Skip to main content

VITE DI CARTA /
Le ferite : 14 racconti per i 50 anni di Medici Senza Frontiere

 

Compie cinquant’anni il prossimo 22 dicembre Medici Senza Frontiere [Qui], l’organizzazione internazionale fondata a Parigi nel 1971, che porta soccorso sanitario e assistenza medica in tutte le zone del mondo colpite da guerre, epidemie, disastri ambientali, dove non sia garantito il diritto alla cura.

le ferite medici senza frontiereHo acquistato una copia della raccolta Le ferite che è uscita in marzo per Einaudi: quattordici grandi racconti, ceduti gratuitamente dagli autori per raccogliere fondi a favore di MSF; alla raccolta partecipa l’editore, devolvendo l’utile di questo progetto, così come partecipa ogni lettore che compri il libro.

Mi sento così l’ultimo anello di una catena umana sensibile al mondo ferito.
Leggo. E’ un’attività solo della mente, molto lontana dall’agire verso gli altri portando medicine e soccorso.

Eppure ha un valore, lo dice bene la dichiarazione con cui MSF ha risposto alla consegna del Premio Nobel per la pace ottenuto nel 1999 “in riconoscimento del lavoro umanitario pionieristico”.

Dice così: “Non siamo sicuri che le parole possano salvare vite, ma sappiamo con certezza che il silenzio uccide”.

Leggo i racconti in un ordine casuale, ora attirata dal titolo, ora dall’autore che ha scritto e poi donato una storia. Sono racconti di varia lunghezza, in cui il tema della ferita viene declinato in modi piuttosto diversi dagli autori: Marco Balzano, Diego De Silva, Donatella Di Pietrantonio, Marcello Fois, Helena Janeczek, Jhumpa Lahiri, Antonella Lattanzi, Melania G. Mazzucco, Rossella Milone, Marco Missiroli, Evelina Santangelo, Domenico Starnone, Sandro Veronesi, Hamid Ziarati.

Ci si ferisce tra singoli individui oppure tra popoli, si ricevono ferite nell’infanzia oppure da adulti, dentro la famiglia di origine oppure dal partner con cui si è vissuto a lungo. È una stanza di ospedale il luogo angusto in cui si consuma la distanza tra i mondi di appartenenza dei malati, oppure è il Mediterraneo, lo spazio della migrazione sofferta e senza diritti. E’ una donna a essere lasciata senza acqua mentre sta male tra le mura di casa.

Leggo Senza nome dello scrittore iraniano Hamid Ziarati [Qui] e mi trovo in Kurdistan. A non avere nome è una ragazzina, che la voce narrante ha visto in un campo profughi in Turchia e ora la descrive. I suoi capelli sono lunghi ma non lunghissimi, sono lunghi perché trascurati, nessuno li ha tagliati da anni. Gli occhi sono profondi e belli, da mediorientale e hanno il colore del miele.

Il narratore non guarda più gli occhi dei profughi che incontra: dentro i campi ha trovato solo tristezza e paura in quelli dei rifugiati e odio nello sguardo di chi col bastone in mano li colpisce e li tortura.

Naso e bocca sono da ragazzina, cioè non ancora definiti, e anche la bocca è in divenire, con i denti tutti bianchi. Alcuni denti sono caduti, però. Ha perso da poco i denti di latte? Ha ricevuto “qualche bastonata da quelli del Daesh”?

Neppure il narratore ha un nome: lui e la ragazzina hanno vissuto tra spostamenti continui,  impegnati a fuggire da un paese all’altro in un mondo ostile fatto di “dittatura, guerra, detenzione, violenza, fame, pericolo, speranza, sogno”.

La  vita l’ha trascorsa come giornalista riempiendo taccuini di appunti per i suoi reportage: l’infanzia in Iraq e la fuga in Iran allo scoppio della guerra tra i due paesi, il ritorno dopo anni ai luoghi dell’infanzia irachena e poi il passaggio in Siria, perché l’Iraq di Saddam ha intrapreso un’altra guerra invadendo il Kuwait.

Infine la fuga anni dopo fino al Kurdistan turco, dove l’ha incontrata la prima volta. Poi ancora in movimento verso la Grecia e l’Italia, viaggiando sullo stesso camion con lei. “E poi sono passati tanti anni da quell’ultima volta che l’ho vista, fino a qualche sera fa, alla stazione dei treni, dove dormo per sfuggire al freddo, poliziotti permettendo. Era uguale, lo giuro. È salita su un treno…”

A questo punto sono giunte le loro vite parallele: il giornalista conserva i taccuini nella borsa che ha con sé, ma non scrive più. Sopravvive come profugo, dormendo nel freddo di una stazione non precisata.

Mentre la bambina, che in tanti anni è rimasta uguale, che anche ora è vestita “come tutte le ragazzine” e sta salendo da sola su un treno, diventa il simbolo di tutti i minori che viaggiano soli e senza sostegno. Per lei occorre mobilitarsi. Cercatela, perché “deve essere lei la bambina che state cercando. E se non è lei, cercate anche lei per favore! È sola”.

Leggo Tubature di Rossella Milone [Qui] e mi trovo chiusa nella casa di Sonia, una giovane donna che soffre di ipermenorree saltuarie durante il ciclo. La trovo sofferente, perché la emorragia che la sta sfiancando è cominciata di notte, mentre lei dormiva.

Ora si sveglia ed è ancora notte fonda e, mentre si trascina dal letto alle altre stanze in cerca di un rimedio, la mente le si fa lucida. Ricorda che Andrea, il compagno che ha appena lasciato dopo anni di convivenza, è venuto ieri sera a prendere le sue ultime cose. Ricorda di avere avvertito i primi crampi e di essere andata a coricarsi, mentre lui si muoveva ancora dentro casa; lo ha sentito armeggiare a lungo usando gli attrezzi per le riparazioni.

Alla sua domanda di spiegazioni lui ha detto che dalle tubature usciva un rumore continuo, che andava tolto. Le tubature, già. Ha estremo bisogno di acqua, Sonia. Le occorre una borsa dell’acqua calda, vuole prepararsi una camomilla, vuole lavarsi.

Quando in bagno solleva il miscelatore non accade nulla, non esce nemmeno una goccia d’acqua. La ferita che le ha inferto il suo ex compagno è proprio qui: “il rubinetto fa un rumore cavo, come di una bolla che scoppia, e Sonia immagina tutta l’acqua del mondo defluire via”, mentre le forze defluiscono dal suo corpo e lei deve rannicchiarsi sulla poltrona per resistere al dolore, sporca e sudicia com’è, dentro la sua pozza.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

Bielorussia, la fine dell’umanità alle porte di casa nostra

 

La foto in copertina (Foto di Dire.it – https://www.dire.it/) mostra tutto l’essenziale. Povere persone, famiglie, in fuga da paesi distrutti da guerre, coperte con mezzi di fortuna, inermi, affamate e semiassiderate (qualche giorno fa un bambino di un anno è morto di freddo). Il confine è quello tra Bielorussia e Polonia. A fronteggiarli, la guardia di frontiera polacca in assetto di guerra, come dovesse contrastare l’invasione di un esercito nemico.

La Bielorussia accoglie i migranti in fuga dal Medioriente (siriani e iracheni di etnia curda, soprattutto), offrendo loro visti turistici per farli atterrare nel paese – ma con la “promessa” di farli arrivare in Germania –  attraverso pacchetti della compagnia aerea di bandiera. Poi li addossa al confine con la Polonia, che non li vuole e progetta la costruzione di un muro. Nel frattempo le persone – attualmente alcune migliaia – che non riescono ad attraversare di nascosto il confine restano al freddo, soffrono e muoiono. Il dittatore bielorusso Lukashenko accusa l’UE di non avere un cuore perchè rifiuta di accogliere i migranti, che secondo lui vogliono approdare in Germania. La Germania tratta con lui, mentre l’Unione Europea accusa la Bielorussia di usare i migranti come strumenti di ricatto contro l’Europa che ha proclamato “sanzioni” contro il regime di Lukashenko. La Polonia vieta a Frontex (l’agenzia europea che si dovrebbe occupare del controllo della gestione delle frontiere) l’accesso alle zone dove sostano i migranti. Il vero braccio di ferro è sulle forniture di gas. Lukashenko minaccia di chiudere il gasdotto che passa dal suo paese per portare il 20 per cento del gas russo all’Europa. Putin, che appoggia Lukashenko, al contempo nega che un’ipotesi di blocco delle forniture possa mai verificarsi. L’Europa per correre ai ripari dovrebbe rivolgersi a fornitori alternativi (Norvegia, Libia). Nel frattempo il prezzo del gas sale.

Tra il primo ed il secondo paragrafo di questo articolo passa tutta la differenza tra l’essenza in-umana dei fatti e la gerarchia degli interessi in ballo. Tuttavia i due concetti non sono scollegati, bensì interdipendenti. La foto comunica una enorme disumanità della politica, che non riesce a (o non vuole fino in fondo) salvaguardare la salute e la vita degli esseri umani più deboli, compresi i bambini. Ma si potrebbe dire che questi esseri umani vengono sacrificati per il nostro benessere? Si potrebbe affermare che queste persone vengono lasciate al freddo in una foresta ostile per evitare a noi di rimanere al freddo nelle nostre case? Forse no. Però, se pensiamo a quanto le regolari forniture di gas e petrolio influenzano la produzione delle nostre fabbriche ed il lavoro di migliaia di persone; se pensiamo a quanto può incidere, sul bilancio familiare, un’impennata nei prezzi di queste materie prime, dovremmo trarre una conclusione meno drastica, ma non priva di cinismo. E’ un ragionamento cinico quello che induce il dittatore Lukashenko a utilizzare queste persone come arma di ricatto verso l’Unione Europea. Ma questo cinismo avrebbe la medesima forza ricattatoria, se dall’altra parte i ricattati accettassero il rischio di far subire ai loro cittadini le conseguenze di una (temporanea) crisi energetica?

«Certamente non ci facciamo intimidire dalle minacce di Lukashenko. L’autonomia in campo energetico nel medio termine sarà fondamentale e nel breve termine certamente dobbiamo lavorare per utilizzare al meglio le relazioni esistenti sia con il Nord Africa, che con la Norvegia e con la Russia». Parole di Paolo Gentiloni, commissario europeo all’economia. A voi sembrano parole rassicuranti? Personalmente le trovo scivolose. L’autonomia energetica “sarà fondamentale”. Potrebbe voler dire che, attualmente, l’autonomia energetica è un obiettivo, ma non una certezza. Qualcuno è così puro di cuore da pensare che l’Unione Europea non sarebbe in grado, se davvero lo volesse, di mettere in ginocchio il gambler bielorusso? Ma dietro Lukashenko c’è Putin. La Russia finge di fare da mediatore tra Europa e Bielorussia, in realtà utilizza la Bielorussia come avamposto per estendere la propria influenza (anche territoriale: ricordate l’invasione della Crimea?) ai confini di Stati, come la Polonia, che attualmente sono alleati (scomodi) dell’Unione Europea. Il muro di Berlino è stato abbattuto nel 1989, la cortina di ferro e il Patto di Varsavia non esistono più, ma la Russia sembra in grado di esercitare una forza crescente al cospetto di un’Europa debole, divisa, capace solo di un’ unione monetaria cui non ha fatto seguito nè un’ unione politica, nè economica, tantomeno sociale (ne parla anche Daniele Lugli, qui).

Il diritto occidentale garantisce la libera circolazione delle merci e dei capitali, ma ostacola la libera circolazione delle persone, soprattutto di quelle rese profughe da conflitti spesso alimentati dalle stesse democrazie occidentali. Nel frattempo gli ultimi, gli incolpevoli, gli indifesi, soffrono e muoiono, paradossalmente (e purtroppo non è la prima volta) individuati come nemici dai neofascisti, che non trovano di meglio che prendersela con gli ultimi, anzichè con i primi. E’ un mondo che ricostruisce muri per le persone, e contemporaneamente consente ai soldi di andare dove pare a loro. Davvero si fatica ad immaginare qualcosa di più disumano di questa costruzione umana.

Diario in pubblico
Le ragioni dei ragionieri

 

Da sempre ricordo il mio insegnamento all’Istituto Tecnico per Ragionieri Vincenzo Monti di Ferrara tra le mie esperienze più esaltanti nella mia ormai lunghissima missione pedagogico-didattica; perché in quegli anni, proprio in quell’Istituto, insegnavano maestri della cultura non solo ferrarese: da Roberto Pazzi all’amica di una vita Elettra Testi, da Roseda Tumiati Ravenna a Gianni Giordani a Luciana Roccas Sacerdoti, per nominare quelli a me più vicini.

Qui ho avuto la fortuna, come molte volte ho raccontato, d’insegnare per un anno nella sezione A, dove ho conosciuto, partecipato, aiutato, la crescita culturale di straordinari ragazzi e ragazze che ancora oggi restano tra i migliori amici di una vita. Tra costoro Fiorenzo Baratelli, con il quale continuativamente si esplica uno scambio culturale, specie da quando fu nominato direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara, carica oggi ricoperta dal filosofo Nicola Alessandrini.

Fiorenzo ha sviluppato verso quel tipo di studi un’avversione forse capibile per chi si sentiva chiamato ad altro tipo di studi e per quella necessità di scelta tipica, a quei tempi, di chi proveniva da una famiglia operaia o di modesta condizione economica. E anche dopo la sua brillantissima carriera dall’Università di Sociologia di Trento ai prestigiosi incarichi in ambito politico-culturale, per lui la parola ‘ragioniere’ evoca qualcosa di non amato, o meglio rifiutato anche in base ad esperienze dirette avute in quella scuola.

Inutile però rammentargli che a me deve la conoscenza di quel ragioniere – anzi ‘il Ragioniere’ – che è stato il più grande poeta del Novecento: Eugenio Montale [Qui]. E con che soddisfazione entrambi abbiamo sbandierato il servizio apparso su la Repubblica del 16 novembre di Corrado Zunino [Qui], Quel cinque in chimica la macchia sulla pagella del ragionier Montale.

Eusebio, come racconta l’articolo, fu costretto dal padre a seguire Ragioneria, per poterlo poi impiegare nella ditta di famiglia, la cui attività era l’importazione di acqua ragia. E, poiché tout se tient, tra i clienti c’era la ditta Veneziani dove lavorava Italo Svevo…Il poeta è un ragazzo sofferente e apparentemente svogliato. Gli verrà data un’insufficienza in Chimica nel primo trimestre e si salverà solo per i voti eccellenti nelle materie cosiddette umanistiche.

A questo punto, per associazione, mi sovviene il mio lungamente odiato rapporto, non con le materie scientifiche, totalmente ignorate da me, che non riesco a fare un’equazione, ma con il latino, in cui ebbi, prima come insegnanti, poi come colleghi, i più illustri del tempo: Alessandro Ronconi [Qui] e Antonio La Penna [Qui].

Il motivo era semplice; le lezioni si svolgevano alle 15 ed io, da un’intera vita, a quell’ora dormivo e dormo. Miseramente fallii il primo esame su Orazio e, con una sentenza che rimase impressa nel mio immaginario, ricordo la voce pensosa di La Penna che mi sussurrava “solo per rispetto all’amico Walter Binni [Qui], di cui lei è un allievo importante, non concretizzo in voto il mio giudizio!”

Altro che Ragioneria…. Altrettanto con Ronconi, che insegnava grammatica latina e che aggrediva letteralmente lo studente allorché entrava, urlandogli una frase che si doveva immediatamente tradurre. La figura miseranda si configurò in un surreale discorso, che espressi con l’incoscienza della disperazione. All’urlo: “Gli ambasciatori vennero a Roma per recare doni” risposi che non si poteva tradurre, perché recare era verbo intransitivo!

Ma i ragionieri, come suggerisce una Intervista al signor Rossi che Michele Serra [Qui] fa a Vasco Rossi [Qui] apparsa sul Venerdì di Repubblica del 12 novembre scorso, sono straordinariamente importanti in un territorio quale quello che si svolge lungo la via Emilia e che, seppur tangenzialmente, tocca anche Ferrara.

Serra dà un resoconto assai preciso e puntuale della vocazione economico e culturale di quella zona, una vocazione non riferibile alla borghesia ma al “popolo”: “Enzo Ferrari è figlio di un meccanico, Lucio Dalla di una sartina, Francesco Guccini di un impiegato alle Poste, Gianni Morandi di un ciabattino, Ferruccio Lamborghini e Serafino Ferruzzi entrambi di contadini, Enzo Biagi di un magazziniere, il clan transoceanico dei Panini nasce dai campi e da un’edicola nel centro di Modena, Ligabue il cantante ha cominciato come operai metalmeccanico, Ligabue il pittore era povero , rachitico e senza padre”[ivi, p.15].

In questo ambiente è cresciuto Vasco Rossi in quanto “figlio perfetto di questa terra che ha deciso di testa sua, dove non è chi ha fatto il Classico, ma chi ha fatto L’Istituto tecnico e Ragioneria, a battere ogni primato” [p.16]. Così come il mio ragionier Baratelli, uomo di infinite letture, mutatis mutandis Vasco Rossi, con una punta di orgoglio, afferma di avere letto per ben due volte l’intera Recherche proustiana, Aut-Aut di Kierkegaard e Heidegger durante la pandemia.

Certo, confessa avrebbe voluto fare il Classico o lo Scientifico, ma quella era stata la strada se non imposta subìta. E con orgoglio ricordo a Fiorenzo, che a quel Tecnico mi ha conosciuto e si è aperto a quella cultura, che anch’io in altra situazione sono stato costretto a seguire. Non il Classico, ma le Magistrali. Conclude Serra: “E dunque lunga vita a Vasco lunga vita a chi voleva fare il Classico ma ha fatto il Tecnico e gli è bastato per conquistare il mondo” [p.21].

In questi mesi, ormai anni, che rintanati nei nostri fortilizi, cerchiamo di combattere non solo un virus, quello del Covid, ma anche ciò che sembra sia infettato da altre pericolose scelte, ad esempio quelle del Matteo fiorentino, che a sentir come spiega e parla, ho soprannominato alla francese baguette che nella mia forse improbabile versione traduco in filone.
A livello metaforico certamente!

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Silvio Orlando, una “Vita davanti”: anche per l’ultimo degli ultimi.

 

Calarsi nei panni di un bambino, che vive nel quartiere più multietnico di Parigi, in un buco di casa arrampicato al sesto piano di un palazzo della periferia, tra prostitute e travestiti, e guardare il mondo provando insieme a lui tutte le emozioni più profonde: un disperato bisogno d’affetto, divertimento comico, scoperte, paura dell’abbandono, commozione, senso di inadeguatezza, istinto di nascondersi, ma allo stesso tempo una voglia disperata di essere preso in considerazione. È una situazione lontana anni luce dallo scintillio degli Champs Elysées e dagli ambienti alla House of Cards, quella messa in scena da Silvio Orlando come interprete unico de “La vita davanti a sé”. L’opera, da lui stesso diretta e adattata partendo dal romanzo omonimo di Romain Gary, in scena sul palco del Teatro Comunale di Ferrara da giovedì 18 a domenica 21 novembre 2021.

Silvio Orlando ne “La vita davanti a sé” sul palco del Teatro Comunale di Ferrara (foto Marco Caselli Nirmal)

“Di solito non mi piacciono le letture di testi narrativi – ha spiegato Silvio Orlando nell’incontro con il pubblico che si è tenuto sabato 20 novembre nel Ridotto del Comunale – ma tutto questo è nato proprio dalle pagine che mi chiesero di leggere al Festival della spiritualità di Torino del 2017. E quel romanzo da allora mi si è attaccato al cervello come un virus e, grazie al virus della pandemia, ho trovato il tempo e l’occasione per lavorarci su. Il musicista Simone Campa, che è con me sul palco e dirige l’orchestra Terra Madre, è l’unico superstite del gruppo che era con me a Torino, e l’opera si sviluppa insieme alla musica”.

Silvio Orlando durante l’incontro con il pubblico al Ridotto del Comunale (foto GioM)

La rappresentazione è tutta incentrata sull’interpretazione di Silvio Orlando, che si mette nei panni del bambino arabo di dieci anni (“l’ultimo degli ultimi”), ma anche di tutti gli altri personaggi che via via compaiono nel racconto. In questo l’attore riesce a passare con disinvoltura dal broncio del ragazzino alle pose della ex prostituta ebrea di origini polacche Madame Rosa (“95 chili, uno più brutto dell’altro”), fino all’espressione spettrale dell’ipotetico padre e all’evocazione della vezzosa e muscolosa Madame Lola, senegalese passata dal ring della boxe ai viali del Bois de Boulogne, facendo vivere allo spettatore tutta l’emozione e l’intensità di questi personaggi e di questi incontri. Lo spettatore riesce a crearsi un’immagine viva, forte e densa per ogni carattere, grazie alle parole e alle espressioni di Silvio Orlando. La naturalezza della recitazione è tale che rende concreta ogni visione, facendo dimenticare che in scena c’è un’unica persona, che ne evoca così tante e svariate.

Kaw Sissoko al Comunale di Ferrara (foto Marco Caselli Nirmal)

Lo spettacolo è accompagnato dalla musica diretta da Simone Campa, che ne è anche interprete alla chitarra e alle percussioni, insieme con Gianni Denitto al clarinetto e sax, Maurizio Pala alla fisarmonica e il senegalese Kaw Sissoko che suona un enorme strumento costruito con una zucca vuota e corde da pesca (kora) e un tamburo africano (djembe).

Silvio Orlando con l’orchestra Terra Madre sul palco del Teatro Comunale di Ferrara (foto Marco Caselli Nirmal)

“La musica arriva dove non arriva la parola”, ha sottolineato il direttore artistico del teatro, Marcello Corvino, nei panni di moderatore dell’incontro con il pubblico e che, nel bel mezzo della sala affollata dagli spettatori venuti ad ascoltare la compagnia, tira fuori il violino e si mette a suonare in una travolgente e improvvisata sessione, che vede il contributo anche di Silvio Orlando perfettamente a suo agio al flauto traverso.

