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MOSTRA
Focus sul Centro Video Arte di Ferrara al museo MamBo di Bologna

Uno speciale evento espositivo che racconta l’esperienza pioneristica del Centro Video Arte di Ferrara: è quello offerto in questo momento dal MamBo, il Museo d’Arte Moderna di Bologna. Meritevole il fatto che uno dei più importanti musei di arte moderna e contemporanea d’Italia dedichi un approfondimento all’esperienza ferrarese. La rassegna è allestita in una delle sale del percorso museale permanente, collocato all’interno di quelli che erano gli spazi industriali dell’ex Forno del pane, in via Don Minzoni, facilmente raggiungibile dalla centrale via Indipendenza.

“Una ricerca polivalente. Esperienze dal Centro Video Arte di Ferrara” è il titolo della mostra  inaugurata giovedì 27 giugno e visitabile fino a domenica 13 ottobre 2024 al MamBo. Ad ospitare un riassunto del percorso video-artistico compiuto dal centro ferrarese è la Project Room, lo spazio riservato a quei fenomeni, eventi, personalità o organizzazioni che hanno avuto un ruolo fondamentale nella recente storia culturale di Bologna e dell’Emilia-Romagna.

Centro video arte – Una ricerca polivalente foto ODeCarlo

Il progetto è realizzato attraverso la collaborazione tra il museo bolognese e le Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara. È curato da Chiara Vorrasi, conservatrice responsabile delle Gallerie ferraresi, e Uliana Zanetti, responsabile del patrimonio del MamBo. L’intendimento – spiega una nota del Settore Musei Civici di Bologna – è quello di “celebrare le attività, a circa cinquant’anni dalla fondazione e a trenta dalla chiusura, del Centro Video Arte di Ferrara, unica istituzione artistica espressamente dedicata in Italia alla produzione di video-tape. Ideato da Lola Bonora nel 1973, e da lei stessa guidato per l’intero corso della sua durata, il Centro Video Arte diviene sin dal suo esordio parte integrante della Galleria Civica d’Arte Moderna di Ferrara diretta da Franco Farina“.

Tra i diversi percorsi intrapresi dal Centro Video Arte diretto, l’esposizione si concentra su due aspetti: la video-registrazione di performance e la realizzazione di opere d’arte in forma di video-installazioni e video-sculture. A testimonianza di questi aspetti sono stati selezionati i lavori di alcuni degli artisti più esemplificativi che hanno gravitato attorno alle esperienze del centro ferrarese.

Particolare dell’allestimento
Opere del centro video arte di Ferrara
La Project room del Mambo – foto ODeCarlo

Ecco allora la sequenza di disegni su cartoncino di uno degli artisti italiani più celebri nell’ambito delle videoinstallazioni come Fabrizio Plessi. Firmata da Maurizio Camerani la grande video-scultura, che già alla fine degli anni Ottanta anticipava tematiche ambientali per un artista che è stato tra i più giovani rappresentanti del movimento e che in questi anni ha continuato ad esporre su tutto il territorio nazionale. La video-installazione di Enzo Minarelli, “La Bandiera” (1989), indaga invece gli aspetti, cari a questo autore, che riguardano la poesia sonora e visiva. Completano l’esposizione le proiezioni video, fruibili da due monitor di vecchia generazione. Attraverso uno di questi apparecchi il visitatore può prendere visone del documentario a colori che illustra “Tempo liquido” di Fabrizio Plessi (1990), “Il filo di Arianna” di Claudio Cintoli (1974), “The Box of Life” di Federico Marangoni (1978). Un altro monitor consente di visualizzare il videotape sulla “Discussione sulla struttura e sulla sovrastruttura” di Giuseppe Chiari (1977), la pellicola in 16 mm del regista e pittore Sylvano Bussotti legato al gruppo Fluxus e a John Cage che documenta “RARA (film) guardato al pianoforte dall’Autore” (1978) e “Sentire/Ascoltare” di Claudio Ambrosini (1979).

Sala dedicata al Centro ferrarese alla 1.a Settimana internazionale della Performance
Performance di Abramovic-Ulay alla Galleria d’arte moderna bolognese nel 1977

Per il MamBo e per i musei civici bolognesi questo omaggio non è comunque un episodio isolato. Una sezione documentaria stabile collocata al piano rialzato del MamBo – sullo stesso livello dove sono esposte le collezioni del Museo Morandi – racconta l’esperienza del Centro Video Arte ferrarese in tre teche dedicate a momenti diversi.

Ci sono pannelli fotografici che testimoniano come il Centro Video Arte fu ospite insieme agli ‘scandalosi’ performer Marina Abramovic e Ulay della prima Settimana Internazionale della Performance, curata nel 1977 da Renato Barilli in collaborazione con Francesca Alinovi, Roberto Daolio e Marilena Pasquali alla Galleria d’arte moderna bolognese, in sinergia con lo svolgimento dell’allora neonata Arte Fiera di Bologna.

Cataloghi sull’esperienza Video Arte (GioM)

Un’altra teca di questa parte artistico-documentale è dedicata ai cataloghi dell’attività di Video Arte. Un reperto riguarda la mostra su questo tema realizzata nel 1980 a Torino. Un altro documenta la mostra dedicata al periodo che va  dal 1973 al 1979, esposta a Palazzo dei Diamanti di Ferrara nel 2015.

Articolo di Dede Auregli (fotoGioM)

Un articolo della fine degli anni Settanta, a firma della critica d’arte e curatrice Dede Auregli inquadra in maniera emblematica l’eco suscitata dall’esperienza ferrarese nell’universo culturale e artistico nazionale. Il ritaglio, è tratto da una pagina del quotidiano “l’Unità” del 24 marzo 1978, ed è una prestigiosa testimonianza del riconoscimento della pioneristica attività ferrarese e del luogo che ne ospita le attività, elogiato fin dal titolo come “Un gioiello di nome ‘Sala polivalente'”.

