Al centro del nostro relazionarci c’è sempre una “storia”, perché le storie sono la materia narrativa che costituisce senso e legame. Ciò che gli altri raccontano di sé e noi di noi stessi a loro, diventa terreno comune di unione, di condivisione del dipanarsi del tempo.
E la forza di ogni storia non sta solo nella qualità e quantità di elementi narrativi che ci doniamo reciprocamente, ma anche nella capacità e volontà di recepirla e trasmetterla per poi depositarla rispettosamente nel magazzino della nostra mente e della nostra emotività.
Le storie di vita che ascoltiamo e raccontiamo ruotano attorno a parole pronunciate con dolcezza, tristezza, veemenza, passionalità, dolore, speranza, entusiasmo, rancore, pienezza, sarcasmo, esasperazione, lapidarietà, rassegnazione, riconoscenza, e ogni volta è una pagina nuova che ci dà modo di leggere o scrivere, interpretare e condividere le nostre esistenze.
Ascoltare e narrare storie ci appartiene strettamente fin dall’ infanzia, quando il racconto diventa il primo approccio con il mondo esterno per avvicinare ed elaborare la realtà comprendendone i risvolti. La storia di ciascuno di noi è quanto di più intimo, profondo, potente ed esclusivo ci appartenga: è la nostra pelle e la nostra essenza da cui non potremo mai separarci.
Ascoltare le storie di chi incontriamo, delle quali diventiamo testimoni e depositari, restituisce la dimensione umana giusta e preziosa che forse in quest’epoca andiamo perdendo per fretta, indifferenza, paura, egoismo, autoreferenzialità.
Fermarsi ad ascoltare con atteggiamento disponibile ed empatico arricchisce chi ascolta partecipando al racconto e dà sollievo e gratificazione al narratore, in uno scambio reciproco.
Ed ecco che uno studente in crisi esistenziale espone le difficoltà nell’individuare percorsi progettuali, riferiti ad un futuro nebuloso e incerto; una nonna profondamente provata, racconta della giovanissima nipotina venuta a mancare per “un brutto male che non perdona”, ricordando momenti toccati. Un imprenditore lamenta i problemi dell’azienda, raccontando la storia della sua attività e sottolineando i grandi cambiamenti epocali; una casalinga non più giovane sventola il conto della spesa e sconsolata rievoca la propria storia fatta di sacrifici e abnegazione a totale servizio degli altri, fino all’annullamento di sé e dei propri sogni.
Una cinquantenne che deve affrontare un divorzio complicato fa un bilancio della propria vita ed esplora nuove modalità su cui ricostituire la propria esistenza; un pensionato, la cui unica compagnia è il cane, commuove e si commuove al ricordo di chi non c’è più, delle opportunità non colte, ma anche di una vita movimentata e libera. Un giovane uomo in pieno burn out racconta di aver puntato tutto sulla professione, sottopagata e poco riconosciuta, finendo stritolato da ritmi insostenibili e profondo sconforto. Un aspirante in politica attende freneticamente il suo momento in autunno, confidando su un successo elettorale, dopo una vita di attesa, frustrazioni e false partenze.
Una signora racconta gli effetti della pandemia nella propria quotidianità, arrivando a non riuscire più a intessere relazioni con gli altri perché in preda all’ansia; una giovane di Kiev racconta della guerra e di un’Ucraina prebellica che non esiste più, di un domani ancora impossibile da disegnare.
Storie, esperienze di vita, racconti che fanno comprendere come l’avventura umana sia quanto di più complesso, affascinante e degno di attenzione si possa immaginare.
Come il racconto di un’anziana che si dichiara pronta ad andarsene serenamente, pienamente contenta della propria esistenza nonostante la povertà in tempi difficili, un padre-padrone, un marito-padrone, i figli emigrati nel resto del mondo, “ma ho vissuto tutto quello che c’è da vivere e non sono mai scappata davanti a niente. Ho pianto ma non ho mai dimenticato di sorridere”.
Un recente intervento apparso su queste colonne di Mauro Presini [Vedi qui] ha cercato di fornire elementi di orientamento nel frangente politico che stiamo vivendo, a partire dal grande tema filosofico, antropologico ed economico delle diseguaglianze, e della lotta contro di esse come tensione fisiologica, almeno in teoria, delle democrazie evolute.
Il campo di battaglia di tale lotta trova nella Costituzione italiana una chiara definizione perimetrale in quei diritti fondamentali – come il lavoro, la salute, l’istruzione – l’accesso il più possibile paritetico ai quali, a prescindere da sesso, etnia, condizione sociale, costituisce il più sicuro indice di democrazia sostanziale.
Più tutto questo è vero, più risalta l’umiltà dei membri dell’Esecutivo da poco dimissionario, i quali – in quelle che dovrebbero essere le sfere d’azione eminenti di un governo democratico – hanno dissimulato la loro natura di “migliori” ammantandola di una inazione prodigiosa.
Non ci sono, però, riusciti fino in fondo: proprio in extremis, la loro ‘miglioraggine‘ è venuta fuori con il parto, nell’orizzonte dell’istruzione, della figura del cosiddetto ‘docente esperto’
Il Governo dei Migliori, insomma, ha generato i Migliori tra i docenti.
Non riuscendo a credere a quel che leggevo in proposito sui resoconti di stampa, sono andato a spulciare la norma nel dettaglio.
Ebbene, confermo che essa produrrà i suoi effetti, a meno di qualche comprensibile ritardo, nel 2032.
Ci separano da questo fausto momento almeno due legislature, un numero imprecisato di governi e quattro Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro. EnnioFlaiano, forse, ci rassicurerebbe dicendo che il provvedimento è dunque grave, ma non serio.
Da molte parti si è peraltro già obiettato che l’adozione di una misura che produrrà i suoi effetti a partire dal 2032 per decreto legge – ovvero un tipo di provvedimento che, per sua natura giuridica, si giustificherebbe solo in casi di necessità e di urgenza – costituisce una forzatura senza precedenti.
Quisquilie, per il Governo dei Migliori.
Altri hanno rilevato che definire per decreto che solo 32.000 docenti possano essere qualificati come “esperti” (non esperti di qualcosa in particolare, ma esperti come docenti) costituisce un’implicita stigmatizzazione di tutti gli altri, con tutte le conseguenze di mortificazione e demotivazione che la cosa avrebbe in particolare verso quella percentuale – non trascurabile – di insegnanti che in questi anni ha consentito al carrozzone della scuola, ripetutamente danneggiato e depauperato dalle politiche educative, di andare in qualche modo avanti.
Per i Migliori al governo, pinzillacchere. Sanno fare anche di meglio.
Infatti, lo hanno già fatto.
In primo luogo, per quanto riguarda la destinazione di un assegno “ad personam” legato non a differenziazioni di ruolo o di funzioni, ma a determinati profili di qualità riconosciuti, con l’obbligo però che tali profili non siano posseduti da più di 32000 docenti contemporaneamente.
Voi non credete, infatti, che chi pur possedendo i requisiti qualitativi richiesti venisse escluso dal riconoscimento giuridico ed economico di essi ricorrerebbe in tutte le sedi opportune contro un provvedimento chiaramente discriminatorio? Io credo di sì. E credo anche che vincerebbe molto facilmente, a meno che anche nel frattempo non venga ‘migliorata’ anche la Magistratura.
Parliamo, poi, della durata del percorso formativo richiesto: quasi dieci anni (ovviamente dopo la laurea, le varie scuole di specializzazione, ecc.), immagino più tempo di quanto serva per divenire cardiochirurgo infantile ad Harvard.
Di fatto, una simile durata esclude tutti quelli sufficientemente vicini alla pensione da non poter arrivare a godere degli eventuali benefici, o di poterne godere per un periodo limitato, tale da non giustificare l’investimento di tempo e risorse richiesto, nonché i rischi dell’impresa.
A mio modo di vedere, sono tendenzialmente esclusi dalla ‘docenza esperta’ gli insegnanti ultracinquantenni. Peccato che essi costituiscano la maggioranza del corpo docente,come ci ricorda anche Il Sole 24 ore, in questi giorni così solerte a spezzare lance in favore del ministro Bianchi.
Così, il provvedimento promuove di fatto un insensato testacoda generazionale, nel quale – in assenza di qualunque bilancio delle competenze realmente in gioco negli uni e negli altri – i meno esperti riceveranno lo status di esperti, negato invece ai più esperti.
Forse è prevalso nei Migliori un afflato evangelico? “Gli ultimi saranno i primi”. Certo, bisognerà che ne siano provvisti, magari per decreto, anche i poveri vecchi ‘inesperti, i quali dovranno porgere l’altra guancia e non lasciare che l’ingiustizia e la mortificazione subite scatenino in loro quei risentimenti e quelle cadute di motivazione sviluppate di norma dagli esseri umani in siffatte circostanze. E pensate che cosa potrebbe succedere nei prossimi dieci anni se costoro (più della metà del corpo docente in servizio) cedessero a questi umanissimi particolarismi.
Ma anche dal punto di vista dei privilegiati infracinquantenni, la situazione non è affatto chiara. Infatti, il congegno sembra essere un po’ quello della lotteria: attrarre i molti nel percorso di formazione – o in un meccanismo di competizione divisiva – con il miraggio di un premio riservato a pochi. Ma più è alto il numero dei concorrenti, più aleatoria è la possibilità di vincita, più concreto è il rischio di un investimento decennale di tempo, energie e risorse senza alcun ritorno.
Ritorno che, poi, potrebbe mancare anche per i vincitori della lotteria, a causa semplicemente della lunghezza del percorso previsto, del fatto che gli interventi legislativi sulla scuola negli ultimi decenni sono molto frequenti, che le volontà politiche cambiano e le relazioni sindacali bene o male ancora influiscono.
Oppure, a causa del meccanismo di attribuzione dei premi, che – pare di capire – si basa sul numero chiuso a livello delle singole istituzioni scolastiche, col vincolo – per i premiati – di rimanere nella scuola presso la quale siano stati riconosciuti ‘esperti’ per almeno tre anni.
Ma prima? Tutti i partecipanti alla lotteria che sentissero di avere poche opportunità nell’istituzione scolastica di appartenenza, in base ai criteri che via via saranno esplicitati, cercheranno di spostarsi in altre nelle quali le prospettive appaiano migliori e la concorrenza meno agguerrita. Questo aumenterà, inevitabilmente, l’alea della competizione, col rischio di vedersi scavalcati magari all’ultimo giro. Per tacere, per carità di patria, del fatto che si tratterà di un gigantesco incentivo alla mobilità, ovvero all’ulteriore – forse finale – destabilizzazione delle istituzioni scolastiche.
Ci sarebbe ancora da dire, ma quello che si è fin qui evidenziato basta e avanza a qualificare, con ricchezza di argomentazioni, la misura in questione con due soli aggettivi: assurda e grottesca.
Sì, sono senz’altro i migliori. Ma si son dimenticati di esplicitare in cosa.
“Planté dans la terre par ses racines, planté dans les astres par ses branchages, il (l’arbre) est le chemin de l’échange entre les étoiles et nous.” Antoine De Saint-Exupéry
Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie, in bilico, in attesa e nel timore che un impertinente colpo di vento malandrino quanto irriverente ci faccia sobbalzare, vacillare, tremare, ripiegare su noi stessi e, infine, cadere.
L’incertezza, quella sensazione che non piace alla mente umana, desiderosa di un sogno, di un piano anche a breve termine, di un traguardo, di un obiettivo, di un punto di arrivo. Possibilmente bello. In bilico, oggi più che mai. Oggi che il mondo è scosso da emergenze, pandemie, guerre, catastrofi climatiche. Oggi che fa caldo, più di ieri, forse meno di domani, oggi che la terra ha sete.
Toscana, Cortona, Basilica di Santa Margherita, foto Marco Migliozzi
E invece siamo qui, in balia di quell’alito di vento che ci potrebbe far cadere per sempre ma che, cadendo, darebbe, comunque, vita e nutrimento alla terra. Siamo qui, affacciati alla finestra, un giorno di vacanze qualunque. Stanno arrivando pure le Frecce Tricolori. Come le bandiere alle finestre di qualche mese fa, ogni immagine diventa simbolica, più di quanto non lo sarebbe in tempi normali, ogni accenno patriottico un motivo di commozione o lacrima. Tempi duri. Durissimi. Va tutto a fuoco.
Abbiamo assistito, inermi, alla partenza di una generazione di anziani che ci ha garantito libertà e benessere, al loro andarsene silenziosi senza la possibilità di un’ultima carezza. Se ne è andata via la storia, ma dobbiamo ricordare che quella storia siamo noi, noi che siamo assistendo a una parte di essa, così diversa, così folle e disarmante perché ci pone di fronte a un nemico invisibile e che non parla, che non insulta o sputa sentenze, ma che ci obbligherà ad avere coraggio. Tante le parole che abbiamo sentito e letto sui giornali che abbiamo timidamente imparato a riprendere in mano, una carta stampata che ha ritrovato uno spazio inedito nelle giornate di chi ha alternato le ore fra lavoro a distanza, cucina d’altri tempi, chiacchierate con vecchi amici ritrovati e qualche rebus o parola crociata.
Dalla finestra abbiamo visto uomini mascherati, cani con una libertà a noi negata, sentito i suoni della natura ai quali non eravamo più abituati, cinguettii e fruscii che, nel silenzio, riportavano una briciola di serenità e pace.
Mosca, Gorky Park, foto Simonetta Sandri
Le città sono state silenziose e quiete, i quartieri deserti, nessuna calca e assembramento, ricerca dell’inutile, la distanza fisica è a lungo andata braccetto con quella della mente.
Il vuoto ha preso prepotentemente il suo spazio. Se non fosse stato per la tragedia che ci circondava, la sofferenza e le perdite che molti di noi hanno subito, si poteva dire che era tutto bellissimo. Il paradosso resta nel fatto che questo virus che ci toglie il respiro ci ha portato un’aria respirabile nelle città, ci ha riavvicinato al sussurro del dolce respiro della natura. Perché il respiro è tutto, è vita, e il male ci ha voluto dare la lezione.
Lecce, Quattro palme nel territorio urbano, foto Marco Migliozzi
Tutto ha continuato e continua, tutto ci mostra che può tranquillamente continuare senza di noi, noi ospiti di una terra meravigliosa, uomini richiamati all’ordine, fermati dalla Natura perché incapaci di farlo da soli. Forse dovevamo in qualche modo essere fermati, congelati per mesi solo con noi stessi e i nostri cari, per capire quanto loro fossero importanti, ancora di più se anch’essi congelati lontani. Fermati, immobilizzati come in un’istantanea in bianco e nero, rallentati per capire l’importanza di essere noi stessi, di quanto correre e accumulare non sia realmente un valore, di come si possa vivere con meno, con cibi genuini e preparati con amore, parlando con amici con i quali non si aveva mai il tempo di chiacchierare, riscoprire i legami dell’infanzia, quelli veri e che restano per sempre, capire chi veramente c’è. Monito e conseguenze pesanti. A salvarci resta la consapevolezza di essere vivi, la capacità di capire che la cultura sarà il nostro viatico per la rinascita. Sperando che di tutto questo si faccia tesoro. Anche se, a tratti, un po’ ne dubito.
Mosca, Gorky Park, foto Simonetta Sandri
Il mondo visto dalla finestra era ed è meraviglioso. Un battito di ali argentino. Abbiamo avuto il tempo di osservarlo, non perdiamo questa ricchezza. Quel periodo di pausa forzata ci ha riavvicinato alla sua bellezza e alla sua essenza, alle sue ragioni continuamente inascoltate, sbeffeggiate e schiaffeggiate. Nella difficoltà di concentrazione dovuta a un forte e tumultuoso sentimento di smarrimento, abbiamo tentato piano piano, giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto, di riprendere in mano i libri di un tempo, di sfogliare nuovamente pagine di vita che ci attendevano in attesa di essere ricomprese, rivalutate, ripensate, riviste, rimodulate, rivissute. Il rinviato ora è qui. Il qui e ora che si impone.
Rileggiamo con altro sentire. Spes contra spem.
Questa parentesi silenziosa e di isolamento ha mostrato a ciascuno la propria vera natura, il confronto quotidiano è stato spesso solo con sé stessi, un esercizio che ha aiutato a capire le cose a cui dire finalmente di no. Almeno spero. Non perdiamolo.
Personalmente ho ritrovato la direzione (o almeno parte), forse la sto solo riorientando perché molte delle conclusioni cui sono giunta si sono semplicemente consolidate; chi, come me, crede nell’essenziale, nel minimalismo e nella disciplina è sicuramente avvantaggiato, anche se pure a noi il tempo di vacillare si è fatto sentire.
Dobbiamo essere albero, mi dico e mi ridico, un saggio insegnamento atavico che vale sempre ma che oggi sembra sempre più fondamentale. Nessun ripensamento o dubbio. Poche certezze. Ancorati saldi alla Terra.Quella meraviglia che grida di ascoltarla.
Botswana, Central Kalahari Game Reserve, foto Marco Migliozzi
A parte quanto rimane in noi di essi, gli alberi sempre conoscono la nostra anima e, come ricordava Victor Hugo, sono simbolo di per sé di presenza, affiancano la nostra vita spirituale. Stanno, svettano, guardano verso il cielo a esso tendendo i rami a volte stanchi e secchi ma imperturbabili, con speranza, con devozione, con rispetto al bianco delle nuvole. Stanno. Semplicemente stanno. La presenza è un atto che impegna, una reale presa di coscienza del mondo, che ci lega di fatto al presente. È l’abolizione di ogni distanza tra sé stessi e il mondo, il che non fa sorprendere, dunque, che l’albero accompagni tanto spesso il nostro cammino spirituale. Libero.
Nulla è più vicino al mondo di un albero,che ne sposa i contorni fino a (con)fondersi con esso e a trasformarlo.
Australia, foto Marco Migliozzi
Lui, sensibile all’astro solare e alle profondità terrestri, dal movimento posato e sobrio. Bello, essenziale, elegante, educato, onesto, integro, sobrio, lento, perché capace di prendersi il proprio tempo. Libero, ancora una volta libero.
Scrigno di ricordi e memorie, paziente, sensibile alle stagioni, alle fluttuazioni quotidiane della luce, si lascia guidare da una temporalità cosmica di cui incarna una clessidra vivente. L’albero ci fornisce l’ora intima del mondo, pulsante, vivente, scalpitante, lucente, curioso, stabilmente meraviglioso, meravigliosamente grande e bello. Infinito.
Equilibrato e deciso, capace di trovare risorse nella scarsità, alleato sincero e solidale, perché con le sue radici intercomunicanti dona nutrimento alla vegetazione che gli chiede aiuto, con la sua ombra protegge quelle piantine che hanno bisogno di difendersi dalla luce. Ricco, ma solo della sua linfa e della sua forza, noncurante del superfluo, diverso nella coabitazione con le altre specie, decentrato perché senza organi interni, interamente proiettato verso l’esterno. Lui per noi, lui per loro. Un tutt’uno. Sensibile al cosmo.
Ramificato, con la sua immensa capacità di abbracciare il mondo, profondendogli energia. L’albero si fonde con il proprio ambiente, cresce in esso e con esso, l’uno il prolungamento dell’altro, difficili da dissociare.
Pointe Noire, Congo, foto di Simonetta Sandri
Gli alberi hanno talmente afferrato il mondo che non ne sono più separabili. Le loro radici varcano confini di giardini, città e Paesi, non vi è barriera che tenga.
L’albero svetta, nei campi, nelle pianure, nelle valli, nei boschi, sulle colline e sui dirupi, lungo le rive dei fiumi e nelle oasi dei deserti. Anche piccolo ma vivo e vivace.
Si adatta e cresce, sopravvive contemplativo, guardando solo verso il cielo azzurro e, a volte, con qualche nube di panna. Rivolto all’infinito e verso di esso, in un orizzonte la cui linea accarezza le nostre teste affaticate, i capelli incanutiti. Si piega ma non si spezza. O almeno ci prova. In armonia sostanziale con l’universo, come un accordo sinfonico che concorre al disegno di uno spartito quasi metafisico dal suono tintinnante dolce e sottile. Come un acquerello delicato che infonde pace e serenità all’occhio più disorientato e stanco, il tratto di un pennello su una foresta verde di pensieri che rinascono dalle ceneri.
Pointe Noire, Congo, atelier, foto di Simonetta Sandri
L’albero trattiene il nostro sguardo perduto, ci calma e culla nelle tempeste più violente. Energia pura.
Fluido, sospeso al suo divenire, si rinnova ogni anno, muore e rinasce all’arrivo di ogni stagione. Cambia pelle.
Spostato dall’uomo in ambienti a lui non congeniti, fa la conoscenza dei nuovi vicini, quelli non scelti da lui ma con i quali saprà trovare nuove occasioni di condivisione, ricomponendo una sua comunità.
Connesso, perché come diceva il biologo Alan Rayner, un albero non è mai solo. Simbiotico.
Dobbiamo essere come gli alberi. E alla fine, come scrive Concita De Gregorio, dopo una quarantena che è un vero setaccio, tutto andrà come può, ma soprattutto andrà come vogliamo che vada.
Alcune riflessioni sono maturate dalla lettura di Jacques Tassin, Penser comme un arbre, Odile Jacob, 2018, 142 p., che vi consiglio. Hanno cercato di sotterrarmi senza rendersi conto che ero un seme.
Articolo originale pubblicato su Meer, riscritto per periscopio
Foto di copertina; San Candido, di Simonetta Sandri Fotografie nel testo: Marco Migliozzi e Simonetta Sandri
Stiamo entrando in campagna elettorale, anzi, veramente ci siamo entrati almeno un anno fa. La tristezza di Beppe Sini, storico militante pacifista e nonviolento, è la nostra stessa tristezza. Dopo il tragicomico balletto per mettere insieme il patchwork delle liste, dopo la lotta al coltello per accaparrarsi un collegio “sicuro”, ci aspettano 40 giorni di mirabolanti promesse e schiaffi in faccia a destra e a manca. Tutti contro tutti, soprattutto in zona Centro e nella periferia di Sinistra. Tanto si sa, questa volta la Destra (quella vera) vincerà a mani basse. Si parlerà molto di rigassificatori. Non si dirà una parola sulla Ius soli e sui diritti civili degli stranieri in Italia. Berlusconi ha tirato fuori dal cassetto la flat tax. Giorgia Meloni si rivolge a noi, agli italiani, e ci chiama “patrioti”. La pace, tutti insieme, l’hanno sotterrata sotto il tappeto. Insomma, saranno elezioni molto brutte, e tutte da perdere. Un motivo in più per non starsene in silenzio. La redazione di periscopio
di Beppe Sini Responsabile del Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo
Il 25 settembre si voterà per il rinnovo del Parlamento italiano. Ed ancora una volta saranno esclusi dal voto milioni di persone che in Italia vivono, lavorano, crescono i loro figli, fanno un gran bene al nostro paese.
Milioni di persone che continuano a subire nel nostro paese un regime di apartheid, una violenza razzista istituzionale che è strettamente connessa ed effettualmente complice della violenza razzista e schiavista e assassina dei poteri criminali e del regime dei predatori e della corruzione.