“Da ragazzo credevo che la musica fosse la mia vocazione – ha raccontato sempre pieno di autoironia l’attore – e suonavo con molta partecipazione e convinzione a tutte le manifestazioni studentesche, dove gridavo il mio impegno interpretando con molto trasporto gli Inti-Illimani. È da lì che un mio amico ha visto in me un grande talento, comico però, e praticamente mi ha obbligato a recitare. Così la mia carriera musicale si è interrotta!”.

Silvio Orlando suona con i musicisti al Teatro Comunale di Ferrara (foto Marco Caselli Nirmal)

Poi Orlando ha spiegato come l’incontro con questo testo sia stato per lui un’illuminazione. La storia – come si legge nella scheda descrittiva – è quella di “Momò, bimbo arabo di dieci anni che vive nel quartiere multietnico di Belleville nella pensione di Madame Rosa, anziana ex prostituta ebrea che ora sbarca il lunario prendendosi cura degli ‘incidenti sul lavoro’ delle colleghe più giovani”. L’autore del romanzo, Romain Gary – fa notare l’attore – era a sua volta “un immigrato, arrivato in Francia dalla Lituania, perché sua madre aveva il mito di Parigi, come il posto dove, chi ha talento e impegno, può diventare quello che vuole. E in effetti lì, Gary, raggiunge tutto ciò che può desiderare di diventare: diplomatico, attore, scrittore e vincitore del premio Goncourt. Ma al culmine della carriera, quando ormai lo davano per decotto, trova la voglia di debuttare di nuovo, scrivendo sotto pseudonimo la storia di un clandestino arabo, figlio di una prostituta morta, costantemente diviso tra il bisogno di nascondersi e la voglia di farsi notare. Una storia che racconta che un’altra possibilità di stare al mondo c’è. I migranti sono un po’ come le api: ci sembrano un fastidio, poi scopriamo che senza di loro l’umanità non avrebbe molto tempo per cessare di esistere”.

Silvio Orlando ne “La vita davanti a sé” sul palco del Teatro Comunale di Ferrara (foto Marco Caselli Nirmal)

La visione che viene fuori – ha sottolineato Orlando – è quella che esce dagli occhi di un bambino, questo romanzo “non è solo un racconto o la storia di immigrati, è la creazione di un mondo, di un universo infantile”.

Locandina de “La vita davanti a sé” sotto i portici del Teatro Comunale di Ferrara (foto GioM)

Quando una signora del pubblico ha fatto notare che a teatro, così come davanti alle pagine del libro, la storia riesce ad acquistare un significato più universale di quello che può offrire una trasposizione cinematografica, l’attore ha concordato: “Il fatto di essere in scena a fare tutti i personaggi ti aiuta a non essere didascalico, usi la parola e la fantasia per trasportare il pubblico in un mondo immaginario. In questo il teatro è più vicino alla letteratura, fa evocare delle immagini dentro ciascuno di noi, a differenza di quanto accade al cinema dove figure e situazioni sono ben definiti”.

MUSICA IN REGALO – Nel breve filmato sotto si può ascoltare un assaggio del brano della tradizione ebraica, basato sul terzo salmo, improvvisata davanti al pubblico del Ridotto del teatro Comunale di Ferrara  dall’Orchestra Terra Madre insieme con Silvio Orlando e con il direttore artistico Marcello Corvino 

La musica – come ha commentato Corvino – è un elemento fondamentale, che “accompagna lo spettatore in questo viaggio, trasferendolo nei luoghi d’origine dei personaggi, ma anche nella Francia di Belleville”. Suoni che evocano mondi e situazioni e fanno entrare nell’intensità delle vibrazioni e delle emozioni di questa vicenda umana, toccante, coinvolgente e divertente. La dimostrazione di ciò si ha davanti al palco del teatro Claudio Abbado, così come nella sala del Ridotto del teatro: la musica trasporta in una dimensione altra, dominata dalle emozioni, dal sentirsi tutt’uno con qualcosa che senti dentro e che può trasformare un uomo con i capelli grigi in un bimbo di dieci anni o in un’anziana signora.

E gli applausi confermano la realizzazione dell’incanto: alla luce ovattata del Teatro così come in quella di pieno giorno del suo Ridotto.

PRESTO DI MATTINA
Poesia come profezia

«Ogni giorno lascia in eredità al successivo un sole morente
e ogni notte ne piange un’altra.
Un’estate dopo l’altra viene raccolta insieme alle foglie cadute
e del suo dolore canta il mondo…
Ogni giorno offre al successivo un sole ardente,
una notte dopo l’altra riversa stelle,
sulle labbra di pochi solitari si ferma una poesia:
per sette vie ci dividiamo e per una sola facciamo ritorno»
(Avraham Ben Yitzhak, Poesie, con un saggio di Lea Goldberg, Portatori d’acqua, Pesaro 2018, 61).

Il contare i giorni e le notti, sia quando sono spenti oppure ardenti, sia quando destinano mortificazione o per contro vivificano, il fatto di narrarli gli uni agli altri genera discernimento comunitario, sapienza e poesia insieme dentro il cuore.

Così è del discernimento: trame che si fanno e disfano per ritessersi di nuovo, fili sparpagliati che trovano l’intreccio, un filo che imbocca una cruna d’ago. Dopo la molteplicità del differenziarsi e del diversificarsi, ecco segue il convergere nella consonanza di un pensiero, nella decisione di un comune orientarsi ed agire consonante: “per sette vie ci dividiamo e per una facciamo ritorno”.

Avraham Ben Yitzhak [Qui] considerava «la poesia come fondamento della realtà», e la lingua ebraica come il mezzo per quel difficile e silenzioso esercizio che è ascoltare, per tutti, le fondamenta del mondo.

«Nella grande disperazione in cui visse per numerosi anni della sua vita, non credeva che molte orecchie umane fossero ancora in grado di prestare ascolto a quel fondamento» (Lea Goldberg, ivi, 93) e così alla scrittura poetica riconosceva il compito esistenziale di cogliere e narrare le radici stesse del reale. Per questo egli visse in modo poetico.

Elias Canetti [Qui] lo chiama il “Dottor Sonne”/Sole; un’ampia parte dell’autobiografia, la terza parte è dedicata a lui (Il gioco degli occhi, Adelphi, Milano, 1985, 107-192). Ciò che lo affascinava di lui era la sobrietà e al tempo stesso la sua energia, una personalità schiva, ma carismatica:

«Sonne non parlava mai di sé. Non diceva mai niente in prima persona. Ma anche nel rivolgerti la parola non usava la forma diretta. Tutto era detto in terza persona e così collocato a una certa distanza… Le parole di Sonne non abolivano, non liquidavano nulla; anzi il tema era più interessante di prima, era riordinato e illuminato. Egli apriva in te interi territori là dove prima c’erano soltanto punti oscuri, che erano pur sempre punti di domanda… Aveva riguardo verso tutto ciò che gli fosse vicino, senza però che qualcosa gli sfuggisse. Se non sprecava mai una parola sulle persone che di giorno in giorno stavano intorno a noi, era una forma di tatto. Il suo rispetto per i limiti altrui era assoluto. Era il suo Ahimsa, come io lo chiamavo usando la parola indiana che indica il rispetto per ogni forma di vita», (ivi, 125; 129; 130).

Avraham Ben Yitzhak introdusse nella sua poesia la meraviglia di fronte alla natura, unita ad una conoscenza quasi enciclopedica della scienza botanica. Teneva insieme entrambe per un migliore discernimento del reale. Questo recupero dello stupore dinanzi al naturale – contemplazione proibita da alcune Massime dei Rabbi, perché distoglieva dallo studio del testo sacro – aprì una breccia, un traboccamento nella sua coscienza e nella tradizione stessa.

La poesia è profezia; è dono imprevedibile e sorprendente, vede oltre ogni nostro vedere. Narra l’esistenza di un segreto, di un canto nel silenzio, di radici nei loro nascondigli, del cuore del reale che si rivela celandosi nell’ombra.

Lo conosci solo dal rumoreggiar dell’arborea marina: strepitar di bosco; dal battito insieme del tuo con il cuore della terra; dal continuare a scorrere della linfa della vita, sottotraccia, rivoli carsici sotto una crosta di ghiaccio:

«I monti che si congiungono intorno alla mia città / custodiscono un segreto nei loro boschi; /… sopra il quale rumoreggia un mare di alberi / e in quell’ombroso nascondiglio è nascosto il segreto. / Insieme al cuore della terra, / pulsa in me il cuore; / e scorre assieme ai rivoli / che fluiscono sotto la crosta ghiacciata; /… Tuona e strepita il bosco e dolce è il suo canto nel silenzio dell’angolo che ti è caro», (Poesie, 35; 33; 45).

Come la poesia trabocca dalla realtà – eccedenza del reale che ne attesta il mistero delle radici – e come dalle narrazioni condivise tracima alla fine il discernimento comunitario, così da questo affiorare ed esondare insieme può scaturire lo stupore della profezia, il dono di una parola altra che, illuminando, fa agire e avvia una conversione trasformatrice.

Ritroviamo qui le tre fasi del processo della sinodalità: quella narrativa, quella sapienziale del discernere insieme e quella profetica. Un giudizio di parole e azioni che libera e ristabilisce alleanze, che fa agire in contesti mutati, che orienta a prendere decisioni su nuovi percorsi, stili e pratiche di vita ecclesiale.

L’esperienza profetica è l’esperienza del traboccare della Parola e dell’azione di Dio mentre si cammina insieme con lo Spirito del Cristo Risorto.

«È proprio del Cuore di Dio traboccare di misericordia», ci ricorda papa Francesco. In esso si narra il segreto della sua itineranza nel mondo, il suo venire nella storia e presso di noi. Da questo traboccamento – come lo sgorgare di nuovo delle acque battesimali – scaturisce l’iniziazione cristiana, e pure un cammino e un processo di progressiva maturazione, che coinvolge non già la singola persona, ma la chiesa e la società stessa e l’ambiente circostante.

L’espressione «traboccare mentre si è in cammino» l’ho mutuata leggendo un articolo di Diego Fares, Il cuore di “Querida Amazonia”, l’esortazione apostolica di Papa Francesco successiva al sinodo sull’Amazzonia. Qui l’immagine del camminare travalicando è vista «come simbolo del traboccamento di Dio nella creazione».

Nel testo in spagnolo la parola desborde e il verbo desbordar compaiono cinque volte e sono tradotte con ‘debordare’, ‘sovrabbondare’, ‘oltrepassare’, ‘traboccare’. Scrive Fares: «Nei grandi problemi, come quello che l’umanità si trova ad affrontare in Amazzonia, “la via d’uscita si trova per ‘traboccamento’ (la salida se encuentra por desborde)” (QA 105), afferma papa Francesco. E aggiunge che, per poter riconoscere il “dono più grande che Dio sta offrendo”, bisogna “ampliare orizzonti al di là dei conflitti” e trascendere le dialettiche che limitano la visione. Non basta disciplinare la vita, la si deve aprire a Dio, la cui presenza è sempre maggiore, “traboccante”…

Nel Sinodo, mentre parlava del traboccamento della misericordia di Dio, egli ha detto: “È un traboccamento che suor Miranda ha espresso con una parola che mi ha colpito molto: il traboccamento dell’itineranza. Soltanto chi è in cammino è capace di traboccarsi”. E nell’Esortazione ha dato voce alle poetesse e ai poeti amazzonici che parlano del fiume che straripa: “Nasce ad ogni istante. Discende lenta, sinuosa luce, per crescere nella terra. Scacciando il verde, inventa il suo corso e cresce” (QA 45)», (La Civiltà Cattolica, Quaderno 4074 [Qui],2020, 532-546).

Ho pensato che traboccare non è solo delle acque ma di tutte le sementi, anche se il loro spuntare dalla terra è lento, pacifico, silenzioso – ma non senza travaglio – tanto da dirsi: “una foresta quando cresce non fa rumore”. Tuttavia si vedono a volte nei documentari scientifici le immagini scorrere accelerate, così da mostrare in pochi secondi il seme che nasce, cresce e giunge a maturazione; un esondante florilegio di bellezza che stupisce e rapisce dentro, e t’invoglia alla sequela.

Come la terra ‘la campana del tempio tace il suono trabocca dai fiori’: con questo haiku, che mi è familiare, continuo a narrare del Sinodo del 1992.

Ha lasciato in me la coscienza del seminatore, quella di colui che vede la primavera anche d’inverno e fa credito alla terra anche se non vede i segni e il frutto del suo lavoro. Quell’esperienza ha pure ridestato in me una più viva consapevolezza del mistero della Chiesa come mistero di gratuità ospitale e laboriosità silente.

Scrivevo ad un amico diacono a quindici anni dall’evento sinodale: «credo che a noi sia chiesto di seminare, non di raccogliere; seminare ciò che nella nostra esperienza di fede ed ecclesiale, sentiamo più vivo e irresistibile, incontenibile, fede personale e vita ecclesiale dovrebbero andare sempre insieme; discepolato e comunità in Marco sono profondamente uniti non c’è mai uno senza l’altro».

Primavera nel cuore dell’inverno.

Ricordo un testo di Mario Rigoni Stern [Qui], Stagioni (Einaudi Torino 2008) che accende ancora la mia immaginazione: «Sul finire dell’inverno, a marzo, quando invece di giorno la neve si ammolla e di notte gela, sì da fare corazza e portare il passo senza sprofondare, il bosco che preannuncia la primavera diventa odoroso, bello e favoloso. Cammini alla sommità degli alberi giovani e ti trovi a guardare gli apici all’altezza degli occhi, come un uccello o uno scoiattolo. Già le gemme si gonfiano; sotto gli alberi più alti e folti la neve già si è sciolta perché loro accolgono e trattengono il calore del sole…

Sensi e fantasia ti aiutano a scoprire la primavera del bosco, che è misteriosa, segreta, viva. Erano le allodole le prime creature a indicare il cambiamento di stagione, ossia la fine dell’inverno. Le prime allodole arrivavano quando il sole nella sua risalita rendeva libere dalla neve le rive esposte a sud. Un mattino sentivi un brivido percorrere le membra, vedevi uno svolare sopra la proda e dopo, il trillo gioioso dell’allodola mattiniera. Era un attimo di felicità. Ma da dove arrivava questo intenso sentimento? Da quale remotissima mattina del mondo? Era bello quel giorno, era bella tutta la terra, era buona la gente», (ivi, 17; 23).

L’ospitalità all’altro, e quella che si riceve dagli altri, trabocca anche solo al ricordo di quell’aver camminato insieme. L’Ospitalità è simile alle briciole di pane lasciate sulla neve per i pettirossi; quando vengono raccolte e mangiate, scompaiono alla vista. L’unico segno, che anche in te rimane, è sentire che la gioia del vangelo e il pane del fratello, anche se duro a volte, ti ha nutrito, fatto crescere per averlo ospitato presso di te.

La ricezione di un Sinodo è dunque un processo vitale nella forma di una ospitalità reciproca, che si prolunga nel tempo e richiede ogni volta di essere rigiocata nelle relazioni e negli eventi della vita, oltre il suo evento. Essa implica uno spirituale, permanente legame allo spirito profetico del sinodo anche quando questo si è concluso.

Questo permanere nel solco tracciato della tradizione, alimentandosi ad essa e poi nutrire altri narrando, è segno di una libertà che non resta passiva di fronte a ciò che ha ricevuto; non si ripiega nostalgica nel passato e non nasconde il talento come nella parabola, ma lo fa fruttificare. È nel rigioco che si prende parte attiva alla ricezione sinodale; è nel trasmetterlo agli altri che lo si fa traboccare.

Se mi si chiedesse “ciò che è vivo e ciò che è morto” del Sinodo oggi, risponderei con le stesse parole di quel tessitore di ecumenismo e teologo che è stato don Luigi Sartori [Qui], quando gli ponevano la stessa domanda in riferimento al Concilio:

«Quando mi si chiede ciò che è vivo e ciò che è morto del Concilio io devo intendere la vita e la morte in senso profondo: per me il morire non è un passare, ma un entrare in una vita nuova. Quindi per ciò che è morto del Concilio io intendo ciò che è passato nella vita, ciò che gioiosamente è finito del Concilio, perché ha potuto e ha dovuto entrare nelle coscienze e nella vita. Quindi il morire non è un lasciar cadere nel passato perché venga sepolto, ma un entrare nel presente e nel futuro perché abbia a sopravvivere».

Ciò che è vivo ancora del Sinodo in me, come per il Concilio, è ciò che ancora non si è attuato, che non è divenuto carne, sangue nella nostra chiesa, e che dunque necessita di essere rilanciato.

Immediatamente il pensiero va alle tre chiese, ciascuna raccolta nell’altra del IV capitolo n. 61 del libro del Sinodo: “Chiesa e testimonianza della carità”: «Non solo una Chiesa per i poveri, ma una Chiesa dei poveri. Non basta il servizio a favore degli strati più svantaggiati della popolazione. Chiesa dei poveri, è luogo di vita con i poveri, dove essi hanno voce, ritrovano in Cristo la strada della loro liberazione umana e cristiana, e si fanno promotori di una trasformazione dell’intera società, per renderla più autenticamente a misura di uomo. Tutto questo comporta, da parte di ciascuno, la scelta, e la concreta e coerente testimonianza, di uno stile di vita più povero, contrassegnato dalla condivisione e dalla circolazione dei beni: una Chiesa povera».

Tutto ciò mi fa pensare ai nostri centri di ascolto, i CdA parrocchiali e delle unità pastorali, che dovrebbero camminare insieme e confrontarsi nel cono di luce di questo testo sinodale. E un altro passo necessario sarebbe quello di una maggiore interazione tra questi centri di ascolto e le stesse persone delle comunità, che non deleghino ai primi l’appassionarsi ai poveri, vicari di Cristo, affinché ogni battezzato diventi occhio, orecchie, mani e piedi, pensiero e cuore del CdA.

L’importanza vitale infine per una consonanza ancora maggiore a servizio dei poveri è tenere insieme azione liturgica e agire solidale, il pane spezzato sulla mensa eucaristica e quello lungo la via: una “pericoresi” – passatemi il termine di teologia trinitaria – un movimento circolare, un ruotarsi verso l’altro e guardarsi in volto in ascolto o rivolgendosi la parola andando e venendo dall’una all’altra mensa.

“Percorsi” è il modo di essere uniti nella relazione delle persone in Dio, il donarsi l’un l’altro, il reciproco appartenersi del Padre e del Figlio nello Spirito un amore che resta aperto, traboccante verso tutti.

Così anche papa Francesco rigioca nell’oggi ciò che era rimasto in embrione al Vaticano II. Egli sta facendo emergere dalle acque ancora sotterranee, scaturite al concilio dal terreno carsico della chiesa, tutte quelle realtà e questioni appena accennate o ancora in statu nascendi nella difficile ricezione post-conciliare degli ultimi 60 anni.

Ha fatto traboccare nel grande fiume della grande chiesa le acque dei fiumi nati dal vissuto delle chiese sorelle dell’America latina, ponendo così la profezia, la sinodalità, i poveri e il martirio di quelle stesse chiese come un dono per tutti.

L’avvio del Sinodo fu per me un inizio faticoso e sfiduciato. Che ho raccontato altrove. Che cosa mi cambiò allora? In quel contesto fu determinante per me la pratica comunitaria, sia nella commissione sulla Parola di Dio, sia nei consigli pastorali e nelle otto assemblee cittadine: un traboccare vicendevole.

La svolta venne, come per Pietro il pescatore quel giorno sul lago. Fu, quella volta, nel gesto del pescatore che prende il largo, anche per me un sì, l’accadere di un nuovo inizio, una nuova partenza che avviò con il sinodo un cammino di riscoperta della comunione ecclesiale. Sì, fu la fede, come allora, sulla sua Parola; fede che si gioca e rigioca nella relazione all’altro, aprendo spiragli di luce nella fede d’altri.

Le Beatitudini sono come il canto delle allodole nel bosco degli urogalli di Rigoni Stern. Esse come le beatitudini sono amiche della luce, portano la luce nell’oscurità. Anche quella sera in cui san Francesco passò dal mondo a Cristo, si posarono sul tetto della casa e a lungo cantarono, roteando attorno: gioia e pianto insieme, così le beatitudini che sono la gioia del Cristo e il pianto dei poveri, insieme trabocchino in noi mentre siamo in cammino.

E ciò che era all’inizio di questo scritto si riversa pure alla fine nelle parole poetiche di Avraham Ben Yitzhak: le sue beatitudini; una si getta nell’altra e traboccano insieme in quella successiva e si fanno pure cammino in chi le legge, le ascolta e pratica.

Una la sento di grande forza per me: quella del seminatore che non cessa mai di seminare ma proprio per questo andrà oltre ogni confine esistenziale a portare la Parola, di solco in solco, scendendo come il seme in esso e tracimando poi in un altro solco: «Beati coloro che seminano e non mietono poiché vagheranno più lontano».

Beati coloro che seminano e non mietono poiché vagheranno più lontano.
Beati i generosi la cui splendida giovinezza aumentò la luce dei giorni
e la loro prodigalità
e si spogliarono dei propri ornamenti – sui crocevia.
Beati i fieri la cui fierezza oltrepassò i confini della loro anima
e diventò come l’umiltà del biancore
dopo il levarsi dell’arcobaleno in mezzo alle nuvole.
Beati quelli che sanno che il loro cuore griderà dal deserto
e sulle loro labbra fiorirà il silenzio.
Beati loro perché saranno raccolti nel cuore del mondo
coperti dal manto dell’oblio
e la parte loro riservata sarà il tamìt* senza parole.
(Poesie, 85)

*[il sacrificio quotidiano al tempio], .

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

EFFETTI COLLATERALI DELLA RIVOLUZIONE DIGITALE
meno democrazia, più diseguaglianza e altri inconvenienti sulle persone.

