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Ferrara film corto festival

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Pandemia, Gino Strada e l’ottusità di una Amministrazione

 

La lunga sosta a cui ci ha costretto la minaccia del virus, poteva essere l’occasione da non sprecare, l’occasione per riflettere e far riflettere tutta la città,.

A me non piace, e non mi è mai piaciuta, questa idea di città per cui ognuno pensa per sé. L’amministrazione governa per sé, per mantenere il suo potere, le istituzioni si amministrano per sé, per assolvere burocraticamente ai loro compiti e niente riesce a divenire corpo, sangue e membra di una città viva, di una comunità di abitanti fatti di persone in carne ed ossa.

Che nessuno si proponga mai di sognare come si potrebbe fare meglio, qualcosa di nuovo da realizzare. Anzi i luoghi creativi sono ancora visti con sospetto e lasciati al loro isolamento. Tutto conviene farlo sempre come prima, anziché sforzarsi di pensare che si potrebbe avere qualche idea nuova di governo, di come stare nella città, di come vivere insieme, gomito a gomito, tanto i guai quando arrivano non risparmiano nessuno, e certo non occorreva il Covid per ricordarcelo.

Allora a me sarebbe piaciuto vedere qualche segnale che qualcosa è cambiato. Una scuola intestata a Gino Strada [Qui] e a sua moglie [Qui], ad esempio. Una scuola che è un luogo di cura, come le vite che ha curato il medico di Emergency, sì, perché anche a scuola le vite si salvano.

E quello che ci è mancato nella pandemia sono state soprattutto le nostre scuole, le scuole della nostra città. Sarebbe stato una sorta di risarcimento, utile soprattutto alla nostra memoria, a non perdere mai di vista l’importanza delle scuole e di quella cura che si realizza al loro interno.

C’è mancata la scuola in questa pandemia, e non vorrei che si scaricasse il problema come sola questione nazionale, come responsabilità lontane da noi e dall’amministrazione della città.

Sarebbe un atto di intelligenza, oltre che di trasparenza e onestà intellettuale, se il Consiglio comunale dedicasse una seduta per riflettere su cosa si sarebbe potuto fare con le nostre forze e non si è fatto per la formazione, l’educazione, la scuola dei nostri giovani cittadini, figli e nipoti di tutti noi. Giusto per evitare di trovarci impreparati la prossima volta.

Da queste pagine, per quello che posso, ho tentato di dare alcuni suggerimenti all’Amministrazione, ma certo non posso pretendere che a Palazzo Municipale qualcuno mi legga. Allora l’occasione da cogliere è ora.

L’Amministrazione interroghi se stessa, senta la voce degli studenti, degli insegnanti, dei dirigenti scolastici, dei genitori e poi si attrezzi per quella comunità educativa invocata dagli indirizzi ministeriali, che altro non è che il rapporto tra scuola e territorio, quali sinergie ci devono essere tra scuole e territorio, tra l’apprendimento e l’apprendimento permanente.

La questione della scuola delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi ci riguarda tutti, riguarda lo spessore sociale della città che abitiamo e il suo futuro.

Ora invece di esternalizzare biblioteche e servizi educativi come se si trattasse di zavorra, sarebbe il caso che l’Amministrazione si occupasse di “internalizzare”, per dirla con gli economisti, di praticare l’insourcing, di utilizzare le competenze e le risorse del territorio per arricchire le opportunità formative dei nostri giovani, facendo delle nostre scuole il perno di una rete di luoghi e di occasioni di apprendimento sempre più ricca e qualificata.

Ma da questo punto di vista nulla si muove, poiché non appartiene alla capacità di veduta di chi è al governo della nostra città.

L’Unesco stima che le chiusure scolastiche abbiano colpito fino al 90% della popolazione studentesca mondiale. Genitori e tutori hanno dovuto assumersi la responsabilità principale di facilitare l’istruzione domiciliare e di organizzare attività di apprendimento per i loro figli.

Genitori e tutori di alunni svantaggiati, più spesso le madri, hanno dovuto affrontare sfide complesse come la mancanza di risorse, attrezzature e competenze, comprese le abilità linguistiche nel caso di rifugiati o nuovi migranti.

C’è bisogno di un risarcimento e questo risarcimento non può che venire dal governo locale della città, è diventato un imperativo.

La crisi prodotta dal pericolo del virus, dalla sua diffusione, la necessità di conoscerlo hanno generato un bisogno critico di migliorare le competenze di tutti.

La città avrebbe potuto implementare programmi online per promuovere l’apprendimento durante la pandemia, al di là del sistema di istruzione formale, e non l’ha fatto, neppure si è interrogata su cosa avrebbe potuto fare.

Certo l’amministrazione comunale non ha giurisdizione sul sistema scolastico formale, ma possiede ed è responsabile di un certo numero di spazi formali di apprendimento dalle biblioteche ai musei, dai parchi alle piazze, inoltre può collaborare con partner di vari settori per progettare, sviluppare e attuare programmi di apprendimento non formale e informale, garantendo che l’istruzione continui e che i programmi di apprendimento siano disponibili per coloro che ne hanno più bisogno.

Difficile? Impossibile? No. Basterebbe essere dotati di un po’ di competenza, almeno un po’ di sensibilità per l’istruzione e la formazione.

Penso che chi governa la città, che sia maggioranza o opposizione, tra le conoscenze utili all’incarico per cui è stato eletto, dovrebbe sapere che esiste da tempo il Global Network of Learning Cities (GNLC) dell’Unesco [Qui].

Fornisce ampie prove di risposte educative efficaci alla pandemia, città che hanno mobilitato l’apprendimento non formale e informale per attuare strategie locali di apprendimento permanente. Queste esperienze sono state presentate in una serie di webinar intitolati Risposte delle città che apprendono al COVID-19, ospitati dallIstituto per l’apprendimento permanente dell’UNESCO (UIL).

Non è che le strade siano obbligate, ma basterebbe un segnale di cura e di attenzione per le nostre scuole, per la formazione delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi.

Non intitolare a Gino Strada una scuola denuncia tutta l’ottusità di questa Amministrazione, perché Gino Strada è Emergency, ed Emergency è monito e un appello che ci riguarda da vicino, l’emergenza di crescere generazioni nell’apprendimento e nella cultura della pace, perché possano vivere in un mondo migliore.

Per leggere gli altri articoli di Giovanni Fioravanti della sua rubrica La città della conoscenza clicca [Qui]

PER MIMMO LUCANO, L’ACCOGLIENZA, LA SOLIDARIETÀ.
Tanti ferraresi (ameno 600) al flash mob di piazza Castello.
Una valanga di firme (244.000!) sulla petizione online.

Ferrara, mille giorni fa

Tre anni fa, alla notizia del rinvio a giudizio di Mimmo Lucano, allora ancora sindaco di Riace, la società civile ferrarese – una lunga fila di gruppi, associazioni, partiti – si era subito mobilitata per Mimmo Lucano. Per esprimere solidarietà e vicinanza all’uomo e per difendere il Modello Riace, un’esperienza riuscita di solidarietà verso i nuovi immigrati e insieme di rivitalizzazione dei borghi italiani spopolati dall’emigrazione interna.

In quei giorni, il grande ‘fronte popolare’, aveva chiesto con una lettera aperta al sindaco Tiziano Tagliani (governava allora il Centrosinistra) di conferire a Mimmo Lucano la cittadinanza onoraria di Ferrara, proprio per la suo decennale impegno per l’accoglienza e la convivenza multiculturale.
Tagliani apprezzò l’intenzione ma non se la sentì di compiere quel passo, ma si impegnò ad avviare subito la procedura per gemellare Ferrara con la città di Riace. [ Vedi ferraraitalia del 20.10.2018]

A quanto ne sappiamo se ne fece poco o nulla. Anche perché a Ferrara, di lì a pochi mesi, le elezioni segnarono la storica vittoria del Centrodestra. La lega, e quindi Alan Fabbri e Naomo Lodi, com’è noto, su immigrati, Riace e Mimmo Lucano sono di tutt’altro avviso.

Ferrara, 2 ottobre 2021

Nei mille giorni trascorsi, l’attenzione sulla vicenda giudiziaria di Mimmo Lucano era molto calata. La cosiddetta società civile e democratica di Mimmo Lucano si era un po’ dimenticata: così succede quando i riflettori dell’informazione si spengono per occuparsi di notizie più ‘fresche’. Intanto il processo andava avanti, fino alle conclusioni della pubblica accusa e del collegio di difesa. Ferraraitalia ne scriveva il 28 settembre scorso, con un articolo che mostrava un certo pessimismo: “Che cosa succede al processo contro Mimmo Lucano?” [leggi Qui]

E da un processo “contro” non poteva che sortire che una condanna punitiva, spropositata, carica di un preciso significato politico e ideologico. Si è capito, infatti, subito che non era una sentenza solo contro l’ex sindaco di Riace, ma contro gli immigrati tout court, contro l’accoglienza, contro la solidarietà.

Immediatamente le coscienze si sono risvegliate. In tutte le città d’Italia è scattata una mobilitazione spontanea. Per Mimmo Lucano e per quello che rappresenta.

A Ferrara, la storica associazione Cittadini del Mondo ha emesso un comunicato chiamando tutti a raccolta in nome della solidarietà [Qui]. Dopo appena ventiquattr’ore, centinaia di ferraresi (600, forse di più) manifestavano in piazza Castello la loro vicinanza all’ex sindaco di Riace.
Un flash mob perfettamente riuscito e molto combattivo. Come testimoniano questi scatti.

 

Una valanga di firme per Mimmo Lucano

La petizione è stata lanciata pochi giorni fa, appena è stata resa nota la condanna in primo grado di Mimmo Lucano a 13 anni e 2 mesi di reclusione. Nella prima ora le firme erano già 10.000, e da allora il fiume di firme non s’è più arrestato.
Fra qualche mese Mimmo affronterà il processo d’appello, il collegio di difesa ha già presentato ricorso. Non lasciamolo solo.

Ecco come inizia la petizione Mimmo Lucano: colpevole di… SOLIDARIETÀ:
“Una valanga umana faccia sentire subito la sua solidarietà a Mimmo Lucano, condannato a più di tredici anni per il “reato” di solidarietà […] ”
Leggi e firma la petizione nazionale Mimmo, siamo con te[Qui]

Il 6 ottobre, alle ore 10,30 la petizione di solidarietà ha già raccolto 244.032 adesioni

DIARIO IN PUBBLICO
La Bontà

 

Nell’epoca dei social è ancora possibile parlare di ‘Bontà’? Non quella che reclamizza la chiesa (cattolica o no), ma quella che sul campo agisce per aiutare il prossimo.

Conosco un gruppo di donne. Sono sorelle e non solo metaforicamente ma fisicamente, ognuna con il proprio lavoro e i propri interessi. Di una di esse – sono cinque – mi reputo amico fraterno. Tutte, con una parola che appare scontata, svolgono la loro attività in modo serio e responsabile.

Ma quelle donne, quelle amiche, nel momento del bisogno sono sempre presenti sia per portare medicine, che per confortare, che per aiutare con gioia e con leggerezza in situazioni pesanti. Molti le conoscono: taccio il nome perché probabilmente non vorrebbero che venisse divulgato, ma a loro da parte mia e della mia famiglia va un sentito grazie!

Non sono un bacchettone, ma certo la vicenda di Morisi mi ha lasciato a dir poco perplesso. Allora è vero che La Bestia agiva confondendo casi privati e pubblici? Vedo quel viso palliduccio che, con un sorriso imbarazzato, o almeno pare, sembra seguire la furia da lui provocata del suo ‘Capitano’, i cui gusti sessuali sono totalmente diversi da quelli del suo ex guru.

La noia ti afferra alla gola. Ecco Sarkozy, ecco lo zio di Salman, ecco i femminicidi, ecco gli incidenti sul lavoro. Perfino Greta ha perso smalto. Che resta allora? Ritrovare nella cosiddetta ‘cultura’ il senso profondo di una speranza che non tutto è e sarà perduto.

sukkahL’avvenimento, che più mi ha coinvolto nella settimana passata, è stato La festa del libro ebraico che si è svolto sul tema della casa dal 23 al 26 settembre. Una serie d’incontri quasi tutti svolti sotto la sukkah [Qui], la mitica tenda che ospitò gli ebrei in fuga.

Gli incontri e i relatori sono stati di primaria importanza: da Luciano Canfora [Qui], che ha parlato da par suo del suo ultimo libro, Il tesoro degli ebrei. Roma e Gerusalemme Laterza 2021, alla presentazione del libro Il merito dei padri Storia de La Petrolifera Italo Rumena 1920-2020, che racconta la storia di una famiglia, gli Ottolenghi e di una impresa. Guido Ottolenghi ha dialogato con Romano Prodi moderati dall’eccellente futuro rettore di Unife la professoressa Laura Ramaciotti.

La mia attenzione però si era naturalmente diretta alla presentazione del libro della carissima amica Edith Bruck [Qui], Il pane perduto, La nave di Teseo, 2021 vincitore del premio Viareggio e dello Strega giovani. Rivederla seppure in streaming mi ha commosso profondamente e per qualche minuto abbiamo parlato di un tempo irripetibile, gli anni Ottanta del secolo scorso, quando orgogliosamente portavo a pranzo o a cena le due donne più affascinanti di quel momento: Elsa Morante e Edith Bruck.  

Le giornate si sono concluse con la presentazione del volume di Eshkol Nevo [Qui], Tre piani, da cui è stato tratto il film di Nanni Moretti sicuramente non eccelso. Come al solito si è discusso sulla liceità o possibilità di tradurre in film un’opera letteraria con esempi famosissimi, di cui rimane nella memoria solo quella che a mio parere ha raggiunto la qualità del libro: Morte a Venezia di Thomas Mann ridotto in film da Luchino Visconti.

L’incontro con Nevo, presentato dal collega e amico Alessandro Piperno e moderato dalla straordinaria direttrice del Circolo dei lettori di Torino, Elena Loewenthal, mi ha permesso di ricordare il tema della predestinazione con il mancato incontro in quella Israele che ancora mi aspetta, proprio con Nevo, a casa di Massimo Acanfora e Simonetta della Seta. Una vicenda che ha a che fare con il mistero, che ancora non voglio svelare, se la mia ascendenza è siglata da un nonno naturale ebreo.

Del folto pubblico intelligentemente guidato dal presidente Dario Disegni e dal direttore del MEIS Amedeo Spagnoletto era perlomeno curiosa l’assenza di gran parte delle Associazioni culturali ferraresi, salvo la costante presenza della Direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea Anna Quarzi. 

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

UN’ONDA GIOVANE E IMPETUOSA TRAVOLGE MILANO:
“La Giustizia Climatica la vogliamo subito!”

 

2 ottobre 2021 : Anche oggi a Milano continua la  passerella di ministri e primi ministri all’incontro internazionale di preparazione della COP26 (qui) la Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite che si riunirà a Glasgow, in Scozia, dal 31 ottobre al 12 novembre prossimi .

Fuori dal palazzo, in contemporanea, gli attivisti dei movimenti per la lotta al riscaldamento globale ci sono tutti per partecipare al contro-vertice: l’Eco-Social Forum, l’incontro delle associazioni e dei movimenti  (qui il programma degli eventi).
Decine di migliaia di manifestanti, soprattutto giovani e giovanissimi, chiedono a gran voce un reale cambiamento di rotta nella politica e nell’economia degli Stati/Nazioni. Uno STOP definitivo al consumo di fonti fossili per produrre energia, causa principale dell’aumento della temperatura atmosferica  e dei cambiamenti climatici.

L’obiettivo è chiaro ed è sempre lo stesso: bisogna limitare il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 gradi, Un obbiettivo che  purtroppo negli ultimi vertici tra gli Stati è già stato messo in discussione, tanto che ora si parla di non superare i 2 gradi.
Tra i due valori c’è un’enorme differenza rispetto all’impatto sugli ecosistemi e alla vita delle persone che vivono nelle zone più a rischio.

Non è più tempo di raccontare bugie e di fare discorsi inutili, ai quali nessuno crede più. Le connessioni causali esistenti tra quanto succede nel mondo per effetto dei cambiamenti climatici e le attività umane che generano i gas serra – tra cui l’anidride carbonica e il metano sono quantitativamente i più rappresentati –  sono conosciute da almeno 40 anni. E da tanto tempo climatologi e scienziati ne denunciano gli effetti devastanti per la vita umana e animale sul pianeta. Fino ad ora inutilmente.
Oggi non si può più aspettare, denunciano gli attivisti, si deve agire subito e in modo radicale! (leggi l’appello)

Da anni e, più intensamente, negli ultimi mesi, decine di organizzazioni grandi e piccole di ogni parte del mondo si sono preparate, studiando i problemi ambientali del proprio territorio, a questo momento di confronto per elaborare una piattaforma comune da portare alla COP26 di  Glasgow.

