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La via crucis dell’editoria religiosa

 

Ai tempi dell’Università a Bologna, la tappa nelle librerie era costante. Almeno una volta ogni settimana. Feltrinelli era la mia prediletta perché aveva un parco riviste notevole. Ci trovavo molte delle testate ‘resistenti’ come, ad esempio Il Tetto, Tempi di Fraternità, il Bollettino dell’Isolotto, Com-Nuovi tempi”
Quando gli orari delle lezioni lo permettevano, mi spingevo fino alla piccola, straripante libreria Palmaverde in via Castiglione gestita dal poeta editore Roberto Roversi e alla libreria Dehoniana di via Nosadella.

All’inizio di ottobre, la proprietà ha diffuso la notizia del fallimento e della chiusura delle Edizioni Dehoniane di Bologna (EDB), editore di migliaia di titoli, centro culturale di primo piano nella produzione postconciliare. Un titolo esemplificativo: La Bibbia di Gerusalemme, amata da tanti cattolici e non solo, dai tanti gruppi vangelo sorti sulla spinta del vento conciliare.
A proposito della notizia sulla chiusura, c’è da aggiungere che le maestranze hanno saputo del loro licenziamento per vie traverse. Amici giornalisti RAI hanno informato i lavoratori di cosa stava succedendo [Vedi qui] perché la dirigenza dei dehoniani aveva omesso questo…passaggio.

Già nel giugno 2016, al convegno di Peccioli su questo tema, Brunetto Salvarani denunciava questo preoccupante declino, affermando che “nell’arco di pochi mesi, una serie di testate che hanno fatto la storia della comunicazione ecclesiale e religiosa nella stagione successiva al Concilio Vaticano II hanno cessato le pubblicazioni o sono entrate in una fase di crisi vistosa, e, almeno all’apparenza, irreversibile. In particolare, sono le riviste di carattere culturale, e quelle che nel corso degli anni hanno rappresentato un punto di osservazione fondamentale sugli eventi del Sud planetario (…) Ce n’è abbastanza per chiedersi se le ragioni di tali problemi non riguardino solo l’ambito economico, come si tende a pensare, ma tocchino questioni di linguaggio, di spazi di formazione, di capacità di riflessione sulle grandi trasformazioni in atto nei mondi culturali.”

Una crisi dell’editoria su carta che non colpisce solamente quella religiosa. Da anni, testate giornalistiche come La Repubblica, Il Corriere della Sera hanno dimezzato tiratura e vendite, senza dimenticare quotidiani come L’Unità che hanno chiuso trascinando nel vuoto ingenti risorse economiche e umane.

Nel giugno 2020, su Vita e Pensiero Plus, mons. Erio Castellucci, arcivescovo-abate di Modena – Nonantola, oltre a segnalare con grande preoccupazione il “crescente pressapochismo culturale e informativo, in un clima dove gli slogan gridati si impongono sulle riflessioni argomentate”, evidenziava che le librerie religiose privilegiano l’esposizione di articoli religiosi, coroncine, immaginette e non le opere più serie e significative.

Gianfranco Brunelli, direttore de Il Regno, rivista di punta dei dehoniani che nel 2015, avendo come “alternativa” la chiusura, scelse la coraggiosa strada dell’autonomia che ancora oggi continua, ha dichiarato che il nostro Paese “da una decina di anni conosce un’ulteriore ondata del processo di secolarizzazione, che sta facendo segnare una generale crisi culturale. Ci troviamo di fronte a una sorta di analfabetismo religioso, in special modo biblico, che deve preoccupare l’insieme della nostra cultura, quella cosiddetta laica compresa. Più ignoranti non significa più santi.”

Lo storico Massimo Faggioli, in un approfondito ed appassionato articolo apparso su Domani [Qui] evidenzia che “oggi il non saper leggere e comprendere testi lunghi e complessi comporta qualcosa di molto diverso rispetto all’epoca in cui dominava l’analfabetismo e il messaggio religioso arrivava  attraverso canali diversi. Non ci si aspetta da tutti i cattolici di essere topi di biblioteca o di possedere una biblioteca, in senso letterale o figurato. (…) L’assunto che i leader della chiesa possano permettersi di essere ignoranti è solo un’altra forma di clericalismo.”
Ovviamente, questa crisi lavorativa che non sembra del tutto compromessa, al di là dei numeri in campo, è grave, emblematica per modalità, comportamenti e soprattutto per evidenti difetti di etica tra le parole stampate nei tanti libri e le opere della dirigenza dehoniana.

Cover: volumi in vetrina delle Edizioni Dehoniane (l’Avvenire)

Cina e USA tra Big Tech e Sociale
Analisi delle differenze

Nell’ultimo anno stiamo assistendo ad un tentativo di ridimensionamento dello strapotere delle big tech cinesi ad opera di Xi Jinping. In realtà qualcosa di più di un semplice tentativo, esempio ne è la donazione da parte di Alibaba di 100 miliardi di yuan (15,5 miliardi di euro) ai programmi sociali ed economici del Partito Comunista.

Era successo anche a Pinduoduo, che aveva donato 1,5 miliardi di dollari, e a Tencent che da aprile ha annunciato donazioni complessive di 15 miliardi per un programma dedicato al “bene comune”.

Precedentemente sempre Alibaba di Jack Ma, a luglio di quest’anno, aveva donato altri 23 milioni di dollari all’Henan, la regione della Cina centrale colpita da un’alluvione.

Un susseguirsi di donazioni apparentemente spontanee ma che nei fatti seguono le richieste dell’apparato comunista cinese e, come notano e fanno notare gli analisti finanziari tra cui quelli di Mf – Milano Finanza, “il presidente Xi Jinping … pretende collaborazione dai Cresi del tech per la redistribuzione della ricchezza e, considerate le recenti ingerenze governative, le aziende stanno rispondendo all’appello.”

Ma per capire quello che sta succedendo bisogna fare qualche passo indietro ed arrivare fino al 1979, quando la Cina ristabilì le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti e Deng Xiaoping divenne il primo leader supremo di quel Paese a visitare gli Usa. Una lunga visita di nove giorni, iniziata il 28 Gennaio 1979, nel corso della quale vi furono tanti incontri tra Deng e il Presidente statunitense Jimmy Carter.

La storica visita ruppe il ghiaccio delle relazioni Cina-Usa, e portò alla firma di accordi di cooperazione in materia di tecnologia, cultura, istruzione e agricoltura. Lo scopo di Deng era far uscire la Cina dalle esperienze traumatiche imposte da Mao Zedong copiando il modello capitalista americano senza perdere l’impronta asiatica.

Deng divenne così il pioniere della riforma economica e l’artefice del “socialismo con caratteristiche cinesi”, teoria che segnava la transizione dall’economia pianificata a un’economia aperta al mercato, con la supervisione dello stato nelle sue prospettive macroeconomiche.

Da quel momento iniziò la grande corsa del pil cinese e Pechino si accreditò sempre di più agli occhi degli occidentali fino ad essere accettata nel Wto (World Trade Organization) nel 2001. Ma già allora il capitalismo cinese assomigliava sempre meno a quello americano e più a quello delle “tigri asiatiche”, cioè Taiwan, Corea del Sud, Singapore e Hong Kong cioè iniziativa privata con la presenza discreta (eufemismo) dello stato, che mantiene quote di partecipazione nelle grandi aziende e controlla le banche e gli interessi strategici.

Le concessioni alle leggi di mercato avevano un fine politico, funzionale agli scopi prefissati e non ideologiche, quindi le leve del potere non sono mai state cedute, solo messe da parte per il tempo ritenuto necessario. E per Xi Jinping il tempo di tirarle fuori e mostrare alla finanza cinese, ma anche al mondo, chi comanda davvero è arrivato, anche perché le big tech stavano oltrepassando il limite accettabile dalla nomenclatura.

Grazie a questo sistema la Cina ha ottenuto un successo dietro l’altro, fino a diventare la seconda potenza economica mondiale, tantissime persone sono uscite dalla povertà estrema (anche se con qualche trucco contabile) e Xi è arrivato a dire in un suo discorso a febbraio di quest’anno che in Cina “la povertà estrema è stata sconfitta”, intestandosi ovviamente il successo. Sembra che solo Di Maio sia riuscito in occidente nella stessa impresa!

Ma raggiunti i risultati, è tempo di tirare i remi in barca, in questo caso i remi sono le big tech e in primis Jack Ma a cui è richiesto il ritorno nei ranghi con il pretesto che tecnologica e protezione dei dati devono avere un ruolo nello sviluppo equo delle comunità, quindi non può essere un privato a detenerne il monopolio.

L’Occidente magari si scandalizza, abituata a un liberismo protetto per legge da schiere di avvocati, ma un po’ d’invidia in fondo c’è, visti i tanti grattacapi che le multinazionali ci danno in termini di trasparenza e ricorso ai paradisi fiscali.

Trump aveva provato a opporre qualche resistenza ma era stato subito ridimensionato. L’America non è la Cina, ci sono le elezioni, c’è la libertà, l’opinione pubblica manipolabile dai giornali manipolabili a loro volta dalle stesse big tech, e quindi capitolò e addirittura fu estromesso, come si ricorderà, da alcuni social. Il potere economico e lo stuolo di avvocati a sua difesa vince sul potere politico che lo ha creato.

Jo Biden è stato a guardare e quando è stato il momento ha seguito il coro di critiche a Trump comprendendo però che alcune delle lotte dei repubblicani avevano un senso. Motivo per cui ha lasciato in piedi tutti i dazi a carico della Cina, indugiando su quelli all’Europa, in funzione antiglobalista e di protezione del welfare interno, dei lavoratori e delle merci americane (quasi fosse un Trump qualsiasi).

Ovviamente senza troppo sbandierare le intenzioni per non turbare la sinistra mondiale (il baluardo della finanza costruito da Clinton fino a Obama) sembra proprio che anche lui sia intenzionato a ridimensionare il “libero mercato”. Ha assunto come assistente al National Security Council Jake Sullivan per ricostruire l’economia americana su basi meno liberiste e più protezioniste promuovendo lo slogan “Buy american”.

Un’altra mossa interessante è stata la nomina della giovanissima Lina Khan, una donna sempre all’attacco delle big tech alla Federal Trade Commission (Ftc, antitrust americano), proprio con lo scopo di portare più stato nelle grandi imprese. Un po’ di quel controllo statale cinese che Biden vorrebbe per gli Stati Uniti.

Di questi giorni è la nuova misura economica che immette nell’economia ulteriori 1.750 miliardi di dollari, un’iniezione di soldi per far ripartire i consumi proprio come aveva fatto la Cina immediatamente dopo la grandi crisi del 2008 e come ha fatto già dall’anno della pandemia, il che le ha permesso di superare immediatamente le difficoltà causate dalla pandemia. Il “Build back better framework” di Biden guarda alla classe media, alla scuola a partire dall’asilo, la cura dei disabili e in generale gli aiuti ai caregiver, le agevolazioni per il passaggio a energie rinnovabili e il rafforzamento dell’assistenza sanitaria. In particolare, vi figura la scuola materna gratuita per tutti i bambini di 3 e 4 anni, portando a circa 20 milioni il numero di bambini con accesso ai servizi di assistenza all’infanzia di alta qualità e a prezzi accessibili.

Non a tutti potrebbe piacere questo modo di fare, questo tentativo di imbrigliare le big tech e grandi spese per ambiente, cosa che la Cina sta facendo da tempo, e sociale. Biden sta operando in velocità perché sa che il suo orizzonte temporale è ben diverso da quello di Xi, dura solo due anni e già nelle elezioni di medio termine la sua maggioranza potrebbe cambiare, sullo sfondo di grandi lacerazioni interne tra cui quelli di movimenti come Black Lives Matter che tende a descrivere l’America agli stessi americani come un paese di razzisti incalliti che devono fare ammenda e scontare il peccato originale dell’imperialismo. Un paese diviso e in preda a isterismi continui che hanno portato persino all’abbattimento di statue per riscrivere il passato, metodi a metà tra talebani e 1984 (il libro di George Orwell). Una realtà di divisione e conflitti che per ora crea seri problemi interni ma sembra non fiaccare ancora la proiezione di potenza esterna.

Ma prima o poi l’America potrebbe crollare su stessa e sulle sue contraddizioni mentre la Cina all’interno è forte e questo le permette di perseguire i suoi scopi di politica estera senza contraccolpi. Noi non siamo pronti ad un futuro cinese e quindi dobbiamo sperare che l’Europa sappia trovare una terza via, staccarsi quanto basta dall’egemonia e dal caos americano, evitando ad esempio di impelagarci nelle future guerre nell’indo-pacifico dove già sono accorsi gli inglesi in funzione anti Cina, e tornare ad occuparci di Mediterraneo e del cortile di casa nostra. Ovviamente facendo attenzione a non cadere nelle lusinghe del mercato economico cinese, come ad un certo punto sembravano voler fare alcuni “portavoce” del passato governo Conte.

Vaccini e Covid: la fiducia non si cripta

E’ curioso vedere che certi “rappresentanti eletti dal popolo” gridano contro l’attacco alle libertà solo quando la libertà di fare il cavolo che gli pare è la loro.
E’ di questi giorni la “rivolta” di alcuni europarlamentari (sei dei quali hanno indetto una conferenza stampa da guerriglieri, manco fossimo nel Chiapas) contro l’obbligo di Green Pass introdotto anche per loro dall’Europarlamento. L’episodio potrebbe essere rubricato come una manifestazione di folklore, se non fosse che il finale della dichiarazione ha richiamato un problema reale e niente affatto folkloristico: a fine conferenza,
i “ribelli” hanno mostrato le pagine, quasi completamente oscurate, che mostrano le clausole dei contratti stipulati tra Unione Europea e case farmaceutiche per la commercializzazione dei “vaccini” anti Covid-19. Ovviamente le clausole criptate non consentono di sapere quasi nulla delle condizioni economiche alle quali sono stati conclusi gli accordi, né sulle eventuali clausole di esonero da responsabilità delle case stesse per danni a lungo termine da vaccino.

Manon Aubry, copresidente del gruppo europarlamentare della Sinistra, già nel marzo scorso aveva puntato il dito contro l’esecutivo guidato da Ursula Von der Leyen (vedi qui), ipotizzando che la mancata trasparenza sul contenuto dei contratti celasse condizioni capestro per gli Stati (quindi la collettività) e favorevoli per le case farmaceutiche. Peccato che le case stesse abbiano ricevuto ingenti sovvenzioni pubbliche per le loro ricerche, che abbiano applicato prezzi differenziati e conseguenti forniture di favore agli Stati che pagavano di più (es.Israele) e di sfavore per gli Stati poveri.
Per non parlare dei brevetti, che continuano a non essere temporaneamente liberalizzati, nonostante la più grave crisi sanitaria mondiale dai tempi dell’epidemia di Spagnola. In questo modo si è autorizzati a pensare che lo Stato impone ai privati cittadini (ai privati “deboli”) le restrizioni delle libertà individuali più massive di sempre, almeno in regime di democrazia, e lo stesso Stato si fa imporre dai privati (i privati “forti”) le condizioni di utilizzo dei loro prodotti “salvavita”. E i cittadini non ne devono sapere nulla.

Il danno più grave che questa condotta omertosa produce nell’opinione pubblica è la sfiducia.
Sfiducia nelle dichiarazioni ufficiali, nelle notizie di fonte governativa, fino alla sfiducia nei confronti delle notizie provenienti dalla comunità scientifica. Non fidarsi del potere è sempre un buon esercizio critico, ma ci sono frangenti della storia in cui il “potere” dovrebbe capire che non può continuare ad essere opaco, pena la trasformazione dello spirito critico in complottismo.
Se qualcuno ti nasconde una cosa, pensi immediatamente che quello che ti racconta (coprendo il resto con una pecetta nera) siano un mucchio di balle. Questa non è una giustificazione per l’estremismo allucinogeno di alcune frange di invasati che giocano oscenamente coi parallelismi tra green pass e nazismo. La testa di costoro non la cambi, ci sarebbe voluta un’altra famiglia, un’altra scuola, forse un’altra testa. Quello che spaventa è la sfiducia delle persone perbene.
Ci sono individui preparati, dalla cultura strutturata, che non si fermano agli slogan, che sono cresciuti nutrendo lo spirito critico ma che sanno distinguere tra una fake new e una notizia vera: molti di costoro sono preoccupati per la piega che hanno preso le cose.

La radicalizzazione delle opinioni tra coloro che disprezzano gli scettici, e coloro che disprezzano gli ortodossi, accusandosi reciprocamente di attentare alla salute pubblica o di essere ciechi di fronte alla dittatura sanitaria, è un fenomeno di imbarbarimento del dibattito pubblico che produce solo veleno. E la causa è la sfiducia generalizzata nei confronti di quello che ci racconta il “potere”.

E’ appena stato pubblicato dalla rivista New Scientist (e ripreso da Internazionaleleggi qui) un interessantissimo articolo sulle possibilità che le tecniche basate sul Rna messaggero (tecnica utilizzata nella maggior parte dei vaccini contro il Covid) possano, in futuro, far produrre i medicinali al nostro corpo, con prospettiva di cura per tutto, dalle infezioni batteriche alle malattie autoimmuni, fino ai rari disturbi genetici e al cancro.

Quando il potere politico appone il “segreto di Stato” sui contratti stipulati con la cosiddetta Big Pharma, non fa altro che minare la credibilità di tutto, compreso quanto di buono viene dal mondo della ricerca scientifica.
Se questa epidemia mondiale (come abbiamo sentito ripetere fino alla nausea in uno stucchevole lockdown mediatico) deve far modificare alcuni paradigmi di relazione con i problemi, uno di questi paradigmi deve essere la fine della “ragion di Stato” come paravento per nascondere le cose ai cittadini.

Se si vuole che i cittadini accettino le restrizioni imposte dallo Stato, lo Stato deve essere autorevole, e la sua autorevolezza passa anche attraverso la trasparenza dei suoi atti, soprattutto quando vanno ad incidere sulla vita quotidiana dei cittadini.
Per far rispettare alla collettività con autorevolezza, e non con autoritarismo, i doveri legati ad uno stato di emergenza pubblica, i cittadini di questa collettività devono avere il diritto di essere informati in maniera trasparente e completa.
Solo in questo modo si può ricostruire un rapporto tra cittadini e autorità pubblica basato sulla fiducia.

C’è speranza se accade a Ferrara

 

Finalmente nella mia città un fine settimana come si deve. Non un assembramento ringhioso contro le misure anticovid, espressione incivile di un disagio profondo, che non trova adeguata, diversa risposta. Piccole iniziative, invece, dicono di una città nella quale i diritti di tutti vanno riconosciuti. E come tali c’è chi li sente.

29 ottobre, venerdì pomeriggio, in piazza municipio è la risposta alla bocciatura del Senato di un disegno di legge contro la discriminazione determinata da sesso, genere, orientamento sessuale. Una concittadina, segreteria nazionale di Arcigay, ricorda ai tanti intervenuti che una legge così era attesa da più di trent’anni. Una proposta era stata allora avanzata. Ci sono cittadine e cittadini che quotidianamente subiscono soprusi non per quello che fanno, ma per quello che sono. Se la libertà non è di tutti ci sono solo privilegi e soggezioni.

mediterranea

Sempre lo stesso giorno, ma alla sera, in una grande sala di fronte a un folto pubblico, Mediterranea sbarca a Ferrara. C’era già stata una prima volta a marzo per illustrare la propria attività. Denuncia la violazione dei diritti umani e si è assunta il difficile complito di monitore la situazione del Mediterraneo, con soccorso a chi vi si trova in pericolo. È un compito che la situazione dei paesi europei non agevola. Sostanzialmente non è mutata neppure in Italia, con il cambiare dei governi. Almeno non si assiste più all’oscena esultanza del Ministro dell’Interno per gli sbarchi impediti. È l’occasione di celebrare la formazione di un gruppo locale, uno degli equipaggi a terra, essenziali per l’attività degli equipaggi in mare.

30 ottobre, sabato mattina. È una piccola, privata, riunione rispetto a quelle ricordate. Per me è molto importante. Una dozzina di persone si incontrano, in maggioranza donne. Sono tutori volontari di minori stranieri non accompagnati. Si confrontano, partendo dalle loro concrete esperienze.
Sono riuniti in un’associazione, primo esempio in regione, nata da un corso di formazione e autoformazione del 2015. Da allora se n’è fatta di strada. Io sono invitato per l’accompagnamento che ho offerto sia nel primo che nel secondo corso e nella nascita dell’associazione. È un’attenzione che mi onora. L’associazione svolge un’opera di divulgazione e approfondimento sulla presenza dei minori, in particolare non accompagnati, tra i migranti. Anche quando lo sguardo si rivolge ad ambiti più generali – stamane è uscito il tema della tratta – sempre forte è il radicamento all’esperienza in corso. L’associazione si chiama Tutori nel Tempo,TnT, a significare che non vi è abbandono al passaggio alla maggiore età. È questo un momento particolarmente delicato. Cessa la protezione dovuta al minore e questi, da adulto, deve confrontarsi con le pessime leggi e disposizioni che in Italia – non solo in Italia – regolano immigrazione e condizione dello straniero.

Yaya Yafa

Nel pomeriggio dello stesso sabato un corteo, con una forte partecipazione di giovani lavoratori africani, si forma nei pressi dello stadio. Viene rapidamente ricordato il giovane Yaya Yafa e le circostanze della sua morte sul lavoro. Poi parte un corteo che raggiunge la piazza municipale. Parole d’ordine: Giustizia per Yaya, Lottiamo insieme per i diritti di tutti i lavoratori, Lottiamo insieme contro le discriminazioni. La promozione è di Amici di Yaya, Comunità africana, Cittadini del mondo. C’è molta commozione.

Yaya ha solo 22 anni, una moglie e un figlio di pochi mesi
da mantenere. È conosciuto da coetanei e famiglie, anche per la sua attività di calciatore in una squadra locale. Lavora come bracciante, iscritto alla Flai Cgil. Nella disoccupazione stagionale ha accettato un contratto di lavoro come facchino per sette giorni, o forse sarebbe meglio dire notti, all’interporto di Bologna. Proprio a metà del periodo muore schiacciato da un camion mentre è intento, nella notte del 21 ottobre, al carico e scarico di merci. L’inchiesta accerterà le responsabilità.

Quello che è certo è che le cosiddette morti bianche sembrano un bollettino di guerra, con i morti da una parte sola.

Il corteo si fa assemblea nella piazza municipale. Si susseguono ricordi di Yaya e testimonianze sulle condizioni di lavoro nell’Interporto dove il giovane ha trovato la morte. C’è anche un momento di preghiera proposto da un camionista: “Yaya per me era come un figlio. Era spesso a mangiare a casa mia. I miei familiari lo piangono. I morti sul lavoro vanno in paradiso”. Molto seguito e applaudito è l’intervento del segretario della Flai di Ferrara. Ricorda l’impegno del giovane nella ricerca di ogni occasione di lavoro. Dice dell’impegno sindacale per garantire dignità e sicurezza del lavoro, impedita da contratti brevissimi, senza alcuna formazione possibile. Ci sono contratti di un giorno, per persone contattate tramite Whastapp, dalla sera alla mattina.
Sono ragazzi prevalentemente africani, viene detto in diversi interventi. Accettano tutto – si dice – anche per il timore di non vedere rinnovato il permesso di soggiorno. “Bisogna rifiutarli, stare uniti. Hanno bisogno di noi. Possiamo spuntare contratti più degni”. In un grande striscione è scritto: “Protesta degli immigrati. Vivo qui, lavoro qui. Basta discriminazioni”. Così il pomeriggio del sabato si salda, contro una diversa non meno odiosa discriminazione, al giorno precedente.

La scuola è una macchina del tempo:
invece che sul futuro, è puntata sul passato.