La nuova rubrica di ferraraitalia LA VECCHIA TALPA (Shakespeare, Marx) ospita testi, saggi, riflessioni, approfondimenti, supplementi di indagine. A questo contributo di Franco Mosca, e agli altri che seguiranno in questa rubrica, non abbiamo imposto i limiti di lunghezza che solitamente richiediamo ai nostri redattori e collaboratori. Una lunghezza limitata sicuramente facilita la lettura, ma in certi casi non è proprio possibile essere brevi.
L’invito ai lettori che, come tutti noi, vanno di fretta, è quello di prendere nota del titolo e dell’autore, metterli in attesa, e affrontare i testi della rubrica LA VECCHIA TALPA quando ci capita una mezz’ora buca (di giorno o di notte, al sabato e domenica), una frazione di tempo libero, uno spazio di silenzio per approfondire un argomento e soddisfare una curiosità.
(Francesco Monini)

In elettronica e in informatica, digitalizzazione è il procedimento per rappresentare/riprodurre le diverse caratteristiche fisiche di suoni, immagini e oggetti, che traduce in forma digitale un segnale analogico. La parola digitale viene dall’inglese e significa “cifra”. Spesso tale “cifra” è espressa attraverso un codice binario, ossia come una sequenza di 1 e di 0, quindi da stati del tipo acceso/spento. È opinione diffusa che con tale sistema si possa, non solo emulare, ma addirittura potenziare e ampliare in modo esponenziale le capacità del cervello umano che rischia di diventare obsoleto.

La questione è aperta, personalmente credo che oggi la diversità del pensiero, dei sentimenti e dell’azione degli oltre 7,5 miliardi di persone viventi oggi sulla terra non possa essere adeguatamente rappresentata. Una buca nella sabbia, come ricorda S. Agostino, non può contenere il mare.

Occorre considerare che attualmente il sistema digitale, nella stragrande maggioranza delle situazioni, viene implementato attraverso procedimenti semplificatori e riduttivi posti in sequenza da tecnici che agiscono secondo una logica (razionalità) limitata e intenzionale. Un’azione influenzata dai valori e dalle credenze più o meno diffuse e, soprattutto, dall’orientamento dei committenti che finanziano il prodotto digitale per venderlo sul mercato.
Gli obiettivi prioritari, i valori trainanti e che determinano le scelte di utilizzo sono di tipo economico (riduzione dei costi e aumento dei profitti). Chi progetta è un tecnico informatico che spesso non possiede un’approfondita conoscenza sia dei temi organizzativi, sia delle caratteristiche peculiari dell’azienda in cui il prodotto digitale andrà ad inserirsi. Il prodotto è standard anche se, in molti casi, può essere adattato alle richieste particolari del committente.

Se reifichiamo i processi di digitalizzazione perdiamo la ricchezza della diversità, dell’irrazionalità, dei sentimenti, dell’intuizione, della capacità/possibilità di deviare dagli standard che spesso aprono nuove opportunità.

Si può avanzare l’ipotesi che, attualmente, una delle modalità utilizzate per uniformare gli atteggiamenti umani, per portarli in sintonia con i processi di digitalizzazione, sia insita nei videogiochi diffusamente, forse anche morbosamente, utilizzati particolarmente dalle nuove generazioni. In essi, spesso con l’uso della musica, dei colori e di “effetti speciali” appropriati, si opera una netta distinzione tra negativo e positivo, tra male e bene, tra buoni e cattivi e si inducono identificazioni acritiche, lontane dall’analisi introspettiva del sé e degli altri e dall’analisi complessa e variegata del mondo che ci circonda. Si diffonde così una visione “infantile” della realtà, dicotomica, liquidatoria, semplificata [sulla rigidità mentale leggi qui].

Multimedialità, ipertestualità e interattività sembrano offrire un senso di ricchezza e di potenziale onnipotenza alle generazioni assuefatte all’uso di strumenti digitali e l’industria, probabilmente, può trarne vantaggio, almeno nel breve periodo.

Prima d’interrogarsi sull’impatto futuro delle tecnologie digitali, occorre riflettere sull’attualità ed osservare cosa accade oggi quando queste tecnologie vengono inserite nei contesti di lavoro.

Sulla base dell’esperienza e delle analisi svolte nei luoghi di lavoro, l’inizio del processo di digitalizzazione si presenta come una forma evolutiva dei ‘vecchi’ mezzi di comunicazione, delle procedure e dei flussi di produzione. Viene ‘fotografata’ in sequenza l’attività degli operatori per riprodurla con i sistemi digitali su macchine ed impianti; nella prima fase, superate le problematiche d’inserimento, sembrano ridursi le difficoltà e la fatica legate alle attività di acquisizione, elaborazione, diffusione delle informazioni e delle istruzioni operative. La procedura digitale le ha ‘incamerate’ in uno schema operativo; l’operatore le dà o le deve dare per acquisite e può/deve procedere senza indugi o perplessità. Non sono ammessi ‘rifiuti’ o atteggiamenti di diffidenza che possono rallentare la produzione.

Il ‘gioco’ deve essere accettato così come proposto a priori, compresi gli eventuali aspetti di limitata discrezionalità previsti o delineati dalla procedura, dallo schema, dagli standard dei flussi informativi già predisposti (magari con opzioni multiple codificate). A volte, anche per lunghi periodi, sono gli stessi committenti, i dirigenti o i semplici operatori – specialmente nelle aziende pubbliche – a nutrire diffidenza e a mantenere attivi e paralleli i tratti essenziali delle precedenti procedure analogiche, vanificando i presunti benefici dei sistemi digitalizzati introdotti.

Un aspetto che viene spesso trascurato è l’inserimento, sempre più massiccio, della tecnologia digitale (in genere acriticamente si assume una logica tayloristica) nel cosiddetto ‘lavoro d’ufficio’ e, soprattutto, nel lavoro incentrato sulla relazione tra le persone. Ad esempio, tra un tecnico del sociale e gli utenti che chiedono l’accesso ad un servizio o una qualche forma di aiuto.
Si vedano, in questo caso, i protocolli istituiti in campo sanitario che prevedono una codifica e una gerarchia dei controlli e delle cure, stilata in base ai costi, sottraendo autonomia e discrezionalità ai medici coinvolti nel processo di tutela della salute dei pazienti. O ancora, gli indicatori che stimano la ‘distanza’ dal lavoro delle persone disoccupate, distanza da cui dipendono gli interventi di sostegno/supporto standardizzato di tipo socio-economico.

Gli indicatori e i protocolli sono utilizzati per stilare graduatorie e procedure d’intervento, controllate con strumenti digitali standardizzati, a vari livelli dai vertici dirigenziali del sistema. In questi casi si toglie spazio alla relazione con l’utente, i rapporti si fanno meno umani, asettici, impersonali. La procedura ‘obbliga’ a seguire un percorso, aumenta la ‘distanza’, riduce il coinvolgimento tra operatore e utente. Si limita, o si evita, l’empatia relazionale utile a comprendere al meglio la condizione dell’utente, in un’ottica sempre più virtuale delle relazioni.

Si tenta di ricondurre dentro parametri standard l’estrema variabilità delle situazioni personali, l’uomo nella sua complessità deve star dentro alla procedura (il sistema non è più in grado di fornire risposte personalizzate adeguate, non consente progetti mirati sulle persone, di seguire nel tempo i cambiamenti psico-fisici ed economico/sociali degli utenti, in modo da adattare l’azione; nel migliore dei casi si interviene a posteriori seguendo le procedure standardizzate).

Ci si dimentica che gli oggetti e, in primo luogo le problematiche delle persone, affidate al sistema digitale, possono assumere una parvenza di “realtà” e si standardizza ciò che non è standardizzabile.

Sembra si stia affermando una crescente commistione tra ‘reale’ e ‘virtuale’ che riduce la capacità di discernere della mente umana; gli operatori si deresponsabilizzano sotto l’egida della procedura (come se questa fosse una norma di legge); si è portati ad accettare che le prescrizioni digitali conducano ad una “conoscenza oggettiva” delle situazioni, ad un trattamento equo e corretto dell’utente; anzi, a volte, l’appello alla procedura arriva a rappresentare per l’operatore una sorta di “difesa”, una sorta di barriera protettiva rispetto alla variabilità della situazione umana da esaminare e/o da tutelare.

Masse crescenti di persone sono e saranno indotte/costrette ad accettare l’utilizzo acritico della tecnologia digitale che ha permesso la definizione della procedura e la standardizzazione del problema. Per non rischiare l’emarginazione, al cospetto dei “valori” e dei “miti oggettivi” e virtuali imposti dalla digitalizzazione se ne deve accettare l’uso e la valutazione sintetica che essa produce.

Si vedano, in proposito, le difficoltà, l’imbarazzo, il rifiuto di molte persone, spesso non più giovanissime, verso l’utilizzo intensivo e quotidiano delle tecniche digitali (dal “semplice” pagamento dei ticket, all’imposizione del possesso di una e-mail personale per accedere ai servizi). E’ una specie di violenza indotta ogni giorno sulle loro “credenze”, sull’abitudine a tenere sotto controllo un mondo tangibile/relazionale che ha offerto per anni un quadro di certezze.

Chi attiva questo tipo di processi di digitalizzazione ha creato e crea dipendenza/sudditanza, soprattutto in chi non la conosce, non la usa o non la vorrebbe utilizzare. Si tratta di aspetti ritenuti trascurabili, tributi da pagare al “progresso”, alla modernità, ma dietro queste forme di imposizione si nasconde spesso arroganza, presunzione, indifferenza, spinte violente verso l’allineamento e l’omologazione.

Chi l’adotta punta a “semplificare”, parla di “oggettiva imparzialità” e nasconde i suoi obiettivi dietro una pretesa scientificità delle procedure digitalizzate, senza interrogarsi se esistono alternative più rispettose della situazione delle singole persone coinvolte, se un diverso approccio nella progettazione, nell’implementazione, nella verifica e nella regolazione della tecnologia digitale può condurre ad un’adeguata tutela del benessere umano.

La digitalizzazione appare sempre più un sistema di controllo e di “incameramento” standardizzato e funzionale dell’attività delle persone, mentre potrebbe rappresentare un supporto ai processi di decisione delle persone (di tutte le persone), qualora se ne valutassero correttamente limiti e potenzialità, riconsegnando il potere di scelta ai soggetti coinvolti e rifiutando qualsiasi forma di reificazione.

Con la crescente diffusione delle “tesserine digitali”, in genere accettate dal consumatore a fronte di futuri sconti sugli acquisiti, ad esempio, si viene censiti dalle catene di distribuzione che puntano a “fidelizzare” il consumatore; così, in tempo reale, chi le dirige viene informato sui nostri acquisti e, quindi, sui nostri gusti e sulle nostre preferenze. Per loro diventa possibile conoscere le caratteristiche dei nostri consumi, classificare i consumatori per target ed orientare i sistemi di produzione sparsi sulla terra; per il sistema virtuale (l’imprenditore senza fabbrica) è possibile scegliere i potenziali produttori presenti sulla terra in base al rapporto qualità/prezzo e rispondere alle tendenze dei consumi in un’ottica di costi/benefici/profitti, aumentando il potere di controllo sui vari contesti sociali.

Anche nel sistema industriale sembra riprodursi questo dualismo ‘integrato/marginalizzato’ (dentro o fuori) e il rapporto costi/benefici/profitti è e sarà, probabilmente, il principale criterio di scelta per l’eventuale introduzione/ammodernamento delle tecnologie digitali (in genere non saranno introdotte se il costo del lavoro per unità di prodotto risulterà inferiore ai costi di implementazione, di ammortamento/obsolescenza dei nuovi sistemi informatizzati). Laddove i salari sono molto bassi, infatti, i metodi di lavoro spesso rimangono “tradizionali”, in genere si riutilizzano tecnologie obsolete dismesse dai paesi a reddito più elevato (ne è un esempio il settore dell’abbigliamento).

Appare, quindi, legittimo porsi alcune domande: ci saranno ancora, in futuro, luoghi di produzione gestiti con tecnologie analogiche, con lavoratori più o meno emarginati dal cosiddetto “mondo evoluto”? Oppure sarà solo questione di tempo e la tecnologia digitale, così invasiva, cablerà tutto il pianeta? Le macchine digitali sostituiranno in tutto o in parte gli uomini nei vari luoghi di lavoro, arrivando persino ad auto progettare se stesse? Gli uomini sostituiti in tutto o in parte dalle macchine cosa faranno per assicurarsi un reddito? Senza un reddito adeguato come faranno a spendere e consumare? Crolleranno i consumi perché pochi se li potranno permettere? Che senso avrà realizzare un sistema produttivo che può produrre in modo continuo ed esponenziale se sarà scomparsa la platea dei consumatori? Avrà un senso, per chi comanda, esercitare il proprio potere su un sistema di macchine che si auto-progettano e si auto-producono? Forse avremo un pianeta con pochi uomini che si scambieranno macchine digitalizzate sempre più complesse o pezzi di ricambio delle stesse al fine di preservare una logica di onnipotenza?

Forse, guardando il futuro in modo positivo, se si verificasse una ‘vera rivoluzione’ grazie allo sviluppo di una ‘nuova’ tecnologia digitale, gli uomini liberati dal lavoro avranno più tempo per curare le relazioni interpersonali, per seguire le vicende politiche, per acquisire maggiore consapevolezza sulle questioni ecologiche, sui bisogni di preservare il nostro pianeta, sulla ricerca di altre forme di vita nell’universo, sulla ricerca di risorse naturali presenti su altri pianeti. E’ difficile ipotizzare come sarà la nostra vita futura, ma alcune tendenze sono già ben delineate e si possono brevemente descrivere.

Ad esempio, la ‘finanziarizzazione’ del pianeta (legata al modo con cui si sono progettati e diffusi i sistemi digitali) sta ampiamente condizionando le scelte economico-sociali di tutti i governi democratici e non. I centri decisionali delle varie nazioni si spostano dalle sedi istituzionali, si internazionalizzano, s’allontanano dai possibili controlli della cittadinanza, appaiono anonimi, spersonalizzati, virtuali.

Ad esempio, le agenzie di rating ed il numero ristretto dei multimiliardari scommettono sul successo e/o sul fallimento dei Paesi, orientano gli investimenti e le speculazioni, determinando spesso le condizioni di vita delle popolazioni. Viene, quindi, spontaneo chiedersi: se si va verso una concentrazione della ricchezza e del potere, come sarà progettata, introdotta e regolata, oggi e in futuro, la tecnologia digitale?

Appare evidente che l’accesso alle informazioni, quelle su cui si fondano le decisioni finanziarie e produttive della elite economica, è e sarà riservato a pochi (ai vari livelli della struttura verranno assegnate ed elaborate solo le informazioni/conoscenze necessarie a far funzionare il sistema). Alla stragrande maggioranza della popolazione terrestre probabilmente rimarrà l’illusione, legata alla facilità tecnica di accesso, alla presunta democrazia della rete, nel variegato magma delle informazioni, a cui tutti i possessori di un reddito adeguato potranno accedere, di essere “liberi” di scegliere tra le varie opportunità offerte dall’industria dei consumi digitalizzata.

L’attuale strutturazione sociale di accesso alla tecnologia digitale, infatti, distingue nettamente la massa dei fruitori dalla élite dei progettisti, i progettisti dai committenti, i committenti dai proprietari dei mezzi di produzione, i controllori del sistema finanziario dai finanzieri, in una logica gerarchico funzionale della gestione delle informazioni e del potere. La “rete di controllo” assomiglia alla ragnatela del ragno che si installa nei punti strategici per catturare informazioni ed elaborare eventuali risposte o procedere con indifferenza.

Si continuerà a confondere la velocità e la relativa facilità di accesso alla “rete” con la democrazia, la divulgazione con la conoscenza, l’informazione con le effettive capacità/possibilità di utilizzo della stessa, in un contesto sempre più difficile da interpretare e da affrontare/gestire nel quotidiano. Già oggi si avverte un senso di “impotenza” e di “inadeguatezza” di fronte a decisioni, definite “oggettive” o “logiche”, calate dall’alto; chi gestisce il potere di aprire o chiudere i luoghi di produzione è spesso un “soggetto virtuale”, anonimo che si avvale di manager e mira soprattutto all’aumento dei profitti.

Nonostante si abbia l’impressione che tutto sia a portata di mano (la cultura, lo spettacolo, l’informazione) ci si sente spossessati della capacità/possibilità di decidere del proprio destino; è sempre più difficile proiettarsi verso mete future, anche per l’insicurezza del “posto di lavoro” e delle fonti di reddito, l’instabilità delle relazioni interpersonali (si vedano i dati sulle separazioni matrimoniali e sulle convivenze). Sembra prevalere una visione edonistica della vita, si tende a non fare figli, a ridurre i vincoli, a fuggire le responsabilità. Si tratta di aspetti che andrebbero approfonditi e che certamente non sono riconducibili in modo diretto alle scelte di digitalizzazione. Queste, però, invece di aiutarci, sembrano contribuire a destabilizzarci.

Molti uomini, anche di cultura, hanno fatto scelte di “limitare i danni”, tentando di contenere il più possibile l’utilizzo delle tecnologie digitali (ad ogni accesso si forniscono informazioni a chi controlla il sistema ai vari livelli), ma rischiano l’emarginazione. Spesso ricercano ambiti di “nicchia”, solidarizzano con altri uomini che hanno le loro stesse perplessità/sensibilità. Una sorta di resistenza che appare in bilico fra tolleranza/compatimento/marginalizzazione in rapporto alla massa crescente dei digitalizzati acritici, impegnati nei vari contesti sociali.

La rivoluzione digitale, così veloce e pervasiva, appare una rivoluzione nella continuità, non altera i rapporti di potere (anzi rafforza quelli esistenti), non sta portando ad una redistribuzione delle ricchezze, non sta rafforzando o ampliando il benessere delle persone, nonostante sia potenzialmente in grado di farlo. La velocità, con cui sembra auto-alimentarsi e la pervasività, con cui sembra diffondersi, in stretto collegamento con le scelte di investimento del sistema industriale e finanziario, hanno surclassato le capacità/possibilità di gran parte delle persone di “gestire il gioco” in modo consapevole.

Come nel caso dell’energia atomica, non si tratta di maledire coloro che l’anno scoperta, ma di progettarne e realizzarne un utilizzo adeguato ai fabbisogni delle persone. Basta un breve elenco per intravederne gli aspetti positivi: ridurre gli incidenti sul lavoro, garantire a tutti adeguate condizioni di vita, prevenire e combattere malattie, ridurre gli sprechi, ridimensionare l’inquinamento del pianeta. Credo che la tecnologia digitale possa dare un fondamentale contributo in questa direzione. Siamo noi che, singolarmente e/o insieme, dobbiamo imparare a governarla, mettendo al centro il benessere delle persone.

Per approfondire l’argomento segui il dibattito e i seminari su [questo sito]

CONTROVERSO
Ninna-ò della mamma

 

La mamma aveva problemi psichiatrici ed era in forte difficoltà a occuparsi dei bambini che, una volta diventati adolescenti, si sentivano feriti per quel mancato appoggio, per quel ruolo educativo che nella mamma non avevano mai trovato. Nessun bambino nasce in una famiglia o in un mondo perfetto, ma riconoscere le speciali ammaccature della propria condizione non è cosa da poco.

Ninna-ò della mamma

Ninna nanna ninna-ò
questa mamma a chi la do?
La darò allo psichiatra
bello più di Frank Sinatra
La darò all’assistente
che non conta quasi niente
La darò al carabiniere
con un calcio nel sedere
O la tengo un poco matta
tutta intera, come è fatta.
Tale e quale come è
a star sotto tocca a me.

Assumere decisioni sulla tutela dei bambini è quasi più facile in casi estremi, dove tutto è chiaro, e magari l’incapacità è data da scelte dei genitori. Quando invece le mancanze derivano da una condizione di salute, e perciò sono del tutto indipendenti dalla volontà dell’adulto, è molto più spinoso intervenire. Occorre tutelare diritti diversi e in conflitto tra l’altro: da un lato il diritto alla relazione genitori-figli, dall’altro il diritto dei bambini di ricevere ciò di cui hanno bisogno per crescere.
Son quei casi in cui gli interventi di sostegno da parte della rete parentale – o, in sua assenza, da educatori domiciliari, vicini di casa, famiglie di supporto… – possono diventare la compensazione per ciò che manca.
In alternativa, sono i piccoli ad occuparsi dei genitori. Non che proprio ci siano maltrattamenti o abbandoni, ma una buona inversione di ruoli, quella sì.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, esce su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Quel filo spinato che ci avvolge
mentre l’Europa delle parole va in fumo

 

Tra Polonia e Bielorussia è in atto un altro episodio di guerra fredda caratteristico del secolo americano. La Russia spinge migranti alle frontiere dell’Ue probabilmente aiutata dalla Turchia a cui avrà fatto concessioni per qualche azione che consolidi le sue posizioni in Siria. Lo fa utilizzando quello che è un vero e proprio stato cuscinetto, la Bielorussia, l’ultimo che gli è rimasto dopo aver praticamente perso l’Ucraina a favore degli americani.

Perché lo fa. Cerca di assicurarsi il suo spazio vitale, di alleggerire il contenimento che stanno attuando gli Usa in un tentativo continuo di accerchiamento e di sfondamento delle classiche linee di difesa che furono sovietiche. E’ chiaro che le forze in campo sono a suo sfavore, la Nato può permettersi esercitazioni congiunte ai confini russi, in particolare nei Paesi Baltici dove spesso stazionano anche uomini e aerei italiani pronti a difendere l’Europa dai barbari, e allora Putin usa i migranti per creare scompiglio, rompere l’accerchiamento e poter anche accusare l’Ue di ipocrisia nelle sue politiche migratorie.

La Polonia costruirà un muro di 110 Km che la dividerà dalla Bielorussia e soprattutto dai migranti che vi stazionano desiderosi di raggiungere la civile Europa dei sogni. Progetto approvato dal Parlamento locale ma anche benedetto dal presidente del Consiglio Europeo, il belga Charles Michel, quello che aveva a suo tempo preso il posto a sedere alla signora Von Der Layen alla presenza di Erdogan.

Michel aveva aperto in un discorso a Berlino a muri e filo spinato per bloccare i migranti in arrivo dalla Bielorussia che suona come un’apertura all’uso di fondi Ue per nuove barriere che ha spiazzato i più attenti osservatori, ma anche la stessa Von Der Layen.

E anche la Lettonia si affretta ad approvare la costruzione di un muro ai confini con la Bielorussia, insomma contemporaneamente ai festeggiamenti per la caduta del muro di Berlino e la fine della vecchia guerra fredda ci si affretta a costruirne altri, quasi a dimenticare le critiche europee al muro con il Messico tanto voluto da Trump e lasciato al suo posto da Biden, segno che i muri ci appartengono.