Cambiare rotta significa cambiare sistema sociale, economico e produttivo, perché il capitalismo (vecchio e nuovo) non ha prodotto solo gli enormi danni all’ambiente che tutti conosciamo, ma anche una forte ingiustizia climatica.

Ci sono Paesi del Sud del mondo – come Le Filippine, l’India e il Bangladesh, le isole del Pacifico, i Paesi dell’Africa sub-sahariana e dell’America del Sud –  nei quali gli effetti del riscaldamento climatico si fanno già sentire fortemente e gli attivisti denunciano come i Paesi più ricchi, dove vengono prodotte le maggiori quantità di gas climalteranti, sono rimasti completamente indifferenti  ai loro appelli e alle loro proteste, proseguendo colpevolmente nelle loro attività distruttive.

Gli attivisti per il clima di questi Paesi hanno rifiutato di riconoscersi come Sud del Mondo e la discriminazione basata su criteri produttivistici e si sono organizzati in una rete chiamata MAPA (Most Affected People and Areas) che significa: Popoli e Territori Maggiormente Colpiti, sottintendendo dai cambiamenti climatici.
Dalla loro protesta nasce il Movimento per la Giustizia Climatica (Climate Justice), rivendicata anche da molti gruppi europei quali Fridays for Future, Parents for FutureExtintion Rebellion, Ende Gelände, Giudizio Universale. Sono loro ad affermare chiarezza lo stretto legame tra diritti umani e diritto al clima come un unico diritto alla vita.

Milano, Friday for Future (su licenza Wikimedia Commons)
Milano, Friday for Future (su licenza Wikimedia Commons)

Il 29 settembre ha avuto luogo presso l’Università Statale di Milano l’evento Next generation: climate litigation, durante il quale è stata presentata la prima causa climatica contro lo Stato italiano che ha preso il via il 5 giugno scorso-
Più di 200 ricorrenti, tra cui 162 adulti, 17 minori (rappresentati in giudizio dai genitori) e 24 associazioni impegnate nella giustizia ambientale e nella difesa dei diritti umani hanno deciso di intraprendere un’azione legale (qui) contro lo Stato Italiano per inadempienza  climatica, ovvero per l’insufficiente impegno nella promozione di adeguate politiche di riduzione delle emissioni clima-alteranti, cui consegue la violazione di numerosi diritti fondamentali riconosciuti dalla nostra Costituzione.
L’azione legale, attraverso un atto di citazione davanti al Tribunale Civile di Roma, chiede la condanna dello Stato, imponendogli di realizzare un drastico abbattimento delle emissioni di gas serra entro il 2030, in modo da centrare l’obiettivo dell’Accordo di Parigi sul clima: il contenimento massimo del riscaldamento globale entro 1,5°C

In contemporanea, all’Eco Social Forum, sempre a Milano, si svolgono i lavori e gli eventi della Climate Justice Platform (qui il programma), aperti il 30 settembre e che proseguiranno fino a domenica 3 ottobre.

Che cosa caratterizza questa piattaforma? Due cose: l’analisi della relazione tra la  crisi ecologica/climatica e quella sociale e politica globale e l’età dei partecipanti, in prevalenza giovani e giovanissimi.
Sono loro le vittime predestinate del cambiamento climatico, pertanto i principali soggetti interessati a che la crisi globale venga affrontata dai governi in modo definitivo. Vogliono partecipare ai processi ed essere coinvolti nelle scelte. Vogliono farla finita con il paradigma della crescita infinita, costruita sul dominio esercitato sui territori e sui corpi, sullo sfruttamento e la speculazione sul lavoro.

Salvare il pianeta vuol anche dire mettersi dalla parte dei popoli indigeni, contro la supremazia colonialista che i Grandi del mondo esercitano sui Paesi meno avanzati. Qui a Milano, a difendere i diritti dei popoli nativi e delle società rurali, sono presenti organizzazioni come Survival International, il Movimento per la Decrescita Felice, A SUD onlus, Animal Save international.

Dopo lo sciopero globale per il clima di venerdì 24 settembre che ha visto scendere in piazza tantissimi giovani in 70 città italiane [Vedi qui], il 1 ottobre un fiume di 50,000 ragazze e ragazzi, anche giovanissimi, arrabbiati ma pieni di speranza, hanno sfilato per le strade di Milano per il Friday for Future.

In testa al corteo, due ragazze con le idee chiare, Greta Thunberg (svedese) e Vanessa Nakate (ugandese), per dire che dal Nord al Sud del mondo, i giovani lottano per il medesimo obiettivo: la giustizia climatica. E contro gli stessi nemici: l’indifferenza e le bugie dei politici e degli Stati, la non volontà dei governi a compiere azioni urgenti ed efficaci per ridurre le emissioni inquinanti e contenere il riscaldamento globale.

Infine Ieri, sabato 2 ottobre 2021 – a conclusione di una ‘settimana verdissima’ piena di seminari, incontri, scambi culturali e di lotte – la Global March for Climate Justice, organizzata da Climate Open Platform e Fridays for Future Milano. Un corteo di almeno 30.000 persone, cui hanno aderito decine di gruppi, associazioni e movimenti, nazionale e locali.

A Milano il pensiero e il variegato movimento antagonista ha mostrato tutta la sua forza. Vuole salvare la Terra (“E’ l’unica che abbiamo”) e vuole cambiare il mondo. Dopo Milano la lotta continua, fra meno di un mese c’è un appuntamento importantissimo.
In Scozia, dal 31 ottobre al 20 novembre 2021, si terrà la 26esima edizione della COP, il vertice tra le nazioni del mondo per fare il punto sui cambiamenti climatici. Potrebbe essere l’ultima occasione per trovare un accordo. Ma a Glasgow convergeranno anche tutti i movimenti e gli attivisti ambientalisti. La loro voce è sempre più forte. I governi sono avvertiti.

Cover: Fridays For Future, Berlin, 24.09.21 (licenza Wikimedia Commons)

PER CERTI VERSI
Boh, le acque della gioia

BOH, LE ACQUE DELLA GIOIA

Sono così rare
Le acque della gioia
Sono rare lacrime dolci
Il vento dell’amore
Ha tolto loro
Il sale
Diventano sorgenti
Per noi
E per le nuvole
Delle nostre comuni fantasie
Sorgenti
Dove lasciare
Le nostre poesie
Incuranti
Di chi passa
Di chi dice
Delle voci
Sono loro
I versi
A fare da spartiacque
Al vento
Delle parole sprovviste di luce
Più in là
Alla memoria
Dove si inabissano
I monti cerulei
Grigi
Lillà

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

PRESTO DI MATTINA
Una buona domanda

«I miei maestri mi insegnavano ad interrogare il testo. Per questo mia madre, quando tornavo a casa, non mi domandava se avevo fatto qualche scoperta interessante, ma se avevo trovato una buona domanda da porre», (Elie Wiesel [Qui], Credere o non credere, Firenze 1986, 43).

Narra il vangelo di Marco che tra i discepoli di Gesù, lungo la via, era nata una discussione su chi fosse tra loro il più grande. Giunti in casa a Cafarnao, Gesù domandò loro di cosa stessero discutendo ed essi rimasero silenziosi. Allora sedutosi li chiamò a sé, pose un bambino in mezzo a loro e disse: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti… Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9, 36-37).

Anche nel vangelo di Matteo troviamo un analogo invito ai discepoli che gli chiedevano, questa volta, chi fosse più grande nel regno dei cieli. E di nuovo Gesù mostra loro i piccoli (parvuli) ammonendoli che «se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18, 3-4).

E si potrebbe continuare con Luca, che colloca un analogo insegnamento in prossimità dell’ultima cena. I discepoli non erano ancora riusciti a trovare la domanda buona, e Gesù con ancora più pazienza, una pazienza di amore, propone loro un esempio per orientarli di nuovo verso la misura della vera grandezza:

«I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve. (Lc 22, 24-27). «Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande» (Lc 9, 48).

La domanda buona, quella da fare anche tra i discepoli di oggi, non sarà forse quella di chiedersi “chi sia il più piccolo?”

Questa fu proprio la domanda di frate Francesco, cui egli rispose con tutta la sua vita. Per lui la regola fu il vangelo in purezza – sine glossa – un conformarsi e corrispondere a Cristo povero e crocifisso culminato nelle stigmate alla Verna.

Il suo testamento termina con queste parole: «Ed io, frate Francesco, il più piccolo dei frati, vostro servo, come posso, confermo a voi dentro e fuori questa santissima benedizione. Amen». (FF, Fonti Francescane, 131).

E scrivendo a sorella Chiara dice: «Io Francesco piccolo voglio seguire la vita e la povertà dell’altissimo Signor nostro Gesù Cristo e della sua santissima Madre, e perseverare in essa fino alla fine. E prego voi, mie signore, e vi consiglio che viviate sempre in questa santissima vita e povertà» (FF 140).

Dal più grande al più piccolo: questo l’itinerario di conversione di Francesco, le tappe del suo rimpicciolirsi: il mercante, il cavaliere, il converso, l’eremita, il fondatore di una fraternità evangelica, di una minorità i cui compagni non poterono che prendere coerentemente il nome di “frati minori”.

Anzi, all’inizio si attribuirono il nome di “penitenti”, come disse di sé Francesco nel testamento; ma poi lo stile della “minorità” volontaria fu posto accanto alla scelta della povertà, essendo entrambe generative di quella parola/realtà così cara a Francesco di “fraternità”.

«E quelli che venivano per ricevere questa vita, davano ai poveri tutte quelle cose che potevano avere; ed erano contenti di una sola tonaca rappezzata dentro e fuori, quelli che volevano, del cingolo e delle brache. E non volevamo avere di più. E dicevamo l’ufficio, i chierici come gli altri chierici; i laici dicevano i Pater noster; e assai volentieri rimanevamo nelle chiese. Ed eravamo illetterati e soggetti (minori) a tutti. E io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare, e tutti gli altri frati voglio che lavorino di lavoro quale si conviene all’onestà. Il Signore mi rivelò che dicessi questo saluto: Il Signore ti dia pace». (FF 117-121). Così «nessuno sia chiamato priore, ma tutti siano chiamati semplicemente frati minori. E l’uno lavi i piedi all’ altro (Gv 13,14)» (FF 23).

Anche e proprio nella grandezza, Francesco rimase piccolo e umile. È nota la domanda insistente di fra Masseo [Qui] che si legge nei Fioretti «Dimorando una volta santo Francesco nel luogo della Porziuncola con frate Masseo da Marignano, uomo di grande santità, discrezione e grazia nel parlare di Dio, per la qual cosa santo Francesco molto l’amava; uno dì tornando santo Francesco dalla selva e dalla orazione, e sendo allo uscire della selva, il detto frate Masseo volle provare si com’egli fusse umile, e fecieglisi incontra, e quasi proverbiando disse : “Perché a te, perché a te, perché a te?” Santo Francesco risponde: “Che è quello che tu vuoi dire?”. Disse frate Masseo: “Dico, perché a te tutto il mondo viene dirieto, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’ bello uomo del corpo, tu non se’ di grande scienza, tu non se’ nobile; onde dunque a te che tutto il mondo ti venga dietro?”.

Udendo questo santo Francesco, tutto rallegrato in ispirito, rizzando la faccia al cielo, per grande spazio istette collamente levata in Dio; e poi ritornando in sè, s’inginocchiò e rendette laude e grazia a Dio; e poi con grande fervore di spirito si rivolse a frate Masseo e disse: “Vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me tutto ‘l mondo mi venga dietro? Questo io ho da quelli occhi dello altissimo Iddio, li quali in ogni luogo contemplano i buoni e li rei: impero ciò che quelli occhi santissimi non hanno veduto fra li peccatori nessuno più vile, nè più insufficiente, nè più grande peccatore di me; e però a fare quell’operazione maravigliosa, la quale egli intende di fare, non ha trovato più vile creatura sopra la terra; e perciò ha eletto me per confondere la nobiltà e la grandigia e la fortezza e bellezza e sapienza del mondo, acciò che si conosca ch’ogni virtù e ogni bene è da lui, e non dalla creatura, e nessuna persona si possa gloriare nel cospetto suo; ma chi si gloria, si glorii nel Signore, a cui è ogni onore e gloria in eterno”» (FF 1838).

Francesco confesserà una volta ai frati di aver ricevuto tra le altre, la grazia della piccolezza: «l’Altissimo mi ha largito questa: obbedirei al novizio entrato nell’Ordine oggi stesso, se fosse mio guardiano, come si trattasse del primo e più attempato dei fratelli. Invero, il suddito non deve considerare nel prelato l’uomo, bensì Colui per amore del quale si sottomette a un uomo. Non ci sarebbe un prelato nel mondo intero, temuto dai sudditi e fratelli suoi quanto il Signore farebbe che io fossi temuto dai miei frati, qualora lo volessi. Ma l’Altissimo mi ha donato questa grazia: sapermi adattare a tutti, come fossi il più piccolo frate nell’Ordine» (FF1666).

Francesco volle che non solo i suoi frati si chiamassero “minori”, ma che gli stessi prelati presenti nel suo ordine avessero il nome di ministri, ovvero servitori, alla stregua degli stessi apostoli che alla scuola di Cristo umile andavano imparando l’umiltà del servire e non del farsi servire:

«Difatti Cristo Gesù, il maestro dell’umiltà, allo scopo di formare i discepoli all’umiltà perfetta, disse: “Chiunque tra voi vorrà essere il maggiore, sia vostro ministro, e chiunque, tra voi, vorrà essere il primo, sarà vostro servo“. I miei frati proprio per questo sono stati chiamati minori, perché non presumano di diventare maggiori (Mt. 20,26)» (FF 1109-1110).

Anche gli ammonimenti di Francesco avevano un’intonazione particolare. Il verbo ad-monere significa ricordare, esortare, richiamare, non usando la forza della coercizione, ma con la sola forza della testimonianza della vita. Pertanto il significato di ‘ammonire’ per lui era un voler richiamare alla memoria dei fratelli la parola di Dio, perché potessero comprenderne le esigenze e trasformarla in vita: le parole di ammonizione avevano così un significato pedagogico-salvifico.

Nella vita seconda di Tommaso da Celano [Qui] (FF 690) viene narrato un episodio molto significativo sul modo di concepire l’ammonizione da parte di Francesco. Il quale interpretava in modo particolare il testo del profeta Ezechiele sulla necessità di ammonire il fratello: testo che veniva allora generalmente interpretato in modo da giustificare l’uso della costrizione e l’imposizione di una disciplina a coloro che operavano inimicizia, discordie, dissidi per obbligarli a ravvedersi anche tramite la forza.

«Mentre Francesco dimorava presso Siena, vi capitò un frate dell’Ordine dei predicatori (domenicani), uomo spirituale e dottore in sacra teologia. Venne dunque a far visita al beato Francesco e si trattennero a lungo insieme, lui e il Santo in dolcissima conversazione sulle parole del Signore.

Poi il maestro lo interrogò su quel detto di Ezechiele (31, 18-20): “Se non manifesterai all’empio la sua empietà, domanderò conto a te della sua anima”. Gli disse: “Io stesso, buon padre, conosco molti ai quali non sempre manifesto la loro empietà, pur sapendo che sono in peccato mortale. Forse che sarà chiesto conto a me delle loro anime?”.

E poiché Francesco si diceva ignorante e perciò degno più di essere da lui istruito, che di rispondere sopra una sentenza della Scrittura, il dottore aggiunse umilmente: “Fratello, anche se ho sentito alcuni dotti esporre questo passo, tuttavia volentieri gradirei a questo riguardo il tuo parere”. “Se la frase va presa in senso generico – rispose Francesco – io la intendo così: Il servo di Dio deve avere in se stesso tale ardore di santità di vita, da rimproverare tutti gli empi con la luce dell’esempio e l’eloquenza della sua condotta. Così, ripeto, lo splendore della sua vita ed il buon odore della sua fama, renderanno manifesta a tutti la loro iniquità”. Il dottore in teologia rimase molto edificato, per questa interpretazione, e mentre se ne partiva, disse ai compagni di Francesco: “Fratelli miei, la teologia di questo uomo, sorretta dalla purezza e dalla contemplazione, vola come aquila. La nostra scienza invece striscia terra terra”».

