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LE SBARRE CHE CI PORTIAMO DENTRO
Il laboratorio di Cinema nel Carcere di Ferrara

 

Nel nostro Paese, di carcere si parla poco e male. Sembra che anche i politici preferiscano l’affermarsi di pregiudizi piuttosto che si affronti ragionevolmente il problema. Forse per paura di perdere consensi lasciando che una certa informazione faccia una cattiva educazione.

Fëdor Dostoevskij, che la galera l’aveva vissuta, diceva che il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”.

La situazione italiana delle carceri e dei carcerati è drammatica e indegna di un paese vivile,  ieri come oggi.

E’ di pochi giorni fa l’ennesimo allarme per il sovraffollamento dei nostri istituti penitenziari. Qualcuno vorrebbe costruirne altre prigioni:  per appaltare altri cantieri, non certo per risolvere il problema. L’unica vera strada è quella già indicata da Cesare Beccaria e sancita dalla nostra Costituzione. I dati sono molto chiari, quanto poco conosciuti e poco considerati: i detenuti che scontano la loro pena con misure alternative al carcere sono  statisticamente molto meno soggetti a tornare a delinquere. Una strada ancora poco seguita.  Da qui la rabbia, la disperazione dei carcerati chiusi in gabbia e le continue rivolte in questo o quell’istituto di pena

La nostra Carta Costituzionale, immaginando una giustizia operante, scommette sul cambiamento delle persone attraverso la rieducazione. La gran parte delle persone che hanno vissuto o stanno vivendo l’esperienza del carcere, prima o poi usciranno, E allora quello che ci dovrebbe preoccupare è che la maggioranza delle carceri, così come sono gestite e organizzate oggi in Italia, non si sono impegnate a rieducare ed aiutare uomini e donne “ristrette” a cambiare. La recidiva del resto come pensiamo di combatterla se non così?

Non tutte le carceri sono uguali e non in tutte si fanno attività rieducative, così come sarebbe previsto. Per fortuna ci sono esempi positivi
Da questo punto di vista, nella Casa Circondariale di Ferrara esistono istituzioni, realtà associative e singoli, che intervengono per offrire diverse attività: dalla scuola all’università, dal teatro al gruppo di lettura, dalla cura degli orti al riciclaggio di apparecchiature elettriche, dal calcio al rugby, dallo yoga alla pallavolo, dal cammino veloce alla ginnastica dolce, dalla scrittura creativa, al giornale.

Una delle iniziative e di attività degna di nota. che vede una buona partecipazione tra i detenuti e che fornisce occasioni stimolanti di creatività e di confronto è quella curata dal regista Eugenio Melloni [1] con un laboratorio di cinema.

La sua è una proposta coraggiosa ed importante sia perché è una scommessa ambiziosa, sia perché può aiutare a creare consapevolezza di sé e altro ancora, nel lavoro progettuale di gruppo.

Qquando ci si mette in gioco in un’attività creativa che coinvolge anche altri, si favorisce il confronto attivo e l’assunzione delle responsabilità personali, che sono elementi cardine in un percorso rieducativo.

Eugenio non è nuovo ad esperienza simili, perché già ha realizzato l’ottimo lungometraggio Sezione Femminile nel carcere della Dozza.[2]

La sua ricerca è accurata, costante, coerente e determinata. Mi piace ricordare, a proposito di ricerca, che l’anagramma di ‘carcere’ è ‘cercare’ e, anche per questo, Eugenio si può definire un “cercatore di volenterose speranze”.

Un paio di mesi fa, ho avuto occasione di poter partecipare ad una prima visione davvero singolare. In una saletta del carcere di Ferrara, ho visto un quarto d’ora circa del nuovo lavoro di Eugenio, insieme al regista stesso, alle educatrici e ad un gruppo di persone di quella sezione, che stanno partecipando al progetto, arrivato al momento della sua realizzazione. Ho visto l’inizio del film ipotetico che si dovrebbe fare.

Sono rimasto incredibilmente sorpreso dalla capacità del filmato di rendere le emozioni, i pensieri, le paure, i bisogni dei “ristretti” in condizioni difficilissime, quali quella di non dover riprendere il viso delle persone detenute.

Il gioco di luci e ombre è suggestivo, il contrasto dei muri con il cielo provocante, i silenzi interrogano, le voci catturano.

È stata davvero un’emozione forte vivere quei pochi minuti di film; di conseguenza ho immaginato che il prodotto finito possa essere potente. Si annuncia un capolavoro, ho ragionato di primo acchito. Che va oltre l’ambientazione. Che riguarda tutti. Induce un’esperienza nuova. Senza pietismi.

Poi ho pensato che forse stessi esagerando, influenzato dall’ambiente, che si trattasse di un’impressione semplicemente personale, il cinema quante volte inganna?

Tuttavia, sono stato confortato da un commento di Pietro Montani, filosofo, critico cinematografico e professore ordinario di Estetica all’Università La Sapienza di Roma, che il regista mi ha girato:

«Carissimo Eugenio, grazie per aver condiviso con me il primo frammento del tuo nuovo film ambientato nella Casa Circondariale di Ferrara. Sono pochi minuti, ma è già evidente che essi preludono a una ripresa stilistica e, soprattutto, ad un approfondimento drammaturgico del lavoro sperimentale, molto innovativo, che avevi fatto con Sezione Femminile.

Mi rendo conto che in questo caso dovrai rispettare dei vincoli più stretti, soprattutto in termini di tutela della privacy. Ma mi sembra anche molto significativo che queste limitazioni di carattere sostanziale e giuridico alludano a un incremento dell’elaborazione creativa, a cui i protagonisti del tuo cinema sanno di poter fare riferimento: sia che si tratti dei tuoi attori, sia che si tratti del tuo pubblico.

Nello spezzone che mi hai mandato ho visto comparire, in almeno due occasioni, soluzioni formali molto spregiudicate e di alto impatto emotivo, che mi autorizzano a pensare che il lavoro che stai preparando raggiungerà risultati molto notevoli, nella prospettiva, che ti caratterizza, di un intreccio stretto tra l’aspetto artistico e l’aspetto etico e sociale del cinema.

Ti prego di tenermi informato sugli sviluppi del lavoro e fin d’ora ti comunico la mia disponibilità nella prospettiva di eventuali discussioni o presentazioni del film. Con un caro saluto, Pietro Montani.»

Un capolavoro? Perché non dovrebbe essere così? Mi viene in mente una canzone di Fabrizio De André… Del resto quanti capolavori nascono da situazioni estreme? Guerra, sofferenza, tradimenti…. eccetera, eccetera… In un pezzo del filmato si sente una voce che dice: «Se l’uomo vedesse le sbarre delle inferriate che porta dentro, avrebbe conquistato il cielo che vi si apre in mezzo

Un invito a metaforizzare il proprio vissuto per poterlo comprendere. Una chiave per oltrepassare i muri che si pensa di avere. Fuori, ma ancor più dentro ad un carcere, dove le sbarre sono la quotidianità.

A queste condizioni di riflessione, vien da pensare, per un’opera d’arte come può essere un film, svilupparsi, poterla realizzare compiutamente diventa una questione di libertà.

Eugenio mi dice che da un punto di vista produttivo, è nato un progetto destinato al Ministero di Giustizia che dà queste opportunità, ma deve avere la partecipazione del Comune, nel nostro caso Ferrara come coordinamento e controllo, senza che per l’ente locale ci siano esborsi economici.

Il regista ha chiesto a proposito un incontro al sindaco e all’assessore alla cultura. È in attesa di essere ricevuto. Quanti aneddoti conosciamo sui percorsi tortuosi affinché un’opera filmica sia realizzata? Tanti. Finiti bene o male.

Tuttavia noi che sentiamo di essere tra le persone libere, speriamo bene.

Note:

[1] Regista teatrale, documentarista e sceneggiatore. ha collaborato a vario titolo con progetti teatrali e cinematografici. Ha messo in scena Le sedie di E. Ionesco, I dialoghi di Leucò di Cesare Pavese, Pazzo d’Amore di S. Shepard e altro ancora.
Per conto della Cineteca di Bologna, in collaborazione con l’ASP Giovanni XXIII, coordina il progetto di ricerca sperimentale Il memofilm, a memoria di uomo sull’uso del cinema nei confronti di malati di demenza, film personalizzati per combattere questa malattia. Al progetto hanno collaborato, Giuseppe Bertolucci, Luisa Grosso, Enza Negroni, Igor Bellinello, Davide Sorlini. Per il cinema, ha scritto i soggetti e co-sceneggiato numerosi film.
Nel 2001 ha scritto L’accertamento, per la regia di Lucio Lunerti. Lungo il suo sodalizio artistico con Stefano Incerti per cui ha sceneggiato tre film: Prima del Tramonto (1999), presentato in concorso al Festival di Locarno; La vita come viene (2003) con Stefania Sandrelli, Toni Musante, Stefania Rocca; Complici del Silenzio (2009) con Alessio Boni e Giuseppe Battiston.
Per la regia di Wim Wenders ha scritto soggetto e sceneggiatura del mediometraggio in 3D Il Volo (2010) con Ben Gazzarra e Luca Zingaretti. Nel 2011 ha curato la regia del documentario 700 anni per vedere il mare con Ivano Marescotti, Premio Medaglia di Rappresentanza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Sezione Femminile (2018), soggetto, sceneggiatura e regia e inoltre Lunetta Gamberini, (2020) regia, documentario Selezione ufficiale Festival internazionale di Salerno.

[2] Il film è nato da un laboratorio di cinema diretto dal regista nella Sezione Femminile di un carcere italiano. Non racconta direttamente questa esperienza, ma ne è il risultato. Un risultato che ci mette in contatto non solo con le condizioni concrete del vivere in prigionia delle detenute (peraltro spesso raccontate), ma con il recupero di una immaginazione forse perduta nei meandri di una tragica e stordente esperienza.

FEMMINISMO ED ELEZIONI
Non basta essere donna per essere dalla parte delle donne.

 

Credo si possa dare per assodato che la semplice appartenenza al genere femminile non rappresenti la condizione unica e sufficiente per dare forma e concretezza al cambiamento di prospettiva di genere di cui molte donne sentono il bisogno e l’urgenza, vivendolo come necessario e praticandolo nella loro quotidianità, in attesa che insieme a loro sia la società a evolversi.

Essere donna non è di per sé garanzia né di obiettivi né di metodo. Basti pensare alla reticenza con la quale moltissime donne ammettano di vivere – e spesso partecipare – ad un sistema patriarcale, al punto da giurare di essere più libere ed emancipate di quanto non siano, non siamo, in realtà.
A scrivere è una femminista tardiva (nel senso che sono approdata al femminismo ben più che in età adulta), per la quale è facile riconoscere stereotipi e automatismi di chi pensa che il maschilismo sia l’unica forma possibile, perché in esso è cresciuta e si è formata e di esso ha inconsciamente accettato le regole sul presupposto para-educativo che “è così che si fa”, o, peggio “è naturale che sia così”.

Di naturale c’è ben poco nell’abitudine alla subordinazione, nel coprire una parte che alle donne è stata affidata nel corso dei decenni, nell’accettare regole che cristallizzano una discriminazione. Non c’è nulla di naturale nemmeno nella cosiddetta famiglia naturale, la cui tutela viene spesso richiamata per tranquillizzare i complottisti delle teorie gender. Niente è più culturale e sociale di una costruzione come la famiglia, dove anche nella forma più comune di relazione tra un uomo e una donna i ruoli sono definiti in base ad un mix di tradizioni, usanze, abitudini.

Se per femminismo intendiamo l’insieme dei movimenti volti a emancipare le donne, renderle libere attribuendo loro gli stessi diritti e le stesse opportunità che hanno gli uomini, è un vero mistero come non tutte le donne siano femministe, anzi, alcune di loro rifiutino categoricamente di poterlo essere, accettando al contempo di essere parte del meccanismo ben oliato del patriarcato tradizionale.

Una solidarietà minima, quella sì, naturale, ci spinge a lottare anche per tutte quelle donne nel mondo che non hanno accesso all’istruzione, non possono guidare, non possono lavorare, la cui estrema povertà le espone a violenze e sfruttamento.

Ma c’è di più. Il femminismo contemporaneo non è estraneo alle battaglie analoghe per la trasformazione dei meccanismi che condannano minoranze o gruppi di persone a subire discriminazioni di sorta. Il femminismo non prescinde dalla lotta contro il razzismo, contro l’omotransfobia, contro le diseguaglianze profonde, contro le tradizionali forme di dominazione sociale, contro la manifestazione del potere. Non solo per empatia
(parola politicamente abusata), non solo perché la lettura del reale indica chiaramente che nella stessa persona possono sommarsi più caratteristiche che la rendono esposta a discriminazioni, ma anche perché sta nel concetto di rappresentanza la tensione a farsi carico della possibile soluzione di problemi che non siano solo i nostri, e, infine, perché le uguali opportunità devono essere per tutte, per tutti, per tutt*, o non
sono.
Ecco perché chi persegue un futuro migliore del presente (migliore per tutte e tutti, non solo come conservazione dei propri privilegi) non può che essere femminista. Ed ecco perché non basta essere donne per essere dalla parte delle donne.

Ferrara, 31.08.2022
Ilaria Baraldi
Portavoce Donne Democratiche di Ferrara

24 Ore per Assange:
crescono le adesioni per la manifestazione del 15 ottobre

 

Mancano 45 giorni alla 24 ore per la libertà di Julian Asssange e questo strumento vuole informare e chiedere aiuto per la migliore riuscita della manifestazione del prossimo 15 ottobre.
Logo della manifestazione internazionale per la liberazione di Julian Assange del 15 ottobre 2022

Adesioni
Tutti i giorni arrivano adesioni soprattutto dall’Italia dove abbiamo già oltre 20 città che si collegheranno. Potete seguire l’evoluzione qui
https://www.24hassange.org/it/calendario-mappa/ dove si spiega anche come funzionerà l’evento
Aiuto
Molti chiedono come aiutare; ecco un elenco di cose su cui si può dare una mano:
– trovare contatti internazionali; l’idea è nata in Italia ma c’è bisogno di coinvolgere a livello internazionale: contattate amici, associazioni e coinvolgili o passa il contatto a 24hassange@proton.me
– organizzare un evento locale dalle tue parti
– dare una mano sui socials; creare socials almeno in inglese
– cercare personalità artistiche e culturali che aderiscano anche solo mandando un video: puoi provare a contattarle su intenet mandandogli l’appello; lo stesso per associazioni e giornalisti
– dare una mano in aspetti tecnici: gestione della diretta, connessioni, riprese video, foto
Per tutte queste cose scrivi a 24hassange@proton.me e ti metteremo in contatto con la persona responsabile
Sentiti parte del comitato promotore !! Sentiti parte del grande grido:
Assange Libero !!
Un abbraccio
Il Comitato Promotore
Ultimi atti del calvario giudiziario di Julian Assange,  tra i fondatori di WikiLeaks :

–  Ad inizio dicembre 2020 il relatore ONU sulla tortura, Nils Melzer, oltre a rinnovare l’appello per l’immediata liberazione di Assange, chiede che – in attesa della decisione sull’estradizione prevista per gennaio 2021 – questi venga almeno trasferito dal carcere a un contesto di arresti domiciliari.[16][17]

–   Il 5 gennaio 2021 la giustizia inglese nega l’estradizione di Assange per motivi di natura medica, nello specifico per il bene della sua salute mentale poiché alto è il rischio di tendenze suicide.[18]

–  Il 10 dicembre 2021 l’Alta corte di Londra ribalta la sentenza che negava l’estradizione[19].

–  Un ulteriore passo verso la consegna di Assange ai tribunali americani avviene il 14 marzo 2022: la Corte Suprema del Regno Unito respinge il ricorso presentato dai legali dell’australiano, lasciando l’ultima decisione al ministro dell’interno Patel[20].

–  Il 21 aprile 2022 la Westminster Magistrates’ Court di Londra ha emesso l’ordine formale di estradizione negli Usa per Julian Assange, durante l’udienza a cui l’attivista australiano ha assistito in videocollegamento.

Per saperne di più:
Alessandro Marescotti su periscopio[Vedi qui]
Julian Assange su wikipedia [Qui]

A cura della redazione di periscopio

Parole a capo / Roberto Dall’Olio: “I ragazzi dei giardini”.
Un commento e alcuni ricordi

“Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche,
trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa”.
Questo incipit della famosa e disperata poesia-denuncia di Allen Ginsberg, letta per la prima volta nel 1955 ad un reading collettivo alla Six Gallery, mi è venuto alla mente leggendo i versi del bel libro di Roberto Dall’Olio, I ragazzi dei giardini, Ed Pendragon, 2022.
Versi pieni di rabbia, di tristezza e, perché no, di sensi di colpa che mi rimandano una mescolanza di ricordi e di esperienze lavorative.

“Ricordate/ Ricordiamoli/ erano ribelli/ poca scuola/ molta vita/ molta notte/ l’ideologia finita/ erano di sinistra/ erano maledetti/ erano ignari/ tutti lo eravamo/ finito il piombo/ del settantasette/ arrivò lo scirocco/ americano/ la droga/ per spegnere/ la giovinezza/ la ribellione/ poi gli spacciatori/ senza scrupoli/ che ghiotta occasione/ Ricordiamoli/ Ricordate”.

Dai tempi delle Magistrali, passati in una classe dove dominava l’approccio goliardico (anche pesante) alle cose, ai compiti scolastici di ogni giorno. Anche la scelta monacale di un compagno o l’interesse per la politica di qualche altro, erano passate senza scalfire più di tanto il vivere quotidiano. L’uso di sostanze stupefacenti si affacciò prepotente quando le scuole superiori erano ormai finite.
Iniziarono ad arrivarmi notizie di diversi compagni che erano diventati tossicodipendenti. Ragazzi che pensavano di essere più forti di ogni contrarietà della vita e, perché no, l’assunzione di una o più sostanze poteva aiutare…

Poi, gli incontri ravvicinati e, spesso, drammatici con ragazze e ragazzi sono stati quotidiani sia al centro giovanile, dove lavoravo come operatore, sia in comunità terapeutica, dove ho trascorso quasi sei anni di full immersion come educatore professionale. Rodolfo, Attilio, Guglielmo, Giannina, Vinicio, Catia, sono solo alcuni dei nomi di storie concrete con cui mi sono rapportato ogni giorno. Alcune storie continuano, riuscendo a dare un taglio netto con quella non vita e altre, purtroppo, no. A lungo ho pensato ai tanti episodi vissuti in quel micromondo che era la comunità terapeutica. Agli errori di valutazione commessi e ai successi dove il merito era soprattutto loro. Noi educatori eravamo le loro stampelle come quei piccoli alberelli che pian piano provano a crescere e poi arrivano a riaffrontare la vita e un nuovo futuro. A rimettere radici.

Le poesie di Dall’Olio ci/mi ricordano anni quasi passati nel dimenticatoio. Riporto una lirica diretta come un pugno nello stomaco.

LORO

Avevano i capelli lunghi
gli orecchini
i jeans alla varechina
stavano sulle panchine
dei giardini
ricordi lo zoo di Berlino?
Erano un modello
e una moda
non usare la roba
ti escludeva
da quel luogo
non c’era più politica
i blindati
erano passati
i terroristi non aveva presa
Nemmeno il Partito
Una giovinezza
Tarlata
Come mobili lucidi
In apparenza
Sotto soffiava
La violenza
Contro se stessi
Nelle spade
piantate
in vite
Piene di onnipotenza
Sovrumana
E ancora tarli
Polvere
Nessuno poteva sapere
E’ bastata
è bastata
Anche una
Una volta
Maledette
Pere

Anche il linguaggio poetico asciutto può aiutare a non dimenticare ma non basta. Lo sappiamo e non si può mai demordere o rimandare agli altri.