Ci sono conflitti geopolitici in atto che imperi reali (Usa), imperi legati al passato ma desiderosi di nuovo splendore (Russia e Turchia) e imperi del futuro (Cina) stanno combattendo, in Europa e sugli Oceani, ognuno come può e con i mezzi a disposizione. Di questi, solo gli Usa sono presenti dappertutto, contengono la Russia in Europa e la Cina nell’ Indo-Pacifico, sfruttano le mire espansionistiche di Erdogan nel Mediterraneo e nei Balcani. Per i loro scopi strategici utilizzano a piacimento i paesi vassalli, come l’Italia che si lancia in operazioni oltre confine senza interessi nazionali da difendere, e la Nato tutta, per ribadire che l’Europa è americana oppure non è.

Ma oltre alla geopolitica esiste l’essere umano ed esiste una striscia di terra tra Polonia e Bielorussia, fatta di carne e sangue, di adulti e bambini, di terra bagnata e di donne incinte. Fatta di un’umanità sofferente dietro ai fili spinati, ai muri in costruzione, ai traumi delle botte alle frontiere e ai sogni infranti che non solo Putin e Erdogan si dovranno intestare. C’è Biden e c’è tutta l’Europa che è pronta a mostrare i muscoli, a “contenere” i nemici immaginari o reali con i caccia ultima generazione e le esercitazioni continue con la pretesa di essere migliori.

Europa capace di andare e rimanere in Afghanistan vent’anni in una missione fallimentare senza propri interessi strategici o tattici da difendere e capace di gridare al successo perché l’evacuazione è stata fatta in poco tempo e senza particolari traumi, tranne ovviamente per quelli attaccati agli aerei e caduti nel vuoto.

Ma quando arriva il momento di dimostrare di essere davvero qualcosa in più, quando la differenza tra ciò che dici e ciò che fai si materializza dietro l’ennesimo confine, l’Europa delle parole va in fumo. La miglior cosa che riesce a fare è costruire muri, accusare gli altri, trovare giustificazioni, accampare pretese.
E nel frattempo, in mezzo a tante parole, uomini e donne e bambini lasciati al freddo e alla fame per giorni, settimane e forse mesi, tra questi magari afghani che si era giurato di difendere, accompagnare al progresso e alla democrazia. Sarebbe bastato, e sicuramente basta ancora, accoglienza e un pasto caldo.

Le storie di Costanza /
Novembre 2060 – Giornata nazionale del sonno Mezzano

 

Il primo Novembre è un giorno particolare per Pontalba ma anche per tutt’Italia: è la giornata nazionale dei Robot-111, chiamata più comunemente Giornata nazionale del sonno mezzano. In quel giorno i mezzani non lavorano, non puliscono casa, non rispondono al citofono e al telefono, non giocano con i bambini, non cantano. In quel giorno i nostri Robot-111 semplicemente riposano. Se ne stanno fermi immobili, spenti, con gli occhi chiusi seduti sui loro piedi e con le braccia penzoloni. Sono in stand by. E’ il loro giorno per dormire, per ricaricare energie neuronali e elettriche. C’è una discussione aperta tra gli ingegneri del Centro Trescia-111 che riguarda l’utilità di tenerli al buio o, addirittura, al freddo. Comunque sia, l’ultimo giorno di ottobre vengono puliti, nutriti e complimentati per il lavoro fatto nell’ultimo anno, poi vengono messi a riposo. Il giorno seguente qualunque accidente accada, bisogna cavarsela senza di loro.

Si potrebbe pensare che un singolo giorno non sia un problema e invece è l’esatto contrario, senza mezzani si fa fatica a superare le ventiquattr’ore senza incappare in qualche guaio.  A cominciare dai bambini che, essendo abituati a giocare con i loro robot-111, strillano con la speranza che qualche parente preso per sfinimento, li riaccenda. Ma questo non succede. Tutti riconoscono ai robot-111 il diritto di riposare almeno un giorno all’anno e nessuno sgarra.

I mezzani che dormono sembrano morti. Se non fosse per le telecamere degli occhi che si muovono sotto le palpebre abbassate, verrebbe il dubbio che sia giunta la loro fine.
E’ davvero curioso, i nostri robot sognano. Sulla retina compaiono immagini di varia natura e le telecamere si muovono come se stessero vedendo un film. In realtà stanno guardando il loro sogno. Sono nella fase del sonno che corrisponde al nostro R.E.M., quella del sonno paradosso. Nonostante ci si trovi in una fase di sonno profondo, l’attività cerebrale si risveglia con un’alternanza di onde Theta, Alpha e Beta, mentre gli occhi cominciano a muoversi rapidamente (da qui il nome Rapid Eye Movement). E’ come se stessimo guardando un film, in realtà guardiamo i nostri sogni. Il corrispettivo mezzano di questa fase del sonno si chiama RA.CA.M. (Rapid Cam Movement). In questo caso non sono gli occhi che cominciano a muoversi, ma le telecamere che i robot-111 usano per vedere.

La modalità neurologica di far riposare le meningi sognando è simile tra umani e mezzani e, in entrambi i casi, serve per rigenerare il cervello. Ci permette di riposizionare gli avvenimenti della vita intrapsichica dando loro un senso e facilita una rielaborazione delle informazioni in memoria funzionale alla salute di chi sogna.
Ma cosa sognano i mezzani?
Secondo gli ingegneri del Centro Trescia-111 sognano le loro attività diurne e i loro umani di riferimento, mentre non sognano altri mezzani. Non sono interessati o capaci di rielaborare informazioni che provengono dal mondo di mezzo, cioè il loro.

Questa è una grande differenza tra noi e loro. I nostri sogni rappresentano spesso delle relazioni. Nei sogni ci innamoriamo, litighiamo, diventiamo genitori e moriamo. Tali sogni sono molto frequenti e oggetto di strani ripensamenti, in alcuni casi sono perfino in grado di orientare le nostre azioni da svegli. Spesso i sogni umani sanno indicare una via per continuare a camminare nella foresta della vita senza incappare in incidenti mortali. Anche a me è capitato una conoscente che ha deciso di sposarsi dopo aver sognato un matrimonio spumeggiante pieno di fiori, tulle bianco e luce soffusa. Il matrimonio è ben riuscito, funziona da anni e non sembra dare segnali di tentennamento. Meno male.

Altre volte i sogni umani vengono ricordati come costruzioni irrazionali del cervello che non possono orientare delle scelte ma che ci permettono delle strategie bizzarre per vincere alcuni giochi. E’ così che il sogno del “robot-111 che parla” diventa un numero che può servire per scommettere, giocare alla vivarotta e alla mortarella.
I mezzani non sognano i loro simili, così ci hanno sempre detto gli esperti, chissà se è proprio vero. Chi possiede un mezzano particolarmente intelligente sa che il tema è molto più complicato di quel che sembra.

Una volta Axilla ha chiesto a bruciapelo a Cosmo-111: “Cosmo cos’hai sognato stanotte?”
“Ho sognato che pulivo i vetri della tua stanza con una spugna nuova che lucida perfettamente!
Evvava ara prapraa an bal sagna! (evviva era proprio un bel sogno)” ha risposto Cosmo-111, dicendo la seconda frase con parole che contengono una sola vocale, come gli succede spesso.

Le pulizie di casa sono uno dei sogni ricorrenti dei mezzani. E con i sentimenti? Perché non sognano di provare amore, amicizia, dolore, odio, malinconia. “Non li sognano perché non li provano, li imitano solamente” sarebbe la risposta degli ingegneri del Centro-Trescia-111.
A questo proposito, mi viene in mente quando Maia-111 ride con il bambino del giardiniere mentre giocano a nascondino. Si sta divertendo? E’ una specie di “divertimento per imitazione” anche quello?.

Alcuni pensatori eterodossi pensano che nel sistema neuronale dei mezzani esistano sentimenti latenti che riguardano altri umani e di cui non conosciamo la codifica, altri sostengono che c’è qualcosa che permette loro di amare altri mezzani in modo che noi non riusciamo a capire.
La questione anima molti dei dibattiti pubblici di questo 2060 che si avvia alla conclusione. Siamo a novembre, ancora due mesi scarsi e anche quest’anno ci saluterà. Ma sono quasi sicura che uno dei temi di cui si continuerà a discutere anche nel 2061 è proprio questo: come la mettono i nostri mezzani con i sentimenti?. Li provano, non li provano, li provano a modo loro, oppure esclusivamente li imitano?
Nonostante continuino ad arrivare rassicurazioni da parte dei nostri tecnici che le reazioni emotive dei mezzani sono solo imitative, alla maggioranza delle persone viene il dubbio che non sia così.  Il semplice fatto che molte persone pensino che i mezzani sappiano provare dei sentimenti sta cambiando il mondo. Il passaggio dai “sentimenti come riflesso” ai “sentimenti auto-generati” è una frontiera della ricerca filosofica più che tecnica. E’ una esplorazione del mondo del possibile in cui ci può stare quasi tutto e anche il suo contrario. L’amore tra mezzani per ora esiste solo in un mondo immaginato, ma anche così, solo ammettendone la possibilità, apriamo la nostra mente e la nostra fantasia a degli scenari tanto nuovi quanto stupefacenti. Tanto innovativi quanto preoccupanti.  Non sappiamo dove tutto questo potrebbe portare. Sembra pura fantasia, ma sappiano tutti che l’immaginazione ha orientato alcune scoperte, che alcuni scrittori di fantascienza, non si sa come, hanno orientato la tecnica verso nuove frontiere. L’esplorazione dei mari e la conquista dello spazio, ad esempio. Io credo che parlare di sentimenti autentici dei mezzani sia fuori luogo. Cosa succederebbe se un bel giorno un robot-111 facesse una dichiarazione d’amore ad umano e dicesse che lo vuole sposare?. Non voglio neppure pensarci.  Per fortuna allo stato attuale questo non succede. Forse sarebbe necessario chiarire con maggiore vigore che i mezzani non provano sentimenti, il nostro presente sarebbe più semplice e il nostro futuro più realista.

Il primo di Novembre dello scorso anno ho osservato attentamente Cosmo-111 dormire.
Axilla e Gianblu erano andati a fare un giro in bicicletta, Luca era in Università e io ero rimasta a casa con Cosmo-111 che dormiva. Così mi sono avvicinata e l’ho guardato da vicino. Stava sicuramente sognando perché le telecamere si muovevano. Siccome sono apparecchiature elettroniche, si può registrare quello che i mezzani vedono. Così sono andata al PC, mi sono sintonizzata sul sistema neuronale di Cosmo-111 e mi sono messa a guardare ciò che stava sognando.
C’era un cerchio blu che spostandosi dal centro ai bordi sfumava verso il verde, si muoveva come una sostanza molle, quasi liquida, sembrava l’immagine di una galassia. All’interno della massa colorata apparivano delle minuscole bolle bianche, come delle piccole stelle morenti. Ho osservato delle nane bianche (stelle nella loro ultima fase di evoluzione) che si muovevano in un magma dalle intense sfumature verdi, fredde e bellissime. Poi ho messo a fuoco meglio e ho visto di cosa si trattava realmente. Altro che una galassia, Cosmo-111 stava sognando beatamente del detersivo verde e blu. L’ammasso gelatinoso era di un colore bellissimo e le nane banche erano le bollicine di sapone provocate dal detersivo che si stava spandendo sul pavimento.

Mi è davvero venuto da ridere. I nostri robot sognano il detersivo e si compiacciono quando è pastoso, colorato e ricco di sapone. Il sogno di Cosmo-111 è stato per me una visione rasserenante. Fin che i mezzani sogneranno sapone noi potremo sognare passioni e amori senza correre il rischio che il mondo di mezzo ci rubi ciò che davvero ci contraddistingue e ci rende unici all’interno dell’universo. Sono solo i sentimenti umani che, come perle preziose e infuocate, sanno perforare i buchi neri dell’anima e dell’universo.

L’aggressività ai tempi della pandemia

 

Ci sono interrogativi che continuiamo a porci e che regolarmente restano senza risposta, come ad esempio il perché dell’aggressività. Un interrogativo a cui tendenzialmente rispondiamo confondendo i sintomi con le cause. La guerra, come causa delle violenze, ora la pandemia, come causa del disagio giovanile, che sfocia in atti di violenza tra coetanei.

Se fosse così, tutto sarebbe comprensibilmente semplice: cessata la guerra cessano le violenze, scomparsa la pandemia, rientrano il disagio giovanile e con esso gli episodi di aggressione.
Nel dare risposte ai nostri interrogativi tendiamo ad essere condizionati dalle contingenze e dai contesti.

Per cui che un branco di ragazzotti meni un compagno con insulti omofobi e con inni a Mussolini sia un segno dei tempi della pandemia, come ai tempi del colera, francamente andrà bene per farci il pezzo di cronaca o un convegno sull’adolescenza, ma non certo per avere consapevolezza di quello che accade.

È il vizio degli adulti che stanno a guardare e che, una volta individuate le categorie entro le quali classificare il fenomeno, pensano di aver spiegato il mondo e quindi di essere intellettualmente in pace con se stessi.

Freud [Qui] ci ha insegnato che l’aggressività è un dato costitutivo della natura umana, espressione del conflitto tra Eros e Thanatos. Tra il principio di morte e il principio del piacere. Il piacere è vivere, abbracciare la vita contro ogni miasma mortifero, contro i becchini delle nostre esistenze, contro chi coltiva aggressioni e violenze.

Ad Einstein [Qui], che gli scrive interrogandolo sul perché della guerra, Freud risponde che l’aggressività non si può abolire, ma si può indirizzare, deviarla, si può incanalarla, cercando di far emergere l’Eros piuttosto che il Thanatos.

Siamo al dunque. Non siamo necessariamente aggressivi, una pandemia non rende più aggressivi di quanto lo si possa già essere.

Se l’aggressività ci prende, ci fa sbandare, ci induce a violare l’altro come noi, a sottometterlo ai nostri ricatti, ai nostri calci e pugni, al nostro essere branco, è perché qualcuno, che doveva crescere la nostra vita, dalla famiglia alla società, non ci ha insegnato a dirigere le nostre pulsioni aggressive verso la costruzione e la pratica di valori positivi, verso la realizzazione di noi stessi. Non abbiamo incrociato la mano giusta, quella in grado di aiutarci a deviare l’istinto di morte, come dice Freud, per impedire che potesse inquinare la nostra vita e quella degli altri.

Se si legge il Rapporto Istat del 2020 [Qui], al paragrafo La società italiana sotto il lockdown, emerge l’immagine di un paese coeso, con un elevato senso civico, al clima familiare vengono associate parole positive, come ancora di salvezza e fonte di serenità.

Questo quadro dell’Istat nemmeno un anno dopo sembra incrinarsi profondamente, di fronte alle proteste di piazza per le libertà conculcate, ai traumi sociali di giovani costretti alla segregazione.

L’incontro con il male sconosciuto, sempre latente, ha fatto sì che l’aggressività dei più fosse ‘deviata’ a difendere la propria vita e quella degli altri. Ma c’è anche chi quella aggressività ha scelto di orientarla verso Thanatos, scendendo in piazza contro i primi.

‘Vita’ e ‘morte’ sono i poli della violenza e di ogni aggressività e tra questi poli siamo chiamati a scegliere. Ma dobbiamo anche essere consapevoli che senza aggressività non saremmo neppure assertivi, vivremmo senza progetti e senza conflitti.

L’aggressività è un elemento positivo della nostra umanità. Il tema è quello che pone Freud. L’aggressività va deviata, va orientata, va convogliata verso la vita e non verso la morte, per costruire non per distruggere. È dunque opera educativa dacché veniamo al mondo.

Il buon Rousseau [Qui], che non credeva nel peccato originale, nell’innata cattiveria dell’uomo, pensava che ognuno di noi in natura nasce buono e che a corromperlo sia la società, quindi la stessa educazione.

Ora, noi non alleviamo i nostri ragazzi e le nostre ragazze come tanti Émile, lontani dagli influssi della vita sociale, i nostri crescono tra la famiglia, la scuola e la società, luoghi di conflitti e di contraddizioni.

Tante ‘comunità educanti’, per riprendere questa espressione alquanto ipocrita tornata di moda. Perché che una comunità sia educante è tutto da dimostrare, come è da dimostrare che siano educanti la famiglia, la scuola, la società.

Famiglia, scuola e società perseguono fini educativi che vanno per conto loro, che non hanno mai avuto come obiettivo i giovani, ma come semmai difendersi dai giovani, o come sfruttarne la gioventù.

Chi salva i giovani? L’ipocrisia degli adulti? Quella che non manca mai, che denuncia l’arroganza della loro incoerenza, quella che i giovani come Greta additano alle nuove generazioni, perché apprendano a riconoscerla e a difendersi da essa.

Chi dovrebbe incanalare l’aggressività di bambine e di bambini, di ragazze e di ragazzi, fin dalla prima infanzia, da Thanatos a Eros? Quid Game? Se mai serviva, la serie televisiva ha squarciato il velo sull’inettitudine educativa di tanti adulti, a casa come a scuola, degli interessi sociali che sono sempre e prima di tutto di mercato.

Dell’ipocrisia, con cui ci stracciamo le vesti ogni volta che ci troviamo di fronte ad atti di bullismo, di sopraffazione, di squadrismo giovanile, come se il mondo adulto ne fosse esente e non ne fosse corresponsabile.

Euripide [Qui] scriveva più di 2500 anni fa: «Beato l’uomo che ha conquistato la sapienza / che nasce dallo studio della natura; / nessun danno egli reca ai cittadini, / azioni ingiuste non compie, / ma esamina l’immutabile ordine della natura / immortale, cosa la formi, / e come e perché: / non v’è posto nel cuore di un tal uomo / per il proposito di azioni ingiuste».

Dov’è chi possa oggi offrirsi ai giovani, per accompagnarli e assisterli lungo la strada suggerita dal poeta tragico greco? La famiglia, la scuola, la comunità educante?

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

Thomas Kirkpatrick, maestro del Jazz Bebop:
quando un fotografo batte i piedi invece di scattare.

 

Mi è sempre piaciuto ascoltare musica Jazz e Blues, anche se non ne ho un’ottima competenza e conoscenza a livello di artisti. Quando ti piace una cosa, a volte non sai neppure il motivo, ti piace perché ti da un emozione e ti fa sentire bene. Serve altro?

Chissà se gli eventi succedono per caso o se esiste una logica nel nostro percorso esistenziale. Nell’estate del 2020 un amica, con la mia stessa passione per la fotografia, mi chiese di accompagnarla per fotografare una Jazz band che si esibiva a Bondeno di Ferrara, nel parchetto adiacente l’acquedotto del paese matildeo.

Fu lì che conobbi e apprezzai tantissimo il Maestro Thomas Kirkpatrick e la sua band The Jazz Workshop Orchestra.

Il Jazz che stavo ascoltando era qualcosa di più, era un Jazz che entrava e dava ritmo, coinvolgeva, e trascinava il pubblico nella musica che usciva dagli strumenti. Io quasi mi dimenticavo di scattare, incantato dal loro modo di fare Jazz, e non potevo che seguire il ritmo a suon di battiti che continuavo a fare con il piede destro sul selciato.

Continuai a seguire Tom tutta l’estate nelle sue esibizioni.

Ricordo che una sera, una di quelle serate a fine estate, quando ti devi mettere la giacca e il tempo minaccia pioggia, ugualmente il Maestro e la sua Jazz band avevano iniziato a suonare sul piccolo selciato che costituiva il loro palchetto. Al primo tenue gocciolare decise di spostarsi sotto ad un grande albero che fungeva da ombrello, continuarono a suonare come in un apoteosi di strumenti perfettamente in sintonia tra di loro. Noi, il pubblico, ci mettemmo attorno ai musicisti creando come una specie di famiglia.
Tom tolse la sua tromba dalla bocca, si rivolse al pubblico e disse: “Il Jazz è anche questo, sentire il calore del pubblico, il pubblico come parte integrante della  Band.”. Ringraziò e continuò a suonare.

Thomas Kirkpatrick è considerato a pieno titolo tra i più importanti musicisti Jazz al mondo, è nato in Ohio (USA) e suona Jazz Bebop: tempi veloci e melodie tortuose.

Inizia a studiare musica al pianoforte per poi passare alla sua grande passione: il Jazz e la tromba. Frequenta la Bowling Green State University e la Julliard School of Music. Lui stesso, nonostante le importanti scuole di musica, si descrive come essenzialmente autodidatta.
Arriva a Ferrara dopo tantissime tournee, per citarne solo alcune, New York, Giappone, Danimarca e Olanda, dove promuove una prestigiosa scuola di Jazz. E tantissime le sue esperienze con i migliori Jazzisti di fama mondiale, tra cui Billy Higgins, Charles Davis, Chet Baker, Harold Mabern, Lou Donaldson, Walter Bishop, Max Roach, George Coleman e Clifford Jordan.

A Ferrara, durante una tournee, conosce la sua attuale moglie e si stabilisce a Bondeno (FE) dove ora lavora e insegna il Jazz.

Nella stagione invernale, vado ad ascoltarlo in un locale lungo le sponde del nostro Grande Fiume, dove, con la sua The Jazz Workshop Orchestra, ci fa inesorabilmente battere il piede a tempo di Jazz!

In copertina e nel testo: Thomas Kirkpatrick e la sua  The Jazz Workshop Orchestra (foto di Valerio Pazzi)

Colletti bianchi e coscienze nere
Carife: Ferrara porto delle nebbie

Colletti bianchi e coscienze nere. Carife: Ferrara porto delle nebbie

E’ passata in cavalleria una notizia pubblicata, nei giorni scorsi, da La Nuova Ferrara: (leggi qui )

Il Direttore Generale di Carife nel periodo in cui vennero deliberate le operazioni all’origine del dissesto della banca (acuito da una scellerata gestione commissariale e sancito con la “risoluzione” del Governo del novembre 2015), ha concluso un accordo transattivo con Nuova Carife per liberare la propria posizione: Nuova Carife non lo perseguirà più in cambio del pagamento di 500.000 euro.

