Dunque siamo all’Omicron. Il Covid che muta e che non molla preoccupa tutti. Preoccupa l’emergenza sanitaria: le terapie intensive che si riempiono, il conto delle vittime che si allunga. Preoccupa l’emergenza sociale: la divisione tra vaccinati e non vaccinati che rischia di spaccare il Paese. Preoccupano, per effetto dell’obbligo vaccinale, le sospensioni dal Lavoro che possono mettere in ginocchio ospedali e scuole che già ora denunciano carenze di organico. Lo stesso Ordine Pubblico potrebbe essere compromesso per la prevedibile sospensione dal servizio di molte migliaia agenti delle Forze dell’ Ordine. Certo, con il virus non è lecito far pace e i vaccini sono le armi più efficaci per vincere una guerra che si prevede lunga e complicata. Ma per riuscirci – come recita il celebre adagio “uniti si vince” – occorre superare la frattura che già si è aperta nella società, nei luoghi di lavoro, perfino dentro le famiglie. Per ricucire lo strappo con i milioni di non vaccinati occorre ragionevolezza, non moralismo: la semplice proposta di Giuseppe Nuccitelli (più sotto) va in questo senso.. Oppure la spaccatura diventerà insanabile; lo Stato tirerà fuori la pistola (o già lo sta facendo?) e sarà peggio per tutti.
(Francesco Monini)
Mettiamo insieme alcuni fatti:
lunedì 20 dicembre l’EMA ha approvato (ovviamente sempre in via condizionata) un quinto vaccino contro il Covid 19: il Nuvaxovid della Novavax e solo due giorni dopo l’AIFA ha deliberato la conseguente approvazione per il territorio italiano;
sembrava inizialmente che l’effettiva distribuzione del nuovo vaccino sul territorio nazionale non potesse avvenire prima di marzo, ma ora pare che tutto potrebbe essere anticipato a gennaioIl Sole 24 ore[Qui];
secondo varie autorevoli voci (vedi, ad esempio, Silvio Garattini e Carlo Tonarelli) il Nuvaxovid potrebbe – per una serie di ragioni che non è utile per i nostri scopi approfondire – risultare accettabile a un numero significativo di soggetti diffidenti verso I vaccini a mRNA e perciò renitenti alla “chiamata alle armi” della vaccinazione di massa;
tra di essi, potrebbero esserci non pochi degli appartenenti a quelle categorie per le quali è attualmente in vigore l‘obbligo vaccinale con le relative sanzioni per gli inadempienti, ovvero in primo luogo la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione che già ha colpito il personale sanitario;
come è noto, l’obbligo è stato esteso ai lavoratori della scuola e alle forze dell’ordine a partire dallo scorso 15 dicembre, ma gli effetti ottenuti – ovvero il numero di quelli che si saranno ‘piegati’ alla vaccinazione – si potrà conoscere solo dopo l’Epifania;
a questo punto, la sanzione scatterà per tutti: si dovrebbe trattare di circa quarantamila docenti e forse altrettanti tra poliziotti e militari, anche se per questi le stime sono più oscillanti, che si aggiungono a qualche migliaio di operatori sanitari già sospesi;
parliamo, dunque, non di criminali, ma di persone che hanno finora vissuto nello Stato, lo hanno servito e potranno – si spera un giorno non troppo lontano – riprendere a servirlo, ma con le quali i rapporti saranno a quel punto irrimediabilmente lesi;
soprattutto, la sospensione dall’attività lavorativa di queste persone ha vari “effetti indesiderati” (o no?): essa, come si sa, sta creando e creerà notevoli problemi negli ospedali, nelle scuole e nelle strade;
proprio in questi giorni, infatti, si è invocata da varie parti lareintegrazione al lavoro del personale sanitario sospeso, già che senza di esso la situazione critica delle strutture evolve verso il collasso;
nelle scuole, si parla di sostituire i docenti sospesi con dei laureandi, il che francamente non suona molto meglio della DAD;
per quanto riguarda il depotenziamento delle forze dell’ordine, la criminalità ovviamente ringrazia, e paradossalmente anche chi ha intenzione di eludere le regole anti-covid.
Ecco, dunque, la proposta: perché – anziché avventurarsi in un braccio di ferro le cui conseguenze negative saranno in ogni caso superiori agli eventuali benefici – non si saggia la disponibilità di queste persone a sottoporsi alla vaccinazione con il Nuvaxovid?
Ormai sono tutti conosciuti per nome e cognome e l’Amministrazione ha già recapitato loro una o più comunicazioni. Perché non inviargliene un’altra, per verificarese l’arrivo del nuovo prodotto della Novavax non possa – in virtù delle sue caratteristiche più rassicuranti – liberarci da questa pericolosa posizione di stallo?
Si potrebbe rivolgere a queste persone un invito ad aderire irrevocabilmente a una campagna mirata di vaccinazione, attivando nel contempo delle procedure per snellire – sia dal punto di vista burocratico che da quello logistico – la distribuzione delle dosi necessarie (non dovrebbero esser più di duecentomila) e avviare nel più breve tempo l’effettiva somministrazione.
In questo modo, con un po’ di elasticità verso chi avesse aderito si potrebbero evitare del tutto le sospensioni e tutti i loro ‘effetti indesiderati.
Troppo semplice? Chissà. Magari verrebbero da soli e non bisognerebbe andare casa per casa, come Babbo Natale.
Il 12 dicembre è stato un anniversario importante per chi ha più di quarant’anni – per i più giovani invece, probabilmente, non ha un significato ben preciso. Il 12 dicembre è Piazza Fontana. La settimana scorsa, la scuola media Torquato Tasso di Ferrara ha organizzato una serie di incontri sul tema dello stragismo, scegliendo un argomento specifico: Giuseppe Pinelli [il programma]
Per curiosità, abbiamo sfogliato velocemente diversi volumi di storia di terza media: la strage di Piazza Fontana ha una riga (o due), Giuseppe Pinelli nemmeno una citazione. Allora che senso ha dedicargli una settimana intera? (per una biografia di Giuseppe (Pino) Pinelli, cliccaQui).
Dal sito della scuola, scopriamo che gli insegnanti hanno utilizzato questi materiali:
le foto di Uliano Lucas;
la stampa dell’epoca (Corriere della Sera);
testi di Giovanni Raboni e Franco Fortini (descrizione dei funerali di Pinelli);
i disegni di Franco Fortini (sui funerali di Pinelli);
la sentenza del 1975 (Gerardo D’Ambrosio);
Dario Fo (“Morte accidentale di un anarchico”).
L’ultima attività a scuola: un confronto tra Gogol’ e Dario Fo (il primo è fonte diretta del secondo). Insomma: da Giuseppe Pinelli a Gogol’ (passando per Lucas, Dario Fo, Fortini ecc.).
I disegni di Fortini, tra l’altro, li abbiamo visti esposti anche in piazza Trento Trieste, nella vetrina della libreria Il libraccio.
La libreria ha collaborato – così si legge sempre sul sito della Tasso – con la scuola, con la sezione ANPI “T. Tasso” e con l’ASFAI (Archivio storico della federazione anarchica italiana).
Di Pinelli dunque non si è parlato solo all’interno della scuola media, ma anche in città.
E ieri, domenica 19 dicembre, un gruppetto di insegnanti della Tasso ha partecipato a un incontro a Granze (in provincia di Padova) per presentare le attività svolte a scuola.
Le case editrici, dunque, fanno le loro scelte e decidono cosa privilegiare nella manualistica scolastica. Pinelli non pare, come abbiamo detto all’inizio, un argomento centrale nei testi di scuola media. Quest’anno, in ogni caso, in una scuola media di Ferrara è stato per una settimana l’argomento al centro dei lavori. Perché anche gli insegnanti fanno le loro scelte.
E se alla Tasso hanno costituito una sezione ANPI, Giuseppe Pinelli dev’essere davvero loro caro – per molti motivi – non ultimo il fatto che a sedici anni era partigiano.
Oggi 20 dicembre, ricorre l’anniversario dei funerali di Giuseppe Pinelli. Vengono intonati due canti nel corso della cerimonia: Addio Lugano bella e l’Internazionale.
Franco Fortini lavorerà diversi anni sul testo dell’Internazionale. Nell’ultima versione (1994) si legge questo passaggio: nelle fabbriche il capitale come macchine ci usò nelle sue scuole la morale di chi comanda ci insegnò
A scuola si possono fare tante cose – grazie alla libertà d’insegnamento. Un lavoro su Pinelli (che comprende testi letterari, teatrali, fonti giornalistiche, fotografie ecc.) forse può essere un segnale importante per i ragazzi e le ragazze.
Perché il 12 dicembre è per Piazza fontana. E la notte tra il 15 e il 16 è per Giuseppe Pinelli, partigiano sindacalista anarchico.
Lo ha detto anche Matteo Renzi, durante uno dei suoi adoranti endorsement al principe saudita Bin Salman: “sono invidioso del vostro costo del lavoro”.
A leggere i dati, l’invidia dovrebbe riguardare soprattutto il costo – e quindi lo stipendio – dei lavoratori non sauditi in Arabia, molto più basso della paga media degli “indigeni”. Ad ogni modo, la logica è quella: vi invidio perché potete permettervi di pagare poco i vostri lavoratori.
Meraviglioso, non trovate? Eppure l’amico dei califfi rinascimentali Matteo (mi limito a definirlo così, senza ulteriormente indugiare sul tipo di califfi da cui si fa pagare) dovrebbe accontentarsi. In fondo, l’Italia è l’unico paese dell’area Euro in cui le paghe sono arretrate in valore reale negli ultimi 20 anni, rispetto agli altri paesi (Germania, Francia, Spagna, Grecia…) in cui invece sono aumentate, in misura maggiore o minore.
Secondo alcuni economisti, più che all’elevata incidenza dei contributi, la dinamica depressiva salariale sarebbe da correlare alla scarsa produttività del lavoro in Italia. Un modo semplice per spiegare il concetto di produttività del lavoro è dividere i ricavi di un’azienda per il numero dei suoi addetti. Se il risultato è basso, non dipende dal fatto che in Italia i lavoratori sono dei fannulloni e altrove degli stakanovisti, ma dalla combinazione dei fattori della produzione: numero degli addetti, prezzi di vendita, grado di automazione. In una parola, dall’organizzazione dei fattori di produzione, tra cui il lavoro delle persone.
L’organizzazione dei fattori di produzione è nelle mani di chi governa le aziende. Siccome la nostra dinamica salariale è già abbastanza depressa, per aumentare la produttività del lavoro occorrerebbe agire non sull’abbassamento dei salari, ma sull’innovazione dei processi e dei prodotti. Purtroppo, la maggior parte delle imprese italiane sono piccole aziende piuttosto allergiche all’innovazione, all’utilizzo delle tecnologie digitali, alla formazione del personale. Sto chiaramente generalizzando, ma i dati mi autorizzano a farlo: molte imprese italiane sono piccole, impiegano un capitale modesto e sono governate da persone con la testa rivolta all’indietro.
Questo pistolotto serve (anche) per comprendere a chi è destinato l’emendamento alla legge di bilancio con il quale il Governo dichiara di voler combattere, o almeno disincentivare, il fenomeno delle delocalizzazioni.
Fenomeno che possiamo esemplificare così: una mattina il Cda o l’AD di turno si svegliano, e indipendentemente dal fatto che l’azienda o il ramo italiano di quell’azienda sia in crisi, decidono di chiuderlo, e di licenziare i dipendenti. Per poi riaprire in un luogo dove la manodopera costa meno e rompe meno i coglioni.
Può bastare anche una dichiarazione di ristrutturazione aziendale per far sparire centinaia di posti di lavoro. Tutto il resto previsto dalla legislazione attuale è una semplice procedimentalizzazione della “crisi”, che passa attraverso il rispetto formale di tempi e modi di gestione della vertenza, che si può concludere comunque con la conferma unilaterale dei provvedimenti d’impresa. Non parliamo delle cessioni di ramo d’azienda, in cui gli unici deputati dalla legge a stabilire il “perimetro” dei lavoratori ceduti e non ceduti e gli eventuali esuberi sono il cedente ed il cessionario.
I lavoratori si attaccano al tram e tirano.
Questa è la cornice, di arbitrio legalizzato (non mi viene da chiamarlo altrimenti), nella quale ci troviamo.
In tale cornice si inserisce questo emendamento, che anzitutto presenta una singolarità: pare riferirsi solo alle imprese che occupano più di 250 dipendenti. Chissà quante saranno, uno pensa. Un estratto del censimento Istat delle Imprese 2019(qui) lo chiarisce: ” i due terzi delle imprese (821 mila, pari al 79,5% del totale) sono microimprese (con 3-9 addetti in organico), 187 mila (pari al 18,2%) sono di piccole dimensioni (10-49 addetti), mentre le medie (con 50-249 addetti) e le grandi imprese (con 250 addetti e oltre) rappresentano il 2,3% delle imprese osservate (24 mila unità), di cui 3mila grandi.”
Se perimetriamo le aziende con più di 250 dipendenti, quindi, non arriviamo allo 0,5% delle aziende italiane. Mi auguro almeno che il numero di addetti sia riferito al totale degli stabilimenti facenti capo allo stesso marchio, altrimenti i padroni destinatari di queste norme non sarebbero pochi, sarebbero un numero quasi impercettibile. E’ poi evidente che il peso occupazionale di questo numero di imprese aumenta, perché sono poche ma occupano (dato del 2018) il 28,3% degli addetti. In ogni caso, fuori dalle nuove regole resterebbe comunque il restante 72 per cento circa dei lavoratori, e se si può comprendere per le microimprese, faccio fatica a concepire l’esclusione per le medie, che occupano fino a 249 addetti.
Ma veniamo al merito delle novità che dovrebbero fungere da deterrente al “chiudi, scappa e apri da un’altra parte”.
Intanto, non c’è nessuna sottrazione del potere unilaterale di una impresa di dichiarare uno stato di crisi o una necessità di ristrutturazione con taglio di posti, anche se i numeri di bilancio dicono che non sussiste alcuna crisi (ricordate la Logista che trasportava i tabacchi in area Interporto Bologna? Ricordate la Gkn di Campi Bisenzio? sono solo due esempi). Viene confermata la logica “io so’ io e voi non siete un cazzo”, traduzione brutale ma efficace del principio costituzionale della libertà di iniziativa economica.
L’articolo della Costituzione proseguirebbe con: “(l’attività economica)…non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, ma queste sono dichiarazioni di intenti buone per un Angelus di papa Francesco, mica devono tradursi in leggi a tutela di chi lavora.
Quello che cambia è la “sanzione” nel caso in cui l’azienda non adempia a qualche regoletta: la mancata presentazione di un piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura, entro sessanta giorni dalla comunicazione alle rappresentanze sindacali e contestualmente alle regioni interessate, al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, al Ministero dello Sviluppo Economico e all’Anpal.
Senza presentazione del piano o se il piano non contiene gli elementi essenziali che lo qualifichino come “rilancio”, il datore di lavoro è tenuto a pagare il contributo alla disoccupazione del lavoratore in misura pari al doppio. In caso di mancata sottoscrizione dell’accordo sindacale il datore di lavoro è tenuto a pagare il contributo aumentato del 50 per cento.
Tradotto in schei, vuol dire dover pagare un massimo di 3.000 (tremila) euro per ogni lavoratore licenziato, ogni mese per gli ultimi tre anni. Postilla: se l’impresa in precedenza ha ricevuto sovvenzioni statali, non le deve nemmeno restituire.
Più che un deterrente, somiglia ad una stima di rischio aziendale. Se posso calcolare in anticipo la spesa massima che dovrei sostenere (se mi comporto proprio male) per chiudere e tagliare posti, si tratta della trasposizione su base collettiva della logica individuale del Jobs Act: ti licenzio illegittimamente? Non importa, tanto so prima di licenziarti quanto mi costa il tuo licenziamento.
Il capo di Confindustria Carlo Bonomi farà finta di lamentarsi, ma questa è una vittoria per il suo modo di concepire le relazioni industriali.
Il ministro del Lavoro e quello dello Sviluppo Economico hanno raggiunto un non-compromesso, e la cosa contiene una traccia di feroce verità: tutela del lavoro e sviluppo economico sono considerati temi antitetici.
Il che equivale ad ammettere che il conflitto di classe esiste.
Peccato che da anni stravincono sempre i più forti.
Finisce il 2060, e finisce l’anno del nostro passato-futuro che mese per mese ci ha raccontato Costanza Del Re da un paesino fluviale della bassa bresciana. Sono racconti, ma sono anche ricordi, sogni, riflessioni sul presente, felici intuizioni. Per chi, nella noia delle feste, volesse leggere tutte le 12 puntate (per me ne vale la pena) può trovarle facilmente su questo giornale. Perché con Ferraraitalia di ieri non ci si incarta il pesce, è un ‘quotidiano’ molto particolare, “non butta via nulla”. Personalmente non ho ancora quando e dove si trovi il 2060 di Costanza Del Re, se prefiguri un futuro, racconti un passato o rifletta sul presente. Forse, più semplicemente, ci mostra il Pianeta privato di Costanza. Ma è un luogo, un tempo, in cui anche noi ci riconosciamo. E possiamo incontrarci. Succede, insomma, quella strana cosa, e abbastanza rara, che chiamiamo Letteratura.
(Francesco Monini)
Siamo a dicembre, un mese particolare. Giornate corte, freddo, umido e molte feste. Prima arriva Santa Lucia (13 dicembre) a portare i regali ai bambini, poi la festa della ‘Loertisa’ (focaccia che contiene germogli di luppolo bolliti), poi la vigilia e il giorno di Natale.
E’ un mese in cui si tirano un po’ le somme dell’anno. Chi è arrivato, chi ci ha lasciato, quanto Robot-111 sono stati assemblati, quanti messi definitivamente a riposo.
E’ anche il momento per sentirci fortunati se siamo in salute, circondati da persone che ci vogliono bene, amati. E’ il periodo giusto per coltivare la speranza che il domani sarà migliore di oggi, che il prossimo anno potremo tornare al mare, fermarci a guardare il sole che luccica sull’acqua salata e i Gabby-xche volano rasente l’acqua verso il rosso del sole che tramonta.
Ma adesso è dicembre, un mese particolare, quello di Natale.
Cosmo-111 vuole un piccolo Babbo Natale di pezza da attaccarsi su una spalla:
“Babbo Natale, babbo Natale, rosso Natale, bianco Natale. Raco calare, raco calare, toco polare, toco ricare” canta come suo solito un po’ in italiano e un po’ a modo suo, mescolando suoni che gli piacciono.
I miei figli Axilla e Gianblu si sono già messi a discutere per sciogliere il colore delle palline che addobberanno l’abete quest’anno. Pare che saranno argento e azzurro.
Mio marito dice che devo prenotare il cappone dal macellaio in modo che ce ne possano vendere uno di quelli che allevano loro. A terra, senza mangime. Poi bisognerà scegliere delle zucche mature e dolci altrimenti il ripieno dei tortelli non viene buono. Noi siamo molto tradizionalisti, mangiamo per le Feste i cibi che hanno accompagnato tutti gli ottantotto anni della zia Costanza. Sempre quelli, cucinati bene e all’ultimo momento. Non scotti, non riscaldati, non surgelati, non liofilizzati, essiccati, disidratati. L’unica eccezione è il pescandor-k al posto del vino. Questo distillato di pesche bianche piace molto ai robot-111, lo bevono in un batter d’occhi e poi rovescino indietro le telecamere in segno di grande soddisfazione. Ci sembra giusto che anche loro possano pasteggiare traendo la maggiore soddisfazione possibile dal momento.
Quest’anno è nato Gyanny, la vera novità di questo 2060 che se ne sta andando per sempre lasciando dietro a sé ricordi, rimpianti, sofferenze e amori. Adesso ha cinque mesi ed è uno spettacolo. Luca, mio marito, per il Battesimo gli ha assemblato un robot orsetto che si chiama Orsino-121. Il robot è fatto come un piccolo orso, ricoperto di filo di mollan sgarzato color marrone, trasmette calore mantenendo il suo corpo a una temperatura costante di circa 37 gradi e mezzo. Tiene il bambino sempre caldo. Non solo, i suoi sensori gli permettono di verificare la frequenza dei battiti del cuore di Gyanny, la sua pressione arteriosa, se ha fame o sonno e se deve essere cambiato.
Orsino-121 è un babysitter molto efficiente. In quel robot-121 c’è una grande novità. La sua alimentazione avviene attraverso una pila a fissione nucleare.
La differenza tra bomba e pila atomica sta nella rapidità con la quale si libera l’energia prodotta dalla fissione nucleare di una certa quantità di uranio. Nella bomba, tutta l’energia si libera in una frazione di secondo, con effetti disastrosi. Nella pila, la reazione nucleare è rallentata, così da rilasciare l’energia in un lungo arco di tempo. La fissione nucleare è dovuta all’urto di un neutrone contro un atomo di uranio 235. L’atomo colpito si spacca liberando una certa quantità di energia e due o tre neutroni. Una parte dei neutroni si perde. Se a ogni passo della catena il numero dato dalla differenza tra neutroni prodotti e neutroni persi cresce, la reazione aumenta rapidamente fino a diventare esplosione (bomba). Se il numero diminuisce, la reazione si spegne. Se è uguale, la reazione produce energia in modo costante (pila nucleare). Nella pila, per regolare il numero di neutroni si inseriscono o si tolgono dall’uranio alcune barre di cadmio o boro, che assorbono facilmente neutroni.