Cosa si attende ancora a riconoscere il diritto di voto a tutte le persone che in Italia vivono? Cosa si attende ancora a far cessare il regime della segregazione razzista nel nostro paese? Lo chiediamo dal secolo scorso: una persona, un voto.
Il 25 settembre si voterà per il rinnovo del Parlamento italiano. Ed anche i sassi sanno che la prima e più urgente iniziativa politica e legislativa è opporsi alla guerra, avviare il disarmo e la smilitarizzazione, passare dalla folle e sanguinaria “difesa” armata alla necessaria ed urgente ed unica ragionevole difesa popolare nonviolenta, iniziare una politica internazionale di pace con mezzi di pace che convochi l’umanità intera all’universale solidarietà per far cessare tutte le uccisioni e cooperare per la salvezza dell’intero mondo vivente.
Una politica internazionalista, una politica dell’umanità, una politica della salvezza comune di tutte e tutti. Il programma di Guenther Anders e di Ernesto Balducci [vedi su questo giornale un ricordo nel centenario della nascita], il programma di Rosa Luxemburg e di Simone Weil, il programma di Virginia Woolf e di Hannah Arendt, il programma di Primo Levi e di Aldo Capitini, il programma di Mohandas Gandhi e di Luce Fabbri.
Cosa si attende ancora a capire che il tempo è poco e la strage è in corso? Cosa si attende ancora a capire che è in pericolo l’esistenza dell’umanità intera? Solo la pace salva le vite, e salvare le vite è il primo dovere. Solo la nonviolenza costruisce la pace, libera tutte le oppresse e tutti gli oppressi, appronta gli strumenti e l’orizzonte di senso necessari alla salvezza comune di quest’unica umana famiglia e di quest’unico mondo vivente.
In questa grottesca, triste e trista campagna elettorale queste due indispensabili parole di verità, questi due prioritari impegni programmatici vorremmo sentire enunciati e sottoscritti da chi si candida a fare le leggi con l’impegno di contrastare il fascismo che torna, che in larga misura è già qui.
1. una persona, un voto 2. pace, disarmo, smilitarizzazione subito
Questo articolo è uscito con altro titolo su pressenza del 10 agosto 2022.
In copertina: foto tratta da www.apiceuropa.com
Ho letto recentemente che all’articolo 37 del decreto cosiddetto Aiuti bissi prevede che fra 10 anni l’1% dei docenti italiani, dopo aver compiuto 3 percorsi formativi di 3 anni ciascuno, diventeranno esperti e guadagneranno 5.650 euro in più degli altri.
Potrà diventare esperto solo 1 insegnante su circa 100; in pratica, uno per istituto scolastico.
Il decreto non chiarisce il ruolo di questo docente ma precisa che “la qualifica di docente esperto non comporta nuove o diverse funzioni oltre a quelle dell’insegnamento”.
A questo punto viene da chiedersi: a cosa serviranno questi pochi docenti e, soprattutto, a chi?
A quale idea di scuola saranno funzionali se non al modello competitivo? E in una simile gerarchia, che prevede alla sommità i dirigenti scolastici ed un gradino più in basso i “docenti esperti”, quelli che stanno alla base saranno da considerarsi docenti “inesperti”? Si prevede forse di risparmiare non rinnovando i contratti di lavoro degli insegnanti preferendo pagarne bene solo alcuni? Un simile provvedimento è stato infilato in un decreto chiamato “aiuti” perché viene considerato un aiuto alla scuola? Perché questo decreto non è stato discusso in maniera democratica?
Tale scelta preoccupante trova il gradimento solo di chi, già in passato (Letizia Moratti, Valentina Aprea e Matteo Renzi), aveva provato ad inserire la competizione in un contesto scolastico che, per sua natura costituzionale, dovrebbe essere di cooperazione .
Chi si occupa di insegnamento e di educazione fa un mestiere potente perché può influenzare la crescita degli studenti e delle studentesse in modo importante o irrilevante e in maniera positiva o negativa. Per questo fare scuola è un mestiere difficile e delicato, in cui oltre alle conoscenze occorre la capacità di saperle tramettere, ma soprattutto c’è bisogno di passione per il proprio lavoro e dell’abilità nel saper appassionare le alunne e gli alunni coinvolgendoli fino a farli diventare una classe cooperativa.
Non tutti noi insegnanti siamo empatici allo stesso modo ed è normale che sia così: alcuni sono più coinvolgenti e altri più equilibrati, alcuni sono più tecnici e altri più creativi, alcuni sono più pesanti ed altri più leggeri.
Allo stesso modo in cui la classe non esiste ma si costruisce a partire da un insieme di ragazzi e ragazze, anche la scuola si fa mettendo insieme docenti, collaboratori, personale amministrativo e dirigenti diversi fra loro.
È il saper creare mettendo insieme persone, passione, competenze, perché sono le diversità che fanno la differenza, nella vita come in classe e a scuola.
Personalmente, credo che il saper fare scuola sia un po’ come saper preparare il ragù.
Gli ingredienti sono vari, diversi, ognuno con le sue caratteristiche. Se li prendiamo da soli possono fare la loro bella o brutta figura grazie al loro sapore e al loro odore, ma se li mescoliamo insieme con buona competenza, con la progressione dovuta, dosando le opportuna quantità, per il tempo opportuno, con il giusto calore, non saranno più solo se stessi ma si trasformeranno a tal punto da diventare parte di qualcosa di originale e di specifico che non sarà più la somma dei singoli ma un insieme unico e prezioso.
Per fare un buon ragù non bisogna essere chef ma bisogna sapere come si fa, bisogna essere appassionati, serve conoscere gli ingredienti ed i condimenti, sapere quello che possono e non possono dare da soli e insieme agli altri in modo da riuscire ad ottenere il meglio da loro. Solo allora, grazie al sapere e al saper fare ma anche al saper essere di chi cucina, si potranno anche fare sperimentazioni.
La metafora del ragù per parlare del fare scuola mi serve per affermare che, nelle nostre classi, non abbiamo bisogno di pochissimi docenti esperti (i master chef) ma di tantissimi insegnanti appassionati, preparati e volenterosi (i cuochi).
A scuola, abbiamo bisogno di tanti bravi artigiani e non di pochi artisti eccezionali.
A scuola, abbiamo bisogno di ripensare seriamente ad una formazione iniziale che prepari i futuri insegnanti ad operare in una comunità in cui il sapersi relazionare è importante tanto quanto il saper trasmettere conoscenze.
A scuola, abbiamo bisogno che tutti gli insegnanti siano esperti nell’arte dell’ascoltare, dell’accogliere, dell’incuriosire, dell’appassionare, del raccontare, dello spiegare, del far capire, dell’inventare.
A scuola, abbiamo bisogno di insegnanti che siano operai della conoscenza, allevatori di speranze e coltivatori di futuro. Solo così avremo una ‘buona scuola’ e non una ‘cattiva scuola’ abbandonata a se stessa.
A scuola, abbiamo bisogno di sentire qualche politico al governo a cui interessa la scuola perché crede in un Paese migliore.
A scuola, abbiamo bisogno di ministri dell’istruzione “esperti” di scuola.
Gli Haiku sono brevi componimenti poetici della tradizione giapponese. Normalmente non hanno titolo. Sono composti da 17 more (che possiamo tradurre in unità sillabiche), secondo lo schema 5-7-5. I versi di un haiku sono strutturati in modo che, normalmente tra il primo ed i due versi finali, contengano un kireji(letteralmente “parola che taglia”) ovvero una cesura, un rovesciamento, che può essere indicato da un trattino, una virgola o un punto. Questo kireji ha la funzione di segnalare a chi legge un ribaltamento concettuale, un rovesciamento di significato all’interno dell’haiku. Proprio in questo rovesciamento sta la riuscita o meno del componimento, che è stato anche definito come un antisillogismo. Mentre nel sillogismo le conclusioni sono logicamente determinate dalle “premesse” , nell’haiku le conclusioni appaiono illogiche, apparentemente prive di connessione.
I miei sono componimenti che si rifanno concettualmente agli haiku, non attenendosi, almeno in generale, alle sue regole di metrica. Perché scrivere haiku? Perché la concisione credo, è il miglior registro del nostro tempo.
1.
Guardo ma non vedo –
Dai finestrini di un treno
non trovo confini
2.
L’estate si allarga
bruciano i colori.
Si smarriscono le ombre
3.
In alto tra i tetti
incespica lo sguardo.
Una rondine vola
4.
Le cicale sognano
gli alberi pensano.
Si riempie il vuoto
5.
Gli stessi gesti
la profondità dei giorni.
Il tempo naufraga
6.
Indugio su quei volti
Giovani oggi vecchi domani –
Immagino storie
7.
Le parole arrancano.
Il bianco foglio cede
dimentica cosa è stato
8.
Sabbia e mare
Il suono ancestrale.
Sono nato nudo
Giovanni Drogo Ho un nome letterario. Non è difficile, ma il perché ve lo lascio scoprire da soli. Non mi piace essere fotografato e nemmeno parlare di me. Quindi darò solo qualche indicazione, giusto perché non vorrei che si pensasse che non esisto. Ho fatto l’insegnante e poco importa cosa insegnavo, anche perché non so se qualcuno ha imparato qualcosa dal sottoscritto. Nel tempo libero scrivevo – e scrivo ancora, ora che sono in pensione – ma mi sono anche messo a lavorare con le mani: giardinaggio e piccoli lavori di falegnameria. Sono da sempre un lettore onnivoro e insaziabile. Ho scoperto da qualche mese periscopio e la bella rubrica poetica curata da Gigi Guerrini. Avevo alcune cose nel cassetto. Ho deciso di inviarle e se mi leggerete, vuol dire che sono state giudicate degne di essere pubblicate.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]
Sandy, cara Sandy. Ci hai lasciato soli, hai lottato come una leonessa per trent’anni con un male che ti ha fatto ben capire la differenza sostanziale fra remissione e guarigione ma alla fine ci hai detto addio. Non sarà un addio, però, credici, perché sei stata e sarai sempre nei nostri cuori. Quella gentile biondina che si trasforma è stata uno stimolo per molte di noi. Una perla di rara bellezza e delicatezza.
Il tuo amico John Travolta ti ha salutato così: “Mia cara Olivia hai fatto così tanto per rendere le nostre vite migliori. Il tuo impatto è stato incredibile. Ti ho amato tanto. Ci rivedremo ancora lungo il cammino e saremo di nuovo uniti, di nuovo insieme. Sono sempre stato tuo dal primo momento che ti ho vista e lo sarò sempre. Il tuo Danny, il tuo John”.
E tu per noi sarai sempre la dolce Sandy. Indimenticabile.
Gli sguardi magici e complici di Danny Zuko e Sandy Ollson del cult di Randal Kleiser che ha fatto la storia del musical, Grease (1978, trasposizione cinematografica di un grande successo di Broadway), non si perderanno mai.
Noi ricordiamo Olivia Newton-John per quelle scene che ci hanno ispirato infinita dolcezza e fatto sognare ad occhi aperti ma è stata anche, e soprattutto, una cantante di successo.
L’attrice inglese, trasferitasi presto in Australia, è, infatti, diventata un’icona negli anni ’80, non soltanto grazie a Grease ma anche per la sua carriera musicale, cominciata, nel 1966, con il singolo Till You Say Be Mine. Nel 1970 era entrata nella band Tomorrow, partecipando all’omonimo musical. Torna però presto alla carriera solista e nel 1974 si posiziona al quarto posto all’Eurovision Song Contest con il brano Long Live Love. Escono poi le canzoni If You Love Me (Let Me Know) e I Honestly Love You, per cui vince due premi Grammy. La consacrazione arriva nel 1981: esce l’album Physical, che contiene l’omonima canzone di enorme successo, e le viene data una stella nella Hollywood Walk of Fame.
Ha lavorato con molti artisti, da Elton John a Michael Jackson, fino a Lucio Dalla.
Nel 1983, nuovamente in coppia con John Travolta, Newton-John recita in Due come noi. Il film non regge il confronto con Grease, ma la colonna sonora diventa disco di platino. Farà altri film (Una mamma per Natale, 1990, Un party per Nick 1996, Sordid Lives, 2001,Tre uomini e una pecora, 2011), ma Grease resta quello che ha lasciato il segno.
L’artista ha chiesto al mondo di continuare a supportare la Olivia Newton-John Foundation Fund, organizzazione impegnata nella ricerca di fondi per trovare le cure contro il cancro, dal 2012.
Nella notte di San Lorenzo, di solito (anche se adesso pare che sia slittato il calendario) cadono un po’ di stelle e si esprimono, senza dirli a voce alta, i desideri.
Stanotte, sulla via Tiburtina, altezza Casal Bruciato, c’è qualche briciola di quelle stelle cadenti al bar Manhattan, vicino al Bingo.
Seduto su una seggiola, da solo, c’è un maciste tatuato che potrebbe essere il buttafuori della sala giochi.
Ha un codino come Travolta in Pulp fiction e un fisico strapalestrato che lascia immaginare un periodo in cui, di diventare una stella, ci ha creduto. Stasera ha un’aria malinconica e solitaria, anche se qualcuno passa a salutarlo e si vede che l’ammira, toccandogli le pagnotte tatuate dei bicipiti.
Lui lo guarda con un’aria un po’ malinconica, forse vuole tenere le distanze, non si sa mai.
Perché Manhattan è aperto tutta la notte e ha frequentazioni di tutti i tipi.
Ora a un tavolino, una coppia di lesbiche mature e mascoline si sta consolando per qualcosa andata storta. In un angolo, una procace quarantenne vestita da ghepardo guarda chi entra dalla porta con sguardo da predatrice.
Arrivano altri culturisti, ragazze con tatuaggi strampalati.
Niente di particolarmente hard, ma c’è un profumo di America del Midwest.
Manuel, uno dei miei due figli di altri padri, che mi ha introdotto al Manhattan, dice che ci viene spesso nelle sue notti bianche, perché prova attrazione per i luoghi distopici.
E certo questo bar, già dalle luminarie che sognano una lontanissima Las Vegas, ha qualcosa di incongruo con quello che uno immagina della via Tiburtina.
A partire dalcocomeraro che, pochi metri più in là, offre uno scorcio di una romanità vintage, coi tavolacci di legno macchiato di umido dove stasera, un signore solitario mangia la sua fetta d’anguria seduto accanto al suo cane, che si è piazzato sulla sedia come una moglie e sembra che se la mangi assieme a lui.
Una Roma notturna piena di giovani in bande, indaffarati coi loro smartphone, ma quieta, un po’ scettica: Roma non appare violenta. Non è nemmeno sovraeccitata, frizzante o schizzata.
E’ una città che non esprime più erotismo, come si fosse ammosciata. La vita non è più così Dolce, se mai lo è stata.
E anche se non sono certo in grado di stilare un rapporto Kinsley sulle abitudini sessuali dei romani, m’immagino che a far l’amore siano in pochi e tanti invece a compiere casti rituali coniugali o dedicarsi a sfoghi più o meno deludenti.
Ma in fondo che ne sappiamo? Sul lato intimo dell’umanità, abbiamo solo finzioni.
A Roma d’estate, la notte è il momento migliore per uscire in strada. Si cammina senza troppa paura, anche per i viali della periferia, un tempo luoghi deputati solo alla prostituzione.
Al semaforo c’è sempre Ahmed, da almeno sei anni. L’ho visto invecchiare, imbiancare i capelli e anche perderli. All’inizio lo trovavo invadente, con quella spazzola sempre in agguato.
Ora lo vedo e lo chiamo. “Eh non c’è lavoro capo, niente lavoro” mi dice, alle due di notte, mentre insapona il cristallo cercando di sbrigarsi prima che venga il verde.
Io gli do la moneta e lui, dopo avermi ringraziato, fa dei segni al cielo, come se parlasse con Allah. Non so come farà mai a tornare al suo paese.
Forse, mentre il semaforo è verde, se avrà la fortuna di vedere una stella cadere, può ricordarsi di esprimere il suo desiderio. Ma dentro di sé, non ad alta voce.
(continua il 16 agosto)
Per leggere tutti insieme i capitoli del Diario di Daniele Cini:
Il 21 luglio 2022 la Banca Centrale Europea (BCE) ha alzato i tassi di 50 punti base, un rialzo forte che pone fine al denaro a buon mercato durato 11 anni.
Una delle prime conseguenze per i consumatori sarà di avere dei mutui più cari, mentre per lo Stato sarà di pagare maggiori interessi sulle sue emissioni, quindi pagherà più interessi sui titoli di stato decennali (BTP) e il debito pubblico aumenterà insieme alla colpa morale dei cittadini.
A seguire la FED ha aumentato a sua volta i tassi di 75 punti base portando il tasso di riferimento al 2,5% e così ha fatto anche la BCE che ha portato i tassi all’1,75%, in questo caso il maggior rialzo da 27 anni.
Perché le banche centrali stanno rispolverando le loro armi di politica monetaria e cosa sta succedendo davvero?
Il motivo principale per cui si alzano i tassi di interesse è quello di combattere l’inflazione. Come si sa stiamo attraversando un periodo in cui l’inflazione ha raggiunto vette inedite per il nuovo millennio, nell’Eurozona ha superato l’8% mentre negli Stati Uniti e in Gran Bretagna addirittura il 9%.
Sia la causa (l’inflazione) che la reazione (aumento dei tassi) hanno effetti diversi sull’economia finanziaria e su quella reale, sui decisori e sulla massa. Il mercato delle valute (Forex) ci aiuta a fare qualche passo in avanti per comprenderlo. Dopo un aumento dei tassi di interesse ci si aspetterebbe che la valuta di riferimento si rafforzi in quanto il suo valore aumenta. Invece ad ogni annuncio di un rialzo del tasso di riferimento queste crollano (relativamente) a dimostrazione che gli investitori sanno bene che prima di scommettere è d’obbligo dare un’occhiata a quello che succede nell’economia reale, ovviamente non perché gli interessi quello che succede alla gente ma per trarre conclusioni utili per i suoi guadagni. E qui si realizza a pieno la contrapposizione tra l’interesse del cittadino comune e quello del potere (o élite, o decisori, o l’1% della popolazione).
Negli Stati Uniti, ad esempio, il 5 agosto ci si aspettava che i tassi di occupazione nel settore non agricolo riferiti al mese di luglio avrebbero confermato un ribasso. Invece c’è stato un aumento di 528.000 unità, più del doppio delle 250.000 previste, mentre il tasso di disoccupazione è sceso dal 3,6% al 3,5%. Bene, si penserà. Invece no. Un aumento dell’occupazione porterà sicuramente ad un ulteriore aumento dell’inflazione il che a sua volta porterà ad ulteriori interventi della Banca Centrale in senso restrittivo, cioè nuovi aumenti dei tassi di interesse.
Chiariamo: aumentare i tassi di interesse significa che il denaro costa di più e quindi se ne chiederà in prestito di meno. Ci saranno meno soldi in giro da investire e a prezzi più alti, l’economia si contrarrà, il PIL scenderà a causa delle minori transazioni e “finalmente” aumenterà la disoccupazione, cosa che potrebbe rimettere a posto le cose con l’inflazione. Nel frattempo prevale il sentimento negativo e gli investitori aspettano se questo ciclo, previsto ampiamente, si verifichi sul serio.
Del resto qui si sta affrontando un’inflazione causata dall’aumento delle materie prime, cioè “esterna”, e quindi abbassare il potere di spesa dei lavoratori potrebbe essere un’arma spuntata, anche se è sempre quella preferita dai governi. È sempre meglio avere un colpevole pronto da utilizzare piuttosto che dover spiegare il perché o la legittimità delle decisioni prese dai governi.
Aumentare il costo del denaro ha un costo sociale e purtroppo il prezzo pagato non è mai stato equamente condiviso.
Nel passato, una delle posizioni più estremiste in senso restrittivo fu quella sostenuta da Paul Volcker, il Falco dell’inflazione, presidente della FED dal 1979 al 1987.
In sintesi e in cifre, Volcker portò il tasso d’interesse fino al 20%, di conseguenza l’inflazione negli Stati uniti dal 13,5% del 1981 scese al 3,5% nel 1983. Il grande successo ottenuto significò anche una perdita del PIL del 19% e una disoccupazione che arrivò a superare il 10%, qualcuno dovette sacrificarsi per il benessere di qualcun altro.
Questo negli Stati Uniti. In Italia per combattere l’inflazione si tolse potere pubblico dalle banche centrali. Da quel momento il debito pubblico si impennò fino ai valori attuali e sostanzialmente lo Stato perse il potere di gestirlo dovendo rimettersi al mercato per ogni rifinanziamento dei suoi titoli. Successivamente si passò all’inganno della scala mobile, ridimensionata a furor di popolo e poi eliminata definitivamente. Con queste operazioni si tolse, da una parte, potere ai cittadini di controllare attraverso i suoi rappresentanti le finanze dello Stato e, dall’altra, si affermò il principio che la colpa dell’inflazione fosse dei lavoratori, erano i loro salari a tirarsi dietro l’inflazione e non i disastri delle errate decisioni politiche. Oggi abbiamo gli stipendi fermi agli anni ’90, ma qualcuno ancora pensa che siano troppo alti rispetto alla nostra competitività. Segno che il potere non perde mai smalto.
Sia nel caso americano che italiano non ci furono proteste, anzi. Ronald Reagan godette del ritorno delle politiche monetarie di Volcker aumentando il suo consenso. I lavoratori italiani reagirono ai movimenti sindacali, che volevano il ripristino dei punti di scala mobile che gli erano stati sottratti, con una montagna di like al governo Craxi tramite referendum nel 1985. Diedero cioè fiducia a chi aveva acceso il fuoco alla pentola piena dell’acqua che li avrebbe bollito, a fuoco lento, come la rana del famoso esempio di Noam Chomsky. Ciò che va bene alla classe dirigente va bene per tutti.
I governi, nel tempo, ci hanno lentamente convinto che siamo tutti nella stessa barca e che quindi qualsiasi interesse da perseguire sia un interesse comune. Le Banche Centrali ci hanno invece convinto che tutte le decisioni di politica monetaria siano nel nostro interesse, quindi “sappiamo” che se i salari sono bassi è colpa nostra, siamo poco produttivi e che se c’è l’inflazione va combattuta fino all’ultimo lavoratore.
È più psicologia che economia. Un po’ come gli influencer che predicano la tutela dell’ambiente e prendono milioni di like che si traducono in lauti guadagni (per loro) e poi si fotografano mentre vanno in vacanza sui loro jet privati, super lusso e altrettanto super inquinanti e prendono milioni di like che … si traducono di nuovo in lauti guadagni (per loro).
Insomma: il popolo non fa e non sa più fare la differenza, in particolare da quando si è ridotto il margine delle sue manovre. Oggi infatti gli si chiede solo di scegliere se premere quel pulsante, dare o meno un like. Metodo che utilizza anche qualche movimento politico, sostituire il peso dell’impegno alla conoscenza (diverso da quello dell’odierno attivismo politico) con la semplice scelta tra un pollice su oppure giù.
“Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici; se si fosse rivelata meschina, volevo trarne tutta la genuina meschinità, e mostrarne al mondo la bassezza; se invece fosse apparsa sublime, volevo conoscerla con l’esperienza, e poterne dare un vero ragguaglio nella mia prossima digressione.” Henry David Thoreau, Walden ovvero vita nei boschi
Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà. San Bernardo di Chiaravalle
Quando entri in un bosco popolato da antichi alberi, più alti dell’ordinario, e che precludono la vista del cielo con i loro spessi rami intrecciati, le maestose ombre dei tronchi, la quiete del posto, non ti colpiscono con la presenza di una divinità? Seneca
La preghiera è stare in silenzio in bosco. Mario Rigoni Stern
Chi decide di camminare nel bosco è in cerca di una libertà diversa, interiore, che lo renda padrone della sua vita, capace di agire come gli alberi e gli uccelli che vivono al di sopra di tutto. Romano Battaglia
Quello che stiamo facendo alle foreste del mondo non è altro che uno specchio di ciò che stiamo facendo a noi stessi e agli altri. Mahatma Gandhi
Le fotografie dei boschi e laghi della Val Pusteria sono di Simonetta Sandri
Ieri mi sono ritrovata imbottigliata nel traffico. Dovevo portare la mia anziana mamma a pranzo da suoi vecchi amici. A causa di un incidente l’autostrada era bloccata. Siamo arrivate a destinazione alle 14. I due anziani amici di mia madre, genitori di amici della mia infanzia che non vedevo da molto molto tempo, mi hanno gentilmente offerto di rinfrancarmi dal caldo accettando il loro invito a sedermi a tavola con loro. Tutti ultraottantenni apparivano poco cambiati rispetto ai miei ricordi d’infanzia. Certamente più incurvati, con l’artrite nelle mani, con il passo meno sicuro, ma con l’ espressione del volto che non era non molto diverso da quello dei miei ricordi.
Una bella casa genovese, in una splendida zona di Genova, la tavola apparecchiata con la tovaglia, la donna di servizio con il grembiule in cucina che trafficava. Insomma un ambiente che ricordavo, molto borghese e raffinato, rimasto tale e quale a 40 anni fa, avvolto da muri pesanti separato totalmente dal fuori. Mi sono ritrovata in un atmosfera tipica della mia infanzia che però fa a pugni con la vita che si prospetta per il futuro. Almeno così l’ho avvertito io. Ci siamo seduti a tavola ed è iniziata la conversazione di rito. Il tempo passato, le nostre storie di vita, famiglia figli etc. poi la fatidica frase “parliamo un po’ di politica”.
Sapevo che stavo cadendo in una trappola ma non ho resistito e siccome gli anziani ospiti avevano un condizionatore che andava a palla – fuori c’erano 35 gradi – mi sono arrischiata nella battuta “ vedo che avete il condizionatore che va al massimo e dunque devo presuppore che non siate affatto d’accordo con Draghi”. Non l’avessi mai detto… “ Draghi il miglior presidente che abbiamo avuto negli ultimi 30 anni, unico presidente ammirato in tutto il mondo (e intanto il mio cervello si chiedeva” a quale mondo facevano riferimento?”). Hanno poi continuato “Autorevole e capace di limitare le “ troppe libertà dei nostri giovani” che naturalmente andavano recintati perché se no portavano il virus in giro causando la morte dei vecchi”.
Il condizionatore continuava a sparare aria fredda, e loro mi parlavano dei poveri ucraini che andavano aiutat,i perché il “mostro Putin” andava fermato. E intanto mi dicevano che i miei figli avevano fin troppe libertà e che andavano contingentate, che il loro sacrificio di sottoporsi a un vaccino sperimentale per difendere la vita dei vecchi era il minimo che potessero fare per ringraziarli per tutto quello che avevano ricevuto – e di nuovo il mio cervello si chiedeva “ un pianeta a rischio estinzione?” Aggiungevano che tutte le mie contro argomentazioni erano irrazionali, frutto di isteria. Avevo tentato timidamente di dire che una società che usa come cavie i bambini e i giovani adolescenti con un siero di cui nulla si sa sugli effetti a lunga scadenza era una società che non aveva a cuore il futuro delle nuove generazioni. Hanno tuonato che non avevo fiducia nella scienza! Quando ho opposto a quale scienza facevano riferimento, a quel punto mi hanno detto garbatamente che ero una folle complottista, che se avevo avuto il Covid senza quasi sintomi era solo culo e che dei loro tre figli solo uno la pensava come me (per fortuna) e lo definivano appunto il complottista.
Il vecchio padre continuava a ripetermi di aprire una disputa socratica: ”argomentiamo ogni singola posizione e vedrai che fallisci”. Ho accettato la sfida. Mi sono sembrati dei folli come folle apparivo io ai loro occhi. I loro punti erano tutti fondati sul dogma della giustezza delle scienza, quella riconosciuta dal Potere ovviamente, e sul dogma dello Stato Padre, che sceglie sempre per il bene di tutti al quale i cittadini onesti devono obbedire ciecamente. Ciò che io reputavo una ragionamento logico per loro era irrazionale e ciò che loro reputavano un ragionamento logico a me pareva solo un modo per scansare la loro paura della morte.
Mi sono alzata sorridente, mantenendo il più possibile la calma, ho addotto la scusa che avevo una figlia adolescente da recuperare, e con un filo di ironia ho aggiunto che certamente avrei telefonato al loro figlio complottista per organizzare le barricate in difesa del principio di autodeterminazione così criminalmente calpestato in questi due anni dallo Stato Padre e che come femminista non mi stupiva affatto dal momento che da millenni il principio di autodeterminazione viene osteggiata, a partire dal controllo dei corpi delle donne, dal Patriarcato di cui massima espressione, oggi, sono le istituzioni . La padrona di casa mi ha gentilmente accompagnato all’uscita con questa bella battuta “il femminismo; la malattia peggiore che esista e per il quale purtroppo un vaccino non c’è”. Quanto a carattere lo sfoderava con ancor più audacia della mia, chapeau, un bel calcio in culo con il sorriso sulla bocca.
Fuori dalla porta mi aspettava un sole rovente ma una luce intensa, radiosa e meravigliosa. Mi sono detta che la paura della morte, se non riconosciuta e messa in parole produce queste aberrazioni:“se non si bucavano i giovani, andavano in giro, mi infettavano e mi ammazzavano” questo avevano detto gli ultra 85enni, come se la morte non fosse presente se non attraverso lo spazio che i giovani portano via ai non giovani . Con questo schema i vecchi possono allontanare il pensiero della morte spostandolo all’infinito sulla colpa dei giovani di essere giovani. Mi è venuto in mente questa brillante riflessione di Franco Nembrini“l’educazione è un casino da mo” [vedi il video], due minuti esilaranti che vi consiglio di ascoltare.
Non cambia nulla, la storia si ripete, se non siamo capaci di andare in fondo ai tunnel delle nostre paure. Resta però il fatto che in tempi estremi come quelli che stiamo vivendo, non affrontare seriamente e profondamente queste nostre paure ataviche diventa criminale perché ci si macchia dell’assassinio vero e proprio e non simbolico della gioventù.
lo confesso, sono uscita schifata anche se sento e so che parte del loro modo di vivere appartiene anche al mio, è parte di me. E che per liberarmene c’è bisogno di un vero atto di rottura. La babele che ci avvolge, l’incomunicabilità tra generazioni è forse il castigo che ci spetta per non volere fare fino in fondo il salto quantico, il salto dentro al futuro, con gli occhi di chi lo ha davanti tutto da vivere. Ho scritto questo pezzo perché spero davvero di non fare il loro stesso errore, spero di non macchiarmi di una colpa che non riesco a perdonargli, quella di non sapere accettare la finitudine della vita che porta alla cancellazione del diritto allo spazio della vita di chi verrà dopo di noi.
Le notizie riportate sulla stampa circa i progetti di miglioramento del bilancio delle utilities del Petrolchimico (riduzione del fabbisogno di acqua, efficientamento energetico degli edifici, ecc.) non possono che rallegrarci, ma occorre ricordare che dobbiamo garantire la salvaguardia del Petrolchimico con uno sviluppo che, purtroppo, non può essere assicurato dai soli miglioramenti gestionali.
La Petrolchimica nel nostro Paese non avrà un futuro se non avvierà un ciclo di innovazioni che sappiano affrontare lo strapotere delle grandi aziende del settore, e poi che hanno impianti di enormi dimensioni, con costi delle materie prime sensibilmente inferiori a quelli sopportati dalle nostre aziende.
CDS Cultura, insieme a tecnici del Petrolchimico, all’Associazione Amici dell’ITI “Copernico –Carpeggiani” e agli autori del libro “Ferrara e il suo Petrolchimico, volume secondo” ritengono che sia possibile ripercorrere il percorso già vissuto a Ferrara presso il Centro Ricerche Giulio Natta con la realizzazione del polipropilene negli anni ’50 e successivamente, negli anni ‘80, con i fenomenali breakthrough del processo Spheripol, caratterizzato da notevoli risparmi energetici ed enormi vantaggi ecologici, seguito alcuni anni dopo dal processo Catalloy.
Con lo stesso impegno si ritiene sia possibile perseguire l’obiettivo del riciclo integrale della plastica attraverso il quale il Petrolchimico di Ferrara può trovare il suo futuro.
È possibile gestire la plastica – rifiuto con processi di riciclo sia meccanico che chimico a partire da quelli messi a punto e realizzati grazie al lavoro di Ricerca e Sviluppo condotto proprio all’interno del Polo Industriale ferrarese.
La tecnologia MoReTec testata a Ferrara per il riciclo chimico sarà implementata industrialmente sia in Germania che negli Stati Uniti come dichiarato recentemente dai vertici di Lyondellbasell.
Con le tecnologie di riciclo chimico messe a punto non solo da Lyondellbasell ma anche da ENI-Versalis con la sua tecnologia Hoop, operando con due linee da 125.000 ton/anno si può ottenere una quantità di olio pirolitico (con composizione simile a quella della virgin nafta impiegata negli impianti di cracking) pressoché uguale alla quantità delle poliolefine “rifiuto” prodotte dal Petrolchimico (polipropilene e polietilene) in un anno.
A livello nazionale sarebbero necessarie almeno 7 – 8 di linee di riciclo molecolare, con a valle un cracker nel nord (a Porto Marghera) e con un cracker nel sud (in Sicilia), per l’ottenimento del propilene e dell’etilene, possibilmente sostenuti da fonti energetiche rinnovabili.
E qui appare per lo meno discutibile se non addirittura fuori di ogni logica la fermata del cracker di Porto Marghera, quando in Belgio ne stanno avviando uno di grandi dimensioni.
Acquisendo competenze ed esperienza e con il lavoro della ricerca si possono aggredire inoltre quote delle centinaia di milioni di tonnellate di materie plastiche “rifiuto” presenti e raggiungibili nei giacimenti a cielo aperto abbandonati nel pianeta, realizzando un’opera eccezionale di bonifica ambientale, di valore economico ed occupazionale.
L’ammontare di petrolio risparmiato in Italia potrebbe corrispondere a circa 6.000.000 di barili/anno e tenendo conto che, con il supporto di ENI Versalis, processi simili potrebbero essere impiegati per l’intera gamma dei materiali di plastica, il petrolio risparmiato potrebbe arrivare a 20.000.000 di barili/anno, … più della metà del petrolio estratto annualmente nel nostro Paese.
CDS Cultura OdV, insieme a tecnici del Petrolchimico, all’Associazione Amici dell’ITI “Copernico – Carpeggiani” e agli autori del libro “Ferrara e il suo Petrolchimico, volume secondo” si sono fatti promotori di un progetto pilota “Riciclo delle Mascherine” e recentemente di un progetto per il “Riciclo integrale delle materie plastiche”, verso i quali stanno coinvolgendo responsabili di istituzioni (MITE, RER, ART-ER, e a livello locale), aziende (LYB, Centro Ricerca Giulio Natta, HERA, Lega Coop), Istituti scolastici (a partire dall’ITS Copernico – Carpeggiani), UNIFE, SIPRO, raccogliendo consensi e disponibilità.
Ferrara con il suo Petrolchimico potrebbe diventare il Centro Nazionale del Riciclo integrale della plastica, per le competenze scientifiche del Centro Giulio Natta, per la presenza di aziende di livello mondiale, per la sua Università e per la sua storia.
A Ferrara potrebbe essere posizionato un focus sul progetto del “Riciclo integrale delle materie plastiche”, con i competenti del settore, finalizzato a dare gambe al progetto, verificarne la realizzabilità e dare sostegno alla ricerca.
Il rinnovamento del calcio inglese, trent’anni fa: con uno spot
Fa un po’ strano pensare che circa trent’anni fa le partite del massimo campionato inglese venivano trasmesse soltanto da due emittenti, ossia BBC e ITV, e per giunta in quantità assai minori rispetto a oggi. Non c’erano posticipi, approfondimenti o lunghi pre-partita: il collegamento dallo stadio avveniva dieci minuti prima del fischio d’inizio, senza passare dall’ormai consueto studio televisivo. Di conseguenza, al di là di coloro che il sabato pomeriggio si recavano allo stadio, il pubblico della First Division faticava a seguire regolarmente la propria squadra.
La situazione cambiò all’inizio degli anni ’90: gli effetti del rapporto Taylor, l’hype generato dal Mondiale italiano e la modifica regolamentare del retropassaggio aumentarono la curiosità del pubblico inglese, il quale fu uno dei primi in Europa ad abituarsi alle pay tv satellitari e ai nuovi palinsesti sportivi. In particolare, l’allora British Sky Broadcasting (BSkyB) riuscì a battere la concorrenza di ITV e a ottenere in esclusiva i diritti per la messa in onda della neonata Premier League. Il tutto grazie a un’offerta da 191 milioni di sterline e all’essenziale compartecipazione dell’allora proprietario del Tottenham Alan Sugar, la cui azienda di elettronica avrebbe fornito alla stessa BSkyB le parabole e i decoder digitali. Insomma, il 1992 fu l’anno in cui il massimo campionato inglese cambiò pelle: nuova governance, nuovo look e maggiore visibilità.
La campagna pubblicitaria lanciata da BSkyB, intitolata “It’s a whole new ball game”, martellò il pubblico inglese durante l’estate, e lo spot televisivo con Alive and Kicking dei Simple Minds fu trasmesso un po’ ovunque. Quello spot è diventato col tempo un oggetto di culto, se non altro perché racchiude in sé l’estetica patinata di quegli anni: tra un sorriso e l’altro, ventidue giocatori – uno per ciascuna squadra della Premier League 1992/1993 – si allenano e si fanno la doccia per poi correre insieme verso un luminosissimo terreno di gioco. Com’è intuibile dalle parole dell’ex giornalista di BSkyB Richard Keys, lo spot contribuì a svecchiare e a rendere ancora più appetibile un prodotto ultracentenario.
“We had to get in people’s faces and make it exciting. We weren’t lying back and inviting people to join if they wanted to; we were selling.“
Se volete saperne di più su quell’iconico spot, sul sito di Sky Sports UK c’è un lunghissimo “dietro le quinte” con pareri e ricordi dei protagonisti [Qui].
Se invece vi siete chiesti che diavolo ci faceva Vinnie Jones – il calciatore nella foto di copertina – con quel martello in mano, sappiate che la maglia appesa è quella del Wimbledon, club in cui tornò nell’agosto del 1992 dopo aver giocato per il Leeds, lo Sheffield United e il Chelsea. Ebbene, il trasferimento al Wimbledon avvenne a Premier League già iniziata, e nella suddetta pubblicità Jones indossava, per l’appunto, la maglia del Chelsea. Come ovviare al problema? In assenza di Photoshop, l’unica soluzione fu inchiodare la divisa della sua nuova squadra sopra quella dei Blues.
Come ogni notte, anche quella notte m’addormentai prima di mezzanotte.
E come tutti sanno, anche voi saprete che dopo mezzanotte può succedere di tutto. Ora lo so anch’io.
Ma voglio raccontarvi, se ancora non lo sapeste, ciò che quella notte capitò. E voglio farlo senza tralasciare nulla, anche se, detto tra noi, vorrei aver dimenticato tutto.
Ero stanco, gli occhi faticavano a reggere le palpebre. La mente, pian piano, calò il sipario su quella stanza in penombra, uscì dal mio corpo esausto e se ne andò a zonzo non so dove. Stette in giro per un po’, magari qualche secondo, oppure ore, non saprei proprio: io non c’ero…
Comunque, iniziamo col dire che dormii proprio bene, per il tempo che ebbi a dormire.
Dormii profondamente, per nulla gravato da sogni tormentosi o pensieri fastidiosi. Dunque, ripeto, dormii veramente bene. Per cui, quando poi mi svegliai – erano circa le tre del mattino – non lo feci da stanco ma da riposato e fresco. Come se quelle poche ore d’assenza da me stesso avessero contribuito con successo al mio rientro in piena efficienza tra i desti. Ero in gran forma quindi, pronto a ogni evento… tranne a quello che proprio quella notte capitò.
Ebbene, arrivò un tizio, era il solito tizio delle tre di notte, non so se mi capite…
Mi si piazzò di fronte e disse: “Non capisco perché tu sia ancora qui, è strano.”
Nemmeno io capii l’allusione. “Strano cosa? Che vuoi dire?”
“Voglio dire che fuori ti stanno aspettando!”
“Chi mi sta aspettando?”
“Loro… lo sai benissimo!”
Certo che lo sapevo, ma volli metterlo alla prova. “Senti, davvero, non so di chi tu parli… spiegati meglio!”
“Non fare giochini con me… vestiti e seguimi!” Il tizio era tosto e mi convenne ubbidire, mi misi qualcosa addosso e andai con lui.
In effetti loro mi stavano aspettando. Erano tanti, silenziosi, e appena arrivai si misero a fissarmi.
Io restai lì, immobile, ad appena dieci passi da loro. Non potei far nulla se non guardare quelle facce.
Il tizio era scomparso, e loro… non c’era alcuna luce in quegli occhi, solo tenebre…
Poi uno mi venne incontro e disse: “Bentornato amico mio, quanto tempo è passato?”
“Non saprei,” risposi subito “qualche minuto… forse alcuni anni. È un po’ difficile saperlo.”
“Sei stato assente a lungo, credimi. E noi, come promesso, ti abbiamo aspettato… Ora che vuoi fare?”
“Devo pensare…” Sospirai. “Sapeste che strano: ho sognato d’esser vivo! Vivo… capite?”
“Hai avuto paura?”
“Ne ho avuta, certo! Spero che non succeda più… Pensate se mi svegliassi di nuovo e non riuscissi più a tornare indietro…”
“Sarebbe orribile!”
“Già, orribile!”
Andai con loro, il mio posto era tra loro…
La notte prosegue fino all’alba. Le anime vagano libere, incuranti di tutto. Qualcuna resta intrappolata in questa cosa vischiosa chiamata materia, subendo per un po’ la tirannia del tempo.
Per fortuna poi passa.
Shine On You Crazy Diamond (Pink Floyd, 1975)
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Come spiegare la strategia apparentemente autolesionista del segretario del Partito Democratico Enrico Letta, che, pur da una posizione di forza in virtù dei sondaggi, da settimane si sottopone a interminabili incontri che hanno come oggetto i ricatti di partitini inesistenti che senza l’alleanza col PD faticherebbero a entrare in parlamento?
Strategia prediLetta
La strategia di Letta mi sembra nasca da un realismo esasperato e disperato: la legge elettorale (di cui tutti i partiti oggi si lamentano, gli stessi che la scrissero e la approvarono nel 2017, gli stessi che non l’hanno modificata negli anni seguenti) ci costringe, ammette lo stesso segretario del PD, ad alleanze contro natura, i partiti che si possono aggregare sono questi (“sono loro stasera i migliori che abbiamo?”, cantava Fabrizio De Andrè in Giugno ‘73), facciamo una coalizione più larga possibile.
Letta si è posto quindi da subito come infaticabile e determinatissimo federatore, pronto ad ascoltare le esagerate pretese dei futuri alleati e a concedere loro sproporzionati accordi pur di presentare alle elezioni una coalizione di cui il PD fosse il perno.
CamaleConte
Tale progetto, Letta l’aveva in mente da tempo e infatti aveva a lungo corteggiato il Movimento 5 Stelle, confidando in Giuseppe Conte quale figura apparentemente istituzionale, segno della svolta del M5S da movimento di protesta a partito perfettamente integrato nel sistema che diceva di voler ribaltare. E invece Conte si è rivelato del tutto inaffidabile, come si poteva intuire dalla sua, pur recente, storia politica: sempre oscillante a seconda di chi lo ha di volta in volta affiancato, capace di sostenere posizioni opposte a seconda del momento, pronto a votare i decreti sicurezza se governava con Matteo Salvini, a rinnegarli se governava col PD, a farsi portavoce del ritorno al movimentismo delle origini se questo è quel che ora serve per recuperare voti. Con la sua poker face, la sua natura camaleontica, con mosse da consumato attore, Conte ha cambiato più volte personaggio, pur rimanendo fondamentalmente impenetrabile. Buono per tutte le stagioni, pare attaccato più di ogni altro a quel potere assaggiato per caso (ha già annunciato che rimarrà al timone del M5S anche in caso di insuccesso elettorale, ma onestamente mi sembra difficile, pressato com’è dal più credibile e coerente Alessandro Di Battista): un avvocato uscito dal nulla, mai eletto da nessuno, che si è ritrovato improvvisamente capo del governo e, con la medesima inscalfibile apparente convinzione ha governato con la destra, poi con la sinistra, poi con tutti i partiti sostenendo Draghi e ora si pone come paladino di una improvvisata agenda sociale, cercando di colmare il vuoto a sinistra lasciato dal PD.
L’approdo al draghismo
Dopo la caduta del governo Draghi, Letta ha dunque escluso categoricamente ogni alleanza con il M5S. La coalizione avrà anzi come pilastro proprio la fedeltà all’ex banchiere, auspicando un suo bis. Il M5S, spaventato dai risultati delle elezioni amministrative, talmente negativi (ma come facevano a non aspettarselo, a non muoversi diversamente prima, magari mettendosi all’opposizione del governo Draghi anziché farne parte?) da suggerire l’approssimarsi della scomparsa dello stesso M5S dal panorama politico, ha spinto Conte, come sempre eterodiretto, a battere un colpo per dimostrare all’elettorato di essere ancora vivo. I 5stelle si sono così resi principali responsabili, forse persino loro malgrado, della caduta del governo Draghi, ricevendo di conseguenza da Letta la porta in faccia a future alleanze (Eppure, la ratio dietro tale esclusione mostra qui un’incongruenza: se il comune denominatore della coalizione lettiana è l’adesione al draghismo, perché ammettere allora nell’alleanza Sinistra Italiana, che era all’opposizione del governo Draghi?).