“I ragazzi dei giardini”, l’ultimo libro di Roberto Dall’Olio è reperibile nelle migliori librerie di Bologna e Ferrara.

Roberto Dall’Olio (1965), bolognese, docente di filosofia e storia al Liceo Classico Ariosto di Ferrara. Ha pubblicato diversi volumi di poesia. E’ del 2015 il poema “Tutto brucia tranne i fiori” Moretti e Vitali editore- nota di Giancarlo Pontiggia postfazione di Edoardo Penoncini – con il quale ha vinto il premio Va’ Pensiero 2015. Con l’editore L’Arcolaio ha pubblicato il poema Irma con note di Merola, Muzic, Sciolino, Barbera e la raccolta di poesie “Se tu fossi una città” con nota di Romano Prodi. Nel 2021 ha pubblicato Monet cieco (Ed. Pendragon). Vive a Bentivoglio nella pianura bolognese dove è presidente della sezione locale dell’ANPI.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

STORIE IN PELLICOLA /
Ariaferma di Sardegna

Grande successo di pubblico e una valanga di nomination al David di Donatello 2022, ben 11, e due prestigiosi Premi, Miglior attore protagonista, consegnato a Silvio Orlando e migliore sceneggiatura originale, a Leonardo Di Costanzo, Bruno Oliviero e Valia Santella.

Parliamo di Ariaferma, film di Leonardo Di Costanzo girato, in pieno lockdown, in Sardegna, a Sassari, all’interno del carcere in tufo di San Sebastiano, costruito nel 1871, diventato il carcere ottocentesco di Mortana del film, spazio immaginario che richiama il penitenziario di massima sicurezza, e che nessuno sembra più voler abitare, né i carcerati, né le guardie né tantomeno il tempo che si dimentica di tutto e di tutti, implacabile.

Set del film “Dall’interno” di Leonardo Di Costanzo. Foto di Gianni Fiorito

Alienazione, solidarietà, onore, rispetto, codice barbaricino di un entroterra misterioso, inerzia, limbo di coabitazione forzata in attesa di sviluppo sono parte del linguaggio lineare di un film intenso e magistralmente interpretato da due protagonisti che si fronteggiano con reciproco rispetto, Toni Servillo e Silvio Orlando, rispettivamente Gaetano e Don Carmine Lagioia.

Gaetano è l’ispettore di Polizia Penitenziaria lasciato con un pugno di colleghi (cinque) e una dozzina di agenti a gestire dodici detenuti, che poi diventano tredici, in un carcere sperduto in Sardegna. Un carcere vecchio, antico, malridotto, cadente, che sta chiudendo, con carcerati tutti trasferiti, tranne quei dodici, che devono aspettare, insieme alle guardie, in una lunga e interminabile attesa (“L’ordine di trasferimento può arrivare in qualsiasi momento, anche domani”, ripete Gaetano, come un mantra che vuole convincere tutti, ma cui si fatica a credere). E si aspetta, sospesi nello spazio e nel tempo, con una tensione continua che però non sfocia mai in protesta.

“È dura stare in carcere, eh”, dice a un certo punto Don Carmine, un boss camorrista a fine pena, rivolto a Gaetano. Non è una provocazione, Don Carmine è intelligente e scaltro, non vuole alimentare malumori o tensioni. La sua è la frase simbolo in una pellicola silenziosa, dai toni bassi, che fa della fotografia e delle immagini le migliori alleate e narratrici: alcuni stanno dietro le sbarre, altri no, ma in fondo il carcere è carcere per tutti. “Io e te non abbiamo nulla in comune,” si lascia scappare Gaetano a un certo punto, sotto tensione. Ma lo sa bene che non è vero. Così come lo capiamo anche noi.

C’è comunque tanta umanità, nelle vite che si intrecciano, anche a costo di violare le regole. Basta soffermarsi sulla vicenda di Fantaccini (l’esordiente Pietro Giuliano), ragazzo problematico che diventa il tredicesimo detenuto dopo l’ennesimo scippo. Gaetano, che l’ha visto entrare e uscire di lì troppe volte, gli vuole bene e non lo nasconde, così come non lo fa Lagioia, che, alla fine, se ne prende cura. Il contatto umano rimane sempre vivo, la confidenza è un bisogno inespresso, i protagonisti sono separati da sbarre reali ma anche invisibili, l’altro diverso da sé non è poi così altro o diverso. Sguardi eloquenti interminabili.

L’aria è ferma nel carcere di Mortana, esattamente come il tempo. Un destino comune.

Un film importante, carico di pathos e di umana bellezza, da non perdere.

 

Ariaferma, di Leonardo Di Costanzo, con Toni Servillo, Silvio Orlando, Fabrizio Ferracane, Salvatore Striano, Italia, 2021, 117 min.

 

The Great Energy Swindle
(la grande truffa dell’energia)

“The great rock’n roll swindle” è un film del 1980 nel quale il manager dei Sex Pistols, Malcolm Mc Laren, racconta che il punk fu una gigantesca operazione commerciale fintamente iconoclasta per fare un mucchio di soldi. Una truffa (swindle, appunto). Con il senno di poi e il fiuto di sempre, Mc Laren diceva solo una parte della verità; ma non può essere considerato impostore chi, in sostanza, dà dell’impostore a se stesso.

Il primo a parlare di truffa sui prezzi dell’energia è stato l’attuale Ministro per la Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, che non può certo, in materia, essere definito un impostore.
Poi si è defilato, perché un ministro ha l’obbligo della prudenza e della diplomazia – o forse più banalmente perché gli hanno detto che è meglio se sta zitto. Sta di fatto che durante la guerra in Ucraina le forniture del gas russo all’Europa e all’Italia non si sono mai interrotte.
Quindi non c’è stato, finora, nessun problema di squilibrio tra domanda e offerta di gas che possa giustificare il decollo dei prezzi al consumo. 

Per spiegarne le ragioni cito chi di sicuro non è un comunista- populista-incompetente- nemico-del- mercato, cosa che potrei essere io. Alfonso Scarano, analista finanziario indipendente;

Dice Scarano, rispondendo a un’intervista di Andrea Trucco su Valigia Blu: “Il problema in Italia dipende innanzitutto dal fatto che Arera (l’ente pubblico che vigila sul mercato dell’energia elettrica e del gas naturale) fa riferimento ai dati del mercato spot sul gas naturale. L’aumento del prezzo sul mercato finanziario ha portato a un’induzione degli aumenti di prezzo nei consumi perché Arera prende questi dati in maniera quasi automatica, asettica, anche se questi sono staccati dal cosiddetto prezzo doganale, cioè quello relativo al gas fisico che passa nei gasdotti e sul quale vengono poi calcolate le accise. Per dirla in maniera più semplice: il prezzo fisico si è distaccato da quello speculativo… La mia tesi, o potremmo dire un legittimo sospetto, è che ci sia stata una manipolazione del mercato TTF che mira a stravolgere gli equilibri geopolitici. Penso per esempio al fatto che nel giro di poco tempo gli USA sono riusciti a piazzare all’Europa 15 miliardi di metri cubi di GNL a prezzi esorbitanti: un risultato impensabile appena pochi mesi fa. Ma soprattutto ha permesso ai nostri tre operatori principali sul gas, vale a dire ENI, Snam ed Edison, di posizionarsi in una rendita parassitaria, lucrando con la differenza tra i prezzi reali alla fonte e i prezzi speculativi”.

Ancora – perché quando un addetto ai lavori dice le cose bene, non si può dirle meglio: “…anche una tassazione maggiore non risolve del tutto la questione. Bisogna andare alla radice del problema, rivolgendosi al mercato TTF di Amsterdam e rivolgendosi a trader professionisti, anche perché si tratta di un mercato talmente di nicchia che si conoscono tutti gli operatori. Serve un’inchiesta internazionale, seria e di parti terze, per capire se determinati soggetti hanno stabilito cartelli e accordi sottobanco”. Infine: “Se ci fosse una reale volontà politica si potrebbero obbligare aziende come Eni a restituire ciò che hanno guadagnato a chi ha perso tanto o tutto.” (per l’intervista integrale leggi qui).

Queste dichiarazioni sono di Alfonso Scarano, analista finanziario indipendente. Che non sarà l’oracolo di Delfi, però, se il primo a parlare di “truffa” sui prezzi dell’energia è stato l’attuale Ministro per la Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, molto inserito negli ambienti che contano e certamente aduso alla cautela, credo che siamo messi male.

Poi ci sono i fenomeni che stanno al governo ma che non riescono a stare zitti (non nel senso di Cingolani, voce dal sen fuggita). E dovrebbero invece tacere, visto che hanno emanato una norma che (timidamente) vorrebbe far pagare ai nostri produttori di energia una tassazione straordinaria sui profitti straordinari che hanno accumulato in questi mesi, e non ci riescono assolutamente.
Allora, i casi sono tre: o scrivono male le norme (grave, per dei seri e competenti, anzi, i “migliori”); o hanno fatto male i calcoli del gettito previsto (visto che hanno incassato un decimo dello stimato); oppure chi non paga se ne frega dello Stato e dei cittadini, e questo menefreghismo è praticato, tra le altre, da un’azienda che è detenuta al 30% dallo Stato.

Invece si permettono anche di pontificare. Tipo il nostro spocchioso quant’altri mai Luigi Marattin (deputato di Italia Viva), che dà del populista sovietico a Maurizio Landini, mentre dovrebbe  chiedersi per quale arcana ragione, invece dei 10 miliardi di sovrattassa alla aziende del gas per gli extraprofitti che il governo (di cui Marattin fa parte) doveva incassare entro giugno. sono arrivati solo 800 milioni. E magari, da grande economista quale dice di essere, trovare un rimedio a questa vergognosa disfatta dello Stato.

In Italia chiunque parli di misure redistributive – che prelevino da chi accumula ricchezze e restituiscano a chi perde reddito e potere d’acquisto – è un ‘populista’. Punto e a capo.

Invece i fautori del laissez-faire , i liberal liberisti, per i quali i mercati non sono speculativi, ma fanno semplicemente il loro mestiere, sono le persone serie.
Peccato, però, che la loro mitologica ‘classe media’, quella che  dichiarano di voler difendere, scivolerà nel giro di tre bollette nell’incubo di non avere i soldi per fare la spesa. E intanto le imprese, a una a una, stanno chiudendo i battenti, perché produrre in perdita a causa del caro energia non conviene. Evviva il neoliberismo.

E’ ARRIVATO UN BASTIMENTO CARICO DI …
Facciamo chiarezza sull’import di cereali da Russia e Ucraina

 

Sembra non finire mai la telenovela delle navi che trasportano cereali (grano e mais in particolare) dai porti dell’Ucraina verso i paesi importatori, tra i quali non figura certamente l’Italia, che sicuramente necessita di questi importanti prodotti agricoli, ma dipende marginalmente dal paese invaso dalle truppe russe per i propri approvvigionamenti.

Ma e vero che l’Italia  dipende dal grano russo e ucraino?

Le notizie apparse in questi ultimi mesi su quotidiani e telegiornali, mai così frequenti e numerose, hanno fatto pensare che molti paesi, e anche il nostro, fossero fortemente dipendenti dai paesi in conflitto per il commercio dei cereali.

Non è esattamente così, e a dirlo è ISMEA (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) Ente del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, che in un recente report descrive l’attuale situazione, affermando che le anomalie “del mercato delle commodity agricole, cominciata dalla fine del 2020, è da ricondurre a una moltitudine di fattori che hanno agito in maniera concomitante: pandemia mondiale, vigorosa ripresa della domanda nelle fasi post pandemiche, forte aumento delle richieste all’estero della Cina di cereali e soia, dazi all’export imposti dalla Russia, eventi climatici estremi, guerra in Ucraina”.

Alcuni di questi fattori si sono di recente modificati e, continua il report di ISMEA:  “l’andamento del mercato mostra segnali di flessione, risentendo dell’accordo raggiunto tra Ucraina e Russia per sbloccare i porti ucraini del Mar Nero e delle prime indicazioni circa l’aumento dei raccolti nordamericani. Infatti, a luglio 2022 l’Indice FAO, che monitora l’andamento dei prezzi internazionali delle commodity agricole, evidenzia un calo dei prezzi dei cereali dell’11,5% su base mensile, rimanendo comunque più elevato del 16,6% rispetto a luglio 2021.[1]

Certo, la realtà di questo comparto è particolarmente complessa, e non da oggi si assiste periodicamente a ricorrenti crisi, associate principalmente al regime dei prezzi delle materie agricole.
A partire dalla seconda metà del 2020, afferma ISMEA, “lo scenario internazionale dei mercati è stato caratterizzato da un significativo e generalizzato incremento dei prezzi delle principali commodity energetiche e agricole, riconducibili a un insieme di fattori di natura congiunturale, strutturale e speculativa”, e della “improvvisa e intensa ripresa della domanda mondiale nella prima fase post-pandemica, e dei relativi problemi organizzativi e logistici dei principali scali mondiali”.

Come dicevo, le notizie apparse recentemente su una possibile crisi alimentare sono state spesso confuse e superficiali. In sostanza, non si comprende – o non viene fatto capire – chi e come possa essere coinvolto dalle situazioni originate dalla guerra Russo-Ucraina.
A inizio giugno, La Repubblica scriveva: “Ucraina, nel deserto del porto di Odessa: “Qui il grano arriva e poi non riparte. Così il blocco favorisce i russi e i colossi americani dell’export”. A sua volta, Il Fatto Quotidiano paventava addirittura una “guerra del pane”, spiegando poi che: “dall’inizio del conflitto in Ucraina i prezzi dei cereali hanno continuato a crescere aumentando il rischio di una carenza globale di cibo e di un impatto devastante sui Paesi in via di sviluppo”. 

Da questi pochissimi esempi si evidenzia che due sono i fattori che possono portare ad uno stato di crisi alimentare in relazione alla disponibilità dei principali cereali utilizzati a livello mondiale: da un lato le produzioni, dall’altro i prezzi. E’ ovvio, infatti, che se anche c’è disponibilità di prodotto ma i prezzi delle materie agricole sono elevati, il risultato è che molti Paesi non sono in grado di importarne le quantità necessarie al proprio fabbisogno.

A questo proposito, emblematico è stato il caso dell’India, dove, a fronte di ottimistiche dichiarazioni di disponibilità nei primi mesi dell’anno ad esportare quantitativi record di grano (10 mln di t), e che si era detta pronta a “sfamare il mondo”, a metà dello scorso maggio, a causa di un’ondata di caldo torrido che ha ridotto la produzione e rialzato i prezzi, ne ha vietato le esportazioni, mettendo in crisi molti Paesi in via di sviluppo che da quel grano dipendono. (ascolta il servizio di Radio3) 

Può essere utile quindi descrivere il comparto cerealicolo fornendo qualche dato in più, ricordando però che il mercato di queste importanti materie prime dipende non solo dai quantitativi prodotti e dai prezzi, ma anche dalle dinamiche di altri comparti, a cominciare da quello dell’energia.

Cereali: quote di produzione mondiale, import ed export

La produzione totale di cereali (mais, grano, riso, avena, orzo, ecc.) nel mondo viene stimata per il 2021 in 2.791 milioni di tonnellate secondo la FAO, un dato molto superiore a quello stimato dall’organizzazione intergovernativa International Grains Council (IGC), che lo valuta in 2.226 mln di tonnellate.

Relativamente al solo frumento tenero ISMEA, su dati dell’IGC[2], riporta una produzione media stimata nel triennio 2020-22 di circa 772 mln di t. con Cina, India. Russia, USA e Francia i primi 5 produttori mondiali (52%).
Attenzione: l’Ucraina risulta solo settima in questa classifica, contribuendo con il 4% alla produzione mondiale.
A livello di esportazioni il primo paese è la Russia con il 21% del totale commercializzato, seguita dagli USA (14%), e dal Canada (11%); a seguire Ucraina e Francia con il 10% ognuna. Le principali destinazioni dell’export, ma relativamente al triennio 2018-20, per la Russia sono l’Egitto e la Turchia, per gli USA il Messico e le Filippine e per il Canada l’Indonesia e la Cina. La Francia invece esporta principalmente in Algeria, mentre l’Ucraina in Egitto e Indonesia. L’Ungheria è il paese che esporta in Italia la quota più rilevante (23%) del totale importato, seguita dalla Francia (16%), mentre dall’Ucraina ne riceviamo solo il 3%.

Per il frumento duro, a fronte di una produzione media mondiale (anni 2020/22) di quasi 33 mln di t, i principali paesi produttori sono il Canada con il 15 % del totale, l’Italia (12%) e la Turchia (10%). Le esportazioni invece non riflettono la classifica di produttori: infatti se il Canada rimane primo anche in questo caso, le destinazioni sono principalmente l’Italia e il Marocco (19%). Secondo paese per export è la Francia che invia in Italia il 36% del duro commercializzato, poi la Repubblica Ceca che esporta in Germania e Austria e a seguire sono USA, Kazakistan, Russia e Ucraina i paesi esportatori di frumento duro. L’Italia importa il 46% di questo cereale dal Canada, mentre per Grecia, USA e Francia assieme la quota complessiva importata si assesta al 22% del totale.

Per il mais, che in termini produttivi rappresenta il cereale maggiormente coltivato al mondo, l’Ucraina detiene un ruolo rilevante nel mercato, non tanto in termini produttivi, in quanto rappresenta solo il 3%, ma per essere tra i principali esportatori, soddisfacendo il 15% delle richieste globali. La Russia, al contrario, è marginale sia in termini produttivi che di export, sempre secondo i dati elaborati da ISMEA. I principali produttori di questo cereale, che, va ricordato, viene utilizzato soprattutto per l’alimentazione animale, sono gli USA (31%), la Cina (23%), il Brasile (9%) e l’Argentina, che con il 5% si colloca prima dell’Ucraina. Il maggiore esportatore di mais sono gli USA, seguiti da Brasile, Argentina e Ucraina.
La Cina, pur essendo il secondo produttore al mondo di mais, è il primo paese destinatario dell’export dall’Ucraina.
Per quanto riguarda il nostro paese i principali fornitori di mais sono in ordine di importanza l’Ungheria (30% sul totale importato), poi Ucraina seguita da Francia, Austria, Croazia e Germania, secondo le statistiche riferite al 2021. Dall’Ucraina ne importiamo il 15%.

Il riso, infine, che nel contesto mondiale risulta il terzo cereale per quantità prodotte (oltre 500 mln di t nell’annata 2021/22 secondo le rilevazioni dell’IGC), ovviamente non riveste una grande importanza per il nostro continente. Il commercio di riso nell’anno in corso ha raggiunto quantitativi record nei mercati dell’Asia e dell’Africa. La produzione globale 2022/23 è prevista leggermente in calo a causa di potenziali riduzioni dei principali produttori, tra cui l’India, mentre la domanda mondiale di importazioni nel 2023 dovrebbe rimanere elevata per la situazione dell’Africa.