E stata la lettura di questo testo che mi ha aperto alla comprensione di un versetto del salmo 50(51), 15 che mi era oscuro. Mi domandavo infatti come “insegnerò agli erranti le tue vie”. La risposta semplicissima suggerita da Francesco “percorri tu per primo con la testimonianza della vita le vie di Dio e le farai conoscere agli altri”.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

La generazione Greta e gli adulti benpensanti

Stanno riscuotendo un grande successo sui social le affermazioni, in risposta alle manifestazioni dei giovani contro il cambiamento climatico, di un giornalista australiano. Tradotte più o meno fedelmente, suonano così: “Voi siete la prima generazione che ha preteso l’aria condizionata in ogni sala d’aula; le vostre lezioni sono tutte fatte al computer; avete un televisore in ogni stanza; passate tutta la giornata a usare mezzi elettronici; invece di camminare a scuola prendete una flotta di mezzi privati che intasano le vie pubbliche; siete i maggiori consumatori di beni di consumo di tutta la storia, comperando in continuazione i più costosi capi di abbigliamento per essere ‘trendy’; la vostra protesta è pubblicizzata con mezzi digitali e elettronici.” .

L’autore di queste frasi è Andrew Bolt. Intanto, chi è costui? E’ un giornalista australiano noto alle cronache, tra le altre cose, per aver negato il fenomeno della vendita massiva di bambini aborigeni alle ricche famiglie bianche. Ha anche affermato (lui, figlio di immigrati olandesi) che l’Australia stava per essere colonizzata dall’immigrazione che stava trasformando, a suo dire, il paese da una casa in un hotel. Ha poi di recente difeso pubblicamente il cardinale George Pell, assolto dall’accusa di abuso su minori perchè non provata “oltre ogni ragionevole dubbio”. [Ca va sans dire, Pell afferma che l’omosessualità è sbagliata e non è vero che gli omosessuali siano discriminati, e ha condotto una campagna volta ad impedire l’adozione alle coppie omosessuali. Non so se questa divaricazione tra moralismo pubblico e vizi privati vi ricorda qualcosa].

Ma torniamo a Andrew Bolt, il giornalista neostar, censore di Greta Thunberg, che viene portato ad esempio come colui che finalmente smaschera l’ipocrisia dei giovani viziati che manifestano contro la crisi climatica. Analizzo ogni sua affermazione, che i suoi sostenitori definiscono di grande buon senso: “Voi siete la prima generazione che ha preteso l’aria condizionata in ogni sala d’aula”. Immagino che lui (che ha 62 anni) invece lavori in una sauna con tasso di umidità al 98 per cento, pur di preservare il suo paese dall’eccesso di ozono nell’aria. Ma sarebbero “i giovani” di adesso i primi ad avere “preteso” l’aria condizionata.  “Le vostre lezioni sono tutte fatte al computer”; lui invece scrive ancora con carta, penna e calamaio. “Passate tutta la giornata a usare mezzi elettronici”; lui invece si illumina casa, da quando è nato, con lampade a petrolio e comunica con segnali di fumo.  “Invece di camminare a scuola prendete una flotta di mezzi privati che intasano le vie pubbliche”; lui invece in ufficio ci va facendo la maratona ogni giorno, ne sono certo. “Siete i maggiori consumatori di beni di consumo di tutta la storia, comperando in continuazione i più costosi capi di abbigliamento per essere ‘trendy'”; a differenza sua, che indossa abiti di 40 anni fa e non ne ha comprati altri (come tutti quelli della sua generazione, del resto). Poi arriva il vero capolavoro del suo ragionamento: “Ragazzi, prima di protestare, spegnete l’aria condizionata, andate a scuola a piedi, spegnete i vostri telefonini e leggete un libro, fatevi un panino invece di acquistare cibo confezionato. Niente di ciò accadrà, perché siete egoisti, mal educati, manipolati da persone che vi usano, proclamando di avere una causa nobile mentre vi trastullate nel lusso occidentale più sfrenato. Svegliatevi, maturate e chiudete la bocca. Informatevi dei fatti prima di protestare”. I giovani quindi devono morire di caldo in estate, tornare nelle grotte, accendersi un fuoco coi legnetti per scaldarsi d’inverno e leggere a lume di falò per avere la credibilità che dia loro il diritto di protestare. Solo loro, naturalmente. Tutti gli altri, tutte le generazioni precedenti possono continuare a fare il cazzo che gli pare. Non hanno mica problemi, loro. Intanto non protestano. Poi tra vent’anni saranno morti, per cui che gli frega del pianeta che lasceranno ai figli. Che si arrangino.

Vorrei capire che razza di buon senso sarebbe quello di attribuire all’ultima generazione, nata al massimo venticinque anni fa, le colpe di un collasso climatico i cui prodromi sono rinvenibili come minimo nell’era dello sfruttamento massiccio dei combustibili fossili. Vorrei che qualcuno mi spiegasse per quale motivo i ventenni di adesso non avrebbero il diritto di lottare perchè anche loro, dannazione, usano il pc o l’automobile. Vorrei che qualcuno mi spiegasse per quale ragione loro non possono parlare, perchè sono viziati, mentre noi possiamo continuare a fare come nulla fosse perchè non stiamo sempre a fare casino. Ci facciamo i cazzi nostri, noi. Questa è la nostra scriminante, il salvacondotto che ci consente di continuare a precipitare dal centesimo piano dicendo “sono al trentesimo e ancora va tutto bene”. Perchè non rompiamo i coglioni.

A me pare che l’ipocrisia stia tutta dalla parte degli adulti, che pretenderebbero che la generazione che combatte per un mondo diverso conducesse una esistenza monacale e premoderna per conferire credibilità alle proprie rivendicazioni. Come se il mondo nel quale sono nati e si trovano a vivere, come se questo modello di sviluppo nel quale si muovono, spesso con una consapevolezza ispirata a quell’ istinto di autoconservazione che noi abbiamo perduto, lo avessero creato loro vent’anni fa. Vengono in mente le parole di Vasco Rossi quando cantava “siamo solo noi, che non abbiamo vita regolare,
che non ci sappiamo limitare…siamo solo noi, quelli che non hanno più rispetto per niente, neanche per la gente”.

 

 

 

Chi ha lasciato solo Mimmo Lucano?

 

La condanna in primo grado a 13 anni e 2 mesi di Mimmo Lucano ha spaccato in due l’Italia. Esattamente come era successo quando il modello di solidarietà che il Sindaco di Riace aveva applicato nel suo paese era stato interrotto dall’intervento dell’allora ministro dell’interno Matteo Salvini e dall’operazione “Xenia” avviata della Procura di Locri.

Una sentenza assurda, abnorme, punitiva (la stessa Pubblica Accusa aveva proposto una condanna a di ‘soli’ 7 anni e 11 mesi) che oggi assume un valore politico generale, Centrodestra e Centrosinistra hanno già incrociato le armi. Un valore (e un clamore) quindi che travalica la grande ingiustizia cui è stato vittima l’uomo Mimmo Lucano. Se infatti l’ex sindaco e il ‘modello Riace’ erano diventati il simbolo di una strada solidale per affrontare il tema delle migliaia di migranti che continuano ad arrivare  in Italia, questa sentenza suona come un secca smentita di quel modello. E insieme uno sberleffo a tutte le donne e gli uomini che in tutta Italia si impegnano nell’accoglienza e nella solidarietà

Io però mi sono fatto, e vorrei fare a voi, una domanda imbarazzante. Perché Mimmo Lucano è stato ‘punito’ così duramente? Quale clima ha reso possibile che Mimmo, e insieme a lui l’accoglienza e la solidarietà, fossero condannate?

Mentre il Centrosinistra governava nel Governo Conte 2, e oggi nel Governo Draghi, la legislazione e la normativa in tema di immigrazione (quella del Decreto Minniti, e incrudelita dalla Lega dei respingimenti) è rimasta più o meno quella di prima: solo qualche limatura.

Per non turbare gli equilibri – ma la versione ufficiale è: “il momento non è favorevole” – né il Pd né nessun altro ha voluto aprire una pagina nuova nella gestione dell’immigrazione e dell’accoglienza. Basta parlare con qualche operatore impegnato a uno sportello di assistenza agli immigrati per capire come oggi sia ancora più difficile: permessi di soggiorno, ricongiungimenti familiari, alloggi, lavoro…

E ancora: né il Pd né nessun altro partito o partitino si è battuto seriamente per riaprire la via della immigrazione legale. E nessuno si è impuntato sulla Ius Soli. Una dichiarazione tipo: “O si fa la legge o me ne vado dal governo!”.  Macché, solo parole. Quelle famose di Bersani. Quelle di Renzi (sicuro, c’era anche nel suo programma, in fondo in fondo, ma c’era anche la ius soli). Quelle di Enrico Letta 1, effimero presidente del Consiglio. Fino a quelle, recentissime, di Enrico Letta 2, segretario di partito.

Ma il clima di non attenzione non riguarda solo i partiti. C’è la stampa mainstream e tutti i canali televisivi che di immigrati e immigrazioni si sono stufati. Se non c’è un bel naufragio – e nemmeno quello merita più la prima pagina – di immigrazione e accoglienza nei media non c’è più traccia.

E infine ci siamo noi tutti. Quel movimento che alcuni anni fa aveva alzato la voce, oggi, già prima dell’avvento del Covid, da circa 3 anni sembra disperso in mille rivoli, muto, incapace di farsi sentire, La battaglia in nome dell’accoglienza, dei diritti umani, della solidarietà, dei bambini “tutti italiani” si è persa per strada. Poteva, doveva essere una spina nel fianco, un pungolo per ottenere risposte concrete dalla politica e dal parlamento. Così non è stato. E la politica si è occupata d’altro

La conclusione è amara. Non diamo tutta la colpa ad un giudice forcaiolo. E nemmeno al solito Matteo Salvini. La verità è che Mimmo Lucano è stato lasciato solo. I partiti di sinistra e dintorni, ma anche noi che andavamo in piazza per Mimmo Lucano con le bandiere della solidarietà, non abbiamo difeso la sua e la nostra utopia.

Cover: l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano nel 2018 – Fotogramma 

Il karma della Bestia

Il karma della Bestia

ll citofono no,
non l’avevo considerato,
non pensavo che il karma
si fosse incazzato.
Il domatore della bestia,
anche lui è uno spaccino
non è nemmeno
un marocchino.
Ti telefonerò
quando sarai fuori dal gabbio
che poi neanche c’andrai,
han trovato delle sostanze strane.
Hai venduto roba a dei ragazzi
ora siamo diventati pazzi
e mi poi ti han perquisito …
PSICOTROPAICO!
E’ una giornata strana
quando siamo noi
a spacciare per la grana
alla nostra gioventù italiana.
La bestia si è ribellata
questa storia non c’è mai stata
a ragionar come voi
ogni leghista è spacciatore.
Il karma c’ha disarmato l’arma
a sparger merda nel ventilatore
contro tutti a tutte le ore,
poi anche noi prendiam l’odore.
PSICOTROPAICO!

Parole a capo
Lino Di Nitto: “Settembre” e altre poesie

“Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva, e arriverò.”
(Cesare Pavese)

LITORALE

Tra i declivi e l’arenile,
dove è possibile amare anche l’ansito
e il calore prospero che agita le acque fino a sera,
per gesti e fragranze d’accudire
in focolai di pianto
ho caute
le prime altari di pioggia calde e veraci,
e così appare al dormiente
mantide e recisa
la mia schiena al giorno

 

SETTEMBRE

L’estate ha riacquistato il suo silenzio

Ci si ferma per colazione affrontando il mare,
il regno della dimenticanza e dell’oblio
(nostra grazia naturale)

Le mie giornate di paese
scorrono lente e commoventi
in totale solitudine
Qualcuno rimane – non sceglie di rimanere –
altri vanno via

Settembre ha ali di bronzo,
il vento febbrile che stimola l’ascolto.
Pace, pace alle anime in travaglio!

Restiamo al sicuro ancora qui,
nelle nostre bagatelle private,
nei nostri timori gracili e sofferti:
nulla è passato invano.
Ci siamo scoperti anche fortunati,
e questa è francamente una sorpresa.

Settembre giunge dunque e passa in fretta,
per l’anima paesana che teme il mondo,
rifiuta il mondo, fa il mondo a sé.

 

AD OGNI NUOVA AMICIZIA

C’è quella distanza tra noi,
una forza che
dall’incanto dell’incontro,
giunge a noi per tramortirci,
e l’intenzione
è già cosa remota,
una vuota stanca perifrasi per dire:
non osare

Abbiamo tentato di cogliere
per queste vie
una fonte ed un ristoro,
un privilegio in cui dissipare
malumori e sconfitte,
procedendo addirittura cauti
e attenti ad ogni riga,
ad ogni posizione,
ad ogni nuova amicizia

Vero,
l’amaro scandalo
ci appartiene per riflesso,
dichiarandoci invise la vanità
e la brutalità dell’evento
Quel che è buono non è giusto,
quel che è giusto non conviene
Noi non ci conosciamo

Lino Di Nitto è semplicemente un poeta. Ha quarantotto anni e da qualche tempo vive a Monza. La sua prima pubblicazione risale al 2003; a questa hanno fatto seguito varie raccolte, fino alla testimonianza prevalentemente in versi di “Io sono la mia preda” (2019).

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

 

prossimamente…

logo ultimo rosso

l’Ultimo Rosso è volutamente eccentrico, può richiamare la passione, la rivoluzione, la distanza dal convenzionale, la sorpresa, il mattone rosso di Ferrara… Qualsiasi cosa venga in mente a ogni partecipante.

L’Italia è un paese di “poeti” ma gli italiani non leggono libri, soprattutto non leggono libri di poesia. La poesia “degli altri” è considerata difficile, un po’ come l’arte astratta.

Questa rassegna di poesia vuole spargerne il seme, incentivare la lettura (a bassa e alta voce) della poesia, proporre la poesia come lingua intima e universale, un riflesso primordiale, quel che rimane del mondo prebabelico.

Dunque una poesia che invade tutta la città, che scende in strada e interrompe per un attimo il quotidiano, che sorprende, improvvisa, provoca. Una poesia che rifiuta i palchi, i premi, le etichette. In ultima analisi, una poesia politica: rivoluzionaria, sovversiva, anarchica.

l’Ultimo Rosso
prima edizione limitata e firmata dagli autori

Nei prossimi giorni puoi trovare tutte le informazioni utili: su ferraraitalia, sulle nostre pagine Facebook e su Instagram, sull’evento Facebook l’Ultimo Rosso.

Giornalisti per Julian Assange
(Speak up for Assange)

Lidia Giannotti
https://www.peacelink.it/

Il 27 ottobre, provato da anni di cattività e abusi che un inviato ONU considera ormai torture, Assange potrebbe essere consegnato agli USA. La speranza è nella mobilitazione dei giornalisti e di chiunque si opponga a un futuro di menzogne e di violenza

Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks che ha reso possibile la conoscenza di centinaia di migliaia di fatti e documenti, altrimenti nascosti, si trova ancora in un carcere di massima sicurezza in Inghilterra. Le ultime notizie non sono buone.

Il rischio che dopo il 27 ottobre Assange venga consegnato agli USA

Iniziativa internazionale di giornalisti a favore di Assange

Non sono buone le notizie sulle condizioni di detenzione e di salute di Assange (descritte anche dall’inviato speciale delle Nazioni Unite contro la tortura Nils Melzer, che ha preso espressamente posizione per la sua liberazione). E non lo sono le anticipazioni sulla probabilità che, nella prossima udienza del 27 e 28 ottobre a Londra, Assange venga estradato negli USA per reati di spionaggio e cospirazione.

L’Alta Corte, infatti, dopo l’Appello degli Stati Uniti, ha messo fortemente in discussione la decisione della giudice Vanessa Baraitser che aveva negato l’estradizione (udienza del 4 gennaio 2021), ritenendo inaccettabili il trattamento e i rischi che Assange si troverebbe ad affrontare, anche per la sua vita.

Le ragioni dell’arresto a Londra nell’aprile 2019 risalgono al giorno in cui Assange, recatosi nel giugno 2012 presso l’Ambasciata del Nicaragua per chiedervi asilo politico, non fece ritorno al proprio domicilio, come avrebbe dovuto poiché indagato dalla magistratura svedese e libero dietro cauzione.