 

No signori, non è come la raccontate. Pare che le ricette per cambiare l’istruzione non manchino al pensiero ben pensante. Azzerare tutto e portare indietro la macchina del tempo.
C’è chi invoca cattedre e predelle e chi il ritorno al riassunto nell’epoca degli abstract. Ben pensanti che neppure si preoccupano di visitare il sito della Fondazione Agnelli dedicato alla Scuola, giusto per tentare di aggiornare i loro archetipi per diradare le nebbie che offuscano la loro navigazione.

Scrivere di istruzione richiederebbe una buona cultura almeno in scienze dell’educazione, quelle che in tutto il mondo da decenni hanno soppiantato la pedagogia. Bisognerebbe conoscere la psicologia dell’apprendimento, un po’ di docimologia, un po’ di ricerca educativa, sempre di scarso interesse nel nostro Paese, persino per la formazione dei docenti dalle scuole medie in su.

Immaginare di trattare più di mezzo secolo di storia del nostro sistema formativo come se il tempo, il mondo, la società fossero stati pietrificati intorno ad esso, denuncia una concezione della scuola come corpo a se stante. Come tempio incontaminato. Come luogo degli otia studiorum. Una scuola  che non si sporca le mani con le cose prosaiche come il lavoro e le altre necessità materiali. Chi osa aprirne le porte, come pretenderebbero di fare l’Invalsi e le indagini Pisa dell’Ocse, altro non è che un profanatore del tempio e dei suoi sacerdoti.

Se qualcuno l’ha dimenticato, a scuola si va con il corpo e la mente. Il primo dovrebbe trovarsi a suo agio, la seconda andrebbe impiegata in un continuo allenamento.

Raffaele Simone, il linguista, alcuni anni fa nel suo libro Presi nella rete. La mente ai tempi del web ha sottolineato come la tecnologia, modificando il nostro modo di comunicare, ha trasformato il nostro modo di usare il corpo e la mente.
Il libro è del 2012 come le “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione”, che sono legge dello Stato. Ci sta scritto che lo scenario è così cambiato che l’apprendimento scolastico altro non è che una delle tante esperienze di formazione che bambini e adolescenti vivono e che spesso per acquisire competenze specifiche non vi è bisogno dei contesti scolastici.

C’è anche scritto che le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende (vedi: corpo e mente), non dagli insegnanti e dai programmi, ma dal bambino o dall’adolescente in carne ed ossa che hai di fronte, con cui dovresti stipulare un patto formativo per garantirgli l’originalità del suo percorso individuale come prescritto dalle stesse “Indicazioni nazionali”.

Dewey ci ricorda che il fine dell’istruzione è quello di andare incontro alla società: «Ogni qualvolta ci proponiamo di discutere un nuovo movimento nell’educazione, è particolarmente necessario mettersi dal punto di vista più ampio, quello sociale».

È mettersi dal punto di vista sociale che il nostro sistema di formazione non sa fare.
Quando la società e con essa gli individui cambiano e l’istruzione resta immutata in se stessa, allora si crea il cortocircuito con i diritti delle persone, in particolare delle nuove generazioni, correndo il rischio di vendere merce avariata ai nostri giovani, come dimostrano le indagini nazionali e internazionali sul nostro sistema formativo.

Se i giovani escono dalle nostre scuole impreparati non è colpa né della media unica né di Barbiana né delle lettere alle professoresse, ma del fatto che nel corso degli anni si è accresciuto il distacco tra il nostro sistema di istruzione e lo sviluppo della conoscenza, due funzioni sociali che si muovono a velocità differenti.
La scuola ha perso sempre più terreno rispetto alla rivoluzione spettacolare prodotta dalle nuove tecnologie della comunicazione e dallo sviluppo impetuoso della mediasfera.

L’abbiamo toccato con mano con l’emergenza della didattica digitale, della didattica a distanza.
Tenersi al passo con un’evoluzione tecnologica e cognitiva inarrestabile è un enorme impegno. Come conseguenza, la scuola risponde guardando al passato. Limitandosi a trasmettere un pacchetto ben delimitato di conoscenze, pochi ben definiti saperi. Tenendosi alla larga da due meccanismi che oggi sono invece essenziali: il veloce processo di accrescimento della conoscenza e la diffusione di metodologie di accesso ai depositi della conoscenza.
Invece di essere il luogo dell’incontro con la conoscenza e della sua prima elaborazione, la scuola si ripiega su se stessa difendendo cattedre, discipline e trasmissione del sapere, per proteggersi dalla conoscenza, dal suo fluire, dal suo accrescersi che preme alle sue porte.

Siamo un paese di retori e di retorica, di buone oratorie ma di pessime cattedre. Non sappiamo pensare al nostro sistema scolastico in termini moderni, un sistema di istruzione che ormai da troppo tempo accusa una crisi profonda nei suoi moduli organizzativi e nelle sue strutture. Se ne discetta da decenni, ma non abbiamo ancora chiarito per quale idea di scuola debbano essere formati gli insegnanti, per quali finalità dell’istruzione sono chiamati a lavorare.

In giro per il mondo gli argomenti che hanno preso il centro della scena trattano di come i giovani imparano meglio nel 21° Secolo, di come rendere le scuole i catalizzatori del loro impegno per il sapere e la cultura, di come i giovani possono scegliere di imparare, di quanto la motivazione e l’amore per l’apprendimento significano nel contesto della scuola, di come dare più enfasi al coinvolgimento degli studenti nella scelta e nelle modalità dei loro percorsi formativi.

Siamo tornati al divorzio tra scuola e società. Non si tratta di una distanza di classe come nel passato, ma della distanza tra bisogni culturali diversi che determina una nuova forma di discriminazione tra chi può soddisfarli e chi no.
La scuola si è chiusa in se stessa, nella sua autoreferenzialità. Il rischio è di rimanere stritolati tra la tentazione di un ritorno al centralismo amministrativo per insipienza, l’assordante silenzio di una classe docente senza spessore sociale e professionale, e le ricette di intellettuali ben pensanti che finiscono per cumulare la loro supponenza all’ignoranza che la scuola è oggi accusata di produrre.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

Le storie di Costanza /
L’amore di Ettore (Terza parte)

 

Arina viveva nella dependance di Casa Pilla. Gli anziani signori Pilla avevano una casa in via Torre Antonina a Pontalba. La via era particolare. Corta, in salita, con case solo da un lato mentre dalla parte opposta c’era un frutteto enorme.

La casa era circondata sui due lati corti e su quello posteriore da vecchi alberi molto curati e sulla parte anteriore dal prato inglese, un roseto di rose bianche e una piscina dove d’estate facevano il bagno i nipotini dei Pilla.

Il figlio dei vecchi Pilla era morto ormai da anni e Margherita Pilla, l’unica loro nipote, aveva sposato un direttore di banca di Trescia. Margerita si era trasferita in città per stare vicino al marito, ma tornava spesso a Pontalba con Martino e Penelope, i suoi due bambini. Per questo nella porzione di giardino antistante la casa era posizionata la piscina. Martino e Penelope vi si tuffavano appena possibile e non uscivano di là se non dopo che Margherita li aveva minacciati di non portarli più a trovare i bisnonni.

Arina si occupava di Villa Pilla e in modo particolare di Luigia Pilla, la nonna di Margerita. L’accompagnava al mercato di Pontalba e a fare commissioni. La portava a fare i controlli sanitari in città. L’aiutava a cucinare, a fare la marmellata con le prugne e la crema di nocciole, a lavarsi e a vestirsi, a leggere il giornale.

Conversava con lei di politica, stagioni, tempo, matrimoni, battesimi, funerali e imprevisti vari che riguardavano gli abitanti di quel paese piccolissimo e ricco di vegetazione che si chiamava, e si chiama tutt’ora, Pontalba.

Chissà perché quel paese aveva quel nome, si chiedeva Arina. Pontalba, un ponte sull’alba. Sul ponte lei ci andava spesso. Da là si poteva vedere il fiume scorrere lento e pacifico e contemporaneamente il sole sorgere dietro gli alberi che costeggiavano gli argini. Il ponte permetteva di transitare sopra il Lungone e di passare dal territorio del comune di Pontalba a quello del Comune di Iupine.

Iupine era il primo comune della provincia di Vergania, mentre Pontalba l’ultimo della provincia di Trescia. Non era mai scorso molto buon sangue tra Pontalbesi e Iupinesi. “Questo è abbastanza normale”, pensava Arina, “i confini segnano una frattura e il senso di appartenenza si ricuce esclusivamente al di qua e aldilà del confine”.Così per i Pontalbesi gli Iupinesi erano brutti e dispettosi e la stessa cosa pensavano gli Iupinesi dei Pontalbesi.

Arina aveva davvero un buon lavoro, uno stipendio sicuro e abitava nella dependance di una bella casa, anche se non paragonabile alla maestosità di Villa Cenaroli, dove abitava Ettore.
Quel maggiordomo aveva un buon lavoro e viveva nella zona più bella di Pontalba; inoltre la contessa Malù aveva la fama di essere molto generosa coi suoi dipendenti.

Tutto questo rendeva Ettore interessante. Da quel poco che aveva visto lei, quell’uomo sembrava un po’ pedante, un po’ fuori dal mondo reale, ma sicuramente onesto. Uno che credeva in quel che diceva e faceva.

“Non so che necessità abbia di spiegarmi il significato di alcune parole strane, a me non importano. Ma se a lui fa piacere che lo faccia pure. Non ho nulla da perdere. Anzi, parli pure, io intanto posso raccogliere la legna, oppure le more e le fragole, oppure le nocciole per fare la crema da invasare per la brutta stagione.” Pensava Arina.

Da novembre a marzo lei e Luigia uscivano poco. Alle diciassette accendevano la televisione e dopo mezz’ora preparavano il thè fumante con i biscotti e la crema di nocciole.
Luigia era stata amica della mamma di Malù e conosceva bene sia i conti che la vita che si svolgeva tranquilla a Villa Cenaroli. Alcune abitudini erano trasmigrate da una casa all’altra e ora le caratterizzavano entrambe rendendole diverse da tutte le altre.

La presenza del prato, del giardiniere, di una dependance per la servitù, l’abitudine del thè, quella di avere ospiti durante il fine settimana e di invitare parenti e amici a cena. Entrambe le case erano anche molto ospitali. Se una persona Passava da Pontalba ed era un conoscente dei Pilla piuttosto che dei Cenaroli, poteva contare su una ospitalità sicura e molto ben organizzata.

Luigia Pilla si era accorta che Arina ultimamente era strana. Sembrava sovrappensiero, oppure con la testa tra le nuvole, non sapeva decidersi.
Così glielo chiese:
– Cosa ti passa per la testa Arina?
Ettore, il maggiordomo dei Cenaroli, buon partito, da sposare, insomma – disse Arina, andando subito al sodo.

Luigia restò esterrefatta, non sapeva che Arina conoscesse Ettore, anche perché il maggiordomo non usciva quasi mai dal cancello di villa Cenaroli, la residenza bellissima che costeggiava il Lungone dove viveva e lavorava da sempre.

– Ma dove hai conosciuto Ettore? – chiese Luigia.
– Sulla strada sterrata dei castagni, io stavo raccogliendo la legna e lui uscito dal cancello per aiutarmi. Sembrato una persona seria, buon lavoro sicuro e buono stipendio.
Ma ti piace? – chiese Luigia.

– Cosa significa mi piace? Io vengo da Romania, ho avuto problemi di “sallute”. Con la fine della dittatura, ho perso lavoro, il mio primo marito, tutti i vantaggi di prima. Ho dovuto fare di tutto, compreso contrabbando sigarette, profumi e oro con la Turchia.

Ho visto gente ricca diventare poverissima, ammalarsi e morire. Ho visto la miseria e la paura, la guerra. Ho visto la corruzione che un regime dittatoriale lascia dietro di sé quando finisce. Ho visto ciò che resta e diventa visibile quando cade “ommertà” che un regime impone come vincolo al privilegio, come premessa per casa e stipendio.

Ho avuto alcuni miei parenti prima ammalti e poi morti e non ho potuto fare nulla per curarli e seppellirli. Una persona che ha visto e provato sulla sua pelle tutto questo considera il “piacere” cosa diversa.

Un uomo piace nella proporzione in cui sa essere economicamente stabile, nella misura in cui sa essere come pensione. Se poi sta anche in un bel posto e sembra sano di mente, ha tutto ciò che deve avere. Non c’è altro che si possa sperare e non c’è nulla di più a cui “annellare”. Chi ha passato quello che ho passato io, sa che occhi belli e pelle liscia durano forse qualche anno, mentre la pensione e una vecchia casa di mattoni durano fin che uno vive. –

Luigia non commentò quello che Arina le aveva detto. Non le vennero le parole. Si accorse come in Arina ci fosse una rinuncia a qualsiasi sogno, una attenta analisi della realtà volta ad eludere qualsiasi possibile delusione.

La priorità di Arina era trovare una persona solida dal punto di vista economico e comportamentale. Altro non voleva e non cercava. Quello che aveva visto e sopportato in patria aveva ucciso una parte dei suoi sentimenti. Sicuramente tutti i suoi sogni.

Si chiese cosa avrebbe potuto dire ad Arina su Ettore e poi si sorprese a pensare che Ettore era una brava persona, gentile, con uno stipendio sicuro e una bella casa. Arina avrebbe potuto vivere a Villa Cenaroli, sulle sponde del Lungone. Vedere le stagioni che cambiano, le foglie dei rampicanti che diventano rosse, gli uccelli migratori che arrivano e ripartono, le tartarughe di terra che scavano un tunnel sotto l’argilla e là si posizionano per superare l’inverno. Avrebbe potuto osservare da vicino gli aironi e le gazze, i corvi e i leprotti correre felici lungo gli argini (almeno fintantoché non riapriva la caccia).

Ma l’amore è qualcosa in più, è molto di più? Oppure no. … Le era venuto il dubbio che i trascorsi di Arina l’avessero in parte uccisa, che i drammi già passati non potessero più essere cancellati dal suo cuore e che quindi quello che diceva su Ettore fosse la forma (possibile) di amore che Arina poteva ancora provare su questa terra.

Avrebbe parlato con Malù per verificare la serietà di Ettore nei confronti di Arina e, una volta appurata quella, si poteva organizzare un bel matrimonio e il conseguente trasferimento di Arina a Villa Cenaroli.

Magari lei e Malù avrebbero potevano fare scambio di cameriera. Magari Malù le avrebbe ceduto volentieri Serafina e si sarebbe presa Arina. Malù era intelligente e di solito altruista, si poteva combinare un fruttuoso scambio.

In quanto a Ettore ed Arina si poteva augurare loro di vivere serenamente e in pace. In fondo al suo cuore Luigia sapeva che mancava qualcosa, che non c’era, almeno da parte di Arina, molto amore spassionato, poco trasporto. Non c’era innamoramento. Mancava quel sentimento dolce e leggero che avvolge tutto con un manto dorato e rigenera il cuore rendendolo nuovo e forte.

Ma tant’è, magari il matrimonio avrebbe funzionato comunque; c’era inoltre la possibilità che una quotidianità tranquilla cementasse dei sentimenti che potevano alla lunga trasformarsi in amore. Poteva anche essere. E comunque, sposando Ettore, Arina si sarebbe definitivamente sistemata.

“Parlerò con Malù e vedrò come si può sistemare la faccenda” pensò Luigia.
“Parlerò con Ettore” e vedrò come sistemarmi, pensò Arina.

In quel momento si decise il futuro di diverse persone senza menzionare l’amore, senza rifletter sul fatto che è l’amore che fa girare il mondo. Senza quel nobile sentimento perdiamo parte del nostro valore come esseri umani, come individui che hanno una spiritualità delicata e raffinatissima, che va coltivata, se non si vuole che marcisca.

Forse un matrimonio di quel tipo poteva essere un buon inizio e forse poteva essere l’esatto contrario. Ma quante certezze ci sono nei cambi di vita, quanto possono le accidentalità, le malattie, i casi nefasti, le cattiverie della gente? Che bisogno c’è dia anelare a quel sentimento nobile e onirico che si chiama amore spassionato?

Eppure, nell’amore sta tutto il senso della nostra vita e in quel momento Luigia, Arina ed Ettore sbagliarono tutti e tre qualcosa. Luigia e Arina perché abdicarono all’amore, Ettore perché lo diede per scontato.

Il matrimonio fu una discreta comunione d’intenti, un discreto successo che garantì ai protagonisti una discreta vita. Così è l’esistere, spesso ci si accontenta troppo di quel che si ha.

Arina Arina mon seul et grand amour. Quelle douleur est l’amour.
(Arina, Arina, mio solo e grande amore. Quale dolore è l’amore.)

Fine

L’amore di Ettore (1° parte)

L’amore di Ettore (2° parte)

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

Le storie di Costanza /
L’amore di Ettore (Seconda parte)

 

Passarono alcuni mesi e il povero Ettore, magro come un chiodo e tormentato come non mai, continuava a pensare alla sua innamorata.Serafina aveva scoperto, parlando con le donne al mercato, che l’amata del maggiordomo non era affatto originaria di Pontalba, ma che si chiamava Arina e faceva la colf a casa dei signori Pilla.

Arina proveniva da Buzău un municipio della Romania di 135.000 abitanti, capoluogo dell’omonimo distretto, nella regione storica della Muntenia. Viveva nella dependance della casa dei Pilla e si occupava delle pulizie e delle necessità personali della vecchia signora Pilla, che, avendo novant’anni, dava un po’ i numeri.

Arina Arina mon seul et grand amour. Quelle douleur est l’amour. (Arina, Arina, mio solo e grande amore. Quale dolore è l’amore.) – soleva dire Ettore quando pensava che nessuno lo sentisse. Dirlo in francese gli piaceva, faceva sembrare più nobile il sentimento e l’essere umano che lo animava, cioè lui.

La passione per le frasi in francese era una delle sue caratteristiche, così come tutte le abitudini che ricordavano, anche solo vagamente, la nobiltà. Se poi si mescolava il francese, gli atteggiamenti nobiliari e le pene d’amore, si arrivava a una essenza del vivere che ambiva al titolo di ‘principesca’ e che gli piaceva immensamente.

Si era talmente immedesimato nella parte che la viveva come l’unica realtà possibile e all’interno di questa si tormentava a dismisura. Era diventato magro e pallido come una cipolla conservata al buio e vaneggiava di pene e tormenti come un vero spirito romantico. Victor Hugo [Qui] a suo confronto era un illuminista colto.

Oltre ai tormenti amorosi aveva diversi problemi da affrontare. Purtroppo Arina faceva la badante. Avrebbe potuto andare meglio, poteva essere una maestra, oppure lavorare in Comune, o essere la commessa di qualche bottega di Pontalba … macchè era solo una badante.

Come risolvere questo grave problema? Ci avrebbe pensato lui a innalzare lo status della sua bella! L’avrebbe sposata, come gli aveva consigliato Guido e l’avrebbe resa niente di meno che la moglie del maggiordomo della contessa Cenaroli. Questo avrebbe placato le male lingue, avrebbe innalzato Arina di status sociale e avrebbe reso Ettore fiero all’inverosimile per la grande azione di magnanimità, nonché prova d’amore, manifestata.

Ora restava un unico problema: come dichiararsi ad Arina visto che non la conosceva? Doveva tener d’occhio il cancello del castagneto. Come aveva già fatto in passato, prima o poi Arina sarebbe andata a raccogliere la legna e quello sarebbe stato il momento giusto per iniziare il corteggiamento che vagheggiava da mesi.

Quasi tutti i giorni verso le tre del pomeriggio, dopo aver supervisionato i lavori di riordino domestico post pranzo, Ettore faceva un giro nel parco e si spingeva fino al cancello che dava sulla stradina sterrata. Fu proprio così che uno degli ultimi giorni di Marzo vide di nuovo Arina che raccoglieva legna più o meno dove l’aveva vista mesi prima. Anche questa volta portava la giacca nera, ma non aveva il berretto e i capelli erano racchiusi in un’unica lunga treccia color miele scuro che, dalla testa, arrivava quasi a metà schiena.

“Povero me, cosa posso fare ora? Cosa le devo dire?”. Ettore pensò a Guido, cosa avrebbe fatto lui? Probabilmente avrebbe detto qualcosa di molto semplice, quasi banale e stupefacente nella sua normalità e così decise di fare anche lui.

– Buongiorno – disse – io sono Ettore, il maggiordomo di Villa Cenaroli, sta raccogliendo legna? La posso aiutare?
Arina alzò la testa, lo fissò per un attimo e poi sembrò pensierosa. Forse soppesò il vantaggio dell’offerta appena rivoltale e poi rispose:
– Aiutare. Grazie. Tu prendi legna e mettila qui. Io metto nel cesto.

Ettore non se lo fece ripetere due volte. Estrasse la chiave arrugginita che teneva sempre nel mazzo nascosto sotto il grembiule da giardino, la infilò nella toppa e aprì il cancello facendo rumore. Lo stridore prodotto dall’apertura fece alzare in volo le anatre del parco, che avevano proprio là il loro laghetto artificiale preferito. Una piccola quantità di acqua del Lungone veniva infatti dirottata in quella pozza artificiale, ricreando un habitat ideale per le anatre selvatiche che passavano in quel parco tutta la bella stagione prima di migrare verso il caldo, appena prima che a Pontalba si vedesse la prima brina.

Gri, gri, sbam! Il cancello si aprì e Ettore uscì dal recinto del piccolo mondo nel quale viveva abitualmente. Vide dei rametti di castagno in terra e cominciò a raccoglierli, passandoli ad Arina che li prendeva e li riponeva nel suo cesto.

“Ora cosa le dico” pensò Ettore, con i rametti di castagno in mano. “Forse le posso raccontare qualcosa sui castagni”. Lui lavorava con i giardinieri da molti anni e aveva imparato da loro molte nozioni sulla vegetazione del parco. Quindi quello era un terreno su cui si sentiva particolarmente sicuro.

Il castagno [Qui] è una pianta arborea, con la chioma espansa e rotondeggiante. Può essere alto tra i dieci e i trenta metri. E’ una specie eliofila, caducifoglie e latifoglie. I castagni sono alberi molto longevi, possono superare i mille anni di età.
Arina lo guardò stupefatta, poi disse: – eofila, cadofila e latifula – e gli sorrise.
Mai visto niente di più bello, pensò il maggiordomo, ma c’era qualcosa che non tornava nelle parole che Arina aveva ripetuto.

Allora Ettore provò a spiegare meglio.
– Una pianta eliofila, non eofila, è una pianta che cresce e dà frutti se in pieno sole. Ha bisogno della diretta e forte luce del sole.
– Si si, sole – disse Arina – Quando io in Romania sempre poco sole. Ofila bella cosa.
– Eofila! si dice eofila.
– Io sono di Romania, non so bene Italiano, in Romania là si dice eophile, come latino.

Che spettacolo, Arina sapeva il latino. Questa cosa gli piacque molto, la donna non sapeva bene l’italiano, ma avrebbe potuto impararlo perfettamente. Il rumeno è una lingua neo-latina [Qui] con tante parole che ricordano quella bella lingua morta che è l’antenata dell’Italiano. Forse era il caso di proseguire.

– Caducifoglie e non cadofila, significa che il castagno perde le foglie nella stagione a lui sfavorevole, che qui da noi è quella fredda invernale. Tra l’altro le foglie autunnali sono bellissime, diventano interamente gialle e poi cadono, i bambini della scuola elementare di Pontalba vengono sempre a raccoglierle per fare i collages sull’autunno. Attaccano le foglie direttamente sui cartelloni di carta da pacco bianca e fanno dei paesaggi autunnali con tutte le tonalità del marrone del verde e del giallo, molto belli.
– Collages? Cosa è collages?