Un obiettivo preciso: perdere con onore
È, tuttavia, quella di Letta, una strategia che ha un obiettivo chiaro e, appunto, realistico: perdere, perché è inevitabile, ma perdere col minor scarto possibile. Creare quello stallo parlamentare che permetterebbe di riproporre Draghi (o una figura simile), disgregando lo schieramento delle destre sottraendo loro Forza Italia, in nome della ‘responsabilità’. È quello che qualche analista ha chiamato ‘governismo’ del PD, ovvero il fatto che il PD, se non governa, non sa cosa fare, perché non sa chi è. Il PD esiste solo come partito di governo, non sa stare all’opposizione (condizione invece estremamente vantaggiosa, perché permette di criticare tutto e guadagnare automaticamente consensi, come insegna da ultimo Giorgia Meloni e molti altri prima di lei).
Un partito senza identità
Governare, dunque, ma in nome di cosa? Del governo stesso. E perché questo? Perché il PD è un partito da sempre privo di identità. Rifiutò infatti di crearsela al momento della sua nascita, nel 2007. La fusione tra democristiani di centro-sinistra (Margherita) e democratici di sinistra (DS) poteva anche essere una buona idea, essendo gli elettorati abbastanza simili. Il problema mai affrontato, però, era quello di creare un’identità nuova, per evitare quella che si chiamava allora ‘“fusione a freddo” tra le precedenti componenti (a lungo invece – e forse ancora oggi – ex DC ed ex PCI si sono spartiti i posti proprio in base alla provenienza) e creare dunque un partito di sinistra del nuovo millennio, capace di affrontare i problemi degli anni Duemila con la stessa convinzione, lo stesso coraggio, lo stesso sostegno popolare che aveva il PCI di Enrico Berlinguer, garantendo nel contempo, finalmente, la possibilità di governare che al PCI era preclusa per ovvie ragioni geopolitiche e che era invece caratteristica inalienabile dell’altro antenato del PD, ovvero la Democrazia Cristiana. Questo nodo – decidere e dichiarare cosa si è, in cosa si crede, quale ideologia si porta avanti, per quale causa ci si batte – non è mai stato affrontato: nel 2007, alla sua nascita, il PD scelse di non scegliere e questo è ancora oggi il suo problema maggiore. Nessuno, infatti, sa veramente cosa rispondere alla domanda: che cos’è il PD? O meglio, ognuno ha la sua personale risposta, non condivisa dagli altri. Nessuno, né tra gli elettori, né tra i dirigenti, né tra gli avversari può affermare con certezza che cosa sia il PD, ovvero quale ideologia lo animi, quali siano i suoi valori non negoziabili.
Il PD è un partito privo di ideologia e questa, che ai tempi del primo segretario Walter Veltroni veniva sbandierata come caratteristica positiva, è in realtà il difetto più grande che un partito possa avere. Senza ideologia, ci si muove a seconda del vento, senza garantire certezze, di cui invece l’elettorato ha bisogno, per sapere di chi fidarsi, per sapere che chi eleggerà potrà fare mille giravolte e mille compromessi, ma non tradirà mai quei valori che connettono il partito alla sua base. Se quei valori non ci sono, non sono noti perché mai stati decisi, tale connessione è recisa in partenza e il rappresentante non è affidabile agli occhi del rappresentato. Se tutto è negoziabile, ogni parola che si pronuncia in campagna elettorale può cambiare verso una volta raggiunto il governo (come effettivamente succede). Ciò mina alla base la credibilità di qualunque proposta politica. Voto quel partito perché so che difenderà i miei interessi, affronterà e proverà a risolvere i problemi miei e di quelli che mi stanno a cuore. Quali interessi tutela il PD? Qual è la sua classe sociale di riferimento? Qual è la sua ideologia? Quali sono i suoi valori irrinunciabili? Non è chiaro, né lo si vuole chiarire, sarebbe troppo divisivo.
Parole d’ordine vuote
Per definirsi, il PD si rifugia allora in parole d’ordine vacue, che non designano nulla perché prive di reale pregnanza, parole-slogan spesso incomprensibili, ovvi o onnicomprensivi, che vanno bene a tutti e dunque non definiscono niente: responsabilità (c’è forse qualche partito che definisce se stesso irresponsabile?), serietà (ci sono diversi comici nella politica italiana, ma chi chiede di essere votato in quanto poco serio?), progressisti (che vuol dire tutto e niente: per quale tipo di progresso ci si batte?), democratici (che in una democrazia è un elemento non caratterizzante un solo partito o almeno si spera).
Il termine più identitario che il PD è riuscito a cucirsi addosso per definirsi e che tira fuori disperatamente a ogni campagna elettorale dipingendo l’altro schieramento come il male assoluto è ‘antifascismo’. Se la storia e la costituzione fossero rispettati, gli italiani dovrebbero essere tutti antifascisti, di certo tutti i partiti. Dovrebbe essere scontato. L’antifascismo non è o non dovrebbe essere una caratteristica di parte, addirittura rivendicata da un partito, ma un comune e indiscutibile valore comune condiviso da ogni italiano/a. Sappiamo purtroppo che non è così, che tanti sono ancora in Italia, a 100 anni dalla marcia su Roma, i nostalgici, i revisionisti, i fascisti e neofascisti presenti più o meno scopertamente nella società italiana, a ogni livello.
Così il PD può, non completamente a torto, utilizzare l’antifascismo come elemento caratterizzante e lo fa puntualmente quando è necessaria una chiamata alle urne: votate per noi perché la democrazia è in pericolo, la destra ci porterà al fascismo. Sta accadendo anche ora. In realtà, la lungimiranza delle madri e dei padri costituenti e, mi viene da sperare, la maturità di gran parte della società italiana, rendono quantomeno improbabile un ritorno del fascismo, almeno nella sua forma storica. Gli stessi partiti che in campagna elettorale strizzano l’occhio ai tanti neofascisti nel paese, lo fanno come metodo squallido e pericoloso per ottenere consenso, più che per realizzare chissà quali progetti di autocrazia una volta giunti al potere.
Per essere chiari: non ci sarà nessun regime fascista con Meloni presidente del consiglio, nonostante il suo partito sia chiaramente pieno di neofascisti. Ci saranno probabilmente provvedimenti autoritari, liberticidi, ingiusti, populisti, lesivi dei diritti, dell’ambiente e della comunità, ulteriori assalti a tutto quel che resta del welfare, come peraltro già visto nei governi Berlusconi e al tempo di Salvini ministro dell’Interno. (Il che mi sembra comunque sufficiente per combatterla, questa destra).
Ci sono insomma mille motivi, credo, per non votare la destra italiana, ma non certo quello del ritorno al fascismo. Questo gli elettori lo sanno e quindi “agitare lo spettro del fascismo” ha effetto solo su chi già vota PD e, forse, su qualche indeciso, ma lascia completamente indifferente il resto della popolazione, alle prese con problemi che sente più attuali e stringenti.
Non si vince al centro
Una volta serrati i ranghi usando lo spauracchio del fascismo, resta dunque da tentare di convincere il resto dell’elettorato, quello insensibile a tale argomentazione. Si persegue allora la strategia cosiddetta della “corsa al centro”, basata sull’assunto che l’elettorato sia in maggioranza moderato.
Così ha fatto anche Letta, alleandosi con i partiti personali di Carlo Calenda e Luigi Di Maio. Tutte le elezioni dalla fine della prima repubblica a oggi hanno invece dimostrato che una maggioranza dell’elettorato è pienamente disponibile a votare forze politiche, programmi e personalità estremiste e in particolare di estrema destra: Berlusconi, Bossi, Salvini, Meloni. Fatica anzi a vederli come estremisti, ma li giudica persone di buon senso. Tale elettorato si è sentito nel tempo tutelato da queste forze per la loro natura conservatrice, rassicurante e difensiva, per il loro sovranismo e patriottismo, per il loro essere chiaramente dalla parte delle imprese, dei privati e del pagare meno tasse, per essere di volta in volta in difesa di secolari privilegi e consorterie. Quando la destra ha vinto le elezioni, lo ha fatto perché ha promesso e messo in pratica politiche di destra, che nulla avevano a che fare con i nebulosi concetti di moderatismo e centrismo.
Dal 1994 in poi, l’assunto del ‘Si vince al centro’ è stato sempre inseguito e puntualmente smentito dai risultati elettorali, tanto che partiti di centro non si sono mai riusciti a consolidare, nonostante gli innumerevoli tentativi, dall’UDC di Pierferdinando Casini all’UDEUR di Clemente Mastella, da Scelta Civica di Mario Monti al Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano. Credo che la stessa sorte toccherà agli attuali tentativi di Calenda con Azione, di Matteo Renzi con Italia Vivae di Impegno civico di Tabacci e Di Maio, nuovo campione del trasformismo italiano con il doppio salto carpiato che da fiero capo politico del M5S l’ha portato a scindersi dal movimento stesso con l’unico scopo di rimanere in politica ed evitare la regola grillina del limite dei due mandati. Si tratta evidentemente di partitini personali, cartelli elettorali senza radicamento e senza una proposta politica attrattiva per gli elettori.
Quello che ai politici di professione e a certi osservatori appare come un grande spazio politico da colmare – il famoso Centro – è in realtà qualcosa di incomprensibile e poco interessante per la maggior parte dei cittadini. Non metto in dubbio che ci siano in Italia persone che si definiscono “di centro”, qualunque cosa intendano con questo termine, ma il loro voto viene conquistato dai partiti (di destra, di sinistra, di centro) sulla base dei contenuti, non sul semplice richiamo teorico al centrismo e al moderatismo. Non basta allearsi con un presunto centro per prendere i voti del centro, insomma.
Vince la novità
La seconda repubblica ha invece sempre confermato la propensione di grande parte dell’elettorato a premiare ciò che percepisce come ‘nuovo’ o comunque meno compromesso con chi ha tenuto il potere fino al momento delle elezioni. Dubito quindi che inneggiare oggi all’agenda Draghi sia una buona idea per raccogliere consensi, anche ammesso che sia chiaro agli elettori che cosa sia questa agenda Draghi. Se per assurdo lo stesso presidente uscente si presentasse alle elezioni (e, giustamente, si guarda bene dal farlo!) farebbe la medesima fine di Monti: non lo voterebbe nessuno, nonostante l’evidente autorevolezza, la competenza e il prestigio internazionale che accomuna entrambi.
Gli italiani hanno mostrato di votare in modo molto più pratico: vedendo che i propri problemi non vengono risolti, usa il voto (o l’astensione) per comunicare la propria stanchezza e sfiducia nei confronti dei partiti esistenti, in particolare di chi ha governato per ultimo, premiando invece chi non è stato recentemente al governo o l’ha apertamente combattuto. È accaduto con Forza Italia nel 1994, con Berlusconi che costruì il suo sistema di potere, puntando, oltre che sui soldi, le televisioni e la pubblicità, proprio sul suo essere imprenditore e non appartenente alla classe politica e smarcandosi, già nel discorso della discesa in campo, da chi aveva governato fino a quel momento. Così, un partito nato dal nulla divenne, improvvisamente e contro ogni previsione, il partito più votato. Lo stesso si è verificato con il Movimento 5 Stelle che ha impostato tutta la sua narrazione, tutta la sua propaganda sulla propria radicale diversità dalla classe politica esistente, la cosiddetta “casta” (salvo poi diventarne parte): anche qui, da zero a cento in un attimo. Oltre il 20% al primo tentativo nel 2013, partito più votato nelle successive elezioni del 2018, al governo fino al 2022.lega
Forza Italia e M5S sono stati premiati per la loro vera o presunta novità, così come Salvini nel 2018 e Meloni ora hanno trovato ampi consensi anche perché sentiti come oppositori di quel che c’era prima.
Nessuno si sente rappresentato
Più che guardare al centro o allearsi con chi capita, sempre in emergenza, in affanno e in preda agli ultimi eventi, sarebbe forse più conveniente essere finalmente lungimiranti (caratteristica che sembra mancare anche una volta che i partiti giungono al governo) e creare forze politiche realmente rappresentative e radicate nella popolazione, in cui le varie e diverse parti della società possano riconoscersi. È un percorso forse lungo, ma che permetterà di non trovarsi più in situazioni come quella che stiamo vivendo, in cui la maggior parte dei cittadini italiani non è rappresentata, siano essi di destra, di sinistra o altro. Naturalmente, per fare questo, occorre avere idee e ideologie, valori non negoziabili e fortemente caratterizzanti, rinunciare a progetti politici prenditutto, rinunciare a fare politica solo per il potere. Il partito, lo dice la parola, rappresenta una parte dell’elettorato, non tutto o quasi tutto l’elettorato. E questo è fondamentale in una democrazia parlamentare, perché a rappresentare tutto l’elettorato non è un partito (sarebbe una dittatura) ma il parlamento, trasposizione il più possibile fedele delle diverse tendenze politiche presenti nella società.
Il trionfo dell’astensionismo e una modesta proposta
Il vero risultato delle prossime elezioni sarà non tanto la già annunciata e mai in pericolo vittoria della destra, ma un astensionismo da record. Questo significa che la maggior parte degli italiani non si sente rappresentata e non sarà rappresentata nel prossimo parlamento.
Questo è un problema non da poco per una democrazia rappresentativa: se il popolo non va a votare, non sentendo i partiti in grado di rappresentarlo, la democrazia è svuotata. Forse il problema si risolverebbe con una modesta proposta su cui chiedo al coraggioso lettore giunto fino a qui di esprimere le sue critiche costruttive, per fare notare anche a me i limiti che io non riesco a vedere e magari aprire un dibattito che la migliori. La proposta è questa; togliere il quorum dai referendum (in modo da favorire la partecipazione) e metterlo alle politiche (in modo che risultino non valide e dunque da ripetere quando non rappresentative di almeno il 50% degli aventi diritto).
La maggior parte degli italiani oggi non sa per chi votare perché non si sente rappresentata da nessuno dei partiti e delle personalità in campo. Le prossime elezioni saranno soprattutto un rifiuto collettivo di proposte politiche giudicate inadeguate.
Verso un nuovo sistema politico
Il sistema andrebbe semplificato per essere reso maggiormente immediato e comprensibile a chiunque. Ogni partito dovrebbe rappresentare dei valori precisi, ben riconoscibili, inequivocabili:un partito ecologista, un partito della sinistra, un partito conservatore, un partito liberale. Tutte forze politiche che oggi, in Italia, mancano. La legge elettorale dovrebbe essere un proporzionale con sbarramento (al 5%?). Il cambio di casacca durante la legislatura dovrebbe implicare almeno le dimissioni dal ruolo che si ricopre in virtù dei voti presi col partito con cui ci si è presentati.
Due anomalie
Tale semplificazione in Italia è bloccata da due anomalie: la prima è l’assenza di una destra liberale e europea, appiattita ora più che mai sulle posizioni estremiste e populiste di Lega e FDI. Tale destra liberale, attualmente inesistente, potrebbe essere rappresentata da Renzi e Calenda, che invece si trovano inspiegabilmente nello schieramento cosiddetto di centro-sinistra. La seconda anomalia, purtroppo, è proprio il Partito Democratico, proprio perché non ha un’identità. E questa mancanza sta alla base delle tante divisioni interne, del correntismo che da sempre lo lacera e che pare oggi sopito ma che riemerge, attività vulcanica sotterranea sempre attiva, nel momento in cui c’è da far fuori il segretario di turno, fino ad allora apparentemente sostenuto. Il correntismo del PD, diversamente da quello esistente nei partiti che ne sono i progenitori, PCI e DC, è caratterizzato dall’assenza di un territorio valoriale comune.
Le correnti, nel PCI, come nella DC, esprimevano visioni e strategie diverse su questioni determinate, ma tutti i membri del partito condividevano una medesima ideologia. Nel PD, non essendocene alcuna, ogni corrente sostiene posizioni completamente divergenti. Tutti, dentro al PD, fin dalla sua nascita, si sentono nella possibilità di sostenere tutto e il contrario di tutto.
Non essendoci un sistema di idee chiaramente e inequivocabilmente definito e condiviso da tutti i membri, il PD, a seconda del momento e di chi prende parola, ha potuto sostenere negli anni posizioni completamente divergenti: nuclearista e a favore degli inceneritori e ambientalista, assistenzialista e liberista, laico e cattolico, per i beni pubblici e per le privatizzazioni, per più tasse e per meno tasse.
Quello che veniva spacciato per pluralismo, quindi abbondanza di posizioni e di vedute che si arricchivano a vicenda, ha avuto e ha invece l’unico effetto di creare nell’elettorato grande smarrimento e confusione. Cosa e chi rappresenta il PD?Dipende, verrebbe da dire. Dipende dal momento e dipende dall’esponente che lo guida o prende parola. Dipende dalla coalizione di cui fa parte. Dipende. Questa incertezza, che potremmo derubricare a fatto interno a un partito, è invece grave a livello di rappresentanza. La parola “partito”, lo dicevamo, parla da sé: rappresentare una parte della società. Non tutte le parti della società.
Il motto del PD è “dalla parte delle persone”. Quali persone? Quelle che percepiscono stipendi a sei zeri o quelle che non riescono a pagare un affitto, ad accedere a un mutuo? Quali persone? Quelle che possiedono innumerevoli case e mandano i figli nelle scuole private o quelli che i figli non riescono a farli? Quali persone? Quelle che gestiscono la sanità privata e quelle che si possono permettere cure di alto livello o quelle che attendono mesi nelle liste d’attesa per una visita nella sanità pubblica? Volendo rappresentare tutti, il PD non rappresenta nessuno. Non scegliendo da che parte stare, non riesce a essere un punto di riferimento per nessuno: non per le piccole e medie imprese, non per le grandi industrie, non per i lavoratori, gli operai, non per chi non ha voce, gli invisibili, gli sfruttati, non per chi vorrebbe un allargamento dei diritti. Nell’idea di rappresentare tutti, il PD non rappresenta nessuno se non la sua classe dirigente, se non il partito stesso. È così che il PD ha perso subito l’elettorato di riferimento che il PCI portava in dote, la sua anima popolare. Cosa rimane, dunque? Il governo, andare al governo. Per fare cosa, se non si ha un’ideologia, un sistema di valori di riferimento a cui ancorare ogni provvedimento? Si vedrà. E, infatti, di volta in volta, si procede a stilare programmi su programmi, puntualmente disattesi.
Il PD, dalla sua nascita, ha governato (direttamente o sostenendo governi tecnici) per circa 12 anni su 16 totali (2007-2008 Prodi; 2011-2013 Monti; 2013-2014 Letta; 2014-2016 Renzi; 2016-2018 Gentiloni; 2019-2020 Conte II; 2021-2022 Draghi) votando e sostenendo tutto e il suo contrario.
Mi duole dirlo, ma ha ragione Calenda quando, con la sua consueta, insopportabile arroganza che lo accomuna tanto a Renzi (del cui governo è stato ministro) impone i suoi personali temi (NATO, rigassificatori, equilibrio di bilancio, revisione reddito di cittadinanza, agenda Draghi), notando che alcuni altri membri della coalizione fanno dichiarazioni quotidiane contro questi stessi temi e chiedendo al PD di chiarire.
Ecco, esatto: il PD è per i rigassificatori o per le energie rinnovabili? Se abbiamo bisogno di gas per renderci indipendenti dalla Russia e dunque non foraggiare la guerra di Putin (inciso: dittatore sanguinario e guerrafondaio anche prima dell’invasione dell’Ucraina eppure mai è stata messa in dubbio prima la dipendenza energetica dell’Italia dalla Russia) ed è dunque impossibile puntare sulle rinnovabili che richiedono tempi lunghi, perché non si mettono in moto investimenti di lungo periodo per sfruttare al massimo possibile le risorse rinnovabili, di cui l’Italia è ricchissima, contestualmente all’apertura di rigassificatori, magari specificando che l’obiettivo è chiuderli appena possibile e indicando una data precisa di chiusura, appena sarà potenziato il ricorso alle rinnovabili? Oppure, se si è convinti che il fossile e il nucleare siano le soluzioni per la crisi climatica (il che mi appare paradossale, ma tant’è) e non le rinnovabili, perché non si rinuncia chiaramente a definirsi ambientalisti?
Scegliere da che parte stare, insomma. E cominciare subito, che è già molto tardi.
Questo darà risultati anche in termini elettorali: essere capaci di rappresentare qualcuno, scegliendo chiaramente per quale causa battersi e difendendola saldamente.
8 agosto 1956
Marcinelle: a 975 metri sottoterra, muoiono bruciati 262 minatori, 136 erano italiani
Oggi il presidente Mattarella commemora, come ogni anno, i caduti sul lavoro di Marcinelle:dal 2001 la ricorrenza è stata proclamata Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo. Una tragedia collettiva da non dimenticare.
Sono passati 66 anni da quella terribile mattina dell’8 agosto 1956, quella della tragedia di Marcinelle, nel distretto di Charleroi in Belgio, tragedia consumatasi nella miniera di carbone Bois du Cazier.
Un incendio si era sviluppato a 975 metri sottoterra, inizialmente nel condotto d’entrata d’aria principale, e presto aveva riempito di fumo tutto l’impianto sotterraneo, provocando la morte di 262 persone delle 274 presenti, in gran parte emigrati italiani, ben 136. Nessuno scampo.
L’incidente, il primo dell’Italia repubblicana, è il terzo per numero di vittime tra gli italiani all’estero dopo i disastri di Monongah e di Dawson (il primo avvenuto, nel 1907, in Virginia, dove morirono molti emigranti molisani, il secondo, avvenuto nel 1913 nel Nuovo Messico, dove persero la vita 146 italiani sulle 263 vittime).
Il sito Bois du Cazier, ormai dismesso, fa parte dei patrimoni storici dell’UNESCO. Era una miniera di carbone, quel materiale che inquina e che oggi si cerca di mettere da parte ma che all’epoca lasciava sperare in un nuovo sviluppo industriale dell’intera Europa che si risollevava dalla guerra, un luogo dove pare che le operazioni di soccorso fossero state particolarmente lente, con pompieri arrivati a mezzogiorno quando già il fumo usciva dalle ciminiere, il cielo era diventato nero e le donne erano attaccate alle grate del cancello ad aspettare e a piangere. Quando era troppo tardi.
Tanti italiani erano partiti per fuggire dalla povertà, alla ricerca di un po’ di benessere, con un governo italiano che, nel 1946, aveva firmato un accordo con Bruxelles che prevedeva uno scambio: per 1000 minatori mandati in Belgio, sarebbero arrivate in Italia almeno 2500 tonnellate di carbone. Uno scambio uomini-merce che ha portato una grande tragedia, una di quelle che nella storia di un paese non vanno dimenticate.
A futura memoria, quindi, per non far cadere nell’oblio un pezzo di storia triste e di passato doloroso.
Perché quel pezzo di passato è ancora, purtroppo, più attuale che mai.
Dato che devo cercare il ricambio di un pezzo del mio frigo, e che per la legge di Murphy i ricambi stanno sempre dalla parte opposta della città, decido di approfittarne e immergermi in un centro commerciale.
E’ il più grande di Roma, un’autentica città del consumo, dove solitamente si aggirano folle di ragazzi sfaccendati e famigliole dieci volte di più che a Coccia di Morto.