Davvero affascinante. Queste nuove pile hanno una potenza incredibile e una durata impressionante. Nulla di paragonabile agli alimentatori che si sono usati fino ad ora per i robor-111. E così insieme alla nascita umana di Gyanny abbiamo assistito alla nascita di una nuova generazione di mezzani, i robot-121. Luca dice che questi nuovi robot verranno commercializzati presto a prezzi accettabili e che avranno delle prestazioni davvero stupefacenti. Orsino-121 è il primo di una lunga catena di mezzani che sostituiranno o aggiorneranno i precedenti. A Orsino piace il miele e anche i Frutti di Martorana (tipico dolce siciliano) anche se i cibi non sono più necessari per il funzionamento dei suoi circuiti meccatronici. Pensiamo che l’alimentarsi di cibo umano sia diventato uno dei tanti processi imitativi appresi per prove ed errori. Sta di fatto che quei dolci gli piacciono da matti, da Orsetti-matti-121. I frutti di Martorana sono fatti di pasta di mandorle, modellata e colorata in modo da imitare frutti e ortaggi in scala ridotta e sono bellissimi da vedere. Devono il loro nome al monastero nel quale furono inventati nel 1194, il monastero della Martorana a Palermo.
In piazza a Parda c’è una pasticceria dove ne producono di buonissimi, dobbiamo ricordarci di dire a Daniele, quando viene ad aiutarci a preparare il pranzo di Natale, di portarne un vassoio, poi glieli paghiamo. Quando arrivano li devo nascondere subito. Se Orsino-121 li trova, li mangia tutti e per Natale non resta sulla nostra tavola nemmeno un piccolo e perfetto mandarino-martorano.
E così ci ritroveremo di nuovo a Natale, tra pranzi da preparare, regali da incartare, nuovi bambini e mezzani da iniziare ai festeggiamenti e anziani (umani e mezzani) da salutare. Credo che alla fine non ci sarà molta differenza tra il Natale di quest’anno, quello di dieci anni fa, quello di cinquanta. La zia Costanza mi ha raccontato che quando era piccola suo padre faceva il presepe su un tavolino del soggiorno. Usava strani legni ripescati nel Lungone che verniciava con le sue sapienti mani. Doveva davvero essere un presepe originale e bellissimo. Altro che quelli che si comprano tutti uguali e che costano tanto!. Il professor Umberto doveva essere un vero artista, così lo ricordano la mamma e le zie. Se n’è andato da molto tempo ormai, ma il bene che ha saputo donare resta bene perenne. Questo vale per tutte le persone che ci hanno lasciato, per tutti coloro che ci hanno salutato, che sono partiti. Il presepe più bello resta quello che si fa con i resti di legno, cartone e iuta. Con la pasta di pane, con la cartapesta fatta con le strisce di carta dei vecchi Tresciaone messi a macerare con acqua e colla. Quello che si ricopre col muschio che è attaccato ai tronchi dei tigli che costeggiano la strada che porta al cimitero di Pontalba, che si spruzza con un po’ di farina bianca. Le cose fatte in case, artigianali, uniche e anche un po’ maldestre sono curiose, piacciono anche ai mezzani, le continuano a guardare.
Ieri ho sorpreso Cosmo-111 e Canali-111 che si facevano delle strane confidenze. “Tu cosa vuoi per Natale ?” ha chiesto Cosmo-111 a Canali-111.
“Io voglio che i bambini ridano. Marlon e Gyanny quando ridono sono belli. Quando ride Marlon e Gyanny lo vede, anche lui ride. Quando Gyanny ride e Marlon lo vede, anche lui ride”
E si torna sempre sullo stesso nodo focale. L’apprendimento per imitazione è una delle strategie fondamentali per acquisire degli stili di comportamento. Vale per i mezzani e vale anche per gli umani. Forse se uno di noi sorridesse un po’ di più sorriderebbero un po’ di più molti altri. Tanti auguri di Buone Feste da noi umani, dai robot-111, dai robot-121, dai robot-animali-x e dalle anime dei nostri cari che ci hanno lasciato e che sorridono a queste imminenti feste da lassù.
Per leggere tutte le altre puntate, tutti i mesi del 2060 di Costanza Del Re, è sufficiente cliccare il nome dell’autore sotto il titolo.
È impressionante vedere luoghi conosciuti del nostro territorio dipinti un secolo fa, ma con dentro la stessa emozione che li ha avvolti in certi minuti magici di questi giorni. La restituzione di visioni che abbiamo condiviso anche di recente, dove l’incanto è unito a una forza visiva di estrema attualità, è una delle cose che colpiscono visitando la mostra “Giovanni Battista Crema – Oltre il divisionismo”, curata da Lucio Scardino insieme a Manuel Carrera e allestita fino adomenica 26 dicembre 2021 all’interno del Castello Estense.
In questi giorni , il sindaco del Comune di Ferrara a maggioranza leghista (Alan Fabbri) e l’assessore alla Pubblica Istruzione (Dorota Kusiak), si stanno recando nelle scuole per distribuire gratuitamente un piccolo dizionario del dialetto.
L’altro ieri, dopo la distribuzione del libretto ad un paio di scuole, sul profilo facebook del sindaco sono state pubblicate diverse foto che hanno scatenato polemiche nell’ambiente scolastico e non solo.
In quelle foto si vedono bambini che mostrano cartelli in cui si ringrazia il sindaco dandogli confidenzialmente del tu (“Grazie Alan”) o disegni in cui lo si ringrazia per aver reso “stupenda la città”.
Molti hanno criticato il sindaco per l’uso propagandistico e strumentale delle foto ed io, confesso sinceramente, non mi sento di unirmi al coro.
Io penso che il sindaco e l’assessore (di una maggioranza che non ho votato) abbiano fatto quello che ritenevano giusto fare per “promuovere legami con le nostre radici e la nostra storia”.
Qualcuno dice che, più che il dialetto, volevano “promuovere” se stessi.
Io dico che non ci vedo assolutamente niente di nuovo o di strano in questo. Da quando in qua i politici hanno smesso di fare promozione e propaganda?
Si può discutere sui modi in cui le fanno ma non sulla novità della cosa. Può piacere o non piacere, ma trovo strumentali le polemiche esagerate al riguardo fatte da detrattori che si fingono ingenui.
Quello che invece, a me come maestro elementare, fa molto strano e preoccupa è l’atteggiamento della scuola nei confronti dell’autorità. Cerco di spiegarmi bene anche se so già che qualcuno interpreterà le mie parole come quelle di un invidioso elettore di un altro schieramento e non come una critica professionale ed amichevole fatta da un vecchio maestro a quelle colleghe o a quei colleghi della classe che ha prodotto i disegni di ringraziamento al sindaco e all’assessore.
Io penso che quando si riceve un regalo sia giusto, gentile, rispettoso e doveroso ringraziare. Si può ringraziare a parole, si può ricambiare con un altro dono oppure con un invito, si può ringraziare inventandosi qualcosa di originale come un disegno: i bambini e le bambine lo fanno spesso. Ma In quelle foto che ritraggono il ringraziamento al sindaco per il dono del libretto, trovo “da adulti ed artificiale” (non “da bambini e spontanea”) la riconoscenza (“Per la stupenda città”), la confidenza (“Grazie Alan”), la personalizzazione dell’amministrazione (l’effige del sindaco).
Penso, cioè, che la libertà con cui si dovrebbero esprimere i bambini – nella quale io credo fortemente – non dovrebbe intendersi come un generico “i bambini possono scrivere tutto quello che vogliono perché son bambini”. Per me, libertà di espressione vuol dire essere consapevoli e responsabili di ciò che si vuole comunicare.
Provo a spiegarmi meglio. Quel “Grazie per la stupenda città”, scritto su un disegno, vuol dire aver permesso ai bambini e alle bambine di pensare o di affermare che la città l’abbiano fatta “bella e splendida” il sindaco e l’assessore e non l’architetto Biagio Rossetti, Bartolino da Novara, gli Estensi e tutti i costruttori, i manovali e le persone che hanno contribuito a rendere “stupenda” la nostra città dal punto di vista architettonico.
Se questo è vero, il o la loro insegnante ha permesso a quei bambini di compiere una grande inesattezza ma soprattutto ha creato le premesse perché si generasse un grave fraintendimento che qualunque politico avrebbe potuto facilmente “cavalcare” a fini propagandistici.
Non è un caso infatti che proprio quelle foto siano pubblicate sul profilo facebook del sindaco, che è un politico, ma non siano presenti nell’articolo di Cronaca Comune.
Se invece quel “Grazie per aver reso la nostra città stupenda” vuol dire “Grazie per come state cambiando la nostra città. Grazie per quello che state facendo” allora non c’è tanto da interpretare: chi ha scritto il messaggio da bambino (o come se fosse un bambino) e chi l’ha accettato da insegnante (o come se fosse un insegnante) ha voluto far arrivare un messaggio chiaro di ringraziamento e di apprezzamento a questo sindaco e a questa amministrazione.
Che sia bello o brutto, giusto o sbagliato, strumentale o meno, lo lascio dire ad altri che non fanno gli insegnanti perché a me, da maestro elementare, la risposta sembra molto chiara ed, in questo contesto, una tale discussione non mi appassiona più di tanto.
Se proprio la scuola, sapendo della presenza dei giornalisti e volendo preparare l’accoglienza, ha scelto quei disegni e quei cartelloni allora si è legittimati a concludere che la scuola ha scelto di preparare proprio quei messaggi e ne è consapevole e responsabile.
Non tutti si sarebbero comportati allo stesso modo ma, se proprio con quei disegni e quei cartelloni i bambini volevano inviare un messaggio simile io, come maestro, prima mi sarei interrogato sull’utilizzo che di quei messaggi ne avrebbero fatto i politici ma soprattutto, da maestro, sarei intervenuto per aiutare i bambini e le bambine ad essere più espliciti: “Grazie perché? Grazie per cosa? Grazie per il Castello? Per il Duomo? Per le Mura? Per le luci di Natale in centro? Per l’albero di Natale? Per le giostre al grattacielo? Per i cancelli nei parchi? Spiegati meglio così chi leggerà il tuo messaggio non avrà dubbi e capirà meglio”.
Insomma, avrei aiutato a ragionare, senza condizionare, per far capire.
Io però sto diventando vecchio e sono affezionato alle mie idee romantiche di scuola che non vanno tanto di moda in questo periodo. Nel mio piccolo, immagino una scuola elementare che promuova una conferenza stampa tenuta dai bambini e dalle bambine per raccontare come fa scuola. Non una che ospiti la conferenza stampa di un sindaco e di un assessore.
Nonostante i locali delle scuole primarie siano del Comune, se fossi stato un dirigente scolastico non avrei permesso che il Sindaco potesse disporre di quei locali per una sua conferenza stampa.
Io ho ancora l’idea di una scuola protagonista che dialoghi alla pari con le amministrazioni e non che viva se stessa come se dovesse ingraziarsi i potenti.
Se fossi stato uno di quei maestri avrei accolto sindaco e assessore (lo abbiamo fatto lo scorso anno a Cocomaro), li avrei fatti sedere in cerchiocon i bambini, li avrei ascoltati e per ringraziarli del libretto avrei donato copie della nostra “Gazzetta del cocomero” e avrei invitato i bambini e le bambine a ringraziare a voce con i loro pensieri originali.
Sono rimasto legato all’idea di una scuola che formi cittadini e non ad una che prepari sudditi. Se fossi stato uno di quegli insegnanti avrei organizzato un’intervista al sindaco sui suoi compiti in modo da spiegare ai bambini e alle bambine a chi far arrivare le proposte che loro hanno per la città in cui vivono.
Non mi rassegno a questa scuola che non vuole vedere e sentire i bambini e le bambine ma li seleziona e li adopera tutte le volte che gli servono per fini non propriamente educativi.
Perché non mi rassegno, vi consegno la frase stupenda che Mario Lodi, il maestro di noi maestri, ha dedicato a tutti gli insegnanti: “Non dimenticate che davanti ai maestri e alle maestre passa sempre il futuro. Non solo quello della scuola, ma quello di un intero Paese”.
Proprio perché non mi rassegno, insegno che il futuro si prepara insieme “allenando” i bambini e le bambine con “gli attrezzi” della Costituzione in quella formidabile “palestra della democrazia” che è la classe.
P.S.
“Banadét al mié putìn” è un’espressione in dialetto ferrarese, tenera ed affettuosa, che significa “Benedetto il mio bambino”, frase che immagino il sindaco abbia pronunciato alla visione della foto dei bimbi con i cartelli di ringraziamento nei suoi confronti.
L’altro giorno, a scuola, ho voluto tentare un esperimento: ero in una classe quinta a sostituire una collega e, nel pomeriggio, ho fatto vedere un film che durava poco meno di un’ora: non un film “normale” ma un film muto ed in bianco e nero.
Qui sarebbe bello fermarsi un attimo per chiedervi: un film con queste caratteristiche potrebbe attirare l’attenzione dei bambini e delle bambine?
Immagino e prevedo un coro di no, invece è stato decisamente proprio tutto il contrario: i bambini e le bambine lo hanno visto con grande attenzione e concentrazione in un silenzio inconsueto, interrotto soltanto da fortissime risate o da commenti partecipi che sottolineavano i momenti emotivamente forti.
Alla fine, durante la discussione che ne è seguita, i giudizi positivi si sono sprecati, le osservazioni acute si sono moltiplicate e la loro curiosità verso un artista immenso è scattata.
Quel film è “Il monello” di Charlie Chaplin che, quest’anno, compie 100 anni!
Ancor oggi mi chiedo come mai il titolo originale “The kid” (Il bambino) sia stato tradotto in modo non troppo diverso dall’originale in Paesi diversi (“Il bambino di Charlot”, “Il vagabondo e il bambino”, “Il figlio di Charlot”, “Il figlio adottivo di Charlot”) ma in Italia sia stato tradotto con “Il monello” cioè in modo tale da dare un giudizio negativo sul bambino. Che sia dovuto al retaggio bigotto di un Paese più attento all’apparire che all’essere? Al fuori che al dentro? Alla superficie che all’anima?
Ricordo che a Mario Lodi piacevano moltissimo i film di Charlie Chaplin e per questo, nel gruppo di lavoro sui linguaggi multimediali che si ritrovava alla casa delle Arti e del Gioco (in pratica a casa sua), in diversi maestri e maestre avevamo deciso di provare a sperimentare in classe un lavoro su alcuni film in bianco e nero.
A questo proposito, allego di seguito la trascrizione di una conversazione avuta con i bambini e le bambine che erano in classe con me nell’anno 1999.
Lo faccio volentieri non solo per documentare i loro pensieri originali e le loro osservazioni non banali ma per dimostrare come sia importante mostrare ai bambini e alle bambine “la bellezza” perché si possano educare a riconoscerla e la possano coltivare direttamente.
Comunque la pensiate, buona lettura e buona visione del film.
Conversazione in classe dopo la prima visione del film “Il Monello” di Charlie Chaplin (3 marzo 1999)
MAURO: Abbiamo visto il film “Il monello”, ognuno di voi ha segnato le sue osservazioni.
Adesso volevo farvi qualche domanda. Vi è piaciuto il film? ELEONORA: a me il film è piaciuto molto perché quando io vedo i film a casa mia ci sono sempre i morti o qualcuno che spara invece questo film era molto bello perché parlava di felicità.
LAURA S.: mi è piaciuto moltissimo perché è fatto molto bene anche se Charlie non parlava si capiva benissimo quello che voleva dire.
FEDERICO C.: mi è piaciuto anche perché faceva molto ridere. La scena che mi è piaciuta di più è quando si sono picchiati.
FILIPPO: mi è piaciuto molto perché in certi momenti faceva ridere e in certi invece mi commuovevo molto. La scena che mi è piaciuta di più è quando il bambino con i sassi rompeva il vetro e suo papà andava ad aggiustarli.
LAURA D.M.: a me il film è piaciuto molto perché, come ha detto Laura, anche se non c’erano le parole si capiva molto bene e poi è mi piaciuta molto la scena che è piaciuta a Filippo.
GIULIA: a me è piaciuto molto perché il film parlava con il sentimento e non con le parole. Secondo me spiegava più così che con le parole.
MASCIA: a me è piaciuto molto perché è molto bello. Io ce li ho tutti i suoi film e li ho guardati quasi tutti. A me è piaciuto molto quando sognava.
ANDREA: il film mi è piaciuto perché è stato molto divertente. La scena che mi è piaciuta di più è stata quando Charlie si picchiava con il fratello del bambino che prima faceva a botte con il monello.
SARA: il film mi è piaciuto specialmente quando Charlie si metteva a correre o a camminare perché ha delle scarpe più grandi di lui ed era buffissimo.
FRANCESCA: mi è piaciuto perché ho scoperto che, anche se un film è in bianco e nero e non ci sono le parole, si capisce benissimo quello che vuol dire.
FEDERICO F.: a me il film è piaciuto molto perché era molto divertente e la scena che mi è piaciuta di più è quando il monello rompeva i vetri e Charlie li aggiustava.
CHIARA: il film mi è piaciuto moltissimo perché il film era divertente ma allo stesso tempo anche commovente. La scena che mi è piaciuta di più è quando il monello ha combattuto contro l’altro bambino e quella che mi ha fatto più commuovere è quando gli hanno portato via il bambino.
SIMONE: a me il film è piaciuto molto perché non era un film di quelli normali perché non parlavano; era un po’ triste e nello stesso tempo faceva ridere. La scena che mi è piaciuta di più quando andava a distruggere i vetri e Charlie li andava a riaggiustare.
FRANCESCO: il film mi è piaciuto molto perché faceva ridere e poi la scena che mi è piaciuta di più è quando ha combattuto contro quell’omone fortissimo e il pezzo che mi ha fatto più commuovere è stato quando gli hanno portato via il bambino e lui si è buttato a riprenderselo.
CLAUDIO: a me è piaciuto molto. La scena che mi è piaciuta di più è stata quando i due monelli si sono picchiati. MAURO: avete detto tutti delle cose molto belle. Alcuni hanno detto cose simili, altri hanno fatto osservazioni molto originali.
Continuiamo con le cose che avete notato del film, di come era fatto il film. La cosa che avete notato quasi tutti è che “non c’era audio”; davvero non si sentiva proprio niente?
SARA: Secondo me, c’era qualcosa. Anche se non si sentivano le parole, si capiva dal sentimento che ci metteva Charlie a recitare. MAURO: io intendevo proprio dal punto di vista tecnico. Quando abbiamo acceso il televisore c’era l’audio già impostato: abbiamo visto il film in assoluto silenzio oppure abbiamo sentito qualcosa? GIULIA: Io ho notato che, oltre al totale silenzio, certe volte i protagonisti emettevano dei versi.
MASCIA: Io invece ho capito come parlavano dalla bocca cioè si capiva molto bene. MAURO: quello che volevo chiedervi è: noi non abbiamo ascoltato proprio niente durante la proiezione del film? LAURA D.M.: Di sottofondo c’era sempre una musica molto leggera che non dava fastidio anzi era molto dolce e anche la musica faceva capire cosa voleva dire. MAURO: proprio così: c’era la musica che cambiava, come diceva Laura, a seconda delle scene. Diventava triste se la scena era triste e allegra o scanzonata se la scena era un po’ buffa.
Un’altra cosa da notare su come era fatto il film… Abbiamo osservato che il film era “muto”, nel senso che le persone non parlavano ma come ha detto Mascia questa cosa non è vera del tutto perché gli attori parlavano e lei capiva anche se non si sentiva la voce; poi si capiva dall’espressione, come ha detto Giulia; poi si capiva anche perché, ogni tanto, apparivano quelle scritte che ci introducevano alla scena seguente o che la commentavano un pochino.
Un’altra cosa su come era fatto il film: su come lo abbiamo sentito e su come lo abbiamo visto.
FRANCESCO: allora io ho visto che quando è cominciato il film hanno fatto vedere tutte le scritte e dopo il film si è visto solo in bianco e nero. Ma all’inizio quando è comparsa la scritta “Mondadori Video” era a colori.
TUTTI: è vero! MAURO: adesso che l’ha detto Francesco lo dite tutti però è singolare che dopo aver avuto l’occasione di parlare più di una volta nessuno lo abbia detto. Non dico che non se ne era accorto nessuno però forse era l’aspetto meno evidente. Allora una domanda potrebbe essere: ma perché questo film è stato registrato in bianco e nero? LAURA S.: secondo me perché è stato fatto tanto tempo fa.
CHIARA: secondo me il film era in bianco e nero non solo perché l’hanno fatto tanto tempo fa ma anche perché è una caratteristica del film, forse.
SARA: secondo me, è per il fatto che parla molto di persone povere allora anche i colori sono poveri.
FRANCESCO: visto che, come ha detto la Laura era un film vecchio… MAURO: scusa Francesco, tu da che cosa hai capito che era un film di tanto tempo fa? FRANCESCO: primo: i colori erano in bianco e nero e una volta non esistevano le telecamere a colori e poi si capiva perché era tutto povero, c’era solo poche case ricche. Anche i locali dove si poteva andare a passare la notte erano poveri.
SIMONE: adesso i film sono tutti a colori ed è stato bello vedere un film in bianco e nero perché li fanno vedere poco.