La Palazzina Polivalente ‘gemella’ di quella che ospita Spazio Antonioni, a Ferrara

L’esposizione in corso fino all’autunno sul Centro di Video Arte è completata dal grande pannello sulla “Cronologia” che segna le tappe storiche del lavoro prodotto da Ferrara in ambito video-artistico. Si parte dal 1973, quando Lola Bonora e Carlo Ansaloni vengono incaricati dal presidente della Regione Emilia-Romagna per sperimentare l’uso documentario del video. Altra tappa quella del 1977 con appunto l’apertura della Sala Polivalente, anch’essa diretta da Lola Bonora, accanto a Palazzo Massari, nuova sede della Galleria Civica d’Arte Moderna di Ferrara, che permette di ampliare la programmazione con performance, spettacoli musicali e teatrali, letture di poesia, rassegne cinematografiche. Importante il punto segnato nel 1980, quando la Videoarte approda a Torino con una mostra, dove sono incluse le opere monocanale di Lola Bonora, Maurizio Bonora, Claudio Cintoli, Maurizio Cosua, Janus, Klara Kuchta, Christina Kubisch, Giuliano Giuman, Franco Goberti, Lorenzo Lazzarini, Elio Marchegiani, Armando Marrocco, Fabrizio Plessi, Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian, Gretta Sarfati, Guido Sartorelli, Nanda Vigo e William Xerra, Claudio Zoccola.

Andy Warhol a Ferrara nel 1975 intervistato da Franco Farina e Lola Bonora

Un’opera che potrebbe essere utile integrare nel rilancio di quell’esperienza è il lavoro curato in tempi recenti dalla docente dell’Università di Ferrara Patrizia Ada Fiorillo, che ha in qualche modo sancito la consacrazione storico-accademica dell’attività culturale e artistica di Palazzo dei Diamanti e del contiguo Centro di Video Arte di Ferrara. Quasi 25 anni dopo il termine di quell’esperienza, la docente di Fenomenologia dell’arte contemporanea di Unife ha deciso di avviare uno studio sistematico di ricerca e documentazione. Per far questo ha coinvolto diversi altri studiosi e collaboratori. Ne è uscito il volume “Arte contemporanea a Ferrara” (Mimesis edizioni) a cura appunto della professoressa Fiorillo, che nel 2017 ha avuto il grande merito di fissare una testimonianza articolata e filologicamente strutturata sul ruolo propulsore svolto da Palazzo dei Diamanti in ambito artistico-intellettuale, che rende Ferrara protagonista di quanto di più innovativo accade in quegli anni in Italia e nel mondo. Particolare attenzione è infatti data al periodo che dal 1973 al 1993 fu segnato dalla direzione di Franco Farina per le Civiche gallerie e di Lola Bonora per il Centro di Video Arte. Io stessa ho avuto il compito di evidenziare le forti risonanze nazionali e internazionali del lavoro che veniva fatto a Ferrara. Nel capitolo dedicato a “La comunicazione, la stampa e l’editoria” sono venuti fuori i tanti e prestigiosi attestati di stima arrivati da critici, giornalisti e intellettuali attraverso pagine di giornali, magazine. Ma anche lettere e scambi personali che dalla direzione di corso Ercole d’Este si diramano nel mondo, da Parigi a New York. Per dei pionieri multimedia ante-litteram.

ANSA ULTIM’ORA: “DETURPATA LA STATUA DEL GENERALE VANNACCI”

ANSA ULTIM’ORA: “DETURPATA LA STATUA DEL GENERALE VANNACCI”

Durante l’inaugurazione, mediante caduta del telo che la ricopriva, della statua dedicata al generale Vannacci, fortemente voluta dal Sindaco leghista e da tutto il Consiglio comunale di Cieloduro, ridente paese alle pendici delle Alpi Orobiche, le autorità ed il pubblico presente hanno potuto constatare che l’opera d’arte era stata violata da ignoti durante la notte.

Julius Erving ABA

La statua, rigorosamente in marmo bianchissimo, allo scopo di evitare il poco italico colore nero del bronzo fuso, appariva ora interamente ricoperta da uno strato di nerissima pece. Il basco d’ordinanza, probabilmente rimosso con uno strumento da taglio a batteria, sostituito da una parrucca riccia, nera e cespugliosa, su imitazione della chioma “Afro” di Julius Erving, quando militava nella scomparsa lega di pallacanestro statunitense ABA.

Allo stesso modo il fucile d’assalto, che l’artista altoatesino Hans Adler, stimato Maestro dell’Accademia ariana “Scultori bianchi”, aveva scolpito fra le braccia del generale, è stato rimosso e sostituito dal pallone da basket, a spicchi bianchi, rossi e blu, della sopraccitata lega.

Il generale Vannacci, ai microfoni della rinnovata E.I.A.R., ha rivelato che una dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Namibia e Gabon Sud Occidentale, oscuri – in quanto neri, cioè oscuri – mandanti dell’orrendo crimine contro l’italianità, insita nell’opera che lo rappresenta.

Intanto, nel piccolo paese di Cieloduro, è caccia agli esecutori del misfatto.

I cani molecolari hanno fiutato una pista a Monza, dentro l’Autodromo, mentre i rilevamenti e la ricostruzione dell’opera in origine, mediante AI, da parte dei RIS di Parma, hanno portato alla scoperta che la statua non rappresentava affatto l’italianità, prima della deturpazione, ma piuttosto Enresto Che Guevara in Bolivia, o al massimo Silvio Berlusconi con la bandana, dopo il trapianto dei capelli.