L’andamento dei prezzi 

Di notevole interesse le dinamiche dei prezzi dei vari cereali, che, nello scenario di grande incertezza che si sta vivendo, ma da valutazioni un po’ troppo superficiali, risulterebbero in aumento solo negli ultimi mesi e, principalmente, a causa del conflitto in Ucraina, in base a quanto comunicato dalla maggioranza dei media a partire dalle prime settimane dall’inizio della guerra. In realtà, stando ai dati del report di ISMEA: “gli incrementi di prezzo più consistenti per i principali cereali, si sono registrati già dallo scorso anno, mentre tra gennaio e aprile 2022 questi sono stati decisamente più contenuti”[3].

Se si analizzano i singoli casi, nel report, per quanto riguarda il frumento duro, viene riportato che “ il conflitto in atto non ha alcuna connessione diretta in ragione del fatto che produzione ed esportazione mondiale sono influenzate dal Canada, il quale nel 2021 ha perso il 60% dei propri raccolti”.

Alla luce di questa precisazione si osserva che la crescita dei prezzi del frumento duro si è verificata dal giugno 2021 – quando era quotato poco più di 269 euro/t – arrivando a 514 euro/t a novembre (+245 euro/t) e assestandosi attorno ai 500 euro/t da dicembre in poi e registrando una quotazione di 519 euro/t secondo i dati aggiornati al giugno scorso. Le semole di grano duro (in Italia di notevole importanza per la produzione della pasta secca) hanno subito un aumento dei prezzi da 412 euro/t nel giugno 2021 a circa 782 euro/t a novembre, rimanendo praticamente costanti nei mesi successivi fino alle ultime rilevazioni.
Per quanto riguarda i prezzi medi del frumento tenero i dati statistici hanno mostrato una crescita non così evidente come per il duro; dai circa 230/240 euro/t di metà 2021 si arriva, con qualche oscillazione ai circa 313 euro/t di febbraio 2022. Poi, da questo mese, i prezzi sono saliti fino a circa 409 euro/t, anche a causa del conflitto russo-ucraino, per poi scendere a poco più di 361 euro/t dello scorso luglio.

Per il mais la situazione sostanzialmente è stata di leggero aumento dall’aprile 2021 (circa 233 euro/t), con un’impennata a marzo e, ultimo dato di aprile, leggero calo a circa 371 euro/t. Permangono le preoccupazioni sulla mancanza del mais ucraino, e non sono positive le prime indicazioni per la prossima campagna di commercializzazione 2022/23.

Qualche considerazione

Al termine di questa lunga, e forse un po’noiosa, elencazione di numeri e dati, due considerazioni.
Da un lato, come già detto in apertura, è possibile affermare che l’informazione proveniente dai principali media (giornali e TV) risente di scarso approfondimento, poca chiarezza e imprecisione.

Abbiamo assistito ad episodi che possono far sorridere sia per la superficialità che per la troppa enfasi data ai fatti raccontati. Come il 13 agosto, quando una nave proveniente dall’Ucraina giunge al porto di Ravenna con un carico di 15mila tonnellate di mais per alimentazione animale. (Agenzia ANSAUcraina: a Ravenna la nave con 15mila tonnellate di mais. Prima in Italia dopo lo sblocco diplomatico, arriva da Odessa). In un notiziario TV ho potuto assistere a una diretta con una giornalista che commentava alcuni momenti delle operazioni di scarico.
Sulla pagina online del Resto del Carlino c”è anche un video  che mostra l’arrivo della nave al porto di Ravenna, lo scarico del prodotto e i relativi controlli. Tutte operazioni di routine che non presentano nulla di eccezionale e si ripetono quotidianamente in questo e in tanti altri porti italiani. Nel servizio TV e nel video si vedono gli addetti ai controlli che prelevano campioni della granella di mais per le analisi che, specie per questo cereale, vengono normalmente effettuate per verificare la eventuale presenza di tossine prodotte da muffe. Anche qui nulla di strano, ma per l’enfasi data alla notizia, e per il contesto in cui la si racconta, le operazioni descritte sembrano risultare straordinarie.

Un’ultima domanda a cui rispondere, ma dal punto di vista quantitativo il carico arrivato a Ravenna è tanto o è poco?

Si consideri che nel 2021 l’Italia ha importato dall’Ucraina 785.000 tonnellate di mais su una produzione nazionale di circa 6 milioni di tonellate (dati ISTAT). Premettendo che le importazioni di mais dell’Italia dall’Ucraina sono importanti e che nel 2020 hanno rappresentato il 13% dei volumi complessivi (prima del 2020 i volumi erano molto più elevati e il “peso” del mais ucraino arrivava al 20%), attualmente ne rappresentano poco meno del 50% della domanda interna, con un andamento crescente da alcuni anni a questa parte in conseguenza del crollo delle superfici a mais in Italia (per fattori climatici e di mercato). Le 15.000 t del carico arrivato a Ravenna rappresentano perciò circa il 2% della quantità importata dall’Ucraina lo scorso anno, e quindi per raggiungere quella stessa quota occorrerebbero più di 50 navi con un carico equivalente.
La conclusione ovvia è che il carico arrivato in Italia il 13 agosto non ha presentato nessun carattere di eccezionalità.

NOTE
[1] “Tendenze e dinamiche recenti”, ISMEA, agosto 2022.
[2] “Dinamiche fondamentali dei cereali e situazione degli scambi commerciali con Ucraina e Russia”, ISMEA, marzo 2022.
[3] “L’impatto della crisi Russia-Ucraina sui prezzi dei cereali e della soia e proiezioni per la campagna 2022/23”, Report Focus on, ISMEA, maggio 2022.

TORNA INTERNO VERDE
Per un settembre da innamorati

I giardini segreti di Ferrara

Due giorni per esplorare l’anima più nascosta e rigogliosa della città estense

Interno Verde Ferrara giardino privato in via Boccaleone

Il consueto appuntamento annuale, da annotare e non perdere, con le eleganti corti rinascimentali, gli orti medievali nascosti da alte mura di cinta, le piccole oasi fiorite di tranquillità e pace domestica, le geometrie zen e i labirinti di siepi, i profumi e i colori che avvolgono le nubi, i magnifici alberi secolari e gli arboreti insospettabili, celati alla vista dei passanti curiosi dalle facciate degli antichi e imponenti palazzi. Merletti su merletti.

Interno Verde Ferrara giardino privato in via Boccaleone

Ferrara custodisce gelosamente, all’interno del proprio centro storico uno spettacolare patrimonio di curatissimi giardini privati, degni delle fiabe più belle e custodi di storie d’amore reali o sognate. Un patrimonio che eccezionalmente si aprirà alla comunità grazie al festival Interno Verde. Come avviene dal 2016. Ammetto che non mi sono persa un’edizione.

“La natura non ha fretta, eppure tutto si realizza”
 (Lao Tzu)

Sabato 17 e domenica 18 settembre si potranno esplorare oltre cinquanta giardini, gentilmente aperti dai loro proprietari. Isole segrete ricche di suggestioni e ricordi, attraverso i quali è possibile leggere la storia, i cambiamenti e i vissuti della città.

Interno Verde Ferrara giardino privato in via XX Settembre

Negli anni il numero dei giardini visitabili è aumentato, segno di una crescente predisposizione della cittadinanza a condividere spazi, storie e valori. Un bellissimo momento di scambio e di confronto, soprattutto quando sti stanno ad ascoltare i proprietari che ci raccontano storie e aneddoti di quelle realtà tramandate e curate nel tempo.

L’assenza di un giardino fa apparire edifici e palazzi opere grossolane. (Francis Bacon, Saggi, 1597-1625)

L’obiettivo del festival è, fin dalla sua creazione, quello di sensibilizzare i visitatori al rispetto della natura, fornire una chiave per interpretare più profondamente il senso dello spazio che si attraversa, meglio se in silenzio, sollecitare una più completa comprensione del passato e maggiore consapevolezza della ricchezza presente, che va tutelata e promossa. Per questo ogni giardino sarà accompagnato da informazioni di carattere botanico, storico e architettonico, che saranno a disposizione online nella mappa interattiva dell’evento e in formato audio, su Spotify. Le stesse schede, corredate di belle fotografie, saranno raccolte in un volume a tiratura limitata, in omaggio a chi si iscrive entro venerdì 16 settembre, arricchito quest’anno da un’originale collezione di figurine.

Interno Verde Ferrara Palazzo Costabili

“Colui che danza cammina sull’acqua e dentro una fiamma”
(Federico Garcia Lorca)

Accompagnerà la manifestazione un fitto calendario di iniziative dedicate all’ambiente: mostre e installazioni artistiche, laboratori per adulti e bambini, picnic e gite fluviali. Da non perdere Interno Verde Danza, la rassegna organizzata insieme al Teatro Comunale Claudio Abbado, che porterà nei luoghi più significativi della città, da Palazzo Schifanoia a Casa Romei, le performance site specific di compagnie di danza contemporanea di rilievo internazionale. Ci saranno Nicola Galli (Il mondo altrove) e C.G.J., collettivo Giulio e Jari (Evento), al Chiostro di San Paolo, Michele Merola (Short stories), prima mondiale, al cortile di Casa Romei, Aterballetto (Microdanze/urban setting), a Palazzo Schifanoia  e Collettivo Cinetico (O+< Scritture viziose sull’inarrestabilità del tempo) a Palazzina Marfisa d’Este. Rituali danzati, ricerca e creazioni di formati performativi, contatto e sinergia con la bellezza dello spazio che ospita la danza, ricerca e profondo studio del movimento. Da non perdere.

Le iscrizioni sono già aperte online, al sito: www.internoverde.it.

Quest’anno l’associazione lancia, per la prima volta, Interno Verde Design, un concorso rivolto ai giovani grafici e illustratori under 35, chiamati a realizzare un poster che rappresenti ed esprima al meglio l’anima della manifestazione e uno dei suoi luoghi più amati e significativi, il giardino di Casa Hirsch. Ad esaminare gli elaborati una giuria d’eccezione: Giulia Nascimbeni, grafica e fotografa che da anni firma l’immagine ufficiale dell’evento, Emiliano Ponzi, illustratore di fama internazionale con alle spalle innumerevoli premi e collaborazioni di prestigio, dal Salone del Mobile al New Yorker, da Vanity Fair a Moleskine, e Vasco Brondi, cantautore che da sempre ha abbinato alla produzione musicale una particolare attenzione nei confronti del disegno, collaborando con artisti quali Gipi, Andrea Bruno, Gianluigi Toccafondo, Marco Cazzato, Nicola Magrin e Davide Toffolo. Ponzi e Brondi sono cresciuti a Ferrara, e proprio in virtù dello speciale legame conservato con il capoluogo estense, hanno voluto supportare l’iniziativa.

Interno Verde Ferrara – Tennis Club Marfisa

C’è poi un’altra bella iniziativa: la caccia al tesoro di Wildflowers.

Il laboratorio floreale realizzerà tre installazioni nei giardini segreti aperti eccezionalmente al pubblico in occasione del festival. Si tratta di lavori site specific realizzati ad hoc per l’evento, dedicati ai fiori, alla coltivazione sostenibile, alla multiforme idea di flower design. La partecipazione è libera e gratuita. Chi vuole cimentarsi nel contest deve semplicemente iscriversi al festival, scovare le installazioni, scattare a ciascuna una foto e condividerla su Instagram, taggando @internoverde e @wildflowers.lab.

 

 

Nello stesso weekend, chi avrà trovato e immortalato le tre opere, potrà passare nel negozio di via Boccacanale di Santo Stefano 16, a ritirare il premio: un buono sconto per l’acquisto di piante e fiori, il libro con le descrizioni e le immagini dei giardini aperti da Interno Verde a Parma e a Mantova (per completare il trittico delle edizioni 2022) e le figurine che completano l’album di Interno Verde Ferrara.

 

 

Interno Verde è patrocinato dalla Regione Emilia-Romagna, dal Comune e dall’Università di Ferrara, dall’Associazione Italiana Architettura del Paesaggio, dall’Associazione Nazionale Pubblici Giardini, dall’Associazione Parchi e Giardini d’Italia.

Immagini cortesia di Interno Verde

Per l’abolizione legale e politica della guerra

La questione della pace è primaria nella politica perché include tutte le altre: giustizia, economia, povertà, uguaglianza, ambiente e clima, energia, lavoro, sanità, relazioni internazionali, scuola e istruzione, informazione, libertà…

Per assicurare la pace, una pace giusta e stabile, è necessario ripudiare la guerra. Questo rifiuto in Italia è un impegno costituzionale (art. 11), ma è anche, in tutto il mondo di oggi, esigenza primaria della razionalità politica, di una politica secondo ragione, non folle e criminale.

Oggi, ma già da Hiroshima 1945, la guerra non è più giustificabile, è impossibile che abbia fini giusti perché accende pericoli estremi, totali. La guerra è fuori e contro la ragione politica, contro la difesa dell’umanità.

Ma non basta. È necessario emanciparsi moralmente dall’atteggiamento armato, e smontare politicamente l’enorme apparato bellico, che è spreco di risorse, produttore di cultura di guerra, di corruzione civile, di speculazione sul consumo di armi, ed è causa di focolai di guerra.

Per assicurare una pace giusta e stabile è necessario negare collaborazione politica, economica, culturale, emotiva, psicologica, alle politiche di guerra, di qualunque stato o potenza.

Ma non basta. È necessario, in positivo, costruire una propositiva cultura etico-politica di pace, una cultura che riconosce i conflitti reali di ogni genere, e li affronta con strategie non distruttive.

Conflitto non è sinonimo di guerra. Conflitto è ogni differenza e tensione esistenziale, tra singoli come tra gruppi umani, che può valere come dinamica storica arricchente, se gestito con mentalità e strategie non distruttive ma compositive, radicalmente alternative alla guerra.

La guerra è l’incapacità di vivere un conflitto come parte della vita, sebbene difficile: la guerra vuole risolverlo col distruggere una o più delle sue componenti umane.

Non è vero che la guerra è nella natura umana: è una grave malattia autoprocurata, ma curabile, guaribile, perché è contraria alla radicale aspirazione umana alla vita, allo sviluppo umano, in tutte le dimensioni materiali e spirituali.

Per assicurare una pace giusta e stabile occorre, nelle persone come nelle istituzioni, quella disposizione civile fondamentale che ripudia l’uccisione di persone umane come antiumano mezzo di azione, sempre illegale e degradante, impolitico.

Ogni vita va mantenuta e difesa, anche se sbaglia e se va corretta, perché ha sempre una possibilità di indefinita umanizzazione, per sé e per gli altri. La guerra, omicida per natura, è la negazione della politica umana. La politica umana è l’antitesi della guerra.

La politica, infatti, è essenzialmente la capacità di vivere insieme, nella pluralità, in cui l’individuo riceve dagli altri e contribuisce agli altri nel reciproco adattamento, che in parte limita, ma in gran parte costruisce ogni persona.

L’idea di politica include la pluralitàpolis vuol dire città, vita insieme di molti, perché significa anche molteplicità: p, es. poliglotta, poligrafo, ecc. Molti diversi modi di essere umani compongono la ricchezza dell’umanità.

Non siamo soli, ma insieme, ed è impossibile vivere senza gli altri. Le differenze, anche problematiche, vanno assunte ed elaborate come fattore costruttivo di umanità: distruggere le differenze riduce tutti noi.

Ci sono situazioni e azioni che aggrediscono con violenza i diritti e le vite di persone, di popoli. Le vite e i diritti devono essere difesi. Ci sono mezzi e azioni di difesa che non imitano e non riproducono, nei mezzi armati, l’offesa patita. La difesa con le armi omicide duplica la violenza patita, e così non afferma davvero i valori vitali che vuole difendere.

Ma ci sono esperienze, tecniche, tradizioni, realtà storiche di resistenza popolare attiva nonviolenta. La disobbedienza coraggiosa frustra il potere ingiusto, che ha bisogno di obbedienza e sottomissione.

La resistenza e difesa nonviolenta ha una forza maggiore: può anche costare vite e sofferenze, che sono meno amare della guerra, e affermano la maggiore qualità umana dei diritti difesi.

Per fare qui un solo esempio meno noto, tra molti nella storia (posso fornire una bibliografia storica delle molte lotte giuste di difesa nonviolenta) ricordo le donne di Carrara che, nel luglio 1944, disobbedirono in massa, davanti alle armi naziste in Piazza delle Erbe, all’ordine di sgombero della città, e rimasero coraggiosamente nella loro città davvero civile.

Per la pace è necessario uscire dalle culture politiche militari e dalle alleanze militari di difesa offensiva.

Ma non basta. È necessario, in positivo, diffondere nella cultura etico-politica dei cittadini e cittadine l’obiezione di coscienza personale (papa Francesco l’ha proposta ai giovani nell’incontro internazionale di Praga ,[Qui] 13 luglio 2022), che rifiuta ogni collaborazione alla guerra, nell’esercito, nell’industria, nel lavoro personale, nella informazione e cultura.

È necessario, in positivo, istituire corpi civili di pace, istituzioni pubbliche di volontari e volontarie, come già esistono nel volontariato civile non governativo, preparati alla intermediazione nei conflitti, alla solidarietà e soccorso delle popolazioni, a sostenere la difesa popolare nonviolenta, alla interposizione tra gruppi in guerra, alla internazionalizzazione di ogni conflitto nel quadro legale obbligatorio delle Nazioni Unite, che, in nome della nostra unica Umanità, vuole definitivamente «salvare le future generazioni dal flagello della guerra» (Statuto delle Nazioni Unite, Premessa) con la sua proibizione e punizione legale.

L’abolizione legale e politica della guerra è il passo di civiltà e umanizzazione richiesto alla coscienza di queste nostre generazioni e all’azione politica odierna.

L’umanità nella sua storia ha saputo abolire altre istituzioni disumane, per umanizzarsi, come i sacrifici umani alla divinità, la schiavitù legalizzata, la sottomissione consueta della donna all’uomo, il potere paterno di vita e di morte sui figli, i diritti dei padroni sui servi, la pena di morte in molti paesi, ecc..

A noi è chiesta fiducia e volontà per questo passo in avanti nella umanizzazione, che le diverse culture e spiritualità dicono in modi diversi ma uguali nella sostanza. L’abolizione della guerra è oggi la definitiva misura della nostra umanità.

Cover: Torino, Enrico Peyretti  interviene ad una manifestazione contro la guerra (Foto di Giorgio Mancuso)

Nuovissime LINEE GUIDA
per la Conservazione degli Alunni e degli Insegnanti

 

Nella recente nota del Ministero dell’istruzione che contiene i riferimenti per il contrasto alla diffusione del contagio da Covid-19 per l’anno scolastico che sta per partire, c’è una parte intitolata “Aerazione e qualità dell’aria negli ambienti scolastici”.
Questa fa riferimento alle “Linee guida sulle specifiche tecniche in merito all’adozione di dispositivi mobili di purificazione e impianti fissi di aerazione e agli standard minimi di qualità dell’aria negli ambienti scolastici e in quelli confinati degli stessi edifici”, emanate il 26 luglio 2022.

Ci aspettavamo molto da queste linee guida poiché diversi studi hanno dimostrato che la ventilazione meccanica controllata nelle aule, oltre a migliorare la qualità dell’aria, abbatte il rischio di contagio da covid-19 fino all’80%.
Ci aspettavamo molto perché speravamo che il Ministero investisse finalmente su questi dispositivi di purificazione delle nostre aule.
Ci aspettavamo che, dopo il dire, il Ministro dell’Istruzione passasse al fare.
E invece no!
Le linee guida che sono uscite guidano verso l’ennesimo paradosso: non ci sarà investimento per il miglioramento degli ambienti scolastici ma in compenso il Ministero investirà un mucchio di soldi in nuove tecnologie.