– Non importa, lasciamo stare. Questo non è importante – le rispose Ettore, poi proseguì: – Latifoglie e non latifula. Latifoglie significa che i castagni hanno le fogli di forma allargata.
– Si, si però troppo difficile. Parole non necessarie. Importante è capire in generale – disse Arina e non sembrava molto contenta di quelle nuove parole spiegate da Ettore. Le sembravano difficili e, per quel poco che aveva capito, abbastanza inutili.

Però Ettore non era brutto e aveva di certo un buon lavoro e uno stipendio sicuro. Queste le sembrarono buone premesse. Lei aveva avuto una vita difficile, un matrimonio finito male, una militanza nel partito di Nicolae Ceaușescu finita ancor peggio nel 1989.
– Tu sposato? – chiese.
– No – rispose Ettore. Ma di quella domanda si spaventò. Sembrava che la situazione stesse precipitando suo malgrado. Doveva prendere tempo e chiedere di nuovo consiglio a Guido.

– Ai ai ai! mi è entrato un moscerino in un occhio. Devo rientrare a cercare Serafina che ha delle mani d’angelo e lo può togliere – disse d’un fiato e, così facendo, riaprì il cancello.
Arina lo guardò e poi alzando le spalle lo salutò: – Ciao Ettore, foglie bellissime.
“Questo va educato” pensò Arina e così pensando definì le caratteristiche di quel rapporto che non cambiò mai più.

L’amore di Ettore (Prima parte) 

L’amore di Ettore (Terza parte) 

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PER CERTI VERSI
Il giorno dei Morti

IL GIORNO DEI MORTI

Sto spolverando
Le fotografie
Bianche e nere
Dei nonni
Delle prozie
Degli avi
Dei parenti
Acquisiti
Degli amici
Morti prima
Dolori gravi
Tutti
Fermati in quell’attimo
Riempiti
Dal ricordo
Lontano
Eppure qui
Ormai è la vostra
Ricorrenza
Siete sempre
In un sorriso
Senza tempo
Che vive
E si consuma
In una salda
Volatile
Compresenza

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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Le storie di Costanza /
L’amore di Ettore (Prima parte)

 

Un giorno Ettore, il maggiordomo della Contessa Malù, vide una bella donna che raccoglieva legna appena fuori dal parco di Villa Cenaroli e se ne innamorò.

Non l’aveva vista bene e nemmeno vi aveva mai parlato, ma tant’è, il cuore accellerò. Desiderò seduta stante coricarsi sopra di lei senza pensare più a nulla. Chissà perché. Forse perché quel giorno era uno dei primi giorni di sole dopo la tanta nebbia dell’autunno lungo il fiume, o forse perché si era definitivamente ripreso da una brutta influenza. Dopo una cura ricostituente prescritta dal medico della contessa, il suo fisico era rinvigorito e pronto a tutto.

Guardò la donna con maggiore attenzione. Era sicuramente di Pontalba. Portava dei jeans blu, le scarpe da ginnastica e una giacca a vento nera. In testa aveva un berretto di lana anch’esso nero dal quale spuntavano dei capelli castano chiaro che, dritti e lunghi, si allungavano decisi lungo la schiena.

Aveva un cesto di vimini che stava riempiendo velocemente di piccoli rami secchi, sparsi fuori dal cancello della villa dopo la potatura dei castagni. La parte più bassa del parco, quella che confinava con il fiume e con la stradina sterrata che portava al cimitero del paese, era infatti ‘abitata’ da enormi castagni che là troneggiavano da molti anni. Ettore li aveva sempre visti, avevano sicuramente molti più anni di lui.

Una volta Guido, il primo fidanzato di Costanza, gli aveva raccontato che da piccolo si divertiva a raccogliere i ricci spinosi delle castagne che si depositavano sul sentiero e a tirarli alle bambine che malauguratamente si avventuravano da quelle parti. Il gioco funzionava particolarmente bene con le bambine che avevano i capelli lunghi. I ricci si impigliavano senza indecisione, e le bambine non riuscivano più a districarli dai capelli, se non tirando vigorosamente e stappando parte della chioma aggrovigliata. Un vero divertimento per quella ‘peste’ del piccolo Guido.

Ettore riguardò la ragazza che raccoglieva la legna di castagno. Quanti anni poteva avere? Forse quaranta. Lui ne aveva cinquanta, poteva andare come età? Dieci anni di differenza erano troppi? … Mah. Era lui ad avere dieci anni di più, quindi la cosa poteva andare, non sarebbe stato accettabile il contrario, una donna con dieci anni di più del suo compagno non era possibile, davvero sconveniente per un maggiordomo come lui.

Che fare? Forse doveva chiedere consiglio a Guido. Rientrò in casa, sicuro del suo innamoramento e per nulla dubbioso sulla reciprocità di tale sentimento. “Se non è amore, sicuramente lo diventerà” pensò mentre rientrava in Villa.

Dopo alcuni giorni, mentre si trovava dove aveva visto la sua innamorata per la prima volta, cioè vicino al cancello che dal castagneto di Villa Cenaroli dava sulla stradina sterrata che portava al cimitero, vide Guido che si stava avvicinando con il suo cane al guinzaglio, un giovane akita inu [Qui] dal manto interamente candido che si chiamava Reblanco.

Reblanco aveva un pedegree importante, dei genitori pluripremiati ed era il padre di alcuni cuccioli di akita che stavano crescendo splendidamente in una casa di Trescia. Lui però non ricordava questa genitura e passava le sue giornate con Guido che lo adorava.

Reblanco era costato tremila euro che, per le finanze di Guido, non era poco. Ma tantè, tra le stranezze di Guido c’era anche il suo modo un po’ originale di considerare i soldi e di usarli in funzione dei desideri più che delle necessità. Soleva dire che tra un desiderio e una necessità c’è una differenza enorme, anzi, che tra l’uno e l’altra esiste quasi sempre un’antitesi. Forse aveva ragione, almeno in parte. Sta di fatto che Reblanco era uno spettacolo e a Pontalba tutti lo guardavano passare con piacere e ammirazione.

Ettore pensò che quello era il momento buono per chiedere a Guido un consiglio sulla sua innamorata.
– Ciao Guido, stai portando Reblanco a spasso?
– Si, avevamo voglia entrambi di sgranchirci le zampe – gli risponde Guido un po’ distrattamente, mentre tira Reblanco per il guinzaglio cercando di farlo rallentare.
– Mi sono innamorato di una signora che è venuta qui alcuni giorni fa a raccogliere la legna e adesso non so cosa fare, come rintracciarla, come dichiararmi.
– Secondo me l’unica cosa sensata da fare è sposarla!
– Ma non la conosco, non so nemmeno come si chiama!
Proprio per questo te la puoi sposare, è ancora una sorpresa. Se tu la conoscessi davvero ti passerebbe la voglia. Invece adesso puoi ancora sposare una favola, una principessa che è esattamente come tu la vuoi. Evvai super-Ettore! Sposati la paesana e facci subito un figlio.

E questo è Guido, un po’ saggio, un po’ genio, un po’ pazzo, un po’ triste. Quel che dice lo pensa davvero, i suoi consigli sanno essere utili seppur nella loro originalità. Spesso tra i suoi suggerimenti si nasconde la luce, altre volte il terreno per un cammino irrealizzabile. Uno così bisogna prenderlo a piccole dosi e distillare quello che dice, in modo da isolare l’illuminazione dalla stranezza, la saggezza dalla malinconia, l’euforia dal nichilismo.

– Grazie del consiglio – gli risponde Ettore e Guido riprende il suo cammino. Tira un po’ il guinzaglio di Reblanco e fa un cenno di saluto con la mano. I due, l’uomo e il cane, allineano il passo al centro della stradina e proseguono tranquillamente sul loro sentiero, già dimentichi dei tormenti di Ettore. Nessuno dei due, per motivi diversi, li considera degni della benchè minima preoccupazione.

Ettore è fermo sul cancello. Li guarda allontanarsi, li trova eleganti, maestosi nel loro incedere in mezzo alla strada e per nulla preoccupati di bloccare il cammino a chi viene in senso contrario. A dire il vero non passa quasi mai nessuno, la strada tra i castagni è tutta loro e ben si adatta all’abbigliamento di Guido e al pelo liscio e folto di Reblanco.

Ora che fare? Come si chiama la donna? A chi chiederlo? Forse a Malù che in paese conosce quasi tutti. Oppure a Serafina che va sempre a comprare la frutta al mercato.
Ettore tornò verso la villa e vide Serafina che stava lavando il pavimento di marmo del poggiolo che dava sulla scalinata.
– Serafina aiutami, mi sono innamorato.
– Ma di chi ti sei innamorato?
– Non so.
– Non sai di chi ti sei innamorato? E’ impossibile!
– Invece è possibile.
– Ma no!
– Ma si!
– No!
– Si!

Quella ‘quadrata’ di Serafina riuscì con poche parole ad instillare nel cervello di Ettore il dubbio di non essere amato e quel dubbio lo gettò in uno stato di sconforto che lo fece piangere a dirotto chiuso nella sua camera e che durò per tutto quel terribile inverno.

Fuori, a Pontalba, imperversava il Covid-19, ma lui visse questo dramma in maniera ovattata, perché il suo cuore era tutto pervaso dalle pene d’amore. Il dubbio di non essere ricambiato dalla sua innamorata lo accompagnò fino agli albori di quella tremenda primavera e lo prosciugò come una castagna secca. Diventò ‘un mondo’ (come in paese si chiamavano appunto le castagne secche).

Ah aime aimer autant qu’il le peut et autant qu’il le veut …” (Ah l’amore, l’amore quanto può e quanto vuole).

L’amore di Ettore (2° parte)

L’amore di Ettore (3° parte)

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

A voi la nuvola del G20, a noi il futuro

Contro il G20, in piazza a Roma molteplici percorsi: dal corteo studentesco di venerdì 29 alla manifestazione nazionale di sabato 30, dal Climate Camp all’assemblea nazionale di convergenza del 31 ottobre. Perché non vogliamo tornare a quella normalità che era il problema.
Quale miglior collocazione, dal punto di vista evocativo, della ‘Nuvola’ come sede del vertice del G20 di fine ottobre a Roma?

Nella nuvola è impossibile vedere l’oltre e lo sguardo si autoriflette, facendo credere a coloro che vi sono immersi che il mondo si esaurisca lì. E’ cosi che i governi dei paesi più ricchi del pianeta possono ritrovarsi e discutere di “persone, pianeta, prosperità”, fingendosi parte della soluzione, mentre è chiaro a tutti che fanno parte del problema.

Parlano di crescita, ma l’unica cosa che sono riusciti ad aumentare è la produzione di gas serra, di cui detengono il 75%, rendendo drammatica la conseguente crisi climatica. Non stanno cercando di capire come uscire da una crisi sistemica, bensì come continuare ad estrarre valore finanziario da persone, territori, natura e come difendere questa accumulazione di ricchezza. Attraverso armi, guerre, frontiere, muri, società disciplinare. Parlano di transizione ecologica, ma pensano al greenwashing; annunciano la rivoluzione digitale ma hanno in mente sfruttamento e precarietà.

Hanno tuttavia un pregio: aver finalmente chiarito che la preservazione del modello capitalistico non ha più bisogno di alcun consenso sociale, è obbligatoria e ineluttabile. “Ripresa” per l’economia del profitto, “resilienza” per le popolazioni che devono subirla.

La difesa di un diritto, di un posto di lavoro, di un bene comune, di un territorio sono sacrosante e necessarie, ma drammaticamente insufficienti se continuano a realizzarsi su un piano inclinato dall’alto verso il basso.Occorre rovesciare il piano, chiedendo ad ogni esperienza di collocarsi in una dimensione di interdipendenza con tutte le altre – nessuno si salva da solo – e dentro l’orizzonte della sfida per un’alternativa di società. Un piano che metta la cura di sé, degli altri e delle altre, del vivente e del pianeta al centro di una nuova organizzazione della società, oltre e contro la solitudine competitiva e l’ ‘uno su mille ce la fa” del modello capitalistico.

E’ questa la novità messa in campo da processi, percorsi ed esperienze che in questo anno e mezzo di pandemia hanno costruito il filo rosso della convergenza fra i movimenti e alimentato la mobilitazione sociale di chi rifiuta di tornare alla normalità perché era la normalità il problema. E che ha iniziato a dare frutti, producendo lotte radicali che smettono di percepirsi come solitarie e ‘disperate’ e interrogano persone, territori e società. Smettono di interpretare la parte di un copione prestabilito e rivoluzionano la scenografia.

Un’insieme di appuntamenti, che, per la prima volta, vedrà assieme la giovane generazione ecologista dei Fridays For Future e di Extinction Rebellion con importanti vertenze operaie e del lavoro come Gkn, Alitalia, Whirlpool; tutti i sindacati di base ma anche la Flc Cgil; tutti i movimenti sociali ma anche le esperienze del mondo contadino e dell’ agro-ecologia; le reti studentesche e gli spazi sociali; la rete Fuori dal Fossile e il movimento No tav; le esperienze femministe e il Consiglio Nazionale Indigeno dell’Ezln del Chiapas…e molto altro ancora.

Una tappa, non un punto di arrivo. Contro il G20, ma ben oltre loro e la loro insulsa vetrina. Per il diritto al conflitto sociale e alla libertà di manifestare, ma senza alcun interesse per il clima intimidatorio ancora una volta artificialmente costruito da governi e mass-media mainstream.

Ci aspetta una stagione dove molti nodi verranno al pettine, con un’oligarchia al governo che, per imporre un Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, ha ottenuto l’unanimismo parlamentare e pretende il silenziamento di ogni conflitto sociale. La attraverseremo con la lenta impazienza. L’impazienza di chi ogni giorno che nasce ha chiara la necessità di rivoluzionare lo stato di cose esistenti, la lentezza di chi sa che solo la fiducia delle radici nei fiori genera foreste rigogliose.

Vi aspettiamo in piazza in questo week end di fine di ottobre. Speriamo di ritrovarvi ogni giorno successivo.

Marco Bersani, Attac Italia
Questo articolo è apparso con altro titolo su Dinamopress il 28 ottobre 2021

Al cantón fraréś : Il rarità d’Frara”

I piccoli ferraresi che frequentavano la IV elementare, circa un secolo fa, avevano in dotazione “A L’OMBRA DAL CASTEL antologia dialettale ferrarese… ”. Era utile per l’apprendimento della lingua nazionale traducendo dal vernacolo, secondo i “Programmi di studio e prescrizioni didattiche (1923)“. Il volume, lire 3,50, era corredato da un vocabolarietto Ferrarese – Italiano e arricchito con illustrazioni e note.
Agli scolari venivano proposte, fra i vari esercizi, semplici informazioni sulle bellezze (maravié) del capoluogo che sarebbe diventato un giorno Patrimonio dell’Umanità.
( Ciarìn )

Vedi anche Al Cantón fraréś del 22 maggio 2020 [Qui].

 

Il rarità d’Frara
i è sett, propria com jéra sett il maravié dal mond.
Ecli: Al Castèl – La fazzada dal Dom – Al Campanìl – Al palazz di Diamànt – San Franzzesch – Santa Maria in Va – Al Muntagnón.

Al Castèl
l’è sta fatt dal 1385 dal marchés Niculò sgónd d’Este. L’è in mezz a l’acqua e al gh’à quàtar torr ch’il s’ved luntan diés o dódas chilometri.
Che beli fest, al temp di duca! E quant brav omin!: Guarino, l’Ariost, al Tasso e tant’àltar. Ma anch quant bruti cos, alora! Il dó parsón d’Ugo e Parisina il fa paura sol a védril!

La fazzada dal Dom
l’è una dil più beli d’Italia; e i furastiér i sta dil’i ór incantà a guardarla. L’è dal 1135!… Anch alora agh’i era dla brava zént!

Al campanìl dal Dom
tutt ad marm, alt 50 mètar, con Zurzón (al campanón che ass sent luntan ott chilometri). Se al fuss finì con la cupla, al starév all’impàr dal campanìl d’Giotto a Firenze.

Al palazz di Diamànt
a n’scherza. Al gh’à dó fazzà tutt ad marm a punt ad diamànt, e as dis che dentar in t’una ad st’il punt, ch’an s’sa brisa quala, agh sia un diamànt propria ad chi bun. In t’al palazz po’ a gh’è da star a boca averta. A gh’è di magnifich salùn con di bei quàdar! tutt ad pitór frarìs: Garòful, Carpi, Costa, Mentessi, Previati… A gh’è anch al Museo dal Risorgiment, con d’i s’ciop, dil carabinn, dil spad; e po’ al ritratt ad Mosti coi vuluntari dal sò bataglión; e po’ i ritratt di tri màrtir frarìs: Succi, Malaguti, Parmeggiani fusilà dai tudésch dal 1853.

San Franzzesch
l’è ‘na bela césa con un’eco ch’ripèt il parol dasdòtt o vint volt!… ‘na zìzula!

Santa Maria in Va
la gh’à dil beli pitùr dal Bononi. Ma la cosa più bela l’è l’altàr dal Preziosissim. Al fatt l’è quest: Al sgónd giorn ad Pasqua dal 1171 quand un pret ch’géva messa al rumpì l’ostia cunsacrada, ecco, com’un scrizz, tant gózz ad sangv! Anch’adess, in tal mur, ass ved il macc!

Al Muntagnón
l’è sta una maravié al temp di duca, con bosch, zardìn, paschiera, grott e una palazzina pr’i bagn. Adess più gnént, ma solament al deposit dl’acqua potabile.


Traduzione degli autori.

Le rarità di Ferrara
Le rarità di Ferrara sono sette, proprio come erano sette le meraviglie del mondo.
Eccole: Il Castello – La facciata del Duomo – Il campanile – Il palazzo dei Diamanti – San Francesco – Santa Maria in Vado – Il Montagnone.

Il Castello
è stato edificato nel 1385 dal Marchese Niccolò secondo d’Este. È in mezzo all’acqua e ha quattro torri che si vedono lontano dieci o dodici chilometri.
Che belle feste, al tempo dei duchi! E quanti bravi uomini!: Guarino, L’Ariosto, il Tasso e tanti altri. Ma anche quante brutte cose, allora! Le due prigioni d’Ugo e Parisina fanno paura solamente a vederle!

La facciata del Duomo
è una delle più belle d’Italia; e gli stranieri stanno delle ore incantati a guardarla. È del 1135!… Anche allora c’era della brava gente!

Il campanile del Duomo
tutto di marmo, alto cinquanta metri, con Giorgione (il campanone che si sente lontano otto chilometri), se fosse finito con la cupola, starebbe alla pari del campanile di Giotto a Firenze.

Il palazzo dei Diamanti
non ischerza, con due facciate tutte di marmo a punta di diamante, e si dice che dentro in una di queste punte, che non si sa quale, ci sia un diamante proprio di quelli veri. Nel palazzo poi c’è da stare a bocca aperta. Vi sono dei magnifici saloni con dei bei quadri tutti di pittori ferraresi: Garofalo, Carpi, Costa, Mentessi, Previati… C’è anche il Museo del Risorgimento, con dei fucili, delle carabine, delle spade; poi il ritratto di Mosti con i volontari del suo battaglione; poi i ritratti dei tre martiri ferraresi: Succi, Malagutti e Parmeggiani fucilati dagli austriaci nel 1853.

San Francesco
è una bella chiesa con una eco che ripete le parole diciotto o venti volte!… una giuggiola!

Santa Maria in Vado
ha delle belle pitture del Bononi. Ma la cosa più bella è l’altare del Preziosissimo. Il fatto è questo: il secondo giorno di Pasqua del 1171, quando un prete, che diceva la messa, ruppe l’ostia consacrata, ecco, come uno spruzzo, tante gocce di sangue! Anche adesso, nel muro si vedono le macchie!

ll Montagnone
è stata una maraviglia al tempo dei duchi, con boschi, giardini, peschiera, grotte ed una palazzina per i bagni. Adesso più nulla, ma solamente il deposito dell’acqua potabile.


Tratto da: Ferri e De Sisti, A l’ombra dal Castèl : Antologia dialettale ferrarese per gli esercizi di traduzione in italiano, in conformità dei programmi ufficiali 1. ottobre 1923, 2: Classe 4. Elementare, Palermo, Remo Sandron, 1925.

I compilatori dell’antologia
– Luigi Ferri (1854-1935), ispettore scolastico, autore fra l’altro del Vocabolario Ferrarese – Italiano del 1889.
– Francesco De Sisti (1878-1954), insegnante, sportivo, autore de L’influenza psicologica della educazione fisica.
– Mario Luigi De Sisti (1904-1982), figlio di Francesco, architetto, pittore, illustratore della copertina di A l’ombra dal Castèl.

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 Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia,
esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca (Qui)

 In copertina: Organo, particolare, basilica di San Francesco – Ferrara

“Non credevo che il fucile fosse carico…”
ma nemmeno il ministero conosce il numero delle armi nelle case degli italiani.

 

In un istante, fuori da ogni volontà, vedere spezzate le vite delle persone che si amano di più. Un dolore così immenso respinge ogni morale, simile solo al niente che resta dopo un uragano che distrugge la casa con i suoi abitanti e non c’è a chi dare la colpa. Allargare lo sguardo per una riflessione che vada oltre l’evento, invece, si può.

Il fatto è accaduto il 16 ottobre a San Felice del Benaco, in provincia di Brescia. A quanto è dato conoscere fin qui, Viola Balzaretti, 15 anni, muore per mano del fratello tredicenne che per gioco le spara con il fucile del padre, ancora carico dopo la caccia.
Il ragazzo, non imputabile per età, verrà forse seguito dalla giustizia minorile ma non dovrà rispondere penalmente per ciò che ha fatto. Gli sarà comunque di troppo rispondere a se stesso.

Il resoconto della vicina che lo descrive uscire di corsa dalla casa familiare, la maglietta macchiata del sangue di Viola, gridando “Non sono stato io”, è eloquente di quanto sarà terribile convivere con questo mistero: essere fattore causale di una morte che mai si sarebbe voluta e di cui non si è realmente responsabili. Una sorte terribile è toccata pure ai genitori, medici entrambi, lui medico legale e, per due mandati, assessore comunale alle politiche sociali. Attualmente è indagato per la cattiva custodia delle armi in suo possesso. “Una famiglia perbene”, dicono in paese, e certamente lo è.

Ugualmente e diversamente vittime sono coloro che a Viola e ai suoi vogliono bene. Pochi giorni dopo, nella scuola frequentata dalla ragazza, uno psicologo ha incontrato i compagni. Dare espressione al dolore è tra le poche vie possibili per non esserne schiacciati.

Le ragioni vere di quanto è accaduto, probabilmente, non vanno cercate in casa Balzaretti bensì in un panorama più ampio. L’articolo di Repubblica del 18 ottobre attacca così: “A casa mia sono cresciuto che c’erano più fucili che posate”, dice un ragazzo al bancone del bar del centro (…). Di fucili ce n’erano otto, più due pistole, nella villetta di Roberto Balzaretti.”.
Una contiguità con le armi da fuoco che non impressiona, qui e forse altrove. Ricordo bene una conversazione in Sardegna di molti anni fa. L’ospite a tavola mi spiega l’ovvietà di avere almeno un’arma in casa e ridacchia della mia incredulità, gli pare impossibile che altrove funzioni diversamente. Tendenze radicate nel tessuto sociale, come è vero che in certe regioni si consuma più alcol della media italiana o che nella mia città ci spostiamo in bicicletta.

I tratti culturali sono facilmente strumentalizzati da chi ne trae profitto. La legittima difesa a qualunque costo, ad esempio, con qualche mezzo bisognerà pure farla. Magari un’arma, per proteggersi dai malfattori. Anche se poi, ormai da anni, in Italia è più facile essere colpiti con una pistola detenuta legalmente – in genere da un familiare – piuttosto che il contrario. Nel 2020, su 93 omicidi di donne (inclusi i femminicidi), 23 (1 su 4) sono stati commessi con armi da fuoco detenute legali.