Saputa la notizia, il generale è diventato nero dalla rabbia, si è dimesso dal partito, e c’è chi giura di averlo sentito intonare ripetutamente, chiuso in bagno, da solo: “Vorrei la pelle nera”…

Per leggere gli altri articoli, racconti e parodie di Stefano Agnelli clicca sul nome dell’autore

Parole e figure / “Finestre”: perché le cose sono spesso diverse da come appaiono

Una sera, una ragazzina si affaccia al davanzale di casa sua e inizia a curiosare oltre le finestre del palazzo di fronte. Ma che cosa sono le ombre che intravvede?

Forse quelle ombre… non sono davvero quello che sembrano!

“Finestre”, di Lola Svetlova, edito da Carthusia, è uno di quei grandi libri senza parole, che racconta storie attraverso la sola magia delle immagini.

È il vincitore dell’undicesima edizione del Silent Book Contest Gianni De Conno Award 2024, primo concorso internazionale dedicato al libro senza parole, un’impegnativa scommessa per il mondo internazionale dell’illustrazione: gli illustratori sono chiamati a partecipare a un concorso per la realizzazione di un libro “silenzioso” e valutati da un’importante Giuria Internazionale.

“Siamo arrivati all’undicesima edizione di questo straordinario concorso che ogni anno dà voce e spazio a illustratrici e illustratori provenienti da tutto il mondo che hanno la voglia e il coraggio di cimentarsi nella creazione di un silent book. La qualità dei lavori quest’anno era davvero alta e la giuria degli esperti ha avuto difficoltà a selezionare i finalisti” spiega Patrizia Zerbi, editrice di Carthusia, membro della giuria e responsabile del SBC.

“L’albo illustrato vincitore di questa edizione, “Finestre”, ci ha colpito per lo stile deciso e la tematica molto attuale: in un’epoca in cui pregiudizi e stereotipi sembrano avere la meglio nella formazione delle nostre opinioni, l’autrice ci ricorda che spesso è importante cambiare prospettiva e non fermarsi alle apparenze.”

La narrazione di inizia nel buio della camera da letto di una ragazzina che trascorre la serata affacciata al davanzale e osserva cosa succede nelle stanze illuminate della casa di fronte, dove si muovono delle strane ombre che sembrano qualcosa… ma in realtà sono tutt’altro!

Sembra un topolino o una signora che fa la magia ma è una giovane che mangia sushi, oppure una copia che litiga mentre sono ragazzi che ballano. Un coccodrillo, un alieno? Ma noo…

In un vero e proprio “gioco” per immagini, con le sue figure ricche e simpatiche dai tratti e colori decisi, dai tratti quasi infantili, questo silent book racconta l’importanza di non fermarsi ai primi sguardi e di non farsi ingannare dagli stereotipi.

“L’idea è partita dalla mia passione per la psicologia e le dinamiche sociali, che mi ha portato a raccontare una storia che fosse allo stesso tempo divertente ma anche profonda, che spiegasse che al di là del velo della percezione possono nascondersi cose straordinarie” racconta l’autrice Lola Svetlova. “La partecipazione al concorso nasce dalla mia convinzione che i libri per bambini non siano solo una forma d’arte, ma una missione verso un futuro migliore. Ci tenevo molto a partecipare a questo viaggio di trasformazione”, conclude.

Un tenero e divertente libro senza parole, che ci racconta in modo giocoso che a volte le cose vanno ben al di là delle apparenze. Anzi, spesso.

Dedicato “a tutti coloro che sono stati oscurati da stereotipi e fraintendimenti”.

Lola Svetlova vive ad Almaty, in Kazakistan, ed è un’artista di professione, autrice e illustratrice con la passione per i libri per bambini. I suoi lavori si distinguono per palette di colori caldi e tecniche di supporto miste.

Le voci da dentro /
Dino Tebaldi: “Il tam tam che spaventa” (1995)

Dino Tebaldi (1935-2004)

 

Il maestro Dino Tebaldi, in questo quarto capitolo del libro “Dietro le sbarre”, racconta con la sua caratteristica abilità narrativa i timori dei suoi alunni della scuola carceraria in merito alla possibilità di una espulsione dall’Italia “che li può rimandare nell’inferno dal quale sono fuggiti, illusi che in Italia ci fosse il paradiso”. Il suo stile inconfondibile riesce a coinvolgere pienamente il lettore senza costringerlo ad inventarsi giudice.
(Mauro Presini)

 