Ricordiamo che nei confronti di Assange – che nel 2010 stava per ottenere la residenza in Svezia, dove si sarebbe avvalso delle leggi più avanzate al mondo a tutela della libertà d’informazione – fu all’improvviso aperta un’indagine per stupro che nel giro di poche ore compromise tutto; una vicenda, a detta di una stessa denunciante, andata oltre le intenzioni e la portata delle accuse (rapporti sessuali non protetti), trascinatasi in lungaggini irrisolte per anni.

L’iniziativa internazionale dei giornalisti a favore di Assange

Ogni giornalista, come chiunque consideri inaccettabili comportamenti degli Stati come quelli denunciati da cittadini di vari paesi, grazie ad Assange, e le persecuzioni a cui assistiamo (dirette solo contro chi rivela la verità, e mai contro i responsabili di morti e violenze), dovrebbe reagire e difendere le ragioni della verità e dell’umanità.

Oltre 1700 giornalisti si sono mobilitati al momento in 107 paesi, in difesa di Julian Assange, riconoscendo il suo contributo straordinario al giornalismo e alla trasparenza e la possibiltà che ci ha dato di richiamare i governi alle loro responsabilità.
Proprio per avere diffuso informazioni prima sottratte al giudizio dell’opinione pubblica, è stato minacciato e perseguitato insieme alla sua organizzazione, vittima di gravi violazioni dei diritti umani da 11 anni per aver aiutato chi non riusciva a tacere davanti a crimini di guerra, torture e menzogne (basti pensare alle immagini del trattamento inumano dei prigionieri trattenuti nella base americana a Guantanamo, o al contenuto dei “War Diaries”, che anticipava anni prima le notizie emerse in questi giorni sulle manipolazioni di dati e informazioni sulla gestione e sui risultati della missione in Afghanistan). Se gli USA potranno applicare la legge del 1917 sui cui reati fondano la domanda di estradizione, d’ora in poi giornalisti di ogni parte del mondo potranno venire accusati di spionaggio e di arrecare rischi alla sicurezza di altri Stati, e quindi venirvi estradati, colpiti certamente anche da campagne infamanti da cui è difficile difendersi.

L’appello si conclude con la richiesta di liberare Assange e l’esortazione a tutti i giornalisti, “in questi frangenti decisivi…. a prendere posizione in difesa di Julian Assange. Tempi pericolosi richiedono un giornalismo senza paura“.

Per la firma dell’appello, ci si rivolge a giornalisti e organizzazioni e persone con ruoli correlati al giornalismo: editorialisti, commentatori, editori, fotografi, cameraman, produttori ed editori di media, registi di documentari, informatori, professori/formatod

Dal sito di "Italiani per Assange"

Riproduciamo qui il link all’elenco dei  giornalisti firmatari, il link all’appello e il suo testo integrale, in italiano (nel file PDF allegato):

L’elenco dei 1740 giornalisti (al 28 settembre 2021) che si sono mobilitati in difesa di Assange: https://speak-up-for-assange.org/signatures/  

Leggi la dichiarazione e firmala (se sei un giornalista, studioso, operatore ecc.  dell’informazione): https://speak-up-for-assange.org

 

 

Qui puoi firmare la petizione di “Italiani per Assange” diretta alle istituzioni italiane, per la sua liberazione: https://www.change.org/p/british-government-prime-minister-boris-johnson-libert%C3%A0-per-julian-assange-freedom-for-julian-assange?redirect=false

La petizione sui social network: https://www.facebook.com/groups/italianiperassange/posts/746854146199978/

Un trenino fra le nuvole
(un racconto piccolo piccolo)

Nei miei ricordi d’infanzia, dai tre agli otto anni, viaggiare in treno è stata un’esperienza ricorrente, forte.
Abitavo ad Argenta e i miei nonni materni vivevano a Lavezzola, all’inizio della Romagna, oltre il ponte sul Reno. Terre di confine, quindi terre di orgogliosi bastardi.

Erano 6 chilometri e, quasi ogni settimana, salivo con mia madre e mio fratello su un treno sbuffante e guardavo, memorizzavo il paesaggio, la campagna.
Papà lavorava molto lontano, a Ferrara.

Era bello stare accanto al finestrino ed entrare col pensiero nelle case, immaginare situazioni di vita familiare che potevano svolgersi fra quelle mura.Tra un viaggio e l’altro, notavo differenze, entravo col pensiero nei lavori dei campi quasi ad incoraggiare i contadini perché terminassero presto la semina o il raccolto del grano.

Era un viaggio che durava meno di 20 minuti ma a me sembravano molti di più. Accanto a me, nella carrozza, c’erano sempre tante vite in movimento, tanti micromondi, un’avvincente confusione.
D’estate, il treno mi faceva compagnia per tanto tempo. Andavamo al mare a Cervia e, man mano che ci si avvicinava alla meta, cambiavano le persone, i bagagli, gli abbigliamenti. Gli abiti da lavoro lasciavano il posto agli abiti da riposo.

Tra un Capitan Miki ed un Black Macigno, mi addormentavo spesso. Mi ricordo che una volta, durante un viaggio verso il mare, mi svegliai, guardai fuori dal finestrino e non vidi niente.
C’era solo un grande telo bianco che sembrava volare. Non capivo. Poi ho visto, là in basso, due alberi, una casa e…riecco la grande nuvola bianca. Per un attimo, avevo pensato di essere in cielo. Invece, il treno stava “solo” superando un ponte su di un fiume.

Il Comfort Festival al Parco Urbano Giorgio Bassani:
l’ultimo tradimento della grande idea di Addizione Verde.

Cosa c’entra il Parco urbano con i Festival? 

Nel primo fine settimana di settembre si è tenuto nella cornice del Parco Urbano Giorgio Bassani il Comfort Festival (Bellezza, Musica e Cibo); produttore organizzativo e partner di Barley Arts, il Teatro Comunale di Ferrara e patrocinatore l’Amministrazione Comunale. A detta degli organizzatori “un nuovo Festival musicale, una rassegna che percorre la direzione della qualità musicale, della sostenibilità, della multidisciplinarietà, della suggestività della location, della cura dei dettagli.”

L’artista Gianluca Grignani, dal palco del Parco Urbano, ha definito così l’appuntamento: “ricorda i festival inglesi ed è in una location bellissima, che potrei paragonare quasi al contesto di Wimbledon”.

Da parte dell’organizzazione si specifica che “elemento portante del Festival è la ricerca del COMFORT, dato dalla bellissima location, dove circa quattromila persone al giorno potranno condividere, oltre alla Musica live anche piccole performance acustiche, letterarie e teatrali a cura di Slow Music, per riscoprire il senso reale di fruizione della bellezza in tutte le sue forme e il benessere intimo che può regalarci quando vissuta adeguatamente.”.

In contemporanea al Comfort Festival, sempre all’interno del Parco Urbano, si è svolta una tappa del Streat Food Truck Festival, “l’originale e più famoso festival di Food Truck d’Italia, che farà assaporare al pubblico l’eccellenza di cibi e bevande di provenienza locale, a filiera corta, biologici ed artigianali che garantiscono una proposta variegata e di qualità”.

Così vengono presentate le due iniziative nelle relative pagine dei siti del Teatro Comunale[Vedi qui] e del Comune di Ferrara [Qui].
Tutto bene quindi … se non fosse che è proprio l’ambientazione (il Parco Urbano Giorgio Bassani) a comportare aspetti problematici, a non essere il luogo adatto a questo e a qualsiasi altro tipo di eventi vengano organizzati.

Come nasce e cosa dovrebbe essere il Parco Urbano

Il Parco Urbano nasce dall’idea, legata al Progetto Mura, di “sistemare a parco un’area comunale quale naturale sviluppo della grande Addizione Erculea che ha fatto della nostra la prima città moderna d’Europa”, e che Paolo Ravenna, allora presidente di Italia Nostra, nell’ottobre del 1978, nell’ambito del Symposium internazionale di architetti e urbanisti tenutosi a Ferrara, aveva battezzato come Addizione Verde.

Si tratta di un’area di circa 13 Kmq posta tra le mura nord della città e il Po, in seguito sviluppata (in particolare da una serie di interventi tra il 1995 e il 2000) attraverso un progetto affidato all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia nell’ambito di una convenzione stipulata con il Comune di Ferrara[1].
Nel marzo del 1979 Giorgio Bassani plaudiva alla proposta
che, all’epoca, poteva “apparire come una semplice, deliziosa utopia, di collegare il perimetro dell’antico Barco del Duca sino a contatto col Po“.

Paolo Ceccarelli, già preside della Facoltà di Architettura dell’Università di Ferrara, ha avuto occasione di affermare, circa venti anni fa, che “per l’Addizione Verde rimane evidente lo scarto tra volontà progettuale e fatti concreti, che fa di questo parco un progetto incompleto. 

Oggi il Parco Urbano rimane un progetto incompleto e confuso

Scrive l’architetto Giulia Tettamanzi nella sua tesi[2] di dottorato“la pur saggia scelta di tutelare il territorio del Barco, non ha costituito una ragione sufficiente per assegnare al Parco Nord lo stesso successo culturale e sociale del Parco delle Mura, non evolvendo oltre la semplice tutela [subendo] l’operazione di valorizzazione culturale e funzionale un rallentamento”.
“Il nodo della questione – afferma Tettamanzi – rimane la difficoltà contingente di adattare in modo efficace l’area in questione ai modelli di vita attuali”, e se un qualche sviluppo vi è stato, certamente “non con la stessa determinazione e chiarezza di obiettivi, né con gli stessi risultati” ottenuti nel restauro delle mura.

E continua Tettamanzi: “è mancata una politica di valorizzazione capace di proporre una funzione sostenibile per il territorio, che, dalle mura al Po, oggi alterna campi coltivati a terreni incolti, campi da golf a zone grossolanamente attrezzate a parco urbano, aree con aspetto di naturalità, a un depuratore, a un ex inceneritore” e, si può aggiungere, a un campeggio comunale attualmente in disuso.

In un articolo del 2003[3] Stefano Lolli, oltre a descrivere questa situazione, ricordava come Bassani definisse la prospettiva di collegare le mura Nord e il Po “una risposta morale ed estetica della città”, e come chiedesse a Ferrara, alle sue associazioni culturali e alle istituzioni, non tanto coraggio, ma soprattutto idee chiare: perché “se saranno chiare le idee in proposito, penso che abbastanza rapidamente troveremo i soldi – i dannati quattrini – per realizzare l’opera”.
Le idee, non dunque le utopie, in realtà erano già precise, per Italia Nostra e la determinazione del suo presidente Paolo Ravenna; per i “dannati quattrini” si doveva invece attendere ancora qualche anno.

1986: Il Parco Urbano comincia a prendere forma senza un chiaro indirizzo.

Mentre si stava definendo il Progetto Mura, scrive Lolli, dal 1986 iniziò a prendere corpo la sistemazione a parco dell’area comunale di cento ettari che rappresentava il primo nucleo dell’Addizione Verde, come l’aveva battezzata Ravenna, l’area ad uso pubblico limitrofa al Parco delle Mura che oggi vede una destinazione e un utilizzo probabilmente non previsti nei progetti originari.

In questa fascia sono insediate diverse ‘funzioni’: gli orti, il campo da golf (ampliato in questi ultimi anni verso nord), gli impianti natatori, il centro per il tiro con l’arco, il centro sportivo dell’Università, il campeggio. Funzioni, scrive ancora Lolli, “per le quali è mancato un progetto coordinatore, che, proponesse chiari indirizzi quale luogo di interfaccia tra la città murata e la campagna coltivata”.
A cominciare, scrive Giulia Tettamanzi, dall’attraversamento ciclo-pedonale a raso, a controllo semaforico, unico collegamento tra il Parco delle Mura e il Parco Urbano Bassani. “La cesura paesaggistica che genera questa infrastruttura è tragica e denuncia palesemente (assieme a tutto ciò che non è stato realizzato rispetto al progetto e all’idea originari) l’assoluta mancanza di un progetto di paesaggio”.

Molte altre sarebbero le considerazioni da fare sulle finalità che questa area avrebbe dovuto svolgere.
A cominciare da quanto affermato nell’ambito dell’incontro Verde Ferrara promosso dall’Istituto Gramsci e dal Legambiente nel 1985, e cioè che il Parco Urbano “dovrà essere un luogo dove la gente abbia una immagine della natura”, o dalla definizione, contenuta nel Piano Paesistico Regionale della fine degli anni ’80 che tutela l’area del Parco come “zona di particolare interesse paesaggistico-ambientale”.

I progetti accantonati

A questo proposito può essere utile citare quelli che erano i progetti più rilevanti rispetto al progetto originario e che non sono stati realizzati.
In primo luogo la rinaturalizzazione dell’ex-discarica e relativa trasformazione a parco pubblico; poi la messa a dimora di alberi e vegetazione arbustiva molto più numerosa di quella attuale (scrivevo già una decina di anni fa) necessaria in quanto elemento capace di “contribuire ad abbattere i livelli di inquinamento dell’aria che incombono su Ferrara”, ma anche “la piantumazione di alberi da frutto al fine di dare all’area una valenza di orto o giardino, in sintonia con le radici storiche del Parco”; l’acquisizione, a nord dell’attuale spazio pubblico, tra via Canapa e via Gramicia, della fascia di terreno e dei fabbricati presenti, conosciuti come possessione Sant’Antonio, che avrebbe dovuto diventare, in seguito ad opportuna ristrutturazione, il Centro Servizi del Parco (con punto informazioni, ristorante agrituristico, noleggio biciclette, ecc.), dotato di personale (un direttore e due operatori, con funzioni di manutenzione e custodia, supportati da volontari quali guardie ecologiche e membri di associazioni ambientaliste e naturalistiche) per la gestione delle strutture e delle attività tra cui la riconversione del terreno ad agricoltura biologica e rimboschimento.
Infine la realizzazione, in diversi punti, di torrette di avvistamento della fauna e di osservazione del Parco. Un vero e proprio progetto orientato alla fruizione naturalistica del Parco. Ma tutto ciò non ha visto alcuna realizzazione, anzi lo spazio del Parco è stato utilizzato oggi, e per lungo tempo, per tutt’altre finalità, in continuità con una consuetudine che dura ormai da più di 15 anni.

Il riferimento è in particolare a quelle iniziative a carattere ludico quali la Vulandra (nel tempo sempre meno festa degli aquiloni e sempre più una sorta di sagra, con tanto di giochi gonfiabili, stand di vario genere tra cui, ovviamente, quelli gastronomici con relativi tavoli per il consumo del cibo), i festival e le feste musicali, e, infine i Balloons (che “sequestrano” per quasi un mese il parco alla fruizione dei cittadini a causa della presenza di strutture particolarmente ingombranti, tra allestimento, svolgimento del festival, e relativo smontaggio delle strutture e liberazione degli spazi) e che sempre più sono andate mostrando la loro “non sostenibilità” ad essere ospitati nelle aree verdi del Parco Urbano in quanto fortemente impattanti su quell’ambiente naturale (costituito da flora ma anche fauna) che dovrebbe esserne la peculiare caratteristica.

Il Parco così come si presenta oggi non piacerebbe né a Giorgio Bassani né a Paolo Ravenna. Oggi non assomiglia per niente a quel “parco-campagna”, un laboratorio di integrazione fra ambiente, inteso come preservazione e uso pubblico, attività sociali, turistiche e agricole di cui in tanti abbiamo scritto in questi anni.
La decisione della Amministrazione Comunale, di concentrare nel Parco Urbano Bassani iniziative con un impatto “pesante’ come i festival e i concerti pop, ci allontana sempre più dalla visione rivoluzionaria di chi aveva pensato per la città di Biagio Rossetti ad un’ultima addizione, l’Addizione Verde.

[1] Ferrara, Progetto per un parco”, Cluva Università, 1982.
[2] Giulia Tettamanzi, “Il Parco Nord a Ferrara. Un progetto aperto”, Quaderni della Ri-Vista. Ricerche per la progettazione del paesaggio, Firenze, University Press, n. 4, vol. 1, 2007.
[3] Stefano Lolli, “Il Parco Bassani”, in “Ferrara, Voci di una città”, n. 19, 2003.