L’organizzazione indipendente svizzera Small Arms Survey nel 2018 ha stimato in Italia circa 8,6 milioni di armi da fuoco diffuse tra la popolazione civile (di cui solo 2 milioni regolarmente registrate), escluse quelle possedute da esercito e forze dell’ordine. Come dire 14/15 armi da fuoco ogni 100 civili. Negli ultimi anni si è andati di male in peggio; stando a un sondaggio Censis del 2020 1 italiano su 10 è armato, e nell’ultimo anno ci sarebbe stato un ulteriore incremento.
“Il numero preciso di armi registrate, tuttavia, non si conosce: né il Ministero dell’Interno né la Polizia di Stato lo hanno mai pubblicato e, in merito, non hanno voluto rilasciare dichiarazioni”, chiosa il Giorno in un articolo datato 14 ottobre 2021, vale a dire prima e a prescindere dalla morte di Viola.

Come si fa a possedere un’arma nel nostro paese? Facile: ci vuole un nulla osta oppure un porto d’armi. Il nulla osta serve per un solo acquisto, che però può riguardare anche più armi, da tenere in casa. Con il porto d’armi invece si va a caccia, al poligono, si lavora come guardia giurata, se ne fa uso all’esterno insomma.

Giorgio Beretta, analista di Opal, Osservatorio permanente sulle armi leggere, ne parla in un articolo ben documentato per la rivista Il Mulino nell’estate di due anni fa. In un’intervista a Vanity Fair lo studioso fa un sunto efficace: «La normativa italiana per il numero di armi detenibili è tra le più permissive in Europa, con una licenza per tiro sportivo o da caccia si possono tenere tre pistole, dodici fucili semiautomatici (tipo gli Ar-15, i più usati nelle stragi in America) e un numero illimitato di fucili da caccia. Le norme sono troppo blande e le licenze si possono ottenere con troppa facilità. Non è richiesto né un esame tossicologico né una perizia psichiatrica nemmeno per gli anziani. Tutto si basa su un’autocertificazione controfirmata dal medico curante e un breve esame all’Asl, simile a quello per ottenere e rinnovare la patente di guida».

Non si conosce il numero di armi detenute attualmente in Italia, né quanti nulla osta siano approvati.
Per ovviare il problema Beretta propone una tassa annuale sulle armi, 12-15 Euro per digitalizzarle tutte – molte ancora sono registrate soltanto su registri cartacei – e istituire un fondo dedicato alle vittime delle armi da fuoco legalmente detenute.
Una banalità è certa: il modo migliore per non uccidere è disarmarsi. Finché non lo si fa, occorre una cura corretta delle armi e della persona che l’ha in uso. L’Espresso del 28 settembre 2021 annuncia una proposta di legge portata avanti dal Pd con altre forze politiche in base alla quale il certificato sanitario dovrebbe essere più severo e curato da una commissione medica. Entrerebbe in vigore, inoltre, l’obbligo di avvisare i conviventi maggiorenni della presenza di un’arma in casa.

In chiave di prevenzione nei contesti a rischio, la onlus Ognivolta, nata dopo un ‘incidente’, ha proposto un collegamento tra le banche dati delle forze dell’ordine e della sanità pubblica di modo che, quando qualcuno viene fermato perché autore di violenze o viene sottoposto a TSO, sia immediato verificare se è in possesso di un’arma e, in quel caso, sottrarla. Nel settembre 2020 il Senato ha approvato un ordine del giorno in tal senso, ci si augura che l’iniziativa trovi concretezza.

 Questo articolo è uscito il 27 ottobre, con altro titolo, sull’edizione online di Azione nonviolenta

La Chat – un racconto

 

– Mamma hai finito col computer?
Ma cosa stai facendo… è due ore che sei chiusa li dentro! –

Cosa sto facendo? Già, me lo chiedo anche io. Se sapesse che sto parlando con uno sconosciuto, chissà cosa mi direbbe.

– Sì tesoro, adesso ho finito, ancora un attimo!
Ecco adesso il computer è tutto tuo.
Vado a scuola adesso.
Ci vediamo a pranzo, io torno verso le due, a dopo.
Sono in ritardo, devo spicciarmi.
Non posso arrivare in classe dopo i ragazzi ancora una volta –

Francesca, quarantanove anni appena compiuti, prof. di matematica al Liceo Galvani della città, una separazione faticosa alle spalle, una figlia, Sabrina, ventun anni, secondo anno di Psicologia, semplicemente la sua vita.
Dopo la separazione, oramai erano dieci anni, aveva avuto alcune storie, brevi, passate senza lasciare traccia, prive di importanza.
Ma era da circa un anno che sentiva pressante il bisogno di avere per sé qualcosa di più significativo dei rapporti occasionali avuti fino a quel momento, almeno un compagno, se non un marito.
Ben presto si era resa conto che la cosa però era molto più difficile di quello che aveva supposto.
Nonostante avesse già abbassato di molto le comuni aspettative, accontentandosi per quello che riguardava l’aspetto fisico; era diciamo, quello interiore, che lasciava a desiderare delle diverse persone con cui era uscita fino a quel momento.
E sì che sarebbe stata disposta ad intraprendere seriamente una relazione, ma con un uomo semplicemente normale con sentimenti che corrispondessero per lo meno a quelli tipici di un amore nuovo, chiedendo solamente quello che una donna si aspetta quando inizia una nuova storia, soprattutto un po’ di attenzione e premura.

Invece aveva incontrato solo figure di basso profilo e scoraggiata aveva quasi smesso di accettare altre proposte di uscite galanti.
Aveva anche declinato alcuni inviti a cena con Giulia e Nadia, le sue amiche da sempre, incontri organizzati appositamente per presentarle amici sentimentalmente liberi.

Tutto questo fino a quando aveva sentito parlare – quasi per caso dalla sua collega Doridi – di questa sua nuova relazione iniziata su una di quelle solite chat di incontri.
Aveva chiesto come si faceva, aveva capito che c’era una registrazione da fare, l’aveva anche fatta, ma poi più nulla.

Fino a quando una notte in cui si sentiva particolarmente sola, aveva provato.
Ed ecco che con Marco Z. oramai chattava quasi tutte le sere, da un mese abbondante, attendendo prima che sua figlia si ritirasse in camera sua.
Di solito cominciava a comunicare dopo la mezzanotte e arrivavano spesso le due prima che andasse a dormire.
Si alzava al mattino ancora del tutto addormentata.
Abituata da sempre a dormire molto, quelle poche ore di sonno di certo non le bastavano per recuperare.
E infatti durante il mattino, in classe, diverse volte si era trovata a sbadigliare in continuazione.
Aveva raddoppiato il numero dei caffè presi di solito, ma questo non era stato sufficiente a nasconderle un’aria di estraneità da questo mondo che fino ad allora non aveva mai frequentato.
Tutti si erano accorti di questo cambiamento e a chi le chiedeva spiegazioni rispondeva frettolosamente in termini volutamente molto generici rimanendo sul vago.

– Stanotte lo chiamo e gli chiedo un appuntamento… non posso continuare così all’infinito.
È solo lunedì e sono già stanca come se fosse sabato – pensava Francesca quel giorno di settembre mentre rincasava dal lavoro.

Alle 16:30 in piazza Duomo.
Sono solo le 16 e io sono già qui.
Ho preso una giornata di permesso per fare le cose con calma.
Ho richiesto e disdetto l’appuntamento col parrucchiere due volte.
Non voglio farmi vedere troppo tirata.
Voglio che mi consideri così per come sono.
Ma così come sono poi gli piacerò?
Accidenti potevo andarci da Maurizio almeno per la piega. Guarda come mi stanno questi capelli.. proprio oggi!
È inutile adesso è tardi.
Mi sono messa la gonna.
Non la metto quasi mai.
Vado sempre in bici, e poi sono più comoda coi pantaloni.
Mia figlia mi ha chiesto stamattina se avevo un appuntamento con un uomo.
Ma dico cosa le salta in mente!
Sono diventata subito rossa, mi sono morsicata la lingua perché stavo per chiederle come cavolo lei lo sapesse, poi le ho risposto abbastanza seccamente che io a cinquant’anni potevo anche vestirmi come cazzo mi pareva e che non dovevo giustificarmi di fronte a mia figlia e che…
Al che lei con una vocina molto pacata, mi ha risposto che era solo una battuta e non importava che me la prendessi tanto!
Sono uscita senza dirle una parola.
Sono ritornata subito indietro.
Ho suonato il campanello di casa.
Mi ero dimenticata le chiavi.

– Buongiorno… devi essere Francesca vero? Io sono Marco! –

Mi giro.
Ho il cuore a mille come quello di una adolescente al suo primo appuntamento
– Ma non sei pelato… sei bellissimo Marco…Oh, scusa, cioè volevo dire sei normale! –
– Ah, grazie – rispose con un sorriso Marco – lo prendo come un complimento! –
– Ma no, cioè sì… oh, insomma, ciao.
Sì, sono Francesca e sono agitatissima.
– Bene, anche tu sei molto carina Francesca –
Cosa dici stiamo qui fermi in mezzo alla strada a farci i complimenti o ti andrebbe un caffè? –
– Mi andrebbe, certo Marco, eccome –
– Allora qui all’angolo c’è un bar che a me piace molto, andiamo a sederci lì –
Francesca lo guardò bene negli occhi e con un sorriso fece un cenno di assenso.
Marco le porse il braccio.
Lei si appoggiò delicatamente.

E tutto il resto non contava più nulla.

Parole a capo
Leopoldo Attolico: “Camminando” e altre poesie

Nei poeti la scelta delle parole è invariabilmente più rivelatrice di qualsiasi elemento narrativo
(Iosif Brodskij)

NOTTE, RISVEGLIO

Un po’ di fresco e di aria marina.
La poesia è arrivata.
Ora il fervore del mare
tenta l’approccio con l’aria drappeggiata:
dicotomie di nembi organizzati a spicchi
dalle parti della luna; che fa la Monna Lisa
pencola appena e bussa dentro l’anima.
Breve tremore
conciliabolo del sonno col cuore
breve poesia finita…

Piego la testa sulla luna

 

CAMMINANDO

Il viale dei gelsi
lucidi di sole
era a un passo;
ma la felicità, lontanissima
urtava i colori come un Angelus in un paese morto…

Mi portai via, così, solo il pudore
di un cuore assorto distratto di bambino
che apre e chiude subito la porta
per non disturbare

 

VIDI, MIA MADRE

Vidi, nel gioco
passeri rotolare sul tetto
e in un amen (di gioia? di paura?)
irridere l’abisso: solo uno scarto, prensile, nell’aria
per poi ricominciare daccapo,
dalla prima tegola.
Nell’enfasi del sole e dei colori
-in quell’incanto
vidi, mi parve, intera la mia vita;
come una partitura
percorrere il declivio in splendido fervore di note
verso l’ultima; e lasciarla, febbrile
all’indulgenza preoccupata di una piccola creatura
sorta dal nulla, chissà da quale Ade di sogno
e di parole venuta a darmene misura,
a fior di labbra

In “Piccolo spacciatore”, 1964-1967 – Cooperativa Editrice Il Ventaglio, Roma, 1987

Leopoldo Attolico vive ed opera a Roma, ove è nato il 5 Marzo 1946.
Dalla seconda metà degli anni ’80 si è occupato principalmente di poesia performativa 29, declinata in modalità defatigante nutrita di leggerezza lessicale, giocosità, ironia/autoironia e senso del paradosso. Ha al suo attivo sette titoli di poesia e quattro plaquettes in edizioni d’arte. La sua più recente pubblicazione, “Si fa per dire”, Tutte le poesie, 1964-2016, è presente nelle Marco Saya Edizioni, 2018. www.attolico.it

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

VERGOGNA EMILIA: L’ACQUA DEVE RESTARE PRIVATA.
L’Assemblea Regionale vota di soppiatto la proroga dei contratti a Hera e Iren.

 

Poco più di 10 giorni fa l’Assemblea Regionale dell’Emilia-Romagna ha approvato un emendamento alla legge regionale “Misure urgenti a sostegno del sistema economico ed altri interventi per la modifica dell’ordinamento regionale” che proroga gli affidamenti del servizio idrico in regione fino alla fine del 2027,
Uniche eccezioni, i territori di Reggio Emilia e Rimini, dove sono in corso procedure di gara.
L’emendamento, approvato da tutti i Gruppi consiliari, tranne quelli di Europa Verde e Gruppo misto che non hanno partecipato al voto, compie una scelta molto grave, perché prolunga ulteriormente la situazione di privatizzazione del servizio idrico in regione e rappresenta un ennesimo mancato rispetto dell’esito referendario del 2011.

In Emilia Romagna la grandissima parte delle gestioni del servizio idrico è svolta da 2 grandi multiutilities quotate in Borsa e ispirate da una logica privatistica, Iren e Hera, e ora, proprio quando si poteva aprire il percorso per la ripubblicizzazione, in particolare nelle gestioni finora affidate a Hera, si fa loro questo grande regalo.
Infatti, a fine anno sarebbe scaduta la concessione del servizio idrico a Hera nel territorio di Bologna, alla fine del 2023 a Forlì-Cesena e Ravenna, alla fine del 2024 a Ferrara e Modena.

A Bologna, in particolare, si era avviato un confronto tra gli amministratori locali, Atersir (l’Agenzia regionale che interviene sul servizio idrico e quello dei rifiuti), il comitato acqua pubblica e altri soggetti per far svolgere all’Università di Bologna uno studio sulle forme di gestione del servizio idrico e sulla sua possibile ripubblicizzazione. Un passaggio propedeutico per arrivare ad una scelta condivisa per il futuro del servizio idrico nell’area metropolitana.

Intanto, la prima cosa che fa riflettere è come l’Assemblea Regionale è arrivata alla decisione. Questa è stata presa senza nessuna discussione preliminare con i comitati dell’acqua e altri soggetti della società civile, con un emendamento introdotto di soppiatto in una legge che parlava d’altro.
Un vero e proprio colpo di mano. Una modalità che è esattamente il contrario di quella volontà di favorire la partecipazione, che la Regione proclama a ogni piè sospinto. Una partecipazione che appare sempre più come comunicazione dall’alto (la politica del partiti) verso il basso (la società civile). Una partecipazionesoprattutto,  che non deve riguardare le decisioni di carattere strategico, come quella di cui stiamo parlando.

Le ragioni per giustificare tale scelta sono decisamente inconsistenti.
Si è detto che la continuità delle gestioni serve per poter realizzare gli investimenti che dovrebbero arrivare dal PNRR per il servizio idrico. Dimenticandosi volutamente di riflettere sul fatto che gli eventuali nuovi gestori dovrebbero comunque portare avanti gli investimenti già programmati.
Ancora, si è sostenuto, secondo l’infausta teoria del ‘meno peggio’, che era preferibile concedere una proroga di 6 anni piuttosto che procedere ad una gara, che avrebbe prodotto un affidamento di 30 anni. Facendo finta di non vedere che esiste un’alternativa alla messa in gara del servizio idrico: la ripubblicizzazione, appunto.

Un servizio idrico che, comunque, fino ad un nuovo affidamento, continua in proroga alla gestione esistente e che non esiste alcun obbligo per effettuare una gara all’immediata scadenza della concessione. Come dimostra l’esperienza concreta, che evidenzia che la gara per il servizio idrico a Reggio Emilia è stata indetta nel 2017-18, 6 anni più tardi della fine della concessione avvenuta a fine 2011, mentre a Rimini, con la concessione scaduta nel 2012, si è proceduti alla gara solo nel 2018. Peraltro, a 10 anni di distanza, queste procedure di gara non si sono ancora concluse!

Quello che rimane, allo stato dei fatti, è che le scelte relative al territorio regionale in tema di acqua e rifiuti sono dettate dalle grandi multiutilities e che la politica si adegua.

Si decreta per via legislativa la prosecuzione delle privatizzazioni per un tempo molto lungo (dicembre 2027), impedendo che si potesse discutere della possibile ripubblicizzazione del servizio idrico. Si tratta In più, siamo in presenza di un vulnus democratico, visto che la gestione privatistica di Hera e Iren rappresenta un vero e proprio schiaffo rispetto agli esiti del referendum del 2011.
Infine, vi è persino un forte dubbio di legittimità giuridica sul come si è compiuta questa scelta: in contraddizione con quanto dispone la legislazione nazionale, con il Codice ambientale 152 del 2006, che dice che la materia degli affidamenti è competenza degli Enti di governo degli Ambiti Territoriali Ottimali – nel nostro caso Atersir – qui si interviene direttamente per via legislativa con una legge della Regione.

L’impressine di fondo è che questo non è provvedimento a sé stante, ma si inquadra in una strategia ben precisa volta a privatizzare completamente il servizio idrico nel Paese.
Basta leggere le pagine del PNRR dedicate alla missione “Tutela del territorio e della risorsa idrica”. Al di là delle risorse stanziate, decisamente insufficienti, il cuore del PNRR in materia è quello della “riforma” per rendere “efficienti” i soggetti gestori del servizio idrico.
Nel mirino, c’è, in primo luogo il Mezzogiorno e molto probabilmente l’azienda di diritto pubblico Acqua Bene Comune di Napoli, la prima e quasi unica esperienza che ha dato compiutamente corso all’esito referendario.

L’intenzione – che peraltro informa tutto il PNRR – è che l’intervento pubblico sia servente nei confronti del mercato, per crearlo e sostenerlo, ed è finalizzato ad aprire la strada alla conquista del Mezzogiorno da parte delle grandi aziende multiutilities quotate in Borsa, per rendere irreversibile il modello di gestione costruito sulle stesse.

Non si può rimanere indifferenti e fermi di fronte a questa situazione.
Il Coordinamento regionale comitati per l’acqua pubblica e la Rete regionale Emergenza Climatica e Ambientale hanno indetto per mercoledì 3 novembre alle 14,30 un presidio sotto la sede della Regione Emilia-Romagna.
Intanto, il
Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua organizza una “carovana per l’acqua” che toccherà vari territori e culminerà a Napoli con una manifestazione di carattere nazionale il 20 novembre.

Non ci rassegniamo al fatto che, a 10 anni di distanza, si vorrebbe definitivamente cancellare la volontà popolare espressa con i referendum del 2011, tantomeno che ciò provenga da una regione come l’Emilia Romagna e con il silenzio del Comune di Bologna, che, per bocca del suo neosindaco, ha appena finito di dire che intende ispirarsi alle città più progressiste dell’Europa, come Parigi e Barcellona. La prima ha ripubblicizzato il servizio idrico ancora nel 2011, la seconda è impegnata, nonostante l’opposizione del governo centrale, in una battaglia per fare altrettanto. Qui, invece, sembra di assistere al denunciato blablabla che si nutre di tanti buoni propositi annunciati per poi compiere scelte che vanno in tutt’altra direzione. Ma che, proprio per questo, vanno contrastate e fermate.

In attesa delle gocce di benessere, accontentiamoci dei numeri

Il Global Wealth Report 2021 del Credit Suisse ha esaminato l’impatto della pandemia di COVID-19 sulla ricchezza globale nel 2020. Il report, molto interessante, mostra una continua crescita nonostante i lock down e la crisi conclamata, il che ci porta sin dall’inizio a due conclusioni: la crisi era stata sovrastimata e i governi sono intervenuti in maniera tanto tempestiva quanto stranamente eccessiva.

In effetti anche questo ulteriore Report, che si aggiunge ai dati del Fmi e dell’Ocse, dimostra che la crisi pandemica non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella del 2008 ma che qui si è intervenuto talmente massicciamente, con incredibili iniezioni di liquidità, che la spinta alla ripresa è stata in pratica immediata, in particolare in Cina e Stati Uniti già dallo stesso 2020.

A livello aggregato, nell’anno della pandemia c’è stato un iniziale crollo tra gennaio e marzo del 4,4%, poi una continua corsa al rialzo che ha dato come risultato un + 7,4%. Aggiungiamo che nei mercati finanziari c’è stato un vero boom, la borsa di Milano è passata dai circa 16.000 punti di marzo 2020 agli oltre 26.00 di oggi, Wall Street da circa 18.000 punti agli otre 35.000 di oggi. Sulla stessa scia tutti i principali indici mondiali.

Le grandi aziende, in particolare quelle Hi-Tech, hanno dato risultati stellari. L’indice di riferimento di Facebook, Amazon, Apple e Google a cui si aggiunge Netflix, (Us Fang) è passato da marzo 2020 ad oggi da 2.500 a 7.500 punti. Queste aziende raggiungono oramai da sole una capitalizzazione di oltre sette trilioni di dollari.

Ma ad incrementare i guadagni, e quindi a far salire la ricchezza globale, ci sono anche Microsoft, Tencent, Alibaba e l’azienda automobilistica Tesla del miliardario Elon Musk. Un’azione Exor Spa (holding finanziaria controllata dalla famiglia Agnelli) è passata dai 35 euro di marzo 2020 ai 66 di dicembre 2020 e oggi è a quasi 80 euro.

Alla fine del 2020 la crescita complessiva della ricchezza globale segnava un incremento sull’anno precedente del 7,4%, cioè siamo arrivati globalmente a 418,3 trilioni di dollari.

Il Credit Suisse, bontà sua, ci informa che durante l’anno nero per la sanità mondiale sono stati dunque aggiunti 7,4 trilioni di dollari alla “ricchezza delle famiglie globali” e che “la ricchezza per adulto” è aumentata del 6,0% raggiungendo un nuovo record di 79.952 dollari. Potenza e miracolo delle medie aritmetiche.

La realtà è un po’ meno rosea ovviamente. Ed infatti non è così che l’aumento della ricchezza si distribuisce realmente nel mondo delle persone. Intanto varia di molto già la distribuzione regionale ed infatti, sempre nel 2020, la ricchezza totale è aumentata di 12,4 trilioni di dollari in Nord America e di 9,2 trilioni di dollari in Europa. Queste due regioni hanno rappresentato la maggior parte dei guadagni di ricchezza, con la Cina che ha aggiunto al piatto altri 4,2 trilioni mentre la regione Asia-Pacifico (escluse Cina e India) altri 4,7 trilioni.

La ricchezza totale è invece diminuita in India di 594 miliardi, ovvero del 4,4%, mentre in America Latina si è avuta la prestazione peggiore, con un calo della ricchezza totale di 1,2 trilioni, ovvero dell’11,4%.

A questo è doveroso aggiungere che gli individui che posseggono più di 1 milione di dollari (secondo i criteri di disponibilità che usa Credit Suisse) costituiscono solo l’1,1% della popolazione mondiale e detengono il 45,8% della ricchezza globale, cioè 191,6 trilioni di dollari. Il 55% della popolazione possiede, al polo opposto, solo l’1,3% della ricchezza globale, cioè 5,5 trilioni di dollari.

Credit Suisse prevede che nel 2021 la ricchezza globale continuerà a crescere, quella dei PIL nazionali che aveva visto un calo nel 2020, e secondo il Fondo Monetario Internazionale, raggiungerà i 93 trilioni nel 2021 superando i 100 trilioni nel 2022.

Come sempre possiamo continuare a sperare nel Trickle Down, cioè in quel sistema economico iniziato negli Stati Uniti da Reagan (e continuato da Bush padre, Clinton, Bush figlio, Obama e Trump) che prevede che l’unico modo per far arrivare qualche goccia di benessere ai poveri sia quello di riempire i bicchieri dei ricchi, fino all’orlo.