L’assurdo è che la scuola rimarrà un locale “malsano” con la vetrina “pulita” dove continueremo a mendicare i rotoli di carta igienica perché non ci sono fondi sufficienti…
Avremo una scuola con bei tablet e brutte toilette. 
Avremo più “aria fritta” e meno aria sana.

Il ministro Bianchi  ha sminuito l’importanza degli impianti di ventilazione nelle aule che pure hanno dato buoni esiti dove sperimentati. [1]
Chissà se è lo stesso Bianchi che prima di fare il ministro coordinava il gruppo di esperti impegnato nella gestione dell’emergenza Covid che valutava positivamente questa soluzione?
C’è un passaggio stupendo delle linee guida in cui è scritto: “Allo scopo di migliorare la qualità dell’aria negli ambienti scolastici, le Linee guida indicano anzitutto la necessità di attuare le ordinarie regole di buon comportamento, quali, ad esempio, la ventilazione delle aule attraverso l’apertura delle finestre. Sono poi da considerare – e se possibile evitare – fonti esterne di inquinanti in prossimità delle aule (es. parcheggi di mezzi a motore in prossimità delle finestre). Il rispetto del divieto di fumo in tutta la scuolaL’assenza di arredi e materiali inquinanti. L’igiene e trattamento di pavimenti e superfici, ecc. ”

Tradotto vuol dire: “Non chiedeteci gli impianti di ventilazione ma aprite le finestre” perché i primi costano, le seconde no.
Tradotto ancor meglio vuol dire una serie di banalità disarmanti, viste le quali verrebbe da fare la prova del palloncino a questi “guidatori” perché sembra che le loro linee non guidino troppo bene.
Come al solito mi rifugio nell’ironia per tentare di affrontare anche questo ennesimo paradosso che ci consiglia di tenere aperte le finestre per risolvere tutti i problemi.

Allora è facile immaginare che siano già pronte anche le linee guida relative alla conservazione degli alunni e degli insegnanti negli ambienti scolasticiI 10 punti saranno scritti pressappoco così:

– durante i mesi invernali, l’esposizione all’aria aperta degli alunni e dei docenti tramite “sospensione” con mollette da bucato che stringano bene le orecchie a dei fili tesi a tre metri da terra, collocati nei cortili delle scuole, affinché si senta bene “che aria tira” e tutti imparino a dire cose “campate in aria”;

– durante i mesi più caldi, la conservazione degli alunni e dei personale scolastico a temperature comprese fra un minimo di -21°C e un massimo di -18°C da effettuarsi tramite lo stoccaggio in cantine sotterranee o con l’impiego di ventilatori da banco (sono consentiti anche strumenti più potenti come i quarantalatori e gli ottantalatori);

– oltre al congelamento possono essere usati 
altri sistemi di conservazione degli studenti e degli insegnanti, quali: la salatura (mettere il sale in zucca), sott’olio (si consiglia di usare l’olio di gomito), la pastorizzazione (senza portarsi dietro le pecore) e l’essicamento (attenzione ai permalosi che si seccano troppo);

– è da 
evitare la vicinanza a fonti di calore quali fornelli, stufe e fuochi (ci si raccomanda di spegnere subito l’eventuale “fuoco sacro” per l’insegnamento che qualche docente potrebbe conservare);

– è fatto 
divieto di usare i colori caldi durante le attività didattiche (rosso, arancione e giallo in tutte le loro sfumature);

– occorre 
rispettare il divieto di fumo nelle aule, tranne il caso in cui il fumo sia meglio dell’arrosto [2];

– sono da 
evitare i parcheggi in doppia fila di mezzi a motore all’interno delle aule, nello spazio tra i banchi, a meno che i genitori non abbiano versato il contributo volontario;

– è 
sconsigliabile inalare ossidi e cariossidi, nitrati e nitriti, solfe e solfati, cloruri di vinile e cloruri di CD;

– non è sano, durante l’intervallo, nutrirsi di nutrie, anche se sono nutrienti;

– infine si invitano calorosamente gli alunni ed il personale a “respirare piano per non far rumore, ad addormentarsi di sera e risvegliarsi col sole, a vestirsi svogliatamente e a non mettere mai niente che possa attirare attenzione, un particolare, solo per farsi guardare” [3].

NOTE

[1] “Gli impianti di aerazione nelle scuole sono una misura integrativa non risolutiva per fermare il contagio”.
[2] La battuta è del grandissimo Freak Antoni
[3] Da “Alba chiara” di Vasco Rossi

Il dubbio
…un racconto

Il dubbio

…Ebbene, non lo so.
Non so se l’attimo del trapasso dalla vita alla morte segua le medesime regole e gli stessi percorsi in ogni situazione, non so nemmeno se posso dire di averlo realmente affrontato.
Il dubbio rimane.

Poiché, se ora posso raccontare ciò che ho da dire, non sono in grado di affermare con certezza di aver vissuto tutto ciò come qualcuno effettivamente ed eccezionalmente ritornato dall’aldilà. Magari, più banalmente, potrei giurare e spergiurare di avere immaginato tutto, di averlo sognato…
Ecco, di averlo certamente sognato!

La mente umana, è un fatto, non ha la capacità di sostenere contemporaneamente entrambe le esperienze di vita e di morte. O si sta da una parte o si sta dall’altra, non esiste una mezza via… oppure no?
Il dubbio rimane.

Non mi tormenterò nell’incertezza di dover decidere quando e come la mia coscienza ha ripreso a funzionare, o se sia ancora inconsapevolmente in balìa di se stessa e dei suoi infiniti trabocchetti.
Mi limiterò a raccontare questa storia a chi vorrà darmi la sua attenzione.
A voi l’onere della scelta se credermi oppure no.

Sentii una voce che mi chiamava, era lontana e non la riconobbi. Era una voce di donna. Aprii gli occhi ma una luce potentissima mi accecò. Fu doloroso, come se qualcuno mi avesse premuto coi pollici nelle orbite. Automaticamente richiusi gli occhi. Poi, piano piano, tutto si attenuò.
Lentamente li riaprii e riuscii a distinguere delle figure.
Ero in un letto, l’ambiente intorno mi ricordava la stanza di un ospedale. La luce del sole filtrava attraverso le fessure delle persiane abbassate.
La voce riprese a parlare: «Carlo, ben tornato! Come ti senti?», un’infermiera di bell’aspetto e dall’aria gentile mi sorrideva tenendomi il polso.
«Ho abbassato le persiane, così potrai riposare gli occhi.» aggiunse mentre armeggiava tra flaconi trasparenti e valvole della flebo.
Cercavo di parlare ma la voce non usciva.
L’infermiera mi fermò: «Carlo, non sforzarti! Sei rimasto in silenzio per molto tempo… Cerca di fare un lungo respiro, poi prova a parlare, ma senza fretta.»
Seguii il suo consiglio, respirai profondamente, ma quasi subito un grumo nella gola mi tolse il fiato. Mi mancò il respiro e tossii violentemente, un blocco di catarro mi uscì dalla bocca insudiciando il fazzoletto di carta prontamente allungatomi dall’infermiera.
«Grazie…», fu la prima cosa che, con un filo di voce, riuscii a pronunciare.
«Carlo, ho avvisato il dottore, sarà qui a momenti… Ora rilassati che ti sistemo il letto.»
L’infermiera era una donna sulla quarantina, corpulenta ma dai bei lineamenti. Era bionda, portava i capelli a coda di cavallo e un paio d’occhiali da vista che facevano risaltare il verde acqua marina dei suoi grandi occhi.
Indugiai lo sguardo tra la bocca carnosa e i seni generosi della donna intenta a rimboccarmi le lenzuola. Lei se ne accorse e sorrise. «Finalmente ti sei svegliato e mi sembra che ti stai riprendendo in fretta… Io sono Barbara, mi sto occupando di te da quando sei arrivato. Hai avuto un brutto incidente ma ora il peggio è passato…» mi confidò. Poi incrociò il suo sguardo col mio e mi parve che la sua espressione si fosse fatta vagamente maliziosa.
In quel momento entrò un uomo calvo con un camice bianco sbottonato che lasciava intravedere una camicia azzurra e una cravatta bordeaux. Aveva una mano infilata in tasca mentre l’altra impugnava una cartellina blu. Anch’egli portava gli occhiali, mi guardò e mi fece un sorriso di cortesia. «Buongiorno, sono il dottor Martini… Finalmente ci siamo svegliati eh? Come si sente?»
Cercai di schiarirmi la voce e riprovai a parlare: «Buongiorno dottore. Mi sento un po’ debole, comunque sto bene, direi… Ma non ricordo nulla, come mai sono in ospedale?»
«La memoria le tornerà, vedrà, e ho già provveduto a far avvertire la sua famiglia che si è svegliato. Dovrebbero arrivare da un momento all’altro. Loro le forniranno tutte le informazioni che desidera. Io, signor Carlo, mi devo occupare della sua salute e vedo che tutto procede per il meglio. Ora la lascio tranquillo, ripasserò più tardi.»
Diede all’infermiera alcune istruzioni e con un cenno di saluto se ne andò.
Eseguiti i suoi compiti si congedò anche l’infermiera. Appena ebbe finito di regolare la flebo mi disse che sarebbe poi passata a controllare, m’indicò il pulsante delle urgenze nel caso avessi avuto bisogno di qualcosa e uscì chiudendo la porta dietro di sé.
Rimasi solo nella stanza e mi guardai attorno, nella testa avevo un vuoto, un vuoto assoluto, mi ricordavo a malapena il mio nome. Chiusi gli occhi, cercai di frugare nella memoria in cerca di qualche traccia…

…Eppure sono morto. So di esserlo. Non posso essere vivo, non dopo che un camion mi è passato sopra schiacciandomi e riducendomi come una frittella.
Lo ricordo bene. Mi sono alzato da terra dopo esser caduto dalla bici e ho fatto appena in tempo a girarmi e veder luccicare il radiatore cromato del tir che mi stava investendo. Una frazione di secondo, certo, ma ce l’ho stampato tutto nella mente con assoluta precisione: il colpo tremendo, il rotolare sotto, le ruote che mi hanno triturato sfracellandomi sull’asfalto, ricordo tutto.
Nessun dolore, non c’è stato il tempo. Solo la consapevolezza che la mia vita era terminata.
Ricordo la voce di mia madre che mi chiamava e mi diceva di non guardare, di andare via da lì, che non sarebbe stato bello vedermi ridotto a quel modo.
Tutto normale, come se niente fosse. È successo, tutto qui.

O forse no. Forse è tutto frutto dell’immaginazione. Una conseguenza strana, bizzarra, di quello che gli esperti chiamano “shock post traumatico”, può darsi.
Ricordo di aver camminato andando via dal luogo dell’incidente, di averlo fatto con le mie gambe con assoluta calma, senza voltarmi, come se tutto ciò non mi riguardasse. Ricordo che la gente mi passava di fianco senza degnarmi di uno sguardo, correvano, si agitavano, erano tutti sconvolti per ciò che era successo sulla strada dietro di me. Avevo ancora nella testa la voce di mia madre, la cercavo ma non riuscivo a vederla.
Ero orfano, eppure la sua voce l’avevo sentita, non mi ero sbagliato…

Aprii di nuovo gli occhi, ero nel mio letto d’ospedale, nella testa avevo solo una grande confusione. Il ricordo dell’incidente era azzerato. La memoria gioca brutti scherzi a volte.
All’ospedale ci rimasi ancora qualche giorno, poi tornai a casa dai miei genitori. Alla fine la diagnosi si risolse in un forte trauma cranico con perdita di coscienza per un paio di giorni e perdita parziale della memoria, un taglio e cinque punti in testa, mezza faccia pesta come quella di un pugile dopo un knockout, una spalla dolorante, una clavicola lussata e tre costole rotte.
Lentamente ripresi la vita di sempre.
Qualche tempo dopo, grazie alle dichiarazioni di alcuni testimoni dell’incidente, mi raccontarono come si svolsero i fatti. Successe che caddi dalla bicicletta mentre stavo pedalando verso casa, mi ero appena rialzato quando sopraggiunse un grosso camion che per non travolgermi frenò bruscamente e sterzò a sinistra sbandando e finendo la sua corsa qualche decina di metri più avanti. Fu un vero miracolo non finire sotto le sue ruote, fui però preso di striscio e il colpo mi scaraventò quasi nel fosso a lato della carreggiata. La caduta poi non mi procurò ulteriori danni perché attutita dalla vegetazione.

Sarà, mi accontento di questa versione poiché tutto quadra.
Tuttavia, dopo così tanti anni, gli attimi dell’incidente rappresentano per me ancora un punto di domanda. Un luogo sconosciuto e inaccessibile della mia mente, un vuoto mai riempito, un recesso buio, impermeabile al ricordo… Se non alla fantasia di morte che ho descritto sopra.
E ogni tanto mi chiedo se, in questo caso, realtà e fantasia non si siano messe a bisticciare duellando in equilibrio precario su quel filo dannatamente sottile che in egual misura divide e unisce la vita e la morte.
Il dubbio rimane.

Enough (Simply Red, 1989)

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SUOLE DI VENTO /
Viaggio alla Fine del mondo inseguendo il Raggio Verde

Un Cammino

Ho conosciuto la Costa da Morte – come si dice in gallego – quando ero molto giovane, negli anni ’80. All’epoca arrivarci era già di per sé un’avventura che durava 2 giorni. Aereo fino a Barcellona o a Madrid, poi treno fino a Santiago o La Coruña e poi  autobus a Carballo e ancora autobus a Corme. La mia meta era sempre Corme un piccolissimo paesino sulla Costa Nord Occidentale della Spagna. Qui finiva la strada, finiva il mondo.

Mar de Fora, Costa della Morte, Galicia, Spagna

Per me cominciava qualcosa d’altro. Mi piaceva andare al Faro do Roncudo al tramonto con la mia amica Marina. La strada era quasi sempre deserta, brullo tutto intorno e alla fine il Faro bianco, piantato sulle rocce scure di granito. Roncudo viene da ronco, come il rumore del mare quando si infrange sulle scogliere.


C’è un’aria misteriosa e solitaria tutt’intorno. Ci si arrampica fino in cima e ci si va a sedere appoggiate alle rocce che sono diventate delle poltrone naturali scavate dall’acqua. Da qui si può contemplare l’oceano e se si è fortunati vedere il Raggio Verde. Può capitare di vedere una sottile linea luminosa di colore verde che si staglia all’orizzonte al calar del sole.

Dicono che porti fortuna agli innamorati vedere il Raggio Verde. Lo vidi il Raggio Verde, una sera al tramonto con il mio innamorato di allora. Non fummo molto fortunati, ma quella costa, quel Faro, quel rumore dell’Oceano sarebbero diventati la mia casa del cuore.

Da allora sono tornata tante volte in Galicia, ma non ho più rivisto il raggio verde, come nel lontano ’87.

Quest’anno ho voluto organizzare  un Trek lungo la Costa della Morte: un percorso ispirato al famoso Caminos dos Faros che percorre la costa Atlantica per circa 200 kilometri fino ad arrivare a Finisterre. Insieme a Marina, maestra e artista merlettaia e Beppe, mitica guida di Trekking Italia, siamo partiti proprio da Corme, dalla spiaggia di Niñons  e dal piccolo Faro di Roncudo.

Il percorso si snoda lungo la Costa più spettacolare d’Europa, con una varietà infinita di paesaggi: alte scogliere di pietra granitica, spiagge bianchissime e dune a perdita d’occhio, grotte scavate nella roccia e grandi massi che disegnano varie forme animalesche e umane, boschi di eucalipti e vaste pinete, piccoli borghi di pescatori accanto a Mulini di pietra, campi di mais e mucche al pascolo, paesaggi fluviali e lagune che si perdono nell’oceano.

Camminare lungo la costa atlantica è davvero  di una bellezza straordinaria, ma camminare lungo la Costa della Morte è da brivido puro. Qui le onde dell’oceano si infrangono con una tale potenza da far paura e nello stesso tempo affascinano.

Il rumore del mare ti penetra, una emozione intensa ti scuote dentro, e poi quando lo sciabordio si quieta è tutto un mormorare indistinto, un bisbiglio acquatico che ti sussurra alle orecchie lontani pensieri rimasti nascosti chissà dove. Il profumo delle ginestre  e il blu in lontananza ti placano l’anima.

Ci si perde, ma ci si ritrova a guardare l’Oceano: da Corme fino in cima al Monte Branco dove la laguna di confonde con il mare, da Laxe fino ad Arou, un piccolissimo paese di pescatori  e poi giù a Camariñas, la patria del merletto a fuselli.

Il merletto ha viaggiato da Camariñas in tutta la Spagna, fino alle colonie americane. La tradizione è sopravvissuta fino ad oggi. La mia amica Marina ha insegnato a centinaia di merlettaie in tutta la Spagna e altrove.

merletto galiziano

E’ stato per lei, cito da un suo libro: “la via per comprendere la Storia d’Europa. Il merletto, nato in Italia, si è diffuso in tanti altri Paesi e ha svolto un ruolo importante nell’economia e nell’autonomia delle donne.  Il merletto sta alla Storia del Tessuto come la Poesia sta alla Storia della Letteratura: il merletto è il modo più poetico di tessere, dove si può leggere dal sonetto più barocco all’Haiku più profondo”.

Nel Finisterre Galiziano erano le donne a tessere il tessuto dell’economia familiare. Fare il merletto è come scrivere allo stesso la propria storia e quella del proprio tempo.

Non ho mai fatto il merletto, anche se ne ho sempre ammirato la sua arte, ho sempre preferito camminare.

Dopo Camariñas, los Camiños dos Faros si snoda lungo i boschi di eucalipti e le pinete fino alle spiagge meravigliose di Traba , di Nemiña, di Lago, del Rostro e fino alla spiaggia del Mar de Fora. Poi, diritti a Finisterre.

spiaggia

La Galizia è verde con i prati che giungono fino alla spiaggia, è piovosa. Per questo motivo forse non è molto affollata di turisti, ma è un bene. E’ una terra antica come i suoi abitanti, un po’ Celti e un po’ Vikinghi. Una terra di mais e di percebes, è Finis-terra.

Si fa pace col mondo a camminare così vicino all’Oceano. Un passo dopo l’altro, non puoi sbagliare.

SE IL CARCERE É UNA CONDANNA A MORTE
57 suicidi nelle carceri italiane nei primi 8 mesi del 2022

Associazione Antigone

Il carcere non è una condanna a morte. È necessario intervenire affinché il dramma che sta interessando gli istituti di pena italiani in questo 2022 si possa fermare”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.

Nei primi 8 mesi di quest’anno sono stati 57 i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri. Gli ultimi due in Sicilia, uno a Caltanissetta e l’altro a Siracusa. Ad agosto abbiamo registrato 14 suicidi, più di uno ogni due giorni. 57 furono le persone che si suicidarono in carcere in tutto il 2021.

“Proprio in questo mese così drammatico la nostra associazione – prosegue Gonnella – ha lanciato la campagna “Una telefonata allunga la vita”, chiedendo una riforma urgente del regolamento del 2000 che porti ad una liberalizzazione delle telefonate per i detenuti. In un momento di sconforto, sentire una voce familiare, può aiutare la persona a desistere dall’intento suicidario. I 10 minuti a settimana previsti attualmente non hanno più nessun fondamento, né di carattere tecnologico, né economico, né securitario. Cambiare quel regolamento non comporta alcun atto legislativo e il Governo potrebbe farlo anche in questa fase transitoria”.