PER UNA NUOVA LEGGE CHE GARANTISCA LAVORO E DIRITTI:
firma la petizione per fermare le delocalizzazioni.
In una settimana raccolte 47.000 firme.

Leggi la petizione:

Fermiamo le delocalizzazioni e lo smantellamento del tessuto produttivo!
Per una normativa che garantisca subito lavoro e diritti!

Delocalizzare un’azienda in buona salute, trasferirne la produzione all’estero al solo scopo di aumentare il profitto degli azionisti, non costituisce libero esercizio dell’iniziativa economica privata, ma un atto in contrasto con il diritto al lavoro, tutelato dall’art. 4 della Costituzione.

Ciò è tanto meno accettabile se avviene da parte di un’impresa che abbia fruito di interventi pubblici finalizzati alla ristrutturazione o riorganizzazione dell’impresa o al mantenimento dei livelli occupazionali Lo Stato, in adempimento al suo obbligo di garantire l’uguaglianza sostanziale dei lavoratori e delle lavoratrici e proteggerne la dignità, ha il mandato costituzionale di intervenire per arginare tentativi di abuso della libertà economica privata (art. 41, Cost.).

Alla luce di questo, i licenziamenti annunciati da GKN si pongono già oggi fuori dall’ordinamento e in contrasto con l’ordine costituzionale e con la nozione di lavoro e di iniziativa economica delineati dalla Costituzione.

Tale palese violazione dei principi dell’ordinamento, impone che vengano approntati appositi strumenti normativi per rendere effettiva la tutela dei diritti in gioco.

Per questo motivo è necessaria una normativa che contrasti lo smantellamento del tessuto produttivo, assicuri la continuità occupazionale e sanzioni compiutamente i comportamenti illeciti delle imprese, in particolare di quelle che hanno fruito di agevolazioni economiche pubbliche.

Tale normativa deve essere efficace e non limitarsi ad una mera dichiarazione di intenti.
Per questo motivo riteniamo insufficienti e non condivisibili le bozze di decreto governativo che sono state rese pubbliche: esse non contrastano con efficacia i fenomeni di delocalizzazione, sono prive di apparato sanzionatorio, non garantiscono i posti di lavoro e la continuità produttiva di aziende sane, non coinvolgono i lavoratori e le lavoratrici e le loro rappresentanze sindacali.

Riteniamo che una norma che sia finalizzata a contrastare lo smantellamento del tessuto produttivo e a garantire il mantenimento dei livelli occupazionali non possa prescindere dai seguenti, irrinunciabili, principi.

1-  A fronte di condizioni oggettive e controllabili l’autorità pubblica deve essere legittimata a non autorizzare l’avvio della procedura di licenziamento collettivo da parte delle imprese.
2-  L’impresa che intenda chiudere un sito produttivo deve informare preventivamente l’autorità pubblica e le rappresentanze dei lavoratori presenti in azienda e nelle eventuali aziende dell’indotto, nonché le rispettive organizzazioni sindacali e quelle più rappresentative di settore.
3-  L’informazione deve permettere un controllo sulla reale situazione patrimoniale ed economico-finanziaria dell’azienda, al fine di valutare la possibilità di una soluzione alternativa alla chiusura.
4- La soluzione alternativa viene definita in un Piano che garantisca la continuità dell’attività produttiva e dell’occupazione di tutti i lavoratori coinvolti presso quell’azienda, compresi i lavoratori eventualmente occupati nell’indotto e nelle attività esternalizzate.
5-  Il Piano viene approvato dall’autorità pubblica, con il parere positivo vincolante della maggioranza dei lavoratori coinvolti, espressa attraverso le proprie rappresentanze. L’autorità pubblica garantisce e controlla il rispetto del Piano da parte dell’impresa.
6-  Nessuna procedura di licenziamento può essere avviata prima dell’attuazione del Piano.
7-  L’eventuale cessione dell’azienda deve prevedere un diritto di prelazione da parte dello Stato e di cooperative di lavoratori impiegati presso l’azienda anche con il supporto economico, incentivi ed agevolazioni da parte dello Stato e delle istituzioni locali. In tutte le ipotesi di cessione deve essere garantita la continuità produttiva dell’azienda, la piena occupazione di lavoratrici e lavoratori e il mantenimento dei trattamenti economico-normativi. Nelle ipotesi in cui le cessioni non siano a favore dello Stato o della cooperativa deve essere previsto un controllo pubblico sulla solvibilità dei cessionari.
8-  Il mancato rispetto da parte dell’azienda delle procedure sopra descritte comporta l’illegittimità dei licenziamenti ed integra un’ipotesi di condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 l. 300/1970
Riteniamo che una normativa fondata su questi otto punti e sull’individuazione di procedure oggettive costituisca l’unico modo per dare attuazione ai principi costituzionali e non contrasti con l’ordinamento europeo.

Come espressamente riconosciuto dalla Corte di Giustizia (C-201/2015 del 21.12.2016) infatti la “circostanza che uno Stato membro preveda, nella sua legislazione nazionale, che i piani di licenziamento collettivo debbano, prima di qualsiasi attuazione, essere notificati ad un’autorità nazionale, la quale è dotata di poteri di controllo che le consentono, in determinate circostanze, di opporsi ad un piano siffatto per motivi attinenti alla protezione dei lavoratori e dell’occupazione, non può essere considerata contraria alla libertà di stabilimento garantita dall’articolo 49 TFUE né alla libertà d’impresa sancita dall’articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE”

Riteniamo altresì che essa costituisca un primo passo per la ricostruzione di un sistema di garanzie e di diritti che restituisca centralità al lavoro e dignità alle lavoratrici e ai lavoratori.

Per permettere una ponderata valutazione degli interessi incisi dal testo dell’atto legislativo in cantiere riteniamo necessaria ed immediata una sospensione da parte del Governo delle procedure di licenziamento ex l. 223/91 ad oggi avviate dalle imprese.

Approvato dall’assemblea permanente delle lavoratrici e dei lavoratori GKN 

Sei d’accordo? Vuoi aderire?

Al 1 ottobre 2021 hanno già aderito 47.000 persone.
Per firmare anche tu
:
https://www.change.org/p/fermiamo-le-delocalizzazioni-e-lo-smantellamento-del-tessuto-produttivo

UN’ALTRA EUROPA:
pensare e progettare un futuro solidale

Il futuro c’è se si progetta.
È ora di aprire un confronto perché l’occasione storica delle elezioni europee che si compirà tra due anni trovi spazio di scambio e di ricerca per la costruzione di un progetto all’altezza della storia. È ora che i mezzi di comunicazione e di informazione svolgano il compito che compete loro: essere al servizio dello sviluppo della società umana e del suo miglioramento e non quello di cavalcare le divisioni e le contrapposizioni di una società che sta affrontando un momento inedito sia per le difficoltà pratiche da superare sia per un futuro che, senza un progetto collettivo di sviluppo, si prospetta come catastrofico.

Tutti i mezzi di informazione da oggi dovrebbero dare spazio a questo tema centrale: come costruire il nostro futuro, anziché dilungarsi in maniera sfiancante e ripetitiva su un unico argomento che monopolizza l’informazione oggi, il problema del vaccino e della carta verde che, anche se importante e controverso in tanti modi, stiamo affrontando e risolvendo.

Il primo passo può essere la costruzione della comunità europea. Siamo di fronte alla possibilità di creare una nuova realtà politica capace di integrare le potenzialità dei suoi singoli stati e di imparare dagli errori del passato per dare origine ad una novità storica organizzata necessaria ad affrontare le nuove sfide che ci si prospettano e finalizzata al rinnovamento di una democrazia che porti allo sviluppo universale.

Per sviluppo non si intende un aumento quantitativo (del progresso, della tecnologia o di guadagno), ma un miglioramento delle qualità umane, delle relazioni sociali, economiche e lavorative. Lo sviluppo non può essere chiuso, deve essere aperto ad una prospettiva più evoluta.
Pensiamo a come vogliamo il nostro futuro invece che inseguire i problemi e le contrapposizioni dialettiche sollevate dall’emergenza pandemica.

L’attuale situazione ha messo in evidenza le carenze strutturali della nostra società. Carenze che, per altro, vengono da lontano: la necessità di una scuola che risolva le differenze e non che le accentui.

Una scuola che veramente dia gli strumenti a tutti i cittadini per capire in primo luogo il valore della libertà e della civiltà a prescindere dalla pur importante cittadinanza e poi il momento in cui si vive. Una scuola che sappia garantire a ciascuno gli strumenti per costruirsi il futuro sia come singolo individuo, che come società.
La necessità che all’Università sia restituito il compito di svolgere la ricerca di base, perché questa è l’unica garanzia che abbiamo a che sia pubblica e finalizzata al benessere dell’umanità e della natura e non al profitto.

L’emergenza in cui ci troviamo ha solo messo in evidenza la necessità di un uso delle risorse della Terra non basato sullo spreco e sul consumo, ma su un loro utilizzo oculato che non penalizzi l’organizzazione sociale o le fasce più povere ma che tenda ad una loro distribuzione equa a livello globale, anzi, che migliori la qualità della vita per tutti; poiché sappiamo che migliorando il rapporto dell’umanità con la natura, migliora la qualità della vita.

Questi sono già tre punti su cui si può iniziare a tracciare una bozza di progetto d’Europa, che consideri nuovi modelli per costruire una vita dignitosa per l’intera umanità e che risponda a queste proposte.

Va ripensato un progetto di Europa che si scosti dalla logica delleconomia di mercato come solo punto di riferimento, ma scelga invece la persona, la qualità – ormai improcrastinabile – dell’ambiente e la forma democratica di governo come prospettiva per la sua realizzazione, la sua costruzione e il suo sviluppo.

Oggi possiamo toccare con mano cosa ha voluto dire scegliere come modello unico universale l’economia di mercato e la sua potenza distruttrice nello scompenso ecologico, nella distruzione dell’equilibrio naturale che ha prodotto il cambiamento climatico e che ha conseguenze altrettanto disastrose sugli equilibri sociali.

Questa scelta, Infatti, ha innescato un aumento della povertà a tutti i livelli, da quello del cibo a quello culturale e sociale; ha portato al blocco del processo di emancipazione dell’umanità, che sembrava così raggiungibile, dalle molteplici necessità per una vita dignitosa almeno per la maggioranza di noi.

Come ha detto recentemente anche il nostro Presidente del Consiglio, questa scelta di cambio di direzione o è immediata o non avrà luogo affatto perché, scaduto questo tempo, lo squilibrio sarà irreversibile.
Dobbiamo muoverci immediatamente – e per fortuna le elezioni per l’Europa saranno tra due anni, giusto il tempo per preparare una campagna di informazione finalizzata a far eleggere il parlamento costituente che abbia come unico scopo quello di scrivere la Costituzione di una nuova Europa. Non perdiamo questa occasione che non si presenterà più così tempestivamente.

I mezzi di informazione dovrebbero veramente dare il maggior spazio possibile a questi temi determinanti per il futuro dell’Italia, dell’Europa ma anche per l’intera umanità, in modo da permettere un serio confronto tra le diverse visioni possibili per la costruzione di una nuova realtà politica e istituzionale. Sarebbe opportuno abbandonare, almeno per questo periodo, l’abitudine divisiva e sterile di sottolineare le contrapposizioni, spesso strumentali a interessi particolari e non a risolvere i problemi della nostra società. Non sono certo né i vaccini né il green pass che ci tolgono la libertà, ma piuttosto il non avere una realtà democratica all’altezza della complessità che dovremo affrontare.

È ora che i mezzi di informazione siano veramente strumenti per la ricerca di una realtà comune, nella realizzazione della quale ciascuno si senta coinvolto in prima persona. Questa è la sola condizione necessaria affinché ognuno si assuma la responsabilità di una riuscita del progetto, personale e comune, nel quale ciascuno trovi finalmente la sua dimensione di senso della vita e di soddisfazione.

PER CERTI VERSI
Sabato (senza villaggio)

SABATO (SENZA VILLAGGIO)

Sabato albeggia
Stipato
Tra cartoni di nuvole
Sacche di grigio
Dense
Non è mai vera festa
Qualche paglia
Si infila nel silenzio
Che vola
Lo fora
Escono botti
Di tir lontani
Piccoli suoni
Di ferraglia
Treni
Non è festa
Ma quasi
Tutti dormono
Molti nel letto
Sugli alberi
Trame di pioggia
Mi arriva
Un tuo biglietto
Nell’aria di salsa
Laguna bassa
Di Chioggia

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

L’INIZIATIVA
Sfida anti-smemoratezza al Festival di microteatro Bonsai

Giochiamo a essere nei panni di qualcun altro: nonna smemorata, compagno fra le nuvole, papà in tilt. Il gioco è sfida e il “Gioco per anziani di tutte le età” vuole provare a mettere alla prova chiunque abbia voglia di farlo, facendolo confrontare con i propri limiti e dando a tutti il brivido di sbagliare e poi, magari, la soddisfazione di farcela. Se qualcuno a cui vuoi bene comincia a perdere colpi, e a perderli per davvero in maniera seria e sistematica, all’improvviso ti rendi conto di tutte quelle cose che sembrano scontate, ma non lo sono affatto.

Chiacchierare, chiedere e fare: tutto è diverso se dall’altra parte la tua mamma, la tua nonna o una persona tanto importante per te ha grossi vuoti di memoria, che piano piano rendono faticoso dialogare in modo scorrevole, perché un dialogo è fatto di un sacco di sottintesi e di punti di riferimento comuni e noti. L’affetto e la voglia di condividere restano, ma l’ambito dei discorsi di restringe sempre di più.

Nella relazione con una persona, le limitazioni neurologiche, la memoria svanita e lo smarrimento di conoscenze escludono dapprima i discorsi complicati, la condivisione di attualità spicciola e i riferimenti a problematiche personali grandi o anche piccole, che non vuoi più riversare su chi ami e ti vuol bene, quando capisci che fatica a seguirti nelle sfumature di un racconto fatto inevitabilmente di riferimenti a cose e persone che, per lei o lui, finiscono inghiottiti da una nebbia fitta e disorientante.

“Gioco per anziani di tutte le età” con il teatro Ferrara Off
Che fare, allora, e che dire negli incontri con una persona che ti sta a cuore, ma che è fortemente smemorata? Chiacchierare è una cosa preziosa per stare insieme e in più ci si accorge di quanto illumini e stimoli e renda più lucide, presenti e anche gioiose le persone che hanno limitato le loro frequentazioni quotidiane a causa di malattia.
Giulio Costa del teatro Ferrara Off durante l’appuntamento del festival di microteatro
Un gioco – pensa un po’ – è stato immaginato per intrattenere, divertire e trascorrere piacevolmente del tempo insieme con chi è afflitto da smemoratezza patologica. Un nome ancora non c’è l’ha, ma ci sono carte colorate, un tabellone con le caselle e una scatola con dentro dadi e pedine in legno. L’hanno inventato una linguista e una musico-terapeuta ed è possibile in questi giorni anche giocarci. Io l’ho fatto e – oltre a capire delle cose – mi sono anche divertita un sacco.
Ci si diverte e si prova l’ebbrezza di sbagliare. Perché, alla fin fine, chiunque esita un attimo e si sente messo alla prova quando gli chiedono di enumerare tutte le fasi necessarie a fare il ragù, di declinare tutti gli aggettivi possibili per descrivere una piazza o di ricordarsi una sequenza di numeri fino al turno successivo!
“Gioco per anziani di tutte le età” con il teatro Ferrara Off

Già il titolo mi è piaciuto: “Gioco per anziani di tutte le età”. Di solito i giochi e i laboratori che più mi farebbe voglia frequentare sono quelli per bambini, ma finalmente viene proposto un laboratorio-gioco all’incontrario e per di più aperto a tutti. Il gioco da tavolo sperimentale è stato ideato da Giulia Murgia e Valeria Tinarelli per tenere allenate, in maniera ludica e informale, le diverse abilità cognitive come memoria, linguaggio, ritmo, attenzione e orientamento.
Io ho giocato con un ragazzo del Conservatorio, un sessantenne e una studentessa universitaria e abbiamo avuto anche dei bellissimi premi, che sono tutti prodotti naturali salva-memoria.

L’iniziativa del “Gioco per anziani di tutte le età” è inserita tra gli appuntamenti molto coinvolgenti del bel cartellone del Festival di microteatro Bonsai organizzato dal teatro Ferrara Off.