Joyce ed Emilio Lussu: storia di un’amore e di una passione civile

 

Sento a Radio 3 l’invito a leggere o rileggere “Marcia su Roma e dintorni” di Emilio Lussu.
L’ho letto e riletto in passato. Lo farei anche ora, ma dispero di ritrovarne una copia tra i miei libri. C’è di sicuro, ma dove? Lo ricomprerò. Il consiglio è buono. Alla radio hanno letto questo.
Il libro lo ricordo abbastanza. Lussu testimonia, in pagine di felice scrittura, l’irresistibile avanzata del fascismo nel decennio 1919-1929. Irresistibile anche perché chi doveva e poteva non ha resistito. Una sinistra litigiosa e miope è incapace nel primo dopoguerra di difendere lo stato di diritto, come nel secondo di costruire una democrazia migliore. Neppure oggi direi.

Nel dopoguerra Aldo Capitini, di fronte alle fratture e alle scissioni della sinistra, propone un piano sociale nel quale tutte le forze progressiste possano impegnarsi e ritrovare motivi di collaborazione. Ne scrive anche a Lussu.
Gli risponde la moglie Joyce: “28.2.47, Roma. Caro Capitini, Emilio è partito per la Sardegna e mi ha pregato di risponderti. Tutto quello che dici è giusto e sacrosanto ma le difficoltà cominciano dal primo accenno di tentativo di attuazione pratica. Come si fa a organizzare un comitato per il piano socialista, in cui entrino PSLI, PCI PSI e gli altri vari starnuti socialisti compreso il nostro, se tra nenniani e saragattiani esiste una così corrosiva acidità, che non è nemmeno possibile farli parlare tra loro? I blocchi che comprendano tutte le sinistre sono diventati un sogno ben difficile a realizzare dopo il congresso socialista. Vedi che in Sicilia ci siamo bloccati col PSI e il PCI, ma il PSLI e il PRI hanno recisamente rifiutato di aderire e si presentano per loro conto. Qui a Roma, per le prossime amministrative, situazione ancora peggiore: nessuno ci vuole e nessuno si mette d’accordo. In Calabria, dove sono andata a fare un giro per il partito, i comunisti mi hanno accolta in un paese al grido di <<Morte a Saragat venduto e fascista>>, chissà poi perché, dato che non ho mai nominato né Saragat né il PSLI. E purtroppo queste sono le direttive dal centro. Parrebbe più facile, ora, fare un blocco interno anarchico repubblicano che non un blocco delle sinistre. È una cosa spaventosamente triste, e certo noi continueremo a lavorare con tutte le nostre forze per l’unità socialista, ma con quali mezzi ci sarà dato incidere in questo senso non si vede ancora. Si cerca, si cerca, e si pensa con un senso di penosa ansietà alle prossime elezioni. Il 31 marzo c’è il congresso del PdA. Perché non vieni anche tu? Molto cordialmente, Joyce Lussu”.
Quel Congresso segna la fine del Partito d’Azione.

Qualcosa di Emilio Lussu ho scritto. Nulla dirò di Joyce Lussu, straordinaria per mille ragioni, non solo per il suo sostegno ai percorsi di liberazione degli oppressi, per il suo lavoro di scrittrice e traduttrice di fama mondiale, per il suo sapere coniugare bellezza e lotta concreta, efficace.
Emilio le dice di rispondere ad Aldo, sicuro che, anche in questo caso, lo farà come lo farebbe lui, se non meglio. Dirò dunque qualcosa solo del loro rapporto. Una biografia e bibliografia ragionata [Qui].

1932: Joyce, ventenne, è a Ponza dal fratello Max Salvadori, lì confinato. Molto, anche di lui, ci sarebbe da dire. Le consegna un piano per fuggire da consegnare a Emilio Lussu, già evaso da Lipari. Quasi una leggenda per Joyce. L’anno dopo a Ginevra lo incontra, ricercato dall’OVRA vive clandestino. Ha 22 anni più di lei.
È un colpo di fulmine senza seguito. Un rivoluzionario impegnato nella lotta non può permettersi impegni sentimentali. Sempre a Ginevra, 5 anni dopo, i due si ritrovano. Giunge pure Benedetto Croce, che curerà la stampa delle poesie della “signorina Salvadori”.

L’anno dopo Joyce ed Emilio sono a Parigi, clandestini, in un albergo per studenti. All’inizio del ’40 si considerano sposati, testimoni i compagni Emanuele Modigliani e Silvio Trentin. Già il 14 giugno, all’entrata dei tedeschi, lasciano Parigi. Sono ospitati a Tolosa da Silvio Trentin, A Marsiglia, con particolare impegno di Joyce, producono documenti falsi e organizzano partenze per i ricercati: Lisbona e poi Africa.

Nel giugno del ’41 vanno a Lisbona con documenti polacchi. Joyce, o meglio Anna Laskowska, aristocratica, conoscitrice di lingue, supera ogni difficoltà burocratica. A Lisbona sono francesi e organizzano una vasta rete con diversi fuorusciti.

Nel gennaio del ’42, con regolari passaporti inglesi, come coniugi Grienspan, sono a Londra per trattare di un piano insurrezionale che dovrebbe partire dalla Sardegna, propiziando la caduta del regime.
Sempre a tale scopo Emilio compie due viaggi, negli Stati Uniti e a Malta.
Intanto Joyce è addestrata all’uso della radiotrasmittente, dell’alfabeto Morse, di codici, cifrari, inchiostri simpatici, veleni e armi.
Il piano proposto non procede.
I due vengono riportati con un aereo militare a Gibilterra. Rientrano, ora coniugi Dupont, a Marsiglia, di nuovo falsari a favore dei profughi.

L’occupazione dell’intera Francia li induce a tentare il rientro in Italia attraverso la Svizzera. Sono intercettati. La perfetta conoscenza di Joyce, sia del tedesco che del francese, li salva. A Lione, ospiti di un giellista toscano detto Mostaccino, collaborano con la resistenza francese.
È Joyce, ora Marie Therese Chevalley a portare a buon fine, con documenti falsi da lei preparati, il passaggio in Svizzera del vecchio Emanuele Modigliani e della moglie Vera, ricercati dalla Gestapo.
Sempre a Lione, nella casa di Mostaccino, si incontrano, primavera ed estate del ’43, Amendola e Dozza per i Comunisti, Saragat per i Socialisti, Bedei per i Repubblicani, Lussu per Giustizia e Libertà; “Un comitato d’azione per la lotta unitaria del popolo italiano contro il nazifascismo e la guerra”.
Joyce rientra in Italia già a fine luglio, con passaporto regolare ottenuto dal consolato a Nizza. Emilio il 13 agosto. A Roma, occupata dai tedeschi, i due sono i coniugi Raimondi.

Da Emilio a Joyce

Il 5 e 6 settembre sono a Firenze, al primo Congresso del Partito d’Azione, nel quale confluisce Giustizia e Libertà.
Il 20 settembre Joyce oltrepassa a piedi il fronte, per conto del CLN. Le diffidenze nei suoi confronti sono vinte dall’arrivo del fratello Max, ufficiale della Special Force britannica,
Joyce manda per radio ai compagni del C.L.N. il primo messaggio dall’Italia liberata all’Italia occupata dai tedeschi. Incontra Benedetto Croce, ministro del Governo del Sud, per esporgli il punto di vista del CLN. Concorda, con l’aiuto del fratello, il primo lancio di armi ai partigiani. Ritorna a Roma, nonostante gli amici la sconsiglino, anche perché incinta.
Il 4 giugno 1944 gli alleati entrano in Roma. Due giorni dopo, Joyce ed Emilio si sposano civilmente per riconoscere il figlio in arrivo.

Emilio è nel ’45 Ministro nel breve Governo Parri ed eletto nel ’46 alla Costituente. Pure Joyce si è candidata sempre per il Partito d’Azione senza essere eletta. Nel 1947, allo scioglimento del partito, i Lussu entrano in quello socialista. Ne escono per fondare il Psiup nel 1964. Grande è l’impegno di Joyce in quegli anni, soprattutto in campo internazionale.
È il 1975 e Joyce annota: “Emilio morì ai primi di marzo, senza vedere l’inizio della primavera”. Muore il 4 novembre 1998. Le sue ceneri, con quelle di Emilio, sono al Cimitero degli Inglesi a Roma.

Qualche suo verso per finire con un auspicio.

Noi tutti così diversi,
noi tutti così uguali, possiamo forse aiutare a crescere
arbusti cespugli e boccioli
sparsi qua e là,
un giorno o l’altro ci daranno
fiori e frutti
per tutti
di mille forme e di mille colori.
Li raccoglieremo con grandi feste
In mazzi e ceste,
li appenderemo nei recinti
di etnie e di nazionalismi
artificiali
al posto delle armi micidiali
così care ai militari,
al posto di fasci di tratte e di cambiali,
così care agli usurai,
al posto di veleni globalizzati
che ci vendono ai supermercati
sostituendo alle chiusure
cancelli senza serrature. 

Nota: Questo articolo, con altro titolo, è uscito il 25 ottobre sull’edizione online di Azione nonviolenta

la rivoluzione, la rivoluzione – un racconto

 

c’eravamo noi, una volta, tutti intenti ad aspettare la rivoluzione in senso allargato con la bandiera di quel gran figo del Che, che era il nostro simbolo di lotta contro i genitori, contro i prof, contro i padroni delle fabbriche, intenti a trovare la libertà dalla religione, dal sesso, dallo studio, dal progresso che ci costava la natura, ci avremmo guadagnato l’ecologia, tutte quelle cose che erano importanti, allora, ci autogestivamo quando ci riuscivamo e occupavamo, eravamo tutti contro la polizia, eravamo tutti intenti a cercare di cambiare il mondo che non ci andava, se quello che ci sparavamo in testa o in vena ci piaceva molto di più allora lo inseguivamo, non la pensione, non le case-famiglia, non gli ospizi o come li chiamiamo oggi case di riposo, questi ragazzi ora sono tutti fannulloni, non hanno ideologia, non hanno spina dorsale, tranne mio nipote, forse, dove sono i nostri tempi?

dove sono andati, piegati in valigie che trasporteremo con le rotelle fino in camera nostra, dove ci lasceranno questi infami rammolliti? perché mio nipote ha problemi, invece, lui non è così, eravamo lì a creare un futuro e ora sono qui a lamentarsi di non riuscire ad arrivare a fine mese, loro che hanno sempre avuto tutto, dove lo hanno messo, forse lo hanno venduto, hanno venduto le ‘madonne d’oro’ che gli abbiamo regalato al battesimo per pagare le cambiali, idioti, massa di fannulloni, andate ad arrabbiarvi in piazza come facevamo noi, perché non fate nulla? state a comprarvi il televisione a schermo piatto, e non riuscite a comprarvi il pane, eravamo lì noi a cambiare tutto, ora siamo chiusi negli ospizi a farci prendere a schiaffi dalle infermiere, e voi? non fate niente?

– sono stato uno sciocco ad andare giù in piazza oggi, a protestare contro la riforma della scuola e del lavoro, questa legge di stabilità fallita, sono instabile io, nelle riprese della tv non sono venuto poi molto bene, insieme agli altri, tutti ammassati, come potevamo uscir bene, avessero almeno ritoccato le immagini con Photoshop, e la rai, e mediaset, altro che televisioni nazionali, sono degli impostori, non sono capaci neppure a fare delle interviste decenti, che qui sono diventati tutti prossimi alla rivoluzione, prossimi a spaccare le vetrine dei negozi, a strappare le marche dalle merce, cazzo, per poco ho mancato la serie in tv, che sfiga, ci siamo persi il video di Caparezza, gli articoli che lo criticano, che poi non sono mai le stesse persone, allora bisogna difenderlo, è un grande Caparezza, andare su you tube a dire la propria, contro quelli di Amici, che ci hanno rotto, meglio Caparezza, la musica è rivoluzione

– sono stato un vero sciocco a venire qui, intanto la polizia che ci ha caricato ha goduto più di noi, e non c’erano quelli con i passamontagna a difenderci o a fare casino, o a spaccare i bancomat, io non li ho mai visti, non ho mai capito se ci fanno o ci sono, in tv dicono che sono dei criminali, facinorosi, spaccano tutto, ma sono di destra o di sinistra? quale destra, quale sinistra? sono stanco, vengo qui in mezzo ai cortei per protestare, mica per vedere gente che sfascia tutto, voglio protestare con ordine, voglio guardare le belle ragazze, prima di tutto il rispetto per gli altri, voglio spaccare le linee nemiche, però sono stato uno sciocco, la prossima volta lascio il video recorder accesso, magari mi registro la nuova puntata, senza spoiler, oppure chiedo al mio vicino, ehi, ascolta sai per caso se in streaming trovo la puntata di…

tu non sai di cosa parli, sei sempre lì ad aspettare che qualcuno ti dica cosa guardare, cosa mangiare, cosa pensare, lì di fronte al computer, ad aspettare di capire quale modello di i-phon val bene una notte, non capisci le mie esigenze ho bisogno di fare un figlio, che a breve non potrò più, mi va in cancrena quella parte del corpo che ancora sopravvive a stento, prima che sia troppo tardi, dobbiamo fare un figlio e tirarlo su come Puffy che è così amato, non lo vedi, spazzolo il suo pelo una volta al giorno e gli compro solo la pappa migliore, lo so, lo sento che tu non pensi ad altro, però un figlio, un figlio è diverso,

diamo vita a una generazione nuova di zecca, una generazione che si ripete, il nostro futuro che si manifesta, finalmente, non credi? questo presente che continua a non cambiare, ho il corpo che sta morendo di speranza, solo un paio d’anni e non avrò più l’occasione, è come uno sconto all’unieuro, dobbiamo battere forte adesso, questa rivoluzione della coppia, prima di stancarci di fare all’amore in maniera tradizionale, che poi ci viene di essere speciali, meglio speciali che morti, siamo ancora in tempo, sbrigati, non cominciamo con lo scambio di coppia, lo scambio d’amore, ce lo siamo venduto insieme all’emancipazione, lavoro io, ora fino a quando farò un figlio, poi solo calci dal capo, un figlio, un figlio è diverso, non credi?

– è stato trattato come un pupazzo, un burattino lui, assieme a loro, li abbiamo svenduti per bene, tremila euro per il tragitto, credeva che sarebbe arrivato con la sua famiglia in un paese migliore, non so cosa ci sia di migliore in Italia, credevano che avrebbero trovato un lavoro per sfamare i loro figli qui, invece sono arrivati per stare nelle baracche, per chiedere un sussidio che nessuno in tempo di crisi riceve, neppure gli italiani, figurati loro, figurati lui con la sua famiglia di ‘negri’, di poveracci, ma noi ci abbiamo guadagnato tremila euro a persona, e abbiamo buttato a mare gli zaini con l’insulina, e ora loro sono stati trattati da fantocci, lui è morto in fondo al mare assieme alla sua famiglia di ‘negri’, e non cercavano la rivoluzione, loro, non sapevano.

– ho letto un libro interessante, mica come quelli che stanno ore e ore su facebook, i libri non sono tutti uguali, quelli che leggo io sono molto meglio, dicono che ce ne sono altri di interessanti, li vendono sui siti specializzati con lo sconto del 15%, ma non sono di qualità, se li compri on-line, ci sono quelli di qualità che sono pochi, pochissimi, un 10% grandi case editrici e meno del 5% piccole case editrici, chiudessero tutte le collane, me lo auguro che finiscano tutte male, sprofondassero tutte in fondo al mare, insieme agli editori, ai commercianti, ai trasportatori, ai grafici, ai critici, a tutti quanti, solo così si potrà rivoluzionare il sistema cultura, facciamo come il sindaco di Venezia, buttiamo a mare certi tipi di libri che non fanno bene ai bambini, siamo tutti bambini, abbiamo bisogno di libri di qualità, ma io no,

io ho letto su questo libro che sono speciale, gli altri che non l’hanno fatto si freghino tutti, poi dicono che c’è la crisi, ovvio, avete visto che libri che circolano in giro? non dovrebbero, non sono ‘fascista’, sia bene inteso, lo dice il mio amico che di libri qualcosa ne capisce, e io lo ripeto, che la storia che mi ha raccontato mi ha convinto davvero, fino a domani almeno, poi ci vorrebbe solo una bella pulizia, che permetta di pubblicare solo libri di qualità, stipendiare gente che ne sappia davvero di libri, non quello che mi ha denigrato sul blog di letteratura, dice di essere il curatore di certe collane, ma è sbagliato, non lui, sarebbe meglio che cambiassero tutti i dirigenti, meglio che a decidere di libri di qualità ci fosse il mio amico, che lui davvero ne capisce o io al massimo.

– avere tutti difficoltà a concentrarsi, a rimanere in piedi nonostante si sia rinfrescato il clima, il caldo lo si sente dentro, il surriscaldamento di una notizia bomba che scoppia, che subito si è a catapulti in rete, per vedere se c’è qualcuno con cui parlare, c’è questa difficoltà a incontrarsi per strada e mi raccomando non toccarsi che si prende l’aviaria o forse la scabbia, sono arrivate con gli immigrati, mentre a esportare la paura di toccarsi ci siamo solo noi, voi siete quelli che ad avere la difficoltà di concentrarsi, poi prendete il supradyn mattina e sera, che mancano abbastanza sali minerali, e invece della banana troppo plebea, avete inventato il gatorade, con lo sviluppo, la ricerca,

l’invenzione rivoluzionaria, che cambierà il vostro modo di vivere, di mangiare di concentrarvi, sulle partite di pallone, sulle gare di temptation island, chi resiste di più a cornificare l’altro, è una ricerca di mercato, lo sapete come vanno certe cose, è uno sviluppo delle dinamiche di coppia, voi fate l’esperimento e non calcolate i risultati, lasciate lì le statistiche sociali, avete difficoltà a fare quattro + quattro senza il ginseng in pillole, sicuramente è più efficace quello di marca che quello in polvere da sciogliere, voi avete difficoltà a stare in piedi, morite dal sonno, nel sonno in cui vivete

– te ne sei sempre fregato di me, pensavi solo alla tua ‘fabbrichetta’ a quanti milioni ci potevi tirare su, a quanti operai avresti potuto fregare, mentre io sono diversa da te, da tutti i tuoi conti, dal tuo bilancio finito che a fine anno chiude sempre in positivo con il pronto intervento del commercialista, sono un’artista, cosa credi, scrivo per una rivista di moda, sono una fashion blogger, io creo e non voglio saperne dei tuoi miliardi, creo per un’intera sfilata di moda e poi la promuovo, solo così cambierò il mondo con il mio stile, è inconfondibile dice la testata giornalistica, te ne sei fregato anche della mamma, che le riusciva solo di farsi regalare gioielli al posto delle mutande che non le sfilavi, almeno non a lei, ora ho altri bisogni e necessità,

tu non puoi capire il mio mondo e io non capirò mai il tuo, uscirò con la macchina che mi hai regalato e andrò in discoteca, questo è il mio campo di confronto, non certo quel capannone con quell’enorme puzza di agenti chimici, sei tu che mi hai portato a questo punto, sei tu la mia droga, anche se quella buona me la faccio arrivare dal miglior laboratorio, amici fatti grazie alla moda, grazie all’arte e alla creatività, rivoluzioneremo lo stile, e tu cosa puoi capire, stai pure con le tue puttane, con i tuoi operai, ti sfilerò qualche centone nel sonno, sporchi soldi, ci sputo su, capitalista, sporco capitalista

– era al centro dell’attenzione, la notizia che predica le loro idee, affascinanti come allora, infatti lo sono adesso, che i giornalisti sono pronti a dirti tutta la verità di cui sono in possesso, tutto quello che ci è dato sapere, parzialmente compreso da te, parzialmente offerto da loro, che sembrano uscire come topi nella notte, a tirare su manifesti nuovi per ogni nuova protesta fantascientifica, l’imminente uragano, l’imminente presa di potere, l’imminente crisi, l’imminente guerra, e poi ti mettono in bocca le parole che ti sei faticosamente cercato su internet o in tv,

un’improvvisazione da predatori e la tua ricerca non va a buon fine, in cerca di novità, chi mai sarà quel nuovo conduttore, c’è chi presenta le notizie e lo hanno già notato per fare un film hard da scaricare su you porn, ah, che rivoluzione, la rivoluzione che non c’era o che c’è sempre stata, la circonvoluzione delle idee, di notizie troppo condivise, la rivoluzione è uno stile, un libro, un giornale, un padre, una madre, una manifestazione, la rivoluzione è nel passato o dentro uno ospizio futuro, nella mente di chi non ce l’ha fatta, nelle strade, sulle carrette del mare, ah, la rivoluzione, la rivoluzione è solo un giro intorno al sole, un cambiamento repentino di stagioni.

LA POESIA E L’EMOZIONE:
i ragazzi dell’Einaudi a l’Ultimo Rosso.

Un folto gruppo di ragazzi dell’Istituto Einaudi di Ferrara, accompagnati dai docenti Roberto Paltrinieri e Cecilia Bolzani, la mattina del 16 ottobre scorso, hanno partecipato all’incontro finale di poesia l’Ultimo Rosso tenutosi presso il giardino della Biblioteca Ariostea. Il progetto partito dalla lettura della poesia Possibilità del premio Nobel Wislawa Szymborska, ha stimolato la creazione poetica da parte degli studenti che, ispirandosi alla poesia, hanno elaborato i loro testi.
E’ stato un momento emozionante per tutti i partecipanti e per il pubblico, dimostratosi molto attento. La prova, ancora una volta, che la poesia è un linguaggio universale, la strada per esprimere quanto si muove dentro ognuno di noi.
(La redazione)

ULTIMO ROSSO 2021
Stiamo sviluppando un percorso volto ad imparare
ad apprezzare il testo poetico.
Ci siamo avvicinati alle figure retoriche,
abbiamo compreso che il linguaggio della poesia
è connotativo, polisemico, allegorico…
Ho chiesto ai miei studenti di leggere, analizzare,
parafrasare, scomporre e ricomporre frasi, parole,
campi semantici, schemi metrici…
Finché un giorno ci è stata proposta la lettura di
“Possibilità” di Wislawa Szymborska.
Il testo è stato per noi un trampolino di lancio
verso la creazione poetica.
Abbiamo accettato la provocazione
e così anche noi abbiamo vissuto l’emozione,
la discesa e la risalita
la pausa, il ritmo, la verità del testo poetico.
I miei studenti si sono scoperti poeti:
quelle che vi proponiamo sono alcune delle
loro creazioni.
Si sono guardati nel cuore,
si sono lasciati portare dalle immagini,
si sono fidati e ci hanno donato
qualche loro segreto.
Ma soprattutto, increduli, con l’entusiasmo
e la fiducia della loro giovane età,
hanno sperimentato un momento di
intensa poesia.
Cecilia Bolzani

Possibilità
Preferisco il cinema.