“Dell’importanza dell’affettività per i detenuti – continua il presidente di Antigone – ci parla anche la relazione finale della Commissione ispettiva del Dap, chiamata ad indagare sulle ragioni delle rivolte che scoppiarono nelle carceri nel marzo 2020”.

Secondo questa, ad innescare le proteste non fu infatti una cabina di regia criminale. Il motivo va invece ricercato nell’insoddisfazione della popolazione detenuta per la poco dignitosa qualità della vita penitenziaria e, soprattutto, nella sospensione dei colloqui in presenza con i familiari.

“All’indomani di quelle chiusure – sottolinea Patrizio Gonnella – la nostra associazione chiese che a tutti i detenuti fossero concesse chiamate e videochiamate in più rispetto a quanto previsto dai regolamenti. Quella richiesta fu accolta e nel giro di pochi giorni nelle carceri di tutto il paese arrivarono oltre 1.000 tra cellulari e tablet, senza che ci fossero problemi dal punto di vista organizzativo e della sicurezza. Questa iniziativa servì a riportare la calma negli istituti di pena e consentì ai detenuti di mantenere il rapporto con i propri affetti anche in quel periodo di chiusure parziali o totali”.

“Oggi il dramma che sta attraversando il carcere non è il Covid ma sono i suicidi. La risposta, oggi come allora, passa anche dalla possibile vicinanza affettiva. Oggi come allora è urgente che il governo prenda provvedimenti e si liberalizzino le telefonate” conclude Patrizio Gonnella, che auspica che a settembre, alla ripresa dei lavori parlamentari, Deputati e Senatori osservino un minuto di silenzio per commemorare tutte le persone che si sono tolte la vita mentre erano sotto la custodia dello Stato.

Per certi versi/
Il Delta verso sera

Il Delta verso sera

Rintocca
Sui rami
gli arbusti alti
La ghiandaia
Dal dolce suono
Volo discreto
Come lieto
Pasce e bruca
La fresca erbetta
Di un giardino
abbandonato
Il daino
Capobranco
Dalle corna
Incoronato
Schiere di folaghe
Incrociano rade nuvole
Rosse di sole
Che sfiora
le ali di cipria
Degli ospiti rosa
In batteria
Prima della notte
Stanno volando via

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

UN ANNO A SCUOLA /
Agosto: rimetti a noi i nostri debiti

In  esergo

Nella scuola italiana la realtà e la fantasia si fronteggiano da molti anni in un’esaltante sfida quotidiana al reciproco superamento. Questo diario di un anno scolastico vorrebbe partecipare alla competizione gareggiando per la fantasia, consapevole del rischio di condividere così la sua eventuale disfatta.

 

Chiudo gli occhi e sento un profumo inebriante, che mi ricorda quello della polvere sollevata dal passaggio di carretti trainati dai cavalli essiccati di Tozeur. Certo, il caldo asfissiante alimenta l’associazione. D’altr’onde, è il 25 agosto.

Riapro le palpebre e vedo che la polvere non è sollevata da ruote tremanti, ma dalle suole frastagliate di un paio di Jordan dai colori aggressivi. Che l’odore non si effonde da refoli di traspirazione equina, ma dagli ormoni potenti di Ponzi.

Vicino a me c’è la rassegnata Monaco, dai radi capelli e dalla voce di pioggia.

Ponzi si siede di fronte a noi. Monaco mi guarda e goccia: “Cominciamo?”.

Lei non doveva neanche esserci oggi, nel nostro liceo di periferia. Il debito, a Ponzi come ad altri sette su ventisei, glielo ha dato De Nino, come sempre giudice a giugno e latitante ad agosto.

Sì, De Nino agli scrutini di fine anno ostenta sempre il suo lato inflessibile, rifiutando ogni forma di clemenza verso gli studenti marchiati dai suoi giudizi. Nel farlo, non lesina ai colleghi – provocando in essi sbuffi e vistose rotazioni di bulbi oculari – lezioncine più o meno esplicite sui guasti epocali causati dalla loro mollezza.

Poi ad agosto, quando i medesimi studenti devono tornare a dimostrarle che – per quanto li riguarda – l’epoca può stare tranquilla, De Nino immancabilmente si dilegua. Dev’esserci un demone dell’afa che l’attende al varco e ogni volta la colpisce con sciatiche, gastroenteriti, depressioni, e qualsiasi tipo di disturbo non facile da accertare in modo oggettivo.

Così, a fare i ‘recuperi dei debiti’ oggi tocca alla friabile Monaco e al sottoscritto.

Un tempo si diceva: ‘esami di riparazione’. Gli studenti, insomma, non erano dei ‘debitori’ precoci, ma soltanto ragazzini, che avevano fatto qualche danno e che ora dovevano ripararlo. Per questo erano stati ‘rimandati  a settembre’.

Già. Com’è che settembre è diventato agosto? Che intere famiglie devono riprogrammare le loro ferie per arrivare in tempo ancora una volta in pancia alla città? Che i professori sono costretti a comprimere i loro famosi quattro mesi di ferie tra la fine degli esami di maturità (circa 10 luglio) e il weekend dopo ferragosto?

Ci sarà senz’altro una buona ragione educativa, no? Sicuramente sì, ma al momento è nota solo quella burocratica: finché dura il vecchio anno scolastico gli insegnanti sono legati alla sede nella quale hanno prestato servizio, dunque obbligati a svolgere gli esami (obbligo efficacissimo, come dimostra De Nino). Con l’inizio del nuovo anno, la diaspora: chi si trasferisce in un’altra scuola, chi deve aspettare un nuovo incarico, ecc.

Certo, il problema potrebbe essere risolto non troppo difficilmente, ad esempio sborsando qualche soldino. Ma è molto più divertente sbrigarsela rompendo i coglioni a un’intera nazione.

A ogni modo, fino ad adesso con Monaco ce la siamo cavata relativamente bene. Abbiamo “esaminato” cinque delle vittime di De Nino e qualche cosa è venuto fuori. Certo, si tratta di conoscenze a brandelli, schegge di consapevolezza, snodi di argomentazione precompilati e privi di ogni flessibilità. Però, le apparenze possono essere salvate. Il calice, da lontano, può apparire mezzo pieno: sei.

Ora però c’è Ponzi, le cui sneakers da pariolino rimediate all’outlet scricchiolano incessantemente sul PVC del pavimento, come se i suoi piedi avessero una vita propria e già scalpitassero sul marciapiede policromo della libertà.

Gli comunichiamo, come abbiamo fatto con gli altri, che la sua prof “purtroppo” non può esserci per motivi di salute e che l’esame glielo faremo noi.

Lui risponde lapidario: “Lo sapevo già”.

Monaco, che ha tutta l’imprudenza di chi è affezionato al bene, non lascia cadere: “Ah… ti sei sentito con la professoressa?”.

“No. Lo sanno tutti che a fare gli esami non ci viene”.

Monaco arrossisce, quasi avesse ancora del sangue nelle vene.

Ponzi se ne accorge e gongola, e il PVC scricchiola più forte.

“Hai studiato anche il programma o ti sei limitato alla vita della professoressa De Nino?”, intervengo con una certa decisione per cercare di riportare le cose nel loro alveo.

“Non ho studiato nessuno dei due, professo’…”, rilancia e ride.

Ecco, ora siamo davvero nei guai. Qui ci scappa il bocciato. Mi guardo in giro per vedere quanti testimoni ci sono: c’è solo la mamma di Ponzi, che armeggia col telefonino. Starà filmando?

“Scherzavo, professo’…”, assicura Ponzi, “ho studiato tutta questa settimana!”.

Ora è giovedì mattina, Ponzi ha studiato tre giorni. Però, parla sul serio, è davvero persuaso di aver fatto uno notevole sforzo.

Partiamo con qualche domanda, ma Ponzi è vuoto come una cisterna d’acqua piovana nel deserto. Non solo non sa nulla, ma non ha la minima idea di quel che dovrebbe sapere. Però, non tace, anzi parla a raffica, dicendo cose senza senso. Perché lo farà? A un tratto, lo capisco: vuol far credere alla madre di star rispondendo a tutte le domande, e infatti ella lo ascolta e annuisce rapita.

Occorre intervenire al più presto.

“Quello che stai dicendo non solo non ha rapporto con le domande che ti sono state fatte, ma nemmeno con qualcuno degli argomenti in programma”.

Ponzi mi guarda con un sorriso beffardo, che istantaneamente riverbera sul volto della madre. Poi ricomincia a farneticare come e più di prima, con l’aria di chi me le sta cantando. La madre ha un’espressione estatica che ricorda Santa Teresa accarezzata dalle mani del Bernini.

Lo fermo ancora, mentre Monaco si asciuga un sudore isterico: “Ora stiamo perdendo anche un qualsiasi tipo di relazione con l’area disciplinare. Per favore, parlaci di un argomento a tua scelta tra quelli inseriti nel programma”.

È il famoso ‘argomento a piacere’, l’ultima spiaggia dell’incomunicabilità scolastica.

Ponzi improvvisamente si placa, anzi si immobilizza, quasi come un camaleonte tra rami di mangrovia.

E finalmente capisco: ha scoperto in questo istante che esisteva un programma, nel senso di un foglio di carta compilato all’uopo che lo concerneva.

Guardo Monaco che sta per avere una crisi psicotica, probabilmente autolesionista. Ma non escludo che, al contrario, stia per conficcare le sue unghie malconce nelle guanciotte del nemico.

I suoi pensieri si son fatti così pesanti che le si addensano visibilmente sulla fronte. Così, vi leggo: “Perdonami, e lasciami fare…”.

Poi estrae da una cartellina un foglio di carta stropicciato: il famoso programma. Lo porge a Ponzi e lo prega di leggerlo e di trovarvi qualcosa che “lo abbia coinvolto in modo più personale”.

Ponzi legge muovendo le labbra, e sembra quasi un pesciolino. Poi, la sua attenzione incappa in qualcosa con la quale deve essere entrato in contatto, magari attraverso i riferimenti culturali ruffiani di una serie seguita in streaming.

Monaco lo incoraggia e lo instrada finché, sul nulla, si edifica una sorta di scambio.

Ok. L’esame è finito. Arrivederci. Ponzi e madre escono, le porte si chiudono.

“Senti, Monaco, io ti ho lasciata fare, ma mica lo vorrai promuovere?”.

“Senti, tu sei ancora giovane – (sì, sono ancora più vicino ai cinquanta che ai sessanta, da queste parti vuol dire essere giovani) – non lo sai come vanno a finire queste cose”.

“No, un po’ lo so, ma qui non c’è assolutamente nulla di nulla da salvare”.

Sento Monaco cambiare voce: ora non è più pioggia, ma tintinnio di vetri infranti.

“Ascoltami: quella stronza ogni anno fa la stessa cosa, dà debiti a destra e sinistra e poi sparisce. E adesso noi ci dobbiamo prendere la rogna di bocciare questo deficiente? Con tutti i casini che succederanno? Hai visto, no, che la madre registrava?”.

“Sì, ma…”.

“’Ma’ cosa? Fai quello che vuoi, io non firmerò mai un verbale di bocciatura. Punto”.

Valuto la situazione e mi rendo conto che non c’è molto da fare.

Dico: “Ok. Promosso”. E mentre lo dico mi accorgo che era quello che desideravo anch’io.

La sapienza di un gesto scaturisce allora da chissà quale riparo dimenticato, costringendo la mie mani a muoversi come non facevano da millenni. Mi faccio il segno della croce.

Gli eventi narrati in questa rubrica sono frutto dell’immaginazione dell’autore, a esclusione di leggi, decreti, circolari ministeriali ecc., che sono frutto dell’immaginazione gerarchica. Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

PRESTO DI MATTINA /
Senza timore

 

Senza timore restiamo aperti. Senza timore si sta nell’apertura della fede come in quella della poesia.

Così ho pensato rileggendo alcuni testi poetici di Friedrich Hölderlin, per il quale la poesia è manifestazione, svelamento del divino, della dimensione sacrale, nascosta del vivere.

Testi, quelli di Hölderlin, nei quali l’aprirsi, il rivelarsi, non hanno un valore solo spaziale, ma assumono una valenza esistenziale di svelamento. Sino al punto che il divino, il sacro si fanno immanenti, reali, manifestandosi infine nella storia.

Scrive Giorgio Vigolo nell’introduzione alle poesie cui mi riferisco: «Una fondamentale idea di Hölderlin è il Dio manifesto, palesato (…) L’apertura della valle è nel paesaggio quasi la struttura visibile della rivelazione, del palesamento, ma anche della cordialità accogliente.

Il divino diviene, nella poesia di Holderlin, offen und gemein,/ aperto e comune. Stalt offner Gemeine sing’ich Gesang/ Di un’aperta comunità io canto», (Friedrich Hölderlin, Poesie, Garzanti, Milano 1971, lxxxviii).

L’invito rivolto al poeta − come al credente − è allora quello a non temere l’altro che viene, ma di restare ospitali e, alla benedizione, dischiusi.

Vocazione e coraggio del poeta

Non ti son dunque congiunti tutti i viventi?
Non ti alimenta la Parca, come tua stessa ancella?
Perciò! va’ pure inerme
Attraverso la vita, e nulla temere!
Ciò accade, tutto ti sia benedetto,
Ti sia rivolto in gioia! che dunque potrebbe
Recarti offesa, o cuore, che mai.
Succederti, dove tu devi andare?
(Coraggio del poeta. Seconda versione, ivi 79-81)

Nemmeno è bene essere troppo saggi. La gratitudine
Conosce Lui. Ma da sola non Lo trattiene.
E per questo il poeta ama la compagnìa
Degli altri, perché lo aiutino a capirLo.
Ma, senza timore, quando deve, rimane solo
L’uomo davanti a Dio, difeso dal suo candore
E non abbisogna di armi né di astuzie,
Finché Dio lo aiuta, mancandogli.
(Vocazione del poeta, ivi, 95-97).

La vocazione del poeta e il suo coraggio sono pure quelli del credente. Per questo Romano Guardini considera Hölderlin profeta religioso, nel senso di Pindaro, Eschilo e Dante.

Egli scrive: «Ma ciò che pervade il vate in modo da renderlo “aperto” e capace di vedere, lo spirito, è la stessa potenza che opera, “l’Alternarsi e il Divenire”, la potenza della storia stessa. … Dietro la figura del “vate” appare quella del profeta nell’Antico Testamento.

È il profeta a creare la consapevolezza sacra della storia. Dio gli rivela che cosa significa l’avvenimento immediato per la guida del popolo e per il venturo Regno di Dio. Il profeta ascolta e annuncia la rivelazione al presente, trovando per lo più orecchi chiusi e cuori ribelli.

Così dallo Spirito Santo che rende il profeta “aperto”, ossia capace di ascoltare e di parlare, nasce la storia sacra. Esso è il vero “signore del tempo”, che nell’intreccio delle parole, dei fatti e degli avvenimenti produce il “divenire nuovo”, la metanoia e la trasformazione … Tutto questo sta anche dietro alle parole di Hölderlin, solo che in questo caso la realtà libera e ultraterrena del Dio vivente è divenuta un elemento del mondo.

Anche il non-poeta, l’uomo comune ma religioso, può avvertire quella realtà ‘altra’. In mezzo ai suoi amici, durante la cena commemorativa, entro la comunità del popolo nell’eccitazione festosa, essa diventa percettibile anche per lui»
(Hölderlin, Immagine del mondo e religiosità, Morcelliana, Brescia 1995, 204-206).

A questo punto qualcuno si domanderà: ma perché allora nell’Antico Testamento ritorna spessissimo l’espressione “il timore di Dio”? Il sacro se si caratterizza per un verso come attraente, fascinans, al tempo stesso si manifesta come respingente, tremendum?

Eppure anche nel suo sottrarsi al credente e al poeta − “mancandogli” direbbe Hölderlin – paradossalmente anche così egli viene in aiuto; ciò accade persino nel distanziamento che intimorisce, perché tale da impedire l’assimilazione che annulla la libertà altrui, spazio aperto invece ad una più grande libertà.

Il timore di Dio

Basterebbe guardare con un poco di attenzione l’apparato critico delle note della TOB, Traduzione (O)ecumenica della Bibbia, per averne una prima comprensione.

Sabato scorso leggevo il testo del profeta Isaia 11, 1-3: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. Si compiacerà del timore del Signore».

I sei attributi dello Spirito qui elencati corrispondono a quelli della Sapienza personificata come troviamo in Proverbi 8, 12.

Ci viene così ricordato innanzitutto che l’espressione “timore di Dio” è venuta formandosi negli ambienti sapienziali della Bibbia a completamento di altri attributi della sapienza. Cosicché essa va giustapposta, affiancata a quella di “conoscenza di Dio”, elaborata a sua volta negli ambienti profetici.

Temere Dio significa in prima battuta conoscerlo attraverso la sua Parola e il suo agire nella storia. Una conoscenza non intellettuale, ma sperimentata nella vita, tramite il sapere della esperienza.

Nel libro sapienziale dei Proverbi (1,7), si dice addirittura che «il timore del Signore è principio della scienza. Gli stolti disprezzano la sapienza e l’istruzione. Ascolta figlio» (un filiale ascolto ripreso pure da Benedetto da Norcia nel prologo alla sua Regola).

L’espressione diventa così stereotipa in tutta la Bibbia, ove indica una relazione filiale e familiare al contempo rispettosa di fronte al Dio dei Padri, artefice di un’alleanza e di una legge di vita con il popolo a cui resta stabilmente fedele. Si corrisponde a tale fedeltà percorrendo la via della Sapienza, nella continua ricerca della sua Parola, con cui egli si fa conoscere.

Sia i saggi di Israele, sia i profeti sanno di camminare alla presenza del Dio vivente, di colui che scruta reni e cuori; e dunque il timore di fronte alla sapienza è l’atteggiamento di chi, stando alla presenza dell’altro, fa un cammino nella relazione al fine di conoscerlo.

La familiarità, l’affidarsi, richiedono un cammino segnato da prossimità e lontananza, da comprensione e oscurità, da sapere e non sapere, trepidazione e fiducia. È un passare sempre di nuovo, attraversando timorosi l’estraneità e la diversità dell’altro, per arrivare gioiosi alla confidenza, alla stabilità serena. Decisiva è l’apertura della fede: «Se non crederete, non avrete stabilità»
(Is 7, 9b).

Non è così anche quando si affronta una poesia? Non si principia forse incerti, timorosi stando nell’apertura, sulla soglia di parole sconosciute, incomprensibili?

Molto di più lo è il credere: lo è l’incredula e timorosa fede quando sente le parole: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).

Sempre nel linguaggio dei testi sapienziali, è la fede stessa ad essere denominata come “timore di Dio”, si dà dunque equivalenza. L’obiettivo è quello di sottolineare, tramite questa espressione, la forma dinamica della fede, il suo continuo divenire claudicante.

Scrive al riguardo Giuseppe Angelini: «la sapienza non è possibile in altro modo che a condizione di concedere un credito a Dio… Ma come definire la figura del timore di Dio? Certo non si tratta della paura di Lui; ma della confessione costante che di Lui sempre si tratta nel cammino della vita.

E dunque, per sapere che cosa attende da noi ogni singolo momento della vita, è indispensabile alzare fino a Lui gli occhi. Per conoscere la sapienza, occorre invocarlo; soltanto a condizione di interrogarsi sempre da capo a proposito dei suoi disegni è possibile scorgere quale sia la via della vita» (La fede una forma per la vita, Glossa, Milano 2014, 75-76)..