I soldi li incasserà Bper (che ha incorporato l’ente ponte), ma per girarli al Fondo Nazionale di Risoluzione, vero beneficiario dell’incasso. Infatti, la posta attiva è inserita nel bilancio del Fondo già dal 2019 (leggi qui), per cui la transazione non è recente, ma già abbastanza datata.
E’ diventata di attualità perché il 26 novembre prossimo si terrà una udienza dell’appello contro la sentenza di primo grado del Tribunale delle Imprese, che ha mandato assolto l’ex DG da responsabilità civili verso Nuova Carife. E’ del tutto evidente che i consiglieri di amministrazione (una trentina), chiamati in correità per danni, a questo punto utilizzeranno la transazione dell’ex DG per tarare al ribasso le loro responsabilità. Del resto, se il capo se l’è cavata con 500.000 euro, per quale ragione gli altri dovrebbero pagare di più?

La nota 17, che chiarisce la posta attiva di cui al conto economico nel bilancio del Fondo Nazionale di Risoluzione 2019, recita: ” Per effetto del contratto concluso tra l’FNR e le banche cessionarie per il trasferimento delle partecipazioni delle ex banche ponte, l’FNR ha un potere vincolante di indirizzo nei confronti delle cessionarie con riferimento alle azioni di responsabilità e risarcitorie pendenti che restano nella titolarità di UBI e BPER; ciò in quanto i relativi proventi e oneri sono contrattualmente attribuiti all’FNR” .

Questo significa che, da un punto di vista puramente formale, a stare in giudizio è la banca cessionaria (Bper, nel caso di Nuova Carife), ma dal punto di vista sostanziale è il Fondo Nazionale di Risoluzione (emanazione di Bankitalia) a decidere le azioni e le transazioni, essendo beneficiario degli incassi e dovendo sostenere le spese giudiziarie.

La Banca d’Italia, che attraverso i commissari chiese, con squilli di trombe e rulli di tamburo, 100 milioni di danni ai presunti responsabili del dissesto di Carife, si accontenta di 500.000 euro (cioè lo 0,5 per cento) dall’ex DG e lo libera da ogni responsabilità.

In cambio di un piatto di lenticchie, Bankit spiana la strada ad una serie di richieste di chiusura a ‘tarallucci e vino’ che saranno difficilmente contrastabili, visto il pesantissimo precedente. Il giudice dell’appello ha infatti richiesto l’esibizione, alla prossima udienza, del documento contenente l’accordo transattivo, per valutarne il rilievo giuridico nei confronti degli altri condebitori, che potrebbero essere solidali (cioè richiesti tutti per intero della prestazione, salvo il diritto di regresso sugli altri). Ma essere solidali rispetto a un debito così modestamente valutato ed eppure tale da ‘soddisfare’ Banca d’Italia, aldilà del fatto formale che l’accordo libera solamente l’ex DG, che effetto produrrà sulla misura dei risarcimenti eventualmente stabiliti a carico degli altri? Di sicuro, non la alzerà.

E’ indubbio, peraltro, che la prima mazzata alle speranze di ottenere un riconoscimento delle responsabilità della gestione 2000/2009 nel dissesto di Carife, l’hanno inferta la sentenza di primo grado del Tribunale delle Imprese, e la causa penale, nella quale è stata negata la truffa ai danni di Carife. La sentenza sul filone ‘aumento di capitale’ si è chiusa per adesso con condanne minori ad un limitato numero di responsabili. Rimane in piedi ormai, dei vari filoni processuali, “solo” la accusa di bancarotta per la gestione 2007/2013, la cosiddetta Carife-bis. Su essa incombe il tradizionale incubo italiano delle prescrizioni.

Nessuno era così ingenuo da pensare che i giudici potessero far tornare indietro le lancette della storia economica e sociale. Quel che è perso è perso, la distruzione del tessuto economico e sociale correlata alla fine della banca ferrarese richiederà generazioni per riparare il danno. Tuttavia, l’effetto che produce la dinamica giudiziaria complessiva induce a profondo sconforto. Una amara iniezione di sfiducia nei confronti delle capacità del nostro sistema di colpire le malefatte dei colletti bianchi. La sinistra saldatura tra il clima di Ferrara e il labirinto processuale delle vicende finanziarie che l’hanno messa al tappeto, evoca l’immagine letteraria del “porto delle nebbie”. 

In copertina: Ferrara, corso Ercole d’Este. Foto di Beniamino Marino

PER CERTI VERSI
Io però…

IO PERÒ…

Io però
Sono nato con la morte e la vita
Stretta alla placenta semi rotta di mia mamma
Mi innamorai del libro della giungla e di baloo
Feci nuoto
Presi medicinali
Al mirtillo
Pieno di difetti
Settimino
Scoliosi
Strabismo venere
Ah beh
Busto correttivo
E connerivo
Basket
Sci
Ho amato la vita
Nonostante
Il cancro
Che mi prese
Più morto che vivo
Mi sono trovato
Nel cuore
Amici
Amiche
Per sempre
Mi sento fortunato
E ogni giorno
Regalato

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

PRESTO DI MATTINA
Contare i giorni è raccontarli

 

«Insegnaci i giorni a contare, a cercar la sapienza del cuore. Mille anni ai tuoi occhi che sono? Sono appena il giorno di ieri, quanto un turno di veglia la notte». Nel Salmo 89(90), qui nella traduzione poetica di David Maria Turoldo [Qui], il salmista chiede a Dio di imparare a computare i giorni, perché – nonostante siano pochi: «appena un sospiro, settanta, ottanta se uno è più forte» – contandoli con lui giungerà al tesoro del suo cuore, a quella saggezza che tiene lontani dal farsi degli idoli.

Quella saggezza che ci distoglie dal prostrarsi davanti a loro sacrificando la libertà: che li ripudia riconoscendoli incapaci di relazione, simulacri che ambiscono ad essere imitati per sprofondarci nell’afasia del nulla. Essi trasformano il cuore di carne in cuore di pietra, costringendo all’immobilità quella libertà chiamata invece a erompere nella nostra vita per contare i giorni del proprio cammino.

Gli idoli viceversa non camminano né fanno progredire. Immobili, muti, non vedono, non sentono, non sanno contare i giorni, né conoscono gli itinerari e le strade delle nostre vite, dei nostri racconti, delle storie. Sono queste infatti che aprono la libertà al segreto della sapienza, ponendola in compagnia di cantastorie, trovatori, menestrelli.

«Sapienza in piedi» proclama il diacono nella liturgia ortodossa, quando dalle porte regali dell’iconostasi entra portando il libro dei vangeli. E il sacerdote ripete ancora stando davanti alla santa mensa, rivolto a occidente: «Sapienza, in piedi, ascoltiamo il santo vangelo. Pace a tutti». In piedi per mettersi in cammino con la sapienza: che è illuminazione per il discernimento, consapevolezza originaria e insieme narrativa, e sequela della Parola di Dio in cammino.

Si dice infatti che essa conosca le prime due lettere del Tetragramma del nome di Dio yod, he che aprono il cammino alle altre due, waw, he e poi scorrono e si rincorrono per tutto l’alfabeto ebraico. Nel quale, come noto, viene conferito un valore numerico ad ogni lettera, che ne fa traboccare il senso, amplificandolo e arricchendolo con storie e racconti: ed è proprio per questi cammini narrativi, contando e raccontando i giorni, che Dio intreccia la sua parola, facendosi conoscere nelle storie del suo popolo e in quelle di tutti i popoli.

La sapienza che racconta sa percepire nella realtà la pluralità dei linguaggi. In essi si traduce e si esprime svelando la verità delle cose, pur nei suoi aspetti sempre differenti: perché la sapienza sa dire in molti modi il vero della vita. Senza chiudere i giudizi in modo definitivo, essa opera pure una sospensione del giudizio per liberarsi dai pregiudizi e così restare ospitale, anche nella conflittualità, nei paradossi, lasciando un poco socchiusa la porta anche alle storie impossibili, andando in cerca di quelle perdute.

Un cuore saggio è così un cuore palpitante perché narrante. Giorno dopo giorno il suo ritmo è fatto di battiti e di cadenze, di inizi e interruzioni, di riprese e di aggiunte. Dopo ogni pausa ecco un nuovo inizio, come lo scorrere del computare e le pause del narrare.

La parola detta si interrompe, viene lasciata in sospeso; un soffio di silenzio e poi riprende, così come si interrompono al sorgere dell’aurora i racconti della giovane Shahrazād che – contando anche le notti non solo i giorni, avendo nel cuore la cura degli altri e computando per mille e una notte – giunge a quella saggezza capace di cambiare il cuore di Sciahriar, il principe di Persia, facendolo infine rinsavire dai suoi propositi insipienti.

Nella Bibbia, contare è raccontare. Questo deriva dal precedente ed entrambi sono generativi di cambiamento: i numeri cambiano sempre all’infinito, i giorni non sono tutti uguali, al pari delle storie che si vanno narrando: «Manda una sua parola ed ecco si scioglie in altre parole, fa soffiare il vento e scorrono le acque dei racconti» (cf. Sal 147).

Contare i giorni significa fare memoria e ritornare al vissuto e alle sue storie per inserirle in una storia più grande, nuova, in una trama narrativa che racconta di liberazione dal male e di un futuro continuamente riaperto da una presenza costante e fedele, capace di aprire varchi di vita alle nostre storie interrotte.

Narrare per ricordare, per tornare su quanto abbiamo vissuto, per inserire i singoli eventi in una mappa di senso, in una trama che non è solo già narrata ma ancora da narrare, che ci colloca nell’orizzonte più ampio di una storia di salvezza (narratio salutis), facendoci partecipi, colloquiali e narratori del mysterium liberationis.

Non c’è futuro senza memoria. Non c’è memoria senza narrazione, ma c’è narrare e narrare: come vi è una memoria autoreferenziale e una memoria che trasforma, così è pure quando si contano e narrano i giorni per giungere ad un cuore saggio. Occorre scegliere.

Nel Deuteronomio la memoria continuamente intreccia il quotidiano “Ricordate, fate memoria”, diceva Mosè al suo popolo. Lo sguardo profetico sul futuro parte e si sviluppa partendo dalle radici della memoria e vivendo la concretezza del tempo presente.

Nel messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali papa Francesco ha domandato, ricordando un passo dell’Esodo, che la vita si faccia storia: «“Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria” (Es 10,2). Nella confusione delle voci e dei messaggi che ci circondano, abbiamo bisogno di una narrazione umana, che ci parli di noi e del bello che ci abita. Una narrazione che sappia guardare il mondo e gli eventi con tenerezza; che racconti il nostro essere parte di un tessuto vivo; che riveli l’intreccio dei fili coi quali siamo collegati gli uni agli altri».

Così anch’io vorrei fare memoria del nostro Sinodo diocesano (1985-1992), contarne i giorni a quanti, venuti dopo, non ne hanno memoria. Riaffiora in me il detto evangelico del perdere e del ritrovare la propria vita (Mt 10,39) ogni volta che il pensiero va al Sinodo diocesano e alla sua breve ma intensa recezione. Vale ancora per me l’impegno a viverlo come un mandato ricevuto dal vescovo Luigi Maverna [Qui]: “Ecco il dovere di camminare insieme… andando a tutti”. Ogni volta facendo questo, è la comunità che si ritrova.

In quel tempo scoprii e compresi in modo nuovo il senso di essere chiesa e il mio ministero con i confratelli e tra la gente. Ricordando la lettera pastorale del vescovo Filippo Franceschi [Qui]: “Amiamo questa Chiesa” – in occasione delle celebrazioni dell’VIII Centenario della Consacrazione dell’Altare della Basilica Cattedrale di Ferrara (8 Maggio 1177 – 8 Maggio 1977) – scritta proprio alla vigilia della mia ordinazione presbiterale, in essa egli diceva: «Camminare insieme non è uno slogan: può indicare un programma…Vuol dire in ogni caso andare avanti insieme, sapendo modellare il proprio passo su quello degli altri».

Posso dire che ho imparato al sinodo ad amare le persone nella chiesa e fuori di essa in un modo nuovo. Anche ora, il più delle volte, come un fiume carsico, non ho mai dismesso l’impegno di praticare stili di sinodalità permanente.

L’unità pastorale ne costituisce oggi l’orizzonte verso cui camminare, realizzando così ciò che Helder Camara [Qui], venuto a Ferrara nel 1979, quasi profeticamente aveva anticipato nella sua riflessione una prospettiva sinodale per la nostra chiesa: “Se si sogna da soli, è solo un sogno. Se si sogna insieme, è la realtà che comincia”.

I sogni, poi, non si perdono, ma si nascondono e si risvegliano quando li raccontiamo agli altri; diventano contagiosi, soprattutto se narrano di quegli incontri e pratiche, di quelle giunture di comunione che sono state capaci dentro di te di alimentare la passione e la gioia di essere chiesa per gli altri e chiesa unita: è il sogno che si realizza quando viene alla luce nella realtà quotidiana.

«È bello guardare agli anni del nostro Sinodo, – scriveva il vescovo Maverna nel 1993 – come a una stagione della Chiesa di Ferrara-Comacchio. Anni di consultazione e di confronto, di riflessione e di approfondimento. Stagione in cui la nostra piccola realtà è stata esaminata alla luce della natura e della missione della grande Chiesa. Missione che ha in sé motivazioni e forze per rinnovarsi sempre e camminare, procedere e precedere profeticamente, informare e stimolare la storia del mondo di oggi, dai ritmi e dagli avvenimenti accavallantisi e sorpassantisi vertiginosamente.

Idea del Sinodo è stata quella di persuadersi e ripersuadersi che la Chiesa non è stata voluta per sé, ma per il mondo, la sua salvezza e la sua vita. Mediante la Parola di Dio, i Sacramento di Cristo, la testimonianza della carità. Per essere a servizio, con tutti i suoi membri e ai vari livelli, come comunità.

Attorno a questa convinzione di fondo e di sempre, per ogni piano pastorale – dopo le premesse tracciate da s. e. Mons. Filippo Franceschi, di v. m. – ci si è interrogati via via in tre momenti o fasi: parrocchiale (1986 – 1989), vicariale (1991) e diocesana (1992). [Anche qui si è voluti iniziare dal basso dalle narrazioni della gente] L’intervallo (1990) è stato occupato dalla preparazione alla visita pastorale del nostro Papa Giovanni Paolo II (22-23 settembre 1990), ed è stato una pausa molto operosa e fruttuosa per il nostro Sinodo.

Se da un lato ha significato, con l’ascolto del supremo maestro della Chiesa, la volontà di vivere costantemente secondo le indicazioni del Magistero, dall’altro ha raccolto il contributo specifico che dai discorsi pontifici è stato donato alla comunità di Ferrara-Comacchio, tanto per gli ambiti della vita ecclesiale, quanto per i settori dell’attività pastorale. Le parole allora rivolteci costituiscono i documenti primi del Sinodo e le più autentiche direttive del lavoro post-sinodale.

La stagione sinodale, apertasi con l’intenzione di sottolineare principi di fondo e offrire pochi concreti e mirati orientamenti, ha visto nel suo svolgersi il prevalere della prima tendenza. E ci si è soffermati maggiormente.

Il Sinodo, pertanto, è continuato nel 1993. E, ora, continua ancora nella vita. La sinodalità – espressione della comunione, tanto invocata e tanto gustata nell’esperienza delle riunioni e degli scambi di opinione – deve continuare. È una dimensione qualificante la Chiesa. Viviamola!», (dal Libro del Sinodo).

Una recezione, quella del sinodo diocesano, che è durata appena pochi anni. E tuttavia non credo che essa sia finita per me, anche se sono mutati con i vari episcopati gli orientamenti e gli stili pastorali indicati negli anni successivi. Perdersi per ritrovarsi è del resto la logica evangelica dell’amore. E dentro me le parole di Gesù hanno sempre evocato, per raffigurarmi la recezione sinodale, la figura del fiume carsico.

Il Sinodo è rimasto sempre presente, nascosto e affiorante nella nostra Chiesa come un fiume carsico: risonanza e insieme provocazione di un camminare insieme che mi ha fatto sentire la profezia di essere Chiesa povera con i poveri, Chiesa missionaria per amore del vangelo, Chiesa comunione tra noi e in dialogo con la gente. Un’immagine, quella del nascondersi e dell’affiorare di nuovo, che ho ereditato da mio nonno Giuseppe e dai suoi racconti della prima guerra mondiale sul Carso quando mi spiegava per l’appunto la morfologia di questo singolare fenomeno fluviale.

Ricordando il Sinodo diocesano bisogna però distinguere anche oggi tra ricordo e ricordo. Praticare una cultura della memoria e attualizzarne la narrazione è possibile solo se si hanno gli occhi aperti sull’oggi. Con gli occhi aperti e rivolti in avanti il ricordo non rimane prigioniero del passato, immobilizzato nel tradizionalismo che è tradimento della memoria umana e cristiana, ma diventa invece generativo di rinnovamento, quando si incarna di nuovo nella storia, perché confronta e prende atto di cose che altrimenti non vedrebbe nell’oggi, permettendo così di proseguire in un cammino iniziato prima.

Ci sono ricordi e narrazioni con cui ci autoconfermiamo ed altri che invece ci trasformano, ci cambiano. Credo che il Sinodo abbia dato a quanti si sono lasciati coinvolgere nelle sue narrazioni la coscienza di una Chiesa che può cambiare, che può rinnovarsi insieme; e questa è stata pure la sua intenzione iniziale: la recezione del rinnovamento conciliare nella vita e nella missione della nostra Chiesa chiamata ad evangelizzare la nostra terra.

Il Sinodo fece propria quella duplice polarità di una Chiesa consapevole della sua missione, con uno sguardo al particolare della nostra realtà e all’intero della nostra situazione e territorio. Significative furono le innumerevoli assemblee cittadine, risvegliando lo stile dialogico e la forma relazionale, sinodale appunto, della Chiesa di allora, che si interrogava su se stessa e sulla sua vocazione in dialogo con la società.

Ogni cammino sinodale nasconde una profezia, ma pensando a Shahrazâd [Qui], interrompo qui il racconto. Lo continuerò il prossimo sabato, presto di mattina.

«… Non aveva ancora terminato il racconto quando spuntò il giorno. Shahrazâd tacque. Il re, palesemente molto imbarazzato, si chiedeva come doveva fare per conoscere la fine della storia. Quando Dunyâzâd scorse il chiarore dell’alba esclamò:Sorella, quant’è bello e straordinario il tuo racconto!“».

«”Quello che avete sentito” insinuò allora la narratrice “non è niente in confronto di quello che mi propongo di rivelarvi domani notte… se sono ancora in vita e se il re mi concede una proroga per raccontarlo. La mia storia contiene infatti numerosi episodi ancora più belli e straordinari di quelli che vi ho fatto gustare”. “Sì, narraci presto il seguito del racconto di ieri”, insistette il re. “Che cosa è accaduto al nostro eroe? Muoio dalla voglia di saperlo”. “Volentieri, fortunato re” rispose Shahrazâd. “Con amore e con rispetto ti obbedirò”».

«E continuò in tal modo a dipanare il filo dei suoi racconti, interrompendolo alla fine di ogni notte e riprendendolo nel corso della notte successiva, sempre con il permesso del re Shahriyâr… E mille e una notte trascorsero».

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Adelaide e la rabbia degli angeli – un racconto

Quello di settembre era il primo sabato che Adelaide avrebbe trascorso lontano dalla propria casa. La porta chiusa, serrata. Sono passata più volte, nessun movimento.
Esattamente quindici giorni prima, quell’anziana signora, mi aveva fermata davanti al proprio cancello mentre passeggiando mi godevo le ultime ore di sole estivo.
Mi mettono via” mi disse quella frase annuendo più volte il capo.

La guardai incredula. E’ così energica Adelaide, non si riposa un attimo: sposta le piante, stende i panni, coltiva il suo orto, gioca con il suo cane.
In una delle tante occasioni nelle quali mi ero fermata a parlare con lei, mi aveva confessato che spesso la notte faticava a dormire
– “Se sono stanca, perché magari mi muovo tutto il giorno, dormo. Non voglio prendere farmaci. A volte guardo la televisione, mi bevo un po’ di latte e anche se mi riaddormento verso mattina nessun problema, a pos star a let – mi diceva sorridendo mostrandomi le gengive e dando libero sfogo all’inflessione dialettale.

Mi mettono via e non me l’aspettavo”. Mi ripete. “Ora tocca a me. Spero di morire presto. Vado in una casa famiglia vicino ad una mia cugina che mi può venire a trovare. Poi se sarà così non lo so.

Non lo merito… ho lavorato tanto, mi sono fatta questa casa da sola. Mio marito è morto quando la casa era in costruzione, tre figli da tirar su, erano piccoli. Cosi non me l’aspettavo”. Allarga le braccia in segno di resa. A cosa si arrende? Alla decisione dei figli, alla vecchiaia, alla difficoltà di vivere in una società all’apparenza semplificata, ma in realtà sempre più complicata? Non lo so e non lo sa nemmeno lei.

Mi commuovo, sento il suo dolore. Le dico che sicuramente la porteranno ogni tanto a rivedere la sua casa. Mi dice che è meglio che non la riveda più. Se così deve andare, cosi vada.

La sera mentre preparo la cena cerco di pensare che in fondo Adelaide potrebbe anche star bene nella “Casa Famiglia”. Sono poi cose materiali che lascerà e se fosse morta le avrebbe lasciate comunque.

Ma è viva e vivi sono i ricordi e i desideri che accompagneranno le sue giornate.

Mi viene da pensare a quando a volte in casa mi guardo le foto di quando ero giovane, delle gite, delle vacanze e trovo bella la mia vita, la mia gioventù.

Penso a quando sono sola e decido di non cucinare, di mangiarmi un panino in santa pace, guardando la TV o leggendo un libro ascoltando il rumore del silenzio; o a quando canto sotto la doccia senza che nessuno si chieda se sono impazzita. A volte chiamo un’amica anche se sono le dieci di sera. Non disturbo nessuno.

Se lo fa anche lei sono piccole libertà che le mancheranno.

Volare con la mente senza la briglia degli anni, senza doverne dar conto a nessuno.

Anche Adelaide è uno spirito libero, sempre indaffarata a gestire le sue giornate. Quando era tempo di raccogliere l’uva mi preparava i “sugali** e me ne dava una ciotola. Quest’autunno mi mancherà quel gesto di ringraziamento dettato dal fatto che a volte mi fermavo a parlare con lei.