In effetti, nonostante abbiano minacciato il bollino rosso e l’emergenza calore, qui a Porta di Roma non si arrende nessuno e la gente allegramente passeggia, complice una temperatura groenlandese, lustrando il pavimento davanti alle vetrine. Pochi di loro hanno pacchetti in mano, per lo più chiacchierano di quello che vorrebbero comprare.
Vengono evocati i sogni come in una seduta di ipnosi collettiva: “Io me farei quello….io me farei quell’altro…” un bell’orologio a pataccone, un reggipetto sexy, una scarpetta alla moda… “Ma lo trovi su Amazon, costa la metà!”
Io però ho poco tempo e siccome mi manca una padella mi ficco nel palazzo dell’Ikea.
Dell’Ikea si è detto ormai tutto, ma ogni volta entrando mi sorprende l’atmosfera, il profumo di candele alla vaniglia e i suoni ovattati che mi illudono (uscendo dalla caciara della Groenlandia) di trovarmi adesso in Scandinavia.
E’ un mondo tutto funzionale, lineare e cromaticamente equilibrato, frequentato da gente con abiti appena lavati e stirati (la quintessenza della classe media).
I bagni sempre pulitissimi non sono mai intasati, non si fa la fila, i bambini vengono depositati in un luogo dove se la spassano: sembra che abbiano previsto tutto in ogni minimo dettaglio. Al contrario dell’ospedale di ieri, qui le ferie d’agosto sembra siano state abolite, sia per chi ci lavora che per i clienti.
Tutto sempre perfetto e sempre uguale tutto l’anno.
Sembra di essere entrati in un enclave transnazionale, che batte una sua moneta e leggi proprie.
Mi fermo a pranzare attratto da un menù a 2 euro e 50. Mi consegnano un gettone.
Mentre addento un hot dog giocattolo e delle cibarie che sembrano i segnalini di Monopoli, guardo il pubblico vicino a me. Due sorelline indiane che chattano sullo smartphone, un padre sportivo che guarda le belle ragazze col figlio brufoloso che invece guarda le sue scarpe, un fidanzato con la barba curata che cerca di placare la furia della fidanzata rotondetta. Lo capisco dal labiale: “Lasciami in pace, stronzo!”
Penso a Carlo Verdone e quanti spunti avrebbe inventato. Ma resta il fatto che tutti quanti sono personaggi Ikea e forse ora lo sono anch’io.
All’Ikea si può ridere, basta non far rumore. Ma piangere credo sia meglio di no.
Qui dentro non entrano borderline, barboni o accattoni. Non ci sono oggetti di cattivo gusto e una signora che ha avuto un malore, viene subito coperta alla vista da un paravento a soffietto.
I commessi sono tutti estremamente gentili, la mia cassiera di colore parla un italiano da Accademia della Crusca: “Nell’eventualità che lei dovesse effettuare un cambio di prenotazione le verrebbe addebitato nuovamente l’importo già versato” mi dice senza sbagliare un congiuntivo.
Mi domando come facciano a cancellare quel bordello che c’è fuori e restituire quest’immagine impeccabile di un mondo che ormai non esiste più, nemmeno in Svezia.
Forse siamo finiti in un Truman show e qualcuno, da una cabina di regia, ci sta spingendo lungo le frecce, nei budelli foderati di bisogni indotti, di articoli d’arredo troppo convenienti per resistergli, rallentandoci il passo, accudendoci con sorrisi giallo blu, giù in fondo, fin verso le casse.
Quando esco nella calura e al primo semaforo trovo un tizio che vuol pulirmi il vetro, sento che sono tornato nella realtà.
Gli dico, senza guardarlo: “no, grazie, sono rimasto senza un soldo”.
Lui guarda accanto a me un sacchetto pieno di cazzate da cui spunta il manico di una padella.
E lo vedo allontanarsi nello specchietto, deformato come un miraggio nel deserto.
Sono diventato un replicante.
(continua mercoledì 10 agosto)
Per leggere tutti insieme i capitoli del Diario di Daniele Cini:
L’Italia va a fuoco, ma meno del 50% dei Comuni ha il catasto degli incendi. Secondo alcuni dati forniti dall’Arma dei Carabinieri, solo nel 2020, il 44% dei Comuni non ha presentato la richiesta del catasto degli incendi, obbligatorio in base alla legge quadro in materia di incendi boschivi, la n. 353/2000, che stabilisce- tra l’altro- vincoli temporali che regolano l’utilizzo dell’area interessata ad incendio (un vincolo quindicennale, un vincolo decennale ed un ulteriore vincolo di cinque anni) e che vieta che per 10 anni sulle zone boschive e sui pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco si possano realizzare edifici nonché strutture e infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive.
Ma catasti fermi da anni a causa dell’inerzia di tantissimi Comuni (che andrebbero per lo meno commissariati) comporta che centinaia di migliaia di ettari non sono sotto tutela e, quindi, su di essi è consentita l’attività venatoria e l’attività di pascolo e, cosa ancor peggiore, sono consentite le attività di trasformazione urbanistica http://www.simontagna.it/portalesim/catastoincendi.jsp?pid=4093.
Gli incendi- che non fanno che aumentare anno dopo anno, non solo a causa di azioni dolose e colpose, ma anche per effetto della siccità e dei cambiamenti climatici- impongono una maggiore reattività da parte dei Comuni, i quali dovrebbero- per esempio- adottare per tempo provvedimenti (ordinanze) al fine di prevenire ed eliminare i gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana a causa degli incendi boschivi.
Qui una proposta di Ordinanza sindacale messa a punto da ANCI Campania https://ancicampania.it/rischio-incendi-boschivi-lordinanza-che-i-comuni-devono-adottare/.
Ma, di fronte ad un Paese che brucia anno dopo anno sempre di più andrebbero forse anche ripensate totalmente competenze istituzionali, organizzazioni e risorse umane, strumentali e finanziarie, per affrontare efficacemente-in termini di prevenzione e lotta attiva agli incendi- un problema che rischia di mandare drammaticamente in fumo il nostro territorio.
Nel 2021- secondo il nuovo rapporto di Legambiente “L’Italia in fumo”– sono stati infatti ben 159.437 gli ettari di superfici -boscate e non- devastati dalle fiamme (+154,8% rispetto al 2020). La Sicilia è la regione più colpita per reati (993) ed ettari attraversati dalle fiamme, seguita da Calabria, Puglia e Campania.
E già sono 26.270 gli ettari bruciati dal 1 gennaio al 15 luglio 2022 (fonte EFFIS) e 32.921 gli interventi registrati ed effettuati, dal 15 giugno al 15 luglio, dai Vigili del Fuoco per incendi boschivi, nelle aree urbane e rurali (+4.040 rispetto allo stesso periodo del 2021).
In aumento anche i reati tra incendi dolosi, colposi e generici, ben 5.385 (+27,2% rispetto al 2020) e le persone denunciate (658, + 19,2%), anche se continuano ad essere sottodimensionate rispetto ai reati, così come i sequestri: 107, con un +35,4% rispetto al 2020.
A confermare le grandi difficoltà che ancora si incontrano nell’individuazione dei responsabili dei roghi, il dato relativo agli arresti: appena 16, comprese le due ordinanze eseguite in Sicilia dai Carabinieri della stazione di Noto, in provincia di Siracusa, due in meno del 2020.
A preoccupare è anche il dato complessivo degli ultimi 14 anni, frutto dell’elaborazione di Legambiente dei dati EFFIS dal 2008 al 2021. Parliamo di una superficie complessiva di territorio incenerito, a causa di ben 5.298 incendi, di oltre 723.924 ettari, un’area grande quasi quanto l’intera regione Umbria, che ha interessato il territorio di almeno 1.296 Comuni, corrispondenti al 16,39% dei comuni italiani, distribuiti in 19 tra Regioni e Province autonome.
Comuni ove più di qualcosa non ha funzionato nelle azioni di prevenzione e lotta attiva agli incendi. Sicilia, Calabria, Campania, Sardegna, Lazio e Puglia sono i territori da presidiare con maggiore efficacia durante tutto l’anno rafforzando le attività investigative per prevenire i rischi e accertare le responsabilità.
Ad essere in pericolo sono soprattutto i “gioielli del Paese”, ovvero le aree protette e i siti rete natura 2000. L’azione criminale insiste, nel tempo, su aree geografiche ben delimitate e proprio in queste aree di pregio- secondo Legambiente- più di qualcosa non ha funzionato nelle azioni di prevenzione, contrasto e lotta attiva agli incendi.
Legambienteha accompagnato il nuovo dossier con 10 proposte concrete, che vanno dalla prevenzione degli incendi attraverso la gestione del territorio alla promozione dei servizi ecosistemici da remunerare in modo da sostenere e rivitalizzare le comunità rurali nelle aree interne e montane.
Tutto è cominciato sulle ali di Pazienza…inteso come Andrea
Parliamo di Goletta Verde, la storica campagna di monitoraggio e sensibilizzazione sui problemi del mare e della costa promossa da Legambiente, tornata anche quest’anno a far tappa in Emilia-Romagna. Il 6 e 7 agosto infatti l’imbarcazione ambientalista è attraccata sul molo di PortoGaribaldi, proprio difronte al Mercato ittico, accompagnata da una fitta agenda di appuntamenti, che come da tradizione cercano di coniugare l’informazione, rigorosamente basata su dati scientifici, con l’azione diretta.
I primi importanti dati, riguardano i risultati della campagna di raccolta dei rifiuti dispersi nelle acque dell’alto Adriatico svolta in collaborazione con i nostri pescatori. Nelle loro reti infatti finisce ormai più plastica che pesce. Da qui l’idea di monitorare lo stato delle acque marine anche da questo versante, ripulendole nel contempo da decine di tonnellate di rifiuti. (Porto Garibaldi, mercato ittico, 4 agosto).
A Cesenatico invece (Museo della marineria, 5 agosto) si è parlato di energia pulita: eolica off-shore e solare, ovvero di quella famosa transizione ecologica che continua ad essere la cenerentola di turno, schiacciata tra rigassificatori e rilancio delle perforazioni in mare a supporto della produzione nostrana di gas metano.
La tappa emiliano-romagnola si è chiusa con i risultati delle analisi condotte dai tecnici dell’associazione sulla qualità delle acque di balneazione (Porto Garibaldi, Goletta Verde, 7 agosto), come ogni anno attesi e forse temuti. Personalmente ricordo infuocatissime conferenze stampa, nel corso delle prime tappe di Goletta Verde, una campagna nata nel 1986 all’indomani dell’entrata in vigore del decreto n. 470/82 sulle acque di balneazione. Questa legge obbligava finalmente le Regioni ad effettuare controlli e ad informare i cittadini. Purtroppo come sempre succede nel nostro Paese, è restata inapplicata per anni, soprattutto al sud.
La prima maglietta della campagna, che conservo e indosso ancora oggi, riportava un bellissimo disegno del grande Andrea Pazienza: una barca-delfino che invece delle vele aveva due bellissime ali con le quali faceva rotta verso il sogno ecologista di un mare pulito. L’arrivo di Goletta Verde segue la pubblicazione dell’ultimo Rapporto sulla situazione delle Spiagge italiane della medesima Associazione [Qui], presentato a Lecce lo scorso 15 luglio, quando la furiosa polemica sulle concessioni balneari si era appena assopita, coperta da quella sui taxi. Con la definitiva approvazione, il 27 luglio al Senato, del cosiddetto Ddl Concorrenza, è diventata legge, la norma che impone la messa a bando delle concessioni balneari. Siccome siamo italiani e non fessi, sappiamo però che tra la legge e la sua effettiva attuazione c’è sempre un lungo e travagliato scarto temporale. Lo abbiamo appena ricordato, citando quello che successe dopo l’approvazione della legge sulle acque di balneazione. Così sarà sicuramente anche per le concessioni balneari, che prevedono l’immancabile decreto attuativo con cui i Comuni, dovranno provvedere al regolamento della messa a gara, entro il 2024. Tale decreto dovrebbe essere varato nell’arco dei prossimi sei mesi, quindi entro gennaio 2023, ma di mezzo c’è il cambio di governo e questo complica sicuramente tutta la partita.
Stando ai dati forniti da Legambiente, sono oltre dodicimila le concessioni (quasi duemila in più rispetto a quattro anni fa). Nessun Paese europeo ha una situazione paragonabile alla nostra, su questo versante.
“Tra i comuni costieri, il record spetta a Gatteo (FC), che ha tutte le spiagge in concessione. Ma si toccano numeri incredibili anche a Pietrasanta (LU) con il 98,8% dei lidi in concessione, Camaiore (LU) 98,4%, Montignoso (MS) 97%, Laigueglia (SV) 92,5%, Rimini 90% e Cattolica 87%, Pescara 84%, Diano Marina (IM) con il 92,2%, dove disponibili sono rimasti solo pochi metri in aree spesso degradate. Per non parlare dei canoni che si pagano per le concessioni, ovunque bassi e che in alcune località di turismo di lusso risultano vergognosi a fronte di guadagni milionari. Ad esempio per le 59 concessioni del Comune di Arzachena, in Sardegna, lo Stato nel 2020 ha incassato di 19mila euro l’anno. Una media di circa 322 euro ciascuna l’anno.”[Vedi qui]
Ma i cambiamenti climatici stanno accentuando anche un altro grave problema, quello dell’erosione, che stando sempre allo stesso Rapporto interessa circa il 46% delle coste sabbiose. Il paradosso tutto italiano è che “La spesa per combatterla – con interventi finanziati dallo Stato e, in parte, da Regioni e Comuni – è di circa 100 milioni di euro l’anno ed è maggiore rispetto a quanto lo Stato incassa effettivamente dalle concessioni balneari (83milioni gli incassi effettivi su 115 milioni nel 2019, unici dati disponibili). Uno dei problemi è che si continua ad intervenire con opere rigide come pennelli e barriere frangiflutti, che interessano almeno 1.300 km di costa, e su cui bisognerebbe aprire una riflessione sulla reale efficacia. E poi c’è la questione legata alle coste non balneabili: complessivamente lungo la Penisola il 7,7% dei tratti di coste sabbiose è di fatto interdetto alla balneazione per ragioni di inquinamento. Sicilia e Campania contano in totale circa 55 km su 87 km interdetti a livello nazionale.”
Il rapporto ISPRA sul dissesto idrogeologico nel nostro Paese
Anche l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale) ha recentemente pubblicato un rapporto sul dissesto idrogeologico nel nostro Paese [Qui] . Il bicchiere in questo caso è mezzo pieno, invece che mezzo vuoto, visto che l’ente evidenzia “Segnali positivi per le coste italiane: dopo 20 anni, a fronte di numerosi interventi di protezione, i litorali in avanzamento sono superiori a quelli in arretramento.”. Uno scarto minimo. Ma scorrendo poi nel dettaglio le pagine del rapporto, questi timidi segnali nulla tolgono ad una fotografia delle coste che resta complessivamente piuttosto pesante. E come potrebbe essere altrimenti, visto che le potenziali cause dell’erosione sono tutte ancora in azione:
subsidenza naturale o indotta da estrazioni di fluidi dal sottosuolo;
ruolo di difesa delle piane costiere da parte dei sistemi dunali;
mancato apporto di sedimenti verso costa causato dall’alterazione dei cicli sedimentari per intervento antropico nei bacini idrografici (sbarramenti fluviali, regimazioni idrauliche, estrazioni di materiali alluvionali);
influenza sulla dinamica litoranea dei sedimenti intercettati dalle opere marittime (opere portuali e di difesa) e delle infrastrutture viarie e urbanistiche costiere.
Tutte hanno ovviamente a che fare con l’azione antropica, che quindi dovrebbe essere improntata alla massima cautela, soprattutto quando si parla del consumo di suolo e degli interventi sulla dinamica fluviale. E non possiamo certo dimenticare le conseguenze del cuneo salino, perché la siccità e la diminuzione delle portate, comporta lo spostamento dinamico della salinità e quindi il rischio, ormai reale, della progressiva desertificazione di ampie aree di un delta come quello padano.
Un grave problema, trasformato in poesia dal grande Gian Maria Testa, che in “Extra-Muros” del 1996, si chiedeva e ci chiedeva, forse ingenuamente “Ma chissà dove il fiume incontra il mare”. E sono certo che non pensava al cuneo salino.
Dentro l’acqua di questo torrente così limpida e veloce scenderò fino a quando la mia montagna fino a dove questa montagna si farà pianura molto lontano da questo cielo così vicino che lo puoi toccare fino al punto esatto fino al punto dove il fiume accarezza il mare
Ma chissà dove il fiume incontra il mare
Tutte le stelle di questa montagna così piccole e vicine saluterò fino a quando dalla pianura fino a quando non potranno più sentire e sarò lontano da questo cielo così lontano da non poterci tornare molto vicino al punto al punto esatto dove il fiume accarezza il mare Molto vicino al punto molto vicino a dove il fiume incontra il mare
Ma chissà dove il fiume incontra il mare
Tutto a posto ! Tappa di relax per Goletta Verde
Undici campioni prelevati, un solo sforamento per i parametri inerenti la balneazione delle coste emiliano-romagnole, gli unici che interessano in questo periodo di chiappe al sole. I parametri indagati sono microbiologici (enterococchi intestinali ed Escherichia coli), gli stessi che alla fine di luglio hanno scatenato labagarre tra operatori del turismo ed enti preposti al controllo, ovvero ARPAE. I volontari di Legambiente hanno eseguito il loro campionamento il 19 luglio, una settimana prima del fatidico 26 luglio, che ha rilevato lo sforamento dei campioni istituzionali e la non balneazione per un giorno di diverse spiagge emiliano-romagnole.
Quindi nessun possibile confronto, nessuna polemica. Tra l’altro il portavoce di Goletta Verde ha giustamente rimarcato che la campagna di Legambiente, da sempre, ovvero da ben 36 anni, intende sensibilizzare la pubblica opinione si temi connessi alla salute del mare, non sovrapporsi a chi, istituzionalmente ha il compito
di vigilare sulla salute pubblica.
All’affollata conferenza stampa, allestita sull’imbarcazione, era presente anche il Direttore di ARPAE, Giuseppe Bortone, che ha provato a spiegare lo sforamento della scorsa settimana. Diversi i fattori concomitanti: alte temperature, calma del vento e quindi del mare, forte stratificazione delle acque, con assenza di rimescolamento, siccità. Restano i problemi del mare, quelli che Legambiente puntualmente risolleva ad ogni passaggio sulle coste: erosione, subsidenza, microplastiche disperse nelle acque sempre più calde. Ma sulle nostre coste – e non solo – si continua a costruire, facendo finta che nulla stia accadendo. Fino alla prossima tappa di Goletta Verde.
Cover: La prima maglietta di Goletta Verde disegnata da Andrea Pazienza
Vertenza ex Gkn. Il tavolo istituzionale è ormai a un’impasse: assenti gli investitori, la nascita del Consorzio non è un closing. L’RSU: “L’assemblea permanente dovrà decidere se e come tornare a mobilitare l’intera comunità della Piana: il 31 agosto è l’ultima chiamata. Il collettivo di fabbrica e questo territorio non sono né raggirabili, né ricattabili”.
Si è appena concluso il tavolo MISE sulla vertenza ex-Gkn, dopo l’incontro che si è svolto tra il proprietario di QF Francesco Borgomeo con il Ministero in assenza degli investitori, dopo le dichiarazioni della settimana scorsa sul consorzio, su cui l’RSU aveva scelto deliberatamente il silenzio in vista della riunione del Tavolo tecnico di oggi.
“La nostra posizione sul Consorzio era conosciuta in anticipo dalla stessa azienda” sottolinea l’RSU ex Gkn. “Il 25 luglio l’assemblea dei lavoratori aveva approvato e trasmesso all’azienda un documento che sottolineava come il consorzio sarebbe stato “un passaggio né concordato con noi, né condiviso, né tanto meno chiaro. Né a noi, né, ci permettiamo di dire, al tavolo istituzionale”.
Posizione che l’azienda ha ignorato, dando vita a uno show mediatico il cui scopo era costruire una propria narrazione sulla pelle di questa vertenza e di questo territorio, per fare evidentemente pressione sul tavolo istituzionale stesso.
Come ribadisce lo stesso Borgomeo a mezzo stampa oggi: “La reindustrializzazione dello stabilimento di Campi sarà realizzata da Qf e non dal Consorzio Iris Lab, che rimane solo un centro di ricerca”. Del resto la stessa RSU sottolinea come il Consorzio sia per definizione una delle forme più ibride e meno vincolanti del rapporto tra aziende.
“Il punto non è essere contro o favore a un Consorzio di ricerca e senza scopo di lucro” rilancia l’RSU, “ma è che la nascita del Consorzio non è il closing, né chiarisce i vincoli di investimento, né risponde alle numerose domande che abbiamo fatto riguardo ai presupposti di solidità e continuità del processo di investimento e reindustrializzazione. Per questo abbiamo trovato totalmente fuori luogo l’apertura di credito da parte del Sindaco della Città Metropolitana alla nascita del Consorzio”.
La verità è che il tavolo istituzionale è ormai a un’impasse. E lo è interamente per responsabilità aziendale. Invece di addivenire a una discussione seria e fornire tutti gli elementi di trasparenza e chiarezza, Borgomeo prova a scaricare su lavoratori e istituzioni le proprie responsabilità, dichiarando che le difficoltà a ottenere la cassa integrazione e la presunta inagibilità dello stabilimento sarebbero motivi bloccanti.
“Di fatto siamo al tentativo di ottenere cassa integrazione e smantellamento dello stabilimento sotto pressione emotiva e ricatto” chiarisce l’RSU, posizione ripetuta da mesi e ribadita dall’ultimo documento votato dall’assemblea dei lavoratori (25 luglio), che sottolinea come “ancora all’ultimo incontro abbiamo sentito il dottor Borgomeo affermare che è tutto pronto, ma mancano solo due elementi per dare il via al progetto: l’agibilità dello stabilimento e la cassa integrazione che non viene concessa. Ancora una volta si invertono causa ed effetto: la cassa integrazione non viene concessa perché non c’è chiarezza sul progetto, non il contrario. E lo stabilimento è perfettamente agibile. Il punto è che i lavoratori non hanno alcuna intenzione di smantellarlo senza chiarezza sulla sua reindustrializzazione”.
La prossima riunione del Tavolo MISE è stata convocata per il 31 agosto. “Per noi rappresenta l’ultima chiamata” conclude l’RSU. “Abbiamo indicato pubblicamente e ripetutamente le richieste, le domande, le proposte per fare un passo avanti. Siamo all’ultimo giro, dopo il quale l’assemblea permanente dovrà decidere se e come tornare a mobilitare l’intero territorio. Il collettivo di fabbrica e questo territorio non sono né raggirabili, né ricattabili”.