Preferisco i gatti.
Preferisco le querce sul fiume Warta.
Preferisco Dickens a Dostoevskij.
Preferisco me che vuol bene alla gente, a me che ama l’umanità.
Preferisco avere sottomano ago e filo.
Preferisco il colore verde.
Preferisco non affermare che l’intelletto ha la colpa di tutto.
Preferisco le eccezioni.
Preferisco uscire prima.
Preferisco parlar d’altro coi medici.
Preferisco le vecchie illustrazioni a tratteggio.
Preferisco il ridicolo di scrivere poesie, al ridicolo di non scriverne.
Preferisco in amore gli anniversari non tondi, da festeggiare ogni giorno.
Preferisco i moralisti che non promettono nulla.
Preferisco una bontà avveduta a una credulona.
Preferisco la terra in borghese.
Preferisco i paesi conquistati a quelli conquistatori.
Preferisco avere delle riserve.
Preferisco l’inferno del caos all’inferno dell’ordine.
Preferisco le favole dei Grimm alle prime pagine.
Preferisco foglie senza fiori che fiori senza foglie.
Preferisco i cani con la coda non tagliata.
Preferisco gli occhi chiari perché li ho scuri.
Preferisco i cassetti.
Preferisco molte cose che qui non ho menzionato
a molte pure qui non menzionate.
Preferisco gli zeri alla rinfusa che non allineati in una cifra.
Preferisco il tempo degli insetti a quello siderale.
Preferisco toccar ferro.
Preferisco non chiedere per quanto ancora e quando.
Preferisco considerare persino la possibilità
che l’essere abbia una sua ragione.
Wisława Szymborska

Preferisco il sole
Preferisco la sincerità anche da parte di chi mi odia
Preferisco lo stile libero
Preferisco i giorni produttivi, e quando ho modo di essere fiera di me
Preferisco gli abbracci di mia madre e i sorrisi di mia nonna
Preferivo quando c’era
Preferisco chi mangia e ha la forza di affrontarlo
Preferisco la libertà di opinione
Preferisco quando, per tutti, siamo tutti uguali
Preferisco quando vengo ascoltata
Preferisco quando non sono la solita persona orribile
Preferisco scrivere anziché leggere
Preferisco le cose essenziali ma significative
Preferisco il profumo delle rose
Preferisco quando non sono costretta a scusarmi
Preferisco il silenzio di prima mattina
Preferisco la musica quando le parole sembrano descrivermi
Preferisco la me di ora
Preferisco crescere ed il m e 55 al m e 52
Preferisco sorridere ed essere il motivo di un sorriso
Preferisco la pelle
Preferisco la cheesecake ai frutti di bosco
Preferisco il coraggio
Preferisco che le sigarette rimangano nel pacchetto
Preferisco che mi amino per ciò che sono
Preferisco l’odore dei libri
Preferisco la lettera “A”, prima dell’alfabeto e prima nel mio cuore
Marianna Volta 

 

Preferisco i gatti invece dei cani
Preferisco il rumore delle onde
Preferisco la musica senza parole
Preferisco stare in compagnia
Preferisco viaggiare invece di stare in casa
Preferisco suonare e creare canzoni
Preferisco disegnare un mondo senza problemi
Preferisco guardare il cielo notturno
Preferisco accendere fuochi
Preferisco dormire in tenda
Preferisco sentire l’odore dell’aria e dei fiori
Preferisco guardare il tramonto sentendo gli uccellini che vanno a dormire
Preferisco aiutare la gente
Preferisco incidere i nomi di persone importanti sul legno
Preferisco fare foto e scrivere frasi sul senso della vita
Preferisco la luce invece del buio
Preferisco essere uno scout per poter dare una mano.
Federico Barillari

 

PREFERISCO LEI
Preferisco soffrire che far soffrire
Preferisco un abbraccio del mio cane
Preferisco il suono delle campane a quello delle macchine
Preferisco parlare con le stelle
Preferisco sorridere
Preferisco salire su altre macchine
Preferisco vedere il buio
Preferisco guardare negli occhi
Preferisco il colore blu
Preferisco la libertà
Preferisco la campagna
Preferisco non chiedere aiuto
Preferisco non piangere
Preferisco la fantasia
Preferisco mio fratello
Preferisco uscire
Preferisco la pioggia
Preferisco il rumore del mare alla notte
Preferisco essere negativa
Preferisco la verità
Preferisco gli aquiloni senza fili
Preferisco il semifreddo alla nutella
Preferisco che il cancro sia solo un segno zodiacale
Preferisco guardare dall’alto verso il basso
Preferisco far emozionare
Preferisco vivere la vita
Preferisco LEI
Elena Badiale 

 

Preferisco chiudermi in me stessa che aprirmi
Preferisco non nascondermi
Preferisco non avere paura
Preferisco mangiare senza rimpianti
Preferisco sorridere con lui
Preferisco l’adrenalina
Preferivo parlare
Preferisco ascoltare
Preferisco stare sola con mia madre
Preferisco uscire la sera
Preferisco lottare
Preferisco il caldo
Preferisco la pianura
Preferisco dormire senza cuscino
Preferivo uscire che stare in casa
Preferivo gli amici
Preferisco i miei nonni
Preferisco mio zio
Preferirei la felicità
Preferivo cento
Preferivo la serenità
Preferirei non pensare
Preferisco sfogarmi a basket
Preferisco piangere in panchina
Preferirei non trovarmi in mezzo a due decisioni
Preferisco la campagna
Preferisco il fruscio dei ruscelli
Preferisco la musica a palla
Preferisco il 23
Preferisco scrivere su note
Preferisco i colori dell’autunno
Preferisco la serietà
Preferisco la sincerità
Preferisco non stare in ospedale
Preferisco la libertà
Preferisco la solitudine
Mia Esposito Marraffa

 

Preferisco stare bene
Preferisco rischiare
Preferisco fare ciò che non ho mai fatto
Preferisco correre
Preferisco stare con gli amici
Preferisco ascoltare che parlare
Preferisco divertirmi
Preferisco stare a casa
Preferisco la pizza che il sushi
Preferisco il verde
Preferisco la creatività
Preferisco la verità
Preferisco essere positivo
Matteo Minelli

 

Preferisco chi ricambia l’amore dato.
Preferisco l’educazione reciproca.
Preferisco i cani grandi.
Preferisco quando le persone ridono con me.
Preferisco le stagioni fredde.
Preferisco le felpe oversize.
Preferisco la sincerità.
Preferisco l’amore di un abbraccio nel letto d’inverno.
Preferisco chi non fuma sigarette.
Preferisco i film romantici con la persona che ami.
Preferisco la cucina italiana.
Preferisco la brezza della montagna che l’afa del mare.
Preferisco spesso la solitudine.
Preferisco la fedeltà.
Preferisco il freddo al caldo.
Preferisco chi ascolta.
Preferivo quando il mio cane mi riportava la pallina.
Preferisco il cappuccio.
Preferisco stare dietro su un telo nell’erba.
Preferisco chi mi appoggia e mi consola nei momenti bui.
Preferisco piangere davanti ad un film che trattenermi.
Preferisco chi c’è sempre per me.
Preferisco le ragazze basse.
Preferisco spesso il nero.
Preferisco divertirmi.
Fabio Vanini  

 

Preferisco viaggiare di notte in macchina con la musica.
Preferisco cucinare con mia nonna.
Preferisco l’odore di casa di mia nonna.
Preferisco i suoi abbracci strettissimi.
Preferisco passare il Natale in famiglia.
Preferisco vedere i miei sorridere.
Preferisco passare del tempo con i miei cugini.
Preferisco la Romania.
Preferisco il cammino acceso.
Preferisco addobbare la casa per Natale.
Preferisco aiutare mio papà a fare lavori in casa.
Preferisco la montagna al mare.
Preferisco sciare.
Preferisco le persone che dicono di essere fieri di me.
Preferisco i complimenti che mi fa la gente che non conosco.
Preferivo me stessa da bambina.
Preferisco l’estate.
Preferisco fare serata con gli amici.
Preferisco cantare a squarciagola.
Preferisco ridere senza un motivo.
Preferisco fare shopping.
Preferisco fare foto.
Preferisco gli animali.
Preferisco la pizza.
Preferisco quando il telefono non prende.
Preferisco ascoltare musica con le cuffiette.
Preferisco giocare a briscola.
Andrada Hojda

 

Preferisco i pesci.
Preferisco i boschi agli alberi sparsi.
Preferisco Gallo a Ferrara.
Preferisco le terre aride a quelle fertili.
Preferisco i piccoli gruppi alle grandi comunità.
Preferisco le casseforti.
Preferisco essere giudicato che giudicare.
Preferisco, a volte, scappare dalla realtà.
Preferisco essere sacrificato che sacrificare.
Preferisco I miei genitori.
Preferisco far fare agli altri ció che mi vergogno di fare.
Preferisco continuare a far finta che tutto sia a colori.
Manuel Turco 

 

Preferisco ballare
Preferisco parlare
Preferisco l’amore
Preferisco la fedeltà
Preferisco l’unità
Preferisco la calma
Preferisco il confronto al litigio
Preferisco le porte socchiuse
Preferisco un giorno senza lacrime piuttosto che un giorno senza sorriso
Preferisco non chiedere
Preferisco aspettare chiarimenti
Preferisco sistemare e non lasciare in sospeso
Preferisco soffrire e non far soffrire
Preferisco gli abbracci ai baci
Preferisco vedere che sentire
Preferisco un tatuaggio a un trucco
Preferisco le torte fatte in casa
Preferisco i pranzi in famiglia
Preferisco l’astratto al materiale
Preferisco vivere la storia piuttosto che raccontarla
Preferisco nascondere
Preferisco la me di undici anni fa dalla me di ora
Preferisco un mondo bianco a un mondo nero
Preferisco non dover scegliere
Preferisco vedere orgoglio e pregiudizio
Martina Lo Basso

 

Preferisco la felicità
Preferisco il colore azzurro
Preferisco la calma
Preferisco la spensieratezza
Preferisco il salato al dolce
Preferisco il freddo al caldo
Preferisco la quiete al caos
Preferisco la libertà di espressione alle regole
Preferisco soffrire che sentirmi vuoto
Preferisco il dolore fisico a quello psicologico
Preferisco amare che odiare
Preferisco essere me stesso che cambiare per gli altri
Preferisco emozionarmi che restare indifferente
Preferisco pensare a tutto ciò che di bello ho che a ciò che non ho
Preferisco pensare che il domani possa essere migliore.
Enrico DaCol

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]
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Rischiare la vita per rimanere poveri: a proposito dello stato del lavoro

 

A proposito dello stato del lavoro nel nostro paese, due fatti recenti mi hanno colpito. Il primo è la morte (l’ultima di una interminabile catena) di Yaya Yafa, operaio di 22 anni della Guinea Bissau assunto da tre giorni alla logistica di Interporto Bologna (uno dei tanti regni del subappalto senza regole), stritolato da un bilico mentre non sapeva nemmeno come muoversi all’interno di quel piazzale di carico e scarico, essendo privo di qualunque formazione e affiancamento.
Il secondo è una ricerca del European trade union institute, da cui si vede che nella progressione dei salari reali negli ultimi vent’anni l’Italia è il fanalino di coda dell’eurozona, con salari al palo molto peggio che in Germania, in Francia e in Spagna, e una performance negativa superata, in termini di flessione dei salari, solo da Croazia, Portogallo, Cipro e Grecia.

Molti sono i fattori causa della sostanziale assenza di regole sugli appalti (non solo nella logistica), primo fra tutti, forse, l’assenza di controlli e di sanzioni per chi non rispetta le regole formali sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Le aziende risparmiano in sicurezza anzichè investire, e lo Stato risparmia in controlli: basti dire che la legge istitutiva dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (D.Lgs. 149 del 2015) ne previde la creazione “senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”, il che equivaleva a dire che lo Stato non ci avrebbe messo un euro. Questa condizione assurda è stata di recente modificata da un piano di assunzioni e investimenti, che punta però prevalentemente (altra assurdità) sulla destinazione all’Ispettorato di fondi incerti, in quanto derivanti dalle sanzioni irrogate, alcune delle quali aumentate nell’importo. Una sorta di autofinanziamento attraverso le multe.

Molti sono i fattori causa dell’immobilità, per non dire flessione, del potere di acquisto dei salari. Il primo è senz’altro il fatto che l’Italia, tra i paesi “forti” dell’eurozona, è quella che è cresciuta regolarmente di meno in termini di Prodotto Interno Lordo rispetto a Francia, Germania e Spagna, per citare solo i paesi a noi più affini (vedi ad esempio il grafico pre Covid pubblicato di seguito:   https://www.truenumbers.it/andamento-del-pil/)

Un’altra delle ragioni che spesso vengono citate come caratteristica positiva dell’Italia, e cioè la prevalenza di un tessuto di piccole e medie imprese, è invece probabilmente una concausa della depressione salariale. Ci sono infatti eccellenze positive, che costituiscono però le eccezioni ad una regola che vede queste imprese sottocapitalizzate, poco competitive e poco penetrate da aggregazioni sindacali, per l’elevato potere di ricatto insito nelle piccole realtà produttive.

Le micro e piccole imprese con meno di 50 addetti sono l’asse portante del sistema di PMI italiano e rappresentano, infatti, l’83,9% degli addetti delle imprese fino a 250 dipendenti (che è il limite massimo, quanto al criterio occupazionale, per la definizione di PMI in Italia).

Alcuni inseriscono tra le cause anche l’arrendevolezza del sindacato, e l’osservazione si può anche comprendere, se ci si limita al dato che l’Italia ha il sindacato confederale con la maggiore rappresentatività in Europa, la CGIL. Faccio a questo proposito due considerazioni.

La prima: è un fatto che la maggior frequenza di infortuni sul lavoro e la maggior depressione salariale, spesso collegata all’assenza di contratti aziendali/collettivi o all’esistenza di contratti “pirata” (siglati, cioè, da associazioni sindacali con una rappresentatività quasi inesistente), si riscontrano proprio in quelle realtà aziendali nelle quali il sindacato è meno presente, sia esso confederale o espressione di aggregazioni “di base.

La seconda: c’è uno snodo decisivo nella storia delle dinamiche salariali, ed è l’accordo Governo-Sindacati del  luglio 1992, in una fase in cui l’Italia, dopo la firma del (per molti versi drammatico) Trattato di Maastricht, era avviluppata in una delle sue periodiche crisi da sovraindebitamento.
Giova ricordarlo nelle parole consegnate dall’allora segretario generale della CGIL Bruno Trentin ai suoi Diari:  “Mi sono trovato assediato: al di là delle intenzioni e del peso effettivo della minaccia di crisi di Governo che Amato ha evocato, era certo che un fallimento del suo tentativo avrebbe avuto, a quel punto, degli effetti incalcolabili sulla situazione finanziaria del Paese e sul piano internazionale. La divisione fra i sindacati e nella Cgil avrebbe dato un colpo finale al potere contrattuale del sindacato come soggetto politico.

Salvare la Cgil e le possibilità  future di una iniziativa unitaria del sindacato; impedire che fosse imputata ad una parte della Cgil la responsabilità di un ulteriore aggravamento della crisi economica, per emarginarla sul piano politico mi imponevano di firmare l’accordo e di lasciare quindi libera la Cgil e i suoi organismi dirigenti di convalidare o meno quella decisione. E spero ancora, per le ragioni politiche che mi hanno indotto a quel gesto che lo faccia e tragga da questo la forza per ribaltare a settembre le regole del gioco fuori da ogni ricatto.

Dall’altra parte, ero ben cosciente che, ciò facendo, disattendevo il mandato ricevuto dalla Direzione della Cgil, quel mandato che avevo sollecitato con tanta insistenza, contrapponendomi alla tesi dei soliti rentiers della politica del sempre peggio, che invocava l’abbandono del negoziato. Non potevo annunciare alla Segreteria della Cgil la mia intenzione di firmare, senza preannunciare le mie dimissioni. Ciò che ho fatto”.

Con quella firma, viene abbandonato il meccanismo di adeguamento automatico dei salari all’inflazione (la cosiddetta “scala mobile”) ed introdotta – dopo la ratifica da parte delle assemblee dei lavoratori – la “concertazione”, un metodo contrattuale che divide il negoziato in due: un tavolo nazionale che fa da quadro di compatibilità, ed uno decentrato.

Trentin, un partigiano e intellettuale finissimo, firma per non spaccare l’asse confederale in preda al tormento, quel tormento che lo porterà alle contestuali dimissioni e alla definizione di quella scelta come “la prova più terribile della mia vita”.
Ricordo che, nel giugno 1985, la CGIL, pressoché sola assieme al PCI (perchè isolata anche da CISL e UIL), perse il referendum che voleva abrogare il taglio della scala mobile stabilito dal governo Craxi.

In questo contesto drammatico ben si comprende il tormento di Bruno Trentin, che firmò un accordo che aborriva. [Nel mio piccolo, conosco bene la sensazione del ricatto esercitato dal potere durante una trattativa: a me ed altri successe durante l’ultima trattativa su Carife. “O firmate per l’uscita del 50% dei lavoratori, o vi riterremo responsabili del fallimento della banca” (e, sottinteso, vi indicheremo come tali all’opinione pubblica). Bisogna trovarcisi, in certe situazioni, per misurare la propria capacità di bilanciare la rappresentanza delle persone con la responsabilità di non portarle tutte alla disfatta.]

A quasi trent’anni di distanza da quell’accordo, tuttavia, potrebbe essere venuto il momento di voltare pagina.
Può essere  venuto il momento di riacquistare un’autonomia negoziale che segni una rinnovata stagione di rivendicazioni sui diritti e sui salari. Una cosa è sicura: il quadro politico e sociale che abbiamo davanti non autorizza facili illusioni.

IL Fascismo è fuori dalla costituzione

Dopo l’assalto di Forza Nuova alla sede nazionale della Cgil, si è riaperto il dibattito sulle formazioni neofasciste e sulla opportunità del loro scioglimento per decreto. Così era stato nel novembre del 1973 per Ordine Nuovo, a seguito del processo e delle pesanti condanne inflitte ad alcuni suoi leader. Al di là del dibattito e dello scontro tra i partiti, viziato come d’uso da strategie mediatiche, il riferimento fondamentale – anche per verificare la possibilità dello scioglimento di Forza Nuova e Casa Pound – rimane il dettato costituzionale, cosa cioè la nostra Carta dispone rispetto al fascismo storico e ai tentativi di risuscitarlo. Il contributo del costituzionalista Francesco Pallante, che sotto riportiamo, attraverso un’analisi puntuale del testo costituzionale, fornisce utili elementi di conoscenza e di riflessione.
(La Redazione)

di Francesco Pallante

L’entrata in vigore, il 1° gennaio 1948, della Costituzione repubblicana segna una cesura nella storia d’Italia. A fronte del tentativo di trattare il fascismo come una parentesi, chiusa la quale avrebbe ripreso vigore l’ordinamento giuridico liberale imperniato sullo Statuto albertino, s’impone la diversa prospettiva di chi – lungo il sentiero tracciato da Piero Gobetti sin dal 1924 – fa propria l’idea che, dal punto di vista costituzionale, «la questione non sia di difendere [lo Statuto], ma di creare [una nuova costituzione]» (La filosofia di un fascista mancato, in Opere complete di Piero Gobetti, vol. I, Scritti politici, Einaudi, 1997, p. 574).

La prima disposizione della Costituzione repubblicana è il manifesto dell’avvenuta cesura. L’Italia era una monarchia oligarchica fondata sul privilegio. Con la nuova Carta fondamentale, si ribalta nel suo opposto, divenendo una «Repubblica democratica fondata sul lavoro» (art. 1, co. 1). I sudditi si tramutano in cittadini; da discendente, il fluire del potere si fa ascendente; il lavoro perde la sua connotazione negativa e si rinnova in strumento di inclusione sociale. Tale esito era tutt’altro che scontato. La destituzione di Mussolini (25 luglio 1943) apre il campo all’azione di una pluralità di forze che perseguono obiettivi solo parzialmente convergenti. Al confronto che si innesca tra alleati, partiti antifascisti riuniti nel CLN, corona, militari, ex sostenitori e membri del regime fascista si sommano le divergenze interne a ciascuna delle forze contrapposte: una miscela ad alto rischio di deflagrazione. Proprio in ciò sta il «miracolo costituente»: nell’aver saputo ricondurre a unità, nel nuovo testo costituzionale, il pluralismo sociale e ideale liberato dalla fine del fascismo, contenendone, nonostante gli aspri conflitti, i possibili sviluppi distruttivi. Chiave del successo, un articolato costituzionale felicemente compromissorio: tale, cioè, da non poter essere considerato da nessuno come pienamente “suo”, ma nemmeno come totalmente “altrui”.

Tuttavia, se è vero che il testo finale risulta approvato a larghissima maggioranza (453 voti favorevoli a fronte di 62 contrari), è altresì vero che non si deve sminuire, sotto il profilo concettuale, il significato delle posizioni ostili alla nuova Costituzione. Spiegando come nascono le carte fondamentali, Gustavo Zagrebelsky distingue le «costituzioni che comandano» dalle «costituzioni che unificano» (Intorno alla legge, Einaudi, Torino 2009, pp. 230 ss.). Le prime – le costituzioni che comandano – presuppongono che la società sia divisa da un conflitto tra due o più parti contrapposte, che si risolve con la prevalenza di una sulle altre. Tale prevalenza è sancita dalla Costituzione, che pone fine alle ostilità dividendo la società in dominanti (i vincitori) e dominati (i vinti). In casi come questi, la Costituzione è un “comando”, un “colpo di potenza” degli uni verso gli altri. Le seconde – le costituzioni che unificano – presuppongono anch’esse l’esigenza di dare ordine a una società plurale, ma, in questo caso, la pluralità è frutto della compresenza di forze amiche o, se avversarie, comunque non irriducibilmente ostili le une alle altre. La costituzione, di conseguenza, anziché come un «regolamento di conti tra nemici» opera come un «coordinamento tra amici».

È chiaro che quelli ora delineati sono modelli ideali, rigorosamente distinguibili l’uno dall’altro sul piano concettuale, non altrettanto sul piano storico. Ne è evidente dimostrazione proprio la Costituzione italiana, nel contempo atto di unificazione tra le vittoriose forze antifasciste e atto di comando ai danni della sconfitta forza fascista: una situazione fotografata con chiarezza dall’esito del voto finale.

Si comprende, così, come il fascismo risulti doppiamente estraneo all’ordinamento costituzionale repubblicano: perché, sul piano storico, la nuova Repubblica democratica è l’esito della vittoria della Resistenza sul fascismo (come ben si dice con l’espressione «Costituzione nata dalla Resistenza»); e perché, sul piano politico, fascisti e nostalgici del fascismo si ostinano a rimanere tali anche dopo la caduta del regime, rifiutando, con la Costituzione, i principi e le regole del costituzionalismo democratico, per definizione ostile all’assolutezza del potere e, di conseguenza, al fascismo che a quell’assolutezza anelava. Insomma, da qualunque punto di vista – teorico, storico, politico – si guardi la questione, l’antifascismo emerge come il principale tratto identitario della Costituzione italiana: ne è l’elemento costitutivo fondamentale. La doppia funzione – di comando e di coordinamento – della nostra Carta si esprime, con tutta evidenza, nel suo essere articolata, oltre che in norme rivolte a disciplinare i nuovi assi di sviluppo della società italiana, altresì in norme finalizzate a dettare proibizioni nei confronti del fascismo. È il caso della XII disposizione transitoria e finale, che vieta «la ricostituzione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista» (co. 1) e dispone che siano imposte con legge limitazioni «per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione […] al diritto di voto e all’eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista» (co. 2). Delle due norme, è senz’altro la prima a rivestire importanza maggiore, per la sua proiezione indefinita nel tempo: il divieto di ricostituzione è imperituro e dettagliato in modo piuttosto preciso nella successiva legislazione di attuazione: la legge n. 645/1952 (c.d. legge Scelba), la legge n. 152/1975 (c.d. legge Reale) e la legge n. 205/1993 (c.d. legge Mancino).