Ci si pensa tante volte al fatto che se si ha la fortuna di non morire giovani si diventa vecchi. Si pensa di arrivare a quel giorno organizzati, preparati; invece a volte qualcuno deve decidere per noi. Come si fa…? non c’è alternativa.

All’inizio della mia carriera come infermiera ho lavorato alla “Casa di Riposo”. Non ho mai visto maltrattare nessuno, però quando era ora di mangiare si mangiava, quando era ora di dormire si dormiva, quando era ora di lavarsi ci si lavava, quando era l’ora del silenzio si taceva.

Io ero destinata agli autosufficienti, ma anche per loro c’erano rituali dettati dall’organizzazione. I familiari che venivano a trovare il proprio congiunto si contavano sulle punte di tre dita. Sembravano persone senza passato, senza storia, catapultate in un mondo senza futuro. Si sarebbero potuti alzare dal loro letto, ma nessuno lo faceva, a meno che non dovesse andare al bagno.

Alzarsi e camminare, camminare per andare dove?

Oggi è tutto cambiato. Ne sono sicura.

Tre giorni prima della partenza Adelaide impreca, rompe anche dei piatti. Impreca contro il passato, contro gli anni augurandosi che ne rimangano pochi, impreca contro tutto quello che non immaginava andasse così.

La sera, leggendo, anche l’ultimo libro che ho comprato mi parla della vecchiaia. Sembra una congiura verso i miei pensieri.

“Gli ultimi sei anni di vita sono i più costosi, dolorosi e solitari, sono anni di dipendenza e, con una terribile frequenza, sono anni di povertà. Solitamente l’ultima fase è tragica, perché la società non è preparata a gestire la longevità”, scrive Isabel Allende  (Donne dell’anima mia, Feltrinelli). Circa quarant’anni fa lessi un libro di Sindney Sheldon dal titolo La rabbia degli angeli. No, non ricordo più la trama, ma mentre passo davanti a casa di Adelaide e la sento imprecare, mi viene da associare quel titolo al suo nome.

 

DDL Concorrenza: privatizzazioni su larga scala. Una dichiarazione di guerra all’acqua e ai beni comuni

 

Era il 5 agosto 2011 quando l’allora Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, insieme al Presidente della Banca Centrale Europea Jean-Claude Trichet, scrisse la famigerata lettera al Presidente del Consiglio Berlusconi in cui indicava come necessarie e ineludibili “privatizzazioni su larga scala” in particolare della “fornitura di servizi pubblici locali“.

Uno schiaffo ai 26 milioni di italianə che poco più di un mese prima avevano votato ai referendum indicando una strada diametralmente opposta, ossia lo stop alle privatizzazioni e alla mercificazione dell’acqua.

Oggi Draghi, da Premier con pieni poteri, ripropone in maniera esplicita e chiara quella stessa ricetta mediante il DDL Concorrenza approvato dal Consiglio dei Ministri giovedì scorso. La logica che muove l’intero disegno di legge, oltremodo evidenziata nell’art.6, è quella di chiudere il cerchio sul definitivo affidamento al mercato dei servizi pubblici essenziali.

Un provvedimento ispirato da un’evidente ideologia neoliberista, in cui la supremazia del mercato diviene dogma inconfutabile nonostante la realtà dei fatti dimostri il fallimento della gestione privatistica, soprattutto nel servizio idrico: aumento delle tariffe, investimenti insufficienti, aumento delle perdite delle reti, aumento dei consumi e dei prelievi, carenza di depurazione, diminuzione dell’occupazione, diminuzione della qualità del servizio, mancanza di democrazia.

Questa norma, di fatto, punta a rendere residuale la forma di gestione del cosiddetto “in house providing”, ossia l’autoproduzione del servizio compresa la vera e propria gestione pubblica, per cui gli Enti Locali che opteranno per tale scelta dovranno “giustificare” (letteralmente) il mancato ricorso al mercato.

Nel DDL emerge chiaramente la scelta della privatizzazione. Gli Enti Locali che intendano discostarsi da quell’indirizzo dovranno dimostrare anticipatamente e successivamente periodicamente il perché di altra scelta, sottoponendola al giudizio dell’Antitrust, oltre a prevedere sistemi di monitoraggio dei costi”, mentre i privati avranno solo l’onere di produrre una relazione sulla qualità del servizio e sugli investimenti effettuati.

Inoltre, si prevedono incentivi per favorire le aggregazioni, indicando così chiaramente che il modello prescelto è quello delle grandi società multiservizi quotate in Borsa, che diventeranno i soggetti monopolisti (alla faccia della concorrenza!) praticamente a tempo indefinito. Tutto ciò in perfetta continuità con quanto previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

Ed è proprio dal combinato disposto tra PNRR, DDL sulla concorrenza e decreto semplificazioni (poteri sostitutivi dello Stato) che il governo intende mettere una pietra tombale sull’esito referendario, provando così a chiudere una partita che Draghi ha iniziato a giocare ben 10 anni fa dimostrando, oggi come allora, di fare solo gli interessi delle grandi lobby finanziarie e svilendo strumenti di democrazia diretta garantiti dalla Costituzione.

L’art. 6 è un proditorio attacco alla sovranità comunale: i Comuni da presidii di democrazia di prossimità vengono ridotti a meri esecutori della spoliazione della ricchezza sociale. E’ il punto di demarcazione tra due diverse culture, quella che considera un dovere il rispetto e la garanzia dei diritti fondamentali e quella che trasforma ogni cosa, anche le persone, in strumenti economici e merci.

Noi continueremo a batterci per la difesa dell’acqua, dei beni comuni e dei diritti ad essi associati e della volontà popolare.

A questo scopo, nelle prossime settimane, a partire dalla manifestazione nazionale in programma il 20 novembre a Napoli, in cui chiederemo con forza anche lo stop alla privatizzazione delle partecipate della città partenopea (tra le quali l’azienda pubblica “Acqua Bene Comune”) paventate in questi giorni, metteremo in campo una rinnovata attivazione per ottenere il ritiro di questo provvedimento, al pari del DDL Concorrenza e dei famigerati intendimenti in esso contenuti.

Facciamo appello alla mobilitazione generale, rivolgendoci alle tante realtà e organizzazioni sociali che in questi anni hanno saputo coltivare e arricchire un dibattito e una mobilitazione sui servizi pubblici locali e sui beni comuni, per ribadire insieme che essi sono un valore fondante delle comunità e della società, senza i quali ogni legame sociale diviene contratto privatistico e la solitudine competitiva l’unico orizzonte individuale.

Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua

Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua
Siamo quelli che vogliono l’acqua pubblica, quelli che credono che un bene universale fondamentale per la vita non debba essere affidato alle logiche del mercato e del profitto. Quelli che insieme alla più vasta coalizione sociale mai vista in questo paese e a milioni di cittadine e cittadini, hanno vinto i referendum per l’acqua bene comune del 12 e 13 giugno 2011. www.acquabenecomune.org/

IL PIANO DRAGHI LAMORGESE:
privatizzare, vietare i cortei, comprimere la democrazia

 

Come nel più prevedibile dei copioni di teatro, dopo aver sapientemente preparato il terreno per un paio di mesi, il cerchio si chiude e il governo Draghi-Lamorgese porta l’affondo finale: nell’Italia della ripresa-resilienza sarà vietato manifestare.

L’esito è stato preparato attraverso diverse tappe.

La prima avviene il 9 ottobre, quando una “sconsiderata” gestione dell’ordine pubblico a Roma permette un assalto di gruppi neofascisti alla sede nazionale della Cgil, dopo averlo annunciato due ore prima dal palco di Piazza del Popolo.

La seconda avviene in vista del G20 del 30-31 ottobre, quando si costruisce una campagna di stampa di tre settimane su allarmi inesistenti in riferimento alle manifestazioni dei movimenti sociali, che portano esercito per strada e cecchini sui tetti a fronteggiare nientepopodimeno che la giovane generazione ecologista dei Fridays For Future. Naturalmente la buona riuscita delle mobilitazioni viene attribuita al Ministero dell’Interno che ha “impedito” alle stesse di produrre disagi all’ordine pubblico.

Serve la goccia per far traboccare il vaso: ed ecco l’annuncio di un possibile cluster di contagiati dovuto alla ripetute manifestazioni No Green Pass nella città di Trieste e la presa di posizione del Sindaco della città, il quale, senza nessun senso delle proporzioni e del ridicolo, richiede a gran voce l’adozione di leggi speciali: “come ai tempi delle Brigate Rosse”.

Il pranzo è servito e il governo Draghi – non contento di aver imposto un Parlamento embedded, totalmente allineato alle sue scelte politiche sul post pandemia – prova a risolvere anche l’altro polo del problema, rappresentato dal conflitto sociale.

Ed ecco il nuovo pacchetto di provvedimenti annunciato sugli organi di stampa dalla Ministra Lamorgese, la quale, naturalmente non disconosce il diritto a manifestare (art. 21 della Costituzione), ma lo colloca dopo il “diritto” dei cittadini a non partecipare ai cortei (come se fosse obbligatorio) e dopo il “diritto” dei commercianti a poter trarre gli usuali benefici dallo shopping festivo e, ancor più, natalizio prossimo venturo.

Saranno vietati i cortei nei centri storici delle città, in tutte le vie dei negozi e in prossimità dei punti sensibili. E, come se non bastasse, laddove non ci siano “particolari esigenze e garanzie” – chi le stabilisce? – saranno vietati i cortei in quanto tali e permesse solo manifestazioni statiche e sit-in.

Il quadro è sufficientemente chiaro. La pandemia ha messo in evidenza tutte le contraddizioni e la generale insostenibilità di un modello di società basato sull’economia del profitto. Il governo Draghi si è imposto il compito di proseguire con quel modello costi quel che costi.

Ed ecco allora un Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNNR) tutto rivolto ad accontentare le imprese e a mortificare il lavoro e i suoi diritti; una politica fiscale volta a liberare i ceti abbienti dalle insopportabili imposte, di nuovo scaricate su lavoratori e pensionati; una transizione ecologica interamente vocata al greenwashing; una nuova ondata di privatizzazioni di tutti i servizi pubblici locali; un attacco alla povertà, attraverso provvedimenti vergognosi come il tentativo di restringere il reddito di cittadinanza e di comprimere l’indennità alle persone con disabilità.

Tutte misure che, com’è ovvio, acuiranno il disagio delle persone e produrranno rabbia e conflitto sociale. Come risolverlo? Non c’è problema, basta vietarlo.

D’altronde, non è da tempo che i grandi poteri finanziari dicono che le Costituzioni dei paesi del Sud Europa sono poco adatte alla modernità perché troppo intrise di idee socialiste?

Marco Bersani, Attac Italia

Questo articolo è apparso con altro titolo su Attac Italia il  9 novembre 2021

SUM, ERGO COGITO
Essere liberi vuol dire pensare.

 

Quando sento dire, e non da ragazzi ingenui e spontanei, che l’obbligo della certificazione verde implica togliere la libertà e che rappresenta un provvedimento paragonabile alle leggi fasciste, mi sento sconfortata. Sconfortata non solo perché questo indica che si è persa la capacità di usare la logica, ma soprattutto perché dimostra che lo studio della storia come maturazione di società, cultura e umanità sta scomparendo Una storia ridotta alla sola acquisizione di un accumulo indiscriminato e una giustapposizione di dati, senza riflessione.

La creazione del green pass è stata fatta proprio per garantire la libertà di tutti: se ci fosse stato l’obbligo del vaccino questa misura non sarebbe stata necessaria, ma il governo per adempiere al suo compito democratico l’ha ideata e implementata per rispettare due diritti: la salute di tutti e la libertà.
E’ è una garanzia reciproca. Una garanzia, seppur minima, per chi è vaccinato di interagire con chi non lo è senza rischi eccessivi, e per chi non è vaccinato di non essere causa di contagio agli altri.

Considerare il green pass un modo occulto di costringere la gente a vaccinarsi, come hanno insinuato le Destre e alcuni mezzi di informazione, è una lettura malevola che non rispetta questa intenzione democratica. È una presa di posizione gratuita che la Destra ha esercitato sul governo semplicemente per mostrare il suo potere, facendo azione di disturbo. Eppure, il compito dell’ Opposizione non dovrebbe essere di andare semplicemente contro al governo, ma rappresentare i temi delle minoranze che compongono la società, rendendo più democratica l’azione del governo. L’Opposizione fine a sé stessa crea instabilità, non democrazia.

La politica e le leggi vanno interpretate secondo i valori dell’umanità: altrimenti anche i principi su cui si basava il processo di Norimberga decadono. Eichmann non doveva essere giustiziato perché pedestre esecutore di leggi scritte. E anche Carola Rackete, la comandante della Sea Watch, doveva lasciar morire decine di persone per rispettare il Decreto Sicurezza–bis.

Queste ultime sembrano affermazioni retoriche, invece è una realtà che si sta attuando, per esempio, nel caso Riace.
Sono 15 sabati consecutivi che vediamo rumorose manifestazioni contro il green pass, mentre per la condanna a tredici anni di carcere di Mimmo Lucano per aver salvato delle persone e per aver trasformato una situazione di emarginazione in un motore di innovazione e sviluppo, non ce n’è stata che una sola, pressoché ignorata dai mezzi di comunicazione. E’ una nuova conferma che la stampa non svolge un servizio alla democrazia, ma segue piuttosto le leggi di mercato. E questo dovrebbe indignarci profondamente a prescindere dal nostro schieramento politico.

Sicuramente Mimmo Lucano per realizzare un progetto di accoglienza degno di quella che storicamente è stata la cultura italiana ha dovuto forzare dei regolamenti burocratici, in un paese e in un contesto nel quale la burocrazia per mantenere il proprio potere di controllo è arrivata, come spesso accade, alla disumanità se non addirittura all’assurdo.

Sappiamo ancora cos’è la democrazia?
Ci ricordiamo che la democrazia altro non è se non il tentativo di rendere storica e permanente la capacità di un’organizzazione di armonizzare l’esercizio della libertà personale – non solo individuale – con il bene comune? Che è lo strumento che permette di trasformare gli individui da atomi separati e in contrapposizione in soggetti intercomunicanti, solidali e collaborativi? Alla fine, vogliamo chiederci se siamo esseri che si limitano ad esprimere le leggi della chimica e della fisica, oppure se siamo esseri liberi che danno senso alla vita qualificandola secondo i propri valori di condivisione e comunione?

Avvenimenti come questi fanno emergere la superficialità dei comportamenti delle persone e l’incapacità di riflettere sulla realtà che diventa sempre più complessa e sempre più esigente. Questa è una conseguenza del depotenziamento della scuola pubblica, inteso sia per quanto riguarda gli investimenti e la percentuale di spesa pubblica, sia perché il ruolo della scuola è stato reso sempre più marginale nell’organizzazione generale della società stessa. La conseguenza immediata è che non si dà più peso e tempo alla necessità di pensare.

Cosa vuol dire pensare?  Oggi la scuola non lo insegna più.
L’istruzione pubblica manca doppiamente a questo ruolo di costruzione del pensiero: prima di tutto, eliminando l’educazione civica ha privato le nuove generazioni dell’abitudine a riflettere su cosa sia la democrazia, privandole anche delle nozioni di base relative alle istituzioni che la reggono e alle loro funzioni.
Il risultato paradossale è che la gente accusa il governo di non essere democratico e poi non va a votare. Questa mancanza di elementare educazione e cultura civica ha reso possibile l’impoverimento del linguaggio tanto da permettere la confusione tra concetti quali potere, politica e partito, che vengono usati come sinonimi, quando i loro significati non sono affatto coincidenti.
Altrettanto grave è che la scuola oggi non sia più finalizzata a educare la persona a sapere chi è, chi vuole essere e dove vuole andare, ma semplicemente a essere funzionale a una logica capitalistica che ha come scopo quello di avere successo, dove il successo si identifica solo con il diventare ricchi.

Oggi la scuola non insegna che pensare è entrare dentro il significato delle conoscenze e includerle in un processo storico e all’interno di un contesto. Pensare vuol dire dare senso e significato reale alle parole, considerandole nella complessità del ragionamento in cui sono espresse. Per questo pensare ti rende libero: perché ti permette di sapere chi sei e chi vuoi essere, ti aiuta a individuare i criteri per riconoscere dove sei, sapere che ci sono gli altri e ti rende consapevole anche di possedere gli strumenti per esprimere tua soggettività mettendoti in relazione e non in contrapposizione con l’altro. Senza conflitto.

Quando la scuola tornerà ad insegnare a pensare e ad essere creativi?  Quando riconoscerà il valore profondo di ogni persona? Quando riconoscerà che la persona, proprio perché unica e libera, è la risorsa che l’umanità attende per crescere e diventare sempre più libera e capace di individuare e rispondere al desiderio di una vita felice per tutti?

VITE DI CARTA /
Sul rileggere i libri e di altre cose preziose

Mi trovo nella felice condizione di preparare l’incontro con la scrittrice Donatella di Pietrantonio [Qui] che avverrà il 23 novembre prossimo alla Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea [Qui]. Lavoro alla rilettura dei suoi romanzi insieme alla amica e collega di sempre, Maria Calabrese. Ci diciamo dubbi e apprezzamenti, ci emozioniamo insieme davanti alla scrittura così intima e vibrante degli ultimi due romanzi che l’autrice ha pubblicato: L’Arminuta nel 2017 e Borgo Sud nel 2020.

arminutaLa qualità di L’Arminuta si è già sedimentata nel panorama letterario italiano degli ultimi anni: nello stesso 2017 ha vinto tra gli altri il Premio Campiello e il 21 ottobre scorso è uscito il film omonimo, diretto da Giuseppe Bonito e apprezzato in primis dalla scrittrice che ha partecipato alla sceneggiatura. Siamo andate a vederlo e ci è sembrato un film intenso, pieno di sensibilità e verità interiore come certe poesie dai tratti prosastici, armoniose e scabre al tempo stesso.
Ci è servito per procedere a quella lettura di scavo dentro ai testi che rappresenta il nostro ideale di lettura.

 

borgo sudOra siamo intente a ripercorrere Borgo Sud e lo scavo si fa pieno di gallerie e cunicoli affondati nel passato della narratrice, la stessa di L’Arminuta, che anche qui non dice il proprio nome e che in ogni capitolo parte dal presente ma presto si lascia prendere dai ricordi.
Il presente è un tempo doloroso: è arrivata da Grenoble per assistere la sorella che ha subito un grave incidente domestico. Occorrono due settimane perché Adriana possa uscire dal coma e nei giorni e soprattutto nelle notti dell’attesa la narratrice ripercorre le fasi del loro passato in famiglia e del suo, con l’esito di restituirsi a se stessa, di mettere alla prova le proprie scelte e corroborarne la validità. Anche Adriana del resto viene ripensata alla luce della propria indole e della vita arruffata che ha condotto.

Abbiamo riletto per intero Borgo sud, abbiamo riempito le pagine del libro e alcuni nostri foglietti di note scritte a matita, di richiami tra pagine ora lontane ora vicine. Ci sono venute in mente ipotesi a cui non avevamo pensato durante la prima lettura, che pure risale solo a pochi mesi fa.

Ce lo siamo ripetute di frequente: “Guarda, in questo passaggio sembra che la madre di Piero sapesse già…”; oppure “Controlla in quale tempo è avvenuto ciò che la narratrice sta ricordando. E’ prima del 1992, l’anno del destino per le due sorelle?”; “Qui viene detto il nome della madre, e qui si dice quanta stima avessero per lei i paesani. E’ importante per la sua figura complessiva”.

Abbiamo ricostruito la fabula del romanzo, dunque abbiamo messo in fila i fatti secondo l’ordine temporale, scoprendo una volta di più la cura con cui l’autrice ha progettato la sua scrittura, in alcuni capitoli i flash back sono uno dentro l’altro come nelle bamboline russe. Con naturalezza. Una complessità strutturale così passa quasi inosservata alla prima lettura. Si nota soprattutto lo stato di necessità emotiva che spinge la narratrice a ripensare a ciò che è stato e a farlo in modo ricorsivo. Puntando ai gangli vitali del vissuto e ritornandoci più volte.

Con quale piacere abbiamo fatto emergere dal testo la sua ossatura: le parti messe in luce hanno evidenziato una totale plausibilità, come pezzi di vita riprodotti così bene da poter essere nostri e di tutti. Dalle parti in ombra sono emerse delle nuove suggestioni, come speso accade con ciò che è lasciato implicito. In un romanzo dai toni così intimi sotto c’è la rete leggera ma resistentissima di un meccanismo ben congegnato, con le rotelle che si muovono in sincronia.

Ho trovato anche un mio errore di lettura, un errore che ho riportato nell’articolo scritto nel gennaio scorso per questa rubrica. Me ne sono proprio dispiaciuta, anche se so che può capitare a ogni lettore nel suo primo incontro con un testo.

Una ragione di più per rileggere un libro, rivedere un film, ascoltare una persona che non vedevamo più da tempo o rovistare tra le vecchie foto per trovare quella che ci illumina per bene una fetta di passato. Una ragione di più per rimanere sulle cose, per attraversarne lo spessore.

Credo che Maria abbia ripensato come me a quante volte da insegnanti abbiamo guidato i ragazzi alla scoperta dei testi, cercando di mantenere in equilibrio la conoscenza della loro struttura con il piacere di leggerli. Convinte, sempre, che dei libi non dovesse bastarci una lettura di superficie.

So che Maria, come me, ha cercato di trasmettere non tanto una tecnica di lettura ma una visione del mondo, un’idea di impegno in quello che si fa, il cui esito finale è la comprensione del sistema su cui ogni libro è costruito. Un premio. La messa in moto di un raffronto con noi stessi e con lo scrittore che assegna peso a entrambi, che fa crescere.

Lo rifaremmo da capo. Dando l’esempio del nostro collaborare. Battendoci contro la superficialità, come modalità di approccio alla conoscenza, contro un’idea pericolosa di ‘scuola-usa-e-getta’, che pure si affaccia dall’esterno e tende a insinuarsi dentro le aule. Io studente ti ascolto come se fossi davanti alla tv: ti ascolto finché mi va, intanto tu parla pure, esponi i tuoi autori e le tue nozioni. Tra poco suonerà la campanella e la tua trasmissione avrà fine.