Non è tutto. Con la nozione di timore di Dio si fa evidente anche il carattere di alterità che contraddistingue i poli della relazione interpersonale.

Si tende così a esprimere l’inviolabilità dell’altro, la sua non assimilazione, non manipolabilità in ragione del suo continuare ad essere differente, estraneo e oltre ogni immagine che vorrebbe omologarne l’identità: l’altro non è me, ma può essere con me, e proprio l’unione nella differenza è il valore supremo della relazione.

Il timore è lo spazio rispettoso, reverente; un sentire con il cuore tra coloro che vivono in alleanza. Un sentimento che nasce dalla consapevolezza che la vita comune − come l’amore − non possono mai essere completamente possedute, richiedendo al contrario un’apertura permanente allo spirito, alla persona.

Il timore va compreso allora come un dono spirituale, una barriera all’autoreferenzialità, a porsi al centro dell’attenzione, al credere di possedere la verità, la sapienza appunto; una disposizione interiore, un restare umili, aperti nell’attesa dei tempi, dei momenti e delle decisioni della libertà altrui.

In questo modo l’Altro/gli altri vengono riconosciuti come un’inesauribile fonte di ispirazione e creatività generatrice di novità e di vita.

Lo spirito del timore di Dio è, per i credenti, come la musa per il poeta. Continuerà a dire: «cammina non temere finché potrò vederti ti darò vita».

La mia Musa è lontana: si direbbe
(è il pensiero dei più) che mai sia esistita.
Se pure una ne fu, indossa i panni dello spaventacchio
alzato a malapena su una scacchiera di viti.
Sventola come può; ha resistito a monsoni
restando ritta, solo un po’ ingobbita.
Se il vento cala sa agitarsi ancora
quasi a dirmi cammina non temere,
finché potrò vederti ti darò vita.
(E. Montale, Tutte le poesie garzanti, Garzanti, Milano 1996, 439).

Il timore della morte: un più grande nascere

Quelle volte che mi avvicino a Montale e apro le sue poesie è sempre con timore, ma anche con il desiderio di trovare tenui risonanze in un comune, umano sentire. Così è stato ancora una volta imbattermi nella sua la traduzione poetica del Cant espiritual dello scrittore e poeta spagnolo Joan Maragall.

Non importa. Sia il mondo ciò ch’esso è,
così diverso, esteso e temporale,
questa terra con quanto in essa cresce
è la mia patria; e non potrà, Signore,
essere la mia patria celestiale?
Uomo sono e la mia misura umana
per ciò che posso credere e sperare;
se qui fede e speranza in me si fermano,
nell’aldilà me ne farai tu colpa?
Nell’aldilà io vedo cielo e stelle,
anche lassù vorrei essere un uomo:
se ai miei occhi le cose hai fatto belle,
se per esse m’hai fatto gli occhi e i sensi,
con un altro ‘perché?’ dovrò rinchiuderli?

Tu sei, lo so; ma dove, chi può dirlo?
In me ti rassomiglia ciò che vedo …
Lasciami creder dunque che sei qui.
E quando verrà l’ora del timore
che chiuderà questi miei occhi umani,
aprimene, Signore, altri più grandi
per contemplare la tua immensa face,
e la morte mi sia un più grande nascere.
(ivi, 748).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Diario di un agosto popolare 13
LA TORBELLA DI ADAMO

LA TORBELLA DI ADAMO
26 agosto 2019

Torbellamonaca a Roma è un po’ una sineddoche (la parte per il tutto) della periferia.
Una volta si diceva “è un borgataro”, oggi se vivi “allo sprofondo” ti chiedono: “ma ‘ndo stai, a Torbellamonaca?” .

Perché a Roma se il tuo quartiere comincia con Tor, vuol dire che stai fuori dal centro. Ma il mito di Torbella, che addirittura è oltre il Sacro G.R.A., riassume da solo tutto il peggio del suburbio metropolitano: i più truci spacciatori, i topi più affamati, il degrado più appariscente.

Diventa anche simbolo della crisi politica che stiamo vivendo: Torbellamonaca passa a destra mentre Parioli va a sinistra. Qui la casta non ci finisce neanche per sbaglio, tutto è popolo.

Ho cominciato a frequentare Torbella (si fa per dire, ci sarò stato una decina di volte) per andare a trovare Adamo, che ci ha lasciati il 26 agosto di due anni fa, e non riesco a separarla da lui.

Adamo l’ho incontrato una trentina di anni fa, alla stazione Termini. Radunava barboni e senzatetto per aiutarli a occupare spazi vuoti dove dormire. Mi ha colpito subito il suo sguardo (l’iride celestissimo incorniciato da sopracciglia scure), che lanciava un messaggio molto chiaro: “ti tengo d’occhio”. All’inizio, confesso di non essermi subito fidato e forse neanche lui di me. Ci scrutavamo dai nostri rispettivi mondi per capire se non ci saremmo dati qualche fregatura.

Un giorno, mentre tornavamo dal cimitero dove era sepolta Valentina, una ‘barbona’ di trent’anni morta di freddo alla stazione, Adamo mi chiese brutalmente se ero anch’io ‘della parrocchietta‘. Lui aveva fatto la galera, aveva cominciato in un carcere minorile, parlava di rapine e grandi giocate d’azzardo: “Ero un malandrino, Daniè, non mi avresti riconosciuto”. Lo rassicurai sul fatto che io le parrocchie le avevo sempre fuggite, comprese quelle dell’estrema sinistra da cui più o meno provenivo. Da lì cominciò la nostra amicizia.

A lui piacque molto un mio piccolo film che feci su di loro (“Gli amici di Valentina”), e credo che attraverso quelle immagini capì che, come lui, avevo allergia per le ingiustizie e cercavo la maniera di esprimerlo. Adamo era uomo di grande generosità e poca voglia di star zitto.

Nella sua nuova vita, si mise a organizzare senza tetto, disabili, zingari e alcolizzati. Lottando come un leone per i loro diritti. Poi un tumore gli ha portato via le corde vocali.

Andai all’ospedale dopo l’operazione e gli regalai un quadernetto e una penna che apprezzò molto. Iniziò in quel periodo a scrivere il libro della sua vita e io l’aiutavo a correggere l’italiano, perché avevo fatto più scuole di lui.

Ma Adamo era irrequieto e poco indulgente con se stesso e il libro non lo fini mai. Mi fece però conoscere la sua famiglia tutta di donne, la moglie Anna e quattro figlie in gambissima, e Tor Bella Monaca.

Entrando sotto quei ponti che uniscono i blocchi, girando per la piazzetta o nei ‘terrains vagues’,(come i francesi chiamano gli spazi residuali, con un’espressione secondo me molto efficace, o ‘i non luoghi’ di Marc Augé), ambienti che al cinema vediamo sempre collegati a scene di spaccio o di violenza, ho sempre trovato invece, grazie ad Adamo, una toccante densità di relazioni umane. Certamente c’è anche spaccio e delinquenza, rapporti difficili di vicinato e violenza domestica: sarebbe ridicolo negarlo. Chissà, un domani la cronaca ci parlerà di un africano bastonato o di un efferato delitto, a consolidare il mito oscuro di Torbella.

Eppure per me, grazie alla mia amicizia con Adamo, ha fatto tutto un altro effetto. Sin dalla prima volta, mi ha colpito un aspetto che difficilmente si trova nei quartieri della Roma bene: un tessuto di vicinato solidale, che qui in qualche maniera comunica. Un tratto accentuato da una presenza piuttosto visibile dei disabili (che hanno avuto in passato delle facilitazioni dell’assegnazione degli alloggi). E che come spesso accade alle persone con la vita più difficile, dimostrano una grinta speciale a muoversi in un quartiere per altri versi inospitale.

A casa di Adamo ho conosciuto tutto questo.

Tendiamo a conoscere le periferia attraverso figure fragili, o sbandate. Che empatizzano con i nostri lati stropicciati dalla vita. Il canaro di Dogman, Vittorio e Cesare di Non essere cattivo, i tossici di Trainspotting, la Rosetta adrenalinica dei fratelli Dardenne…

Adamo apparteneva a un’altra categoria, quella dei tosti.

Anche se so che la sua determinazione umanitaria, la sua grinta, resa ancor più evidente dopo che aveva perso le corde vocali, non sarebbe stata tale senza la presenza di un’altra tosta, sua moglie Anna: anni di lavoro durissimo da infermiera, notti di pazienza passate ad accudire gli anziani e giornate a tirar su le quattro figlie, da sola, mentre Adamo faceva l’eroe da qualche parte, incatenandosi insieme a cinquanta carrozzine in Campidoglio o innalzando crocifissi con appesi sopra i suoi amici barboni.

Ho sempre mangiato tantissimo e con gusto a casa di Anna, ho incontrato persone generose e fatto grandi risate.

Per me Tor bella monaca è questa vitale esperienza.

Eppure solo a due anni di distanza, rimane un ricordo lontano, uno ‘sprofondo’, che assieme a Adamo, ho dimenticato troppo.

È forse il destino delle periferie, essere dimenticate: perché, nella loro bruttezza, sono fin troppo umane.

“Le periferie sono il posto in cui i problemi che si dibattono sul piano nazionale sono reali: la disoccupazione, le tensioni tra le diverse comunità religiose, la lontananza dalle istituzioni (anche europee). Ma proprio perché sono posti difficili, sono posti vivi. La lotta per risolvere queste difficoltà genera anche molta energia creativa. Tanto più che moltissimi creativi decidono poi di trasferirsi in quelle zone per seguirne il battito.”.
(Marc Augé, Tra i confini, Milano, 2007)

(Fine)

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L’OTTIMISMO DURA POCO

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Croce Bianca Uncinata

 

Mentire a se stessi è una delle principali forme di menzogna, e il periodo cui fare riferimento per legittimare l’origine di un simbolo può essere un buon lavacro per la coscienza. Così, un combattente del battaglione Azov può dire che la croce uncinata è un simbolo religioso eurasiatico, niente a che vedere con Hitler. Così una leader post fascista può dire che la Fiamma non è quella che arde sulla tomba di Mussolini, ma il richiamo all’esperienza della Repubblica Sociale Italiana – come se quello fosse un fatto di cui vantarsi: però può essere un fatto di cui non vergognarsi troppo, al confronto.

La croce è un simbolo ambivalente. In effetti non è nata con Cristo: se ne rinvengono origini precristiane nella mitologia nordica, la croce celtica.
La Croce Bianca Emilia Romagna è una associazione privata che presta soccorso attraverso un servizio di ambulanze. Ad imbrattare di cacca il suo candore ci ha pensato il suo “coordinatore”, tal Alberti Donatello, che ha pensato bene di commentare su Facebook l’assassinio di una ragazza ad opera del suo ex con la seguente frase: “comunque anche lei come andava conciata, ovvio che il ragazzo era geloso”.

Il figuro non corrisponderà allo stereotipo del soccorritore, però corrisponde al profilo del seguace della croce. Potrebbe ri-denominare la ditta “Croce bianca uncinata”, visto che ha augurato al giornalista “bastardo” David Parenzo  che la sua famiglia di “sporchi ebrei” fosse rapita e uccisa dai rom. Il tutto sempre in modalità social.

Avete presente ‘al mat dal paes’? Si dava la colpa agli incroci dello stesso sangue: nei paesini della bassa da mille anime, erano sempre membri di quelle tre famiglie che, da generazioni, si accoppiavano tra loro. Così ogni tanto nascevano degli incalmati strani, con qualche rotella fuori posto, che però non facevano male a nessuno.

Il figuro in questione è ferrarese, grande sostenitore del vicesindaco (ciacaràd). Per Ferrara come potremmo spiegare i fenomeni Alberti, Naomo, Solaroli? E’ vero che siamo un paesone, ma siamo in troppi per giustificare incalmi del genere. Sarà l’aria troppo umida, sarà che viviamo in una buca.

“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.”
Umberto Eco

“Non voglio andare in guerra”.
Ancora obiezioni e diserzioni di soldati russi

Redazione di Azione Nonviolenta

I giornalisti investigativi di Bellingcat e del giornale indipendente The Insider hanno ottenuto molta corrispondenza dopo che la casella di posta elettronica dell’ufficio del procuratore militare russo è stata violata. Tra le lettere c’erano molte lamentele di genitori, giovani soldati e civili, che dimostrano che la situazione al fronte non è così rosea come la presenta Mosca per le vie ufficiali del Cremlino. Molti giovani arruolati sono stati indotti con l’inganno ad andare al fronte, molti genitori sono scontenti di come vengono trattati i loro figli. Il Movimento Nonviolento si schiera a fianco e continua a supportare il Movimento degli Obiettori russi e rilancia la campagna Obiezione alla guerra.
Non trattate mio figlio come un cane”Una delle lamentele proviene dai genitori del soldato ventenne Mikhail.  La loro posta dimostra che sono molto insoddisfatti di come stanno andando le cose. “Quando ho chiamato mio figlio, mi ha detto che lo stavano portando a fare un’esercitazione. Poi si è scoperto che era una guerra. Stavano nelle tende, non potevano lavarsi. Doveva mangiare razioni secche e gliene davano solo mezza porzione. Sul treno non c’era nemmeno acqua potabile. I nostri figli non sono animali. Dov’è la giustizia?”.Anche altri genitori hanno contattato l’ufficio del procuratore militare russo per esprimere il loro disappunto. “I nostri figli facevano parte del primo battaglione, ma non hanno firmato nulla, mentre voi sostenete il contrario. Riteniamo che i nostri figli siano stati indotti con l’inganno a partecipare a un’operazione militare e ora la loro vita è in pericolo. Non hanno mai ricevuto un addestramento militare completo. Vi chiediamo di rintracciare i nostri figli e di portarli urgentemente in un luogo sicuro”.

“Il nipote di un mio amico è tornato ferito e mi ha raccontato come sono stati picchiati dai loro comandanti. Sono stati costretti a firmare un contratto”, racconta Elena, una cittadina russa preoccupata. “Siamo davvero di fronte a una illegalità. Vi chiedo di indagare su questi fatti e di assicurare alla giustizia, secondo la legge di guerra, coloro che mandano a morire i nostri coscritti”.

Feriti? Si torna al fronte!

Anche la madre del caporale Niyazov Mikailovich testimonia contro le autorità militari. Suo figlio è stato ferito due volte. La prima volta è stato colpito da schegge e ha subito una commozione cerebrale e una paralisi. Tuttavia, dovette lasciare nuovamente l’ospedale da campo perché non c’era abbastanza spazio. Nonostante i forti mal di testa e la parziale perdita della vista e dell’udito, dovette tornare al fronte.

Un mese dopo, è finito in ospedale dopo essere stato vicino a una mina esplosiva. Soffre di vertigini, mal di testa, parziale perdita di memoria e problemi di vista e udito. Secondo la madre, l’assenza di cure mediche adeguate potrebbe avere conseguenze irreversibili.

Costretti a combattere

Anche per molti russi l’invasione dell’Ucraina è stata molto inaspettata. Molti soldati e coscritti russi sono stati inviati in Ucraina con un pretesto. Un soldato di 21 anni ha testimoniato di aver pensato di andare in Siria per l’addestramento, ma di essere finito improvvisamente in Ucraina. “Sono stato mandato in Ucraina in modo fraudolento, senza tenere conto dei miei desideri. Sono in prima linea, in posizione di tiro. Ho perso i miei compagni in battaglia. Ho 21 anni e voglio vivere. Ma cosa posso fare?”.

Obiezione di coscienza alla guerra. Una Campagna coordinata dal Movimento Nonviolento. Tutti possono firmare.

Clicca qui per la pagina dedicata. Scarica qui il testo della Dichiarazione di Obiezione

Per informazioni e adesioni: obiezioneallaguerra@nonviolenti.org

Diario di un agosto popolare 12
L’OTTIMISMO DURA POCO

L’OTTIMISMO DURA POCO
25 agosto 2019

La disposizione del proprio tempo è un privilegio che, quando mi capita, non so mai bene come far fruttare. Così dopo mille cincischiamenti, decido di smaltire un po’ di entropia e inutile opulenza della casa, preparando dei pacchi di libri e di vestiti da regalare o buttare ai cassonetti.

Siccome nei pacchi preparati, dopo un po’ d’indecisione, vedo due giacche che mi chiedono di non abbandonarle, decido di riprenderle e portarle in tintoria.

Non è un luogo che frequento spesso, ma quelle poche volte che ho portato degli abiti a smacchiare, la tintoria è rimasta nel mio immaginario come un luogo dove delle signore stirano a vapore in piedi tra gli sbuffi di un odore di trielina, anche se spesso c’è un uomo, di solito in posizione defilata, che appende o cerca i vestiti, in genere con qualche difficoltà a ritrovarli.

Oggi, invece, nella prima tintoria aperta, mi accoglie sorridente un ragazzo dall’aria simpatica, sui 25 anni, Alessio.

Alessio parla con un lieve accento romano, ma da come mi spiega la differenza tra la pulizia a secco e quella invece a umido, si capisce che andava bene a scuola.

O perlomeno, questo è il mio primo pensiero, perché anch’io, sotto sotto, ho un’idea che gli orientali siano per lo più degli sgobboni: perché, dimenticavo, Alessio e i suoi compagni di tintoria, vengono tutti dalle parti di Guang Zhou.

Mentre mi spiega i vantaggi del procedimento wet-clean mi accorgo che sulla sua maglietta c’è scritto: “MI SVEGLIO OTTIMISTA, MA POI MI PASSA”.

Mi viene da ridere e indicandola gli dico: “Beh, menomale che sono passato di mattina!”.

E in effetti, Alessio ha l’aria di uno che si sveglia bene e ha voglia di chiacchierare.

Mi dice che è nato in Cina ma che da quando ha tre anni è a Roma ed ha più accento italiano quando parla in cinese, che quando fa il contrario.

Gli chiedo se ha la nazionalità italiana e lui dice che no, perché purtroppo, mi dice, in Cina si può avere un passaporto solo. Perciò bisogna scegliere: se avessi preso quello italiano, e poi da grande (com’è successo a molte persone famose, aggiunge) se volessi ritornare in Cina, non me lo farebbero più cambiare.

“Ma non ti crea problemi lavorare qui da straniero?” “No”, mi dice: “basta avere il permesso di soggiorno e hai tutti i diritti, come un italiano”. ”Allora preferisci così? Non ti senti un po’ insicuro? Le cose potrebbero cambiare…”

Lui fa una faccia pensosa ed esitando un po’ prima di lanciarsi in una battuta, mi dice: “Non saprei…dipende da che ora me lo chiedi!”. Ci facciamo una risata.

Tornerò a ritirare le giacche di sera e vedremo: ma secondo me, a Alessio, l’ottimismo non passa mai.

Salvate le due giacche e dopo aver buttato le cose rotte nei cassonetti, col resto dei pacchi mi avventuro a trovare Isabella e i suoi amici di Emmaus, a via Casale de Merode, verso l’Eur.

Isabella è una donna, anzi direi – al di là dell’anagrafe – una ragazza, decisamente fantastica.

Da anni si occupa di una piccola comunità di gente “in difficoltà” che ruota attorno a un mercatino solidale, ispirato alla geniale figura dell’Abbé Pierre.

Il fatto che una donna sola riesca a farsi rispettare da un numero cospicuo di maschi, con storie di vita e caratteri non certo facili, mi infonde una grande ammirazione. Ma certamente anche è ammirevole il modo in cui questi uomini la rispettano e si guadagnano il rispetto di tutti, per la capacità di uscire da storie in salita dopo pesanti discese,  con la dignità del proprio lavoro.