Sarebbe, tuttavia, riduttivo ritenere che la funzione di comando della Costituzione si esaurisca nella sua XII disposizione transitoria e finale. Analoga è, infatti, la funzione delle numerose disposizioni costituzionali che, nel dettare la nuova disciplina democratica dei fenomeni sociali, prendono, più o meno implicitamente, le distanze dal regime precedente. Si pensi all’art. 18 che, nel proclamare la libertà di associazione, si figura le “camicie nere” mussoliniane e vieta le associazioni «che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare» (co. 2). Oppure all’art. 21, che a tutela della libertà di stampa violentemente conculcata dal fascismo, distingue accuratamente le ipotesi di autorizzazione, censura e sequestro, ammettendo solamente quest’ultimo e con garanzie più stringenti di quelle previste per la libertà personale. O, ancora, a una norma sull’organizzazione costituzionale come l’art. 102, co. 2, che – ricordando la barbarie del Tribunale speciale per la difesa dello Stato – vieta l’istituzione di «giudici straordinari», vale a dire di organi giudicanti appositamente costituiti per vagliare fatti già avvenuti (e, dunque, suscettibili di essere formati in modo tale che la decisione sia pregiudicata). O, infine, sempre nell’ambito dell’organizzazione dei poteri, alla denominazione assunta dall’esponente di vertice dell’esecutivo: non «Primo ministro», come per esempio in Inghilterra, ma «Presidente del Consiglio dei ministri» (art. 92, co. 1), a sottolinearne la funzione di coordinamento tra pari anziché di primazia verso subordinati – com’era, invece, al tempo del fascismo, quando l’analoga figura si fregiava, significativamente, del titolo di «Capo del governo».

Questi casi – e gli altri che potrebbero essere ricordati – significano che l’intera Costituzione, in tutte le sue articolazioni, s’impone come comando ai fascisti e a chi, al di là delle furbizie lessicali dietro cui vilmente si nasconde, all’ideale fascista di fatto si rifà. È dunque errata la posizione che vorrebbe ridurre l’antifascismo costituzionale alla sopra ricordata XII disposizione transitoria e finale, trattando il fascismo come un fenomeno contingente, storicamente circoscritto all’esperienza consumatasi durante il ventennio: una posizione che mira, in ultima istanza, a riconoscere dignità costituzionale a chi, riproponendo posizioni di fatto analoghe a quelle del fascismo, la Costituzione vorrebbe distruggerla, sfruttandone la democraticità a fini antidemocratici – alla maniera in cui un parassita approfitta delle risorse del soggetto in cui s’incista.

Il fascismo, insomma, è fuori dalla Costituzione, e non potrebbe essere altrimenti, perché il compromesso democratico può, per definizione, includere solo chi è disposto a riconoscere il valore delle posizioni altrui, a partire da quelle che non condivide. Aprirlo a includere il fascismo – neo, para o post che sia – significherebbe, oltre che condannare il compromesso alla distruzione sul piano concreto, trasformarlo in una accozzaglia contraddittoria sul piano ideale. Per questo i fascisti non godono delle libertà costituzionali: perché, avendo subìto e subendo la Costituzione nel suo complesso come comando, non ne sono parte attiva, ma passiva. Come ha scritto Paolo Barile, con esplicito riferimento alla libertà di manifestazione del pensiero, ma sviluppando un ragionamento suscettibile di estensione generale, la XII disposizione transitoria e finale Cost. priva l’ideologia fascista della garanzia costituzionale delle libertà (Libertà di manifestazione del pensiero, in Enciclopedia del diritto, vol. XXIV, 1974, p. 470). Di tutte le libertà: quelle individuali allo stesso modo di quelle collettive, come dimostra l’art. 49 Cost., che, nel definire i confini della contesa politica, stabilisce che essa debba svolgersi «liberamente» e «con metodo democratico», così implicitamente escludendo le formazioni politiche che si rifanno al fascismo. Che il fascismo, «sotto qualsiasi forma» si manifesti, possa essere libero e democratico è infatti una contraddizione in termini così lampante che la sua negazione sarebbe di per sé sufficiente a privare di credibilità la Costituzione in cui s’incarna la «Repubblica democratica fondata sul lavoro».

Francesco Pallante è professore associato di Diritto costituzionale nell’Università di Torino. Tra i suoi temi di ricerca: il fondamento di validità delle costituzioni, il rapporto tra diritti sociali e vincoli finanziari, l’autonomia regionale. In vista del referendum costituzionale del 2016 ha collaborato con Gustavo Zagrebelsky alla scrittura di “Loro diranno, noi diciamo. Vademecum sulle riforme istituzionali” (Laterza 2016). Da ultimo, ha pubblicato “Contro la democrazia diretta” (Einaudi 2020) e “Elogio delle tasse” (Edizioni Gruppo Abele 2021). Collabora con «il manifesto».

Questo articolo è già apparso col medesimo titolo sul sito volerelaluna.it

Cover: Militante di Forza Nuova in azione (Wikimedia Commons)

PRESTO DI MATTINA
Illuminare è più che risplendere

«Illuminare è più che risplendere soltanto», affermava Tommaso d’Aquino [Qui] chiamato “Doctor angelicus – dove l’aggettivo indica la qualità della persona – per la limpidezza e mitezza della sua vita. Il suo maestro Alberto Magno [Qui], leggendo alcuni suoi testi disse profeticamente: “Noi lo chiamiamo bue muto, ma egli con la sua dottrina emetterà un muggito che risuonerà in tutto il mondo”.

Di Dio parlava con tenerezza filiale, e dal modo con cui parlava del Cristo Verbo incarnato scaturiva una forza che dava coraggio e rincuorava la fede dei suoi studenti; e chi ne ascoltava i sermoni percepiva la presenza rinnovatrice dello Spirito Santo.

Solo di recente fu chiamato anche Doctor communis, non solo per la vastità della sua opera, ma per l’ampiezza della sua ricerca filosofica, antropologica, culturale aperta all’alterità, in ascolto dei cambiamenti e della cultura del suo tempo, dalla quale seppe cogliere il meglio con vera onesta intellettuale, tanto da studiare non solo il pensiero e le opere di Aristotele, ma persino quello dei suoi commentatori arabi.

L’attributo communis allude altresì alla capacità inclusiva di Tommaso, in grado di tenere insieme differenti prospettive con un metodo di analisi e successive sintesi di carattere dialettico, questionante e rispondente. Le quaestiones disputatae erano quegli esercizi che i docenti davano agli studenti per formarli a un metodo e per verificare la loro preparazione su problemi teologici o sul diritto. Non meraviglia dunque che egli sia ricordato anche nei documenti sulla formazione ed educazione dell’ultimo dal Concilio (Presbyterorum ordinis, 16; Gravissimum educationis,10).

Anche Tommaso si incamminò nel nuovo corso riformatore della Chiesa inaugurato da Francesco e da Domenico di Guzmán [Qui]. E facendosi frate di quest’ultimo scelse, nonostante la contrarietà dei familiari, di far parte in uno dei rami in cui si diversificò il movimento dei mendicanti sorti tra il XII ed il XIII secolo: i Domenicani, che comportava la rinuncia ai beni, il voto di povertà per gli individui e per i conventi e il mendicare.

La svolta innovativa degli ordini mendicanti [Qui] fu proprio quella di fare della contemplazione la sorgente e il nutrimento della predicazione evangelica, l’anima dell’azione evangelizzatrice e pastorale. Un esserci tra la gente, tra le comunità cristiane, nella società, tra i poveri, ma anche nelle univesitas studiorum, come fu poi per Tommaso a Parigi.

L’umanità delle persone e i loro vissuti, le loro storie sono così luoghi e fonti di rivelazione, di contemplazione; avviano processi di trasformazione per il pensiero e l’azione. “Loci theologici” li chiamarono nel Cinquecento (Melchior Cano [Qui]): luoghi in cui essere incrociati dalla presenza del Dio nascosto, per trovarsi faccia a faccia con l’Altro e gli altri, per ascoltare, sentire, pensare, agire.

Lì l’umanissimo Evangelo di Gesù «Astro incarnato nell’umane tenebre» (G. Ungaretti) sta dentro ogni vicenda e ogni umano patire e gioire. Vangelo antico e sempre nuovo e, aggiungerebbe Papa Giovanni, vi sta al modo di una fontana di villaggio: luogo sorgivo di gratuità e di contemplazione per tutti e che fa incontrare tutti pur nella diversità delle loro provenienze e pensieri: cercatori e assetati di senso: «Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: “Chi ha sete venga a me e beva: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno”» (Gv 7,38).

Così il vangelo prima va ascoltato, contemplato, pregato e fatto risplendere nel vissuto della propria vita, poi annunciato per illuminare i nostri passi in cammino con i fratelli e le sorelle.

Di qui l’espressione di Tommaso «Illuminare è più che risplendere soltanto». Con essa egli ci dice che la fede è contemplazione in atto, sicché non deve solo risplendere ma illuminare. Gesù stesso – continua l’Aquinate – scelse per sé questa vita, sintesi di contemplazione e azione, perché essa testimonia la sovrabbondanza del mistero di Dio e svela il segreto della missione tra le genti.

Così anche Tommaso è concorde con Francesco nel seguire e fare proprio ciò che Cristo stesso scelse per sé: una contemplazione in via, una itineranza mistica nel mondo, sintesi di contemplazione e azione, poiché tale via, che porta quel vangelo da cui si viene portati, presuppone «l’abbondanza della contemplazione».

Anzi il Vangelo è «contemplazione che salva». E, se domandassimo a Tommaso «Come si contempla il Vangelo», egli risponderebbe: «Raccogliendo in cuore un versetto». E se lo interrogassimo ancora su un’altra questio ancor più profonda: «Vi è qualcosa di più grande della stessa contemplazione della vangelo?», egli risponderebbe senza esitazione «Contemplata aliis tràdere». La grandezza sta nell’offerta, nel dono, nella consegna di questo vangelo contemplato agli altri: «Come illuminare è più che risplendere soltanto, così comunicare agli altri il vangelo contemplato è più che il solo contemplare» (Summa theologicae, IIa IIae q.188, a 6).

Il primo passo allora per parlare di Dio, per dire le parole del vangelo è il silenzio, come presenza a Dio e al mondo, il silenzio della contemplazione, perché, come diceva sant’Ireneo di Lione [Qui]: «Dal silenzio del Padre viene la Parola del Figlio».

La contemplazione è il luogo dei ritrovamenti di senso, via per ritornare dagli smarrimenti di noi stessi e degli altri. Da essa si attingono quelle potenzialità ed energie evangelicamente sovversive, per non lasciarsi imprigionare dall’indifferenza e per lottare contro l’ingiustizia. Per essa si dischiude il mistero dell’I care, che traduce non solo il “mi sta a cuore”, mi è caro, ma risuona in profondità come il “mi sta nel cuore”, l’altro mi è caro nel cuore.

La contemplazione genera la fede. Per essa si scopre, infatti, l’autenticità di ciò che è veramente affidabile, degno di fiducia in se stessi e negli altri. È dunque uno stare come sulla soglia, tra un dentro e un fuori, attratti verso l’interno dal ‘risplendere’ del mistero contemplato e spinti fuori, mandati a ‘risplendere davanti’, ad illuminare appunto.

La narrazione evangelica è esplicita: «Li chiamò perché stessero con lui e per mandarli» (Mc 3,13-19) e ancora: «Voi siete la luce del mondo; non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini”, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Mt 5,14-16)

‘Risplendere’ ed ‘illuminare’ formano così una sinapsi spirituale e carnale insieme; un punto di contatto generativo, una scintilla di creatività e responsabilità tra la libertà del vangelo e il suo pluriforme donarsi e le nostre libertà a lui rispondenti ed il loro attuarsi nella trasmissione del dono con gli altri.

Contemplare è raccogliersi in unità, è stare a tu per tu con il vangelo, è coltivare i legami interiori come la terra a cura delle radici. E poi articolare le parole e la scrittura nelle loro molteplici ramificazioni, nel loro darsi germinale, aurorale in un annuncio o in un testo di cui, una volta affidato ad altri, non appartiene più agli autori, ma è come seme gettato, generosamente, prodigalmente a tutti, che germinerà a suo tempo secondo i terreni in diversi alberi, fiori e frutti.

Contemplare è allora, in modo eminente, luogo di un riceversi e consegnarsi, accogliere ed essere accolti e consegnati alla vita. La contemplazione ci consegna all’alterità dentro e fuori di noi. Il verbo tràdere, da cui il termine ‘tradizione’, ha pure il significato di consegnare nelle mani di qualcuno, e nei vangeli è riferito alla passione di Gesù:

«Mentre si trovavano insieme in Galilea, Gesù disse loro: «Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini (Mt 17,22) e Paolo nella lettera ai Romani scrive: «Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? (Rm 8,32). Non si potrà allora anche dire: “Contemplare voce del verbo amare”.

Per questo la contemplazione ci dà prima di ogni parola la consegna del silenzio. Ma essa ci consegna ad un tacere palpitante, cordiale, poiché solo da un “battito di cuore” sgorgheranno le parole per vivere, siano esse parole evangeliche o quelle accese nel crogiuolo dei mistici o dei poeti.

Parole poi come le acque di fiumi carsici che, ascoltando in silenzio le narrazioni del sottosuolo e mescolandosi con esse siano capaci, custodendone la memoria, di attraversare i sotterranei di storie dimenticate, occultate e fatte tacere dentro abissi di insensatezza e di empietà per riaccendere di nuovo scintille di “intermittente” speranza.

Massimo Cacciari, ricorrendo il centenario della nascita del poeta Andrea Zanzotto, in conclusione al convegno internazionale sulla sua figura, ha ricordato che «il poeta deve attraversare tutto l’inferno della storia» e la poesia «deve andare oltre il tempo storico, attraversando tutto il dolore e poi cercando di salire… La parola poetica attraversa il dolore del proprio tempo e la tragedia che è la storia per far cenno a un possibile che non è. Per vedere nella realtà presente scintille, faville di una disperata speranza. Questo secondo me – continua Cacciari – è Zanzotto nel suo linguaggio, nella sua forma e nella sua sintassi, in questo metro che è ‘tutto un batticuore’ come diceva Montale. Un cuore che batte per tentare di trovare la parola che faccia cenno a un possibile oltre il tempo storico presente».

Così nella contemplazione, come nella poesia, affiora la necessità di reperire un senso ulteriore all’insensatezza, un ripristinare la comunicazione e riaprire il coraggio di muovere la libertà all’azione.

Mi impressiona sempre leggere di nuovo un testo di Gregorio Nazianzeno [Qui] un padre della chiesa del IV secolo, autore di poesie di un realismo cristiano umanissimo. Al finire della sua vita scrive: “Fu soltanto tirannia? Sono venuto al mondo. Perché sono sconvolto dai flutti tempestosi della vita? Dirò una parola audace; sì, audace, ma la dirò. Se non fossi tuo, o mio Cristo, quale ingiustizia!” (Poemi, II, 1, 74).

Un parroco trova la fonte di comprensione della sua vita e spiritualità e del suo ministero nell’appartenenza e nella dedicazione alla propria chiesa locale e alla comunità parrocchiale. Egli nel contemplare e consegnare il vangelo alle persone lo contempla e lo riceve a sua volta trasfigurato attraverso l’umanità e la vita della gente con cui vive.

Se gli è chiesto di confermare e coltivare il senso della fede dei fratelli e delle sorelle, a sua volta viene confermato e arricchito dal loro credere, amare e sperare. Così la forma della sua vita e del suo servizio al vangelo si configurerà come contemplazione ospitale, ospitante e ospitata. È questa santità ospitale, del resto, lo stile della vita e del mistero di Gesù secondo una teologia nascente oggi. Essa significa l’apertura del Nazareno a chiunque, e la sua disposizione ad apprendere relazionandosi a chiunque.

Il detto «contemplata aliis tradere», negli anni, l’ho semplificato e tradotto così: “con cuore di parroco, un cuore di monaco”, per dire anche la carità pastorale e la sua sorgente: più si è uno con il vangelo e si fa convergere l’interiorità in quel punto focale, più l’esistenza si apre alla relazione e all’incontro ospitale con gli altri: come le semirette di un angolo che da concavo diventa convesso e viceversa, dentro e fuori lo spazio, a circoscrivere, a raccogliere oppure a sparpagliare, a dilatarsi ad allargarsi. Il che significa – in altri termini – l’interiorità e il vangelo, spalla a spalla tra-e-con la gente.

Clemente Rebora [Qui] ci offre l’immagine poetica di un pioppo “severo”. L’etimologia latina “populus” significa mettere insieme, riunire. Anche sant’Isidoro Agricola [Qui] fa derivare il nome del pioppo da populus, perché quando cresce o viene tagliato pullula di numerosi germogli e rami dal ceppo e dal tronco come fosse un popolo radunato.

Essi sono piantati sui confini a filari o lungo le vie a rappresentare così una soglia, che unisce distinguendo, per evitare contese tra vicini, ma molto di più per incoraggiare la comunicazione, l’amicizia e far nascere forse ospitalità. L’aggettivo ‘severo’ invece sottolinea l’aspetto grave, aspro, solido, resistente, ma anche solenne, reverenziale che ispira dunque rispetto e stima.

A me è sembrato che Rebora intendesse significare nel pioppo la contemplazione nell’atto di ispirare e accompagnare di continuo il movimento e l’agire della libertà umana verso il suo compimento che è l’amore.

Così è pure l’inabissarsi della nostra esistenza là dove è più vera grazie alla contemplazione; per uscir fuori poi e innalzarsi, oltre l’abisso interiore in un altro infinito abisso, non senz’ansia però, a generare molteplici vite come cime raccolte, vibrando e narrandosi nel vento con tutte le loro foglie, là dove neppure lo spasmo del dolore e le doglie delle parole che vengono alla luce le potranno sparpagliare lontano e disperdere, avvinte come sono al tronco del mistero, esse restano protese e unite per salire un poco più in alto.

“Vibra nel vento con tutte le sue foglie
il pioppo severo:
spasima l’anima in tutte le sue doglie
nell’ansia del pensiero:
dal tronco in rami per fronde si esprime
tutte al ciel tese con raccolte cime:
fermo rimane il tronco del mistero,
e il tronco s’inabissa ov’è più vero.”

(7 ottobre 1956, in Le Poesie, Milano 1994, 297)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Diario in pubblico: Amitiés

 

L’impulso primario è certamente quello di riferire sulla conferenza dantesca intitolata “Narrare l’indicibile. Vedere l’invisibile. Dante e la funzione della memoria “, che ho tenuto venerdì 15 ottobre 2021 presso la sala Agnelli della Biblioteca Ariostea di Ferrara.
Il luogo era totalmente fruibile e m’immaginavo una presenza media. Lo stupore è stato sommo quando la sala si è praticamente riempita e si contavano 72 ascoltatori.

E che ascoltatori! I ‘giovani’ allievi ora importanti studiosi della scuola fiorentina di Mario Vayra a Claudio Cazzola, l’affermatissimo critico Stefano Prandi dell’Università di Lugano, i miei ‘ragionieri’ da Fiorenzo Baratelli a Roberto Cassoli a Marcello Folletti che mi presentava. E ancora il ‘primo amico’ Ranieri Varese, Luisella Genta che mi aprì le porte della mente e della casa a Lipari, Cristina Felloni, amica di una vita e compagna fedele nella mia esperienza nell’Associazione Amici dei Musei e tanti altri amici, tra cui commovente la presenza di Alessandra Chiappini ed Enrico Grandi che nonostante un importantissimo avvenimento non hanno rinunciato a presenziare almeno ad una parte della conferenza. E con loro tanti altri amici incuriositi dall’argomento. Una prova e conferma dei valori dell’amicizia? Certamente sì!

Sono naturalmente orgoglioso del commento che Marco Ariani mi ha spedito dopo la lettura della mia conferenza e che qui riporto integralmente non perché sia ‘laudabile’ ma per il coinvolgimento intellettuale che ne deriva:
“Caro Gianni, mi hai veramente commosso per il mysterium simplicitatis con il quale hai mediato ad un pubblico certo non esperto una materia così complicata. Davvero efficace, emozionante, perfettamente adeguata all’occasione e precisa scientificamente nella sostanza. Belle le suggestioni fotografiche e la rievocazione di tante auctoritates dimenticate (l’immenso Curtius!). Lettura limpidissima di quei canti, profonda pur senza vezzi di elucubrazioni accademiche. Capisco davvero il grande successo. Grazie per le lodi, anche se un po’ esagerate. Ribadisco che la retorica medievale non faceva tutte queste differenze tra similitudini e metafore (che si fanno oggi per un’eredità sostanzialmente romantica), perché si sapeva che la metafora altro non è che una similitudine raccourci e, viceversa, la similitudine altro non è che una metafora in extenso. Complimenti. Un abbraccio, Marco.”.

Ma la complessità della parola ‘amicizia’ diventa palpabile allorché per cognizione di causa continuo a consultare i programmi televisivi dove la parola ‘amici’ assume le più diverse (e stravaganti) interpretazioni.
Dai vecchi compagni di un mondo musicale degli anni’80 del secolo scorso alla seriosa compresenza in tante reti di amici che ad una più attenta disamina non sembra lo siano del tutto.

Si vedano i programmi che analizzano la sconfitta nelle amministrative dei rappresentanti del centro destra: Salvini, Meloni, Berlusconi e le loro dichiarazioni a proposito dei fatti che hanno portato ai gravissimi incidenti dell’assalto alla sede nazionale della CGL. Alla cautela con cui appoggiano o negano la possibilità di sciogliere un associazionismo di marca prettamente ‘fascista’.

Al proposito va pienamente condivisa l’analisi di Fiorenzo Baratelli di cui riporto parte del suo ottimo commento: “La destra ha subito una disfatta, ma il suo popolo non è scomparso. L’astensione ha colpito soprattutto la sua parte. La confusione è grande tra i suoi leader, ma le elezioni politiche sono cosa ben diversa da elezioni parziali amministrative, per altro svoltesi in un contesto particolare. 3) L’astensione è un problema drammatico, anche se non è una sorpresa. Sono decenni che la talpa della crisi della rappresentanza scava: rischiamo una democrazia senza popolo.”.
Nelle nostre quotidiane telefonate, Baratelli tenta, non sempre raggiungendo lo scopo, di leggermi le vicende politiche in chiave pragmatica. Anche questo è un segno di amicizia e di responsabilità, ma a volte il mio pensiero sfugge alla comprensione della prassi.

Altri amici in quella giornata commemoravano all’Istituto di cultura parigino Giorgio Bassani. Ero dispiaciuto di non poter essere con loro ma la ricompensa sarà quella di poter parlare del grande volume sulle poesie di Bassani il cui commento è affidato alla carissima amica Anna Dolfi. La possibilità che mi è stata data di una recensione al volume e la conduzione della presentazione ferrarese al Centro studi bassaniani mi rendono orgoglioso di questo incarico.

Allora. Viva l’amicizia, viva la cultura e le sue forme. Naturalmente pensando che una grandissima prova di amicizia è quella di vaccinarci. Tutti e senza se e senza ma.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

 

Uscire dalla dualità giusto-sbagliato:
lo scontro sul green pass e la lezione della complessità.

Ho riflettuto sull’assegnazione dei premi Nobel per la Fisica in associazione al tema della complessità. La commissione che assegna il Nobel, oltre a riconoscere la qualità scientifica, usa  questo premio anche per dare al mondo un’indicazione di ciò che in quel momento occorre all’umanità per lo sviluppo della cultura e della civiltà. Quest’anno, in particolare, ha indicato che occorre osservare la realtà con uno sguardo improntato alla complessità e non alla specializzazione, per non soccombere al rapporto di forze che spinge le nazioni a competere anziché a collaborare per la soluzione dei problemi che coinvolgono l’intero globo terrestre e tutta l’umanità.

I tre premi per la fisica, pur nella diversità delle loro ricerche, hanno in comune la consapevolezza del fatto che i problemi complessi si risolvono se si collabora per giungere alla loro soluzione. E’ un messaggio politicamente importante: l’umanità si salva soltanto se riesce ad individuare un obiettivo comune e non perde tempo, forze ed energie in battaglie localistiche e settoriali che hanno come finalità l’imporre la propria ragione.

Come afferma Giorgio Parisi nell’intervista pubblicata da La Stampa: “Occorre accettare che la soluzione di problemi complessi può richiedere approcci non semplici e azioni collettive e che l’umanità è più di un gruppo di individui dove ognuno fa per sé”.