Il tam tam che spaventa

di Dino Tebaldi 

Sono entrati in aula già spaventati, ma a me non hanno detto che cosa li spaventava. Tra loro borbottavano in arabo, ed io ero escluso dalla conversazione.
Si sono accorti del mio imbarazzo, ed uno ha rotto il ghiaccio: “È vero che tutti espulsi da Italia?“.
Ecco il problema!
Radio, televisione ne parlano da giorni, a tutte le ore, con accenti drammatici. I giornali aggiungono la loro, anche se qui arrivano a pochi.
I detenuti hanno sentito, carpito, e capito qualcosa.
Il tam tam delle carceri ha detto il resto: quasi certamente più del dovuto.
E tutti si sono spaventati per una espulsione che li può rimandare nell’inferno dal quale sono fuggiti, illusi che in Italia ci fosse – e, nascosto, ci sia – il paradiso; oppure spaventati di tornare in una famiglia che potrebbe respingerli; o di rimpatriare – comunque- a mani più vuote di quando sono venuti via, come se tanti anni in Italia – attraverso inenarrabili umiliazioni – non avessero prodotto alcun frutto, nemmeno la conoscenza d’un alfabeto o d’una cultura di cui hanno sentito vantare la dimensione.
Adesso hanno in testa idee catastrofiche.
Vivono in un mare di interrogativi,
Hanno voglia – da ieri o da chissà quando – cli porre domande a qualcuno: a chi si trova nella medesima barca, ed a chi sembra più saldo coi piedi su terra ferma.
Ho improvvisato una risposta, credendo di dar loro un tantino di calma: “No! Non tutti gli immigrati saranno espulsi. Solo quelli venuti clandestinamente, che mancano di lavoro e hanno commesso reati: spaccio di droga, sfruttamento della prostituzione, violenze gravi…”.
Quasi una risata a commento: “Allora, maestro, tra poco ci salutiamo…”.
Ed ognuno a dirmi il proprio caso, con occhi spauriti, la voce angosciata, l’attesa d’un parere da parte mia anche se io non potrei mai risolvere il loro problema: “La legge ancora non è stata votata. Non si sa di preciso quali saranno i reati che comporteranno l’espulsione, né i tempi, le modalità, ecc.”.
Ed altri a precisare: “Io, ¡n Italia con visto turistico… Io non clandestino… Adesso, io qui dentro… Visto scaduto…”.
Le situazioni sono diverse, e ciascuna può essere chiara per chi ha competenza di leggi, oppure confusa per chi non se n’intende.
Io non sono un avvocato ma voi potete rivolgervi al giudice di sorveglianza”.
Una voce caustica: “E chi Io vede…? Io /to chiesto colloquio…”.
Subito varie conferme: “Io, chiesto colloquio con educatrice; però educatrice mai parlato con me…”
Invito alla calma: “Io sono soltanto il maestro, e posso fare per voi soltanto il maestro…”.
Una voce insiste: “Spiegare com’è la legge; Lei maestro; lei capisce i giornali…”.
Le facce sono tutte serie al massimo grado. prometto che oggi, domani e domani l’altro leggerò bene i quotidiani, e poi spiegherò in classe.
La voce di prima: “Maestro spiegare, perché non poliziotto…”.
Adesso tutti mi guardano con occhi benevoli e fiduciosi.
Ricordo che le leggi non hanno valore retro-attivo, ma per far capire questo concetto impegno tempo e parole, ed improvviso autentiche sceneggiate come ho visto in una strada qualsiasi d’una calda città del Meridione.
Prima che la legge sia operante – concludo – passerà tempo: almeno due o tre mesi. L’espulsione non sarà automatica, per chi adesso sta qui dentro. Dovrà essere il tribunale ad ordinare l’espulsioneLa legge difende i più deboli… Io prego perché la legge possa essere giusta, perché colpisca i cattivi e sia clemente con quelli buoni…”.
Uno mi chiede un favore: “Pregare perché espulso: nel mio paese,
vedere parenti…”.
Un altro: “Pregare anche per mia espulsione: io sono venuto in Italia per un week-end, e dopo cinque anni sono ancora qui. È ora che io torno nel mio paese…”.
Tra i nord-africani c’è grande sconcerto.: “Qui mangiare e dormire…
– dice uno di essi – Nel mio paese niente lavoro, e niente mangiare… Di là, io scappare ancora…”.
Il più giovane di tutti mi chiama a lui vicino, e – a mezza voce –
confida: “Io partito da casa sei anni fa, per cercare lavoro. Io tornare
senza soldi, senza mestiere, senza regalo per la mia mamma…
“.
C’è tanta gente – in Italia – che vorrebbe mandare via ogni straniero.
Ma in Italia c’è anche gente – per fortuna – che vuole il rispetto delle leggi fondamentali dell’uomo.
Il disegno di legge sugli immigrati, del quale si parla, è richiesto da una parte della maggioranza: “Se il governo vara il decreto, vedrà approvata la legge finanziaria… Se no, sarà messo in crisi… L’Italia, da troppo tempo, è in crisi…“.
Non c’è scampo: il capo del governo ha promesso il decreto, e forse lo metterà ai voti fra qualche giorno. Ma non è detto che il governo riesca – con questo stratagemma – a salvarsi. Ed un nuovo decreto arriverà fra mesi e mesi, forse fra un anno: potrebbe rettificare i contenuti del decreto del quale si parla.
In galera c’è gente che si trova nelle condizioni invocate per un rimpatrio forzato: clandestini, spacciatori di droga, violenze…
A guardarli, per un mese e mezzo di scuola, non avrei potuto capirlo. Adesso, invece, non posso più dubitare: “Allora, maestro, fra poco ci salutiamo…”.
In classe, oggi, erano otto: due contenti d’essere rispediti a casa, sei disperati. Le mie parole non hanno contato gran che. Però tutti m’hanno detto: “Grazie, maestro, lunedì tu a noi spiegare la legge… “.
Un maestro carcerario non può non dare risposte, perché agli allievi-detenuti manca la serenità per guardare il futuro. Ed io, oggi, mi sono sentito dalla loro parte.

Cover: la fotografia utilizzata in copertina è di Francesco Cocco ed è tratta dalla pubblicazione “Repertorio di immagini degli spazi trattamentali delle carceri in Emilia-Romagna”, a cura del Garante delle persone sottoposte a limitazione della libertà personale. 

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Il merlo e la Liz
(un racconto)

Il merlo e la Liz

Sei troppo grossa! Sei troppo nera! La gente avrà paura di te. Come faccio a tenerti.”

La Liz, una cucciola di lupo senza mamma e senza casa, guardò la bambina e d’improvviso le zompò addosso riempiendole la faccia di leccotti e dandole piccole testate con quel muso dalla lingua rosa e senza denti.

Esagerata”, le dice la bambina stringendola tra le braccia e pensando che, da quel goffo grosso scuro animale non si sarebbe più separata.

Cresceva la bambina e cresceva, ma molto più velocemente, la cucciola.