Ogni volta che vado a trovarli, spesso con la mia amica Silvana, portando qualche pacco di cose per noi non più necessarie o a comprare oggetti che invece ci possono servire (io ci ho comprato dei mobili, un lume e qualche cianfrusaglia) mi sono sentito in una specie di strana famiglia, dove l’ispirazione religiosa – verso la quale ho un po’ di allergia – sparisce in favore di quella sociale e di responsabilità civile.

Non è facile parlare con gli ospiti, a volte un po’ diffidenti, con vite spesso frantumate in pezzi e segnate da grandi dolori. Ma quando capita finalmente di oltrepassare quel muro, viene voglia di approfondire l’amicizia e sapere chi c’è dietro a quel cartellino che dice “persona in difficoltà”.

Oggi per esempio, riesco a finalmente parlare con C., che ha fatto la galera e scontato la sua condanna e ora, che potrebbe finalmente rifarsi una vita all’estero, da un amico che gli ha offerto un lavoro e aperto un nuovo orizzonte, non può avere il suo passaporto per un delirante accanimento burocratico.

“Ho sessant’anni” mi dice: e quando mi ricapiterà un’occasione del genere?”

mi parla di quando era giovane e della bella vita un po’ scellerata di quando aveva soldi per le mani.

“Me la sono goduta, certo, ma l’ho anche pagata. E la sto pagando ancora.”

Ricordando i suoi errori, C. ha ancora un sorriso un po’ malandrino, ma gli occhi dicono qualcos’altro.

Ripenso alla maglietta del giovane tintore cinese.

Anch’io mi sono svegliato ottimista. Ma poi, garantito, mi passa.

(domani, 26 agosto, ultimo capitolo)

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STRANI STRANIERI

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NELLA CITTA’ DESERTA

COCCIA DI MORTO

FINCHÉ C’É LA SALUTE

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STELLE CADENTI

LA METRO, IL BUS E LO SCOOTER

FREQUENZE DISTORTE

CANNE AL VENTO

L’OTTIMISMO DURA POCO

LA TORBELLA DI ADAMO

Parole a capo
Eugenia B. Paris: Tre poesie

“La poesia malinconica e sentimentale è un respiro dell’anima.”
(Giacomo Leopardi)

Una sera

Nella oscurità risuonano le sirene sorde rosse e blu.
Un cancello chiuso, un muretto traforato,
una finestra, un uomo con i miei occhi
e un albero, addobbato a festa, il mio albero.
Una donna, disperata che tiene una bambina.
La mano tenendomi mi dava coraggio,
lasciandomi spersa e spaesata
in questa scena incasinata.
Anche libera di vedere la realtà
e la donna nella sofferenza.
Infine un gioco, un regalo da San Nicola, per me!
da parte della donna, ora con gli occhi,
ricolmi di determinazione, forza e paura.
Ed ecco un pulsante e poi musica e luci.
Riscaldando e illuminando la sera scura e fredda.
E poi buio.

(maggio 2022)

 

L’uomo nella nebbia

Percepivo sulla pelle già gelida la nebbia densa,
mentre arrancavo verso la sagoma di un mulino a vento in speranza di vita.
Quando con difficoltà mi avvicinai la visione si fece più nitida,
capii che era solo un albero, la stanchezza ebbe la meglio.
Riposai sotto l’albero che mi aveva dato falsa speranza,
dolce come la vita stessa.
La primavera successiva venne ritrovato un cadavere sotto il più maestoso degli
alberi in fiore.

(Inverno 2019)

 

Falsa neve

Neve, un sorriso
Uguale a questa falsa neve.
Che non è altro, che una goffa riproduzione
in questo verde vivo.
Una persona davanti a me in attesa,
di una risposta chiesta a me,
ma donata al vento.
E io vuota in cerca di una risposta,
ma il nulla mi sopprime.
Poi delle parole nel vento,
con la mia voce in risposta.
Ed ecco la neve.

(2022)

Eugenia B. Paris (Ferrara), di anni diciotto. Queste prime prove poetiche sono uscite da un cassetto dove mi si dice ce ne siano numerose altre.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopioPer leggere i numeri precedenti clicca [Qui] 

ANCH’IO BALLO CON SANNA MARIN
Ma non svenda a Erdogan la pelle dei Curdi

 

Sanna Marin è la premier della Finlandia. Non ha ancora 37 anni, ed è madre di una bambina di 4. Già questo basta a renderla una marziana per un paese di vecchi patriarchi ammuffiti.

In (sicuramente non casuale) concomitanza con la richiesta della Finlandia, paese storicamente neutrale, di aderire alla NATO per avere un ombrello di protezione contro la minacciosa Russia di Putin, una manina ha diffuso un video di una festa privata nella quale Sanna Marin balla e canta, probabilmente alticcia.

Se una donna di 37 anni sana e finlandese non sbevazzasse, non cantasse e non ballasse in una festa tra amici intimi che fanno le stesse cose, ci sarebbe da chiedersi che problemi ha. Sociopatia? Depressione? Invece il mondo si è interrogato sulla sua affidabilità e serietà, ovviamente. Del resto, gettare una palata di fango sulla sua reputazione era esattamente lo scopo di chi ha diffuso quel video. La Russia nelle mani di un ex funzionario del Kgb è maestra in queste cose, come in altre attività a maggior tasso criminale.

Nel contempo è scattata anche la solidarietà mondiale per la premier, che nell’epoca dei social non costa nulla. Basta dire “io ballo con Sanna”, girare un video in cui fai due mosse e hai già fatto bella figura. Bene, anch’io ballo con Sanna.

Però le faccio anche un appello – virtuale, ovviamente: non mi leggerà. Non consegni lo scalpo dei Curdi a Erdogan, in cambio della non opposizione del despota turco all’ingresso della Finlandia nella Nato. E’ notorio che Erdogan, dittatore di una Turchia (membro Nato) che potrebbe mettere il veto all’adesione di Finlandia e Svezia alla medesima, non opporrà il veto solo in cambio di una contropartita. E la contropartita è che Finlandia e Svezia la smettano di accogliere perseguitati curdi, primo; e favoriscano l’estradizione di quelli che già ospitano, secondo.

Sul primo favore temo ci sia poco da fare: la Scandinavia non sarà più terra di rifugio per i curdi (popolo senza nazione perseguitato da diversi nazionalismi, in primis quello turco) che si oppongono ai dittatori. Sul secondo favore, mi appello alla sensibilità di due donne in politica (Sanna Marin e Eva Andersson, premier svedese) sperando che, appunto, non ragionino nè agiscano come gli uomini. Perchè sono donne, perchè (se vogliono) danno la vita, perchè il dato biologico possa prevalere sull’istinto di morte che guida le menti dei maschi alle prese col potere.

Non è facile. E’ una prova molto dura. Possiamo solo immaginare il tipo di pressione alle quali sono sottoposte dentro una situazione simile. Però hanno voluto la bicicletta, e adesso devono fare un gran premio della montagna. Il memorandum trilaterale Turchia – Finlandia – Svezia che i rispettivi ministri degli Esteri hanno appena firmato al vertice Nato di Madrid, purtroppo non induce all’ottimismo. Anzi, la sua lettura integrale fa venire i brividi (qui).

Al punto 5 di questo documento di tre pagine, Svezia e Finlandia confermano che le principali organizzazioni politiche curde, tra cui il PKK, sono da considerare terroristiche. Al punto 6 Finlandia e Svezia scrivono che nei rispettivi paesi stanno per entrare in vigore norme più severe contro il terrorismo, comprese norme che puniscono con sanzioni specifiche il “pubblico incitamento” ad attacchi terroristici (qui si sente puzza di legislazione di emergenza contro una minaccia che in questi paesi non ha mai suscitato un simile allarme; per capirci, non siamo nell’Italia degli anni settanta e ottanta).

Il terzo alinea del punto 8 di seguito gela il sangue: “Finland and Sweden will address Turkiye’s pending deportation or extradition requests of terror suspects expeditiously and thoroughly, taking into account information, evidence and intelligence provided by Turkiye, and establish necessary bilateral legal frameworks to facilitate extradition and security cooperation with Turkiye, in accordance with the European Convention on Extradition.” Traduzione: “Finlandia e Svezia indirizzeranno le richieste pendenti di estradizione da parte della Turchia per sospetti terroristi speditamente e minuziosamente, considerando le prove, le informazioni e le notizie riservate messe a disposizione dalla Turchia, e stabiliranno necessarie strutture legali bilaterali per facilitare l’estradizione e la cooperazione di sicurezza con la Turchia, in accordo con la Convenzione Europea sull’Estradizione”.

Dove sta scritta la possibilità di controllare in maniera autonoma e indipendente le informazioni che provengono da fonte turca? Da nessuna parte.

Agli alinea seguenti è scritto che Finlandia e Svezia proibiranno ogni attività di finanziamento e reclutamento per il PKK e per le altre organizzazioni terroristiche; così assumendo il punto di vista turco, secondo il quale tutti i movimenti che si oppongono a Erdogan sono per definizione terroristici. Infine, una ciliegia al veleno: Finlandia e Svezia “si impegnano a supportare il massimo coinvolgimento possibile della Turchia e di altri Alleati non facenti parte dell’Unione Europea nelle attuali e future iniziative della Policy di Difesa e Sicurezza dell’Unione Europea, inclusa la partecipazione della Turchia nella PESCO (cooperazione integrata militare, la famosa “difesa unica europea”).”

Il sito bufale.net sostiene che sia esagerato dire che Sanna Marin ha regalato a Erdogan la pelle dei Curdi. Erdogan intanto ha dichiarato (leggi qui) che non opporrà veto all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato solo se esse manterranno le promesse (lui le chiama così, tanto per capirci) di estradare 73 presunti terroristi. Altrimenti, picche. E questa non è una bufala.

A ciascuno le conclusioni. Spero che le organizzazioni indipendenti internazionali, a partire da Amnesty International, tengano accesi i fari su quello che appare a tutti gli effetti come un pactum sceleris, in nome della real politik. Io credo che in questo caso Sanna Marin e Eva Andersson, che rischiano di essere lasciate sole davanti a questa schiacciante responsabilità, non dovrebbero considerare Amnesty come un fastidioso grillo parlante, ma come un alleato.  Sanna e Eva, non svendete la pelle dei Curdi al dittatore.

Julian Assange Libero!
Le adesioni alla 24 ore crescono in tutto il mondo

15 0tt0bre 2022: 24 ore per Assange

L’organizzazione della maratona “24 ore per Julian Assange”, che si svolgerà il 15 ottobre, sta rapidamente procedendo e si diffonde per tutto il pianeta.

L’appello lanciato da Pressenza a fine luglio è già stato raccolto da centinaia di persone di tutto il pianeta, dall’Australia natale di Julian, all’America Latina, dalle capitali europee all’Oriente. Sono già confermati almeno 30 eventi, quando mancano poco meno di due mesi all’iniziativa. Crescono di giorno in giorno le organizzazioni sociali e le testate che aderiscono alla maratona e si propongono di organizzare i tanti eventi che comporranno la 24 ore che attraverserà il pianeta il 15 ottobre.

Come funziona?

La manifestazione comincerà in un punto preciso a una certa ora del 15 ottobre e durerà 24 ore, durante le quali una diretta collegherà tutte le iniziative del pianeta. La diretta includerà anche video esplicativi e interventi registrati.

Saranno organizzati eventi locali che si collegheranno con la 24 ore in un momento e per un tempo preciso. Puntiamo alla massima apertura, diversità e creatività possibili – un piccolo evento di quartiere, uno spettacolo, una manifestazione, un incontro tra amici, un video, un’intervista radiofonica, una dichiarazione. Tutti sono benvenuti, non importa quanto “piccoli” o “grandi”: invitiamo attivisti di base, giornalisti, personaggi dello spettacolo, artisti, scrittori ecc ecc a partecipare secondo le loro possibilità, capacità e gusti.

Sarà possibile partecipare anche organizzando un gruppo di ascolto nel proprio quartiere, negozio, casa, piazza.

Per adesioni e proposte di organizzazione scrivere alla mail 24hassange@proton.me

Tutti gli aggiornamenti su: http://www.24hassange.org

Anche a Ferrara …

La testata giornalistica periscopio aderisce alla 24 ore per Assange. Invitiamo tutte le nostre lettrici e lettori, singoli, gruppi e associazioni ferraresi a segnalarci il proprio interesse e la propria disponibilità ad organizzare per 15 ottobre p.v. un evento a Ferrara per la liberazione di Julian Assange e la libertà di opinione e di espressione.
[ La redazione ]

VITE DI CARTA /
Senza vite di carta

 

Mi stupisco da me: da un mesetto a questa parte leggo pochissimo. Non libri di narrativa, non articoli di quotidiano, o meglio poco di tutto. Sento le notizie al telegiornale, vedo trasmissioni culturali che parlano soprattutto di luoghi di vacanza. Come se avessi messo in stand by il dna.

Eppure i libri si accumulano sul tavolo dello studio, li ho comprati girando tra Ferrara e Bologna. E molti titoli costellano le chat che intrattengo.

L’ultima in ordine di tempo, più preziosa che mai, è quella con gli ex studenti di una classe del Liceo Classico, allora sperimentale, che ho avuto per tutti i cinque anni del loro corso.

Una classe uscita nel 1996, che ora si è ritrovata per festeggiare i venticinque anni dal diploma. Che serata. A parlare dei vecchi tempi, è questo che si fa in circostanze come questa, a ricordare insieme e a svelare gli uni agli altri retroscena e percezioni soggettive degli anni del liceo, dei professori e del  bel rapporto tra compagni di classe, di me che ho rappresentato “l’Italiano” dal primo giorno di liceo fino all’esame di Stato.

Una empatia che, mi ha sorpreso, ci ha uniti. Una empatia per la lettura, di cui mi hanno considerata la responsabile, dopo tanti anni. Che responsabilità meravigliosa mi sono presa.

Che soddisfazione leggere i loro consigli su romanzi, soprattutto di autori stranieri, che ancora non conosco. La vita è stata lunga abbastanza da invertire i ruoli: ora sono io che cito e consiglio qualche titolo, ma ne ricevo da loro molti di più.

Prendo dalla pila dei nuovi volumi il catalogo del Festivaletteratura 2022. L’ho comprato a Bologna, non potendo andare di proposito a Mantova. Per me è meglio avere tra le mani la versione cartacea: posso scrivere appunti e creare collegamenti tra gli eventi che mi interessano. Posso leggere i contributi d’autore che mancano nella edizione on line.

Già nelle prime due giornate di mercoledì 7 e giovedì 8 settembre ho evidenziato molti eventi che mi interessano. Mantova mi fa fare sempre scorpacciate letterarie e culturali in senso ampio, questa ventiseiesima edizione non sarà da meno. Quando vado al Festival ho il respiro largo.

Il catalogo però è una rassegna di eventi e letture, mentre io voglio decidermi a entrare nei testi.

Plano allora su un romanzo breve che ho letto in luglio, Il giorno prima della felicità di Erri De Luca [Qui], e su un’opera di George Orwell [Qui] che presto leggerò, Giorni in Birmania.

Da Erri De Luca, che ho sentito proprio a Mantova in un paio di occasioni, mi aspettavo questo linguaggio scabro. Un narrare la vita povera del protagonista con la profondità e la secchezza espressiva di Fenoglio: “Non mi è mancato quello che spetta a un’infanzia, una famiglia. Avevo fatto senza, come tanti nel dopoguerra… Avevo lo stanzino, la scuola, il cortile. Avevo la minestra portata dalla donna di servizio di mia madre adottiva”.

Nella Napoli popolosa degli anni cinquanta cresce e si fa uomo “’a scigna”, la Scimmia, il ragazzino smilzo e pieno di sogni, che don Gaetano alleva nella portineria di un grande palazzo, come se fosse figlio suo.

Nel crescere il protagonista studia e ama la scuola, si innamora di una bambina e poi della donna, in cui la bambina si trasforma, abitando al terzo piano del palazzo; conosce la carne e il sangue, si scontra con il fidanzato camorrista della sua Anna e poi è costretto a partire su una nave che lo porta lontano da Napoli. La sua Napoli, la città che don Gaetano gli ha fatto amare, come si ama la propria identità.

La Scimmia potrebbe essere uno dei piccoli che nel bel romanzo di Viola Ardone [Qui], Il treno dei bambini, lasciano Napoli per allontanarsi dalla miseria e vivono per alcuni mesi presso famiglie del Nord Italia, che li ospitano, li curano e li fanno andare a scuola.

Invece il nostro protagonista pare avere tutto l’essenziale negli anni dell’infanzia e solo nella adolescenza lascia l’Italia per l’Argentina: ci deve pensare il mare a pareggiare i conti per il fatto di sangue in cui è rimasto coinvolto. Sarà don Gaetano a fargli sapere quando potrà tornare.

Un bel libro, coinvolgente. Letto nelle soste all’aeroporto di Dubai, nel viaggio di andata ad Hanoi e poi in quello di ritorno. Letto pensando all’Italia e avendo i piedi su un suolo straniero. Letto e compreso come meglio non avrei potuto.

Dovevo andare così lontano per leggere due frasi-destino.  La prima: c’è una generosità civile nella scuola pubblica, gratuita che permetteva a uno come me di imparare…La scuola dava peso a chi non ne aveva, faceva uguaglianza”. In questa direzione mi sono mossa insegnando, sempre.

L’altra: “lo scrittore dev’essere più piccolo della materia che racconta. Si deve vedere che la storia gli scappa da tutte le parti e che lui ne raccoglie solo un poco. Chi legge ha il gusto di quell’abbondanza che trabocca oltre lo scrittore”. Ecco, è un’avvertenza per i libri che leggerò e per ripensare in questi termini a quelli che ho letto e apprezzato.

Orwell, d’altro canto, mi aspetta dalle pagine del suo romanzo sulla Birmania degli anni venti, in cui visse come membro della polizia coloniale. Non so molto altro di questa storia, se non che l’autore vi trasfonde il proprio amore per l’Oriente e la satira sferzante contro l’ingiustizia, che dominava i rapporti sociali nelle colonie.

Visto il Vietnam, voglio capire meglio come è stata la penisola indocinese e come è. Anche se la luce che mi arriva da un grande scrittore come Orwell è come quella che arriva da una stella talmente lontana da noi, che impiega anni e anni per raggiungere la terra.

Mescolare le impressioni che mi ha lasciato la parte est dell’Indocina, in quella lunga S che è il Vietnam, con la parte occidentale ex birmana che oggi ha nome Myanmar. Verificare se ho saputo leggere anche i lasciti del suo passato. Ridare spinta alla spirale e sentire che il dna si muove, in questo agosto che prima ribolliva e ora si è ingozzato di pioggia.

Indicazioni bibliografiche:

  • Erri De Luca, Il giorno prima della felicità, Feltrinelli, 2009
  • George Orwell, Giorni in Birmania., Mondadori 2020 (prima edizione inglese 1934)
  • Viola Ardone, Il treno dei bambini, Einaudi, 2019
  • Catalogo del Festivaletteratura, Mantova 7-11 settembre 2022 , Arti Grafiche Castello – Viadana

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

ANTITRUST: COS’È E COSA DOVREBBE ESSERE
La democrazia tra dispotismo e multinazionali

 

L’AntiTrust è una Autorità pubblica indipendente dal Governo che controlla che sul mercato di riferimento non si formino monopoli, cioè la presenza di pochi o addirittura di un solo operatore che può così determinare il prezzo senza controlli da parte degli altri concorrenti.
Fu inventato dagli americani dopo la prima guerra mondiale quando si resero conto che i grandi arricchimenti avvenuti dai singoli petrolieri e altri monopolisti nel periodo 1870-1914 non andavano a vantaggio della popolazione. L’Italia è arrivata dopo 70 anni con le prime Autority e anche l’Europa ha le sue.