In Copertina: Striscione del collettivo di fabbrica Gkn – foto archivio pressenza
Certo, andare a ‘sondare gli umori del popolo’ in una città deserta, è un’impresa già partita male. Il mercato ormai sembra una fila di anonime tombe di famiglia, dai giardini sono scappati anche gli uccelli e perfino nell’Ospedale, dove mi trovo oggi per una visita medica, sembra che, in un eccesso di intolleranza, abbiano abolito i pazienti.
Bisognerebbe forse entrare nelle case ed entrare in empatia con la solitudine urbana, capire se l’aria condizionata ha migliorato le vite di chi è rimasto in città o se ancora, nei miasmi sudoriferi dell’intimità, cresce la rabbia e lo sconforto, o invece resiste qualche forma di reazione attiva, di gente che si organizza insieme agli amici e ai vicini per vivere un po’ meglio.
La mia visita in ospedale in realtà è un ripiego: dopo aver tentato di fissare una colonscopia al servizio RECUP (diventato, con una delibera regionale di una settimana fa, a pagamento per i telefoni cellulari- sic!) e constatato che la prima disponibile è tra un anno solare, mi informo sulla possibilità di effettuarla col servizio intra-moenia.
Naturalmente ora fioccano appuntamenti in ogni quartiere: le date? Quando vuoi. Le tariffe vanno dai 350 ai 450 euro, ossia una pensione sociale intera. Penso a quando Rosi Bindi ministro della Sanità ebbe l’ardire di obbligare i medici a scegliere tra la professione privata e quella nelle strutture pubbliche. Sembrava una proposta bolscevica (eppure lei era democristiana).
L’ospedale oggi è veramente vuoto e anche questo fa un certo effetto: è vero, a Roma d’agosto (e ormai un po’ dappertutto) è difficile fare una vita normale.
Ma che ci sia un mese in cui tutte le strutture pubbliche si disintegrano per le ferie, benché sia una vecchia storia, continua a farmi rabbia. Tanto più se funzionano solo come studi privati.
Mentre aspetto nel corridoio, dove non c’è neanche un addetto delle pulizie da origliare per il mio diario, mi viene in mente l’inverno di un anno fa, quando ero venuto qui per fare una piccola operazione.
Ci avevano convocato alle 7 ed eravamo una cinquantina, ed era ancora buio, perché era dicembre inoltrato. La temperatura era vicina allo zero e i cinquanta convocati per vari interventi, erano stati ammassati davanti all’entrata: la maggior parte anziana, qualcuno in carrozzella.
“Ma perché non fanno entrare?” dico io, ingenuamente.
“Arrivanoalle 7.30“, mi dicono, “dobbiamo aspettare fuori“.
“Ma è assurdo, c’è gente malata”. E come se non bastasse, oltre la vetrata chiusa c’è una comoda sala d’attesa con le sedie vuote.
“Il fatto è che è tutta colpa nostra” mi dice un tipo dall’aria rassegnata. “E perché?” dico io, polemico.
“Perché qualche mese fa, dei pazienti che aspettavano, perdendo la pazienza, hanno riempito di botte le due infermiere di turno, che da quel giorno si sono rifiutate di aprire da sole.”
“Si vabbè, ma noi che c’entriamo se c’è gente manesca? Potrebbe esserci a qualunque ora!” “Però in altre ore hanno più colleghi a dargli manforte”.
La conversazione rasentava l’assurdo. Sembrava dato per scontato che ci fosse una guerra civile tra i pazienti e il personale sanitario. E che i pazienti siano per loro natura, impazienti. Il pubblico però era diviso: la maggior parte mi dava ragione, ma c’era anche chi diceva “E’ vero, siamo degli incivili, ce la meritiamo quest’Italia!”.
Sicuramente, entrando poi nei dettagli, la situazione si sarebbe rivelata più complessa. Ma ridotta così a discussione da bar, emergeva nella sua dimensione più drastica: noi (vittime o bestie) e loro (idem).
Poi, appena si sono aperte le porte, è cominciata una corsa scomposta per accaparrarsi il numeretto, passando avanti perfino a quello sulla sedia a rotelle.
Di nuovo siamo diventati nemici fra di noi e servili coi medici.
Il potere sul corpo ci rende vulnerabili a qualunque forma di sudditanza e, inermi come siamo, chiediamo solo di essere trattati con dolcezza.
Quando esco dalla visita, mi dicono che è tutto a posto.
Naturalmente sono sollevato, ma immediatamente mi domando se invece che una ragionevole iniziativa di prevenzione, il privilegio di poter saltare un anno di attesa non sia stato invece il frutto di una costosa ossessione ipocondriaca.
Scaccio via il dubbio e lascio spazio alla buona notizia. Nei corridoi vuoti cammino come se mi fossi appena comprato l’ospedale. (continua domani, 8 agosto)
Per leggere tutti insieme i capitoli del Diario di Daniele Cini:
Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio. Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]
Ernesto Balducci (Santa Fiora, 6 agosto 1922 – Cesena, 25 aprile 1992)
Quando, in occasione del centenario dalla nascita, gli amici mi hanno proposto una testimonianza su Ernesto Balducci [Qui] ho accettato, d’impulso, quasi a gustarmi il piacere del privilegio. Poi, solo poi, dopo una riflessione più consapevole, che riandava ai ricordi e al grande patrimonio sapienziale a cui ho avuto il vero privilegio di attingere, come allievo fra i molti nella propaggine aretina del Cenacolo di Testimonianze, mi sono reso conto che mi ero imbarcato in una vera e propria impresa.
Da un lato, il breve spazio di un articolo. Dall’altro, e soprattutto, la dimensione immensa della personalità di Balducci: spirituale, culturale, morale, intellettuale, profetica, perfino politica.
Capace di coniugare la realtà viva del presente, che indagava con rara capacità di lettura e di comprensione critica, con la tradizione del passato a cui sempre attingeva, cercando di cogliere quei valori o disvalori radicali della continuità culturale e storica, della quale ognuno di noi è un esito.
Un presente però, da cui partiva per proiettarsi nella dimensione che più lo affascinava: il futuro. Un esercizio, questo, che era sempre un suggestivo bagno di profezia, di razionale lettura dei processi evolutivi di tipo politico, antropologico e culturale.
Ma anche di speranza, nel percorso bonhefferiano che lega, dinamicamente, i tempi ultimi e quelli penultimi, in una continuità senza soluzione. Una continuità nella quale si gioca, per ciascuno di noi, e per tutti noi, il senso dell’esistenza, dell’impegno di ogni giorno e delle speranze individuali e collettive, nella costruzione del futuro atteso.
La fede e l’uomo
La riflessione balducciana intorno a questo percorso, aveva sempre due fondamentali punti di riferimento, che costituivano l’alfa e l’omega di ogni suo esercizio e percorso intellettuale e spirituale: la fede e l’uomo. Una fede profonda, incarnata in un mondo reale, nel quale l’uomo e la sua dimensione totale, erano l’essenza, il principio e la fine.
La fede, quindi, come realtà viva, non rituale, ma essenziale che, dal vangelo e dalla vicenda di Cristo, trova l’ispirazione creativa per la vita reale. E l’uomo, nella sua complessità materiale, spirituale, psicologica.
Quell’uomo storico, che vive una fase di transizione che lo sta proiettando in una dimensione nuova, planetaria, tale da farne un homo novus, in tutti i sensi, con una complessità di problemi e di sfide che investono i singoli e l’intera società.
A cominciare dalla Chiesa: mater et magistra, certo. Molto amata anche se, aggiungo io, non sempre del tutto amabile.
Ecco perché, allora, nella vicenda del nostro personaggio, l’esperienza del Concilio Vaticano II è stata un riferimento centrale, da lui seguito, studiato e divulgato scrivendo pagine fra le più belle, con quello che è stato, il suo straordinario impegno di esercizio della parola e di insegnamento, che ne ha fatto un maestro fra i più autorevoli, i più seguiti, i più amati.
È impossibile ripercorrere in breve con un po’ di senso, l’opera enorme e straordinaria delle varie forme espressive del suo pensiero che, per profondità, vastità, ricchezza e proiezione profetica, è difficilmente riassumibile in poche considerazioni.
Cristianesimo e mondo moderno: la dimensione planetaria della Chiesa
Spigolando fra i suoi testi, le sue dispense, gli appunti di conferenze, esercizi, omelie che conservo con preziosa cura, proverò a tirare fuori qualche pillola che consenta, a chi non ha avuto la fortuna di conoscerlo, di percepirne la grandezza, dopo aver scelto di evitare un ricordo di tipo agiografico, che lui stesso, credo di poter dire, non amerebbe.
Ma in questo non facile tentativo, ho scelto di assumere un segmento, peraltro per alcuni versi largamente comprensivo della sua visione di fede e umanistica: quello del rapporto fra cristianesimo-chiesa e mondo moderno.
Due realtà che lui amava profondamente, che vedeva intrecciate in modo indissolubile, ma che guardava con occhio puro e quindi critico, testimone severo e radicale, rispetto alla verità storica dell’uno e dell’altra, ai loro valori, ma anche alle derive che, nel corso della storia, li avevano segnati.
E ciò sempre con l’intento, appassionato e positivo, di contribuire a rimuovere le scorie, che ne inquinavano la loro essenza e il rapporto più intimo tra di loro.
Grande e perspicace lettore dell’evoluzione antropologica del mondo moderno, e geniale profeta del futuro, a cui guardava con suggestive rappresentazioni.
Seguendo, in ciò, un percorso sempre razionale e che, sempre, partiva dal presente, ma che il futuro lo anticipava, indicando le vie maestre dell’impegno virtuoso, utile ad inverare negli sviluppi della storia il senso di marcia dell’umanità.
Le vie delle aspirazioni utopiche: la piena liberazione dell’uomo, per esempio. E quelle dei nodi problematici, a cominciare dalla pace, che lui sentiva quasi visceralmente.
In questa profonda speculazione intellettuale e spirituale, collocava le grandi attese sul nuovo ruolo della Chiesa conciliare, e quelle invece proprie dell’uomo, di ogni uomo, nella nuova dimensione che si andava prepotentemente affermando: la dimensione globale, o planetaria come lui preferiva chiamarla, quasi ad elevare la dimensione terrena verso quella celeste.
Quel suo “uomo planetario” che si plasma all’altezza dei tempi nuovi. Quelli della contemporaneità, ma, soprattutto, quelli che, con spirito profetico, si intravedono come esito dei processi storico/antropologici in atto, fortemente proiettati alla costruzione di un mondo nuovo.
Chiesa e mondo quindi. Termini non più antinomici (“il cristianesimo, prima di essere una lotta, è una presenza, il cui splendore persuasivo, sarà il solo capace di conquistare le coscienze”).
Siamo troppo abituati, diceva, a collocare questo rapporto entro le categorie belliche che tornavano, stupendamente, ai tempi delle crociate, e tutt’altro che morte. Ma questo, alzava bastioni che finivano per restringere la chiesa in una tetra dimensione museale, ad uso esclusivo di chi è dentro le mura.
E dire, invece, che tutta la forza del cristianesimo non stà nelle sue capacità apologetiche, e nemmeno nei suoi sistemi filosofici, anch’essi relativi, ma “nella sua capacità di essere presenti nel mondo, e di attirare, solo in virtù della sua presenza, le nostalgie e le speranze del mondo”. Di tutto il mondo e compromettendosi con esso.
Certo, un mondo con un forte tasso di ambiguità. Sopratutto nella sua dualità “buono e cattivo”. L’insieme delle realtà create: “Dio vide che erano buone”. Una compiacenza che circola ancora nelle vene della creazione, conferendogli una ricchezza sacra, “che io devo rintracciare perfino nell’incredulo che accarezza il suo bambino e gioisce”.
Quella gioia è sacra, già religiosa. Così come l’opera dell’artista, dove si riversa la forza della sua fantasia. Non mi interessa definire se è sacra o profana, diceva. C’è in essa una santità immanente, quell’eco indefinito presente in tutti gli spiriti umani, che seguono l’impulso positivo del proprio essere.
Ma non appena “mi abbandono al ritmo della sua esistenza, il mondo mi si rivela anche come afferrato dalle concupiscenze e da quella, fondamentale, che è l’ansia di essere sufficienti a sè stessi.”
Una presunzione dove riecheggia il peccato originale, o il ‘non serviam’, il voglio essere come Dio. Con tutte le conseguenze, evidentemente, che hanno segnato fino ad oggi, e proprio per questo, la storia dell’uomo. Non certo la migliore.
Abbiamo così, un cristianesimo ottimista, da una parte, che, in modo infantile, si dimentica del “mysterium iniquitatis”, in una sorta di umanesimo naturalistico, che non vuol sentire nè di peccato nè di morte, considerandolo discorso medioevale (“dimenticanze ostinate che però lo perseguiteranno”).
Dall’altra, un cristianesimo pessimista che, più che vedere la pienezza nelle cose, vede il loro lutto e il nulla, “che quando vede la vita, ha il gusto di pensare alla morte”.
Ma proprio in questa duplice rappresentazione e in un rapporto tutt’altro che pacifico, troviamo il senso intimo della problematica fra chiesa e mondo, che merita di essere capita più profondamente.
Il Regno di Dio e l’avventura storica della Chiesa
L’avventura storica della chiesa, ci dice Balducci, ha del miracoloso: ha assunto una civiltà terrena, l’ha animata, fino a raggiungere quasi un impossibile miracolo di armonia, fra le creazioni di questa civiltà e le promesse escatologiche. Cadendo però in una permanente tentazione.
“Essa, pur essendo sostanziata da creature umane, ha come fine il Regno che non è di questo mondo, per realizzare il quale ha le sue leggi, non assimilabili alle leggi delle istituzioni di questo mondo”.
“Ma avendo, la Chiesa, intrecciato al proprio essere soprannaturale, le istituzioni naturali, ha trasferito con estrema facilità le leggi soprannaturali nell’ordine naturale, e le leggi naturali nell’ordine soprannaturale. Si è comportata, in questo mondo, adottando come sue, le leggi delle civiltà terrene.
Ma mentre la legge della Chiesa è la missione, la predicazione inerme, l’annuncio di Cristo alle coscienze libere, la legge della civiltà è la conquista, l’espansione di sé, la difesa di sé con la forza. Una commistione terribile” che, si può dire, non ha fatto bene né alla Chiesa né al mondo.
La storia è piena di esempi. Dalle crociate in poi, ma già prima con Carlo Magno, Clodoveo, Costantino o Teodosio e la sua persecuzione dei pagani con le armi. O i ministri massoni francesi, della nazione più illuminata cioè, che finanziavano, insieme, i colonizzatori e i missionari!
Il Concilio in particolare, ma le encicliche prima e dopo, hanno dato una svolta storica a questo processo. Che poi la tentazione evocata, rimanga come un dato non solo immanente, ma anche ben presente di nuovo nel concreto della nostra realtà, soprattutto in Italia.
I tanti episodi anche di questi anni, ci dicono che è sempre possibile, nello svolgersi del tempo e della storia, o delle storie, tornare indietro, in un processo regressivo che, in qualche misura, se non nella forma certo nel significato, ci riporta all’antico. Come, con sofferenza, siamo costretti a vedere anche ai nostri giorni.
Basta la canea scatenata su alcune questioni nella delicata materia della bioetica, i “principi non negoziabili”, il rapporto con la scienza ecc. dove, il ritorno all’ideologia come fattore dominante sui valori umanitari, non esiterei a definirlo quasi scandaloso.
Mi viene da pensare cosa avrebbe gridato Balducci, sul titolo di Avvenire contro Beppino Englaro il giorno della morte di Eluana [Qui] (“assassino”), quando ci ricordava, spesso e con forza, sia il rispetto del valore supremo della coscienza individuale, come il fatto che, per la Chiesa, il giudizio ultimo è sempre di Dio.
Ma il nostro mondo, con tutte le sue contraddizioni – oggi ancora di più di quando Balducci studiava e predicava -, è comunque un mondo nuovo che sta aprendo un’epoca nuova. Un’epoca nella quale non si abbassa il livello delle sfide, anche per la stessa Chiesa, ma che ne cambia, invece, profondamente, i caratteri. Quali secondo Balducci?
“Il profano si è liberato dal sacro”
Anche se l’excursus può risultare un po’ schematico, penso che meriti soffermarsi, brevemente, su quei tratti che lui individua come i più rilevanti elementi di novità della modernità.
Intanto l’emancipazione “definitiva e irreversibile” la giudica dice lui, del profano dal sacro. “Il profano si è liberato dal sacro”. Ed è una grande cosa. Si comincia a distinguere e separare, cioè, le istanze religiose da quelle sacre, una volta così confuse, tanto da non poter più discernere ciò che apparteneva a Dio, e ciò che apparteneva all’uomo.
Che non tutto il mondo sia ancora così, lo dimostra la persistenza di blocchi, come quel radicalismo islamico o ebraico, o di quelle sette religiose anche vagamente cristiane o dello stesso oriente, nei quali ancora il processo distintivo non è compiuto.
Ma il mondo cristiano evoluto, è già fortemente avanzato verso questo irreversibile progresso, e contribuirà certamente alla definitiva liberazione dell’uomo laico, dai lacci di una religiosità fanatica e clericale.
La nascita dello stato di diritto, in origine fortemente osteggiato dalle chiese, a cominciare da quella cristiana, è l’affermazione dello stato laico. Lo sviluppo delle organizzazioni internazionali è, anch’essa, una ulteriore conquista della laicità.
“Non c’è bisogno che il Papa vada a benedire l’Onu, perché l’Onu ha una propria autonomia di ordine profano che, come dice la Pacem in terris, ha in sé un ordine naturale che è la sua santità intrinseca”.
Quindi un nuovo equilibrio, un nuovo ordine nel rapporto Chiesa/mondo va affermandosi, irreversibilmente e tale da segnare l’avvio di un’epoca nuova. Una, grande conquista liberatoria insomma.
La fine del primato occidentale
C’è poi la fine del primato occidentale a farci riflettere. Lo vedeva Balducci già all’inizio degli anni sessanta. Pensiamo quanto è ancora più vero, oggi.
Un dato, questo, che per il mondo come per la Chiesa, ha un valore enorme, perché ci costringe a registrare nella coscienza di ciascuno di noi, quegli avvenimenti che tutti i giorni avvengono da ogni luogo della terra, non con gli schemi dominanti della sopraffazione culturale e politica dell’occidente, ma secondo la loro originalità.
Un pluralismo di civiltà diverse, che tutte muovono l’umanità verso un unico fine, superando la pretesa di superiorità della nostra civiltà, applicata come misura assoluta di valore comparativo.
Un processo liberatorio che, non solo spazza via gli idoli che ci siamo portati dal passato, ma ci porta alla formazione di una coscienza planetaria, appunto, che ci emancipa. Il giovane di oggi, ci dice Balducci, “che è esposto a tutti i venti degli avvenimenti globali, non ha più una insularità spirituale, è veramente universale: è planetario!”
Ma la fine del primato occidentale, marca un altro aspetto importante da rilevare: chiude (o dovrebbe!) con quel peccato originale rappresentato dalla scoperta dell’America, accompagnata dalla conquista, considerato, come si sa, l’atto di nascita, ma anche il crimine fondante, dell’età moderna. Un’infamia che vede la Chiesa e la cristianità fortemente compromessi.
Memorabile la forte polemica di Balducci in occasione delle celebrazioni del centenario del 1992, che si prestava alla doppia lettura: quella enfatica dei colonizzatori e quella dimessa dei colonizzati.
Ma poiché Dio non è neutrale, Balducci avrebbe voluto un atto di vero pentimento della Chiesa, unito ad una scelta radicale delle ragioni del sud del mondo, che ancora oggi rappresenta una grande ferita storica nella carne viva dell’umanità, con ben individuabili vittime e carnefici e un fondamentale problema aperto del nostro tempo.
Non solo, ma l’emergere di popoli nuovi, indigeni, dal sud del mondo, con una soggettività nuova, segna una svolta epocale, proprio perché mette in crisi la pretesa della civiltà occidentale, di essere universale ed esclusiva.
E con essa mette in crisi positiva lo stesso cristianesimo, che ne è strettamente associato, perchè non può più pretendere, ormai, di essere l’unica vera religione a carattere, anch’essa, universale ed esclusiva (“Il Dio nel quale oggi crediamo, è più grande del cristianesimo” ci dice il teologo Giulio Girardi [Qui]).
E così la civiltà moderna e il cristianesimo stesso, con la sua Chiesa, e le sue chiese, è chiamato a fronteggiare, ancora una volta, una sfida epocale che gli impone di tornare ad essere “indigena” ovunque e misurarsi con la ricomposizione delle particolarità di popoli, religioni e culture, che conquistano una sorta di pari dignità.
Ciò che va configurando, sempre di più con l’evoluzione globale in atto, un mondo a struttura planetaria e policentrica. Un mondo nuovo, nel quale tutti si è chiamati a costruire la pace, la difesa dell’ambiente e della vita umana, quella vera (si fossero difesi gli immigrati di Lampedusa, con la foga con cui, negli stessi giorni, si difendevano gli embrioni!), contribuendo alla ricomposizione di una convivenza, universale questa si, armonica e pacifica (*1 e *2).
Lo spirito e il portafoglio: cristianesimo e filosofie
“Importantissimo” per il nostro Maestro, poi, è un tema a cui fa cenno anche la Pacem in Terris, e rappresentato dal fatto che “si stanno dissolvendo le visioni del mondo che, nel passato, si ponevano in rapporto di alternativa al cristianesimo: esse non sono più ‘weltanshaungen’ visioni della vita (dall’hegelismo, al marxismo, al positivismo ecc.).
Visioni che, per più generazioni, erano diventate le religioni nuove dell’uomo intelligente, sono “divenute filosofie modeste, che camminano con mani e piedi, rasoterra, senza più la velleità di spiegare il mondo e la filosofia della storia”.
E il cristianesimo spinto, allora, ad una forte opposizione, ha finito per assumere, come con il Sillabo per esempio, atteggiamenti difensivi e fuorvianti. E così, oggi, la filosofia ha assunto un valore strumentale, certamente prezioso, ma non più “concorrente” della religione.
“I movimenti storici derivanti da quelle ideologie, hanno perso il legame organico della loro origine e, perso il loro dogmatismo e rispondendo di più ai bisogni dell’uomo, si umanizzano e muovono in obbedienza a istanze immanenti del divenire stesso”.
È con questo mondo così diverso, conclude, che noi abbiamo a che fare, smettendo di cercare nemici che non ci sono, per incontrare invece gli uomini, che ci sono; a cominciare dai seminari dove si studia a lungo l’eresia di Ario, che non esiste più da secoli, e si trascura di studiare il marxismo o l’esistenzialismo. O oggi la nuova poderosa “religione” plasmata dalla potenza pervasiva della tecnologia, per un verso, e dell’economia, per un altro.
E qui, Balducci, dalla finestra dei primi anni sessanta, anticipava ancora una volta, una riflessione profetica sull’evoluzione della modernità: l’incidenza che, nel divenire individuale e collettivo, ha sempre più la “causa materiale”, a cominciare, appunto, dalla tecnica e dall’economia. Lo spirito e il portafoglio, li chiamava.