Invece no. Maria e io abbiamo proposto percorsi di conoscenze da condividere, con un obiettivo in fondo da raggiungere, con regole da rispettare ognuno nel proprio ruolo. Con una relazione professionale e umana da curare un giorno dopo l’altro.

Stiamo ripercorrendo Borgo sud come lettrici, lo assaporiamo per noi stesse e per trasmetterne la bellezza al pubblico adulto, che vorrà esserci il prossimo 23. Dentro di noi, tuttavia, come in un’altra bambola russa, c’è l’insegnante che ognuna di noi è stata, un pezzo della nostra identità.

Con tutte queste bambole, una contenuta nell’altra, il processo della lettura, come vedete, viene a complicarsi. Il gioco è un gioco degli specchi fra autore, personaggi, lettori. Insieme a Maria ribadisco, però, che è il bello che c’è nell’atto di leggere.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

SALVIAMO IL MONDO…
a partire dai nostri cervelli.

 

La pandemia pare abbia fatto della razionalità una funzione misteriosa, a volte ingombrante, addirittura considerata pericolosa o per lo meno limitante. Non avere esercitato la nostra mente alla razionalità può comportare però di essere facilmente vittime della scissione fra i due sistemi cognitivi resi famosi da Kahneman [Qui], psicologo israeliano premio nobel per l’economia, con il suo libro Pensieri lenti e veloci.

Non si tratta di due componenti anatomiche del cervello, ma di due modalità operative: il Sistema 1 consiste nei giudizi istantanei; il Sistema 2 nel pensarci due volte.

Il nostro barcamenarci per i mondi poco conosciuti, con cui l’aggressione della malattia ci ha costretto a confrontarci, ha fatto emergere quanto le persone abbiano difficoltà a misurarsi con i parametri della razionalità.

Questo dovrebbe essere un obiettivo dell’istruzione: padroneggiare gli strumenti intellettuali di un corretto ragionamento. Logica, pensiero critico, i modi ottimali per adeguare le nostre convinzioni e prendere decisioni, strumenti di ragionamento indispensabili per evitare la follia nella nostra vita personale e nelle politiche pubbliche.

Francesco Bacone [Qui] scrisse di un uomo al quale, condotto in una chiesa, era stato mostrato un dipinto che raffigurava dei marinai scampati a un naufragio grazie a un voto: «E dove sono dipinti» chiese l’uomo «quelli che, dopo aver fatto il voto, sono periti ugualmente?».

La razionalità non va di moda. Secondo un recente luogo comune vivremmo nell’era della “postverità”. Come dire che siamo al paradosso, considerato che l’affermazione non può essere vera. Se lo fosse affermerebbe qualcosa di vero sull’epoca in cui viviamo.

Insomma, la razionalità ci scarseggia, l’istruzione non ci aiuta. A ben vedere la nostra cultura umanistica riesce con straordinario equilibrismo a tenere insieme razionale e irrazionale, fisico e metafisico, dio, santi, madonne e miracoli con la fisica dei quanti.

Perché allora stupirsi se la pandemia da Covid-19 ha dato la stura al delirio nazional-fascio-populista della dittatura sanitaria, delle teorie del complotto, della malattia come arma biologica messa a punto dal nemico sinico, un trucco di Bill Gates per impiantare microchip tracciabili nei corpi delle persone, il complotto di una cricca di élite globali per controllare l’economia mondiale. La fiera della ciarlataneria e della cialtroneria  avallata da celebrità, filosofi e politici.

Inquietante. Ma ormai tutto si beve, come se intorno a noi fosse esplosa una grande maionese impazzita, che non risparmia i suoi schizzi né a destra né a sinistra. Sottomettere tutte le proprie credenze al tribunale della ragione e delle prove è una capacità innaturale, come saper leggere, scrivere e fare di conto, e, quindi, va appresa e coltivata.

È a questo che servono le scuole e le altre istituzioni, che hanno il compito di rendere le persone più razionali. Sviluppare la razionalità con cui nasciamo e cresciamo, il nostro buonsenso, la nostra capacità di cavarcela, usando gli strumenti di ragionamento più potenti messi a punto dai migliori pensatori nel corso dei millenni. Kahneman ha osservato che gli esseri umani non sono mai così irrazionali come quando proteggono le loro idee predilette.

Come conciliare la razionalità, che ha permesso alla nostra specie di cavarsela nelle diverse epoche, con i nostri sbandamenti, ossia i nostri bias, vale a dire pregiudizi, illusioni e fallacie cognitive? Come la nostra specie possa essere così intelligente e, tuttavia, venire tanto facilmente illusa?

Per quanto il nostro sistema cognitivo sia eccellente, nel mondo della complessità, delle conoscenze ancora sconosciute dobbiamo sapere quando ignorarlo e affidare il nostro ragionamento agli strumenti della logica, della probabilità e del pensiero critico, che estendono le facoltà della nostra ragione al di là di ciò che ci è stato dato dalla natura.

Nel XXI secolo, se pensiamo di basarci sul nostro istinto, sulla fiducia in noi stessi, assisteremo, come del resto sta già accadendo, al concreto rischio di mandare oltre le persone anche la nostra democrazia al cimitero.

Nonostante tutte le conquiste della scienza, i progressi tecnologici, l’affermarsi sempre più del principio di realtà, la mentalità mitologica occupa ancora vasti territori nel continente delle credenze mainstream. L’esempio ovvio sono le religioni. A vent’anni dall’inizio del terzo millennio  i “nuovi atei”, Sam Harris, Daniel Dennett, Christopher Hitchens e Richard Dawkins, sono ancora vituperati.

Principi base, per esempio che l’universo, per quanto riguarda gli esseri umani, non ha alcuno scopo, che tutte le interazioni fisiche sono governate da poche forze fondamentali, che i corpi viventi sono complesse macchine molecolari e che la mente è l’attività di elaborazione delle informazioni del cervello, non vengono mai spiegati, forse per timore di offendere sensibilità religiose e morali. Non deve sorprendere, quindi, che ciò che la gente ricava dall’istruzione scientifica sia un guazzabuglio sincretico, in cui gravità ed elettromagnetismo convivono con karma e poteri curativi dei cristalli.

Del resto nelle nostre scuole d’infanzia pubbliche è permesso inculcare per un’ora e mezza alla settimana a bambini di tre anni l’idea di dio e i principi di una religione, quella cattolica. Per poi continuare negli altri gradi di istruzione, con un’insistenza oraria soprattutto quando le menti dei piccoli sono più malleabili, vedi le due ore nella scuola primaria.

Pretendere di educare le intelligenze alla razionalità e alla logica quando si chiedono atti di fede è un paradosso, che però noi coltiviamo nell’assoluta indifferenza generale. La stessa con la quale siamo sedotti dalle sirene dei reduci del latino e dalla inossidabilità dei licei classici, dove ancora la matematica è insegnata per due ore alla settimana contro le diciannove riservate alle materie umanistiche.

Non dovremmo dunque neppure meravigliarci delle emozioni stupide ed illogiche degli esseri umani, quelle che fanno dire al signor Spock di Star Trek, che per lui sono una costante causa di irritazione e per questo non gli è mai piaciuto lavorare a contatto con gli umani.

Dall’assalto alla CGIL alle manifestazioni di piazza dei no-vax e dei no-pass, a nessuno dotato di razionalità piacerebbe lavorare a contatto di queste persone. La lezione che ci viene da questi due anni di aggressione del virus riguarda prima di tutto la razionalità, come recuperarla, come difenderla, come farla crescere.

Un’altra questione  che investe la scuola, contenuti, qualità e contraddizioni della nostra istruzione, della formazione che vendiamo, in cambio del loro tempo, a bambine e bambini, a ragazzi e ragazze.

Invece di inventarci nuove giornate da celebrare a scuola, nuovi format di educazione civica, la prima educazione è quella di far funzionare i cervelli, di allenarli alla ragione, alla logica, al pensiero critico, da subito, anziché indottrinarli con materie di fede. Allenarli almeno ogni giorno per le trentatré settimane di scuola di ogni anno.

C’è l’ecosistema del pianeta da salvare, ma se non curiamo prima l’ecosistema dei nostri cervelli  sarà difficile pensare per il futuro ad una esistenza sostenibile.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

TEATRO COMUNALE
Il balletto della pandemia, prima nazionale a Ferrara

 

Il lockdown che come per incanto ha infilato uffici e redazioni tra telecomandi e playstation dei nostri tinelli, per sei bei giovani ballerini e sei belle giovani ballerine ha trasformato salotti e monolocali nella porzione di una grandiosa e frastagliata sala prova, disseminata probabilmente tra l’Olanda, il Belgio, l’Italia. Mentre io mi districavo tra le e-mail d’ufficio e le varie richieste di servizio annunciate dalle notifiche di WhatsApp, loro volteggiavano lievi e tenaci sotto le webcam accese. A fare della pandemia il filo conduttore di un ambizioso spettacolo è “Blasphemy Rhapsody – La volubilità delle certezze”, andato in scena al Teatro Comunale di Ferrara sabato 6 novembre 2021 in prima nazionale.

Emio Greco in scena al Comunale di Ferrara (foto Marco Caselli Nirmal)

Questo è l’appuntamento che ha visto Ferrara accogliere il debutto italiano del nuovo lavoro firmato dal danzatore e coreografo Emio Greco insieme con il regista olandese Pieter C. Scholten, a conclusione del “Festival di danza contemporanea” del teatro Claudio Abbado con protagonista la compagnia di danza olandese Ick Dans Amsterdam.

Victor Swank con Emio Greco e una delle ballerine della compagnia Ick Dans (foto Marco Caselli Nirmal)

Ritmi concitati, sincronici, ma che mantengono rigorosamente distanziati gli uni dagli altri aprono il balletto, che già nella scheda descrittiva viene presentato come uno spettacolo che “nasce in un momento storico – quello della pandemia da coronavirus – in cui ogni certezza sociale, umana, professionale non trovava più alcuna radice in un’unica visione di cultura”.

Emergenza sanitaria raccontata attraverso la danza, dunque, con l’isolamento che ha trovato una via di fuga nel collegamento a distanza. Il riferimento pandemico viene mostrato in maniera quasi documentaria alla fine, quando sulla scenografia di sfondo viene proiettato il mosaico delle schermate con ciascuno dei protagonisti più o meno riconoscibile nelle sagome-video dei danzatori, che piroettano e muovono le braccia in ambienti dall’aspetto assolutamente domestico.

I danzatori dell’Ick Amsterdam sul palco ferrarese (foto Marco Caselli Nirmal)

Tutti i gesti e i movimenti dello spettacolo “Blasphemy Rhapsody” sono del resto così perfetti e, nello stesso tempo, caratterizzati da quell’individualismo che mantiene ogni mossa dell’uno uguale ma staccata da quella degli altri. Un filo conduttore molto concreto, dove diversi elementi vanno a rafforzare questo parallelismo tra la realtà dominata dall’avvento di un virus e l’impeccabile messa in scena. Ecco allora l’irruzione sul palco di una figura maschile nerovestita, che richiama a sé tutto il corpo di danza e governa una specie di girotondo che gravita intorno a lui; poi la figura del ballerino (interpretato dallo stesso Emio Greco) che irrompe con la croce rossa sul petto a impartire indicazioni; lo sventolio dei drappi bianchi; l’applicazione collettiva di una mini-mascherina nera sul naso.

Il riferimento cronachistico è comunque uno spunto. La danza contemporanea sta alla danza classica un po’ come l’astrattismo alla pittura figurativa. La narrazione di una storia, così come la rappresentazione di persone, paesaggi o figure, non sono più il fine ultimo dello sguardo. Per apprezzare la danza contemporanea, mi rendo conto che bisogna piuttosto cambiare approccio e trovare una nuova modalità, che renda apprezzabile ciò che si vede e gli dia un senso altro, che va oltre i riferimenti narrativi.

I ballerini della compagnia olandese Ick Dans Amsterdam (foto Marco Caselli Nirmal)

Per chi, come me, non è conoscitore del genere, uno spettacolo di danza contemporanea richiede forse di lasciarsi soprattutto andare ai suoni e alla messa in scena della bellezza dei corpi, che creano composizioni spericolate e armoniche, flessuose ondulazioni e colpi di scena, mescolando – in questo caso – ritmi quasi tribali, posizioni ginniche, una rivisitazione del charleston post-bellico e danze liberatorie del sud d’Italia.

Le coreografie di questi danzatori e danzatrici –  perfettamente modellati, snodati e sincronizzati – compongono figure singole e d’insieme che offrono suggestioni visive basate sui loro movimenti frenetici e sinuosi, a volte identici tra loro o volutamente dissonanti e ampliati fin quasi allo spasimo. L’immagine complessiva, che il palco offre allo sguardo del pubblico, si modella sulla base dei suoni e dei ritmi, come un’onda che trascina lo spettatore dentro quelle movenze, che nella vita reale sarebbero improbabili, e che però nei ballerini che le realizzano sul palco sono così scorrevoli e inappuntabili da diventare naturalissime.

“Blasphemy Rhapsody” (foto Marco Caselli Nirmal)

Nella danza classica tutto questo viene incapsulato nell’involucro di una narrazione con personaggi riconoscibili attraverso scenografie e costumi che raccontano una storia con passi e volteggi. La danza contemporanea lascia da parte la trama, o, meglio, la riduce come la rappresentazione di un quadro astratto, dove il tema è un’ispirazione per lasciare poi forme, composizioni e colori a dominare la scena, relegando in sottofondo gli eventuali significati letterali della rappresentazione figurativa.

Luci e corpi protagonisti sul palco del Comunale di Ferrara (foto Marco Caselli Nirmal)

Nel romanzo “Un amore” di Dino Buzzati, la partecipazione alle prove di un balletto a cui il protagonista si trova ad assistere descrive bene la sensazione che la danza contemporanea, nella sua essenzialità, può trasmettere. “Vedendole così vicine – racconta il narratore a proposito delle ballerine – prese dall’impegno del lavoro, senza trucchi né code di pavone, così semplici e disadorne, nude più che se fossero nude, Dorigo capì improvvisamente il loro segreto”. Per il protagonista del romanzo il ballo altro non è che “un meraviglioso simbolo dell’atto sessuale”. A questa sublimazione della passione carnale, della fusione dei corpi e del piacere – secondo lui – mirano alla fin fine tutte le componenti che stanno dietro un balletto: “la regola, la disciplina, la ferrea e spesso crudele imposizione, alle membra, di movimenti difficili e dolorosi, il costringere quei giovani corpi verginali a far vedere le più riposte prospettive in posizioni estremamente tese e aperte, la liberazione delle gambe, del torso, delle braccia nelle loro massime disponibilità”. Per lui “la bellezza stava appunto in questo appassionato e spudorato abbandono” a cui le ballerine si dedicano “con impeto, con patimento, con sudore”.

La compagnia Ick Dans Amsterdam alla fine dello spettacolo, a Ferrara il 6 novembre 2021

Con energico impeto – sudato, convincente e impeccabile – gli interpreti dell’Ick-Ensemble spiccano per le loro personalità fisiche, che alla fine ci diventano familiari come i personaggi di una storia: lo scultoreo, tanto alto quanto esile ed atletico corpo candido del ricciuto Victor Swank, l’aria della fidanzatina di scuola della bionda Doreja Atkociunas che con il suo semplice abito bianco sembra fare irrompere la normalità sulla scena dell’emergenza (e che infatti se ne resta per lungo tempo seduta in disparte), il mediterraneo Denis Bruno d’aspetto un po’ piratesco, la minuta Maria Ribas, le slanciate Sixtine Biron e Beatrice Cardone dalla lunga chioma ondeggiante, il diavolesco Emio Greco, i prodighi Louis Dobbs e Dennis Van Herpen dalle fattezze fiamminghe, la scattante Laurie Pascual, Marie Couturier dalla chioma fluente e l’aspetto d’eroe selvaggio di Claudio Murabito. Lunghi minuti di applausi scrosciano sul palco a ripagare la compagnia di una tensione incessante che ha inchiodato il pubblico per settanta minuti di suggestioni, acrobazie e corpi, trasformati in materia di composizione artistica.

IL VIAGGIO DI VALENTINA (1)
25mila chilometri in bicicletta dal Vietnam all’Italia

 

Periscopio e i suoi lettori possono seguire Valentina nel suo affascinante viaggio tra due continenti, dall’Estremo Oriente all’Italia. Le interviste sono state rilasciate durante un’avventura, durata 18 mesi e conclusasi poco prima del fermo pandemia. Il reportage comincia oggi e proseguirà  per le prossime 9 settimane, sempre di lunedì, all’interno della nuova rubrica dedicata ai viaggi – reali e immaginari – che abbiamo voluto chiamare SUOLE DI VENTO. “Suole di vento” era il soprannome che Paul Verlaine aveva dato al suo irrequieto, intimo amico Arthur Rimbaud. Come ci hanno insegnato Conrad e Chatwin, l’inquietudine è una qualità dell’anima.
(La Redazione)

La bicicletta è un modo di accordare la vita col tempo e con lo spazio, è l’andare e lo stare dentro misure ancora umane”, affermava il giornalista e scrittore Sergio Zavoli [Qui]. Lo sa la città di Ferrara e lo sa anche Valentina Brunet, 33 anni, proveniente da una piccola e affascinante valle nel cuore delle Dolomiti, che ha percorso in sella alla sua due ruote ben 25.000 chilometri dal Vietnam all’Italia in due anni e mezzo, dal 14 marzo 2017 al 21 settembre 2019. Uno spostamento continuo non progettato e non pianificato e forse per questo affascinante e sorprendente.

Era partita con una muta subacquea nello zaino, intenzionata a trovare un lavoretto da guida sub e si era ritrovata con una bicicletta e un sogno che si stava realizzando. Il lungo racconto che si snoda sul suo viaggio, conduce tra le distese umide del Vietnam, una rapida visita in Cina e Hong Kong, la vastità del deserto dei Gobi, le yurte mongole, l’accoglienza dei villaggi rurali senza tempo della Russia e gli scenari spettacolari della Siberia, i cavalli selvaggi, i serpenti e gli arbusti spinosi del Kazakistan, i passi montuosi del Pamir a 4.000 metri del Kirghizistan, i confini piantonati dai militari e i luoghi che ricordano i cicloviaggiatori morti per mano dei terroristi in Tajikistan e poi ancora la mitica Samarcanda in Uzbekistan.

Il viaggio di Valentina racconta ancora l’approccio con le diverse culture incontrate, l’obbligo di indossare l’hjiab, la discriminazione come donna, sola, libera, straniera, la sensazione di pericolo in alcuni momenti, la difficoltà a trovare protezione e sicurezza in contesti di ostilità, pregiudizio e, in alcuni frangenti, di aggressione verbale e fisica.
Valentina però riconosce anche il sostegno che in questi casi i social network, le persone più aperte, i compagni di viaggio occasionali le hanno fornito.

Riferisce anche del suo arrivo negli Emirati Arabi, a Dubai, il riappropriarsi di alcune comodità dopo le ristrettezze di tanto tempo, l’incontro con lo sceicco Awad, grande appassionato di turismo, e continua il suo narrarsi con l’ingresso nell’Oman, Paese dove la bellezza del paesaggio è affiancata da una visione della donna legata fortemente agli aspetti più restrittivi di quella cultura. Seguono Armenia e Georgia e, con i Balcani, le ultime migliaia di pedalate che la separano dal confine italiano, casa.

La nostra cicloviaggiatrice ricorda gli aspetti della quotidianità, dall’alimentazione alle condizioni di salute, dalle necessità logistiche alla comunicazione e ai rapporti interpersonali. Un viaggio che ha lasciato traccia profonda, innescando cambiamenti significativi nello sguardo sul mondo e in se stessa, permettendole di vivere il paesaggio e le sue popolazioni in tutti i suoi risvolti, assaporandone ogni aspetto, anche quello più scomodo.

Altri viaggi attendono Valentina, Canada e Patagonia tra i primi, non appena la situazione pandemica lo consentirà.

Gli scatti del reportage sono della stessa Valentina Brunet e dagli occasionali spettatori incontrati durante il suo viaggio. 

1 Continua su Periscopio 

IL DDL CONCORRENZA = PRIVATIZZAZIONI
Draghi all’assalto dei servizi pubblici locali.

Era atteso da tempo.
Faceva parte delle stringenti ‘condizionalità’ richieste dalla Commissione Europea per accedere ai fondi del Next Generation Eu.
Era uno degli assi portanti per i quali Draghi è stato definito da Confindustria “l’uomo della necessità”.
Era fortemente voluto dalle lobby finanziarie.
Ed è arrivato. Il disegno di legge sulla concorrenza e il mercato. Un nuovo bastimento carico di privatizzazioni.

Mentre i media mainstream ancora una volta dirottano l’attenzione (colpiti i tassisti, risparmiati i concessionari degli stabilimenti balneari etc.) nessuno mette l’accento sulla sostanza del provvedimento, concentrata nell’art. 6: la privatizzazione dei servizi pubblici locali e la definitiva mutazione del ruolo dei Comuni.

Un provvedimento vergognoso che, sin nelle finalità espresse all’art. 1, sembra aver completamente accantonato quanto la pandemia ha evidenziato oltre ogni ragionevole dubbio: il mercato non funziona, non protegge, separa persone e comunità.  Senza alcun senso del ridicolo si dice che il provvedimento ha lo scopo di promuovere lo sviluppo della concorrenza e di rimuovere gli ostacoli all’apertura dei mercati […] per rafforzare la giustizia sociale, la qualità e l’efficienza dei servizi pubblici, la tutela dell’ambiente e il diritto alla salute dei cittadini”.

Se dalle finalità generali passiamo allo specifico articolo sui servizi pubblici locali, va subito notato il salto di qualità messo in campo dal governo Draghi: per la prima volta si parla di tutti i servizi pubblici locali senza alcuna esclusioneCome si evince dall’unico passaggio – paragrafo d – in cui sono menzionati i servizi pubblici locali a rilevanza economica in merito alla necessità di una loro ottimale organizzazione territoriale, il resto del provvedimento supera i precedenti tentativi di privatizzazione per la globalità dei servizi coinvolti. Ad ulteriore conferma di questa estensione, valga il richiamo (par. o) alla normativa relativa al Terzo Settore.