La Liz e la bambina

Dopo un anno la Liz sembrava proprio il lupo cattivo di Cappuccetto Rosso e quando camminavano per strada i bambini si giravano spaventati urlando: “Aiuto il lupo” e le mamme e gli altri proprietari di cani scansavano preoccupati quella coppia.

Esagerata”, la sgridava benevolmente la bambina, “mangi troppo, corri troppo, non stai mai ferma, fai paura alla gente”.

E la Lizettona, che non era più una cucciola, le zompa addosso e le bagna la faccia con la sua grande lingua salivosa, dandole spinte affettuose con quel testone dal muso feroce e dalle bianchissime enormi zanne.

Il tempo passava felice tra giochi, zuppe gigantesche, corse, abbracci e…disastri.

Liz, molla!”, urla arrabbiata la bambina quando la Liz insegue le galline del vicino.

Cane cattivo”, si dispera quando per giocare con la palla calpesta tutti i fiori del giardino e fa buchi grandi come canyon.

Nooo!” ancora si lamenta guardando le sue scarpe preferite finite a pezzi dai morsi di quella stupida cagnolona testona.

La Liz diventa triste quando viene sgridata. Tanto triste. E mette la coda tra le gambe, piega la sua testona da un lato per capire meglio e guarda la bambina aspettando il perdono.

Esagerata Lizettona”, alla fine dice la bambina vedendo quel bestione dispiaciuto e implorante.

E a quelle parole, zac! La Liz scatta come un lampo ed è subito addosso alla bambina per cercare abbracci.

Un pomeriggio, dopo aver corso a perdifiato, la bambina e il suo cane si sdraiarono sull’erba a guardare in su.

D’improvviso arrivò un merlo che, in quella pausa, cominciò a fare un gran baccano. Cantava a squarciagola, non stava mai fermo, svolazzava in qua e in là da farti girare la testa, zampettava in su e in giù, a destra e a sinistra, quando si fermava per qualche istante ti osservava allegro piegando la testolina da un lato.

Guarda Liz”, dice la bambina, “fa proprio come te. Scommetto che, se tu ti trasformassi in un altro animale, saresti proprio come quel merlo nero”.

La Liz, che si stava rotolando sul prato, si fermò come se un pensiero le avesse attraversato la mente. Poi sentì il rombo di una moto e via! Corse abbaiando all’inseguimento dell’intruso.

La bambina cresceva e diventava grande, anche la Liz era diventata una Lizettona grossa e forte con un vocione che faceva davvero paura e una scodella grande come l’equatore. La gente che non la conosceva aveva un po’ paura e non credeva che potesse essere un cane affettuoso e giocherellone.

Se saltava, le persone subito urlavano, se apriva la bocca per un sorriso, quelle zanne splendenti facevano drizzare i capelli. Chi non la conosceva, quando la vedeva per la prima volta, la evitava o addirittura scappava, c’era anche chi le diceva brutte parole cattive.

La Liz si mortificava, e allora piegava da un lato la testa per capire meglio.

Qualche volta la bambina cercava di aiutarla e spiegava alla gente che la Liz era buona, che cercava solo la loro amicizia, ma la Liz era così grossa e soprattutto così nera che non c’era ragione che tenesse.

Uno strano giorno la Liz fece una cosa che la bambina pensava fosse impossibile: non toccò neanche un boccone della sua grande zuppa.

Che starà succedendo?” si chiese perplessa e rimase in attesa.

La liz e il merlo con le stelle

Quello stesso giorno accadde un’altra cosa straordinaria, il nero merlo lucente si andò a posare sul prato soleggiato, vicino vicino alla cagnolona che lo guardò assopita lasciandolo fare.

Alla bambina sembrò persino che si parlassero, che si dicessero qualcosa di molto segreto.

Guardandoli sorrise e si disse ”Se dovessi disegnare l’anima del mio cane, la farei proprio come il merlo lucente quando vola”.

Arrivò il giorno dopo, e la Liz non toccò ancora neanche un boccone. Quando la bimba si avvicinò un po’ preoccupata, la Lizettona le diede la zampa. Alla bimba piaceva quando al suo comando “Dà la zampa!” la Liz, tutta concentrata e attenta, si sedeva e le appoggiava sgraziatamente la zampa sulla mano. Diceva “Bravo cane!” e sapeva che a lei piaceva tanto sentirsi dire “Bravo cane”. E così non la smetteva più di battere la sua zampona sulla sua manina rosa.

La bambina perciò le disse “Bravo il mio cane!” e la Liz sorrise.

In quel momento arrivò svolazzante e fischiettando il merlo.

La Liz lo guardò, si accucciò lentamente vicino alla bambina, il muso sul suo grembo e si addormentò.

La nera Lizettona non si risvegliò mai più. Ma da quel giorno, tutti i giorni, il merlo si mostrava alla bambina facendo il solito baccano: cantava, volava in qua e là, in alto e in basso, becchettava questo e quello e non stava mai fermo.

Esagerato” gli diceva la bambina ridendo, contenta di avere vicino a sé, per sempre, l’anima nera

e allegra della sua Liz.

N.B. Illustrazioni elaborate al computer di Giovanna Tonioli

Supplenti & Precari
Come si fanno i concorsi per insegnanti in Italia

Supplenti & Precari. Come si fanno i concorsi per insegnanti in Italia 

 

Premessa generale: uno dei rischi maggiori dell’Italia è l’emigrazione crescente dei suoi abitanti –quasi tutti giovani, dei quali un terzo laureati. Nel 2023 il saldo migratorio con l’estero è stato +274mila persone: sono arrivati 360mila stranieri e ne sono partiti 34mila (saldo +326mila stranieri), inoltre sono espatriati 108mila italiani e ne sono arrivati 55mila (saldo -53mila italiani).