MASCIA: a me invece piace poco perché mi piacciono di più i film a colori.
GIULIA: io volevo dire, come ha detto Simone, che forse è più ricco di cultura cioè puoi percepire come erano fatti i film di una volta.
LAURA D.M.: secondo me era in bianco e nero per tutti i motivi che hanno detto gli altri. Poi si capisce che è vecchio perché il protagonista cioè Charlie nel film è giovane ma lui è adesso è morto. Anche per questo si capisce che è vecchio.
FILIPPO: io, di solito, guardo i film a colori e riesco a capire molto bene. Ma quando guardo un film in bianco e nero si capisce che è più originale e mi piace molto di più guardarli così.
ELEONORA: A me piacciono di più i film a colori però adesso che ho scoperto che i film in bianco e nero credo che siano anche quasi più belli. MAURO: avete detto diverse cose: il film può essere in bianco e nero perché è stato registrato molto tempo fa: abbiamo modo di verificarlo per vedere se è proprio vero? Come possiamo fare a sapere quando hanno registrato questo film? ELEONORA: forse sulla scatola della videocassetta. MAURO: ci guardiamo subito… Poi ha detto una bella cosa anche Sara: forse hanno scelto di farlo in bianco e nero apposta perché, come ha detto lei, era un film “povero” e volevano dare l’idea di povertà, di tristezza… e forse lo hanno usato anche per questo motivo.
Andremo a verificare se nell’epoca in cui hanno fatto il film esisteva già la possibilità di fare i film a colori e quindi se era obbligato a fare il film in bianco e nero e se esisteva già l’audio quindi se era obbligato a fare un film senza parole o se invece era una scelta sua di non usare le parole e di non usare i colori.
Vi volevo fare un’altra domanda sul titolo: il film si intitola “Il monello”. Sapete tutti cosa vuol dire questa parola e allora, secondo voi, perché questo film si intitola così? Chi è il monello?
GIULIA: secondo me perché è riferito a questo signore che andava praticamente a far fortuna facendo dei disastri… Però forse sono un po’ monelli tutti e due perché Charlie mandava apposta il bambino a rompere i vetri e lui li andava ad aggiustare così ci ricavava qualche soldo.
ELEONORA: la penso come Giulia.
LAURA S.: il titolo significa che loro due facevano il disastro: però era monello di più il bambino perché era più adatto ai disastri, l’adulto ne faceva anche lui ma di meno.
LAURA D.M.: lo hanno chiamato il monello riferendosi a tutti e due gli attori perché non solo il bambino andava a rompere i vetri ma il padre glielo lasciava fare. Per questo dovevano essere tutti e due dei monelli.
ANDREA: secondo me il titolo “il monello” è più riferito al bambino perché, come già hanno detto, il bambino rompeva i vetri apposta e suo padre (non proprio padre perché l’aveva trovato) andava ad aggiustarli quindi ci ricavava.
Filippo: io credo che il monello sia il bambino perché lui rompeva i vetri. Poi era lui quello che si cacciava sempre nei guai; era più furbo; aveva la faccia da monello.
SARA: sono monelli tutti e due perché è stata un’idea del padre quella di mandare il bambino a rompere i vetri.
MASCIA: per me il bambino rompeva i vetri e non faceva giusto perché le persone non erano contente.
FEDERICO F.: secondo me i monelli erano tutti e due perché il padre gli permetteva di rompere i vetri e il bambino li rompeva.
CHIARA: per me il monello era il bambino ma anche un po’ il padre perché visto che erano poveri andavano a fare quelle cose.
SIMONE: no, per me invece, il monello è il bambino.
FRANCESCO: per me lo sono tutti e due soltanto che il bambino è più monello perché va a rompere i vetri e poi, essendo piccolo, quando va a fare la lotta con l’altro bambino, anche lui un po’ monello, vince lui anche se è più piccolo.
CLAUDIO: secondo me il monello è quello che va a rompere i vetri. MAURO: in Italia questo film si intitola “Il Monello” ma questo film, c’è scritto sulla copertina, è americano. Secondo voi anche in America il film porta lo stesso titolo? FRANCESCO: Possiamo guardare sulla copertina. MAURO: infatti sul retro c’è scritto: titolo originale “The Kid”. Laura vi ha già insegnato cosa vuol dire “Kid”? Vuol dire “bambino, ragazzino”.
In spagnolo il film si intitola “El chico” e “chico” vuol dire ancora “bambino”. Secondo voi c’è differenza se un film lo si intitola “Il Monello” o “Il bambino”? TUTTI: Sììììììììììì! MAURO: vi dico questo: voi avete visto il film e mi avete detto che vi è piaciuto; adesso ognuno potrebbe provare a far finta di essere la persona che deve decidere il titolo di questo film in italiano.
Ad esempio “Il monello” è molto vecchio e oramai al cinema non si vede più da parecchi anni; esiste la videocassetta ma è difficile da trovare. Immaginate allora che a qualcuno, o a noi, venga in mente di proiettarlo ancora nei cinema e che venga anche in mente di cambiare il titolo.
Pensate quale titolo vi piacerebbe dare al film che non sia quello originale Potrebbe essere un nome ma anche una frase. Facciamo un giro di parola.
FRANCESCO: il duo monellesco.
LAURA S.: la famiglia dei due monelli.
GIULIA: l’adozione.
MASCIA: il bambino che rompe i vetri.
FILIPPO: il torello perché quando il bambino correva mi faceva venire in mente un toro che scappava.
SARA: i due lottatori.
CHIARA: l’orfanello ben alloggiato.
SIMONE: l’abbandono del brigante.
LAURA D.M.: l’orfanello birichino.
FEDERICO F.: il ritrovo.
CLAUDIO: il duo dei monelli.
ELEONORA: l’orfanello monello.
FRANCESCA: Charlie e l’orfanello.
FEDERICO C: l’orfanello.
ANDREA: all’orfanotrofio non ci vado. MAURO: finora abbiamo parlato di come è fatto il film: quello che si sente, quello che si vede, il titolo. E voi, avendo dato il vostro titolo, avete fatto una specie di riassunto della trama del film per come lo avete visto e per quello che vi ha fatto venire in mente. Avete capito bene la storia raccontata da questo film? TUTTI: sìììì! MAURO: allora posso proprio farvi una domanda di questo tipo: perché quella signora che si vede all’inizio esce e poi decide di lasciare quel bambino sulla prima automobile che trova? MASCIA: perché lei non lo voleva ed era anche triste.
ANDREA: il perché lo dice quel cartello che si vede all’inizio e che dice: “il guaio di questa donna fu la maternità”. Infatti lei era da sola e non aveva il marito perché forse è da un’altra parte e quindi non pensava di riuscire a dare quello che voleva al suo bambino.
FILIPPO: secondo me ha abbandonato il figlio perché, come si vede nel film, era ricca. Io sento certe volte al telegiornale che certe donne che hanno molti soldi non pensano ai bambini ma vogliono solo uscire con le amiche e cose così. Insomma pensano solo a se stesse.
SARA: sono molto d’accordo con Andrea e c’è una cosa che mi dispiace molto del film: la madre, dopo aver fatto questo sbaglio, va a ricercare il figlio quando era già cresciuto e abitava con qualcun altro che gli voleva anche molto bene. MAURO: che cosa ti ha fatto dispiacere? SARA: che lo ha staccato da Charlie. MAURO: Sara ti ricordi come finisce il film? Pensi che lo abbia proprio staccato? SARA: no, perché prende anche Charlie in casa con lei. MAURO: com’è questo finale per te? Un bel finale o un brutto finale? SARA: bello, è molto bello.
FEDERICO F.: secondo me la donna ha lasciato il bambino su una macchina perché credeva che senza padre non poteva vivere molto bene.
LAURA D.M.: secondo me, al contrario di quello che ha detto Filippo, credeva di non potergli dar tutto quello di cui aveva bisogno e pensava di non poterlo rendere felice senza papà.
GIULIA: secondo me questa donna ha abbandonato il proprio figlio perché aveva un lavoro che non le permetteva di stare con il proprio figlio.
LAURA S.: perché senza padre pensava di non riuscire a mantenerlo; perché una persona è felice quando ha dei genitori che gli vogliono bene e non ha solo la mamma ma anche il papà.
SIMONE: per me l’ha lasciato perché non riusciva a tenerlo. Non avendo il lavoro e non avendo neanche il padre che gli poteva stare dietro non riusciva a tenerlo. Solo dopo si è trovata il lavoro.
FRANCESCO: da quello che ho capito dal film, lei all’inizio era povera e ha abbandonato il bambino poi cinque anni dopo è diventata ricca perché aveva fatto un’interpretazione in un film. Così se l’è ripreso perché aveva i soldi.
CHIARA: secondo me, la mamma non l’ha abbandonato definitivamente perché se lo avesse fatto non ne avrebbe voluto più sapere invece alla fine è ritornata a prenderselo.
FILIPPO: per me, come ha detto Andrea, l’ha lasciato anche perché era divorziata dal marito allora quando uno è proprio in esasperazione non sa cosa fare.
E poi volevo dire un’altra cosa: come alla Sara anche a me non è piaciuta quella parte… insomma la donna è stata anche un po’ ignorante perché ha lasciato il figlio e dopo cinque anni è andata a riprenderselo… allora cosa l’ha lasciato a fare? Se lo poteva anche tenere.
SARA: allora io, forse, ho trovato una cosa che mi è venuta in mente adesso: potrebbe anche essere che la mamma, dopo aver visto che il figlio aveva già qualcuno che era meglio del padre (perché stava sempre con lui), ha detto: “Beh, adesso è come se avesse un padre e io mi faccio un’altra famiglia”.
ELEONORA: l’ha lasciato forse perché la maternità può averle causato dei danni.
LAURA D.M.: io volevo anche dire che dal film si vede che la donna quando abbandona il bambino non è felice quindi sicuramente non lo fa perché non le importava niente. Quindi potrebbe anche essere che, questo bambino, le abbia causato un po’ di infelicità.
LAURA S.: lei lo ha lasciato anche perché forse il bambino le ha causato dei problemi seri e non dei problemi da niente. Per cui lei, non sapeva cosa fare e poi si vede che è anche giovane, non era in grado di capire cosa volesse dire avere un figlio e lo ha lasciato sulla prima macchina che ha trovato.
FRANCESCO: io volevo dire che sua mamma lo ha lasciato e poi se l’è tornato a riprendere dopo cinque anni… ma poteva anche lasciarlo lì perché dopo ha anche dato dei dispiaceri a suo figlio e a Charlie.
CLAUDIO: secondo me l’ha lasciato perché non lo voleva più.
ANDREA: lei l’ha lasciato e lei era triste. Secondo me lei l’ha fatto anche senza volerlo… proprio un gesto d’istinto.
MASCIA: per me lei è stata maleducata perché non ha neanche pensato al suo bambino e poi anche egoista perché non l’ha voluto. MAURO: avete detto che la donna ha abbandonato il bambino per diversi motivi e forse un po’ tutte le risposte contengono un po’ di verità.
Poi però c’è stato qualcuno che questo bambino lo ha raccolto: prima la donna lo ha messo sulla macchina poi la macchina è stata rubata dai due ladri; i ladri se ne sono sbarazzati subito e l’hanno messo per terra in un angolino. Poi questo bambino è stato raccolto e portato in una casa.
L’altra domanda che mi viene da fare allora è questa: perché Charlie se l’è portato subito a casa sua. Perché non l’ha portato all’orfanotrofio, ad esempio? O perché non lo ha lasciato lì? O perché non ha chiesto a qualche signora del vicinato di prendersene cura? O perché non l’ha portato all’ospedale?
Lui se l’è portato a casa. Perché? CLAUDIO: secondo me se l’è tenuto lui perché gli piaceva.
FRANCESCO: perché… poverino… lo ha commosso la scritta che c’era sul biglietto: di prendersi cura di quel povero orfanello.
SIMONE: per me è perché lui ha trovato il bambino, ha cercato dappertutto se era di qualcuno poi dopo lo stava andando a rimettere per terra ma il poliziotto l’ha visto. Allora lui se l’è portato con sé; sicuramente voleva chiamare qualcuno però dopo ha letto il biglietto, allora si è commosso e l’ha tenuto in casa sua.
CHIARA: io ho visto che, in tutto il film, Charlie è buono di cuore. E allora secondo me lo vuole prendere e non vuole lasciarlo lì.
SARA: io sono d’accordo con Francesco che è stato da quando ha letto il biglietto. Poi vedere un orfanello così gli faceva anche tenerezza.
FRANCESCA: io credo che Charlie quando ha visto quell’orfanello e poi aveva letto il biglietto si era anche intenerito.
FILIPPO: secondo me all’inizio, quando Charlie vede il bambino, si capisce che non lo vuole subito. Infatti cerca dappertutto dove lasciarlo e poi alla fine lo tiene perché ci ha fatto l’abitudine e non vuole lascialo agli altri.
ANDREA: invece per me all’inizio lo ha preso perché c’era il poliziotto però dopo si è affezionato, si è abituato alla presenza del bambino e quindi l’ha voluto tenere.
MASCIA: per me, il bambino è stato contento… lui l’ha preso perché se stava in mezzo alla strada moriva.
FEDERICO C.: io sono d’accordo con Francesco: perché ha letto il biglietto e si è commosso.
FEDERICO F.: io sono d’accordo con Francesco ma vorrei aggiungere perché ha pensato anche che dentro alla casa era da solo e voleva un po’ di compagnia.
LAURA D.M.: all’inizio non lo voleva, infatti ha cercato in tutti i modi di sbarazzarsene ma quando ha letto il biglietto si è commosso e poi anche perché voleva un po’ di compagnia.
GIULIA: perché ha letto il biglietto.
LAURA S.: perché lui, vedendo un bambino ed essendo buono di cuore, si è intenerito e l’ha portato a casa con lui.
ELEONORA: io sono d’accordo con Francesco e poi perché voleva compagnia. MAURO: va bene. Per oggi, facciamo l’ultimo giro di parola perché ci sono ancora tante cose da dire. Voi avete usato spesso la parola “papà” o “padre” per definire Charlie. Era il suo padre vero? TUTTI: nooooo! MAURO: infatti non era suo padre; ma quanti di voi pensano che Charlie sia stato un buon papà per “il monello”? TUTTI: io! Io! Io! Io! Io! Io! Io! Io! Io! Io! Io! Io! MAURO: la domanda allora è questa: a voi piacerebbe avere un papà come Charlie? FRANCESCO: a me non piacerebbe avere un padre povero come Charlie perché, primo, non avrebbe i soldi per comprare da mangiare poi io ho anche una sorella quindi non credo che avrebbe i soldi per comprarci da mangiare.
LAURA S.: io vorrei un padre così perché Charlie è una persona buonissima e se ce l’avessi non mi pentirei.
CLAUDIO: io invece ho un padre buono ma se fosse anche Charlie lo accetterei.
SIMONE: io ho un padre buono però io prenderei Charlie perché mi piacerebbe come padre e poi è gentile.
ELEONORA: io ho un padre buono però se avessi Charlie lo accetterei comunque.
SARA: volevo dire che a me piacerebbe molto un padre come Charlie però… lasciare mio padre… No. Secondo me è più speciale lui.
GIULIA: io in parte vorrei aver come padre Charlie e in parte no. In parte sì perché mi divertirei un mucchio con lui. In parte no, perché non avrebbe abbastanza soldi per mantenere una famiglia.
LAURA D.M.: non credo ci sia nessuno che possa sostituire mio padre.
CHIARA: io non vorrei mai un padre come Charlie. Non perché è povero… anche se fosse ricco non mi interesserebbe… ma perché mio papà è troppo speciale per me.
FRANCESCA: io sono daccordissimo con la Laura S. e poi perché credo che se anche mio papà non avesse i soldi, io lo aiuterei come ha fatto il bambino nel film.
FILIPPO: Io in parte lo vorrei avere e in parte no. In parte sì perché con lui potrei andare dove voglio poi certe volte potrei anche non andare a scuola. In parte no perché con mio papà sto molto bene, è molto gentile e non credo che possa sostituirlo.
FEDERICO F.: io andrei con Charlie perché è simpatico ed è buono.
FEDERICO C.: anch’io andrei con Charlie perché mio papà, certe volte, mi sgrida un bel po’ forte.
MASCIA: io invece ci andrei perché è anche gentile, buono, non è mai cattivo, è molto simpatico e fa troppo ridere.
ANDREA: io in parte non lo vorrei perché mio papà è troppo buono. MAURO: per concludere davvero per oggi, ognuno provi a pensare che cosa può aver imparato guardando questo film. CLAUDIO: io ho imparato che non è molto bello rompere i vetri.
FRANCESCO: io ho imparato che, anche avendo un padre povero, si può star bene.
SIMONE: anche avendo una famiglia povera c’è sempre qualcuno che ti vuole bene.
CHIARA: ho imparato che se anche Charlie aveva preso quell’orfanello, l’orfanello si trovava bene con lui. Bisogna saper accettare i figli anche se non sono propri e volergli bene.
SARA: ho imparato una cosa molto importante per me. Prima di abbandonare un bambino bisogna pensarci due volte.
FRANCESCA: io sono d’accordissimo con Francesco.
FILIPPO: io ho imparato che, se due persone si vogliono bene, nessuno può dividerle perché sono troppo attaccate. Non si può.
ANDREA: non bisogna lasciare le persone che ti sono care.
MASCIA: aiutare le persone povere perché potrebbero anche morire.
FEDERICO C.: se da grande incontrerò un bambino piccolo non lo abbandonerò per la strada.
ELEONORA: io sono d’accordissimo con la Chiara.
FEDERICO F.: io ho imparato che se anche hai un padre povero puoi vivere benissimo lo stesso perché, secondo me, essere ricchi ti fa viziare.
LAURA D.M.: io ho imparato che se uno ha un padre povero è sempre più ricco dentro.
GIULIA: l’amore di una persona per un’altra non si può distruggere.
LAURA S.: io sono d’accordissimo con Filippo però vorrei aggiungere una cosa: se tu vedi una persona per la strada che ti chiede di aiutarlo e tu non lo aiuti, saresti soltanto una persona con l’anima sporca dentro.
Se avete un’ora di tempo riguardate il capolavoro di Charlie Chaplin. E come hanno fatto i bambini del Maestro Mauro scrivete un commento sotto l’articolo.
Per leggere tutti gli articoli di Mauro Presini, maestro elementare e molto altro, clicca sul nome dell’autore sotto il titolo
La ragazzina era stata ricoverata in ospedale con una costola rotta dopo le botte del padre. E siccome era l’ennesima volta che lui la picchiava, quella volta lei ha parlato e ha chiesto di essere protetta. Dopo qualche mese dopo sono emersi i sensi di colpa per avere alterato un equilibrio familiare che, per quanto disfunzionale e retto sul suo sacrificio, in qualche modo era rassicurante per lei e per i suoi genitori. È in quel momento che occorre percorrere strade nuove e libere dalla violenza.
Filastrocca della costola rotta
è stata proprio una bella botta
Quella botta me l’ha data papà
e per questo mi trovo qua
Qua mi han messa per mia richiesta
di scappare da casa e basta
Basta solo di ritornare
sono pronta a rinnegare
Rinnegare ogni mia parola
per sentirmi un po’ meno sola
Sola qua non ci voglio stare
ho bisogno di riabbracciare
Riabbracciare la mia famiglia
dove posso sentirmi figlia
Figlia ugualmente di amore e violenza
ma non posso più stare senza
Senza le botte non conosco amore.
Che facciamo Vostro Onore?
Quando bruciano i maltrattamenti i ragazzi lo chiedono: portami dovunque ma non farmi tornare a casa. Dopo qualche mese di allontanamento si pongono i problemi veri, i conflitti interni, i sensi di colpa. Meglio ritornare nella violenza, sentendosi parte di una famiglia, o restarsene fuori, con un buon prezzo di solitudine? Loro stessi non hanno le idee chiare. Nessuna limitazione nelle relazioni primarie è facile e indolore. Si tratta di capire quale dolore è più sopportabile e più costruttivo per ciò che quel ragazzo, quella ragazza, quel ragazzo, domani diventerà.
CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, esce su Ferraraitalia il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]
Non occorrono molte righe ad Alessandro Marescotti per raccontarci (se vogliamo ascoltarlo) lo sporco che si nasconde dietro la persecuzione giudiziaria del fondatore di WikiLeaks. E ha ragione quando sostiene che una parte consistente del movimento pacifista, e di quello antimperialista, di quello per la pace e per la libertà di espressione, ha preferito tacere su Julian Assange e il suo calvario.
Si sono (ci siamo) solo distratti? Non credo. Occorreva uscire dai facili slogan, avere il coraggio di “legare tutti i fili”, di guardare a tutti gli attori del “grande affare della guerra”. Perché dietro Assange e le scottanti rivelazioni di WikiLeaks (mai digerite dagli americani) ci sono tutti gli affari sporchi della guerra in Afghanistan. E non solo. La guerra, ogni guerra, è prima di tutto un grande affare (per pochi: petrolieri, venditori di armi, generali, governanti in difficoltà nella politica interna ) e orrore e sangue (per chi la subisce e anche per i ‘patrioti’ che vanno a farla).
Un grazie al sito Peacelinkche ce lo ricorda ogni giorno.
