giovani, invece crescono gli atteggiamenti pedagogicamente punitivi, che celano sempre frustrazioni e un patologico bisogno di rivincita.
Cambiamo strada è il titolo dell’ultimo libro del filosofo francese Edgar Morin [Qui], nello stesso tempo un invito. Ci avverte del pericolo di un grande processo regressivo che viene da lontano, ancora prima della crisi del virus e che si accentuerà nel post-epidemia. Il timore più grande è che questo processo regressivo, già in corso nel primo ventennio di questo secolo, possa avere varcato anche le porte delle nostre scuole.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

Google, Facebook e Amazon pagheranno le tasse: poche, ma meglio di niente.

Google, Facebook, Amazon, Microsoft finalmente pagheranno le tasse. Almeno, un po’ di tasse, perchè attualmente il loro contributo alla fiscalità dei paesi nei quali vendono i loro beni è praticamente pari a zero. Tra i vari articoli usciti in questi giorni sulle nuove regole di tassazione minima per i colossi del web, citiamo questo di Open:

https://www.open.online/2021/06/05/g7-tassa-minima-globale-colossi-web/

I due colossi del web (Google e Facebook) si sono detti a favore dell’accordo del G7, riunitosi a Londra, sulla tassazione globale delle multinazionali, che tocca direttamente i loro interessi. La misura che è stata introdotta prevede una tassazione minima del 15%, da pagare in quei paesi dove le multinazionali vendono i loro beni e servizi, e non, come possono fare adesso in maniera legale, spostando i proventi su filiali aventi sede legale (spesso, una semplice casella postale) in paesi “paradiso” in cui pagare poi aliquote minime. Il presidente degli affari globali di Facebook afferma: «vogliamo che la riforma della tassazione internazionale abbia successo, e riconosciamo che potrebbe significare un carico fiscale maggiore per Facebook, e in diversi Paesi». Un portavoce di Google, secondo Sky News, dichiara: “il gruppo è fortemente a favore dell’iniziativa e spera in un accordo finale «bilanciato e durevole»”. Tutti filantropi? No di certo: anzi, le azioni di filantropia e beneficenza privata di questi giganti sono tanto più possibili quanto più ingenti sono i fondi sottratti alla tassazione pubblica. Il fatto che si dichiarino prontamente favorevoli ad una misura che li obbligherebbe ad eludere meno e a pagare di più potrebbe quindi far sorgere il sospetto che si tratti di uno specchietto per le allodole.

Eppure non credo che sia questa la ragione delle loro dichiarazioni di favore. Si tratta, probabilmente, di una mossa di immagine dietro la quale si può facilmente immaginare una accorta azione di lobbying nei confronti delle istituzioni politiche che al G7 hanno raggiunto questo accordo. Infatti una tassazione del 15 per cento è largamente inferiore alle aliquote applicate sia alle imprese “tradizionali”, sia ai redditi da lavoro. Un imprenditore italiano non avvezzo ai magheggi della fiscalità creativa (che, attenzione, non è affatto una pratica semplice: necessita di una accurata e specialistica conoscenza dei meccanismi dell’elusione) può confrontare la tassazione complessiva che grava sulla sua azienda rispetto a quella che graverà su questi giganti: rimane sempre un delta a suo sfavore, che può andare dal 20 al 30%.Un lavoratore dipendente può agevolmente controllare la tassazione che grava sulla sua busta paga: il 15% non lo paga nessuno. Si va dal 23 al 40% circa. E’ per questo che il noto economista progressista francese Thomas Piketty si è affrettato a definire questa riforma “scandalosa”, affermando “anche a me piacerebbe pagare il 15% sui miei guadagni” e facendo i conti su quanti sono i miliardi di maggiori entrate fiscali cui i paesi europei rinunciano(120 miliardi di euro) per non aver deliberato una tassazione minima al 25%, anzichè concentrarsi su quelli che guadagneranno (50 miliardi) rispetto alla situazione attuale (stime dell’Osservatorio europeo sulla tassazione). E’ per questo che Gabriela Bucher, direttore esecutivo di Oxfam International, dichiara che il G7 “aveva la possibilità di mettersi al fianco dei contribuenti, invece ha scelto di stare al fianco dei paradisi fiscali”. In effetti, per rendere la proposta digeribile per quei Paesi industrializzati, anche membri della UE, che prosperano grazie ai trattamenti di favore riservati alle multinazionali (Cipro, Irlanda, Paesi Bassi, Lussemburgo), l’asticella è stata abbassata dall’ipotesi iniziale del 21% all’attuale 15%.