Purtroppo non esistono Autority mondiali e quindi oggi ci troviamo spesso con giganti multinazionali che operano sui mercati mondiali in condizione di quasi monopolio. +
Amazon per esempio si può permettere di aumentare l’abbonamento ‘prime’ a 49 dollari in quanto ha un enorme potere di mercato Uno strapotere che gli è conferito dai suoi milioni di clienti, che sono quindi conniventi e complici delle sue politiche di distruzione dei piccoli negozi (di cui poi ci si lamenta della sparizione).

Anche la Cina ha le sue Autority, le quali hanno ora obbligato tutte le grandi società ad alta tecnologia digitale a comunicare gli algoritmi che usano, che è come chiedere di sapere il tuo segreto industriale.
Alibaba (e-commerce), Byte Dance, Baidu (il Google cinese), Sina Weibo (social network), Tencent (app WeChat), Kuaishou (video brevi), Meituan (consegna cibo a domicilio) insieme a molte altre hanno comunicato alla Autority cinese Cyberspace Administration of China i dettagli dei loro software, quindi le tecniche che usano per ‘servire’ i loro clienti-consumatori.
Alibaba, per esempio, propone nuovi prodotti in base alla cronologia di navigazione. ByteDance, invece, in base al tempo trascorso dai potenziali utenti su Douyin (il TikTok cinese). La documentazione è stata resa pubblica ma è probabile che la parte più sensibile sia nota solo all’Autority cinese (e soprattutto al Governo che in Cina tutto controlla), In Cina non si scherza, e le aziende hanno subito fornito i dati.

In Europa e Usa invece non ne sappiamo ancora nulla: in Occidente il potere delle multinazionali (supportate dalla finanza) ha una grande influenza sui governi.

La domanda che ci facciamo è: in questo caso, è dunque migliore il comportamento della Cina verso i suoi cittadini? Direi di si, ma è anche evidente che in una società dispotica (come la Cina) il Governo può usare questo potere per censurare e/o influenzare/manipolare i propri cittadini, in quanto le Autority cinesi non sono indipendenti dal Governo.

L’ indipendenza delle Autority è  una delle tante clausole di ‘economia di mercato’ che l’Occidente non ha mai preteso fossero osservate dalla Cina da quando è entrata nel 2001 nel Commercio Mondiale (WTO).  E come mai non sono state pretese? Perché gli interessi a fare affari delle multinazionali occidentali erano più potenti dell’ interesse dei Governi occidentali a far crescere la democrazia in Cina.

L’ideale sarebbe infatti disporre di Autority indipendenti dai Governi (come in Occidente, almeno in teoria) che possiedono però i dati (come in Cina), ma che hanno anche come controllori nel CdA non solo i rappresentanti del Governo ma anche le Associazioni dei consumatori.
Dare ai consumatori,
che sono alla fine i veri fruitori del servizio, un reale potere ti controllo sarebbe un modo per rendere efficace e vera la democrazia (al di là delle elezioni) sulle cose che contano.

Il noto economista Daron Acemoglu (vincitore nel 2005 della John Bates Clark Medal) ci dice che la democrazia si realizza quando c’é uno Stato forte che serve con efficacia i suoi cittadini e fa rispettare le leggi, e al tempo stesso, quando i cittadini hanno la capacità di tenere sotto controllo e chiamare in causa le autorità, tramite Istituzioni che non sono lasciate alla “benevolenza” dello Stato o al Governo di turno, ma che sono garantite dalla Costituzione.

Altrimenti  il dispotismo statale è sempre in agguato: sia nella versione cinese (dove il Governo si fa dare i dati e li tiene sotto chiave), sia nella versione occidentale (dove il Governo non chiede i dati e lascia spazio allo strapotere delle multinazionali). La libertà e la potestà dei cittadini (articolo 1 della Costituzione) diventano sempre più una finzione, perché vengono manipolate dal dispotismo politico orientale o dal consumismo materialista occidentale.

Questo articolo, con altro titolo, è uscito il 21 agosto su il blog di madrugada

Cover: vignetta satirica contro il potere economico delle grandi multinazionali, Stai Uniti, inizio ‘900

Diario di un agosto popolare 11
CANNE AL VENTO

CANNE AL VENTO
22 agosto 2019

In quest’agosto un po’ tetro, ci sono anziani soli che guardano dal balcone i neri nuvoloni che avanzano lentamente. Da quando sono cominciati gli acquazzoni tropicali, ogni giorno ci si aspetta una nuova tragedia: dalle case filtrano gli echi di notizie sconfortanti, di talk show necrofili e di dibattiti faziosi.

Ma a un certo punto questo rumore di fondo della rabbia e dello sconforto, viene coperto da tuoni e lampi che sembrano bombardamenti, e torna un po’ di paura.

Nelle strade ora vuote ci sono solo i cercatori d’immondizia con le loro carrozzine a frugare nei cassonetti, in un’atmosfera dai colori post atomici.

Qualche ritardatario corre, ridendo come un bambino, poco prima che cali un sipario che ricorda le cascate del Niagara.

Quando poi passa il finimondo, e si realizza che non ci sono stati troppi danni, il ritorno del sole, anche qui a Roma Prenestino, trasmette ancora un piccolo stato di grazia, una sorta di inconsapevole gioia di averla scampata.

In pochi minuti, gli umani vengono fuori dalle tane in cui si erano rinchiusi, e come marmotte, si richiamano fra loro con dei lunghi fischi, uscendo all’aperto negli spazi ancora bagnati.

Sarà pure un martedì ma la sensazione è che nessuno ancora ci creda, che siano finite le vacanze. Persino Mario il cinese, un caposaldo del quartiere, ha messo il suo bel cartellino rosa con una scritta ad arcobaleno che dice: Ferie fino al 1 settembre.

Per ritrovare un’atmosfera ciarliera e appizzare il mio orecchio da impiccione, mi tocca fare una decina di isolati.

Capito al bar Ilary, che non è in onore della Clinton ma della moglie di Totti.

E, guarda un po’, è gestito da cinesi.

Appena entro a rifornirmi di un pretesto, (i caffè qui sono a 70 centesimi), entra un cinquantenne galante che apostrofa la cinesina dietro al bancone: “Un bel corretto al vetro dalla mia principessa!” e capisco che Anna, la ragazzina che fa i caffè, è una star esotica per i maturi avventori.

Dato che la movida del bar (interamente maschile) è, come da Mario, nelle seggiole in plastica del déhors, mi sposto fuori col caffè in mano e mi piazzo in piedi in posizione strategica tra due tavolini.

Nel primo a destra cinque ultrasessanteni trafficano, come dei ragazzini, coi loro cellulari. Il tema di cui discutono sembra estratto dal film “Perfetti sconosciuti”. Dicono in sintesi “Co’ sti telefonini non ce se capisce gnente. T’ariveno certi messaggi che se te li legge tu moje, poi chi la sente?” “Ma nun sei bbono a bloccallli?” “Te devi imparà a blocca’ tu moje, no i messaggi…” dice un terzo, strappando uno sghignazzo…

Mi sposto a quello a sinistra, dove il parterre è più giovanile: sono tre cinquantenni che parlano di una pizzeria talmente economica, “’ndo’ fanno ‘na capricciosa co’ du carciofini e ‘na melanzana che fa piagne i morti”. La conversazione non sarebbe degna di essere riportata, se non fosse che a un certo punto i tre cominciano ad abbassare un po’ la voce, costringendomi ad avvicinarmi, anche se di spalle. E piantato lì a origliare, simulo di avere un appuntamento in strada, fingendo di guardare nervosamente il cellulare e le auto in arrivo.

Stanno parlando di hashish. “Ahò, a me l’altra sera m’annava de fammedu cannette e nun trovavo più er fumo: o sai dove stava? L’avevo nascosto in una confezione de merendine, tacci sua! Ce credete che se l’è portata mi fijo a scuola? Pensa si lo beccava la maestra!” e giù sghignazzi a rotta di collo. Si aggiunge un altro: “E a me? Pensa che l’avevo nascosto in un carzino e mi moje l’ha messo in lavatrice! Te possino! Quando l’ho tolto dalla lavatrice era fracico e s’era ammischiatocorcarzino! Allora io c’ho fatto? Ho asciugato ercarzinocor fero da stiro ed è venuto su un fumo ner naso… Non puoi capì come stavo! La vedi sta pozza da qui a lamaghina? Cecaminavo sopra come Gesù Cristo!” E di nuovo a ridere come forsennati.

Vorrei ascoltare di più ma temo di essere preso per un detective della narcotici e mi tocca cambiare bar.

Ma intanto non posso non notare che questo consesso di maschi è unito da almeno due cose: il gusto un po’ infantile della trasgressione e la costante presenza nei loro discorsi della figura della moglie. Padri di famiglia, mariti italianissimi, dall’aspetto tutt’altro che fricchettone.

Mi resta la curiosità della pizzeria con la triste capricciosa (che ancora non conoscevo) e decido di cercarla. E mentre mi allontano, rifletto sul fatto – non so quanto attendibile – che ormai hashish e marijuana siano diventati, a partire dagli anni ’70, parte di un lato semi segreto, innocentemente irresponsabile, di ogni generazione, attraversando ogni classe sociale.

Sarà pure che da quando ho deciso di mettermi in ascolto mi accorgo di cose che prima non notavo, ma guarda caso, appena arrivo, sento fra i tavoli, dove i clienti si stanno spazzolando supplì, crostini e pizze di tutti i sapori, l’odore tipico di uno spinello bello carico.

Cerco con lo sguardo da dove possa arrivare. C’è un tavolo con una famiglia in cui sono tutti grassi, compresa la nonna. Una coppia dall’aria stanca, con un figlio disabile su una carrozzina. Un signore pallido dall’aria insalubre. Un gruppo dopolavoristico di colleghi che sembrano bancari: nessuno di loro sta fumando, chissà dove l’hanno nascosto.

Nel cielo ora appare un arcobaleno vero, non quello in cartone delle ferie di Mario, che rende saturi tutti i colori di via Malatesta: e nonostante quest’estate sia stata prodiga di disgrazie, questa sera svaporano nel fumo di una cannetta.

(continua giovedì, 25 agosto)

Per leggere tutti insieme i capitoli del Diario di Daniele Cini:

Diario di un agosto popolare


Oppure leggili uno alla volta:

ANDARE PER STRADA E ASCOLTARE LA VITA

STRANI STRANIERI

CORPI DIMENTICATI

NELLA CITTA’ DESERTA

COCCIA DI MORTO

FINCHÉ C’É LA SALUTE

LA BOLLA SVEDESE

STELLE CADENTI

LA METRO, IL BUS E LO SCOOTER

FREQUENZE DISTORTE

CANNE AL VENTO

L’OTTIMISMO DURA POCO

LA TORBELLA DI ADAMO

Elizabeth Rose Alper
Diversa ma vicina… ci rendeva migliori

 

Elizabeth Rose Alper,  una vita originale e non integrata, interessata alla cultura e al bello, ha saputo creare affetto e comunità attorno a sé. Non la conoscevo personalmente, ma posso riferirmi senza presunzione alla cura che uomini e donne ferraresi hanno avuto per lei.

Qualche dettaglio per chi non fosse di Ferrara o non la conoscesse.
La si incontrava al cinema Boldini con le sue immancabili sportine di plastica piene, ho saputo poi, anche di libri,  ricoperta di indumenti sovrapposti senza ordine, gli stessi in estate e in inverno.
Ho saputo che negli ultimi tempi non si riusciva nemmeno a convincerla ad utilizzare un alloggio che una rete di persone, in pena per lei, le avevano procurato.
Ha sollecitato un affetto disinteressato, dove l’unicità e la bizzarria hanno avuto il loro posto fra di noi con naturalezza e rispetto. Il coro di voci preoccupate per le sue condizioni di vita, non si sono mai rese invadenti e non si sono tradotte in forzature.

È bello per me pensare che la presenza  di Elizabeth abbia ingentilito e impreziosito il nostro paesaggio umano, forse anche a partire dalla sua storia e dalle sue doti. Qualcuno ha insinuato che se non fosse stata americana e se non avesse frequentato l’università, non sarebbe importato a nessuno di lei. Non lo so, forse è così, ma a me piace pensare che questa cura verso di lei sia stato un bell’esempio. E che è stata lei, proprio lei, a far in modo che le nostre porte del cuore si aprissero. Serviva che fosse colta? Bene, adesso sappiamo che certe figure anticonvenzionali possono portare con sé conoscenza e cultura. Oppure possono esserne prive, ma questo non ha nessuna importanza.

In tanti e tante si sono INTERESSATI e presi cura di lei. Dai loro ricordi sulle sue abitudini e sulla sua personalità, ricaviamo un esempio prezioso, quello che ci educa mostrando come si crea la comunità che agisce e accoglie con fiducia e ci insegna che avvicinarci, interessarci a chi è diverso da noi migliora la nostra vita.

Elizabeth (a sx nella foto) qualche anno fa, mentre partecipa a una manifestazione

Per me l’esempio di Elizabeth è un esempio di speranza. Mi piacerebbe che fosse abituale, che nei nostri luoghi di vita quotidiana ci fosse la presenza di una Elizabeth, bella e serena come nelle fotografie che le  persone a lei vicine hanno mostrato in suo ricordo quando lei ci ha lasciato. Vorrei che a scuola, nelle classi, le tante Elizabeth che purtroppo ci sono, fossero guardate con gli stessi occhi affettuosi e premurosi, incuranti dell’immagine inconsueta e del subbuglio emotivo che possono creare in noi, perché irriducibili alla nostra comprensione.
Vorrei che diventassimo tanto aperti e fiduciosi in noi stessi, tanto forti da sopportare e persino valorizzare il disagio con cui la diversità ci mette a confronto. Elizabeth ha saputo suscitare in noi le nostre risorse migliori. Grazie Elizabeth e grazie a chi se ne è preso cura.

STORIE IN PELLICOLA /
Viaggio nello scompartimento n.6

 

Un treno, di quelli su cui difficilmente si vorrebbe viaggiare, per le sue comodità assenti, il buio e l’odore che emana, per il suo vagone angusto e uno strano, irritante, scontroso e ombroso compagno di viaggio all’apparenza molesto e un po’ minaccioso (nonché misogino). Immaginare di dover passare ore con quel vicino insofferente e rumoroso appare subito un preludio a una sorta di incubo.

Il viaggio è lungo in quello spazio ristretto e angusto: da Mosca a Murmansk, lungo rotaie sferraglianti e claudicanti, con nelle narici l’odore dei sottaceti, delle uova sode, del tabacco di sigarette e del thè fumante dal samovar in fondo alla carrozza, lo scuro della notte abbagliato dal candore della neve, il freddo assiderante, le fermate che non terminano mai, personaggi generosi che bevono vodka.

Mi domando se continuare a vedere il film, le prime scene mi indispettiscono un attimo, mi mettono un poco a disagio, le scene mi sembrano un poco claustrofobiche e cupe (la cuccetta non ha spazio), ma poi continuo, sarà una meravigliosa scoperta, un vero invito a rovesciare le apparenze.

Avevo letto il libro cui la pellicola si ispira (di fatto ne è un adattamento), attirata sia dal viaggio in treno che dalla destinazione nel nord della Russia, Murmansk, che ho visitato in passato: l’omonimo romanzo, Scompartimento n.6, di Rosa Liksom (pseudonimo di Anni Ylävaara). Mi era piaciuto, eccomi allora a cercare il film, ben diverso.

Il film del finlandese Juho Kuosmanen è Grand Prix Speciale della Giuria del Festival di Cannes 2021. Del tutto meritato, direi.

I personaggi di questa storia? La studentessa finlandese di archeologia, Laura (Seidi Haarla) e il minatore russo Ljoha (Yuriy Borisov): lei, delusa dall’amante moscovita Irina (un’elegante e colta professoressa, circondata da agio e benessere), timida e taciturna si reca a Murmansk per visitare alcune strutture rupestri (gli antichi petroglifi), lui va a lavorare e beve, beve.

Le incisioni ritrovate, Foto museo dei petroglifi di Kanozero

Di fronte allo spettatore ci sarà presto un treno che pare più una lotta per la sopravvivenza che un viaggio: si passa dalla sensazione di una possibile minaccia sessuale a una goffa amicizia che non ha alcun senso, ma che sorprendentemente funziona. Personaggi alla fine teneri che il regista pare sempre voler abbracciare, indifesi e spaventati, quasi intrappolati da timori e sentimenti.

Una strana coppia che ci accompagna fino alla fine, li seguiamo incuriositi fin all’arrivo a Murmansk, dove ognuno prende i suoi bagagli e via, arrivederci, magari non ci si vedrà mai più, accade spesso ai viaggiatori che percorrono insieme tratti di viaggio, scambiandosi magari mille confidenze e storie, come solo fra sconosciuti si riesce a fare.

Laura resta una sognatrice con strade amore per la storia e la vita, Ljoha è avvezzo al carcere e ai campi di correzione, ma pire lui è animato da un’irriducibile passione per la vita di chi si aggrappa agli istinti bruti per non cedere all’immenso vuoto che lo circonda.

Sullo sfondo, Murmansk (nel libro, Laura va a Ulan Bator, in Mongolia), città di mare al nord del circolo polare artico, città di luce e di freddo dove, secondo il regista, è facile respirare, perché quella storia non è fatta da un luogo ma dal viaggio. E il respiro conta.

Altra differenza con il libro è l’epoca: la storia era ambientata in epoca sovietica, qui è spostata avanti in quella russa degli anni ‘90. La cornice geografico-politica avrebbe distratto, dice Kuosmanen in un’intervista, ancora una volta l’attenzione è su due esseri umani, persone vere, imperfette e a tratti goffe, non su un luogo e un tempo.

Girato nella modalità apparentemente arcaica del 35 millimetri (poi trasferito in digitale, chi accetta oggi la pellicola?), è molto bella e importante la morbida fotografia, soffusa, a tratti sfuocata, come se si guardasse da un finestrino un po’ appannato bagnato di rugiada o di neve. Neve che non manca, freddo e gelo palpabili. Molto interessante il contrasto fra il movimento del treno e l’immobilità dei personaggi.

Nostalgia di un tempo che fu, duro realismo che ha però molta poesia. Volti che cambiano con i sorrisi, alla ricerca di sé stessi, ritrovando un’umanità calorosa, un’accettazione delle differenze. Perché la solitudine può essere condivisa.

Un road movie quasi onirico-sonnambulo, dal finale dolce. Consigliat(o)issimo.

“Per conoscere te stesso, devi conoscere il tuo passato”, ci ricorda spesso Laura.

Romanzo: Rosa Liksom, Scompartimento n.6, Iperborea, 2014, 256 p.

Film: Scompartimento n.6, di Juho Kuosmanen, con Seidi Haarla, Yuriy Borisov, Yuliya Aug, Lidia Kostina, Tomi Alatalo. Finlandia, Estonia, Germania, Russia, 2021, 107 minuti.

 

Trailer 

 

 

 

 

In copertina e nel testo: immagini dal web, alcuni screenshot dal film