(Francesco Monini)
Come ha detto Stefania Maurizi, persino il detestato Egitto – liberando Patrick Zaki – è stato capace di mostrarsi più umano del Regno Unito che ha negato la libertà, forse per sempre, a Julian Assange.
Ma vediamo qualche dettaglio – la storia a volte si conosce più dai dettagli che dalle linee generali – per capire le radici di questa vicenda. Una storia che ha avuto l’incredibile e inaspettato impatto di farmi vacillare. Ha reso infatti fragili, fragilissimi, alcuni fondamentali e delicati ideali che mi hanno guidato fin da ragazzo e che ritenevo guidassero tutti, anche quelli che non la pensavano come me. Ritenevo che ci fossero principi universali, indiscutibili, inattaccabili e quindi scontati. Principi di umanità da riconoscere anche al “nemico”. In questo caso Assange.
Qui vi racconto la storia di uno sbigottimento sempre più profondo.
Era il 2010
“È la più grande fuga di notizie della storia militare americana: notizie che parlano di civili morti e di cui non si è saputo nulla, di un’unità segreta incaricata di ‘uccidere o fermare’ qualsiasi talebano anche senza processo, delle basi di partenza in Nevada dei droni Reaper (aerei senza piloti), della collaborazione tra i servizi segreti pakistani (Isi) e i talebani. Questo e molto di più, sugli archivi segreti della guerra in Afghanistan, è svelato da Wikileaks – il portale Internet creato per pubblicare documenti riservati – al New York Times, al Guardian e al Der Spiegel.”. Così scriveva Repubblica il 26 luglio 2010.[Vedi qui]
Nessuna di quelle informazioni, contrariamente a quanto sostenuto dal governo USA, mise a rischio la vita e la sicurezza degli americani e dei loro alleati. La storia lo dimostra. E quindi nessuno è stato danneggiato. Ma tanti sono stati svergognati. La lista di questi ultimi è lunghissima e alcuni addirittura sono insospettabili. Se leggerete fino in fondo capirete a chi mi riferisco.
Perché oggi lo vogliono distruggere?
La questione è che quelle informazioni mettevano a nudo le menzogne e le ipocrisie di guerra, come spiega bene Stefania Maurizi nel suo libro “Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks”. ([Qui]
E’ dunque chiaro perché dunque il governo USA non mostra clemenza verso Assange?
Se la questione che ancora non è chiara, allora mettiamola brutalmente così: i governi USA, di qualunque orientamento, considerano un proprio diritto quello di fare la guerra come e quando vogliono, senza alcun ostacolo. Questo orientamento non era solo caratteristica di Sparta ma anche di Atene. L’imperialismo della democratica e colta Atene.
Come cancellare il diritto alla pace e affermare il diritto alla guerra
I governi USA non vengono meno al principio di essere i sovrani delle proprie scelte militari, anche quelle che minacciano la pace di altre nazioni.
Prova ne è il fatto che sono stati contrari all’approvazione di una risoluzione ONU sul Diritto alla Pace nel 2016, in piena era Obama.
Sono rimasto molto colpito dalla timidezza – per non dire dalla reticenza – con cui si è mantenuta nell’ombra l’incresciosa vicenda della fronda di nazioni contrarie al Diritto alla pace. Ovunque si parla bene del diritto alla pace. Ma in nessuna pagina web in lingua italiana si trovava l’elenco delle nazioni che hanno votato contro la risoluzione ONU del Diritto alla pace.
La lista delle nazioni contrarie al diritto alla pace
Su PeaceLink ora è pubblicata l’intera lista delle nazioni che hanno votato contro il Diritto alla pace perché è in quella lista la ragione dei silenzi attuali su Assange e delle complicità che collegano gli Stati Uniti (votarono NO al Diritto alla pace) al Regno Unito (votò NO) e – purtroppo – anche alla Svezia (votò NO, incredibile ma vero).
Ecco l’elenco di chi nel 2016 votò NO al Diritto alla pace nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite[leggi Qui]
Il ruolo ambiguo della Svezia
Avete ancora qualche dubbio sulla Svezia? E’ azzardato dire che qualche sua ‘entità’ statale potrebbe essere stata complice degli Stati Uniti nella vicenda Assange?
Io i dubbi me li sono sfoltiti vedendo che ci sono voluti ben 9 anni (dal 2010 al 2019) perché venissero archiviate le accuse di “stupro” contro Assange.
Ma poiché mi piace la Svezia, volevo mantenere ancora qualche dubbio. Ho controllato la lista dei partecipanti alla guerra in Afghanistan: la Svezia c’era.
Ma poiché sono un irriducibile filosvedese mi sono detto: “Avrà portato solo barelle, medicine e cerotti”. E invece ecco cosa ho trovato: “Nel 2008, le forze armate svedesi avrebbero voluto che la Svezia inviasse aerei Saab JAS 39 Gripen in Afghanistan, come parte di una campagna di marketing per i suoi caccia da combattimento, si legge sul sito WikiLeaks dove l’organizzazione internazionale fondata da Julian Assange cita un cablato originale trapelato”. [Qui]
Aerei svedesi volevano bombardare l’Afghanistan per farsi pubblicità
Proprio così, amici miei, avete letto bene: la Svezia avrebbe cercato di bombardare l’Afghanistan per pubblicizzare i suoi caccia. E la fonte era Wikileaks di Assange.
Ed ecco allora collegati tutti i fili: guerra in Afghanistan, accanimento contro Assange e bocciatura all’ONU del Diritto alla pace, affari sporchi.
Perché Assange, più di tanti amanti della pace che oggi stanno zitti su questa vicenda che riguarda i crimini di guerra degli Stati Uniti, ha saputo dare voce e informazioni al diritto alla pace, così scomodo e antipatico quando si traduce in una messa in piazza delle vergogne di guerra americane, inglesi e svedesi.
P.S, Molti dei contrari al diritto alla pace erano stati nel 2002 anche contrari all’educazione al disarmo nelle scuole, tanto che l’apposito documento approvato in sede ONU non è mai stato tradotto in italiano. Fino a quando non lo hanno fatto i traduttori di PeaceLink, basta cliccare qui
“A me addolora tanto la statistica. Ho letto l’ultima: quest’anno sono state fatte più armi dell’anno scorso. Le armi non sono la strada!”. Lo ha detto il Papa all’Angelus, 12 dicembre 2021.
Il Covid risparmia i signori delle armi: nuovo record di vendite. Nella top 100 anche Leonardo e Fincantieri
Le 100 società mondiali leader nella produzione e nelle forniture militari confermano il trend positivo nonostante la crisi economica globale provocata dalla pandemia
I big mondiali delle armi sono stati risparmiati dalla crisi economica scaturita dalla pandemia del Covid e nel 2020 hanno visto aumentare le proprie vendite per il sesto anno consecutivo, raggiungendo un nuovo record. Ciò emerge dall’ultimo report pubblicato dall’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri). Nella top 100 dei produttori di armi ci sono anche le italiane Leonardo e Fincantieri, classificatesi rispettivamente al tredicesimo e al quarantasettesimo posto della classifica globale.Nello scorso anno le vendite dei 100 maggiori produttori di armi al mondo sono ammontate a 531 miliardi di dollari (circa 470 miliardi di euro), in aumento dell’1,3% rispetto al “prepandemico 2019”, il che conferma un trend positivo nel settore della armi e dei servizi militari in un’annata in cui secondo il Fondo monetario internazionale (FMI) l’economia globale ha registrato una contrazione di 3,1 punti percentuali. Un’industria, quella militare, tuttavia non completamente immune al Covid. Quella del 2020 è infatti la crescita di minore entità rilevata nell’ultimo triennio in un mercato che registra un trend positivo costante dal 2015. La vendita di armi delle 100 aziende leader è infatti aumentata del 17% nell’arco di soli sei anni.
Dominano gli USA
A dominare il mercato globale delle armi ci sono le aziende statunitensi, le quali occupano 41 dei 100 posti in classifica e registrano un giro d’affari di 285 miliardi di dollari (+1,9%), il che equivale al 54% delle vendite mondiali. I produttori USA occupano i primi cinque posti della classifica, guidata da Lockheed Martin (produttrice ad esempio degli aerei da combattimento F-35), leader assoluta dal 2009 e che nel 2020 ha incassato 58,2 miliardi di dollari dalla vendita di armi e servizi militari. Secondo posto per Raytheon Technologies (36,8 miliardi), nata dalla recente fusione tra Raytheon Company e United Technologies Corporation. Sul podio anche Boeing (32,1 miliardi) che ha visto però registrare un calo sia del fatturato “militare” che di quello “civile” data la diminuzione dei viaggi dovuta alle restrizioni messe in atto dai governi per contenere la pandemia.
Sul podio Cina e Regno Unito
Alle spalle dei gruppi statunitensi si classificano cinque società cinesi che assieme rappresentano il 13% del totale della vendita di armi (66,8 miliardi ovvero l’1,5 % in più rispetto al 2020), mentre la terza posizione è occupata dal Regno Unito con sette aziende in grado di generare un giro d’affari complessivo pari a 37,5 miliardi dollari (7,1 % del totale). Spicca la BAE Systems con sede a Londra che si è classificata sesta (24 miliardi) ed è quindi la prima tra le società non americane oltre ad essere l’unica rappresentante del Vecchio continente nella top 10.
Leonardo e Fincantieri
A rappresentare l’Unione Europea, oltre al colosso dei cieli Airbus (undicesimo in classifica con 11,9 miliardi di dollari di vendite militari su un giro d’affari totale pari a 56,8 miliardi), ci sono sei società francesi (Thales, Safran, Naval Group, Dassault Aviaytion Group, CEA e Nexter), quattro tedesche (Rheinmetall, ThyssenKrupp, Krauss-Maffei Wegmann e Hensoldt), mentre Svezia (Saab), Polonia (PGZ), Spagna (Navantia) e Norvegia (Kongsberg Gruppen) hanno una rappresentante ciascuna. Due le italiane, entrambe tra le prime 50. Leonardo e Fincantieri assieme hanno generato vendite per un totale di 13,8 miliardi, pari al 2,6% del fatturato complessivo delle top 100.
Leonardo, holding con sede a Roma che opera direttamente o attraverso proprie controllate nell’Aerospazio e Difesa, nonostante un calo delle vendite di armi del 1,5% rispetto al 2019 ha comunque scalato un posto in classifica e si è piazzata al tredicesimo posto, grazie agli 11,1 miliardi di dollari generati dalle vendite di armi e servizi militari su un giro d’affari totale di 15,2 miliardi. Balzo in avanti invece di Fincantieri, gruppo con sede a Trieste che passa dalla 54esima alla 47esima posizione con 2,6 miliardi di dollari derivanti da vendita di armi (+23% rispetto al 2019) su un fatturato totale di 6,7 miliardi. Tali aumenti (o cali) di fatturato secondo Sipri sarebbero fisiologici per società dalle caratteristiche simili a quelle di Fincantieri. «Fluttuazioni significative nelle vendite annuali di armi sono comuni tra le aziende che costruiscono navi a causa delle tempistiche di produzione molto lunghe».
In Russia il trend è negativo
Nonostante le tensioni al confine con l’Ucraina (presente in classifica grazie alla società UkrOboronProm), che secondo il Washington Post starebbero richiedendo un importante dispiegamento di forze armate da parte del Cremlino, la Russia registra un calo costante nella vendita delle armi. Nel 2020 il giro d’affari di Mosca, rappresentata da nove società nella top 100 e quinta alle spalle di USA, Cina, Regno Unito e Unione Europea, è stato di 26,4 miliardi di dollari, il 6,5% in meno rispetto al 2019 (28,2 miliardi) e ben al di sotto rispetto ai 31,5 miliardi del 2017. Per quanto riguarda il resto del mondo i maggiori produttori di armi si trovano in Giappone, Corea del Sud, Israele, India, Canada, Singapore, Turchia e negli Emirati Arabi Uniti, con vendite complessive pari a 43,1 miliardi di dollari ovvero l’8,1% del fatturato totale dei 100 produttori leader del settore.
Non tutti sono immuni
Non tutta l’industria della difesa ha però visto incrementare il proprio fatturato nell’anno della pandemia. Il rapporto di Sipri menziona il caso di Thales, prima azienda francese e quattordicesima nella classifica globale, che ha visto un calo delle vendite del 5,8 %. Ancora più netta la battuta d’arresto di un’altra rappresentante francese, la Naval Group (- 11%). Entrambe le società hanno motivato questi numeri attribuendo la colpa alle misure messe in atto dai governi per il contenimento della diffusione del virus.
Episodi di diminuzione delle vendite a parte, Sipri rileva come il mercato delle armi sia stato meno penalizzato, se non addirittura favorito dai governi nel 2020. «I giganti del settore sono stati in gran parte protetti dalla domanda di beni e servizi militari sostenuta dai governi. In gran parte del mondo la spesa militare è cresciuta e alcuni governi hanno persino accelerato i pagamenti all’industria militare per mitigare l’impatto della crisi generata dal Covid», spiega la ricercatrice Alexandra Marksteiner.
Questo articolo di Albert Voncina è già apparso nei giorni scorsi su PeaceLink
Arcangela Felice Assunta Wertmuller von Elgg Espanol, nota come Lina Wertmuller, nata da una famiglia di antiche origini svizzere, una donna forte, curiosa, rivoluzionaria, caparbia, diretta, in parole povere una Grande Donna, simbolo di emancipazione e genio artistico.
Genio creativo che ha segnato la strada del cinema anche al femminile. Libera e femminista a modo suo, era solita dire: “Mi sono sempre fatta rispettare, volevo fosse così per tutte”. Raccontava di essere stata una studentessa ribelle e poco incline alla condotta, indole che la portò ad essere cacciata da ben 11 scuole prima di iniziare gli studi teatrali all’età di 17 anni.
La morte non la spaventava, ed era solita affermare nelle interviste: “Un giorno o l’altro morirò e non mi preoccupo. Mal che vada mi farò un gran bel sonno. Se in paradiso si dovesse stare da soli, preferisco non andarci”.
Determinante, nella sua vita artistica, per sua stessa ammissione, fu, nella sua fase iniziale, la collaborazione con Federico Fellini nella Dolce Vita e in Otto e mezzo.
In seguito il suo cinema si mostrerà ribelle, provocatorio, vivo, brillante, spesso immerso negli squilibri della società, ironico, allegro, imprevedibile e anarchico. A questo proposito mi è d’obbligo ricordare il Film d’Amore e d’Anarchia, ovvero “Stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza…” (1973). La Wertmuller racconta che: “La storia mi era venuta in mente leggendo le notizie sulla stampa dei primi terroristi. Ragazzi e ragazze che pagavano con la vita le loro idee. Se ne parlava paragonandoli ai criminali ma io volevo capire meglio. Mi misi a studiare la storia dell’anarchia. Le storie degli anarchici italiani mi fecero conoscere l’antica radice che l’anarchia ha avuto in Spagna e nel nostro Paese, in particolare in alcune regioni, come Puglia e Toscana. Così nacque la storia di Tunin, contadino lombardo-veneto, innamorato delle idee di un vecchio anarchico ascoltate fin da bambino davanti al focolare, “gli uomini tutti uguali e liberi, come Dio ci ha creato”. Quando vede il suo vecchio amico anarchico ucciso con quattro schioppettate dai carabinieri, decide di sostituirsi a lui e di andare ad uccidere Mussolini.
L’anno dopo (1974) un altro capolavoro di successo, ‘Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto’, dove si intrecciano, tra Mariangela Melato e Giancarlo Giannini, protagonisti di alcuni tra i film centrali della Wertmuller, un doppio conflitto di cui alla fine è difficile stabilire il vincitore: la lotta di classe e la guerra tra i sessi; il marinaio comunista e la donna in carriera, dirigente aziendale, che il destino fa ritrovare naufraghi su un gommone e in seguito su un’isoletta deserta, dove i loro mondi si scontrano e diventano battaglia, guerra, e alla fine amore.
E’ doveroso citare un altro capolavoro, ‘Pasqualino Settebellezze’, una visione catastrofica totale della sovrappopolazione. Di seguito la regista affermerà: “Mi fa piacere che le mie storie siano amate da milioni di persone perché fanno piangere, ridere e commuovere. E poi, questo film, mi ha fatto entrare nel Guinness dei primati”. Con quattro candidature all’Oscar, Lina fu la prima donna ad essere candidata come miglior regista.
Lina Wertmuller, in questi giorni ha raggiunto la sua adorata attrice e amica Mariangela Melato, scomparsa nel 2013 a soli 71 anni. Si conobbero negli anni ’70 grazie allo scenografo Enrico Job, marito di Lina. Riguardo a quel primo incontro, la regista afferma: “La giovane Melato mi piacque immediatamente per la sua bellezza e per il talento, grande attrice dalla rara intelligenza”. Mariangela, un’attrice indimenticabile ed elegantissima, capace di passare con disinvoltura attraverso tutti i personaggi, da quelli comici a quelli tragici.
Due donne indimenticabili Lina e Mariangela, che hanno saputo raccontare e interpretare con ironia i conflitti sociali, i sentimenti e i temi caldi del nostro Paese, passato e presente.
“Le faccio un esempio: una commessa di un supermercato che durante questo periodo ha continuato a lavorare, garantendo il servizio anche quando il Paese era in lockdown, non arriva a prendere 20 mila euro lordi l’anno, la metà se ha un contratto part time. Ed avrà un riconoscimento fiscale di poco superiore ai 100 euro annui, mentre chi prende tre volte il suo reddito ne riceverà oltre 600”. (Maurizio Landini).
Luigi Marattin è un ex enfant prodige della politica italiana. Ex, perché non può più essere considerato una promessa, ma una certezza. Ferrarese d’adozione: laureatosi nella nostra facoltà di Economia, è stato assessore al Bilancio al Comune di Ferrara durante una delle giunte Tagliani, nonchè responsabile economico del PD. Attualmente è deputato di Italia Viva, avendo seguito Renzi nella fuoriuscita dal Partito Democratico. I suoi “spiegoni” di economia e politica hanno un comune denominatore: io vi spiego le cose con numeri e dati, gli altri (se non la pensano come me) sono ignoranti o ciarlatani. L’ultimo spiegone, apparso sul suo sito e sulla sua pagina social (eccolo in versione non commentata:[Qui] ) parla (ovviamente male) dello sciopero proclamato da Cgil e Uil contro la manovra economica del governo. Stilisticamente fa un salto di qualità: Marattin si fa le domande e poi si dà le risposte. Un botta e risposta solipsista. Marattin chiede e Marattin risponde. Siccome non la penso quasi mai come lui, ma mi sono stufato di essere considerato per questo un minus habens, (da lui e dai suoi fans) ho deciso di analizzare punto per punto le risposte che lui stesso dà alle domande che lui stesso si fa.
NB: LE DOMANDE (di Marattin) SONO IN MAIUSCOLO, le risposte di Marattin in corsivo.
1) I SINDACATI CHIEDEVANO CHE TUTTI GLI 8 MILIARDI ANDASSERO ALL’IRPEF. 7 miliardi su 8 (87,5%) sono stati destinati all’Irpef: un solo miliardo all’IRAP, per eliminare l’imposta a circa un milione di piccoli contribuenti (autonomi, ditte individuali, persone fisiche).
Intanto: chi ha stabilito che 8 miliardi devono bastare? “Tutti gli 8 Miliardi” è un’espressione fuorviante: perché non potevano essere 10 miliardi, ad esempio? Ci sarebbe stato più spazio per una riduzione sia dell’Irpef che dell’Irap (che peraltro serve a finanziare la sanità pubblica).
Buona parte della maggioranza di governo chiedeva di destinare all’IRAP almeno 3 miliardi, ma questa richiesta non è stata accolta. Questo passaggio è fantasmagorico: la maggioranza voleva destinare più soldi al taglio dell’Irap, ma la richiesta “non è stata accolta”. Da chi? Da Marattin? Da Draghi? Evidentemente “la maggioranza” ha cambiato idea, a meno che Marattin non intenda che la sua illuminata minoranza – Robin Hood – ha convinto la riottosa maggioranza – Sceriffo di Nottingham – a dargli retta, per accontentare “i sindacati”.
2) I SINDACATI CHIEDEVANO CHE LE RISORSE DESTINATE ALL’IRPEF VENISSERO DESTINATE INTERAMENTE A LAVORATORI DIPENDENTI E PENSIONATI. Il 95% delle risorse Irpef (6,6 miliardi su 7) vengono destinate a lavoratori dipendenti e pensionati.
Con le percentuali Marattin fa il mago, tanto basta cambiare il totale di partenza: adesso i miliardi, che prima erano 8, sono diventati 7. Se fossero ancora 8, la percentuale di destinazione già scenderebbe all’82%. Ma siccome “le risorse destinate all’Irpef” sono 7 miliardi, allora 6,6 miliardi destinati a dipendenti e pensionati sono la quasi totalità. Che è come dire: io (sindacati) ti chiedo di darmi il 100% di 10, tu (governo) decidi di partire da 8 e mi dai 7,5, che è il 93,5%, ma di 8, non di 10.
3) I SINDACATI CHIEDEVANO CHE TUTTE LE RISORSE FOSSERO DESTINATE AI PRIMI TRE SCAGLIONI DI REDDITO. Il 90% delle risorse Irpef viene destinato ai primi tre scaglioni di reddito, cioè i contribuenti sotto i 55 mila euro annui.
4) E IN PARTICOLARE AL PRIMO SCAGLIONE? Al primo scaglione (i contribuenti sotto i 15 mila euro annui) vengono destinate il 16% delle risorse.