Dopo l’appuntamento di domenica 19/9 c’è ancora la possibilità di partecipare domenica 26 settembre 2021 alle 16 e alle 18 per 12 partecipanti e 12 uditori (Centro Sociale Acquedotto, corso Isonzo, 42-42/a, Ferrara). Partecipazione libera con Green Pass e prenotazione obbligatoria al link www.festivalbonsai.it/programma-2021/#2609.

Il Festival di microteatro Bonsai a cura del teatro Ferrara Off ha il patrocinio di Comune di Ferrara e Regione Emilia-Romagna. Tutti gli appuntamenti sono a offerta libera e con prenotazione obbligatoria. Info e prenotazioni sul sito web www.festivalbonsai.it, email bonsai@ferraraoff.it, cell. 333 62 82 360

Cacciatori di tesori

I cacciatori di tesori non esistono solo nei libri, nei film e nelle nostre fantasie.
Alquanto bizzarra la notizia di un imprenditore italiano che scompare lo scorso gennaio a Puke in Albania, dove si trovava per affari, e viene ritrovato al largo delle coste livornesi, su un gommone in avaria, dopo un’assenza di nove mesi. Perché viene individuato in quel tratto di mare? Perché sull’imbarcazione ci sono un piccone, una vanga e una mappa? Perchè in Albania rimane la sua auto data alle fiamme, con  presenza di resti ossei umani?

“Cercavo il tesoro dell’isola di Montecristo ha affermato l’uomo, raccontando di essere sbarcato in Toscana a bordo di un autobus di pellegrini provenienti da Medjugorje, zona in cui aveva soggiornato per un periodo. Un tesoro di cui scrive Alexandre Dumas nel celebre romanzo “Il conte di Montecristo” (1815).

Un impeccabile soggetto per un film, se non fosse che la realtà supera la fantasia, con ombre, sospetti e interrogativi di cui si sta occupando la Procura di Perugia che ha aperto un fascicolo sulla vicenda.

Il tema della caccia ai tesori riempie da sempre leggende e fantasie, evocando il mondo piratesco, le grandi imprese e razzie, il mistero, oro e pietre preziose strabordanti da bauli e casse ben mimetizzati, i nascondigli irraggiungibili, la scoperta sensazionale, le isole maledette.

Se è questa è l’immagine mitica del tesoro nascosto, ci pensano i numerosi cacciatori di tesori che operano realmente in ogni angolo di mondo a renderla più accessibile e praticabile, i nuovi Indiana Jones che hanno sostituito il piccone con mezzi tecnologici sofisticati, spesso società organizzate e specializzate nei recuperi.

E’ una passione che sfocia nell’ossessione, una smania di scovare, una ricerca che percorre minuziosamente le tracce nei luoghi della Storia dove presunte ricchezze giacciono ancora inviolate nelle viscere della terra o nei fondali dei mari.

E’ anche un enorme business nel mercato nero del collezionismo privato internazionale che alimenta traffici illegali clandestini di proporzioni importanti e trova terreno di espansione anche a mezzo dell’e-commerce, acquistando ancora più vigore durante il periodo pandemico.

Ritrovamenti consistenti di valore enorme sono avvenuti in molte zone di tutti i continenti. Un buon esempio è il carico prezioso del vascello a vapore S.S.Republic, affondato durante un uragano davanti alle coste della Georgia, nel 1865, con un carico di 20.000 monete d’oro destinate alla ricostruzione del Sud dopo da Guerra di Secessione. Il carico prezioso è stato recuperato nel 2003, valutato in 180 milioni di dollari.

In Gran Bretagna i ritrovamenti sono stati numerosi; tra i più significativi quello nel villaggio inglese di Hokane nel 1992, per mano di un contadino che arava un campo, consistente in una cassa di legno piena di oro che risaliva all’epoca romana. Valore 4 milioni di dollari.

Ci sono voluti 17 anni per portare il tesoro di Atocha definitivamente in superficie dai fondali, recupero iniziato dal leggendario cercatore Mel Fisher: si tratta del carico prezioso del galeone spagnolo secentesco Nuestra Señora de Antocha valutato per l’ammontare di 450 milioni di dollari, affondato al largo delle Isole Keys, Florida.

Nel 1979 in Afghanistan, gli scavi  in un sito funerario misero in luce 21.000 gioielli in oro di fattura superba e di grandissimo valore, appartenenti ai reali sepolti.

Molti ritrovamenti nelle zone geografiche più disparate rimangono a tutt’oggi inestimabili, di un valore talmente alto da non permetterne la quantificazione. Un esempio su tutti il ‘tesoro del Titanic’, una parte del quale recuperata tra il 1985 e il 2004 con ben sette spedizioni nell’area del naufragio del transatlantico inabissatosi nell’Atlantico nel 1912.

Durante i vari recuperi sono riaffiorati circa 5500 cimeli del valore di 190 milioni di dollari, tra cui l’anello con diamante di Wallace Hartley, il responsabile dell’orchestra che insieme ai suoi musicisti continuò a suonare fino alla fine, mentre la nave affondava. L’entità del valore di quanto trasportasse complessivamente l’imbarcazione sfugge a ogni ipotesi e molto rimane ancora in fondo al mare.

Ma tesori segregati e custoditi nel sottosuolo, nelle grotte, negli oceani, popolano fantasie, curiosità e immaginazione aldilà del valore di mercato che possono rappresentare: una fantasticheria di bambini e adulti senza distinzione, sempre attuale, colorata e vivace. Il cacciatore di tesori rimane sempre il temerario avventuriero che sfida qualsiasi impervietà e rischio nel nome della scoperta.

Ricordo ancora quei due docenti dell’Università di Boston, conosciuti sotto la pioggia nella brughiera di Dunmore, nella penisola di Dingle in Irlanda, appassionati cercatori di reperti. Trascorrevano ogni anno le loro vacanze in quel luogo fuori dal mondo, a caccia di possibili siti archeologici, oggetti di epoca celtica, segni dell’approdo su quel tratto di costa della Invencibile Armada spagnola e altre meraviglie da scoprire, in compagnia di un vento che non cessava mai di sibilare, qualche pecora e la sporadica presenza umana locale. Passione, dedizione, ricerca.

Perché, come sosteneva Socrate, “Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta.”

PRESTO DI MATTINA
Identità narrabili

Identità nascoste.

«”La gente, chi dice che io sia?. Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti”. Ed egli domandava loro: “Ma voi, chi dite che io sia?” Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo (Messia)”. E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.» (Mc 8,27).

La buona notizia di Gesù, il segreto nascosto nella sua identità, ciò che il suo nome rivela e cela allo stesso tempo, strada facendo nell’intreccio e nel dispiegarsi della vita, viene alla luce poco alla volta nelle narrazioni dei vangeli, nel manifestarsi del suo agire, di un fare continuamente in relazione alle persone che incontrava.

È il principiarsi, l’accadere di una storia narrante e sempre di nuovo narrata, in cammino e facentesi nell’intreccio con altre storie, di cui forma la trama, il disegno delle libertà, in un ri-gioco narrante.

Ogni volta, ogni incontro, un giorno dopo l’altro, è qualcosa della sua identità che affiora per nascondersi subito dopo, perché la ricerca del “chi sia lui” non si fermi, ma continui oltre, persino quando è lui stesso a dire di sé e della sua missione di essere il “Figlio dell’uomo“, ispirandosi alla figura nella visione del profeta Ezechiele. Identità questa ad un tempo solidale con noi in umanità e con Colui che lo ha mandato a fare grazia, a inaugurare il tempo ultimo della grazia che va scoprendo, vivendo tra la gente.

L’altro, lo Spirito del Signore, l’ispiratore delle storie di Dio tra gli uomini, sceso di nuovo su Gesù nella sinagoga di Cafarnao, come al battesimo, gli rivelò la sua identità filiale, di unigenito così ora, nelle scritture aperte, gli racconta le storie che lo hanno preceduto, l’identità nascosta in quella sua storia nuova di umanità, iniziata a Betlemme e disvelata in un nuovo capitolo a Cafarnao: «Lo Spirito mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 11,18).

Il segreto del suo bel nome si saprà solo alla fine nel vangelo narrante di Marco: un nome fatto di diversi nomi susseguenti fino all’ultimo (‘titoli cristologici’ li chiamano i biblisti; come sementi dolcissime nell’unica melagrana cristologica – penso io – del bel nome di ‘Gesù’).

Altrettante identità nascoste scopriranno i suoi discepoli interrogando le scritture alla luce dello Spirito del crocifisso-risorto, dopo la Pasqua, iniziando proprio dalla confessione di Pietro, nel versetto citato sopra.

Egli vorrebbe fermarsi a quello che ha scoperto: il ‘Messia vittorioso’, perché dell’altra identità quella di ‘Figlio dell’uomo’ – che rivela il modo di Gesù di attuare la sua messianicità nella forma del ‘Servo sofferente di Jahvé’ preconizzato nei canti di Isaia – proprio non ne voleva sapere, né lui né gli altri, perché rivelativa di debolezza, dolore, rifiuto, consegna di sé, accettazione di un ingiusto destino. Non era ancora pronto a narrare di Gesù: «il Giusto mio servo giustificherà molti e si addosserà la loro iniquità» (Is, 53, 11).

Il suo buon nome si manifesterà solo alla fine, dopo aver percorso l’itineranza esistenziale, storica e narrativa dei canti del Servo di Jahvé inscritte nelle vicende del suo popolo e degli altri popoli. Il nome, tenuto nascosto come un segreto in quello messianico di Cristo, sarà pronunciato con fede proprio da un pagano, il centurione romano, di fronte alla morte di quel giusto: in quella desolazione egli confesserà anche a noi la sconcertante verità nascosta in quel condannato crocifisso: «Vere hic homo Filius Dei erat» (Mc 15, 39).

Il segreto dell’identità di Gesù si esprime anche per noi facendosi strada attraverso un divenire che è insieme esistenziale e narrativo. Il vangelo ci fa essere parte di ciò che esprime attraverso la sua storia narrante. Ci fa entrare nelle vicende della “buona notizia di Gesù” e così dà forma anche alla nostra identità attraverso la sua identità, che è al tempo stesso ereditata e già scritta nel passato, ma ancora da creare nel tempo a venire.

Scrive Giovanni in una lettera: «Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1Gv 3,2).

Il «lieto fine è nascosto» direbbe Margaret Atwood [Qui], la scrittrice canadese di narrativa sociale e di racconti anche per bambini; così l’identità di ciascuno è nascosta anche a lui stesso: essa si rivela nelle storie che ci verranno raccontate e in quelle che narreremo strada facendo.

Realizzare l’identità significa così esprimere ciò che di irrepetibile è nascosto nella propria umanità, il cui tragitto è paragonabile al dispiegarsi di una narrazione. Senza la narrazione essa rimane indecifrabile: il racconto è il modo di rispondere alla domanda “chi sono”.

Scrive il filosofo e accademico canadese Charles Taylor [Qui], che «noi non possiamo fare a meno di concepire la nostra vita in termini narrativi, come una ricerca… L’immagine che ho di me stesso è quella di un essere che si muove e diviene, fenomeno che, per sua natura, non può essere istantaneo.
Ciò significa non solo che ho bisogno di tempo e di molte traversie per sceverare ciò che, nel mio carattere, nel mio temperamento e nei miei desideri, è relativamente fisso e stabile da ciò che è, invece, variabile e mutevole; ma anche che, come essere che si muove e diviene, io posso conoscere me stesso solo per il tramite dei miei progressi e dei miei regressi, delle mie vittorie e delle mie sconfitte. La mia immagine di me stesso necessariamente ha uno spessore temporale e una struttura narrativa» (Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Milano 1993, 73; 71).

L’altro narrante svela noi a noi stessi. Ulisse si commuove pur conoscendo le sue origini per il canto dell’aedo Demodoco che, alla corte dei Feaci, canta la sua storia e le sue imprese e così egli riconosce se stesso, in un modo nuovo e singolare, tanto che a quel racconto egli si commuove profondamente e piange.

Nell’assemblea domenicale, mi piace pensarlo, Gesù stesso, presente e vivo nel suo Spirito e nel suo corpo che sono le scritture, il pane eucaristico e anche noi che siamo membra del suo corpo spirituale, sentendo di nuovo raccontare da noi, raccolti attorno a lui, la sua vita e quella dei suoi discepoli e udendo di nuovo sentirsi chiamare Figlio dell’uomo, Figlio di Dio, Servo e Messia sofferente, Gesù Signore e Maestro non credete che non si commuoverà ancora oggi allo stesso modo in cui provò compassione davanti alle folle stanche e sfinite come pecore senza pastore o presso il sepolcro di Lazzaro?

Nella liturgia e ogni volta che si legge il vangelo è un accrescimento di identità narrativa per i credenti e per la chiesa; una nuova tappa nella coscienza di sé, un’apertura del già, verso il non ancora “di chi saremo”.

Pure la Chiesa assume un’identità in progress, narrativa. Se resta aperta all’appello dell’altro scoprirà sempre più se stessa, la sua vocazione iniziale, e potrà continuare ad interrogarsi come ha fatto Papa Paolo VI al Concilio quando disse: “Chiesa che dici di te stessa, chi sei? Saprà così comprendersi confrontandosi con l’identità del suo Signore ogni volta che lo incontrerà affamato e gli darà da mangiare, malato e in carcere e si recherà a visitarlo, straniero e lo ospiterà”.

Nell’ultima enciclica, Fratelli tutti, Papa Francesco ricorre alla parabola del Samaritano: «un estraneo sulla strada: … Uno si è fermato, gli ha donato vicinanza, lo ha curato con le sue stesse mani, ha pagato di tasca propria e si è occupato di lui. Soprattutto gli ha dato una cosa su cui in questo mondo frettoloso lesiniamo tanto: gli ha dato il proprio tempo. È stato capace di mettere tutto da parte davanti a quel ferito, e senza conoscerlo lo ha considerato degno di ricevere il dono del suo tempo. Con chi ti identifichi? Questa domanda è dura, diretta e decisiva. A quale di loro assomigli? … La narrazione è semplice e lineare, ma contiene tutta la dinamica della lotta interiore che avviene nell’elaborazione della nostra identità, in ogni esistenza proiettata sulla via per realizzare la fraternità umana. Una volta incamminati, ci scontriamo, immancabilmente, con l’uomo ferito. Oggi, e sempre di più, ci sono persone ferite. L’inclusione o l’esclusione di chi soffre lungo la strada definisce tutti i progetti economici, politici, sociali e religiosi». Inclusione o esclusione danno forma anche alle nostre identità.

E in un omelia sulla formazione dei presbiteri del 2008, quando era ancora in Argentina, Francesco disse: «La nostra identità… non è fatta per mantenere un integrismo sdegnoso e conservativo, ma tutto il contrario: la Chiesa custodisce l’integrità del dono per essere in grado di darlo e comunicarlo intero a tutti gli uomini nel corso di tutte le generazioni. Non è identità autoreferenziale, ma identità d’amore che ci spinge verso la periferia, consapevolezza di ciò che siamo per grazia, identità che riferisce tutto a Cristo. Identità inviata, identità in missione», (Nei tuoi occhi è la mia parola, Milano 2016, 608).

L’identità del samaritano resta nascosta finché non è chiamata fuori dall’incontro con l’umanità dell’altro: è il suo agire che la rivela a lui stesso e a noi; essa ci dice chi egli sia e la qualità dell’umano in lui fatto di compassione e responsabilità, essa si manifesta attraverso il dispiegarsi del racconto fino alla locanda con la promessa di ritornare.

L’identità e la storia restano così aperte verso un’ulteriorità narrativa ed esistenziale che possono prolungarsi e continuare anche attraverso e dentro le nostre storie di oggi. Chiuse invece le identità degli altri due, il levita e il sacerdote, esse rimangono congelate, fossilizzate nel ruolo fatto valere e posto al di sopra della coscienza stessa di umanità; è il personaggio e non la persona a dettare l’agenda delle priorità e dei valori facendo così regredire l’identità, privata dei legami, nel nulla dell’irrelazione e determinando l’immediata uscita di scena dei personaggi.

Se il ruolo, la funzione anche ecclesiale, prevalgono e prendono il sopravvento sul cammino della persona che è essenzialmente relazionale, in cerca della sua identità nell’incontro dialogico con gli altri, allora questa si chiude su se stessa, viene fissata a quel dato momento e quasi sempre rinsecchisce irrigidita.