Ribaltando a 360 gradi la funzione dei Comuni e il ruolo di garanzia dei diritti svolto storicamente dai servizi pubblici locali, il ddl Concorrenza (par. a) pone la gestione dei servizi pubblici locali come competenza esclusiva dello Stato da esercitare nel rispetto della tutela della concorrenza. E ne separa (par. b) le funzioni di gestione da quelle di controllo.

I paragrafi successivi sono un vero capolavoro di ribaltamento della realtà.

Mentre all’affidatario privato viene richiesta (bontà sua) una relazione annuale sui dati di qualità del servizio e sugli investimenti effettuati, ecco il tour de force che deve affrontare il Comune che, malauguratamente, scelga di gestire in proprio un servizio pubblico localedovrà produrre “una motivazione anticipata e qualificata che dia conto delle ragioni che giustificano il mancato ricorso al mercato” (par. f); dovrà tempestivamente trasmetterla all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (par.g); dovrà prevedere sistemi di monitoraggio dei costi (par. i); dovrà procedere alla revisione periodica delle ragioni per le quali ha scelto l’autoproduzione.

Per quanto riguarda i servizi pubblici a rilevanza economica (par. d), ovvero acqua, rifiuti, energia, e trasporto pubblico, si prevedono inoltre incentivi e premialità che favoriscano l’aggregazione (leggi multiutility).

Non contento di puntare alla privatizzazione delle gestioni, il Governo prevede anche (par. q) una revisione della disciplina dei regimi di proprietà e di gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni, nonché di cessione dei beni in caso di subentro, anche al fine di assicurare un’adeguata valorizzazione della proprietà pubblica, nonché un’adeguata tutela del gestore uscente.

In questo contesto, il richiamo alla partecipazione degli utenti nella definizione della qualità, degli obiettivi e dei costi del servizio pubblico (par. t) locale suona come la presa per i fondelli finale.

Un attacco feroce e determinato ai diritti delle persone, ai beni comuni e alle comunità locali. Di questo si tratta. Portato avanti da un governo che non ha mai fatto mistero di essere al servizio dei grandi interessi finanziari e che ha preteso un Parlamento embedded per poter avere mano libera su tutte le scelte fondamentali di ridisegno della società.

“La zavorra dei vincoli e del debito ci impedisce qualunque movimento. Non avere alcuna agibilità sul bilancio significa impattare enormemente sulla qualità di vita dei cittadini. E’ impossibile governare la città se non possiamo mettere risorse”. Così ha tuonato pochi giorni fa Gaetano Manfredi, nuovo sindaco di Napoli.
La risposta del governo Draghi è che non vi è alcun bisogno di governare i Comuni e le città: basta mettere tutto sul mercato.

Marco Bersani, Attac Italia
Questo articolo è apparso con altro titolo su Attac Italia il  5 novembre 2021

PER CERTI VERSI
Novembre

NOVEMBRE

Piove
È il primo novembre
Sono a Saletto
Il vento improvviso
E diretto
Accende il carnevale
I coriandoli volano
Sfogliati
Dagli aceri rossi
Smascherati
È il brumale
Della natura
La terra marrone
Scura
Rude
Chiude coi remi
Del tempo
Grande Solone
Le crepe
Muta
Si appresta
A rapprendersi
Covando semi
Prima che il gelo
La investa

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

Diario in pubblico
Nero come il carbone

Alla fine della Seconda guerra mondiale – e la testimonianza è personale – si ripresero i miti dell’infanzia codificati in tempi bui. Tra questi la Befana “dalle scarpe tutte rotte” che lasciava vicino alla stufa o al caminetto, per chi lo possedeva, la sua calza piena di doni e… anche di carbone, che esprimeva la punizione per ciò che i bambini avevano commesso di scorretto lungo l’anno.

Era una sorpresa temutissima che penalizzava e marchiava di nero ciò che secondo il giudizio genitoriale non andava fatto. Praticamente ogni anno ho avuto la mia calza di carbone, quella materia che faceva paura perché nera, strappata dalla profondità misteriosa della terra, temibile ma pur necessaria.

Una delle immagini che più ritorna nel mio immaginario infantile è nell’inverno freddo e nebbioso il rito del riscaldamento del letto, ottenuto attraverso un ordigno che, a seconda di come era fatto, prendeva il nome di prete suora. Il primo allungato, il secondo tondo.

Il rito, seguito con molta attenzione e partecipazione, da cui noi bambini eravamo tenuti lontani, comprendeva la necessità di riempire di braci di carbone (o della più economica carbonella) un recipiente di ferro che veniva sospeso o meglio appeso dentro il prete o la suora.

Prima d’infilarci sotto le coperte o meglio i coltroni pieni di scarti di cotone, resi bollenti dal carbone ardente, meticolosamente le braci venivano riversate dentro il camino o la cucina economica per evitare di procurare qualche incendio non sempre scongiurato.

Il progresso avvenne quando si elettrizzarono anche gli scaldini del letto. La negrezza del carbone frattanto diventò bivalente come metafora e realtà. Appena un accenno rabbrividente quando si pensa quanti dei camini della soluzione finale furono alimentati col carbone! Altro che i delinquenti civili e morali che sfilano protestando per il green pass vestiti da prigionieri dei campi. Vergogna!!!

Nel tempo del boom economico i nuovi ricchi si esponevano al sole nelle spiagge per diventare “neri come il carbone”, mentre la tragedia delle miniere procurava Marcinelle [Qui] o relegava i carbonai tra i lavoratori più umili della classe lavorativa.

Ancora negli anni Sessanta era in atto la discriminazione tra i lavoratori italiani che lavoravano nelle miniere del carbone tanto da impedire l’accesso ai bagni nelle stazioni della Baviera, come da me sperimentato de visu.

Ci fu poi la mitizzazione dei carbonai nelle colonne dei musical da “spazza camin” o di altre canore esibizioni. Sempre in quegli anni vidi le cantine dove si accumulava il fossile per alimentare i termosifoni, recente conquista del miracolo italiano.

E col trascorrere dei decenni ecco la condanna del carbone come principale protagonista della trasformazione climatica, mentre “i negri”, secondo la più schifosa definizione di tanti novelli idioti, venivano di nuovo paragonati al carbone.

Spero che il nuovo pericolo rappresentato da questo fossile sia compreso e al più presto si pensi a una soluzione alternativa. La moda ora condanna anche l’abbrustolimento al mare, quella che ci rendeva neri come il carbone. Est modus in rebus. Oltre al fondamentale vaccino si usi il carbone per motivi più consoni al nostro tempo minacciato e minaccioso.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

PRESTO DI MATTINA
Un andare nascendo

«Si richiede all’Aurora, anche senza saperlo, questo seguitare a nascere. Si richiede all’assoluto dell’essere, e alla pienezza della luce, e al dispiegarsi del tempo, di non cadere mai più» (Maria Zambrano [Qui], Dell’Aurora, Genova 2000, 54).

Si domanda loro di restare aurorali, senza tramonto: «L’aurora si reitera», si rinnova, pur restando nella propria notte «avanza a ogni apparire delle sue luci molteplici». Un camminare nascendo è l’aurora. Un andare nascendo è pure quel camminare insieme che ha nome sinodalità. Esperienza del vivere e del ri-cominciare insieme, cum-re-initiare.

«Si accende nei cieli l’Aurora come fosse una cosa della terra: come un fiore che, per la sua purezza e il suo ardore, ha raggiunto il confine dove terra e cielo si schiudono e si abbracciano. Quasi fosse l’abbraccio senza eguali tra cielo e terra, un abbraccio che perdura e non si scioglie facilmente. Non è un miraggio: è un’azione, o meglio un atto unico e, quindi, un essere. Un essere che in quell’atto vive insieme – nello stesso istante – la propria nascita e la propria trasfigurazione», (ivi, 148).

La sinodalità come l’aurora delinea l’orizzonte da cui il sole sorge: lo fa lievitare nel mondo. Lo ha ricordato anche papa Francesco ai cristiani della chiesa di Roma (18 settembre 2021): «Camminare insieme scopre come sua linea piuttosto l’orizzontalità che la verticalità. La Chiesa sinodale ripristina l’orizzonte da cui sorge il sole Cristo: innalzare monumenti gerarchici vuol dire coprirlo. I pastori camminano con il popolo: noi pastori camminiamo con il popolo, a volte davanti, a volte in mezzo, a volte dietro. Nel cammino sinodale, l’ascolto deve tener conto del senso della fede, ma non deve trascurare tutti quei “presentimenti” incarnati dove non ce l’aspetteremmo: ci può essere un “fiuto senza cittadinanza”, ma non meno efficace. Lo Spirito Santo nella sua libertà non conosce confini, e non si lascia nemmeno limitare dalle appartenenze».

Come l’umanità, così la chiesa e il suo vissuto che chiamiamo tradizione, assomigliano ad «una pasta lievitata, una realtà in fermento dove possiamo riconoscere la crescita, e nell’impasto una comunione» che si attua nel movimento. La sinodalità realizza la vera comunione perché è esperienza dello Spirito che, come lievito fa lievitare la pasta non in un punto, ma tutta insieme, nell’interezza: Spirito di crescenza nel suo abbassarsi umile, stabilità fedele che muove tutto, trasformante mitezza, esondante intimità.

Se nascere è per tutti l’accedere all’umano e rinascere è ritrovarlo ed accrescerlo ogni volta che lo si assume come dono e compito del vivere, allo stesso modo la sinodalità costituisce, nella forma di una responsabilità per tutti, la sfida ecclesiale dell’ora presente, uno spirito e un’azione da assumere per ritrovare e far rinascere il vangelo in mezzo a noi.

È reale opportunità di accedere di nuovo all’umanità di Dio fattasi incontro nell’umanità delle persone e rivelatasi nell’umana carne di Gesù di Nazareth nato da Maria, l’adombrata dallo Spirito, disceso poi in modo permanente sui credenti a Pentecoste.

Sinodalità è allora l’esperienza da viversi nel Corpo di Cristo, che è un popolo in cammino verso gli altri popoli; “vessillo” ricorda pure il concilio e anche papa Francesco attorno al quale i figli di Dio dispersi possano raccogliersi in unità (SC 2), cercando così di incontrare quel Gesù nascosto negli uomini e nelle donne del nostro tempo, al fine di testimoniare e di confermare, insieme allo Spirito del risorto, l’affidabilità della promessa contenuta nel Padre nostro e nelle Beatitudini: per tutti è il vangelo, per tutti la Pasqua, per tutti il Regno dei cieli.

Ricorda papa Francesco con una notevole arditezza di pensiero che «il Vangelo è disordine perché lo Spirito, quando arriva, fa chiasso al punto che l’azione degli Apostoli sembra azione di ubriachi; così dicevano: “Sono ubriachi!” (cf. At 2,13). La docilità allo Spirito è rivoluzionaria, perché è rivoluzionario Gesù Cristo, perché è rivoluzionaria l’Incarnazione, perché è rivoluzionaria la Risurrezione» (Discorso all’Azione cattolica del 30 aprile 2021).

Sinodalità dice lo scompiglio dello Spirito che sparpagliando riunisce; da lui viene il cambiamento che rivoluziona la vita ecclesiale. Sinodalità: perenne giovinezza dello Spirito suscitatrice del pensare e dell’agire cattolico, che papa Francesco traduce con l’espressione del “farsi prossimo”:

«La parola “cattolica” si può dunque tradurre con l’espressione “farsi prossimo”, perché è universale; “farsi prossimo”, ma di tutti. Il tempo della pandemia, che ha chiesto e tuttora domanda di accettare forme di distanziamento, ha reso ancora più evidente il valore della vicinanza fraterna: tra le persone, tra le generazioni, tra i territori».

Il farsi prossimo del cammino sinodale dovrà così iniziare «dal basso, dal basso, dal basso», iniziando dall’ascolto, insieme: «in ascolto dello Spirito e di quella voce di Dio che ci raggiunge attraverso il grido dei poveri e della terra».

In questo orizzonte di senso mi sembra che vada anche l’orientamento della chiesa italiana con la Carta d’intenti per avviare il cammino sinodale proposto nell’ultima assemblea della Conferenza episcopale italiana del 23-27 maggio 2021 che titola: Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita e nella Lettera alle donne e agli uomini di buona volontà, del fine settembre scorso si legge: «Sogniamo una Chiesa aperta, in dialogo. Non più “di tutti” ma sempre “per tutti”»; un cammino che comprende tre fasi temporali: narrativa (2021-2023); sapienziale (2023-2024) profetica (2025).

Si tratterà di far venire di nuovo alla luce ciò che era rimasto in ombra, lasciato dietro le quinte, al V° Convegno ecclesiale nazionale di Firenze, dal tema In Gesù Cristo il nuovo umanesimo, che si svolse nel 2015: l’ascolto delle narrazioni negli ambiti del vivere (vita affettiva, lavoro e fragilità, tradizione, cittadinanza); il discernimento comunitario poi e le scelte profetiche, evangeliche infine per una riforma anche strutturale del vivere ecclesiale.

Papa Francesco, allora, entrò in quell’assemblea in “punta di piedi”, parlando solo alla fine e ricordando che la comprensione dell’umanità di Gesù andava fatta a partire dall’Ecce homo, dal suo volto.

Disse quella volta: «Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. È il “misericordiae vultus”. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo».

Francesco al termine del convegno aveva pure invitato tutte le comunità ad un esercizio di sinodalità, riprendendo in mano gli orientamenti dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, dicendo ai presenti come lui vedeva e desiderava la chiesa italiana, il suo modo di sentirla viva, il sogno di vederla rinascere:

«Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà. L’umanesimo cristiano che siete chiamati a vivere afferma radicalmente la dignità di ogni persona come figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria e l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura. Sebbene non tocchi a me dire come realizzare oggi questo sogno, permettetemi solo di lasciarvi un’indicazione per i prossimi anni: in ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e circoscrizione, in ogni regione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii Gaudium [Qui]».

Si tratta ora di togliere dall’archivio i pensieri e gli affetti, gli intenti e le pratiche generati a Firenze nel 2015. Si tratta di tornare a declinare quei verbi di allora, di cui sembra si siano troppo presto perse le tracce: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare, riappropriandosi di quel metodo sinodale.

Un mettere mano a quel sogno incarnandolo nella realtà di oggi, in nuove storie di chiesa. Sono passati cinque anni da allora e Francesco chiede di lasciarsi coinvolgere in un “sinodo globale”, universale a partire dalle chiese locali e da ogni battezzato per «ascoltarsi, parlarsi e ascoltarsi; non si tratta di raccogliere opinioni, no. Non è un’inchiesta, questa; ma si tratta di ascoltare lo Spirito Santo, come troviamo nel libro dell’Apocalisse: “Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese”» (2,7)».

Egli domanda di ritrovare nello spirito profetico l’“eloquenza dei gesti”: «una Chiesa del dialogo è una Chiesa sinodale, che si pone insieme in ascolto dello Spirito e di quella voce di Dio che ci raggiunge attraverso il grido dei poveri e della terra. In effetti, quello sinodale non è tanto un piano da programmare e da realizzare, ma anzitutto uno stile da incarnare.

E dobbiamo essere precisi, quando parliamo di sinodalità, di cammino sinodale, di esperienza sinodale. Non è un parlamento, la sinodalità non è fare il parlamento. La sinodalità non è la sola discussione dei problemi, di diverse cose che ci sono nella società… È oltre. La sinodalità non è cercare una maggioranza, un accordo sopra soluzioni pastorali che dobbiamo fare.

Solo questo non è sinodalità; questo è un bel “parlamento cattolico”, va bene, ma non è sinodalità. Perché manca lo Spirito. Quello che fa che la discussione, il “parlamento”, la ricerca delle cose diventino sinodalità è la presenza dello Spirito: la preghiera, il silenzio, il discernimento di tutto quello che noi condividiamo. Non può esistere sinodalità senza lo Spirito, e non esiste lo Spirito senza la preghiera. Questo è molto importante», (ivi, Discorso Ac).

“Un luogo aperto, una Chiesa dell’ascolto, una Chiesa della vicinanza” sono le tre “opportunità” che il sinodo deve cogliere secondo papa Francesco, le tre parole chiave sono comunione, partecipazione, missione; i tre rischi che si corrono sono il formalismo, l’intellettualismo, l’immobilismo e citando il padre Yves Congar [Qui], uno dei teologi al concilio Vaticano, ricorda che «non bisogna fare un’altra Chiesa, bisogna fare una Chiesa diversa».

Come «l‘aurora non è il preludio, [alla luce] bensì il centro stesso del giorno nel mezzo della notte, il giorno-notte, la luce-tenebra che poi si separano senza perdersi l’una nell’altra. La vita stessa», così la sinodalità non è premessa, preludio alla comunione, ma ne è lo svolgimento, la sua forma sinfonica, la vita stessa della chiesa in movimento.

Il camminare insieme non è ouverture alla consonanza, ma la sua narrazione esistenziale, il suo pluriforme e permanente attuarsi e rinascere: è fede pulsante di tutti, è intelligenza e sentimento del credere in relazione con tutti, che spera per tutti che, quando è ancora notte, mette in cammino verso levante: una luce nascente: «Ho sempre camminato verso l’alba, non verso l’occaso; e ho sempre sofferto per tante albe precipitate nell’occaso!», (Zambrano, ivi, 53; 157).

Il sinodo è dei poeti e di chi prega” ho letto nel giornale del papa, forse perché la preghiera e le parole originarie sono luoghi di umanità, di rinascita e creatività perché privilegiati dallo spirito, il confine dove terra e cielo si schiudono e si abbracciano come poesia e preghiera si abbracciano in questo inno liturgico del mattino.

L’aurora inonda il cielo
di una festa di luce,
e riveste la terra
di meraviglia nuova.
Fugge l’ansia dai cuori,
s’accende la speranza:
emerge sopra il caos
un’iride di pace.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

La via crucis dell’editoria religiosa

 

Ai tempi dell’Università a Bologna, la tappa nelle librerie era costante. Almeno una volta ogni settimana. Feltrinelli era la mia prediletta perché aveva un parco riviste notevole. Ci trovavo molte delle testate ‘resistenti’ come, ad esempio Il Tetto, Tempi di Fraternità, il Bollettino dell’Isolotto, Com-Nuovi tempi”
Quando gli orari delle lezioni lo permettevano, mi spingevo fino alla piccola, straripante libreria Palmaverde in via Castiglione gestita dal poeta editore Roberto Roversi e alla libreria Dehoniana di via Nosadella.

All’inizio di ottobre, la proprietà ha diffuso la notizia del fallimento e della chiusura delle Edizioni Dehoniane di Bologna (EDB), editore di migliaia di titoli, centro culturale di primo piano nella produzione postconciliare. Un titolo esemplificativo: La Bibbia di Gerusalemme, amata da tanti cattolici e non solo, dai tanti gruppi vangelo sorti sulla spinta del vento conciliare.
A proposito della notizia sulla chiusura, c’è da aggiungere che le maestranze hanno saputo del loro licenziamento per vie traverse. Amici giornalisti RAI hanno informato i lavoratori di cosa stava succedendo [Vedi qui] perché la dirigenza dei dehoniani aveva omesso questo…passaggio.

Già nel giugno 2016, al convegno di Peccioli su questo tema, Brunetto Salvarani denunciava questo preoccupante declino, affermando che “nell’arco di pochi mesi, una serie di testate che hanno fatto la storia della comunicazione ecclesiale e religiosa nella stagione successiva al Concilio Vaticano II hanno cessato le pubblicazioni o sono entrate in una fase di crisi vistosa, e, almeno all’apparenza, irreversibile. In particolare, sono le riviste di carattere culturale, e quelle che nel corso degli anni hanno rappresentato un punto di osservazione fondamentale sugli eventi del Sud planetario (…) Ce n’è abbastanza per chiedersi se le ragioni di tali problemi non riguardino solo l’ambito economico, come si tende a pensare, ma tocchino questioni di linguaggio, di spazi di formazione, di capacità di riflessione sulle grandi trasformazioni in atto nei mondi culturali.”

Una crisi dell’editoria su carta che non colpisce solamente quella religiosa. Da anni, testate giornalistiche come La Repubblica, Il Corriere della Sera hanno dimezzato tiratura e vendite, senza dimenticare quotidiani come L’Unità che hanno chiuso trascinando nel vuoto ingenti risorse economiche e umane.

Nel giugno 2020, su Vita e Pensiero Plus, mons. Erio Castellucci, arcivescovo-abate di Modena – Nonantola, oltre a segnalare con grande preoccupazione il “crescente pressapochismo culturale e informativo, in un clima dove gli slogan gridati si impongono sulle riflessioni argomentate”, evidenziava che le librerie religiose privilegiano l’esposizione di articoli religiosi, coroncine, immaginette e non le opere più serie e significative.

Gianfranco Brunelli, direttore de Il Regno, rivista di punta dei dehoniani che nel 2015, avendo come “alternativa” la chiusura, scelse la coraggiosa strada dell’autonomia che ancora oggi continua, ha dichiarato che il nostro Paese “da una decina di anni conosce un’ulteriore ondata del processo di secolarizzazione, che sta facendo segnare una generale crisi culturale. Ci troviamo di fronte a una sorta di analfabetismo religioso, in special modo biblico, che deve preoccupare l’insieme della nostra cultura, quella cosiddetta laica compresa. Più ignoranti non significa più santi.”

Lo storico Massimo Faggioli, in un approfondito ed appassionato articolo apparso su Domani [Qui] evidenzia che “oggi il non saper leggere e comprendere testi lunghi e complessi comporta qualcosa di molto diverso rispetto all’epoca in cui dominava l’analfabetismo e il messaggio religioso arrivava  attraverso canali diversi. Non ci si aspetta da tutti i cattolici di essere topi di biblioteca o di possedere una biblioteca, in senso letterale o figurato. (…) L’assunto che i leader della chiesa possano permettersi di essere ignoranti è solo un’altra forma di clericalismo.”
Ovviamente, questa crisi lavorativa che non sembra del tutto compromessa, al di là dei numeri in campo, è grave, emblematica per modalità, comportamenti e soprattutto per evidenti difetti di etica tra le parole stampate nei tanti libri e le opere della dirigenza dehoniana.

Cover: volumi in vetrina delle Edizioni Dehoniane (l’Avvenire)