Certe affermazioni sulla inadeguatezza delle nuove misure, tuttavia, puzzano molto di naftalina, quella abitudine accademica a discettare con tono professorale del “meglio”, senza considerare che in molti casi il “meglio” è nemico del “bene”. Per fare un solo esempio: il ministro delle Finanze cipriota Constantinos Petrides ha preannunciato l’intenzione di porre il veto su questa proposta di riforma al Consiglio Ue, dove le decisioni in materia fiscale vanno prese all’unanimità. Certo, si potrebbe dire che sarebbe opportuno cambiare la norma e stabilire che certe decisioni vanno approvate a maggioranza. In attesa che questo avvenga, bisogna fare i conti con le regole vigenti, che non consentono di fare rivoluzioni proletarie, e farsi una semplice domanda da uomo della strada (che spesso ha torto, ma a volte esercita un elementare buon senso): ma attualmente le cose vanno bene? Attualmente i nostri Stati quanto ricevono da questi colossi per finanziare le loro scuole e i loro ospedali, che sono le nostre scuole e i nostri ospedali? Zero. E allora per quale ragione, in nome di una ortodossia del pensiero redistributivo, dovremmo considerare un male questa riforma? Perchè si poteva far meglio? E con quale consenso, ammesso che questa misura riesca a passare il vaglio del Consiglio europeo?

Ho più stima di chi si sporca le mani con le difficoltà di una politica che provi a spostare certi equilibri (e questa è comunque alta politica, perchè combattere lo strapotere di multinazionali che sono diventate più potenti di uno Stato non è una passeggiata), rispetto a chi si limita a criticare la timidezza di certe novità dall’alto del suo Aventino di purezza dottrinale. Naturalmente spero di non essere smentito da una versione finale ulteriormente annacquata di questa riforma.

 

 

 

 

Frattesina e la Via dell’Ambra

Frattesina fu un villaggio dell’età del bronzo situato a sud-est dell’attuale centro di Fratta Polesine in provincia di Rovigo. Si trovava lungo un fiume oggi scomparso, il​ Po di Adria; questo ramo del Po permetteva il collegamento da una parte con l’antica fascia costiera per le rotte mercantili dell’Adriatico,​ dall’altra con la Valle dell’Adige, lungo la cosiddetta “Via dell’Ambra”.​
Si trattava di un’articolata rete di contatti commerciali che collegava le coste meridionali del Baltico alla testa dell’Adriatico. Uno dei maggiori giacimenti di ambra al mondo si trova infatti nella regione del mar Baltico; non si sa esattamente quando questa via fu fondata, ma i ritrovamenti provano che il commercio lungo questo percorso esisteva molto prima dei tempi romani.
Nel 2009, a Grignano Polesine (a pochi chilometri ad est di Frattesina) è stato rinvenuto un deposito di schegge e perle d’ambra a diverso stadio di lavorazione. Da ciò si evince che la preziosa e antica resina era lavorata dagli artigiani nelle fabbriche locali, per essere poi messa in commercio dal centro di Frattesina.
L’ambra veniva commerciata perché veniva usata come ornamento dalle donne; si credeva inoltre che fosse un biostimolante, che combattesse la depressione, che fosse una “calamita per la gioia” la quale poteva trasformare l’energia negativa in positiva. Indossarla purificava l’anima, lo spirito e la mente.