5) NON È UN PO’ POCO? Nel primo scaglione ci sono circa 17 milioni di contribuenti. Di questi, 10 milioni non pagano neanche un euro di Irpef. E tutti e 17, mediamente, pagano 27,78 euro al mese.
Scusi Marattin: se 10 milioni su 17 “non pagano neanche un euro di Irpef”, il “tutti e 17, mediamente, pagano 27,78 euro al mese” è una media del pollo alla Trilussa. Esiste un modo più lineare di dirlo: ci sono 10 milioni di persone (lo scrive Marattin, non io) che guadagnano fino a 8.174 euro l’anno e non pagano Irpef (no tax area). Poi ci sono 7 milioni di persone che guadagnano da 8.175 euro a 15.000 euro l’anno. E costoro non pagano affatto una media di 27,78 euro al mese di Irpef. Ad esempio, uno che guadagna 15.000 euro lordi l’anno, di Irpef attualmente ne smena circa 134 al mese (al lordo delle detrazioni). Altro che “mediamente 27,78 euro”(che comunque, in un successivo spiegone dello stesso Marattin, sono diventati “mediamente 13”, a proposito di certezze sui numeri).
6) AH, HO CAPITO. E NON C’ERA UN ALTRO MODO PER AUMENTARE COMUNQUE LE LORO BUSTE PAGA? Si, e lo hanno proposto i sindacati. E cioè agire non (solo) sul cuneo fiscale (cioè l’Irpef, su cui come abbiamo visto non c’era più tanto spazio disponibile), bensì sul cuneo contributivo: cioè ridurre i contributi obbligatori che vengono trattenuti ogni mese sulle buste paga dei lavoratori, in modo da incrementare lo stipendio netto.
7) E IL GOVERNO E LA MAGGIORANZA CHE HANNO DETTO? Che va bene. Si è deciso di impiegare per il 2022 un ulteriore miliardo e mezzo per ridurre dal 9,19% al 8,39% il cuneo contributivo per i lavoratori a basso reddito. A cui ovviamente si sommeranno i benefici derivanti dalla riduzione dell’Irpef.
Qui vediamo che finalmente il Governo e la maggioranza che lo sostiene sono di nuovo d’accordo – mentre prima la minoranza illuminata, come abbiamo potuto dedurre, aveva convinto la maggioranza a “dare ascolto ai sindacati”. Questo, in effetti, sembra l’unico punto sul quale c’è una convergenza tra le parti – si può discutere sulla percentuale di riduzione del cuneo, ma si sa che il meglio è nemico del bene. Il “bene”, peraltro, vale per un solo anno, il 2022.
8 ) LANDINI DICE OGGI CHE NON È GIUSTO CHE CHI GUADAGNA 20 MILA EURO RICEVA 100 EURO, E CHI NE GUADAGNA 60 MILA NE RICEVA OLTRE 600. SONO GIUSTE QUESTE CIFRE? No, sembra proprio di no. Dalle uniche tabelle che considerano, correttamente, non solo il beneficio derivante dalla riduzione delle aliquote ma anche quello dall’aumento delle detrazioni (Il Sole 24 Ore, 4 dicembre) vediamo che chi guadagna fino a 20.000 euro avrà un beneficio medio annuo di 193 euro, mentre chi ne guadagna 60.000 uno di 559,8.
Marattin, come “sembra proprio di no”? Magari c’è una differenza (basata su una approssimazione numerica) con il ragionamento di Landini, ma la sostanza è proprio quella lì. Quindi, sembra proprio di sì.
Una persona che guadagna 20.000 euro l’anno ha una riduzione di pressione fiscale di 193 euro all’anno, chi guadagna 60.000 euro avrà una riduzione della pressione fiscale di 559,80 euro l’anno. Anche prendendo per buoni i conti di Marattin, vuol dire questo: se io guadagno 1.600 euro al mese, lo Stato mi restituisce con questa manovra 16 euro al mese (un centesimo del mio stipendio). Se guadagno 5.000 euro al mese, lo Stato mi ridà 46,65 euro al mese (poco meno di un centesimo del mio stipendio). Giudicate voi se questa restituzione è giusta, se opera una qualche forma di redistribuzione del reddito.
9) VABBÈ MA ALLORA HA COMUNQUE RAGIONE LANDINI! CHI GUADAGNA DI PIÙ PRENDE PIÙ VANTAGGI! No, perché i vantaggi fiscali non si misurano in valore assoluto: una stessa riduzione di tasse di 10 euro non impatta allo stesso modo su chi ne pagava 20 ( = beneficio del 50%) e su chi ne pagava 1.000 ( = beneficio del 1%).
Qui il ragionamento comincia a zoppicare come un tavolo cui segano una gamba. Se abbiamo appena visto che non c’è una stessa riduzione di tasse, ma chi guadagna di più ha una riduzione maggiore, perché Marattin fa l’esempio parlando di “una stessa riduzione di tasse di 10 euro”? Se facesse il confronto sulle reali, rispettive, riduzioni, dovrebbe concludere che l’impatto, che lui chiama “beneficio”, è lo stesso. Il che, secondo me, grida un po’ vendetta.
10) AH GIUSTO. E ALLORA COME SONO I VERI BENEFICI? Un lavoratore dipendente che guadagna 20.000 avrà un beneficio di circa il 25%. Chi ne guadagna 60.000, di circa il 3%.
“Ah giusto” un piffero (vedi sopra). La sostanza è che chi prende 20.000 euro l’anno e chi ne prende 60.000 (come esposto sopra) ricevono indietro dallo Stato praticamente la stessa quota parte del loro stipendio mensile. Valutate voi se questo è giusto. Questa è la tabella pubblicata da Avvenire:
11) VABBÈ HO CAPITO… MA NON È COMUNQUE SEMPRE GIUSTO RIDURRE LE TASSE SOLO AI “PIÙ POVERI”? No, per niente. Anche se, lo riconosco, suona molto bene come slogan. Ma i dati ufficiali (Fonte: Dipartimento Finanze, Mef) ci dicono che i veri tartassati delle nostra Irpef sono altri: i 2,3 milioni di contribuenti Irpef che guadagnano più di 50.000 euro annui ( = poco più di 2.000 euro netti al mese, e oltre) sopportano da soli il 42% di tutta l’Irpef italiana ( = imposta netta, al netto del bonus Renzi).
Sarà anche vero, ma di questa percentuale, quanta viene pagata da coloro che guadagnano oltre 75.000 euro annui? E come mai Draghi ha proposto un (modesto) contributo di solidarietà (spot) a carico di questa fascia e a favore dell’abbassamento del caro bollette, e quattro partiti della maggioranza (tra cui Italia Viva di Marattin) si sono opposti? Come mai in questo caso Robin Hood era Draghi, e Marattin è passato tra le fila dello sceriffo di Nottingham?
12) CIOÈ SCUSA…. QUELLI CHE GUADAGNANO PIÙ DI 2.000 EURO NETTI AL MESE PAGANO A MOMENTI QUASI LA METÀ DELL’IRPEF?Esatto. In realtà è pure peggio di così, perché gli ultimi dati disponibili si riferiscono al 2019, quando non era ancora entrato in vigore l’allargamento del bonus Renzi. Che aveva ulteriormente alleggerito il carico fiscale effettivo sulle fasce dai 28 ai 40 mila euro annui, lasciandolo inalterato per coloro che ne guadagnano 50.000 o più. Nell’immaginario collettivo di qualcuno, dipinti come ricchi nababbi privilegiati.
Non occorre descriverli come nababbi (peraltro si parla dei redditi oltre i 75.000 euro, ripeto) per ipotizzare l’equità di un contributo di solidarietà a loro carico, che non li avrebbe né danneggiati né favoriti rispetto alla tassazione attuale, ma avrebbe dato una mano a chi subisce maggiormente il caro bollette, ovvero le fasce di reddito più basse.
13) MA IN QUESTA LEGGE DI BILANCIO CI SONO ALTRE MANOVRE PER I PIÙ DEBOLI? Si. L’introduzione dell’assegno unico universale, oltre a razionalizzare e semplificare il sistema, incrementa di 6 miliardi all’anno il sostegno alle famiglie. Viene distribuito sulla base dell’Isee ( = indicatore di reddito e patrimonio), e non solo sul reddito (come i vantaggi Irpef), ma per come è disegnato andrà ovviamente soprattutto a vantaggio delle fasce deboli.
“Soprattutto”, appunto. Perché l’assegno unico universale è, appunto, universale (50 euro a figlio anche per Isee sopra i 40.000 euro).
14) QUINDI FAMMI CAPIRE… È GIUSTO LO SCIOPERO? Non spetta alla politica dire se uno sciopero è giusto o ingiusto. Lo sciopero è un diritto costituzionale che va rispettato, se esercitato entro i limiti prescritti dalla legge. Poi certo, ogni lavoratore dovrà valutare la situazione con la propria testa.
La mia testa infatti mi dice che:
la rimodulazione dell’Irpef è antiprogressiva: invece di beneficiare soprattutto le fasce deboli, la curva addirittura diminuisce verso l’alto;
non aumenta sostanzialmente la quota di detrazioni per le fasce più deboli;
non aumenta la base imponibile, lasciando immutate le imposte piatte sui capitali, sui lavoratori autonomi, cedolare secca;
non è stata varata una decontribuzione strutturale per le fasce di reddito basse;
non è passato nemmeno un modesto contributo di solidarietà per i redditi alti finalizzato a contenere l’aumento delle bollette.
La mia testa mi dice che questa manovra potrebbe rilanciare (poco) i consumi di chi già si può permettere di consumare, mentre non restituisce nulla a chi non si può permettere né di consumare, né di progettare un futuro – ricordiamo che i lavoratori con contratti precari sono tutti nella fascia bassa. Tutto questo avendo a disposizione risorse eccezionali, che nei prossimi anni non arriveranno più, con 10 miliardi di sgravi alle imprese che vorranno assumere lavoratori provenienti da aziende in crisi, certo; tra queste, quelle come GKN che chiudono e delocalizzano senza che lo Stato possa metterci bocca, e continuerà a non mettercela (perchè non viene varata alcuna misura per contrastare le delocalizzazioni selvagge).
La mia testa mi dice che non andrà tutto bene, Marattin. E che uno sciopero è anzitutto un sacrificio per chi sciopera, mentre Bonomi fa il fenomeno dicendo che lui andrà in fabbrica a tirare la carretta (sottinteso, mentre gli operai vanno in gita). E che lo sciopero è un diritto costituzionale, e il modo democratico e non violento che hanno le parti deboli del conflitto sociale per far sentire il loro peso, e la loro voce. Buono sciopero a tutti.
In un primo tempo operatori e giudici avevano preso sul serio le accuse di maltrattamento che i figli avevano rivolto a entrambi i genitori. Non c’era stato un allontanamento, ma si erano avviati dei percorsi di approfondimento per capire che cosa stava succedendo in quella famiglia. Si è appurato così che i due ragazzi si erano inventati tutto per ricattare i genitori e fare tutto ciò che volevano.
Ninna-ò del babbo
Ninna nanna ninna-ò
questo babbo a chi lo do?
Se non vuol mandarmi fuori
io gli dico son dolori.
Se non vuol che esca di sera
io gli brucio la carriera.
Se contesta le mie canne
si ritrova l’auto in panne.
Se non vuol mandarmi in disco
so io dove lo spedisco.
Se m’impone di studiare
io gliela farò pagare.
Se mi stressa con la scuola
io gli taglierò la gola.
Se non chiede proprio niente
io mi sento un deficiente.
Mi sembrava un bel vantaggio
scopro che non ho il coraggio.
Di coraggio non ne ho
ninna nanna ninna-ò.
Il potere è una dimensione sempre presente nella relazione con l’altro. Il potere di convincere, di ferire, di comandare, di rifiutare. È un potere il silenzio, e qualche volta la parola. Ci sono adolescenti che scoprono di avere potere e imparano a utilizzarlo a proprio vantaggio passando su tutto e tutti… compresi i propri genitori. Ma se davvero non li controllasse nessuno, sarebbero veramente più felici?
CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, esce su Ferraraitalia il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]
Delle specialità culinarie nostrane del periodo natalizio si è detto, discusso, litigato, fra disciplinari ufficiali, familiari ricette e diversificate preparazioni. Sulla salama da sugo e sul pampepato si è discettato dell’aggiunta di questa o quella spezia, di lunga o breve stagionatura, di questa o quella variante negli ingredienti. Si son riempite pagine riguardanti i poteri afrodisiaci, le eccellenze dei sapori, la sensualità intrigante delle forme e dei profumi.
Ne hanno scritto in poesia Giampaolo Galassi, Iosè Peverati, Gigi Vincenzi e tanti altri.
Fra le versioni più gustose abbiamo scelto quelle di Alberto Goldoni.
(Ciarìn)
La salamina da sugh fraréśa
Prima ad védrat int al piat
o bèla salamina,
at sént int l’aria,
l’è al to profùm che, a curóna,
al t’zircónda come na regina.
Regina di salàm ti t’jé!
Delizia rara,
vant e arguói
dla nostra Frara.
Adès t’jé lì ch’at fum
davanti a mi,
rutundéta e grastìna,
ligàda strich da tut i vèrs,
da sóta at sóra
e anch par travèrs.
T’jé lì ch’at difendi ancora
cal tesòr ch’at gh à déntar:
al bàlsam dal tò corp,
che, come na sgnóra,
t’al fà desideràr.
An iη póss più!
At voj magnàr!
At cuć uη puchìη
par guardàrat bén, bén,
e po’ pian, pianìn…
at iηfìlz col curtèl
e at vèrź a mità.
J’òcc im sa slarga…
am tira al piηguèl…
am suda al palà…
al sugh tò luśént,
ch’at cola pri fiaηch
jè làgram d’amor
versàdi par mi.
Grazie salama! At riηgrazi col cuór,
al to sacrifìzi
t’la fat con unór.
La salamina da sugo ferrarese Prima di vederti nel piatto / o bella salamina, / ti sento nell’aria, / è il tuo profumo che, a corona, / ti circonda come una regina. / Regina dei salami tu sei! / Delizia rara, / vanto e orgoglio / della nostra Ferrara. / Adesso sei lì che fumi / davanti a me, / rotondetta e grassottella, / legata stretta da tutte le parti, / da sotto a sopra / e anche per traverso. / Sei lì che ancora difendi / quel tesoro che hai dentro: / il balsamo del tuo corpo, / che, come una signora, / lo fai desiderare. / Non ne posso più! / Voglio mangiarti! / Ti corico un pochino / per guardarti ben bene, / e poi pian, pianino… / ti infilzo col coltello / e ti apro a metà. / Gli occhi mi si spalancano… / mi viene l’acquolina… / mi suda il palato… / il tuo lucente sugo, / che ti cola sui fianchi / sono lacrime d’amore / versate per me. / Grazie salama! Ti ringrazio col cuore, / il tuo sacrificio / l’hai fatto con onore.
Al pampapàt
Al gh’à la forma d’uη capèl da pret,
senz’ala, uη po’ arbasà,
d’na cupléta tonda, tajàda a mità,
d’na téta d’ragazòla, vista d’profìl,
d’na pulénta négra, dal profùm źantìl.
L’è durtìn, tgnìz, brugnuclóś,
scur, toz e uη po’ spugnóś.
Da védral, al n’è briśa bel,
ma quand t’al śgagη, l’è n’àltar quèl.
Al dolz dla ciculàta,
spargugnàda ad sóra,
al s’imésćia piaη, piaη,
con tut quél che l’arźdóra
l’agh’à armaśdà déntar:
– na scorza d’araηz e d’limóη,
– na manà, tra màndul e pignó,
– uη masculìn d’cacào, ad cal bóη,
– canèla e garòfan, uη spizghìη,
– fruta candita, fata a pzulìη,
– zùcar, acqua, fior d’farina
e po’… fóra a ciapàr la brina.
L’è un dólz da re, l’al dgéva anch l’Estense:
“Ognór vi sia sulle nostre mense!”
Infàti, prìηzip, regìη, re e… puvrìt,
dop la salama vècia e di buη caplìt,
i magnàva, come ultim piat,
“meza turnadùra” ad pampapàt.
Il pampepato Ha la forma d’un cappello da prete, / senza tesa, un po’ basso, / come una cupola tonda, tagliata a metà, / quasi una tetta di ragazza, di profilo, / come una polenta scura, dal gentile profumo. / È duretto, tenace, bernoccoloso, / scuro, tozzo e un po’ spugnoso. / A vederlo, non è bello, / ma quando lo mastichi, è un’altra cosa. / Il dolce della cioccolata, / sparsa sopra, / si mescola pian piano, / con tutto quello che la massaia / gli ha impastato dentro: / una scorza d’arancia e limone, / un pugno, tra mandorle e pinoli, / un mestolino di cacao, di quello buono, / cannella e garofano, un pizzico, / frutta candita, a pezzetti, / zucchero, acqua, fior di farina / e poi… all’aperto a prender la brina. / È un dolce da re, lo diceva anche l’Estense: / “Ognór vi sia sulle nostre mense!” / Infatti prìncipi, regine, re e… poveretti, / dopo la salama vecchia e dei buoni cappelletti, / mangiavano, come ultimo piatto, / “mezza tornatura” di pampepato.
Tratto da:
Marco Chiarini e Arianna Chendi (a cura di), Scrìvar, lèzar, rezzitàr, testi di cultura dialettale ferrarese, Ferrara, Centro Stampa Comunale, 1997.
Alberto Goldoni (Ferrara 1920 – 1990)
Inizia a recitare già alla scuola elementare, frequentando poi per 50 anni filodrammatiche come attore e direttore artistico, anche in rassegne nazionali. Conduttore dal 1978 per “Telemondo” della rubrica Nu con ti – Ti con nu, intervista autori in lingua e in dialetto. Presentatore di concerti lirici. Partecipa a diverse giurie di concorsi poetici.
Negli anni ’80 cura, prima con il “FE” poi con “Ferrara Sette” la rubrica in vernacolo Un cantón par nu, pubblicando poesie dei vari poeti dialettali locali. Apprezzato autore egli stesso di poesie in lingua e in dialetto. Socio fondatore de “Al Tréb dal tridèl”, cenacolo dialettale ferrarese.
Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]
In Italia, forse più che in altri paesi europei, si stanno mettendo grandi risorse per realizzare la ormai citatissima “transizione energetica”.
In realtà, siamo di fronte a una grande illusione, o meglio a un grande inganno. Quando il nostro governo – purtroppo con l’appoggio di alcune storiche associazioni ambientaliste, a cominciare purtroppo da Legambiente – vede la risoluzione di tutti i problemi del riscaldamento globale nell’ incentivazione delle rinnovabili (eolico e fotovoltaico in primis) si sta sbagliando di grosso.
Come sostengono i giovani che hanno sfilato prima a Milano prima, poi a Roma, infine a Glasgow nel novembre scorso (più di 100.000 persone) per protestare contro l’inazione dei politici a livello mondiale e reclamare la Giustizia Climatica, non basta abbandonare le energie fossili e cambiare il sistema di produzione dell’energia. Bisogna cambiare il nostro modello di sviluppo, praticando un taglio netto ai consumi e abbattere l’emissione di CO2 grazie all’azione di assorbimento da parte degli alberi, gli unici in grado di convertirla con la fotosintesi. Se non imbocchiamo questa strada non sarà possibile invertire la rotta.
Il fenomeno del riscaldamento globale non dipende dai punti di vista, ma avviene naturalmente, indotto dall’accumulo di gas climalteranti nell’atmosfera. Pensare di curare questo male unicamente con la totale sostituzione del fossile (in 30 o quarant’anni) con fonti di energia cosiddetta ‘pulita’ o ‘rinnovabile’, è una vana speranza. L’ennesimo inganno delle lobbies energetiche.
Il movimento di dissenso contro gli impianti di rinnovabili – che dice no all’eolico industriale selvaggio e al fotovoltaico nei terreni agricoli – si è diffuso nel nostro Paese soprattutto nel Sud e nel Centro Italia, là dove i danni ambientali al territorio e al paesaggio sono più evidenti e devastanti.
Purtroppo si tratta di un movimento ancora scarsamente rappresentato nelle grandi manifestazioni pubbliche dove si contano le migliaia di partecipanti. Credo che le ragioni siano due. La prima: tra molti “ambientalisti” e tra la popolazione in generale, e in particolare in quella dei centri urbani, non si è ancora sviluppata una coscienza critica informata e documentata sugli impatti negativi che derivano dalla realizzazione di questi impianti, delle vere e proprie istallazioni industriali. La seconda: che i territori dove sorgono i nuovi impianti sono i luoghi periferici e poco popolati. Gli stessi luoghi dove avvengono gli approvvigionamenti delle materie prime (le miniere di terre rare) e dei componenti indispensabili al loro funzionamento (le fatidiche batterie, senza le quali non si può stoccare l’energia prodotta).
Servirebbe prima di tutto chiamare le cose con il loro vero nome. Parliamo quindi di impianti eolici e fotovoltaiciindustriali, perché tali sono, e abbandonare le false diciture e gli eufemismi ingannevoli. Troppo comodo, infatti, usare parole al miele come “parchi eolici” o “agrivoltaico”. Sappiamo bene come le parole influenzino l’immaginario e il pensiero comune, come possano trasformare un oggetto da indesiderato a ricercato. Se poi pensiamo che Legambiente se n’è uscita con un libro; “Parchi nel Vento :guida turistica ai parchi eolici”[Vedi qui], per indirizzare il turismo green verso l’apprezzamento del sacrificio di sangue dei paesaggi italiani per la salvezza dell’umanità dal riscaldamento globale, c’è da perdere ogni fiducia nella specie Homo Sapiens.