Colgo l’occasione di sottolineare il messaggio del premio Nobel per offrire una strada che consenta agli schieramenti favorevoli e contrari al vaccino di uscire dalla dualità del giusto-sbagliato, del “ho ragione io”, di uscire da questa situazione divisiva e di incamminarsi su una strada che porti ad un’auspicabile soluzione. Perché la divisione dà al potere spazio per esistere ed esercitare la propria potenza. Il potere non è una persona o un gruppo, ma un modo di pensare ed è sempre ottuso perché anziché badare al bene comune, mira solo a perpetuare sé stesso e a riempire il vuoto di senso (che è la sua essenza) con l’esercizio del dominio e il possesso.

L’attuale situazione di spaccatura relativa alle posizioni sul vaccino e il green pass ha origine nel passato e riguarda principalmente tre ambiti: la qualità e il fine ultimo della ricerca di base, la dimensione economica-produttiva e la dimensione culturale-politica, dove l’informazione dovrebbe essere funzionale alla democrazia.

  • Per quanto riguarda la ricerca, vediamo due posizioni contrastanti: da una parte c’è la delega incondizionata alla scienza, dall’altra il presupposto stesso sulle finalità della ricerca. La scienza, proprio perché nasce dall’uomo, è un valore, però non deve diventare un assoluto; infatti, non basta a descrivere la complessità dell’umanità perché riguarda solo ciò che colpisce i sensi e l’umanità è molto più di questo. Il suo opposto, dall’altra parte, è l’antidoto all’onnipotenza della scienza che, se esasperato, toglie l’uso della ragione e riporta alla superstizione.
  • L’industria, il settore produttivo in genere, ha smarrito la finalità come espressione della creatività umana per il raggiungimento del benessere come obiettivo comune e ha privilegiato la scelta del profitto individuale, che è sì un elemento intrinseco al funzionamento dell’industria, ma posto come unica finalità ha portato al consumismo che è l’origine dello squilibrio in cui ci troviamo. Un esempio ne è l’industria farmaceutica.
  • La terza dimensione è la conquista della libertà da tutte le necessità (fame, malattie e potere), e si esprime nella dimensione della democrazia, ma quest’ultima è un processo graduale che deve sempre mediare tra il personale e il comune. Per realizzarsi necessita di strumenti di informazione che sappiano fornire conoscenze complesse e non specialistiche. Occorre altresì un’informazione che rispetti i tempi della comprensione: ora l’informazione viene pubblicata prima di essere verificata, prima di essere compresa nel suo valore, nelle sue implicazioni, quindi, invece di essere funzionale alla formazione della società, la disgrega.

E’ per questi motivi che la spaccatura della società oggi ha raggiunto il suo culmine nella contrapposizione tra favorevoli e contrari al vaccino e al green pass, perché individuando come elemento di scontro il vaccino, che è l’epilogo di questa situazione, pretendono di risolvere problemi dalla storia ampia e complessa e che con il vaccino hanno a che vedere solo marginalmente, come i monopoli delle case farmaceutiche, il dominio della finanza e la supremazia delle nazioni.

Il richiamo dei premi Nobel alla visione della complessità richiede una capacità di distinguere la scala su cui nasce il problema e quella su cui si sviluppa il dibattito. Non solo la scala deve essere la stessa (universale, mondiale, locale…), non si devono confondere neppure i piani: non ha senso rispondere a un problema culturale con una visione morale, scientifica o politica.
E’ anche un errore di prospettiva: non si dovrebbero fare denunce che non lascino una via d’uscita o che costringano all’emarginazione, all’incomunicabilità tra parti della società, perché questo è il preludio ad una guerra. La forza dell’umanità è la relazione, l’avere una prospettiva comune: dove c’è emarginazione c’è la sconfitta dell’umanità.

Proprio perché entrambe le posizioni sono legittime, ma parziali, ed hanno la propria ragione d’essere, è indispensabile che trovino come obiettivo comune la soluzione ai problemi che hanno creato la crisi. L’esercizio della propria personale libertà, ciò che ci consente di non essere pedine in mano altrui e non mettersi in una situazione di impotenza da cui si esce soltanto con la contrapposizione o addirittura la violenza, è il trovare una soluzione valida per tutti e ciò può essere fatto soltanto ascoltando le ragioni degli altri e usando la creatività.

Parole a capo
Natalia Bondarenko: Alcune poesie inedite

La poesia è come l’acqua nelle profondità della terra. Il poeta è simile a un rabdomante, trova l’acqua anche nei luoghi più aridi e la fa zampillare.
(Alberto Moravia)

Uscire dal concetto di rifugio,
di ricavo,
di qualcosa che ti protegga,
di una salvezza con la “S” maiuscola,
insomma, di una casa con la “C” minuscola…

Uscire senza sdoganare,
convivere con l’abitudine di arrivare a cena in pigiama
spersonalizzarsi per non infrangere il mutismo,

[passare dalla ragione al torto è semplice,
basta parlare]
incontrarsi al lavabo e discutere sulla pentola da buttare via…
è che ci sia, questo rischio!
Il tuo aiutarmi è un inciampare permanente,
da fumetto, disegnato con il detersivo per i piatti…

Risuona la Buonanotte in anticipo di ore
come l’urlo del cammello nel deserto,
o di un naufrago in mare aperto,
o di un chissà cosa in chissà dove
Così, per tornare al discorso con la “D” maiuscola,
confondiamo le camere da letto con le celle,
i corridoi con le autostrade,  le scale con le vie di fuga,
confondiamo  i toni accesi del perdono con la resa…

[di queste sviste ne abbiamo fatto un’arte].

*

Poetare quando nessuno te lo chiede,
scrivere a crudo, leggere a cotto –
la cucina delle circostanze te lo impone
ma a voce bassa,

[si sente appena] perciò
devo spulire l’orecchio, smortare l’occhio,
snervare le dita e smollare la lingua
per dire qualcosa che non sia una congiura,
insomma,
che mi faccia fare una bella figura, e così
provo scontare la notte e sfinire il giorno,
perché di giorno
non ti viene nient’altro che poetare,
poetare, poetare,
e urlare

[in sordina]
e urlare.

*

Come si chiama quella cosa
quando tu vivi da qualche parte del mondo
che, probabilmente, non ti appartiene,
quando il mare si trova
a soli venti chilometri di distanza,
il vento viene prevalentemente da nordest,
la pioggia da sudovest
e il sole ha il destino fragile
mentre dalla tua finestra vedi passare
soltanto
anni e anni d’incomprensioni.

Come si chiama quel pensiero perdurante,
quella teoria di una nostalgia più o meno sana
di un paese dove crescono molti cavoli,
dove le bufere di neve ti tolgono la vista,
e in chiesa si va solo per distribuire le scuse,
perché la vita da quelli parti si gusta con gli occhi
e la poesia si mangia al dente
dentro un monolocale, quattro per quattro,
dove si sta comodi solo se si sta abbracciati.

La perplessità sta nel non riconoscere più le cose,
dall’essere plagiati da un dettaglio
che non è affatto un dettaglio
mentre qualcosa di maligno
si spiffera dalle finestre chiuse
e mette a dura prova il tuo midollo osseo
ormai modificato.

*

Torno/fuggo/resto/sbotto,
la passione urla dentro e sussurra fuori,
prende la forma del sale sciolto,
di un semifreddo, di uno yogurt scaduto.

Evito/cedo/storno/muoio o
fingo di morire, la differenza è minima,
restano i verbi obsoleti, i capelli orrendi
e la domenica a letto con i pensieri corti.

Perciò, inizio da capo: torno/resto/
amo/evito/fuggo/storno/ di nuovo amo
/muoio/scrivo/scrivo/scrivo/scrivo/scrivo/scrivo/scrivo/scrivo/scrivo/scrivo…

lo faccio di getto, facendo tanti errori,
come si fa quando si ama.

Natalia Bondarenko, fotografa e scrittrice. Nata nel 1961 a Kiev (ex Unione Sovietica) in una famiglia d’artisti. Nel 1990 si trasferisce in Italia. Attualmente vive e lavora a Udine.
Scrive da sempre nella sua lingua madre, in particolare ha scritto sceneggiature per spettacoli universitari, poesie, racconti e romanzi. Ha tradotto in italiano opere poetiche e narrative di autori russi e ucraini. Direttamente in lingua italiana scrive solo dal 2008. È vincitrice del Premio letterario  “Scrivere altrove”, 2013.
Ha pubblicato “Profanerie private”, (Guarnerio Editore, Udine, 2010), “Terra altrui” (Samuele Editore, Pordenone, 2012), poemetto “Confidenze confidenziali” (Rayuela Edizioni, Milano, 2013), antologia “Vietato aggrapparsi ai sogni!” (Guarnerio Editore, 2014) e “L’Esilio” “Die Verbannung”  (plaquette italiano-tedesco pubblicato da Poesia&friends, 2017).
Dal 2015 fa parte della redazione della rivista VERSANTE RIPIDO dove cura la rubrica “L’ironia è una cosa seria”.
È curatrice di Poesia&friends, un evento friulano (più o meno mensile) di letteratura, arte, fotografia e musica.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

L’Ultimo Rosso, la festa della poesia a Ferrara

 

Alla Rotonda Foschini due poeti leggono a chi passa le loro poesie e quelle degli autori da loro amati. Hanno un nastrino rosso legato al polso. Un nastro rosso come filo conduttore della poesia popolare e libera che venerdì scorso, 15 ottobre, ha collegato tra loro altri punti della città.

In Piazzetta Savonarola oltre al nastrino rosso chi legge porta anche un cappello dello stesso colore; accanto alla Biblioteca Bassani e in Piazza Trento Trieste si può vedere una sciarpa rossa, una borsetta rossa in Via Savonarola.

Qui, sopra la postazione dei due poeti, che hanno aperto il loro leggio e avviato un piccolo amplificatore della voce si può vedere una signora affacciata che sorride, si gira verso l’interno della casa per dire al figlio di venire a sentire. Poi guarda in giù e dice che è orgogliosa di avere i poeti sotto casa.

Ha visto subito crescere la propria pianta questo seme lasciato da Ultimo Rosso [Qui], il primo Festival di poesia itinerante organizzato da ferraraitalia in questo 2021 del risveglio dal sonno pandemico.

Per una poesia libera di muoversi nella città, che interrompe il quotidiano e spiazza i passanti e li chiama ad ascoltare e a interagire. Una poesia senza palchi e senza etichette, che si propone come lingua intima e universale.

Così è stata concepita e proposta dal giornale: “Ultimo Rosso è volutamente eccentrico, può richiamare la passione, la rivoluzione, la distanza dal convenzionale, la sorpresa, il mattone rosso di Ferrara”. E così è diventata evento politico.

Altri semi sono stati lasciati in Piazzetta Carbone, all’ingresso del Parco Massari, in Via Krasnodar, davanti alle librerie del centro e così via: altre coppie di poeti tra le 18 e le 19 del fresco crepuscolo di ottobre hanno letto un testo iniziale comune a tutti, un testo di Wislawa Szymborska [Qui] che nei versi finali pone la domanda:

“La poesia
ma cos’è mai la poesia?
Più d’una risposta incerta
è stata già data in proposito.
Ma io non lo so,
non lo so e mi aggrappo a questo
come alla salvezza di un corrimano.”

Al corrimano dei pensieri e delle emozioni pensate si sono aggrappati i poeti nelle strade e nelle piazze, leggendo i testi amati di autori antichi e nuovi, famosi e meno famosi. Da Saffo a Giorgio Caproni, da Eugenio Montale a Paolo Agrati, da Alda Merini a Massimo Scrignoli, solo per citarne alcuni.

I poeti hanno poi letto i propri testi, testi d’amore e di bellezza, di lettura della propria interiorità nel rapporto col mondo, di impegno sociale. La poesia non si sottrare a leggere il mondo, anzi è un tentativo di decifrarne i gangli vitali; la poesia arriva nella stanza dei bottoni della lingua e svela gli abusi della comunicazione quotidiana sulla forma e sul senso delle parole.

La poesia può ripristinare la mappa dei valori che fondano la polis, la comunità di cui siamo parte. E’ poesia civile. Forse questo è un primo tentativo di risposta alla domanda di Szymborska, una risposta di metodo su cosa fa la poesia, su quali traguardi può toccare. La poesia fa sintesi, la sintesi sempre provvisoria sulla vita pensata che abbiamo tra le mani.

Questo hanno fatto gli adolescenti, sabato mattina. Dalle 10 alle 12 si è svolto il reading di Ultimo Rosso nel giardino della Biblioteca Ariostea, con la partecipazione dei 20 poeti, ferraresi e non, intervenuti venerdì e con altri che si sono aggiunti ad ascoltare le poesie e a leggerne liberamente di proprie.

Tra questi un gruppo numeroso di studenti dell’Istituto Einaudi, che hanno letto i loro testi ispirati a Possibilità della Szymborska; ognuno di loro ha scelto di mettere in lista come oggetti del verbo Preferisco i propri gusti, le passioni, la leggerezza dei sedici anni accanto alle cicatrici interiori che qualcuno di loro porta già come uno stigma.

La leggerezza: “Preferisco stare con gli amici”, oppure “Preferisco divertirmi” e “Preferisco il colore blu”. Lo stigma: “Preferisco soffrire piuttosto che essere vuoto”, “Preferisco che la parola cancro indichi solo un segno zodiacale”.

Quando è così la poesia vola. Vola in basso a sondare le profondità, vola intorno in ricognizione sul mosaico della realtà e poi prende slancio e va in alto, dove tutti possono vedere e vedersi.

Si è percepito con chiarezza il senso di condivisione, proprio nella formula libera data alla lettura: un avvicendarsi di voci poetiche varie e diverse, in un flusso libero e liberatorio che ha permesso di conoscersi e di confrontarsi. Di mettere in comune. Di comunicare.

Ancora un tentativo di risposta che afferisce alla funzione della poesia – la poesia unisce – non a cosa essa esattamente sia. Certo, però, che se consideriamo la coesione a cui ha portato noi di Ultimo Rosso e la voglia che ci ha lasciato di continuare con nuove edizioni del festival, di leggerla per tutti nella città, di spargere denunce, domande e dubbi, di seminare scintille di sincerità e di bellezza, vuole dire che ci stiamo avvicinando a perimetrarne il senso.

La bella poesia che Cristiano Mazzoni ha composto dopo le due giornate del Festival ne esprime così il valore e il significato:

“Poesia sulle strade,
sui marciapiedi sgarrupati,
di fronte al grande
accusatore,
contro i muri di mattoni
granata.
Parole sospinte dal vento,
in un angolo del convento,
sospiri e groppi in gola,
acqua asciutta ai lati degli
occhi.
Poetesse innamorate
dell’amore,
i ragazzi ci urlano in faccia il
loro disagio,
poesia civile, voglia di rivolta,
il rosso e il nero del
ferroviere.
Con voce di tuono,
con un sussurro d’angoscia
la rivoluzione non si perde e
non si vince,
la si combatte.
Forse un seme è stato
gettato,
forse un soffio è cominciato,
la città delle cento
meraviglie
racconta i sogni da fogli
bagnati.
Ci sarà un perché,
ci sarà un domani,
ci sarà un futuro
nel nostro passato.”

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

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Il 27 e 28 ottobre si decide l’estradizione di Assange negli Stati Uniti

di Dale Zaccaria (Peacelink)

Processo d’ appello per Julian Assange questo 27 e 28 ottobre davanti all’Alta Corte Britannica. Gli Stati Uniti ne chiedono l’estradizione per processarlo con capi di imputazione che vanno dalla rivelazione di segreti militari allo spionaggio.
Il giornalista, fondatore di Wikileaksrischia fino a 175 anni di carcere. Un processo che deciderà le sorti di Assange, ma che al contempo metterà il bavaglio al giornalismo libero e d’inchiesta.

Un Assange provato e invecchiato da questi anni di solitudine e chiusura forzata e che attualmente si trova rinchiuso nel carcere più duro del Regno Unito, la prigione di Belmarsh. Stella Morris, sua compagna e avvocato, ha confermato in una recentissima intervista a Roberto Saviano sul Corriere della Sera le intenzioni dell’intelligence americana di uccidere Assange.

I giochi di potere e le campagne di delegittimazione

La Morris sottolinea anche la campagna di demonizzazione messa in atto verso Assange e Wikileaks: «Nel corso dell’ultimo decennio ce ne sono state molte di queste campagne di delegittimazione». Parliamo delle accuse di stupro in Svezia, sino alla campagna “utile idiota del Cremlino” per le presunte vicinanze a Putin. Assange paga il duro prezzo di aver rivelato e resi pubblici documenti che compromettono la posizione degli Stati Uniti come nella vicenda afghana. Assange fa emergere e porta all’opinione pubblica i giochi di potere, il dietro le quinte, le occulte decisioni e volontà, il great game nello scacchiere internazionale del Potere. Afferma Assange nel 2011: “L’obiettivo è usare l’Afghanistan per ripulire il denaro, facendolo uscire dalle basi fiscali degli Stati Uniti e dell’Europa attraverso l’Afghistan e farlo arrivare nelle mani di un’elite transnazionale di sicurezza. L’obiettivo è una guerra senza fine, non una guerra di successo”.

Sempre Stella Morris fa emergere come il processo ad Assange sia ingiusto, come fu nel caso delle accuse della presunta violenza a due ragazze svedesi«È stato un vergognoso abuso del procedimento giudiziario. Julian non è mai stato rinviato giudizio, e i magistrati svedesi alla fine hanno chiuso il procedimento una volta che era servito allo scopo: attaccare la sua reputazione, negargli la possibilità di difendersi, mantenerlo privato della sua libertà per anni fino a quando gli Stati Uniti hanno desecretato il loro atto di incriminazione. Le Nazioni Unite hanno già stabilito, nel 2015, che il Regno Unito e la Svezia hanno agito in violazione delle leggi internazionali e che Julian era detenuto arbitrariamente nell’ambasciata».

Lo stesso Assange sottolinea come «quello che viene fatto a me non riguarda davvero la mia persona, ma mira piuttosto a creare dei precedenti che servano a produrre una stampa servile e un’opinione pubblica ignorante e senza potere».

Le iniziativeLibertà per Assange

Molte le iniziative in questo momento per chiedere la liberazione di Assange, giornalisti, movimenti pacifisti e sociali come Peacelink. Libere e liberi cittadini si sono uniti per sostenere il giornalista australiano.

La conferenza stampa del 26 ottobre

Il 26 ottobre, alle ore 16, ci sarà una conferenza stampa a Montecitorio alla viglia dell’udienza d’appello. Promotori dell’iniziativa Italiani per Assange, Statunitensi per la Pace e la Giustizia – Rome, DiEM25 in Italy. Sarà presente come moderatore Riccardo Iacona, giornalista Rai e autore di un recente servizio su Assange “Processo al giornalismo”.

Il comunicato stampa:

Il 27 e il 28 ottobre, l’Alta Corte di Londra deciderà sull’estradizione o meno di Julian Assange, attualmente rinchiuso nella prigione di Belmarsh, Londra.

Se la richiesta d’estradizione avanzata dagli Stati Uniti verrà accolta dall’Alta Corte, Julian Assange potrebbe essere rispedito negli USA, sottoposto a processo sotto l’Espionage Act del 1917, e incarcerato per 175 anni. La colpa? Aver pubblicato documenti trafugati che attestano i crimini di guerra commessi dai militari USA in Afghanistan e in Iraq. Eppure Assange non è un cittadino statunitense. E’ un cittadina australiano che ha sempre operato in Europa.

Ma il messaggio che vuole mandare il governo statunitense è chiaro: “Non importa chi sei, non importa di che nazionalità sei, non importa dove ti trovi nel mondo, se osi svelare i crimini di guerra commessi dai militari USA, noi verremo a prenderti e a portarti in una nostra galera per il resto della tua vita.” L’eventuale estradizione di Julian Assange avrebbe, dunque, un effetto intimidatorio su tutti i giornalisti investigativi del mondo. Ma questa è probabilmente la sua finalità.

Naturalmente, non è prevista nessuna indagine, da parte del governo USA, su i crimini di guerra denunciati da Assange e, neanche a dirlo, non è stato imputato nessuno dei militari che li avrebbero commessi. Solo chi li ha denunciati verrà sottoposto a processo.

26 ottobre, ore 18.00 Conferenza stampa alla Camera dei Deputati

Luogo: Sala Stampa della Camera dei Deputati, Roma  (messa a disposizione dei promotori dell’evento, attraverso il gruppo parlamentare L’Alternativa C’è.
Il gruppo L’Alternativa C’è è costituito dagli ex-M5S contrari al governo Draghi, confluiti poi nel gruppo misto.
Il 7 aprile 2021, il deputato Pino Cabras e il gruppo L’Alternativa C’è avevano presentato una mozione alla Camera che impegna il Governo a “scongiurare l’estradizione di Assange”; ma la mozione è rimasta bloccata nella relativa Commissione. (1.)

Promotori della Conferenza stampa:
Italiani per Assange (2.)
Statunitensi per la Pace e la Giustizia – Rome (3.)
DiEM25 in Italy (4.)

Moderatore della Conferenza Stampa:
Riccardo Iacona giornalista della RAI e autore di un recente servizio su Assange su RaiPlay (5.)

Relatori presenti nella Sala Stampa (sono ammessi 2 relatori in presenza oltre al Moderatore):
il deputato Pino Cabras,
l’ex magistrato Antonio Ingroia.

Relatori in remoto:
il celebre whistleblower dei “Pentagon Papers” Daniel Ellsberg (dalla California, USA)
Il fratello di Julian Assange, Gabriel Shipton (dall’Australia)
l’accademica (Università di Reading) e attivista per i diritti umani Deepa Driver (dall’UK)
la giornalista e direttrice di Reporters Without Borders a Londra, Rebecca Vincent (dall’UK)
il giornalista (theAnalysis.news) e documentarista Paul Jay (dagli USA)
la giornalista Stefania Maurizi, autrice del libro su Assange “Il Potere Segreto” (da Roma)

Contributi videoregistrati o scritti da parte di:
l’economista, attivista e già Ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis (video)
l’artista italiano Davide Dormino, scultore di Anything to Say? (6.) (video)
l’accademico (Università di Arizona) e attivista politico Noam Chomsky (dichiarazione scritta)

Articoli per contestualizzare l’evento:
Se l’UK dirà sì all’estradizione di Assange negli Stati Uniti (7.)
Le 10 rivelazioni di Assange che hanno cambiato il modo di vedere il potere (8.)
La debacle in Afghanistan mostra che avremmo dovuto ascoltare, non criminalizzare, Assange (9.)
La verità che illumina la giustizia (10.)
Giornalisti per Julian Assange (Speak up for Assange) (11.)
Sanzionare gli USA e l’UK per le loro violazioni dei diritti umani di Julian Assange (12.)

Note:
(1.) http://dati.camera.it/ocd/aic.rdf/aic1_00456_18
(2.) https://www.facebook.com/groups/306819506870113/
(3.) http://www.peaceandjustice.it
(4.) https://internal.diem25.org/en/groups/120
(5.) https://www.raiplay.it/programmi/presadiretta?wt_mc=2.social.tw.rai3_presadiretta.&wt
(6.) https://en.wikipedia.org/wiki/Anything_to_Say%3F
(7.) https://www.valigiablu.it/uk-estradizione-usa-assange/
(8.) https://www.ambienteweb.org/2019/04/14/le-10-rivelazioni-di-assange-che-hanno-cambiato-il-modo-di-vedere-il-potere/
(9.) https://www.peacelink.it/pace/a/48694.html
(10.) https://italianiperassange.medium.com/la-verit%C3%A0-che-illumina-la-giustizia-9f43acde5936
(11.) https://www.peacelink.it/mediawatch/a/48746.html
(12.)  https://www.peacelink.it/pace/a/48800.html

Questo articolo è già apparso il 18.10.21 su wikileaks.it