L’istanza marxista, soprattutto, con la sua pretesa di ideologia materialista e totalitaria, ha costretto il cristianesimo a un’opposizione radicalmente polemica. E fuorviante dicevamo, perchè ha portato ad una sorta di esaltazione sbagliata dei valori spirituali, in contrapposizione a quelli materiali.
Una dissociazione suggestiva, ma falsa, con i valori dello spirito, a cui si conferisce un significato finalistico e in contrapposizione il contesto materiale in cui si incarnano.
“Con la conseguenza di affidare la difesa dei valori spirituali, a coloro che non vogliono accettare il mondo moderno e la sua realtà complessa. Cosicchè, strana cosa è vedere che un reazionario è sempre spiritualista, come se i valori spirituali dovessero reggersi sulle bandiere dei conservatori”.
Quando, in verità, l’incarnazione realizzatasi di quei valori, è una incarnazione sottoposta al divenire dei processi di trasformazione delle strutture. Difendendo l’incarnazione dei valori spirituali legati alle strutture precedenti, spesso il conservatore crede di difendere l’anima, ma difende il suo corpo; crede di difendere il destino spirituale dell’umanità, ma difende solo l’ordine materiale costituito e dominante. Ma così, si rischia di restare legati alla lenta senescenza del passato.
È illuminante l’esempio di Kennedy, ci ricorda, il quale non si limita a fare la politica della grandeur, l’esaltazione dei valori storici che non ci sono più, “ma parlava di valori spirituali e, subito, li connetteva alle necessarie programmazioni di ordine economico”, cogliendo così un aspetto della modernità oggettiva e spazzando via l’ingenuità di quello spiritualismo che crede di arrestare il processo storico, semplicemente sollevando le icone degli idoli passati.
Ma è significativa, su questo punto, anche la riflessione di Theilard de Chardin [Qui], quando afferma che “il cristianesimo è l’unica religione che dà senso positivo alla materia” e spiegando che la tecnica ucciderà tutte le religioni, proprio perché esse sono basate tutte sul dualismo materia-spirito e sulla tendenziale identificazione del male con la materia.
“Solo il cristianesimo sopravviverà, dice, perché è legato al dogma della creazione originaria, della incarnazione del Verbo e della resurrezione finale delle cose materiali”, quelle appunto che Dio ‘vide che erano buone’.
Guerra e pace
Un altro dato nuovo che connota, con discontinuità il mondo moderno, e che segna profondamente sia la realtà oggettiva che le coscienze degli uomini, è il rapporto guerra e pace.
Ha dedicato molte riflessione Padre Balducci a questo tema, che sentiva profondamente. Qui mi limito solo a richiamare la sua idea di fondo: la bomba atomica e la proliferazione nucleare, hanno cambiato radicalmente le idee-guida delle nazioni che hanno segnato la storia umana (la nazione come potenza), mutando i termini obiettivi del problema, sulla sproporzione fra fini e mezzi.
Ciò che rende la guerra intrinsecamente immorale, che cancella la teoria, pur discutibile, della guerra giusta, e che si riflette sia nelle strutture che nelle coscienze. E saranno sopratutto queste ultime, a dover generare il mondo nuovo, anche rispetto a quelle predicazioni che, nella stessa chiesa, hanno continuato a lungo a considerare la guerra un mezzo necessario.
Resta clamorosa la reazione dell’autorevole filosofo e teologo francese Antonin Sertillanges [Qui], al monito di Benedetto XV sull’ “inutile strage” riferito alla prima guerra mondiale: “Zitto, o Papa, perché noi non ti ascoltiamo!”.
Come dimenticare i “beati i pacifici” del discorso della montagna e, contrapposto, il fatto, come ricordava un padre conciliare egiziano, che la polvere da sparo l’hanno inventata i cristiani, i cannoni siano stati introdotti dai cristianissimi re di Francia, e la stessa bomba atomica sia nata nel mondo cristiano.
‘Pace’, quindi, che è la parola di Cristo, non può costituire una invocazione silenziosa nei conventi, ma un imperativo categorico per gli uomini di oggi a cominciare dai cristiani, da vivere, senza retorica, nella concreta realtà storica del nostro mondo.
Il rapporto con la ‘pace’ è, quindi, una discriminante fondamentale della mentalità del nostro tempo: o si è davvero moderni proiettati al futuro, o si resta ancorati a quel ‘mondo antico’ che, soprattutto su questo tema, non ha davvero nulla di poetico da farci rimpiangere.
Una rivoluzione silenziosa: la Chiesa indigena in ogni luogo
C’è infine in questa analisi di Balducci, un tema più spostato sul fronte politico/sociologico, che caratterizza fortemente la storia e il mondo del nostro tempo: il passaggio delle masse umane da puro oggetto di storia, a soggetto di storia.
Nel passato, quasi fino a noi (un passato che forse continua, in riferimento all’economia e alla finanza), la vita delle nazioni e dell’umanità si svolgeva con questo fondamentale dualismo: da una parte una ridotta classe dirigente che comandava e che, spesso con la benedizione di santa madre Chiesa in quella confusione fra sacro profano che ricordavo poc’anzi, concentrava su di sé potere e ricchezza;
dall’altra, masse inerti di popolazioni che accettava o subiva, quasi fosse, quella, una sorta di volontà di Dio. E, diffidando della coscienza soggettiva, pericolosamente eversiva, accadeva che non solo si raccomandava rassegnazione, ma “anche quando dubiti che l’autorità abbia ragione, devi propendere a dargli ragione”.
Questa, dice Balducci, è l’educazione che abbiamo dato. Non senza colpa aggiungo io. E, quando Papa Giovanni parla di questa nuova soggettività storica, che va emergendo come un segno dei tempi, è, dice sempre lui “una rivoluzione silenziosa” che connota la nostra epoca.
Ebbene, ma la Chiesa con questo mondo moderno, con questi connotati, come e quanto c’entra? Eppure, afferma con forte convinzione Ernesto Balducci, la Chiesa, in un mondo così fatto, trova il momento migliore della sua storia.
Abbandonata, dice lui, la confusione della difesa indistinta dei valori assoluti, da difendere sempre, con quelli effimeri da trascurare (oggi tutt’altro che abbandonata, ma “riesumata”); finita totalmente la civiltà sacrale, la confusione fra sacro e profano, fra temporale e spirituale, la Chiesa riacquista la sua vera dimensione, che è la dimensione profetica.
Ma cos’è la dimensione profetica? “Mentre lo stato deve promettere beni perseguibili e raggiungibili nel tempo, senza andare oltre, se no scivola nelle mitologie, la Chiesa non parla di beni di questo mondo, non promette successi di questo mondo.
Il suo fine è oltre: la sua struttura, la sua intima esistenza è profetica perché tende verso ciò che non è temporale, non è storico…Lei deve promettere ciò che le è stato affidato, cioè il Regno di Dio….
Così la Chiesa finita l’epoca sacrale, accetta il mondo profano e nel mondo profano instaura la sua presenza profetica, che è un “grido verso il futuro”, senza concorrenza con le potenze e le culture, che seguono leggi proprie e non sostituibili”.
In questa presenza, con la fine dell’egemonia occidentale, l’affermarsi della dimensione planetaria e la nascita di teologie orientali e africane, la Chiesa deve accettare di “essere indigena in ogni luogo”, diventando così lievito di tutte le possibili forme culturali.
Questo è il cammino che abbiamo davanti. “Altro che custodi del museo del cristianesimo che fu, ma anticipatori di quello che deve essere e che verrà”.
Questo, è il grande messaggio dell’insegnamento di Padre Ernesto: non farsi catturare dalle criticità del tempo storico che stiamo vivendo, anche dentro la Chiesa, ma guardare davvero ai segni del tempo con la fede e la speranza, che ci proiettano oltre la contingenza storica.
Una contingenza che, pur vissuta intensamente da uomini del nostro tempo nel segno delle beatitudini, va comunque superata in una visione che la trascende verso un mondo nuovo.
Quel mondo che sarà un’anticipazione del Regno, e alla costruzione del quale siamo chiamati a contribuire, consapevoli che anche Dio ha bisogno di noi ( T. Merton “Dio ha bisogno degli uomini”).
Note: *1) – “Ho letto da qualche parte che nelle comunità cristiane delle origini, c’era l’uso di consegnare al fratello che stava per intraprendere un lungo viaggio, il frammento di un vaso di terracotta frantumato. Al ritorno egli sarebbe stato riconosciuto dal frammento ricomposto in unità con tutti gli altri. Nella generale eclissi delle identità, il primo nostro dovere è restare fedeli a quella che abbiamo costruito, con una variante però, che essa va ritenuta non come il tutto, ma come un frammento del tutto, di un tutto ancora nascosto nel futuro. Non ripudio me stesso dunque, né mi converto ad altro: ripudio solo le forme e le pulsioni che mi vorrebbero condurre a fare del mio frammento la misura del tutto. Come il vero Dio, così anche il vero uomo è absconditus, e perciò io devo parlare di lui al futuro, anche se ne parlo a partire dal presente e con la massima fedeltà alle indicazioni del presente”
(Ernesto Balducci, L’uomo planetario, Ed. Cultura della Pace – S.Domenico Fiesole, p.173)
*2)– “Alcuni ritengono che il modo più ragionevole per ottenere l’armonia e risolvere i problemi relativi all’intolleranza religiosa, sia di creare una religione universale per tutti. Io invece sono sempre stato convinto, che dobbiamo avere diverse tradizioni, perché gli esseri umani hanno numerose differenti inclinazioni mentali; una sola religione semplicemente non può soddisfare le esigenze di una così grande varietà di persone. Se cercheremo di unificare le fedi del mondo in una sola religione, perderemo anche molte peculiarità e molte ricchezze di ogni specifica fede. Perciò ritengo sia meglio, nonostante i molti contrasti che spesso si verificano in nome della religione, preservare le diverse tradizioni religiose. Purtroppo, anche se differenti tradizioni soddisfano le necessità delle varie tradizioni mentali dell’umanità, da tali diversità deriva ovviamente il rischio di conflitti e disaccordi. Perciò i seguaci di tutte le religioni, devono fare uno sforzo ulteriore, cercando di trascendere l’intolleranza e l’incomprensione e di trovare l’armonia”
(Dalai Lama, Incontro con Gesù: una lettura buddhista del vangelo, Mondadori 1997, p.11)
Ci sarà un motivo se Alessandro Manzoni, maestro nel cogliere lo spirito italico prima dell’Unità d’Italia (espressione ossimorica, come sappiamo), ha ideato un personaggio come l’avvocato Azzecca-garbugli.
L’azzeccagarbugli mette la sua abilità nel trovare cavilli sempre al servizio del potente. In questo racchiude in sè due vene congenite dell’italiano: la litigiosità bizantina e il servilismo, che purtroppo trovano udienza in molti tribunali italici, evidentemente sensibili alle medesime sirene.
L’ultimo esempio è di oggi. Il Governo impone (ai tempi di Manzoni sarebbe stata una grida, cioè un editto dell’autorità) una tassa di solidarietà a carico delle aziende distributrici di energia, gas e petrolio: si confronta il dato derivante dalla somma algebrica tra le spese e i ricavi dal 1° ottobre 2021 al 30 aprile 2022 con il dato spese e ricavi dello stesso periodo dell’anno precedente. Se l’aumento del dato tra un anno e quello precedente supera il 10%, sull’ importo dell’aumento – che lo Stato ha deciso di calcolare prendendo come riferimento l’imponibile IVA – l’azienda deve pagare il 25% di extra tassa, che vada a finanziare uno sconto sulle nostre bollette.
Faccio un esempio: se io sono un cane a sei zampe e ho avuto quest’anno un saldo di 5 miliardi, mentre l’anno precedente il mio saldo dello stesso periodo era 1 miliardo, sulla differenza di 4 miliardi pago allo Stato il 25%, ovvero 1 miliardo, che ritorni ai cittadini a mezzo Stato per fargli sopportare l’aumento enorme della bolletta. Infatti quei 4 miliardi io, cane a sei zampe, li ho lucrati in massima parte comprando energia a prezzo prefissato e rivendendola a prezzo di mercato, prezzo che attualmente è schizzato verso l’alto per motivi quasi esclusivamente di speculazione. Si chiama contributo di solidarietà: una minima misura di redistribuzione che non affama il cane (che continua ad essere bello pasciuto) e serve a non far crepare i gatti, che siamo noi.
Sapete che sta succedendo? Che i consulenti azzecca-garbugli del cane a sei zampe e suoi derivati stanno suggerendo ai loro clienti di non pagare l’acconto (40%) di questa cifra. Infatti il Governo ha incassato pochissimo rispetto alla stima di fine giugno: circa un quarto del previsto. Gli azzecca-garbugli servi del cane stanno dicendo al cane di non pagare le tasse, perchè il cosiddetto “differenziale IVA”, ossia la variazione della cifra imponibile su cui si paga l’IVA da un anno all’altro, potrebbe dipendere non solo dalla differenza di prezzo, ma dall’ampliamento del portafoglio clienti, dall’acquisto di un ramo d’azienda o dal semplice aumento della quota di mercato. Quindi sarebbe un indicatore spurio, e addirittura incostituzionale.
Sarebbe come se io decidessi di non pagare l’Irpef sui miei guadagni perchè secondo me sono stato bravo a farli, e quindi non è giusto che ci paghi le tasse. Se lo faccio io o lo fai tu, domani hai l’Agenzia delle Entrate alla porta. Se lo fa il cane a sei zampe, abbiamo Draghi incazzato che “minaccia sanzioni”. Contro un’azienda controllata da lui stesso, peraltro, visto che il Tesoro ne detiene il 30%.
“A saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente”
L’ avvocato Azzecca-garbugli a Renzo, ne I Promessi Sposi
Rainer Maria Rilke [Qui] scrive Il Libro d’Ore, in parte in Italia, a Viareggio, all’inizio del 1900 quando ha 25 anni. Presentando il libro, nella versione italiana di Pietro De Nicola, Cesare Angelini scrive:
«Così la poesia di Rilke, col pudore delle sue immagini e la potente labilità del suo linguaggio ci si apriva davanti proprio come “un giardino che si desti all’alba” – ricordando poi che – in una lettera a Ilse Jahr lo stesso poeta descrive il clima sentimentale di certi passi del Libro, precisando che non si tratta di una professione di fede, ma quasi una “esalazione di Dio dal cuore respirante: il cielo se ne copre ed Egli ricade come pioggia”».
Le strade mai si vuotano di quelli
che a te vogliono andar come alla rosa
che fiorisce una volta ogni mill’anni.
Ma li ho visti nel loro camminare:
e perciò credo che respiri un vento
da quei loro mantelli in movimento, quieti sol se si posano per terra:
sì grande era nei piani il loro andare.
Così vorrei andar verso di te;
raccogliendo da soglie forestiere
elemosine che mal volentieri
mi nutrano. E se molti dei sentieri
mi confondessero coi lor grovigli
con i più antichi m’accompagnerei.
Vorrei essere, Iddio, di pellegrini
una folla e così venire a te,
in lunga fila, ed essere un frammento di te, giardino con viali viventi.
Dal tuo equilibrio, non cadere, Iddio.
Anche colui che t’ama e che il tuo volto
conosce al buio, se come una luce
ondeggia al tuo respir: non ti possiede.
E se alcuno t’afferra nella notte
si che tu devi entrar nella sua prece:
‘tu sei l’ospite
che procede ancora.
Tu sei il solo,
solitudine sei, tu sei il cuore
che per lontane imprese s’incammina.
(Rainer Maria Rilke, Il libro del pellegrinaggio, in Il Libro d’ore, Morcelliana, Brescia 1950, 7; 9; 78-79; 84).
È l’apostolo Giacomo che nella XXVa cantica del Paradiso interroga Dante sulla speranza. Nel delinearne la figura, Dante si ispira al racconto di Isidoro di Siviglia che indica in Giacomo l’evangelizzatore della Spagna: «e Beatrice, piena di letizia, mi disse: “Guarda (Mira), guarda: ecco l’apostolo Giacomo (il barone), per venerare il quale (per cui) sulla terra (là giù) si va in pellegrinaggio (si vicita) in Galizia”» (XXV 18).
Secondo una tradizione medievale i tre apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni rappresentavano la fede, la speranza e la carità. Sicché, prima di avanzare verso un altro cielo, Dante, nell’VIII cielo delle stelle fisse o delle costellazioni viene esaminato su queste tre virtù dai rispettivi apostoli.
Beatrice si rivolge all’apostolo Giacomo dicendo: «fa che risuoni in questo cielo (altezza) il valore della speranza (speme): tu sei in grado di farlo (tu sai), poiché la simboleggi (la figuri) negli episodi evangelici in cui (tante fiate… quante) Gesù mostrò maggiore predilezione (fé più carezza) verso i tre apostoli», (XXV, 33).
Una leggenda narra che quando i primi cristiani giunsero sulle coste della Galizia trasportando il corpo dell’apostolo Giacomo, un cavaliere − Cristo stesso − si fece loro incontro e gettandosi in mare riemerse con tutto il corpo rivestito di conchiglie.
Leggenda nata forse dal fatto che i pellegrini che arrivavano a Compostela dovevano immergersi nel mare, come a rinnovare il loro battesimo, e poi raccogliere una conchiglia come simbolo della speranza nella risurrezione, che avrebbe accompagnato il loro ritorno.
Uno dei significati della conchiglia nella simbologia cristiana è quello legato all’acqua e alla rinascita battesimale. Ma è pure figura di uno scrigno, dell’arca, custode delle due tavole dell’alleanza, del bastone fiorito di Mosè e della candida manna, come polvere di madreperla.
Infine il guscio della conchiglia, con le sue due valve chiuse, rappresenta anche un sepolcro, così da conferire a questo oggetto un duplice contestuale significato di occultamento e svelamento dell’annuncio del mistero pasquale: la conchiglia simboleggia cioè il corpo dell’uomo, che come una tomba chiusa custodisce dentro di sé, dopo il battesimo, la perla preziosa della vita risorta.
Pellegrino tra pellegrini
«Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, e conversavano di tutto quello che era accaduto. Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro» (Lc 24, 13-15).
Pellegrino tra pellegrini: così viene da pensare se ci si lascia guidare dai pittori che hanno raffigurato il racconto dei discepoli di Emmaus. Le conchiglie non sono dimenticate. Anche se piccole, esse sono effigiate sulla borsa del santo Pellegrino nel dipinto di Duccio da Buoninsegna [Qui].
Non solo, nella taverna di Emmaus il Caravaggio [Qui] ha dipinto una conchiglia sul vestito del discepolo pellegrino, che tiene le braccia distese, le mani aperte per lo stupore e − a me sembra − pure per trattenere il Cristo che ha riconosciuto dallo spezzare il pane.
Per questo egli proferisce: “è bello stare qui non andartene”, resta con noi ancora, affinché sia Emmaus il capolinea. E tuttavia, come sul Tabor, occorre riprendere il cammino: il Risorto con il solo gesto della mano indica l’uscita, aprendosi così il cammino in mezzo a loro.
Ma a differenza di quanto accadde sul Tabor, ora i due sono traboccanti di gioia. Il loro cammino missionario è appena cominciato: «E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro».
Quella conchiglia appuntata sul petto del discepolo senza nome ricorderà ad ogni discepolo il compito e la grazia dell’annuncio del vangelo della gioia e della pace: «Le nostre mani congiunte/ componevano una tenace/ conchiglia/ che custodiva/ la pace» (Antonia Pozzi [Qui]).
È stata dunque una grande sorpresa scoprire, di questi giorni, che minuscole conchiglie fanno da corona ai bordi lungo tutto il perimetro del Crocifisso di san Damiano. Sono così minute che uno non se ne accorge subito. Ma sono proprio lì, dipinte sul legno della croce, primizia e profezia di risurrezione.
La missione in una conchiglia
«La missione in una conchiglia», pensai una domenica mattina di molti anni fa, ritrovando nella tasca della giacca a vento, mentre cercavo le chiavi, la “cappa santa” che la sera prima era stata consegnata ai partecipanti della veglia missionaria nella parrocchia di Sant’Agostino.
Durante la messa, dopo la proclamazione del Vangelo – che quella domenica narrava del comandamento dell’amore − la mostrai alla gente e ai bambini incuriositi in prima fila. Forse che quella “cappa santa” esprimeva quello che era stato appena annunciato dalla Parola?
Domandai allora: «Mi sapete dire quale “cosa” sia uno e allo stesso tempo due, e quando due siano una stessa cosa?». Inizialmente, dall’assemblea mi guardarono male, poi piombò il silenzio, perché i pensieri quando cominciano a muoversi non fanno rumore.
Quelli dei bambini sono però più svelti e meno imbarazzati, tanto che dal terzo banco uno di loro mi disse, «Ma la conchiglia che hai in mano, don Andrea!». Io allora incalzai: «E cos’altro?». Ancora silenzio; poi dall’altra parte della fila vedo una testolina inclinarsi verso un’altra e questa a sua volta piegarsi verso la catechista per un breve consulto, innescando poi il movimento inverso di conferma.
Solo allora, la prima testolina emerse sulle altre e disse: «Il comandamento nuovo» − aggiungendo − «mi sembra». E proseguì − probabilmente attingendo da una “glossa” della catechista −: «Due modi di amare, come due sono le valve ma una sola è la conchiglia poiché unico è l’amore».
Provai allora a insistere nell’interrogatorio e domandai ancora: «Sapreste anche dire a quale parte della conchiglia assomiglia di più il primo comandamento ed a quale il secondo?»
E aggiunsi: «Non c’è una risposta esatta questa volta; lasciate quindi parlare il cuore». E quando parla il cuore, si sa, è il gesto che arriva prima, sorpassando la parola.
Subito alcuni indici delle mani segnarono quella parte della conchiglia più rigonfia, con le nervature esposte, tese e convergenti all’indietro: quella che sembrava una vela in cui soffia il vento. «Quella, quella − dissero alcuni − quella è l’amore verso Dio».
Era logico che quell’altra, più somigliante a una “cosa piatta” o ad un utensile tagliente, esprimesse invece quell’amore verso il prossimo come verso se stessi. «Ma perché questa scelta?» chiesi nuovamente.
Si ripeté il rito confabulatorio, ma un ragazzino svelto mostrò le mani capovolte come conchiglia rovesciata e disse: «Perché si deve accogliere Gesù come alla comunione». Più difficile fu trovare il significato dell’altra parte della conchiglia. Anch’io non ne trovavo un senso e ripetevo: «a che cosa assomiglia, forza», per prendere tempo.
Questa volta, una voce di mezzo alla gente disse: «Un piatto». «Ma certo» risposi, come colpito da quella parola: «ma certo, un piatto». E aggiunsi «avevo fame e mi avete dato da mangiare».
Si sentì una soddisfazione tra le persone per quel piccolo enigma risolto, per quel gioco di simboli svelato. Alla comunione soprattutto i bambini si guardavano le mani perché fossero il più somiglianti al piatto di una conchiglia e il loro sguardo, almeno così m’era sembrato, era attirato non solo dal bianco del pane eucaristico.