Siamo abituati a guardare gli impianti voltaici da lontano: guidando in autostrada, nel lontano orizzonte, li scambiamo per graziosi mulini a vento. Per capire, bisogna avvicinarsi. E conoscere qualche numero. La gran parte dei progetti di sfruttamento dell’energia del vento prevede oggi la realizzazione di grandi impianti, costituiti da un minimo di 5/10 fino a decine, talvolta centinaia, di pale (vedi gli impianti in Calabria, Basilicata, Sardegna, Puglia eccetera). Impianti di enormi dimensioni, veri e propri ecomostri. Attualmente le cosiddette ‘torri’ (di cemento armato) superano anche i 200 metri di altezza. Senza contare la profondità dello scavo per la realizzare la base in calcestruzzo, che arriva anche a 30 metri di profondità e ad occupare una superficie grande come un campo di calcio. I numeri variano in funzione della tipologia e dell’altezza della pala e delle caratteristiche del sottosuolo dove si va a erigerla. Più grandi sono le pale maggiore è la quantità di energia prodotta e, di conseguenza, il costo unitario per ogni watt prodotto diminuisce. Quindi l’interesse delle imprese è quello di realizzare pale sempre più grandi che, purtroppo, sono anche maggiormente impattanti sull’ambiente. Lo stesso si può dire del fotovoltaico a terra.
Il problema della scelta del sito dove istallare le pale segue naturalmente i criteri e gli obbiettivi dell’approccio industriale: minor costi e più redditività, quindi maggiori profitti. Numero uno: trovare un luogo facilmente raggiungibile con mezzi pesanti e molto ingombranti. Numero due: scegliere un luogo dove il vento soffi per la maggior parte dell’anno e la cui velocità sia sufficientemente alta, ma mai eccessiva, altrimenti il sistema si blocca.
Peccato che in Italia, durante l’estate, abbiamo calma di vento praticamente dappertutto. Ma anche le condizioni atmosferiche invernali del luogo prescelto non devono essere estreme, per non interferire con il funzionamento delle pale.
Per il resto (sempre per la logica industriale sopra citata) non si va tanto per il sottile.
Non si guarda se il luogo prescelto è situato in vicinanza di abitazioni. Non si pensa ai mammiferi che vi abitano, agli uccelli di passo o che ci nidificano stabilmente, agli alberi e alla vegetazione che dovrà essere sacrificata per realizzare l’impianto con tutti gli annessi e connessi per il trasferimento dell’energia (centraline, cavi ecc..). Non ci si ferma davanti agli sbancamenti, milioni di metri cubi di terra e roccia per creare le nuove strade necessarie per raggiungere i siti, strade che dovranno sopportare automezzi carichi di tronconi di cemento prefabbricati pesanti centinaia di tonnellate.
L’ambiente? Il paesaggio? I valligiani e i contadini? Tutti sacrificati sull’altare della grande 2svolta ecologica.
Sappiamo degli impegni dei governi – vedremo se saranno rispettati – per ridurre le emissioni di CO2 e rispondere al velocissimo aumento della temperatura terrestre che preoccupa non poco gli scienziati e l’opinione pubblica. Nulla si dice, però, delle pressioni esercitate dalle imprese interessate alla realizzazione degli impianti di rinnovabili, allettate dai sicuri profitti garantiti dagli incentivi pubblici.
Grazie a questi incentivi, dal 2005 in avanti, i grandi produttori di energia da fonti rinnovabili hanno goduto di guadagni costanti e sicuri, scaricando i costi di questa operazione sulle bollette dei consumatori.
E così, mentre si elargiscono lauti compensi agli industriali poco o nulla viene detto e fatto per attivare un percorso di risparmio energetico veramente efficace. Per raggiungere i nuovi obiettivi della UE, Il nuovo PNIEC, cioè Il ministro Cingolani prevede al 2030 la produzione di 27 GW da fonti programmabili (idroelettrico, biomasse e geotermico) e ben 87 GW da fonti non programmabili (eolico e fotovoltaico) per un totale di 114 GW da fonti sostenibili. Si tratta quindi di un+ 58 GW da rinnovabili non programmabili (eolico e fotovoltaico) in nove anni [Qui].
Gianluigi Ciamarra, Italia Nostra Campobasso, ha fatto un po’ di calcoli [Vedi qui]. Per l’attuazione della politica green allo studio del Governo è previsto un importante sacrificio non solo economico, ma soprattutto ambientale e culturale a carico nostro e delle future generazioni. Raggiungere entro il 2030 una produzione di ben 70 miliardi di Watt, triplicando in 9 anni la potenza installata di eolico e fotovoltaico agrario, significherebbe tappezzare 5.000 km di crinali appenninici con altissime macchine eoliche – le macchine di nuova generazione misurano 260 metri di altezza, pari ad un grattacielo di 80 piani – e ricoprire con estesi impianti solari oltre 200.000 ettari di terreni sottraendoli all’ agricoltura.
Come già accennato, accade che in Italia siano le regioni del Centro e del Sud – le aree meno industrializzate e meno popolate e quindi anche meno soggette alla produzione di gas climalteranti – a pagare per le maggiori quote di CO2 prodotte nelle regioni del Nord e nelle aree più industrializzate e popolate. E’ nelle prime (Sardegna, Calabria, Puglia, Sicilia, Molise, Basilicata, la Tuscia nel Lazio e gli Appennini in Emilia e Toscana) infatti, che sono stati autorizzati e realizzati la maggior parte degli impianti eolici, imponenti, invasivi del territorio e deleteri per l’ambiente e il paesaggio.
Dalle scelte di politica energetica dei nostri governi, passati e presenti, sembra proprio che il futuro delle aree interne del Centro e Sud Italia debba passare dalla realizzazione di centinaia di nuovi impianti di rinnovabili, che non creano occupazione e allontanano i sogni di sviluppo turistico e culturale di bellissimi territori, prima incontaminati, poi trasformati, ancora una volta, in terre di rapina (land grabbing).
Per il fotovoltaico accade più o meno la stessa cosa. Centinaia di ettari di terreno agricolo e pascolo sono sottratti alla produzione del settore primario per essere sacrificati sull’altare dell’energia pulita. Il suolo non vive più come tale, ma solo quale supporto per i pannelli e le infrastrutture necessarie al loro funzionamento. Tutto ciò va ad incidere profondamente sull’equilibrio di un territorio, trasformandolo in un “non luogo”, espropriandolo della sua specificità ed unicità paesaggistica.
Tra l’altro, dobbiamo constatare che, nonostante l’istallazione di decine e centinaia di nuovi impianti di rinnovabili, non è stato ancora chiuso nessun impianto a fonti fossili, a cominciare dal carbone Lo dicono i numeri. Scriveva Enzo di Giulio il 6 settembre scorso sulla rivista online Energia: “Nei primi sei mesi del 2021 le emissioni (di CO2 n.d.r.) generate dal settore elettrico mondiale sono aumentate del 12% si legge nel nuovo Global Electricity Review che Ember (think tank indipendente sul clima e l’energia, focalizzato sull’accelerazione della transizione dell’elettricità globale dal carbone al pulito n.d.r.) lancia con lo sconfortante slogan “Building back badly” (Ricostruire male). Un dato che fa vacillare anche il secondo pilastro della strategia globale: non solo l’elettricità pulita continua a non penetrare nei consumi finali, ma ora le rinnovabili non riescono neanche a decarbonizzarla” [qui].
La domanda globale di elettricità, infatti, da gennaio a giugno 2021 è cresciuta del 5% rispetto ai mesi pre-pandemia, superando abbondantemente la crescita dell’elettricità pulita, che ha potuto soddisfare solo un 57% della domanda totale, il restante 43% è stato coperto da un aumento dell’energia da carbone ad alta intensità di emissioni.
Da qui si comprende come la crescita economica imponga un continuo aumento di consumi energetici; anche se ci illudono con le nuove auto a elettricità, con la realizzazione di migliaia di pale eoliche e centinaia di ettari di pannelli a energia solare, la crescita del PIL impone maggiori consumi di energia, in una rincorsa senza tregua.
Alla fine, dovremo farci una domanda, molto scomoda: ma siamo proprio sicuri che, quando avremo ricoperto le regioni del Centro e del Sud Italia di pannelli solari e di pale eoliche, avremo davvero diminuito le emissioni di gas serra? O non avremo inutilmente deturpato e distrutto per sempre gran parte del nostro patrimonio paesaggistico e naturale? Complimenti!
Il 22 gennaio 2019 la Francia aveva firmato un trattato bilaterale di cooperazione con la Germania ad Aquisgrana, accordo che aveva voluto segnalare ai partner europei chi erano quelli che contano davvero. Oggi l’Italia, con il Patto del Quirinale stipulato con la Francia, si sente un po’ più vicina a quelli forti, meno isolata nel caos di interessi particolari mai sopiti e interni all’Unione Europea.
Un Trattato firmato da Macron in concomitanza dello smacco subito nell’indo-pacifico, dove ha dovuto rinunciare alla vendita dei suoi sommergibili, che si rivelerà di sicuro a trazione francese, visto che tra i due la Francia è sicuramente il Paese con una maggiore esperienza geopolitica e con una visione del futuro incentrata su suoi interessi nazionali a renderla più vicina ai concetti di impero e di potenza.
E su questa strada la Francia vuole disegnare gli assetti europei sui propri scenari geopolitici anche all’interno dell’Ue, ridimensionando la Germania di cui però ha bisogno finanziariamente in previsione della costituzione di un esercito europeo che vede a guida francese e pagato dai tedeschi. L’Italia ha bisogno, non potendo contare a vita solo su Draghi, di tutele per assicurarsi maggiore empatia quando sarà chiamata dai soliti rigoristi alla restituzione dei soldi del PNRR. Soldi di cui se ne poteva fare ovviamente a meno, ma siccome invece li abbiamo voluti, questo ci legherà ancora di più alle distorsioni dell’euro, alle garanzie tedesche sul debito comune e tendenzialmente ci prospetta un probabile ritorno alle ricette “lacrime e sangue” di montiana memoria già dal 2023.
Grazie alle politiche pandemiche espansionistiche dell’era Draghi abbiamo visto deficit stellari e con questi, insieme al resto del mondo che in questi ultimi due anni ha seguito lo stesso programma, abbiamo evitato di crollare in una recessione simile a quella del post Lehman Brothers, ma questi deficit hanno fatto alzare a noi il nostro debito pubblico e a chi già comincia a chiedere un ritorno al rispetto delle vecchie regole la pressione.
Per fortuna nostra però anche la Francia non ha nessuna voglia di tornare all’austerity e ai nordici parametri suicidi in materia di deficit e debito, e quindi questo avvicinamento ci autorizza a sperare in una sua intercessione quando ci sarà da lottare con i falchi europei. Da sottolineare che a livello di conti (nonostante il suo maggior credito internazionale e il fatto che nessuno ha fatto con essa la voce grossa come con l’Italia e i paesi mediterranei) Parigi è messa peggio di noi, sia per i deficit da bilancia commerciale, quindi nei rapporti finanziari con l’estero, che per quelli sul bilancio interno primario.
Quindi con questo accordo la Francia segue i suoi progetti di accerchiamento della Germania, l’Italia si avvicina ad una nazione con più voce e credibilità in Europa per guardare con meno apprensione al richiamo agli equilibri di bilancio.
In Europa ci sono il gruppo dei falchi, quelli delle colombe, quelli che vogliono più migranti, quelli che non ne vogliono, Visegrad, i mediterranei, quelli che vendono e quelli che comprano quindi quelli con i debiti e quelli con i crediti. Di sicuro ci sono due paesi forti: la Francia e la Germania, e tanti paesi che arrancano costretti a modelli di sviluppo teutonici e quindi per loro innaturali, ci sono paesi con diverse visioni di democrazia e sui diritti umani, c’è chi ha interesse ad espandersi ad Est (Germania) e chi non dimentica il suo passato imperiale (Francia). Insomma siamo fratelli diversi, quindi c’è bisogno di tutelarsi dal troppo amore e allora ci affidiamo a qualche trattato bilaterale. Alcuni si sentono più vicini di altri, tutti fingono che le cose stiano andando per il meglio.
La Francia ha visione, ha obiettivi nazionali mai sopiti, sa stare al mondo e questo ci dovrebbe intimorire ma oggi un avvicinamento ci fa più comodo di ieri, del resto facciamo tutti parte del vero impero e in quell’ambito resteremo, quello americano, e sarebbe impossibile ad oggi pensarne un altro. Ma all’interno dell’impero americano esistono degli spazi di manovra che potrebbero essere sfruttati, qualcuno lo sa e cerca di crearsi il suo spazio vitale mentre altri fanno finta per rimanere a galla.
Intorno a noi c’è una catastrofe geopolitica. Il mediterraneo sta diventando un problema che qualcuno dovrà gestire e sicuramente questo qualcuno avrebbe la benedizione americana, visto gli impegni per contenere la Cina in cui loro sono impegnati dall’altra parte del mondo. Il Paese candidato naturalmente per storia e posizione geografica sarebbe stato l’Italia, ma ovviamente non ne siamo stati capaci per chiara carenza di visione politica estera e di difesa. In sintesi, siamo stati cacciati dalla Libia in primis grazie ai francesi e adesso cerchiamo di legarci a loro per riprendere un controllo che da soli non riusciamo nemmeno ad immaginare.
Washington per questioni mediterranee e dintorni si rivolge oramai ai turchi (loro c’erano anche a Doha in assenza di invitati europei), superando tutte le perplessità che un personaggio come Erdogan può suscitare, per mancanza di altro. I turchi stanno ripercorrendo le strade del fu impero ottomano nei Balcani partendo dall’Albania dove l’Italia dovrebbe tendenzialmente e geopoliticamente avere una presenza maggiore. Ankara ha stipulato con Tirana un accordo di cooperazione militare a inizio 2020 che è entrato in vigore ad agosto dello stesso anno. Il parlamento albanese ha poi approvato lo stanziamento dei fondi necessari all’acquisto dei droni turchi Bayraktar Tb2.
È presente in Africa settentrionale a vario titolo, ed è oramai una presenza consolidata in Libia, dove ci sono interessi italiani quanto francesi, quindi europei, mentre spadroneggia nel Mediterraneo minacciando se capita le navi italiane quanto quelle francesi (il 10 giugno una nave turca carica di armi diretta in Libia ha minacciato di cannoneggiare fregate francesi ma già aveva violato l’embargo il 28 maggio, quando una nave mercantile partita da Istanbul attraccò indisturbata nel porto di Misurata, carica di carri armati M-60). Ovviamente se per l’Italia essere messa all’angolo non è un problema per la Francia il discorso cambia.
Insomma l’Italia non è in grado di occuparsi da sola dei suoi stessi interessi nel cortile di casa (Mediterraneo, Libia, Balcani, rotte migranti e nord Africa) per ragioni di miopia politica, per mancanza di visione geopolitica e di individuazione dei propri interessi nazionali anche all’interno dello spazio di controllo americano. Sa perfettamente che non sarà in grado di tutelarsi da sola dalle imminenti imposizioni europee di riduzione di spesa (se sarà obbligata al ritorno agli equilibri di bilancio e a surplus sul bilancio primario … addio alle crescite del 6%), cosa le resta da fare?
Ci giochiamo la carta francese, con la speranza che l’abbraccio non sia troppo stretto e che non diventi mortale.
Ecco le parole indecenti (e memorabili) del direttore di Repubblica Maurizio Molinari, ospite di Lucia Annunziata a Mezz’ora in più su Rai 3 dello scorso 10 ottobre.“I no tav sono un’organizzazione violenta, quanto resta del terrorismo italiano degli anni settanta. Aggrediscono sistematicamente le istituzioni, la polizia, anche i giornali, minacciano giornalisti a Torino e la cosa forse più grave che sono in gran parte italiani che si nutrono anche di volontari che arrivano da Grecia, Germania e a volte dalla Francia…”.
Ma Molinari prosegue: “Per un torinese ‘No Tav’ significa sicuramente terrorista metropolitano, chiunque vive a Torino ha questa accezione…”[Qui l’estratto della trasmissione].
Dalla Val Susa la risposta non si è fatta attendere molto. Quei ‘terroristi’ dei No Tav hanno organizzato una simpatica iniziativa dal titolo “Una pioggia di Querele su Molinari”. Personalmente, spero che le querele vadano in porto. Frasi come quelle di Molinari si possono sopportare nella piazza del mercato o in qualche bar Sport: infatti la calunnia è spesso figlia dell’ignoranza. Un giornalista top, il direttore di un grande giornale, non ha però il diritto di essere ignorante.
Ma perché Molinari, che non né stupido né ignorante, calunnia i No Tav? Perché arriva ad arruolarli nelle Brigate Rosse? Eppure ha lavorato a Torino per parecchi anni. Sa bene che i No Tav sono un movimento popolare e democratico, con decine di migliaia di aderenti e militanti, con un grande radicamento sul territorio. E sa perfettamente che è un vasto movimento che da 30 anni oppone a una Grande Opera costosissima, basata su un progetto antiquato, criticata da più parti (e con pareri autorevoli) come inutile e dannosa, con un sicuro quanto tragico impatto ambientale ed antropico.Che cos’hanno mai di tanto pericoloso i militanti contro l’Alta Velocità?
Per capire meglio questo accanimento, questo marchio d’infamia, non solo della Repubblica di Molinari ma di tutta tutta l’informazione mainstream del nostro Paese, occorre andare indietro di un paio d’anni.
Breve storia di un giornale che cambia padrone
Il 23 aprile 2020, John Elkann, tramite una società della famiglia Agnelli, diventa proprietario del 60,9% de La Repubblica, numero 2 dei quotidiani italiani. Lo stesso 23 aprile, la nuova proprietà – passando sulla testa dei giornalisti e collaboratori, compresi i rappresentanti sindacali – dà il benservito al vecchio direttore e nomina direttore Maurizio Molinari. Il quale è da tempo in rampa di lancio, essendo già in forza alla premiata ditta, in qualità di direttore de La Stampa (numero 3 dei quotidiani italiani) da sempre proprietà della famiglia. Proprio come la Juventus.
Fatto sta che in questi due anni la linea di Repubblica è cambiata radicalmente: siamo ormai lontanissimi dal giornale fondato da Eugenio Scalfari. Ora la “voce del padrone” deve farsi sentire, forte e chiaro.
Solo un particolare, ma molto rilevatore: fino all’ultimo cambio di proprietà, alla domenica, in prima pagina, c’era solo l’editoriale di Eugenio Scalfari, solo lui, anche se il vegliardo era ormai perso nel suo monologo narcisistico. Per i giornalisti che, da Ezio De Mauro in avanti, gli erano succeduti alla direzione, la prima pagina domenicale rimaneva off limits: il loro editoriale appariva il lunedì.
L’era Agnelli/Molinari ha imposto un nuovo stile. L’editoriale di Maurizio Molinari ha subito conquistato la prima pagina. Rimarcando una precisa linea editoriale, schierato senza se e senza ma con il falco Bonomi, l’infallibile Super Mario, il primato delle Grandi Opere, l’odio contro i no tav, la demonizzazione dei 6 milioni di no green pass, l’endorsement sul ritorno al nucleare proposto da Cingolani.
Italia maglia nera
Ma l’operazione lampo di John Elkann, e la conseguente eclissi di Repubblica, è stato tutt’altro che un fulmine a ciel sereno. È invece l’ultimo, definitivo tassello che porta a compimento un processo di concentrazione editoriale italiana, che non ha paragoni in qualsiasi paese occidentale. Basta fare il conto. Famiglia Agnelli: La Stampa e La Repubblica, Gazzetta dello Sport (numero 4 tra i giornali Italiani). Urbano Cairo:Corriere della sera (numero 1 dei quotidiani italiani), Rcs Media Group e i 3 canali di La 7. Silvio Berlusconi: Mediaset (con ascolti superiori alla Rai), Mondadori e il quotidiano di famiglia Il Giornale. Infine Andrea Riffeser Monti, attualmente presidente presidente della Fieg (la Confindustria dei giornali, ndr), proprietario de Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno.
Questi 4 moschettieri hanno oggi in mano l’informazione. Quella scritta: bisogna infatti aggiungere almeno un centinaio di periodici settimanali (da L’Espresso, a Panorama, fino ad arrivare a Gioia, Gente, Di Più, Donna Moderna, Sorrisi e canzoni Tv…). E quella televisiva: 9 canali su 9, più una bella presenza nelle gerarchie Rai. Non mancano naturalmente i network radiofonici. E una costellazione di case editrici, più meno illustri, Einaudi in primis.
Ci sarebbe un altro grande giornale in Italia, un quotidiano molto ben fatto, ma si chiama Il Sole 24 ore, ed è proprietà di Confindustria. Quindi suona la medesima musica. Anzi, il più delle volte dirige il coro di tutta la stampa mainstream. Cioè governativa. Cioè padronale. Cioè senza libertà: libertà di informazione, libertà d’inchiesta, libertà di opinione.