Secondo uno studio di Nicola Bianchi e Matteo Paradisi su dati INPS, dal 1985 al 2015 diminuisce del 34% la percentuale di giovani che finisce nel quartile più alto dei salari e aumenta del 16% quella degli anziani. In sostanza i giovani hanno (rispetto a una volta) salari più bassi e fanno meno carriera. Per questo la probabilità che i giovani assumano posizioni manageriali è diminuita in 30 anni di 2/3, mentre è cresciuta dell’87% tra gli anziani. Dati che stroncano tutta la diffusa retorica sul fatto che le innovazioni e il digitale favorirebbero i giovani. Trent’ anni fa un laureato che entrava in azienda era favorito solo per il fatto di avere la laurea. Oggi deve fare i conti con molti altri laureati e con quei diplomati che avendo già lavorato a lungo hanno esperienza, a conferma che per le imprese il lavoro (e non solo lo studio) è formativo.

Uno Stato che è in declino demografico e che spende per formare giovani che poi vanno a lavorare all’estero è la premessa per una crisi futura (pensionati inclusi). Per questo si dovrebbe fare il massimo per crescere nei settori dove i salari sono alti -manifattura, ricerca- mentre noi puntiamo su turismo ed edilizia.

A proposito di gente che scappa o scapperà dall’Italia. Anche il prossimo settembre sarà record di supplenti: 250mila (di cui 111mila di sostegno). Se si escludono i docenti di sostegno, il personale a contratto determinato sarà di 172mila nel 2024-25 (era di 114mila unità nel 2017-18, fonte: Corte dei Conti), nonostante il nuovo concorso per 45.124 posti (ma quelli vacanti sono in realtà 64.156 dopo la mobilità).

Guandalini e Zappatore su Il Mulino, (https://madrugada.blogs.com/il-mio-blog/2024/07/la-formazione-degli-insegnanti-di-nuovo.html), propongono di risolvere il caos generato negli ultimi 20 anni sui concorsi dei docenti della scuola pubblica, con l’istituzione di una laurea magistrale (5 anni) seguita da un anno di tirocinio retribuito, in modo da risolvere definitivamente l’annoso problema dei precari e dare qualità nella selezione dei docenti. La proposta prevede che dopo un primo triennio di materie (lettere, matematica,…) ci siano due anni di laurea magistrale dedicata alla metodologia di come si insegna, seguiti da un anno di tirocinio retribuito e da un tutor, in modo da avere al termine l’idoneità e il lavoro a tempo indeterminato. La proposta è condivisibile per i nuovi, ma non affronta il problema di come sistemare l’enorme numero di precari (ben 234.576 supplenti attuali) che sono cresciuti in 8 anni (fonte Uil scuola) dal 12% del personale (2015) al 24% di oggi.

Un dato abnorme ed assurdo per uno Stato che dovrebbe erogare un servizio pubblico. Ciò è dovuto ad un sistema di reclutamento che definire inadeguato e frammentato è un eufemismo e che ha accresciuto i precari, dalla renziana Buona Scuola ad oggi. Fino a ieri però si trattava spesso di “precari tutelati”, in quanto molti ottenevano l’incarico annuale di 12 mesi o di 10 (integrabile con 2 mesi di indennità di disoccupazione), e quasi sempre si vedevano rinnovato il lavoro nell’anno seguente (ottenendo più punti, si saliva nelle graduatorie che vengono rinnovate ogni tre anni). Così ha funzionato negli ultimi 20 anni, per cui nella scuola abbiamo precari anche con 10-12 anni di lavoro, mai stabilizzati. Questo dimostra che il pubblico si comporta come il peggior padrone privato: nessuno tollererebbe 10-12 anni di rinnovi con contratti a tempo determinato.

Da settembre 2024 però non sarà più così. Il nuovo Ministro cambia musica. Si stima che 150mila precari che hanno insegnato per vari anni possano finire senza lavoro, in quanto le regole dei concorsi sono state cambiate: chi non ha l’abilitazione non può più andare in “prima fascia”, avvantaggiando i neo laureati che non hanno mai insegnato ma che si abiliteranno attraverso i 30 crediti (CFU, 120 ore di lezione), ottenuti pagando università statali o private o enti di formazione che li hanno avviati negli ultimi 12 mesi.

Chi invece ha lavorato negli ultimi 10 anni non si è mai potuto abilitare perché tali corsi abilitanti negli ultimi 10 anni non venivano organizzati. Ora, dovendo contemporaneamente lavorare, fa più fatica sia a farli che a pagarli e così rischia di rimanere senza lavoro, perché dall’anno prossimo avranno la preferenza coloro che hanno ottenuto l’abilitazione.

Il nuovo Governo ha infatti deciso che l’unico criterio per entrare in “prima fascia” sarà l’abilitazione, mentre gli anni di lavoro fatti conteranno pochissimo. Ciò dimostra che nella cultura dominante della scuola e di chi al Ministero fa le norme per selezionare gli insegnanti (ieri di sinistra, oggi di destra) il lavoro svolto di tanti anni non conta. Ma quelli che hanno lavorato sanno che è vero quello che ha detto benissimo Guia Soncini:Nessuno sa lavorare se non dopo anni che lavora, l’università nel migliore dei casi t’insegna a studiare, a lavorare t’insegna solo lavorare”.

Si stanno intanto concludendo gli esami del maxi concorso che recluta 45mila posti. Questa volta la copertura sarà integrale perché il nuovo Ministro ha deciso di renderli più facili. Mentre infatti nei concorsi precedenti su 100 posti disponibili ne venivano coperti circa 20, in quanto la selezione era durissima, ora è il contrario: su 100 posti disponibili coloro che superano l’esame di concorso sono il doppio, dei quali metà andranno a posto subito e l’altra metà avrà 3 punti in più in graduatoria, in attesa di sapere quale sarà il loro futuro di vincitori di concorso, ma senza il posto. Una cosa all’italiana, più unica che rara.