Quel piccolo pane bianco sembrava proprio ai loro occhi risplendere come una candida perla.
Allora non conoscevo ancora il significato più antico della conchiglia del pellegrino che si trova nel Codex Calixtinus [Qui], detto anche Liber Sancti Jacobi la cui origine di composizione è tra il 1139 e il 1173.
Vi si legge: «Nello stesso modo in cui i pellegrini che tornavano da Gerusalemme portavano con sé le palme, così i pellegrini che tornavano a casa dopo essere stati a Santiago portano con sé le conchiglie, e non senza ragione. La palma rappresenta il trionfo, la conchiglia le buone opere».
Ah! dissi tra me le buone opere dell’apostolo Giacomo: «Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede, se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta.
I ragazzini l’avevano compresso anche senza leggere il Codex Calixtinus e prima del parroco.
Al cuore del poeta che all’inizio attende l’Ospite entrare nella sua preghiera, un altro cuore corrisponde: conchiglia ripiena dell’eco del suo silenzio, infinito silenzio che muta il pianto in gioia.
In gioia si muta il mio pianto
quando comincio a invocarTi
e solo di Te godo
paurosa vertigine.
Io sono la tua ombra,
sono il profondo disordine
e la mia mente è l’oscura lucciola
nell’alto buio,
che cerca di Te inaccessibile Luce;
di Te si affanna questo cuore conchiglia ripiena della Tua Eco, o infinito Silenzio. (David Maria Turoldo [Qui])
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È tollerabile il concerto di Bruce Springsteen all’interno del Parco Urbano?
Il Parco Urbano “Bassani” di Ferrara è stato creato per il godimento dei cittadini, sia per la sua funzione di ‘polmone verde’ che per agli aspetti ricreativi. Non bisogna dimenticare, però, che rappresenta un importantissimo serbatoio di biodiversità poiché racchiude importanti habitat costituiti da siepi, boschetti, prati e un bacino d’acqua di discreta portata.
Le specie di uccelli che transitano nel parco sono circa 130, mentre quelle nidificanti sono, con quasi assoluta certezza, almeno una quarantina.
Nelle siepi, per esempio, costruisce il nido l’usignolo e la capinera, mentre nei boschetti nidificano il picchio verde, il picchio rosso, la cinciallegra, la cinciarella e probabilmente l’upupa, visto che è abbastanza usuale vederla raccogliere insetti nelle distese erbose. Nel laghetto è ospite fisso il martin pescatore, anche se probabilmente non nidifica in luogo poiché le rive non sono adatte ad ospitare il suo nido, però viene regolarmente a pescare invitato dall’abbondanza di piccole prede.
Nidificanti di sicuro lungo le rive a canneto, invece, sono la cannaiola, il cannareccione e il tarabusino. Di quest’ultimo ho visto personalmente nella prima settimana di luglio un pullo (animale giovane, n.d.r.).che si arrampicava agevolmente sulle canne. Le specie descritte, come ho già accennato, sono una minima parte di quelle che realmente allevano i loro pulcini nell’ambito del parco urbano. Anche la galleria di foto che illustrano questo breve testo è solo una piccola rappresentanza degli uccelli che frequentano questa zona.
Non ci vuole tanto a capire che il Parco Bassani è una vera oasi e che la sua fragilità dovrebbe essere tutelata. Ovviamente Il concerto di Bruce Springsteen. che si terrà il 18 maggio 2023 (quindi in pieno periodo riproduttivo per molte specie), con la presenza di 50.000 persone, arrecherà un danno irreparabile al Parco, almeno per quello che riguarda l’aspetto faunistico, per via dell’enorme disturbo causato da migliaia di presenze umane e dai migliaia di decibel di un concerto.
Non bisogna privare Ferrara di un avvenimento musicale così importante, ma occorre trovare una soluzione alternativa alla location da riservare al concerto del Boss. Tantissimi ferraresi si sono mobilitati, ed è stata già proposta un’altra area più idonea. Fino ad oggi l’Amministrazione Comunale ha minimizzato le conseguenze derivanti da una scelta inspiegabile e sbagliata. Ma il Comune ha ancora dieci mesi a disposizione… per cambiare idea. Che il buon senso prevalga!
Specie di uccelli sicuramente osservabili nel Parco Urbano
Le ilustrazioni: Tutte le foto che corredano il testo, come quella in copertina (Cannareccione, Acrocephalus arundinaceus) sono state realizzate da Maurizio Bonora e sono soggette a copyright. Periscopioringrazia l’autore per aver concesso gratuitamente il consenso alla pubblicazione sul nostro quotidiano.
Se non l’hai ancora fatto, leggi la petizione popolare SAVE THE PARK che ha già superato le 24.300 adesioni[firma qui la petizione]
“Patria: il territorio abitato da un popolo e al quale ciascuno dei suoi componenti sente di appartenere per nascita, lingua, cultura, storia e tradizioni“. “Nazione: il complesso delle persone che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e che di tale unità hanno coscienza, anche indipendentemente dalla realizzazione in unità politica“. (Treccani)
Mi sono sempre meravigliato di quanto l’uomo, nella storia, abbia sentito il bisogno di combattere per qualcosa che pone fuori (sopra) di sé, invece che per sé. Dio, Patria, Nazione. Uso la parola “uomo” in senso specifico: sono i maschi che hanno costruito queste astrazioni. Per renderle dei feticci in nome dei quali uccidere e morire, i maschi ci hanno iniettato dentro concetti tratti dalla fisiologia: il sangue, come se un legame di sangue potesse allargarsi dalla propria ristretta cerchia di avi e discendenti, fino a ricomprendere una moltitudine di consanguinei che fanno un popolo, che formano una nazione. Anche qui, il maschio umano parte da un elemento reale, che scorre nelle sue vene, e lo trasforma in un’astrazione. Un allargamento della propria genìa ad un numero indefinito di pseudo-consanguinei. Un’idea folle. Che infatti porta all’altra follia genocida, quella della razza pura.
Non so se sia completamente attendibile, ma obbligherei tutti i nazionalisti, tutti i razzisti, tutti i sostenitori della superiorità della loro razza a fare il test genetico che attraverso il DNA rivela le varie origini etniche. Sarebbe bello vedere la faccia di un suprematista che scopre che nelle sue vene scorre sangue nigger,l’espressione di un nazista con la svastica tatuata addosso che scopre di essere di origine ebraica, l’amara sorpresa di un turco fanatico che scopre di avere ascendenze armene e curde.
Qui si innesta un altro elemento, questo sì biologico. Numerose ricerche scientifiche hanno dimostrato che un elevato livello di testosterone aumenta l’aggressività e diminuisce la capacità di ponderare le proprie decisioni, rendendole più impulsive. Lo ha detto anche la bravissima Francesca Mannocchi, inviata di guerra (anche) in Ucraina: “c’è troppo testosterone”. Si riferiva nello specifico ai proclami bellicisti di politica e stampa. Fino a che un uomo soddisfa il bisogno simbolico di prolungarsi il pene acquistando un Suv, i rischi sono limitati. Quando l’uomo in questione ha la possibilità di imbracciare un fucile, i rischi aumentano. Se poi il maschio in questione può azionare dei missili, diventa anziano ma non lo accetta ed è strafatto di steroidi, il rischio diventa maledettamente alto.
La parola “patria” ha un etimo che deriva da “terra dei padri”, ma sono le madri che danno la vita. Sono persuaso che questa, come tutte le guerre, sia una guerra dei maschi, come scrive anche Roberta Trucco in un bello e drammatico pezzo appena pubblicato sul nostro giornale (qui). Una progressiva presa delle leve del potere (potere anche mediatico) da parte delle donne non rivestirebbe solo una funzione di riequilibrio sociale ed emancipazione culturale, ma contribuirebbe a spostare le priorità nei valori e le modalità di narrazione e magari anche gestione dei conflitti. Le donne non hanno bisogno di esibire ed esercitare la virilità: non è nella loro natura. Non intendo essere agiografico (ci sono state donne di potere feroci o spietate, perchè hanno mutuato un attitudine maschilista), nè costruire un santino: sono disperatamente interessato a intravedere un futuro per la specie umana. Guardate due donne che litigano. La loro ferocia verbale è superiore a quella maschile, più raffinata e greve al tempo stesso. Si potranno odiare per sempre, difficilmente arriveranno ad ammazzarsi.
Quando qualcuno mi dice che ho una spiccata parte femminile lo considero un bel complimento. Gli uomini ucraini in età dai 18 ai 60 anni, come sappiamo, hanno il divieto di uscire dal loro paese da quando è partita la guerra di aggressione russa. Questo divieto oblitera d’imperio la loro parte femminile, statuendo per legge la declinazione della loro individualità in termini esclusivamente virili: lotta, combattimento, aggressività. Le donne e i bambini possono andarsene, loro no. Loro devono rimanere a difendere con le armi…che cosa? La Patria, la Nazione. Non venitemi a raccontare che separarli dai figli e dalle compagne e lasciarli lì a combattere e a morire (non su delle alture, non lontano e sopra i bombardamenti ma sotto le bombe) serve a difendere la loro famiglia. Se volessero proteggere i loro affetti dovrebbero avere la possibilità – almeno la possibilità – di andarsene via insieme alle loro famiglie. Se lo ritengono necessario, dovrebbero avere la chance di ricostruire un futuro altrove insieme ai loro cari. Invece, anche solo parlare di questa opzione (trovare una “seconda patria”) ti fa incasellare dentro una scatola con l’etichetta di smidollato, di vigliacco. Sono loro che ci chiedono di avere le armi, sento dire. Ma loro chi? Chi è costui che ha parlato con ogni singolo maschio ucraino per essere così sicuro delle sue intenzioni? Se lui muore, la Patria un giorno forse gli sarà grata, ma sicuramente i suoi figli saranno orfani e sua moglie vedova.
Albert Einstein dopo la salita al potere di Hitler si trasferì negli Stati Uniti. Sarebbe stato meglio per l’umanità se avesse imbracciato le armi contro il Kaiser? Sigmund Freud dovette chiedere un visto per l’Inghilterra, mentre le sue opere venivano bruciate e quattro delle sue sorelle trovavano la morte in un campo di concentramento. Rudolf Nureyev chiese asilo politico alla Francia e in Unione Sovietica – dove, accusato di essere una spia, fu condannato in contumacia per alto tradimento – tornò solo nel 1987, grazie ad un permesso concessogli da Gorbaciov. Avrebbe dovuto andare in galera, anzichè espatriare? Cosa sarebbe stato meglio, per lui e per tutti, che ballasse tutta la vita in carcere? Cassius Clay rifiutò di arruolarsi per il Vietnam, affermando che, a differenza di quanto accadutogli nella sua nazione, nessun vietcong lo aveva mai chiamato “sporco negro”.
Però i partigiani hanno fatto la Resistenza armata, si obietta. Certo, ma chi si trovava in guerra e come l’hanno fatta la Resistenza? Pietro Secchia (Brigate d’assalto Garibaldi) afferma che, su 1.673 nomi di dirigenti del movimento partigiano, circa il 90% erano militanti che erano già stati condannati al carcere, al confino o all’esilio dal regime fascista. Moltissimi erano disertori. Quanto all’approvvigionamento di armi e alle leggendarie piogge di rifornimenti aerei dagli Alleati, cito quanto scrive Carlo Levati (partigiano Tom) nel suo libro “Ribelli per Amore della Libertà”: «Dal Comando di Brigata ci veniva comunicata l’imminenza di un rifornimento di armi da parte degli Alleati; e la notizia ci procurò molta gioia. Il lancio dall’aereo sarebbe avvenuto entro il territorio sotto il nostro controllo e cioè tra Gorgonzola, Trezzo e Vimercate. Il segnale avrebbe dovuto darlo Radio Londra con queste parole: “Lucio 101” che significava attesa; “Lucio 1O1 il pollo è cotto” voleva significare che la notte seguente noi avremmo dovuto accendere dei falò nelle località citate e quindi recuperare le armi venute dal cielo. Andammo avanti tante notti ad ascoltare la radio e ad aspettare il famoso “pollo”, che non venne mai; tant’è che anche il più paziente di noi, dopo un paio di mesi di vana attesa, si lasciò sfuggire questa battuta: “Se il pollo c’è … ormai è carbonizzato!”. Così, senza ulteriori attese di lanci, decidemmo di organizzare l’assalto alla Caserma dei repubblichini di Vaprio d’Adda per recuperare armi.»
Questo accadeva, tra l’altro, in una situazione completamente diversa dall’attuale: le truppe di Hitler avevano già sfondato in mezza Europa. La guerra era già diventata mondiale, e gli italiani non solo avevano i nazisti in casa, ma facevano i conti da anni con un regime interno che si era alleato coi nazisti per mandare i giovani italiani coscritti a morire in nome del Duce. I fautori dell’invio di armi alla “resistenza” ucraina, facendo un parallelismo con l’aiuto alleato ai partigiani, raccontano una favola ad un tempo mitologica e superficiale: mitologica perchè, come l’episodio sopra narrato mostra, gli alleati lanciarono armi soprattutto a partire dalla tarda primavera del 1945, alla vigilia della Liberazione; superficiale, perchè l’Europa e l’Italia non sono alleati bellici dell’Ucraina contro la Russia. Chiunque sostenga il contrario (compreso il nostro Governo) dovrebbe spiegare su quali basi giuridiche l’Italia offrirebbe assistenza armata all’Ucraina, che non è un paese aderente alla Nato e non fa parte dell’Unione Europea.
Per quanto mi riguarda, sono e sarò un renitente e un disertore. Preferisco andare in carcere che ammazzare persone che non conosco e che non mi hanno dichiarato guerra, per soddisfare la brama di potere di qualcuno. Potessi avere una remota possibilità, imbracciando un fucile, di far fuori il tiranno: invece ho la certezza che dovrei ammazzare l’ innocente per salvare la mia vita, contemporaneamente perdendola per sempre. La guerra la dichiara qualcuno che sta in cima alla piramide, ma a morirne sono quelli che si trovano alla base della piramide. In nome di cosa? Il mio nemico è Putin, ma il mio fucile al massimo potrebbe uccidere un potenziale Bulgakov, un futuro Kandinskij, un Cechov, un Dostojevskij.
Tutta questa gente che si è messa in modalità “partigiana”, esaltando e propugnando la magnifica resistenza dei camerieri e ragionieri ucraini che diventano guerriglieri e “dobbiamo mandare loro le armi”: intanto se ne sta a casa, e sfoggia il proprio patriottismo in un talk show (in Italia, una delle peggiori degenerazioni dell’informazione). Avrei un briciolo di rispetto per questa posizione se chi la sostiene si muovesse per andare a combattere in prima persona a fianco degli ucraini, perchè almeno rischierebbe in proprio. Invece non ho nessun rispetto per i colonnelli da tastiera, nè per le margherite che si scoprono tupamaros, ma non si schiodano dalla poltrona. La battaglia per la “patria” la combatta chi la vuole combattere, ma almeno lo faccia assumendo il rischio sulla propria pelle. Altrimenti sono esercizi di oscenità verbale. Come l’osceno Ed-War-d Luttwak, che racconta che l’Europa è cresciuta a guerre, che lui se ne è fatte tre (mai una in trincea o sotto le bombe) e che è “un’esperienza bellissima”.
Io mi sento a mio agio nella “matria“, insieme alle donne e madri russe, alle donne e madri ucraine, che vedo già nel mio condominio, con bambini ma senza uomini. Sono loro che possono cambiare il paradigma della storia umana, perchè hanno dentro il seme della vita e non l’anelito alla morte. La mia estrema speranza che questa non diventi una guerra all’ultimo europeo, o all’ultimo essere umano, ha l’aspetto di una matrioska.
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Confesso che nella scelta del mare, prevale il mio lato borghese.
Da un po’ di tempo non mi capitava più di andare in spiaggia di domenica: l’idea di finire in una bolgia di umani, tra le famiglione rumorose, il muro di giocatori di racchettoni nella pisciarella dei bambini sulla riva e poi soprattutto la claustrofobia dell’ingorgo nel ritorno, mi hanno sempre spinto a lidi più lontani, senza troppo pensare alla benzina, al costo del lettino più ombrellone e soprattutto approfittando di un mestiere che può permettersi una gita in un giorno infrasettimanale.
Sin da ragazzo, anche con pochi soldi in tasca, ho conosciuto molte delle mete preferite dai ricchi, dall’Argentario a Porto Cervo, da Sabaudia a Porto Rotondo, anche se ci andavo con la Lambretta e dormivo nella tenda canadese. Mi attraeva l’idea di godermi paradisi isolati ed esclusivi senza regalargli una lira.
Naturalmente nella vita ho fatto molte altre esperienze in mezzo mondo.
Ma oggi, che voglio provare a ricordarmi di come se la passa qui la maggioranza della gente, estorco alla mia compagna il consenso per andare al mare una domenica d’agosto.
Dato che vorrei una spiaggia davvero popolare, mi viene in mente un film visto di recente, dove lo stereotipo del litorale borgataro s’incarna in un nome che è tutto un programma: andiamo a Coccia di Morto.
Nel film, Antonio Albanese, che rappresenta un borghese “democratico” noioso e pieno di pregiudizi, salta sul sedile della macchina quando la figlia, innamorata di un ragazzino di periferia, gli chiede di accompagnarla al mare a Coccia di Morto.
“Dov’è questa Coccia-del-morto?” scandisce il papà “Dice che è tra Passoscuro e Ponte Galeria” risponde la ragazzina. La scena è molto divertente anche perché è vera: in questo tratto di costa, i nomi delle località fanno paura.
E in effetti, quando ci arriviamo (anticipata da una Googleata in cui appare come “la più brutta spiaggia del Lazio” seguita da raccapriccianti immagini di monnezza buttata lungo tutta la spiaggia), i proprietari di uno stabilimento hanno piazzato una lavagnetta che spiega, a chi arriva come noi la prima volta, qual è la ragione del suo trucido nome.
“Qui confluivano” dice la lavagnetta “le acque del Tevere e scontrandosi con le correnti del mare portavano a riva ogni genere di rifiuto, compresi i cadaveri dei naufraghi e di chi non riusciva ad avere sepoltura”. L’uso dell’imperfetto non rassicura più di tanto: dicono che qui quando sgomberano un campo nomadi arrivino ondate di immondizia e che nel 2016 si sia registrato il record di raccolta di cottonfioc. Come a dire “lasciate ogni speranza o voi che entrate”.
In realtà, una volta superata una barriera di scoraggianti pregiudizi, le cose, come al solito, cambiano di aspetto.
Innanzitutto, per essere Domenica, la spiaggia libera è quasi deserta. Sarà che la gente è già in vacanza o forse che sono sempre meno quelli che possono permettersi una domenica al mare.
Comunque, rispetto alle ammucchiate adriatiche o i formicai salentini, Coccia di Morto da qua sembra la Grecia. Basta però guardare l’acqua del mare e si capisce il perché. Entrandoci dentro senti un fondo melmoso, e i piedi che spariscono subito alla vista, vengono accarezzati da ectoplasmi di plastica fluttuanti e da altre oscure presenze.
Dopo trenta secondi mi accorgo poi che ogni minuto, decolla un aereo e passa sulla testacon un rumore che impedisce qualsiasi conversazione, come nel “Fascino discreto della borghesia” di Luis Buñuel.
Ma pensare che qui, dato che l’acqua fa schifo, ci vadano solo i poveracci, mi sembra porti fuori pista. Sicuramente, visto che ci si arriva con l’autostrada dell’aeroporto, Coccia di morto è il mare più comodo e vicino.
Ed è anche piacevole, ben organizzato e non ha affatto quell’aspetto da girone dantesco che avevano le spiagge popolari nei film degli anni ’60.
Anche qui, come nel mio quartiere, colpisce la forte presenza di stranieri.
Non solo la famiglia cinese accanto al mio ombrellone, ma un gran numero di ambulanti che passano trascinando carretti, rastrelliere con vestiti, o tenendo in bilico sulla testa una torre di cappelli ti offrono grattachecche, statue africane, auricolari o articoli di bigiotteria esattamente come in ogni altra spiaggia da Fregene al Salento.
Un tizio commenta “quest’anno sono molto meno, sarà l’effetto Salvini”.
A me sembra invece che siano tantissimi e a uno gli chiedo: “E’ cambiato qualcosa per voi da quando c’è questo Governo?” lui mi risponde, con accento arabo “Iguale!”. Non so quanto valga, ma un po’ mi rassicura.
Mi domando infatti, guardando la fatica e anche l’iniziativa di tutte queste persone che s’industriano a trovare una qualche forma per guadagnarsi da vivere, quale ossessione, quale fastidio, quale tortuosa giustificazione possa spingere un politico ad accanirsi contro questo movimento vitale, che in modo abbastanza evidente non disturba nessuno (salvo forse qualche maschio un po’ taccagno costretto a sborsare da una compagna spendacciona). Anzi, attrae e genera curiosità in molti bagnanti, offrendo gratificazioni a poco prezzo.
Certo, è un lavoro fatto senza regole, al nero, in concorrenza sleale col commercio legale: ma se uno Stato si impegnasse davvero a regolarizzare, non sarebbe più logico – e umano – cominciare dai produttori e dai grossisti che smerciano i prodotti senza fattura? E prima ancora, non sarebbe più etico impegnare le forze contro gli evasori dei grandi patrimoni e gli speculatori?
Non ho visto nessun negozietto sul lungomare che possa lamentare un danno dalla concorrenza degli ambulanti. Mi pare che l’ordinanza contro i vu cumprà sia davvero un accanimento insensato contro chi non ha i mezzi per protestare.
Continuo la mia passeggiata nella spiaggia, appizzando l’orecchio (tra un decollo e un atterraggio) per carpire altri stralci di conversazioni.
C’è chi sta scegliendo la nuova macchina, chi le vacanze della figlia, chi un ristorante dove fanno bene il pesce. Chiacchiere da spiaggia. Non ricordo che nelle spiagge più chic si senta invece parlare di bioetica o di intelligenza artificiale.
Mi domando se gli stereotipi rappresentati nelle commedie, anche per produrre un effetto comico, non diventino poi, un po’ per tutti, delle categorie mentali di interpretazione della realtà.
Finendo per creare una frattura sociale ancora maggiore di quella reale: oggi, ad esempio, con i famosi buonisti benestantiin paradisi scomodi ma civilizzati (cestini per la differenziata, rumori soffusi…) e il popolo razzista accalcato accanto a una fogna, a difendersi dagli extracomunitari con un volume da discoteca. Troppo facile. E nonostante ora dal bar sia partito un ritmo techno che spacca i timpani, io non mi sento “Come un Gatto in tangenziale”.
Mentre guardo il menu con le centrifughe, il panino vegano multicereali e le stoviglie riciclabili “a basso impatto”, finisce il techno e comincia addirittura Father and son di Cat Stevens. E mi viene da pensare che (per chi oggi può permettersi di andare al mare) tutto è ormai si è mescolato e Coccia di Morto non è così lontano da Capalbio, salvo qualche euro in più di benzina e di ombrellone.
(continua domenica 7 agosto)
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