Non c’è quindi da stupirsi se l’Italia risulta a livello mondiale al 41° posto per la Libertà di Stampa [Vedi qui].Dietro Norvegia e Finlandia (1 e 2 posto), dietro a Portogallo (12), Germania (13), Irlanda (15). Ma anche dietro Uruguay (19), Namibia (23), Lettonia (24), Ghana (27), Sud Africa (31), Burkina Faso (36)…
Dare spazio a ogni voce, coltivare il dubbio
Dentro la grande gabbia di una informazione controllata da poche e potenti mani vivono e lavorano diverse centinaia di giornalisti. E molti sono bravi giornalisti. Possono scrivere liberamente del Festival del Cinema di Venezia, dell’ultimo libro di Bruno Vespa o Fabio Volo, dar conto delle parole del Papa, indignarsi per l’ennesimo femminicidio. Possono scrivere di tante cose. Non di tutto. Possono intervistare e dare la parola a tanti. Non a tutti. Possono dar spazio a tante opinioni. Non a tutte. Su alcuni argomenti esiste una narrazione ufficiale a cui attenersi. Non c’entra con il segreto di stato. Semplicemente: di alcune cose non si parla. Non si chiama censura, basta e avanza l’autocensura.
Da tempo, ad esempio, la nostra piccola testata denuncia la generale disinformazione sulle ragioni e gli obiettivi del movimento No Tav. Nella narrazione dei grandi giornali e dei canali televisivi chi si oppone alle Grandi Opere e ai suoi effetti devastanti sul tessuto sociale e sull’ambiente è dipinto come un anarchico, un violento, un estremista, un terrorista.
Poco importa se questo movimento – in Val Susa come in tante parti d’Italia – interessi decine di migliaia di persone, intere comunità con Sindaci in testa, e tecnici, geologi, urbanisti, economisti, professori universitari. Poco importa che il movimento No Tav abbia molte volte dimostrato non solo il devastante impatto ambientale e antropico delle Grandi Opere, ma anche la loro inutilità e il loro costo folle, buono solo a saziare gli appetiti dei soliti grandi player economici. Non basta che il movimento stesso abbia prodotto studi scientifici e progetti alternativi, ispirati al rispetto e non alla rapina del territorio e delle comunità che lo abitano.
Per il governo – ora più che mai che, assieme alla pandemia, è arrivata la prima pioggia di miliardi del PNNR – il primo grande obbiettivo è ‘riaprire i cantieri’, e riaprirli in fretta. Accelerare, assegnare gli appalti eliminando i lacci e lacciuoli delle norme anticorruzione.
In questo quadro, il movimento No Tav rappresenta una fastidiosa pietruzza, un intralcio da levare dal sentiero, con le buone o con le cattive… E per cattive, leggasi: le cariche, le botte, gli arresti. Di cui, seguendo il copione stabilito, si parla e si scrive pochissimo.
Che il governo Draghi, un inedito incrocio tra un governo di Unità Nazionale e un governo dell’Alta finanza, si muova secondo questa direttrice è abbastanza scontato. Meno scontata è che i media italiani si siano piegati a questa direttiva senza un lamento. Ripetendo il mantra delle Grandi Opere fattore di progresso e soprattutto oscurando completamente la voce dei movimenti antagonisti.
Può anche darsi che i No Tav non abbiano tutte le ragioni dalla loro parte. Ma una informazione (e un giornalista) può dirsi libera solo se sceglie il dubbio come stella polare. Solo se ascolta la voce e le ragioni di tutti. Solo se ricerca e riporta le fonti e non si basa sui sentito dire o sulle veline dei padroni dei giornali o delle segreterie di partito.
Altrimenti rimangono gli insulti e le calunnie come quelle del direttore Maurizio Molinari. Ma Molinari non è un giornalista.
Leggendo la stampa mainstream sembra che l’unico elemento di conflitto in corso nel Paese, sia quello che oppone i cosiddetti novax al resto della popolazione, in gran parte vaccinata.
Ci sarebbe molto da dire al riguardo, a partire dal fatto di dare una rappresentazione – mi sento di dire, probabilmente molto interessata – di due schieramenti omogenei, l’un contro l’altro armati, ignorando volutamene che, per fortuna, la discussione è ben più articolata.
Per fare solo un esempio, a me pare deleterio mettere nello stesso mucchio i detrattori del vaccino e del green pass, ignorando che, al loro interno, convivono ispirazioni e intendimenti ben diversi, Da chi vorrebbe piegare questa posizione ad un vero e proprio disegno eversivo, come Forza Nuova e soggetti simili (a proposito, dov’è andata a finire la riflessione del governo rispetto alla possibilità di sciogliere queste formazioni?), a chi nega in radice l’ esistenza e gli effetti della pandemia fino a chi, invece, è mosso da paure e titubanze rispetto al fatto di procedere alla vaccinazione.
Ma, al di là di questi ragionamenti, che avrebbero bisogno di una riflessione specifica, ciò che a me appare sempre più chiaro è che questa contrapposizione è agita anche come un “arma di distrazione di massa”. E’ utile cioè a chi vuole stendere una cortina di silenzio rispetto alle scelte che si stanno compiendo in materia di politica economica e sociale, di definizione del nuovo modello di società post-pandemia.
Intendiamoci: non si può sottovalutare quanto sta producendo la persistenza della pandemia, né avere una visione complottistica rispetto alla produzione di quella contrapposizione. Non solo perché essa è al di fuori delle mie chiavi di lettura, ma soprattutto perché non penso che esistano disegni infallibili, già preordinati e destinati a realizzarsi nel momento in cui vengono concepiti. Per fortuna, la storia è un po’ più complessa e non può che tenere conto delle varie forze e soggetti che sono in campo.
Ciò non toglie che l’idea che si stia provando, da parte delle classi dominanti, a far passare sotto silenzio le scelte rilevanti, di sistema che si stanno tentando di affermare nel costruire la ‘nuova normalità’ dopo o nella prosecuzione della pandemia, abbia una seria consistenza.
Provo a mettere in fila alcuni fatti di rilievo in proposito, di cui si parla troppo poco:
in primo luogo, a fronte della propaganda ufficiale per cui saremmo in presenza di una nuova sorta di boom economico testimoniato dalla forte crescita del PIL di quest’anno, superiore al + 6%, l’occupazione non è ancora tornata ai livelli pre Covid. Rispetto, infatti, al febbraio 2020, mancano all’appello ancora 265.000 posti di lavoro. Inoltre, i nuovi posti di lavoro creati duranti la pandemia sono in grandissima parte contratti a termine: su 502.000 nuovi occupati nel lavoro dipendente nel periodo luglio 2021 / luglio 2020 ben 377.000 sono a tempo determinato, pari al 75%!
Proseguono, peraltro, le crisi aziendali e occupazionali che sono, prima di tutto, il frutto delle delocalizzazioni messe in campo da grandi multinazionali o fondi di investimento. Aaccanto alla situazione emblematica di GKN e a quelle già note di Whirpool e Giachetti, ogni giorno la lista si allunga, da ultimo con la Saga Coffee nell’Appennino bolognese, senza che il governo si decida ad intervenire in modo organico, con una legge efficace in materia. Si preferisce, invece, affrontarle come singole vicende, da concludere con un po’ di ammortizzatori sociali e incentivi monetari ai lavoratori, perché accettino di uscire dall’attività produttiva.
Il punto è che il governo Draghi continua ad avere un approccio per cui il mercato non solo regola l’economia, ma, nonostante le evidenze note da anni, rappresenta la soluzione di tutti i problemi.
Da quest’ispirazione si dipana tutto il PNRR, dove il pur rilevante intervento di risorse pubbliche è tutto concepito per creare il mercato in nuovi settori (digitalizzazione e economia “verde”) o per sostenerlo in quelli più tradizionali. La stessa logica, come ha bene scritto Marco Bersani anche su questo giornale [Vedi qui]informa tutto il nuovo disegno di legge sulla concorrenza, che riapre la strada a forti processi di privatizzazione dei servizi pubblici locali, a partire da quello idrico.
Con l’aggravante che diversi di questi servizi operano in un regime di monopolio naturale, per cui, in realtà, si favorisce unicamente il rafforzamento di oligopoli formati da grandi soggetti privati (alla faccia della concorrenza!).
Oppure, per stare alle questioni di più stretta attualità, è la stessa ispirazione che guida il governo sulla questione TIM. A fronte dell’interesse del Fondo speculativo KKR per rilevare TIM, appartenente al novero dei soggetti specializzati nel fare ‘spezzatino’ delle aziende e, comunque, orientati unicamente ad alti rendimenti economici, il governo non riesce a dire altro se non che “l’interesse di questi investitori a fare investimenti in importanti aziende italiane è una notizia positiva per il Paese. Se questo dovesse concretizzarsi, sarà in primo luogo il mercato a valutare la solidità del progetto”.
Naturalmente si tace che stiamo parlando di un settore strategico, quello della telefonia e delle reti che la sostengono, a partire dalla fibra ottica, e ci si limita a osservare che “seguirà con attenzione gli sviluppi della manifestazione di interesse e valuterà attentamente, anche riguardo all’esercizio delle proprie prerogative, i progetti che interessino l’infrastruttura”.
In quest’orgia di smisurato ottimismo sulle virtù del mercato che, peraltro, denota un’incapacità delle ‘classi dirigenti’ di volere o riuscire a pensare in termini adeguati ai problemi che stanno di fronte a noi, non potevano essere risparmiati anche i pilastri del sistema di welfare: sanità e scuola.
Sulla prima, sempre il ddl concorrenza, prevedendo di ricorrere alle gare per l’accreditamento delle strutture sanitarie, apre la strada all’estensione del modello lombardo pubblico-privato, con un forte ruolo di quest’ultimo, a tutto il Paese. Proprio come se la vicenda pandemica non avesse insegnato proprio nulla.
Sulla scuola, oltre alla riproposizione del modello aziendalistico, anche se si tratta di un’indagine demoscopica e quindi va presa con la dovuta avvedutezza, desta seria preoccupazione quanto rilevato recentemente dall’Istituto Demopolis, secondo il quale, nella percezione di 2 cittadini su 3, nell’ultimo biennio è cresciuta la povertà educativa, facendo aumentare le disuguaglianze tra i minori ed estremizzando le fragilità dei più piccoli.
Un risultato in linea con quanto è successo relativamente alla povertà economica, come certificato dall’Istat che ha verificato che nel 2020 il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è arrivato a ben il 9,4% rispetto al 7,7% del 2019.
E questo mentre nel 2021 il monte utile delle aziende quotate alla Borsa di Milano ha raggiunto la soglia più alta nella sua storia: non solo un balzo dei profitti di circa l’80% nei primi 9 mesi di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2020, ma anche del 12% del record precedente risalente al 2019.
Si è lungamente parlato della pandemia come di un’occasione per costruire un nuovo modello di sviluppo, più inclusivo, solidale e capace di non lasciare indietro nessuno. La realtà ci consegna, invece, una situazione del tutto diversa, quella di una società più diseguale, povera e anche maggiormente divisa e rancorosa.
Sarà bene prendere consapevolezza di tutto ciò e tornare ad esercitare anche un sano conflitto sulle scelte di fondo che disegnano il futuro del modello sociale e produttivo.
C’era una volta, nel Paese della Nebbia, un Re di nome Cinzione.
In realtà, lui era il vice di un Re chiamato Fettorio ma in quel posto, nonostante la nebbia confondesse la gente, tutti avevano capito che chi aveva il potere era Re Cinzione e non Re Fettorio.
Molti sudditi amavano così tanto Re Cinzione che, per loro, era come avere un Re Dentore.
Altri invece lo detestavano talmente che lo avrebbero visto bene con il nome di Re Bibbia.
Re Cinzione aveva due passioni: la prima erano i cani.
Ne aveva davvero tanti: dei boxer, dei pastori, tanti bovari e diversi mastini neri. Gli unici cani che teneva lontani perché non gli piacevano erano i barboni. Il suo cane preferito era un alan che lui aveva chiamato Can Cello.
Lo aveva fatto in onore della sua seconda passione: le cancellate.
Infatti a Re Cinzione piaceva mettere cancelli, cancellate, recinzioni e barriere ovunque poteva: nei parchi, nei giardini, nelle piazze, nelle vie, nelle strade e anche nelle valli vicino al mare.
Lui voleva che, nei posti dove ci andavano tutti, ci andassero solo quei pochi che erano nati nel Paese della Nebbia. Ma soprattutto non voleva che ci andassero i forestieri che venivano dal Paese del Sole perché diceva che loro erano tutti brutti e cattivi e facevano delle cose brutte e cattive.
Una parte dei suoi sudditi era contenta che tutti quei posti fossero recintati perché era convinta che Re Cinzione, in quel modo, avrebbe sconfitto la cattiveria. Per questo loro, quando parlavano, dicevano: “Se vuoi che il parco sia più bello mettigli un cancello”.
Un’altra parte dei sudditi invece non era contenta perché era sicura che soltanto la possibilità, da parte di tutti, di andare nei parchi e nei giardini, senza sentirsi in gabbia, avrebbe fatto star bene la gente e andar meglio le cose. Per questo loro, quando parlavano, dicevano: “Se vuoi che la gente sia ospitata cancella la cancellata”.
I menestrelli di corte raccontavano che Re Cinzione non si preoccupasse molto dei sudditi ribelli e che anzi, dentro gli stessi parchi che aveva recintato, stesse già iniziando a recintare ogni panchina, ogni fontana, ogni lampione, ogni altalena, ogni scivolo, ogni albero, ogni singola margherita e anche ognuna delle tante cacche che i suoi cani facevano in quei parchi.
Se, ad esempio, un bambino voleva andare su un’altalena, prima doveva superare una barriera, quindi andare in un recinto, poi entrare in uno successivo infine infilarsi dentro un ennesima recinzione e finalmente godersi l’altalena, dondolando dentro tutte quelle gabbie.
In effetti, il sogno di Re Cinzione era proprio quello di avere uno spazio recintato con dentro tantissimi altri spazi recintati: una specie di matrioska che lui avrebbe chiamato sicuramente “recintoska”.
Questa cosa per lui era come un gioco… quasi come il mio mentre scrivo questa favola che può continuare in molti modi e ognuno potrà certamente inventare il suo.
Qualcuno potrebbe terminarla scrivendo: “E vissero tutti felici e… recintati” ma a me piace immaginare che, prima o poi, a causa della smania di chiudere tutto con cancelli – cancellini – cancelletti e cancellate, Re Cinzione recintò anche i suoi cani Can Cello e Can Didato, la sua capra Sgarbata, le sue galline di razza Feisbuc, la sua ape Apecar, il suo cavallo Ruspa e, ormai in preda al delirio, addirittura il cavallo dei suoi pantaloni.
A quel punto, non potendo più muoversi, Re Cinzione rimase chiuso dentro la cancellata che aveva costruito attorno alla sua vasca da bagno.
E vissero tutti felici… dopo aver cancellato le cancellate.
P.S. Ogni riferimento a persone esistenti o a scelte dell’amministrazione comunale di Ferrara è puramente non casuale.
Si moltiplicano in molti paesi le manifestazioni, anche violente, contro le misure di contenimento del covid19: mascherina, distanziamento, lockdown, obbligo vaccinale o Green pass (che di fatto è la stessa cosa). Non se ne può ignorare il significato politico (se lo hanno) o culturale e antropologico, che c’è e meno che mai trattarle con sufficienza.
Sono in tanti; poche altre manifestazioni arrivano a quei numeri. Non ci sono solo in Italia: debolezza e inconsistenza della politica, se hanno a che fare con esse, sono generalizzate.
Prevalgono impronte sovraniste e anti-immigrati e rilevanti presenze di nazisti. Sono no-vax anche loro? Non è detto, ma hanno campo libero in piazze dove nessun’altra forza organizzata si impegna a promuovere un orientamento diverso. Come negli stadi.
Ma molti cartelli e slogan non rivendicano solo una generica libertà (che può avere le più diverse declinazioni). Vertono sulla difesa dei diritti dei lavoratori, soprattutto quello di lavorare e di scioperare, sulla volontà di non dividersi tra vaccinati e non, sulla lotta ai poteri forti. D’altronde i portuali di Genova, in prima linea contro il traffico di armi, hanno solidarizzato con quelli di Trieste.
C’è una grande confusione in quelle posizioni, brodo di coltura ideale per fake news e complottismo paranoico. Così, in una manifestazione tedesca di “no-vax” si protestava contro l’”invasione” di immigrati contagiosi perché non vaccinati… In altre si vedono cartelli di protesta contro il Green paSS con le s delle SS, o manifestanti con le divise degli ebrei nei campi o la stella di David sul petto (per loro il Green pass è “nazismo”) accanto a cartelli che denunciano il complotto ebraico, resuscitando i Savi di Sion.
Verosimilmente non sanno niente né degli uni né degli altri (e questo lo dobbiamo alla scuola e ai media). Così una parte consistente di una manifestazione romana si è fatta trascinare da una squadra di nazisti all’assalto della CGIL quasi fosse un ufficio governativo, senza verosimilmente comprendere o condividere il significato di quella devastazione.
Contribuiscono alla confusione la continua esibizione di virologi che si contraddicono tra loro e con se stessi,le oscillazioni del governo, i voltafaccia di molti partiti e altrettanti “governatori” di Regioni, il grave silenzio su dati che potrebbero attenuare molte ostentate certezze.
E anche il fatto che a invocare il vaccino per tutti sia quella stessa Confindustria che per mesi ha obbligato gli operai ad andare al lavoro senza alcun presidio. L’importante – lo si è capito – è la ripresa, il PIL, la crescita, non la salute di chi lavora.
Quelle mobilitazioni riflettono un crollo verticale della fiducia nelle istituzioni, nei governi, nei partiti; la percezione di essere in mano a una generazione di politici irresponsabili, catturati dagli interessi di big pharma, tanto da non avere il coraggio di imporre la moratoria sui brevetti e un argine ai relativi guadagni miliardari, con connivenze nascoste dai neretti su contratti impresentabili.
Ma, soprattutto, con l’imposizione di una “cura” uguale per tutti, senza attenzione alla persona (se non quando sta tirando le cuoia) e alla prevenzione, puntando sulle cause. E’ mancato, sulla pandemia, sulle misure di contrasto e soprattutto sulla riorganizzazione della sanità in funzione della prevenzione, come d’altronde manca sulla crisi climatica e sulla cosiddetta transizione ecologica, un dibattito pubblico all’altezza dei cambiamenti radicali che vengono imposti alle nostre vite, ma anche al sistema produttivo. Di qui la convinzione che per l’establishment mondiale il futuro della sanità sia un sistema ipertecnologico a cui i “poveri della Terra”, qui come nel Sud del mondo, dovranno sottomettersi senza discutere o essere esclusi; nella convinzione che qualcuno possa restare sano in un mondo malato.
Una percezione facile da strumentalizzare ha suscitato la ribellione di una platea ben più vasta dei pochi che si oppongono ai vaccini – o a questi vaccini – per fede, convinzione o affiliazione a comunità che temono l’azzeramento dei risultati ottenuti con anni di cure alternative.
Ed è questa percezione che fa provare a molti partecipanti a queste manifestazioni “la gioia della ribellione”, l’orgoglio di una denuncia a cui tutte le forze politiche, istituzionali e culturali evitano di dare voce.
Quell’orgoglio che si esprime nel refrain cantato nei cortei: “La gente come noi non molla mai”, che non ha niente a che fare con il truce “Boia chi molla” dei caporioni fascisti della rivolta di Reggio di 50 anni fa, né con il glorioso “Non mollare” dei fratelli Rosselli, di cui ben pochi dei manifestanti sanno qualcosa.
Quelle manifestazioni, proprio per la loro atroce confusione, sono la vera “rappresentanza” – o rappresentazione – di quella metà di italiani che non votano più, che a torto vengono spesso presentati come orfani di una fantomatica sinistra che non sa più mobilitarli (ma che una volta ricostituita potrà sempre recuperarli…). Ma non è così. Perché vanno invece accostati uno a uno, una a una, con un atteggiamento di ascolto umile e privo di troppe certezze.
Guido Viale è nato a Tokyo nel 1943 e vive a Milano. Ha partecipato al movimento degli studenti del ‘68 a Torino e militato nel gruppo Lotta Continua fino al 1976. Si è laureato in filosofia all’università di Torino. Ha lavorato come insegnante, precettore, traduttore, giornalista, ricercatore e consulente. Ha svolto studi e ricerche economiche con diverse società e lavorato a progetti di cooperazione in Asia, Africa, Medioriente e America Latina. Ha fatto parte del comitato tecnico scientifico dell’ANPA (oggi ISPRA). Tra le sue pubblicazioni: Un mondo usa e getta, Tutti in taxi, A casa, Governare i rifiuti, Vita e morte dell’automobile, Virtù che cambiano il mondo. Con le edizioni NdA Press di Rimini ha pubblicato: Prove di un mondo diverso, La conversione ecologica, Si può fare e Rifondare l’Europa insieme a profughi e migranti. Con Interno4 edizioni ha pubblicato nel 2017, Slessico Familiare, parole usurate prospettive aperte, un repertorio per i tempi a venire. Sempre con Interno4 Edizioni nel 2018 ha pubblicato l’edizione definitiva e aggiornata del suo importante libro sul ‘68.