Così l’identità germinale sarà come una gemma bruciata dal gelo o l’incipit di una storia, di un libro chiuso prima che si arrivi alla fine. L’identità vocazionale di ciascuno è itinerante ed insieme claudicante. Non si giunge alla fine senza l’altro, come una storia senza racconto. È dunque esistenzialmente identità narrativa, in cerca del suo narratore e del suo nome, della sua posizione tra tanti personaggi e altri nomi che gli rivelano il suo: chi egli sia.

L’immagine usata da Paul Ricoeur [Qui] per dire una tale identità è quella della promessa fatta, che rimane anche quando mutano le situazioni e gli avvenimenti; si resta fedele a quanto promesso anche nei cambiamenti. «Mantenere una promessa, infatti, significa in qualche modo sfidare i mutamenti del tempo e opporre un diniego al cambiamento. Promettendo, la persona in qualche modo si “distende” nel tempo e mantenendo la promessa crea una continuità con se stessa nonostante i possibili mutamenti nel tempo. In questo senso, a differenza del carattere, si tratta di una permanenza mantenuta attivamente: Quand’anche il mio desiderio cambiasse, quand’anche io dovessi cambiare opinione o inclinazione, “manterrò”», (Sé come un altro, Milano 1993, 213).

Come in una narrazione noi interagiamo in una trama e sfondo stabili, oltre ogni cambiamento di scenario, di accadimenti positivi o negativi, gioiosi o dolorosi, vittorie e sconfitte. Bivi della vita segnati da ciò che ci rende unici e irripetibili, come quando diciamo “io ti prometto”, “ti perdono”, “ti amo”.

Nonostante situazioni ed eventi, e malgrado io stesso sia sottoposto a mutazioni e cambiamenti nel tempo, resto e mi mantengo identico pur nel diversificarsi delle relazioni e degli eventi. Tale identità risulta così insostituibile, ma non nel senso che io non possa essere sostituito, bensì per il fatto che nessun altro può vivere per me, promettere al posto mio, né può nascere, amare, morire per me.

Si scopre la propria identità proprio come si nasce, si promette, si ama sempre in relazione a qualcun altro che narra il nascere il promettere, l’amare: “Chi mi vede, mi racconta”.

«Lo statuto relazionale dell’identità postula infatti sempre l’altro come necessario: sia questo altro impersonato da una pluralità di spettatori che colgono gli atti che lo manifestano, sia esso impersonato da colui che narra la storia di vita risultata dagli atti medesimi. Al contrario dello spettatore, il narratore tuttavia non è presente agli accadimenti e ha perciò su di essi, come lo storico, uno “sguardo retrospettivo”. Egli conosce meglio degli altri ciò che è accaduto proprio perché non partecipa direttamente al contesto delle azioni da cui è risultata la storia…. Se ognuno è chi nacque, sin dall’inizio e con una promessa di unità che la storia eredita da quell’inizio, nessun racconto di una storia di vita può infatti tralasciare quest’inizio da cui la storia medesima è cominciata. Il racconto del suo inizio, il racconto della sua nascita, non può tuttavia che venire all’esistente nella forma della narrazione altrui», (Adriana Cavarero [Qui], Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano 1997, 38; 55).

Questo inciso testuale mi rammenta una poesia armoniosa di Vivian Lamarque [Qui]:
«Se sul treno ti siedi
al contrario, con la testa
girata di là,
vedi meno la vita che viene,
vedi meglio la vita che va
».

Da un rimando all’altro, alla fine, un breve racconto che ci rimetta di nuovo per strada, alla ricerca di identità ancora nascoste e riapra una storia che sembrava finita e una pace che si era smarrita:

«Rabbi Zusia, viaggiava molto spesso in incognito, come un mendicante; una volta capitò in una locanda e uno sconosciuto dall’aspetto ricco lo prese per uno straccione e lo trattò, molto male con disprezzo. Più tardi però nella sinagoga venne a conoscenza della sua identità e si mise a urlare i suoi rimorsi e a correre dietro Zusia dicendo: “Perdonatemi, Rabbi, altrimenti non ritroverò mai più il sonno né la pace”. Allora Rabbi Zusia gli sorrise scuotendo la testa: “Perché chiedi a Zusia di perdonarti? Non gli hai fatto niente! Non è Zusia che hai offeso ma un povero mendicante; va’ e chiedi dunque ai mendicanti, ovunque tu vada, di perdonarti”».

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

FERRARA: UN CORTEO ALLEGRO PER SALVARE IL PIANETA

Non sono di Ferrara, ma sto imparando ad amarla, semplicemente passeggiando a piedi o in bici per le sue strade. È una città di una bellezza sconcertante soprattutto il suo centro storico, dove affascinano i palazzi antichi perfettamente conservati e la luce del sole batte sui mattoni rossi.

Oggi poi l’ho amata maggiormente. Ferrara è una delle mille città che ha aderito allo sciopero climatico promossa dai FFF (Fridays for future) e PFF (Parents for future) per segnalare a chi governa il mondo l’urgenza della emergenza ambientale.Ne ha scritto ieri Marcella Ravaglia su questo giornale [vedi qui]

Alcune centinaia di cittadini – tanti i giovani e i bambini – donne (in maggioranza) e uomini, hanno marciato per la città partendo da Porta degli Angeli, fino a piazza del Municipio. Con slogan e striscioni, hanno coinvolto la cittadinanza, dalle scuole ai negozianti, ai semplici passanti.

Ferrara è la città delle biciclette, ha in qualche modo dei buoni presupposti. Non è un caso quindi che la manifestazione sia riuscita perfettamente. Quello che mi ha commosso è stata l’adesione di anziani e bambini, animati da un forte voglia  cambiamento e di partecipazione, ma anche tanta allegria.

Arrivati nella piazza Municipale, gli interventi di associazioni, movimenti (Plastic free, FFF, Politici per caso, Extinction Rebellion) e liberi cittadini.

Intanto, in tantissime città d’Italia e del mondo si marciava con lo stesso obbiettivo. Dare la sveglia ai nostri governanti. Greta Thunberg, la giovane attivista che ha dato inizio a questo grande movimento, è intervenuta nella affollatissima manifestazione di Berlino.

Le foto che ho scattato e che illustrano questo breve reportage, non rendono giustizia della manifestazione. L’atmosfera e l’empatia si può percepire solo partecipando. E solo partecipando si può cercare di salvare il mondo.

FEMMINICIDI: DARE I NUMERI NON BASTA

 

Sono 50 o 83?

Il susseguirsi di femminicidi delle ultime settimane interroga ciascuno di noi su cosa si sarebbe potuto fare per evitarli e quale intervento siamo collettivamente in grado di mettere in campo per impedire altre morti. I temi sono molteplici. Ne indico quattro.

Spulciando tra le notizie ho letto su autorevoli quotidiani che i femminicidi avvenuti nel 2021 sono per alcune testate 50, per altre 83.
Potrà sembrare una questione di poco conto; io credo invece che non sia così. Passi uno scarto di poche unità, ma un divario tanto grande si spiega solo con l’applicazione di criteri differenti, ovvero con diverse concezioni di quello che solo da pochi anni viene pensato come fenomeno sociale e non come susseguirsi di eventi tra loro scollegati.

Che sia giusto occuparsene con un’attenzione mirata non ho dubbi, e non so quale misura sia giusta, se 50, 83 o un’altra ancora. Ho il timore che la parola “femminicidio”, come è successo alla parola “bullismo” per stare a un tema che studio da tempo, finisca per essere usata dai media e da tutti noi come passepartout, e quando un termine vuol dire tutto, finisce per non significare più niente.

Mi capita di vedere affibbiare l’etichetta di femminicidio a qualsiasi omicidio di una donna e non mi pare appropriato: un tossicodipendente può uccidere, in una rapina, una donna o un uomo nello stesso modo se ha bisogno di denaro. Proprio per questo sarebbe opportuno comprendere bene che cos’è il femminicidio, riconoscerne i contorni e costruire su questo un consenso diffuso.

Troppe armi in casa

Non ho una statistica sottomano, ed è vero che tante donne sono state uccise altrimenti, ma mi pare ricorrano le armi da fuoco associate a mestieri che le prevedono, quali la guardia giurata, o carceraria, o l’appartenenza alle forze dell’ordine. Mi domando la ragione per cui chi svolge queste professioni si porta a casa l’arma di ordinanza, anziché riporla in un’armeria, sul luogo di lavoro, arrivato a fine giornata.

Dopotutto i chirurghi non tengono il bisturi in tasca. E sarà ozioso, ma io mi chiedo quale messaggio implicito riceva chi può trattare come propria la pistola che gli è affidata per motivi professionali. Come percepisca il proprio potere nelle relazioni anche una volta smessa la divisa. E quali controlli si facciano per accertare l’equilibrio personale di chi per mestiere è armato.

Le deformazioni professionali ci sono sempre: gli insegnanti tendono a dare i voti anche ai figli, gli infermieri a soccorrere il prossimo e via di seguito, ma alcuni atteggiamenti, trasposti dal lavoro al quotidiano, sono palesemente più rischiosi di altri.

Riconoscere la gravità della violenza nella coppia

Accantonati i femminicidi, ad altri tavoli straordinariamente importanti si discute a più voci su quanto debba pesare una denuncia per violenza, su quanto debba influire ad esempio sulle decisioni nel corso delle separazioni coniugali o dei procedimenti giudiziari per la tutela dei figli.

Due schieramenti opposti espongono i loro giusti argomenti. Da un lato, prendere decisioni ignorando la denuncia mette a rischio l’incolumità della vittima e dei bambini, e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Dall’altro, convalidarla prima di una sentenza di condanna apre al rischio delle false accuse, e anche su questo i reclami non mancano.
Una strada per agire con equilibrio e precauzione deve però esistere. Non ne conosco una migliore di analizzare volta per volta la situazione, con il massimo scrupolo e nell’ascolto delle parti, consci di oscillare tra due possibilità di errore.

Da tempo sono stati messi a punto metodi che aiutano agenti di polizia, operatori sociali e sanitari a raccogliere dalla vittima le informazioni in modo accorto, per riconoscere i casi in cui rischia di più.
Queste metodologie non sono una panacea ma un aiuto sì, e applicarle sarebbe doveroso. Potrebbe avvenire dopo una formazione ampia ma approfondita per tutti coloro che professionalmente incontrano le vittime, affinché le ascoltino con le giuste accortezze e forniscano poi ai magistrati gli elementi necessari per riconoscere i casi di maggiore gravità e proteggere coloro che ne hanno bisogno.
In altri paesi europei è già così, l’Italia continua a essere inspiegabilmente diversi passi indietro.

Alleviare l’oppressione di ruoli di genere troppo costrittivi

Continuiamo a crescere bambini, poi ragazzi, poi uomini, che si negano le lacrime, o l’ascolto delle emozioni, e legittimano la violenza come soluzione a un affronto.
Sull’altro fronte ci sono ancora bambine, poi ragazze, poi donne, votate all’accudimento, al senso di colpa, al sacrificio di sé.

Gli uni e le altre sono meno presenti che in passato ma ci sono ancora – non servono grandi numeri perché si dispieghi la violenza – e l’intreccio tra culture e stili educativi diversi rimescola le carte.
Prevedere un’educazione all’affettività e al rispetto ben fatta, nella scuola pubblica in modo che includa anche chi non la riceve in famiglia, sarebbe un’azione preventiva estremamente importante.

Ripenso agli uomini che ho conosciuto personalmente perché avevano ucciso la madre dei propri figli. Provo a immaginare i tantissimi che non ho incontrato ma di cui si leggono le dichiarazioni: “lei mi tradiva… lei aveva detto di non amarmi più… voleva lasciarmi e non potevo sopportarlo,”.

A tutti loro vorrei dire che il disonore di un uomo tradito è niente rispetto a quello di un assassino. Che il conforto di sfogarsi con un gesto efferato è misero confrontato alla pena inestinguibile che ne consegue per avere spento una vita, sacra in sé e per ciò che significa in chi l’ha amata. Che la soddisfazione di dominare un’altra creatura è superficiale e minima se pensiamo al piacere di conoscere e farsi conoscere dall’altro, con tutta la fatica di mettere e lasciarsi mettere in discussione. Che la catastrofe di un abbandono la conosciamo benissimo anche noi donne, ma in genere la sciogliamo nell’abbraccio di un’amica e non arrogandoci il diritto di spegnere la vita altrui.

Un mio spunto di riflessione laterale: [Vedi qui]

Questo articolo è apparso anche sulla www.azionenonviolenta.it

DIARIO IN PUBBLICO
Martha, la divina

 

 Ritorno in città dall’esilio ‘laidesco’ (per chi mi legge solo ora è il mio modo di chiamare il Lido/Laido degli Estensi) impegnatissimo a concludere i lavori in corso compresa la conferenza su Dante, che sarà il giusto omaggio a chi tanto mi ha dato nella mia vita culturale e accademica.

Mi telefona un’amica, domandandomi se sapessi del concerto che apriva al teatro comunale la stagione sinfonica dove avrebbe suonato la ‘mia’ Martha. Mi precipito ad acquistare il biglietto pregustando una serata degna degli angeli.

E così è stato. Avrebbe suonato un pezzo difficilissimo di Dmitrij Šostakovič [Qui]Concerto per pianoforte con accompagnamento di orchestra d’archi e tromba assieme al trombettista israeliano-russo Sergei Nakariakov [Qui] e con la Manchester Camerata [Qui] diretta da Gábor Takács-Nagy [Qui]. L’attesa era tanta. Martha Argerich [Qui] zoppica un poco, il suo bellissimo viso è contornato e semi-nascosto dalla massa di capelli grigi.

La potenza delle dita e delle mani è tale che il pianoforte sembra sussultare sotto il loro tocco, poi uno sguardo al biondo ragazzo che comincia a suonare la tromba, mentre i capelli con la scriminatura a metà si chiudono sul suo volto arrossato per lo sforzo e alla fine due occhi infantili chiedono il giudizio alla divina Martha, che glielo concede con dolcezza e protezione. Un silenzio stupefatto subito dopo l’ultima nota.

Lei si alza con un sorriso infantile piega la grigia chioma e allora il teatro è scosso da un urlo irrefrenabile mentre i ‘bravi!’ si sprecano e la stessa Camerata entusiasticamente batte la sua approvazione sugli archetti.

Si allontana la divina col suo passo esitante, accompagnata dal suo ragazzo-tromba poi ritorna e per ben cinque volte accontenta il pubblico in delirio, ripetendo il primo tempo del concerto e poi ancora, ancora, fino all’immancabile commiato, che ce la porta lontano nel regno del divino da cui era discesa a miracol mostrare.

La Camerata esegue poi la celeberrima Serenata per archi di Pëtr Il’ič Čajkovskij [Qui]: il direttore entusiasta ricorda che quella esecuzione è dedicata al grandissimo Abbado di cui ora Nagy occupa la stanza che dà sulla piazza del Castello nell’hotel Annunziata.

Gli archi cominciano a suonare e l’occhio spazia sugli esecutori. Il primo contrabasso è una signora dagli infuocati capelli rossi; tra le viole sorride un giovane che sembra Calenda da giovane; nascosta nell’ultima fila suona una signora che sembra la copia della moglie del fittavolo che in Downton Abbey tenne come figlia Marygold, la bimba del peccato della infelice Edith, che se la riprende e perde il fidanzato.

Salta come un ossesso il direttore Nagy e conferma ciò che la Camerata intende per musica e la sua trasformazione in un complesso etico che, spiega il programma, “lavora con ricercatori e professionisti a livello mondiale nel campo della demenza, per offrire una musicoterapia efficace e significativa”.

Saltella Nagy, s’infiamma nel dirigere infiamma allo stesso tempo il pubblico e l’orchestra. Poi lentamente le luci s’accendono e un pubblico commosso accompagna gli orchestrali, che si salutano sul palco.

Pian piano mi avvio verso casa, traversando un centro semi-deserto (e sono solo le 11 di sera). Penso a questa ‘Ferara’ capace di offrire queste intrusioni nel divino e poi ripiegarsi su imbarazzanti e semi-inutili polemiche sui “settantacinque anni di comunismo”, come da tempo viene definito il periodo dell’amministrazione di sinistra.

Mi rattrista a volte il ruolo che le associazioni culturali benemerite sono costrette a sostenere; quelle associazioni che in tempi lontanissimi ho frequentato e a volte presieduto.