Al di là del fatto che questo ministro sembra meno autolesionista del precedente -che senso ha avuto, in anni passati, su 100 posti necessari reclutarne solo 20?-, in nessun caso tra i criteri di attribuzione punti in graduatoria vi è mai stato un punteggio significativo in base agli anni di lavoro svolti. Conta un esame scritto a base di quiz a crocette e, se lo passi, un orale che vede i seguenti punteggi: 40 per l’esposizione dell’argomento assegnato su cui ti devi preparare con 24 ore di anticipo, 35 per la metodologia con cui presenti la lezione, 20 per la domanda specifica e 10 per la conoscenza dell’inglese. Per il tempo di lavoro già prestato puoi avere massimo 6 punti (2 punti l’ anno per un massimo di 3 anni), i quali pesano per il 5% sul totale dei punti (95% teoria, 5% pratica).

Sarebbe stato equo dare la possibilità anche a questi insegnanti di ottenere l’abilitazione e, soprattutto, aggiungere un punteggio significativo per ogni anno di lavoro (accanto agli altri indicatori). Si può ragionevolmente supporre che più si insegna più si impara ad insegnare. Inoltre chi insiste ad insegnare in Italia può considerarsi motivato, visti i modesti salari…

Chi non si abilita sarà discriminato, con tanti saluti da parte di uno Stato che mostra il volto del peggior padrone privato. Intanto a settembre le scuole, soprattutto al nord, si ritroveranno come sempre con 250mila supplenti. Il Ministro Valditara continua a parlare del «grande piano di assunzioni» del governo Meloni e prevede a novembre un altro concorso (chiesto dal Pnrr). Ma non basterà certo per risolvere il problema strutturale delle assunzioni nella scuola italiana.

“Basi blu”, il programma della Marina Militare da 1.760 milioni di euro

“Basi blu”, il programma della Marina Militare da 1.760 milioni di euro

articolo originale su Peacelink del 16 agosto 2024

Risultano già finanziati 559,36 milioni. Il programma nasce dall’esigenza, di adeguare le capacità di supporto logistico delle principali Basi navali italiane (Taranto, La Spezia e Augusta), nonché di quelle delle Basi secondarie (Brindisi, Messina, Cagliari, Ancona, Venezia, Napoli e Livorno).
9 febbraio 2024
Documentazione Parlamento Italiano
Fonte: Programma pluriennale di A/R n. SMD 06/2023, denominato “Basi Blu”, relativo all’adeguamento e ammodernamento delle capacità di supporto logistico delle basi navali della Marina militare

Il programma in esame – si legge nella scheda tecnica – nasce dalla esigenza, di adeguare le capacità di supporto logistico delle principali Basi navali italiane (Taranto, La Spezia e Augusta), nonché di quelle delle Basi secondarie e di supporto logistico presenti nel Paese (Brindisi, Messina, Cagliari, Ancona, Venezia, Napoli e Livorno), in termini di spazio disponibile per l’ormeggio in banchina e di impianti preposti alla fornitura dei servizi principali. Oltre alla realizzazione delle opere marittime, funzionali ad ampliare le banchine disponibili per l’ormeggio, saranno potenziati i servizi essenziali di base, come lo scarico e il trattamento di acque nere e grigie, migliorate le capacità di distribuzione dei combustibili ed adeguate le reti elettriche sulla base delle maggiori esigenze di carico. La realizzazione di tali opere – si legge ancora nella scheda – consentirà alla nostre basi di avere una minore impronta ambientale e di adeguarsi ai nuovi standard della NATO, consentendo di ospitare gruppi navali dell’Alleanza o di altri Paesi alleati.

Di seguito sono indicati i principali interventi previsti.

Taranto. L’intervento – già parzialmente finanziato con il Fondo di sviluppo e coesione nell’ambito del Contratto istituzionale di sviluppo dell’area di Taranto – prevede il dragaggio dei fondali e il consolidamento strutturale delle banchine della Stazione Navale Mar Grande di Taranto, nonché l’ampliamento della stessa, con la realizzazione di due nuovi moli, di cui uno che sostituirà un molo già esistente ma non più rispondente al requisito. Inoltre, verranno adeguati i principali impianti presso tutti i posti d’ormeggio presenti nella Base.

La Spezia. L’intervento prevede di incrementare la capacità ricettiva della base navale e di ottimizzare gli spazi esistenti. Le attività infrastrutturali includono il dragaggio dei fondali, la ristrutturazione degli approdi esistenti e l’ampliamento del numero di ormeggi disponibili (attraverso la costruzione di nuovi moli e il banchinamento di spazi attualmente non necessari). Contemporaneamente verranno adeguati anche gli impianti elettrico, idrico, dati e imbarco combustibile presso tutti i posti d’ormeggio.

Augusta. L’intervento prevede una serie d’interventi finalizzati all’ammodernamento delle opere marittime e dei servizi in banchina presso le aree tecnico-operativa (banchina Tullio Marcon) e tecnico- logistica (tra cui l’Arsenale). Si prevede anche la realizzazione di una struttura operativa per l’Ufficio operazioni portuali, presso il compendio logistico-alloggiativo di Campo Palma.

Basi secondarie e di supporto logistico. L’intervento prevede l’ammodernamento delle infrastrutture, delle opere marittime e dei servizi in banchina della base di Brindisi, finalizzato all’ormeggio e al supporto logistico principalmente delle unità navali maggiori di nuova generazione impiegate per operazioni anfibie. È inoltre previsto l’adeguamento delle opere marittime, dei servizi e delle infrastrutture di supporto logistico e abitative presso le basi di supporto logistico destinate a ospitare il naviglio minore di nuova costruzione (CagliariMessinaAnconaVeneziaNapoli e Livorno).
Riguardo alle condizioni contrattuali e facoltà di recesso, la relazione precisa che le norme che disciplinano la materia contrattuale pubblica nell’ordinamento, peraltro di derivazione comunitaria, sono rappresentate dal nuovo Codice dei Contratti (D.Lgs. 31 marzo 2023 n. 36).