Questo articolo è stato pubblicato il 25.11.2021 da pressenza
Arriva il black friday per l’utero in affitto (Qui). Eh si, già, perché noi donne, per il transumanesimo, ideologia che sorregge un capitalismo malato e perverso, siamo degli uteri in affitto e niente più.
Arriva subito dopo la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, il 25 novembre, ed è davvero paradossale. È paradossale vedere che i milioni di parole spese per rendere evidente la smisurata violenza contro le donne nel mondo, parole utilizzate dai politici e dalle politiche progressiste di tutte le democrazie occidentali nelle loro campagne politiche, abbiano prodotto un’accelerazione della mercificazione dei corpi, e dei pezzi di corpi.
Sul mercato oggi non ci sono solo gli uteri, ma embrioni congelati, sperma, ovuli e a seguire. Infinite possibilità di modificare i corpi come se fossero gusci vuoti, dentro e fuori. Corpi sui quali intervenire per modificarli a piacimento e in continuazione
Si parte dai corpi delle donne per arrivare a convincere tutti, che i corpi sono delle macchine difettose, che necessitano continuamente di revisione.
A noi donne ce lo hanno inculcato dalla nascita, siamo buone a procreare ma per il resto dobbiamo solo compiacere il Sistema patriarcale per occupare lo spazio pubblico: siamo invitate a modificare anche il mondo della nascita, della vita e lo hanno chiamato atto di Amore. Ma tutta questa narrazione è stata strumentale per portare tutti, uomini donne e bambini a vivere i loro corpi come inadeguati, limitanti e limitati.
È inutile ripercorrere tutto il pensiero femminista che ha svelato che “il patriarcato è IL SISTEMA che produce tutte le oppressioni, tutte le discriminazioni e tutte le violenze che vive l’umanità e la natura, ed è costruito storicamente sopra il corpo delle donne!” (Adriana Guzman).
E’ inutile perché oggi, a detta dei nostri governanti, è il Sistema che deve essere salvato. E questa accelerazione spaventosa del mercato dei corpi la vediamo proprio in questo tempo di pandemia. “Abbiamo ripreso ad essere normali; vogliamo conservare questa normalità” parole di Draghi ieri: questo è il mantra. E se per far questo i corpi vanno costantemente monitorati dall’esterno, digitalizzati, modificati, corretti, allora si farà.
Ma il vero scopo è un altro; assecondare il mercato dei desideri e farne il business che sorreggerà ancora per un po’ il Sistema.
Mai come oggi mi è chiaro il disegno che sta dietro alla pratica aberrante della maternità surrogata, un disegno perpetuato da decenni, corredato da narrazioni progressiste che esaltano la Scienza, la scienza medica. Una scienza medica che non cura più, ma che ti procura il prodotto finale, ti realizza il desiderio senza bisogno di cure.
Pensateci bene: la PMA, IVF, l’utero in affitto non cura la sterilità o l’infertilità, bypassa il problema, e ti confezione il prodotto. Il vaccino, quello nuovo a MRNA, fa la stessa cosa. Una scienza medica al servizio del business, poco importa che i corpi diventino degli strumenti, l’importante è realizzare i propri sogni costi quel che costi.
Ma a chi giova questa umanità? Questa è la domanda che dovremmo porci, così come noi donne ci siamo poste la domanda a chi giova il nostro essere strumenti del potere patriarcale.
La risposta che mi sono data è che giova ai Cingolani e ai Colao e andando più su nella catena ai Gates (si hanno nomi e cognomi). Quelli che il medicinale ”lo inietteremo da remoto”,. Quelli della salvezza “viene dalla scienza”, viene dalla genetica modificata. Giova ai propagandisti delle multinazionalidel farmaco che sui corpi e pezzi di corpi immessi sul mercato fanno soldi a palate. Tutti impegnati a mantenere in vita questo capitalismo malato e perverso, condannando l’umanità a perdere il vero senso della vita e della natura.
Pochi mesi prima dell’arrivo della pandemia, ho pubblicato il romanzo Il mio nome è Maria Maddalena, Marlin editore. È la storia di una giovane ragazza che, per realizzare un suo sogno, si presta come madre surrogata. Lo scrissi perché convinta che il corpo, tutti i corpi, contengono un sapere ancestrale. I miei protagonisti scoprono la forte interconnessione tra biologia e biografia, tra corpo e natura, proprio grazie a un viaggio nella foresta amazzonica (il ventre primigenio del pianeta), a contatto con le popolazioni indigene ye’kuana.
Sono convinta che un sapere ancestrale è passato per millenni attraverso le viscere delle donne ma verrà cancellato per sempre se ci piegheremo alla volontà di un potere che fa della tecnologia e della medicina tecnoligica, un Dio.
La cancellazione di quel sapere significa la fine della Natura Umana . La radice culturale del transumanesimo è l’annientamento della Natura Umana.
Mi chiedo e vi chiedo: ma è quello che davvero vogliamo, noi gente comune? Salvare la nostra singola vita individuale al prezzo della morte definitiva dalla Natura Umana?
Per chi volesse approfondire: Scienziati coreani creano un’interfaccia neurale in grado di fornire farmaci da remoto al cervello:Qui Bioetica e gravidanze trans:Qui Documento OMS sul vaccino ai bambini senza il consenso dei genitori:Qui
Da molti secoli autori dialettali si cimentano in traduzioni delle maggiori opere della letteratura italiana: la Commedia, l’Orlando, la Gerusalemme…
Quest’anno, in cui si celebra il settecentesimo anniversario della morte di Dante, sono rispuntate, in particolare sugli scaffali delle biblioteche, le versioni della “Commedia” rese nei vari dialetti della penisola: romagnolo, veneto, calabrese, pugliese, siciliano, oltre che in genovese, napoletano, mantovano, milanese, romanesco, ecc.
Due sono le versioni che conosciamo nel nostro vernacolo:
– la prima di Luigi N. Cittadella (Ferrara 1806 -1877), storico, impegnatosi nella riduzione in ferrarese del primo canto dell’Inferno nel 1870, intitolata “La Cmedia Divina”;
– la seconda di Mendes Bertoni, una “Antologia” dall’Inferno dei canti primo, terzo, quinto, decimo, diciottesimo, trentaduesimo, trentatreesimo, del 1967.
Di quest’ultima riportiamo, dal primo canto, i versi iniziali fino all’incontro con Virgilio.
(Ciarìn)
Prim cant
Dla nostra vita a mità strada giusta
am son truvà int uη bosch acsì tant scur,
che com’un dspers andava avanti a usta
e con ados mi’η’so quanti paur.
Iη meź a sproch, a ram, arvéd e sas
d’andar avanti an jéra più sicur
tant jéra fadigoś alvàr al pas.
Ma ‘l beη ch’a j’ho truvà mi ‘v voi cuntàr
e d’jàltar cvei par vostr’e par mié spas.
Com’abia fat là dentr’a scapuzàr
al źur, ch’an am so dar propria raśóη,
ma źa, quand uη l’aη s’ferma a raśunàr
al casca iη zerti tràpul da miηción;
e acsì ho fat mi, ch’am jéra imbambanà,
drit fil ho fat, sui vizi, uη bel sbliśgón.
Ma quand ai pié d’uη mont am son truvà,
là dóva cla valàda la finiva,
am soη santì, ad bota, iηcuragià;
ho guardà in su… Che bléza! Viva… viva!
Al sol, iluminàndam al stradèl,
ad graη fiducia al cuor al m’impinìva.
Come pr’iηcant st’miràcul acsì bel
l’ha fat sparìr parfìn tut cal spavént
che iηcapunàram l’éva fat la pel.
E come quel che ‘n tl’aqua, pr’azidént,
al casca déntar e’l riésc a tucàr riva,
al s’volta indré a guardarla pr’uη mument,
acsì ho fat mi ch’aηcora impalidìva:
ho butà n’oć iη présia a cal stradèl
che mai l’ha fat pasàr critura viva.
Strach amazà, tut’iη sudòr la pel,
am soη farmà uη puchìn a ripusàr,
ho ciapà fià e vié com’uη fringuèl.
Ma sol diéś pas aveva putù far
ch’am son truvà davanti na bastiàza;
na lòηza smaciuzàda ch’a pié par
l’am s’jéra impantalàda propria iη faza
e l’an’am vléva più lasàr pasàr.
Decìś am jéra d’bandunàr la piàza,
ma ‘l sol ch’iη ziél al stava par spuntàr
al m’ha in cuor mis na tal sicuraziòn
ad psér, aηch st’al parìcul, evitàr.
Ma eco, póch distant, spunt’uη leoη
che a boca ‘verta vers a mi ‘l s’avśìna,
ruźénd come s’al fus sarà iη gabión;
e ‘ηsiém a lu na lupa magrulina.
A tal visión tut al curaģ ho pers
e la speranza d’arivàr parfìna.
E come quel che pr’un destin avèrs
al perd la so furtuna e ‘l resta dur,
ad dàras paś l’an trova mod e vers,
acsì cla bestia, andand a colp sicùr,
l’am rimandava piaη pianin indré
e ‘ηcora n’altra volta iη mez al scur.
E méntar, spavantì, m’n’andava vié,
a l’impruvìsa am ved davanti al naś
una parsóna ferma e drit iη pié.
Ma che furtuna! Banadét al caś!
Un om int al desert… ma che beléza!
Par mi, ch’an am savéva dar più paś,
a l’jéra come n’àηcora ad salvéza.
“O ombra, o om, se t’aη m’aiut da bòn”
-agh ho zigà- “par mi aη gh’è più peza!”
Al m’ha rispost: “Mi òmaη più ‘n’al són
e i mié parent ad raza jè mantvàna,
ad Pietole, pr’amor ad preciśión.
Nat sot’a Zeźar al temp dla graη bubàna,
a Roma, po’ ho visù, sot’Agustìn,
al temp d’na religion tropa bagiana.
A soη sta’ aηch puèta e iη latìn
dal fiòl d’Anchise a j’ho cantà ill prudéz,
dal prode Enea s’uη mudèst librìn.
Ma ti parché ‘n continui briśa iηvéz
a caminàr sul mont s’at vó truvàr
cla gioia e cal piaśér ch’at zérch da ‘η pez?”
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Canto Primo Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
che la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Io non so ben ridir com’i’v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogni calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ‘mpediva tanto il mio cammino,
ch’I’ fui per ritornar più volte vòlto.
Temp’era dal principio del mattino,
e ‘l sol montava ‘n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.
E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ‘l tempo che perder lo face,
che ‘n tutti suoi pensier piange e s’attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ‘ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ‘l sol tace.
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
“Miserere di me”, gridai a lui,
qual che tu sii, od ombra od omo certo!”.
Rispuosemi: “Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patria ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma, sotto ‘l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ‘l superbo Ilión fu combuto.
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
Perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?”.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tratto da:
Mendes Bertoni, Antologia della Divina Commedia in dialetto ferrarese, Ferrara , SATE, 1967
Mendes Bertoni (Ferrara 1905 – 1987)
Prolifico autore di poesie e commedie dialettali molto rappresentate.
Altre notizie nel “Cantón fraréś” del 19 marzo 2021 [Qui].
Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui]
“Il poeta greco Ghiannis Ritsos ha detto che le parole sono come «vecchie prostitute che tutti usano, spesso male»: e al poeta tocca restituire loro la verginità”. (Gianrico Carofiglio)
La memoria della betulla
Ti scioglierò le trecce vita mia
ai piedi di una betulla nera
ti slegherò dai lacci di falasco
aggrovigliati intorno al capo
Terrò legati i tuoi tormenti
al tronco dell’albero maturo
e su corteccia bianca scriverò
come fosse carta
Ti aspetterò nutrendomi
di linfa zuccherina
e quando una notte tornerai
ti leggerò nuove poesie
e del passato soltanto la betulla
se ne ricorderà
La retta pendente
Ti sorreggi da solo
sull’obliquo pensare
e non trovi argomenti
che denudino l’uomo
Tieni stretta un’idea
sopra un filo di voci
poi la liberi al vento
per un raggio di luce
Non esiste sgomento
sulla retta pendente
non vi sono ossessioni
né pensieri latenti
Solo tratti di vita
capovolti dal sole
capovolgi l’esistere
e diventi illusione
Figlia della vita
Mi hai svelato il segreto di figlia
ora tra le tue braccia
lascio i miei gemiti
al risveglio sono certa
mi darai linfa da bere
e pane fresco per cena
Assaporo il sangue dolce
che un tempo passato
mi hai versato addosso
ora quel colore vermiglio
è sulle tue labbra
in un bacio sulla fronte
prima della buona notte
Giostre
Quando sarò grande
vivrò nel sogno
dove mi nascondevo da bambina
e ci saranno ancora giostre
che mai si fermano
e cavalli liberi nella mia mente
Mentre il tempo
tenta di sbranare i ricordi
salvo l’immaginare e i prati
Maria Mancino è nata a Campobasso e vive attualmente a Imola. Scrive poesie fin da piccola. Afferma di pensare in versi anche quando non scrive. Appassionatasi alla narrativa, ha pubblicato racconti con le case editrici: Negretto, FuocoFuochino e Fernandel. Da Babbomorto Editore hanno visto la luce le due raccolte poetiche: “Bianco Spino” e “Mani d’argilla”, nonché il racconto “Uccel di bosco”. Nel settembre 2020, pubblica con l’Edizione Apostrofo: “I plumcake del nonno” un libro che attraverso i ricordi d’infanzia, delinea la mentalità, le tradizioni e la semplicità dei suoi luoghi. Sempre con l’Edizione Apostrofo nel marzo 2021 pubblica la raccolta poetica: “Nascosta è in lui la mia follia”.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]
Si legge che Serena Cappello, consorte di Mario Draghi, avrebbe confidato al barista sotto casa che il marito andrà al Quirinale. Naturalmente, non sappiamo quanto di vero ci sia nei fatti narrati dai giornalisti, né in quelli raccontati dal barista. Ma appare in ogni caso verosimile che per Super Mario la strada del Quirinale è pressoché obbligata.
Obbligata due volte. Da una parte, per la forza indiscutibile che gli proviene dalla sua collocazione nelle gerarchie sovranazionali e nazionali e per le frequentazioni che ne discendono. Dall’altra, per la strana debolezza che sta caratterizzando la sua azione di governo.
Non credo sia necessario entrare nel merito della prima obbligazione, noto ai più e accessibile agli altri attraverso le varie pubblicazioni esistenti (anche se, probabilmente, esse non sono molte in rapporto alla caratura del personaggio, il che dà da pensare).
Vale, piuttosto, la pena di riflettere sulla seconda.
Draghi sta svolgendo le sue funzioni di presidenza in una condizione del tutto diversa da quella in cui le hanno svolte i suoi predecessori, almeno da quando il Paese ha dei vincoli di bilancio stabiliti in sede sovranazionale: con ampia elasticità appunto su quei vincoli e con una quantità enorme di danaro – ovviamente quella del PNRR – da distribuire.
Il merito del fatto che l’Italia possa approfittare di tanta elasticità e di una provvista di danaro a tal punto consistente viene di norma ascritto proprio al credito di cui il Presidente del Consiglio gode.
Ma il problema è: qual è il pegno del credito di Draghi? Di cosa esso è in grado di porsi a garanzia?
Fino a prova contraria, infatti, la Costituzione è in vigore, i governi cadono e le attuali schermaglie sulla legge di bilancio dimostrano che il Presidente del Consiglio, almeno in teoria, potrebbe ben presto trovarsi disoccupato. Non sarà, dunque, proprio il fatto che l’Italia precipiti entusiasticamente in una situazione di ulteriore sovraindebitamento– senza che le regole di fondo dei Trattati siano ammorbidite –la vera garanzia che Draghi può dare?
La garanzia che a lui non possa succedereche egli stesso, o qualcuno di altrettanto cauto nella difesa dell’interesse nazionale? Pena, appunto, l’immediato passaggio dal guanto di velluto al pugno di ferro su un’esposizione debitoria che nessun avanzo primario potrà mai, ragionevolmente, riequilibrare.
Provvedimenti a orologeria come la riforma del catasto innescata dal governo per il 2026 non aiutano, anche simbolicamente, a esorcizzare il fantasma di una sorta di iscrizione ipotecaria sul futuro politico del Paese.
Proprio per questo, l’interrogativo che oggi ha preso ad affiorare appare quanto mai critico: quanto può durare davvero Draghi nel suo attuale mandato? Se osserviamo i due principali assi dell’azione di governo – la gestione della pandemia e la legge di bilancio – notiamo infatti più di un segnale preoccupante.
Dal primo punto di vista, il governo ha adottato una strategia di accompagnamento dei cittadini non ancora vaccinati agli hub da una parte piuttosto forte, dall’altra evidentemente debole. Debole, perché non si è avuta e non si ha la determinazione lineare di procedere verso l’obbligo vaccinale. Forte, perché le misure alternative hanno introdotto forme di coercizione piuttosto energiche, che hanno esasperato i destinatari e polarizzato la pubblica opinione.
L’impatto sul numero dei vaccinati, come si sa, è stato piuttosto deludente e in ogni caso non risolutivo [Vedi qui], ma si è in compenso infiammata la piazza, come da decenni non si vedeva, e si sono alimentatedrammatiche spaccature nel corpo sociale (vedi l’interessante confronto con i dati ISTAT 2020 nel recente articolo di Giovanni Fioravanti su questo giornale [Qui] .
Ora si parla di nuove e ancor più decise restrizioni riservate ai cittadini non vaccinati, dei quali però entrerà a far parte una certa quota – si dice non marginale – degli attuali vaccinati: ovvero quelli che hanno delle resistenze verso la famosa terza dose e che potrebbero confluire nel fiume della piazza.
Il potenziale esito è facilmente immaginabile. Questa seconda celebrazione di un decisionismo senza decisioni – questa sorta di whatever it takes in salsa pandemica – potrebbe mostrare a tutti come la calzamaglia di Super Mario non protegga dagli schizzi, dalle lacrime e dal sangue dei concreti rapporti sociali e politici.
Per quanto riguarda invece la legge di bilancio, basti pensare al caos che sta caratterizzando la gestione dei bonus nel settore edilizio.
Il grande nemico di Draghi, qui, non sono i bonus in quanto tali, ma la cessione del credito, o l’equivalente sconto in fattura. Ovvero le misure che hanno consentito e stanno consentendo a tante famiglie prive di grandi disponibilità immediate di valorizzare comunque i propri immobili abbattendone nel contempo l’impatto ambientale. Misure che hanno certamente contribuito in modo significativo al buon rimbalzo del Pil nel 2021, che il governo non ha ovviamente evitato di intestarsi.
All’inizio sembrava che cessione e sconto sarebbero rimasti solo per il cavallo di battaglia M5S del ‘superbonus’, ma in seguito, alle fondate rimostranze di intere categorie, il governo ha fatto marcia indietro, prolungandone apparentemente l’esistenza anche per le altre agevolazioni.
Tuttavia, utilizzando l’argomento sempreverde del contrasto agli abusi, a queste agevolazioni minori sono anche stati estesi igravosi adempimenti prima previsti solo per il 110%. Ciò renderà l’accesso a quegli strumenti più complesso e meno conveniente, costituendo in molti casi l’abolizione di fatto di ciò che è stato reintrodotto sul piano del diritto.
Qual è la ragione che spinge il governo a osteggiare così violentemente – con mezzi diretti e, ancora una volta, indiretti – non i bonus in se stessi ma la possibilità di cessione dei relativi crediti d’imposta?
Naturalmente, essa non è dichiarata, ma appare verosimile che dipenda dal fatto che, mentre i crediti d’imposta sono ancora una volta tacche sui futuri bilanci, i crediti ceduti fungono da moneta fiscale parallela, ovvero da strumento del diavolo per l’establishment cui Draghi fa da garante.
La diretta conseguenza di tutto ciò è l’incertezza paralizzante che ha improvvisamente pervaso il settore, il possibile blackout di migliaia di contratti già stipulati, la prevedibile apertura di innumerevoli contenziosi, con tutte le inevitabili ricadute sulla ripresa e sul Pil.
La possibilità dei due scenari negativi, nonché della loro saldatura, indurrebbe chiunque alla prudenza. Non Super Mario, però.
Certo, è possibile che diversi fattori rendano ‘unfit’ Draghi a governare a lungo. Ma a volte sembra quasi che egli tema che non lo si capisca abbastanza e si sforzi di rimarcarlo in ogni modo. Anche platealmente, come quando abbandona le riunioni con i sindacati o diserta le interlocuzioni del governo con la stampa.
Insomma, anche se Draghi non venisse collocato, all’inizio del 2022, al Quirinale, non è affatto detto che vorrebbe o potrebbe continuare a governare fino alla scadenza della legislatura. Figuriamoci oltre.
Si può correre il rischio di ritrovarsi con il ‘garante’ Draghifuori dal Quirinale e bruciato per il governo? Non credo sia immaginabile.
Dunque Draghi sarà eletto Presidente. La recente sentenza del Consiglio di garanzia di Camera e Senato che assicura a deputati e senatori il diritto al vitalizio anche se la legislatura non durasse quattro anni, sei mesi e un giorno, spiana gli ultimi ostacoli.
Scommetterei su un’elezione al primo scrutinio, come fu per il suo vecchio nemico Cossiga e per il suo mentore Carlo Azeglio Ciampi. Eserciterà lì le sue nuove funzioni istituzionali, armonizzandole con il suo ruolo consolidato.
Il barista avrà ancora da raccontarne.
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