Infine, arrivo a casa ‘pedon pedoni’. Gli amici sfrecciano in bicicletta e m’invitano a fermarmi a mangiare una pizza della buonanotte. Ringrazio e faticosamente proseguo. Il cielo s’illumina di lampi minacciosi, poi si aprono le cateratte di un nubifragio improvviso.

Forse il cielo piange la fine del concerto della divina Martha.

Cover: Martha Argerich (Buenos Aires, 5 giugno 1941) – Foto Wikimedia Commons

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Parole a capo
Anna Bellini: alcune poesie da “Lo sgranare dei giorni”

“E’ il poetare che rende l’abitare un abitare”
(Holderlin / Heidegger)

La vita è un soffio

La vita
è un soffio

diceva
a sé
stessa,
nella sua
solitudine
amara.

Aveva
dato
fuoco
alla sua
vita,
ardente e
piena di
stupore.

La vita
è un soffio

si ripeteva
ogni giorno.

Non si dissolve
l’angoscia.

Amore e
amicizia
sono trappole
da sacrificio.

Oh, se almeno
potesse
cantare
le radici
della follia.

La vita
è
un soffio.

 

Lo sgranare dei giorni

Lo sgranare
dei giorni
le rivelò
il legame
tra rischio
e
calamità,

tra mortalità
e
immortalità,

viveva
come se
non ci fosse
vita.

Inappagata
volse
lo sguardo
tra polvere
e
nuvole,

ripiegò
il proprio corpo
sulla soglia
di sepolcri
privati da ogni
infinito.

 

Oggi

Oggi
un giorno come
tanti
eppur esito,
mi soffermo
ad ogni passo.

Oggi
la nostalgia di un attimo
ha distolto il mio sguardo,
e piano è rinato
un possibile
altrove.

*****

Per ritrovare
la gioia
delle parole,

cerco il filo
dei discorsi.

Tutto pare
frantumato,
disciolto.

Contemplo
le trasparenze

 

Ci sono frasi

Ci sono frasi
cui ho dato
inizio
con parole
senza fine;

piccole fonti
dove mi sono
abbeverata,

scavate
con le mani
e con il cuore.

Questa nuova raccolta di poesie di Anna Bellini, scritte tra il 2016 ed il 2020, osserva l’inesorabile passare del tempo misurato dai grani quotidiani di un rosario vitale che non si arrende al già visto, allo scontato, al “sempre” uguale, ma si sofferma alla novità di “un possibile altrove” anche se in mezzo a continue trasformazioni. Parole che si muovono raso terra tra radici, foglie e fili d’erba. Anna “dialoga” continuamente con gli attori e le attrici naturali di un giardino, alternando meraviglia a malinconia, solitudine quasi rassegnata al desiderio di “inventarci un progetto che ci permetta un tempo ritrovato”.

Anna Bellini, nata a Biella, vive a Ferrara. Scrive poesie da diversi anni. Questa è la sua quarta raccolta di poesie. Ha pubblicato: Nell’infinito Tu (2015), Transitum (2017), Sentieri nel vento (2018), Lo sgranare dei giorni (2020).

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Diario di un parent for future (aka PFF).
24 settembre: in piazza per lo Sciopero Climatico Globale

 

In realtà i governanti europei sapevano e sanno benissimo che le loro politiche di austerità stanno generando recessioni di lunga durata. Ma il compito che è stato affidato loro dalla classe dominante, di cui sono una frazione rappresentativa, non è certo quello di risanare l’economia. E’ piuttosto quello di proseguire con ogni mezzo la redistribuzione del reddito, della ricchezza e del potere politico dal basso verso l’alto in corso da oltre trent’anni.”.
(Luciano Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi, Einaudi, 2013)

Il 24 settembre si scende in piazza per lo sciopero climatico globale e ci sono ancora tantissime cose da fare!

Per fortuna i cartelloni sono pronti: ieri con alcuni compagni di classe di mia figlia siamo andati al parco a prepararli. Si sono molto divertiti e credo ne resterà un bel ricordo. Abbiamo parlato di come vorrebbero il loro futuro e i bimbi in gran parte chiedono meno auto: a 7 anni capiscono perfettamente che la mobilità a base di combustibili fossili costituisce uno dei problemi principali del riscaldamento globale.

Abbiamo cercato di coinvolgere le altre famiglie della classe e la scuola, ma molti genitori faticano a prendere ferie. Certo, se i sindacati avessero proclamato lo sciopero sarebbe stato tutto più facile, ma non credo che la gravità della situazione sia ancora correttamente compresa.

Dopo tutto ognuno vive nella propria bolla: la mia, da ormai anni, è quella legata alla conservazione degli ecosistemi; altri vivono la bolla del lavoro prima di tutto; sarebbe importante farle scoppiare tutte e iniziare a parlarci senza pregiudizio.

Comunque non ci diamo per vinti! Giorni fa, nel tentativo di creare la massima adesione allo sciopero di Ferrara, abbiamo pensato di contattare singole persone del sindacato, all’ultimo minuto e in modo sconclusionato, ma speriamo di vederli in piazza.

Serve poi che molto presto, al di là dei cortei, riusciamo a dialogare con le OO.SS. Sennò capiterà in continuazione di trovarli su posizioni opposte nelle singole vertenze: è stato così con il CCS a Ravenna. [Vedi qui]

L’iniziativa più bella comunque la stiamo organizzando come PFF Italia insieme ai Fridays for future (FFF) Italia: una staffetta ciclistica “Running for future [Qui] che parte da Roma il 24 settembre e termina a Milano il 2 ottobre – si tiene a Milano l’ultimo summit pre-COP26 [Vedi qui] – lungo la via Francigena, per ricordarci che abbiamo un paese meraviglioso, poco tempo per agire, e molti punti da connettere.

Ogni tappa (in diretta FB) focalizzerà un punto nodale della transizione ecologica necessaria, ovvero le emissioni di CO2: l’agricoltura, la salute, l’equità sociale, la biodiversità, la cementificazione, il patrimonio forestale, l’acqua.
Il 2 ottobre la staffetta confluirà nella manifestazione di Milano per mandare un messaggio inequivocabile ai negoziatori di tutti i Paesi che non si può più tergiversare rispetto agli obiettivi minimi dell’Accordo di Parigi.

Di nuovo, i ragazzi di FFF hanno una marcia in più, stanno raccontando da mesi ormai cosa gira intorno al vertice per l’ambiente in modo rigoroso e divertente [clicca Qui] .

Belli i PFF, li vedo lavorare nella mia città, a livello nazionale e anche nel globale. In quest’ultimo, do solo un minimo contributo nel gruppo traduzione, quando servono documenti da diffondere su scala mondiale: sta per uscire un video di genitori (adulti in realtà, perché essere PFF non significa avere figli) di tutte le nazionalità per ringraziare i ragazzi di FFF di essere una scintilla fondamentale nel movimento contro i cambiamenti climatici.

Cose analoghe abbiamo fatto anche a livello nazionale, dove va gran parte del mio impegno come facilitatrice, e sono convinta che solo un movimento fatto in gran parte di donne (mamme e non) potrebbe pensare a modi tanto accorati e delicati di mobilitarsi. Certo, un movimento femminile è un po’ caotico, però quei pochi ‘elementi maschili’ che ci abitano, portano la loro corteccia cerebrale per incanalare tutta l’energia creativa verso singoli obiettivi.
Mi vengono in mente esempi specifici, non faccio nomi, come il progetto Climate clock [Qui] (testimone della staffetta che parte venerdì da Roma) e i progetti mobilità a Ferrara [Qui] guidati da volenterosi papà.

Sono tantissimi i gruppi di lavoro qui e a tutti i livelli del movimento, serve pazienza per accompagnare il cambiamento verso una società di fatta di giustizia sociale, economica, climatica. Serve cambiare punto di vista (uscire dalle bolle!), non più solo compatibilità economica ma impronta di carbonio. Serve cambiare modo di prendere le decisioni. In PFF ci proviamo con la Sociocrazia 3.0 [leggi Qui] che davvero è uno strumento potente, perché fa venire a galla gli obiettivi e fiorisce nelle differenze di pensiero.

Il problema è il tempo: se anche l’IPCC ha anticipato il suo ultimo rapporto [Qui] date le novità non incoraggianti, le evidenze scientifiche rendono sempre più evidente che entro il 2030 il grosso della decarbonizzazione deve essere compiuta, pena il caos climatico.

Mentre scrivo sto guardando un film dello Studio Ghibli intitolato Nausicaä, è un’opera a tema ecologista come tanti lavori di Hayao Miyazaki. “Mamma, venerdì alla manifestazione diamo il messaggio di Nausicaä! Dobbiamo lasciare stare la Terra perché tutto vada a posto. La Terra sta bene e noi stiamo bene. Lasciamo spazio ai boschi, senza costruire troppo.”. Mi sembra una buona idea.

Sciopero Globale per il Clima 2021Venerdì ho preso ferie e sarà una bella giornata:
a Ferrara ci troveremo alla Porta degli Angeli alle ore 9,00.
Marcia fino a piazza Municipale e poi interventi,

Non si può mancare! …
non abbiamo un pianeta B
.

(spoiler) vado a fare una foto da mandare ai FFF, la solita genialata dell’ultimo minuto per convincere i lavoratori a partecipare, cercatela sui social!

 

GLI INSORTI GKN INDICANO A TUTTI UNA STRADA NUOVA:
gli obiettivi del movimento dopo la sentenza di Firenze.

 

Si può ben dire che “c’è un giudice a Berlino”, anzi a Firenze. Nella mattina di lunedì il Tribunale di Firenze ha sancito in modo forte l’antisindacalità del comportamento della GKN di Campi Bisenzio nei confronti della FIOM CGIL nella vicenda dell’avvio delle procedure di mobilità ( quella cioè che prelude al licenziamento) dei 422 lavoratori lì occupati e della cessazione della proprio attività produttiva.

E’ una decisione importante, in primo luogo per le conseguenze rispetto ai lavoratori e allo svolgimento della vertenza, visto che la GKN viene condannata a rispettare l’obbligo informativo omesso nei confronti del sindacato e, soprattutto, a revocare la procedura di mobilità, che sarebbe scaduta il 22 settembre con la relativa esecutività dei licenziamenti, mentre ora essa, quasi certamente confermata da parte dell’azienda, riparte però da capo, con almeno altri 75 giorni di tempo per la discussione e l’iniziativa sindacale.

La sentenza del Tribunale di Firenze

La sentenza, poi, è molto significativa per le sue motivazioni. Infatti, esse fanno esplicito riferimento al fatto che la proprietà non ha rispettato quanto previsto dal contratto nazionale dei metalmeccanici e dall’accordo aziendale del 2020 firmato tra le parti in materia di diritti di informazione (non da un semplice avviso comune), e cioè il fatto di dover dare gli elementi di conoscenza al sindacato rispetto alle previsione sui rischi occupazionali,  prima di effettuare le proprie scelte in merito.

Si badi bene, la giudice interviene su un dato di sostanza (non sullo ‘scandalo’ della comunicazione via mail, tanto enfatizzato dalla stampa e dalla politica, quanto, appunto, non dirimente nella vicenda), rilevando testualmente che l’azienda non ha dato corso al fatto che “il senso dell’obbligo assunto è evidentemente quello di consentire al Sindacato di esercitare al meglio le proprie funzioni, ivi compresa quella di condizionare ( con le ordinarie e legittime modalità di confronto ed eventualmente di contrasto) le future determinazioni e scelte gestionali dell’azienda”.
La sentenza – e scusate se è poco, in tempi di sfrenato neoliberismo confindustriale e governativo-  dice chiaramente che i lavoratori e la loro rappresentanza sindacale possono intervenire sulle decisioni e sulle scelte aziendali e poggia quest’affermazione sugli accordi sindacali relative ai diritti di informazione, conquista decisiva, come lo Statuto dei diritti dei lavoratori, degli anni ‘70 del Novecento, quando il tema posto era esattamente quello dei poteri e dei diritti del lavoro e che, da allora, non a caso, si è provato più volte a mettere in discussione e a ridimensionare.

Sembra che ora anche i mass media e la politica  – dopo l’assordante silenzio dei giorni passati, che ha coinvolto anche la grande manifestazione di sabato 18 settembre a Firenze a sostegno appunto dei lavoratori di GKN – inizino ad occuparsi della vicenda, Mostrando, peraltro, ‘scarso senso del pudore’, visto che ora tutti si dichiarano al fianco dei lavoratori.
Se lo si vuole fare veramente – e questa sarà la cartina al tornasole del prosieguo di una vicenda ben lungi dall’essere risolta – non c’è che da intraprendere due strade.

Le strade da percorrere

La prima. Quella di costruire una soluzione che dia continuità produttiva ed occupazionale a tutta la realtà produttiva di Campi Bisenzio, attraverso un intervento pubblico (per esempio tramite Invitalia, l’agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa) o di soggetti privati, garantito in ogni caso da un Piano approvato dall’autorità pubblica e dalla maggioranza dei lavoratori.

E che si faccia questo anche in tutte le altre situazioni rilevanti di crisi aziendali, che non sono poche, dalla Whirpool alla Gianetti, solo per citarne alcune.

Un percorso che altro non sarebbe che l’anticipazione  di due punti fondamentali degli 8 contenuti nella proposta di legge di contrasto alle delocalizzazioni e alle crisi produttive ed occupazionali predisposta proprio dai lavoratori di GKN assieme a un gruppo di giuristi del lavoro [fai un click per ingrandire il documento] 

L’approvazione di questa proposta di legge, da realizzare, almeno per i suoi assi di fondo tramite, decreto legge – questa la seconda scelta da compiere – consentirebbe di affrontare in termini utili tali situazioni.
Ora invece Il governo, ispirandosi all’inefficace modello francese, pensa solamente a intervenire sulle procedure dei processi di delocalizzazione, senza impegni cogenti né da parte delle aziende che li praticano né da parte dello Stato, o al massimo a rendere più forti gli ammortizzatori sociali, con l’idea della ‘mitigazione’ (altra parola malata) dell’impatto sui lavoratori.

“Insorgiamo” non è solo una parola d’ordine

Dunque, come dicono gli stessi lavoratori di GKN, “si è vinta una battaglia, ma la guerra è tutt’altro che conclusa”. E il suo esito non è per nulla scontato. Da sottolineare come gli ingredienti fondamentali di questo primo importante risultato siano stati l’impostazione e l’approccio che i lavoratori GKN hanno voluto imprimere a questa vertenza e la forte mobilitazione che è stata messa in campo.

Infatti, per la prima volta da molti anni in qua – a partire dal collettivo di fabbrica GKN –  si è usciti da una logica puramente difensiva, di una lotta semplicemente finalizzata a salvare quei posti di lavoro, per dire che quello che è in gioco, invece, è proprio l’idea di lavoro e di società che si tratta di realizzare.

“Insorgiamo” non è stata solo una felice parola d’ordine, ma il rendere evidente che si tratta di rovesciare un intero paradigma per cui la finanza e la globalizzazione sono eventi immodificabili, quasi ‘naturali’ e che non c’è alternativa se non rassegnarsi ad essi e limitare le perdite.

E’ su questa base che si è messa in campo una vera mobilitazione di popolo, quella che ha attraversato Firenze il 18 settembre con più di 20.000 manifestanti, con la gran parte della città raccolta attorno ai lavoratori.
E’ un messaggio forte di speranza, in primo luogo per altre lavoratrici e lavoratori impegnati in difficili vertenze originate da crisi e ristrutturazioni.

Ho in mente la vicenda che origina da Alitalia, dove la nuova azienda ITA (di proprietà pubblica e le cui scelte sono quindi direttamente imputabili al Ministero dell’Economia e al governo) che sta procedendo con una ferocia non seconda a quella di GKN.
Quasi una provocazione: si apre la selezione di quelli che dovrebbero essere i 2800 occupati di ITA, senza guardare a quanti facevano parte dell’organico di Alitalia, ma esaminando i curricula degli oltre 20.000 che ne hanno fatto richiesta. Con l’intento, peraltro, di uscire dal contratto nazionale e dagli accordi aziendali, imponendo un ‘regolamento unilaterale, che prevede anche l’abbassamento del 40% dei salari previsti in Alitalia.

Siamo, insomma, di fronte ad un tema generale e che si tratta di affrontarlo con intelligenza e determinazione, sapendo che non sarà né un’impresa facile né di breve durata. Ma che, proprio per questo, chiede a tutte e tutti  di spendersi e di partecipare, non come spettatori inerti, bensì come protagonisti attivi.