Porto di Augusta

Durata e costo del programma

Il programma è concepito secondo un piano di sviluppo pluriennale, di prevista conclusione nel 2033. Si fa presente che la scheda tecnica prevedeva l’avvio del progetto già nel 2023, articolandolo in 11 anni (2023-2033).

L’onere complessivo dell’impresa è stimato in 1.760 milioni di euro. Risultano già finanziati 559,36 milioni, a valere sul bilancio ordinario del Ministero della Difesa nell’ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente. Il completamento del programma, per il restante valore previsionale complessivo di circa 997,64 milioni, sarà realizzato attraverso successivi provvedimenti di finanziamento.

 

Quali sono i mezzi che compongono la Flotta Marina Militare?

Stando agli ultimi dati, risalenti al mese di marzo del 2022, la Flotta Marina Militare italiana è composta da 53 unità armate, così suddivise:

  • 2 Portaerei
  • 8 Sottomarini
  • 4 Cacciatorpediniere missilistici
  • 11 Fregate
  • 11 Pattugliatori d’altura
  • 4 Pattugliatori costieri
  • 10 Cacciamine
  • 3 Navi d’assalto anfibio

Queste unità della Forza Navale italiana sono organizzate in due gruppi da battaglia con capacità Blue-Water, ossia avente la possibilità di operare con larga autonomia e su vasta scala, lontano dalla madrepatria in pieno mare aperto. La nave ammiraglia, ossia quella su cui viene imbarcato lo Stato Maggiore della Forza Navale, oggi è la portaerei Cavour. La Flotta della Marina Militare vede coinvolte imbarcazioni appartenenti ad epoche radicalmente differenti: si va dalla più antica, ossia la Fregata Missilistica Libeccio, classe 1983, alla più moderna, ovvero il Pattugliatore d’Altura Polivalente Paolo Thaon di Revel, varato nel 2022.

Alle suddette unità armate, si aggiunge una moltitudine di imbarcazioni considerate “in disponibilità”. Queste, in caso di necessità, hanno la possibilità di essere convertite in navi da combattimento.

Fonte

Note: Comandi ed Enti della Marina Militare Italiana
https://www.marina.difesa.it/noi-siamo-la-marina/organizzazione/comandi-basi-enti/Pagine/default.aspx

Presto di mattina /
Edith Stein, o dell’empatia

Presto di mattina. Edith Stein, o dell’empatia

Umanità contemplativa

 Se ciò che io dico risuona in te,
è semplicemente perché siamo entrambi
rami di uno stesso albero.
William Butler Yeats

Venerdì 9 agosto sono andato al Carmelo a celebrare con le sorelle carmelitane, era la memoria di una santa loro consorella, filosofa e mistica e martire di origine ebraica, vittima della Shoah: Edith Stein, Teresa Benedetta della Croce, (Breslavia, 12 ottobre 1891 – Auschwitz, 9 agosto 1942) e pure patrona d’Europa.

Teresa Benedetta ha lasciato un’incisiva testimonianza di una donna intellettuale del secolo scorso che, spinta da una incessante ricerca della verità, la trovò nella forma di una umanità contemplativa: “una verità non senza amore e un amore non senza verità”.

L’umanità contemplativa è quella rivolta verso il Padre, e con quello sguardo del Padre nostro negli occhi guardare gli altri specialmente chi è povero, emarginato, sofferente; è un’umanità ospitale, come quella del Cristo sempre in ricerca degli smarriti di cuore, sempre in cammino con le donne e gli uomini incontrati lungo la via.

Così, nell’empatia, Edith scopre la giusta distanza per stare accanto agli altri e insieme per sentire dentro l’umanità dell’altro: la radice non è la foglia, i rami non sono il tronco eppure scorre in loro la stessa linfa. Ma non è forse anche il vangelo esperienza di empatia? E, non è forse il vangelo il riconoscersi e il sentire di Cristo in ogni uomo? «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).

Nel 1913 Edith è studentessa a Gottinga, frequenta le lezioni di Edmund Husserl sulla fenomenologia; diventa sua discepola e assistente e consegue con lui la laurea (summa cum laude) a Friburgo in Bresgovia. L’ultimo capitolo della tesi Il problema dell’empatia (Studium, Roma 1998), titola: L’empatia come comprensione delle persone spirituali.

Nella presentazione ad un’altra edizione della stessa tesi, il sociologo Achille Ardigò scrive: «Gli atti di empatia che compiamo verso un altro da noi non sono necessariamente e propriamente – la Stein lo sottolinea con grande nettezza – parte della mediazione culturale che attinge ad un patrimonio comune. Sono l’essenza della capacità di istituire comunicazioni intersoggettive sino a mettersi nei panni dell’altro, anche con sconosciuti, anche con stranieri; sono la condizione genetica di ogni comunicazione, quindi di ogni inizio di società.

Edith Stein, con una particolare freschezza e finezza di analisi introspettiva si direbbe che cerchi di ripensare in sintesi tutta la teoria dell’ammirato Maestro, attraverso questo concetto di esperire empatico… L’empatia si colloca, dunque come un ponte tra le due rive del fiume della vita personale e collettiva. Porta l’unità fenomenologica nella realtà duale» (E. Stein, L’empatia, FrancoAngeli, Milano 2002, 11-12; 13).

La fenomenologia aprì così a molti studenti di Husserl l’orizzonte della fede e la dimensione comunitaria proprio per questa “intenzionalità” della coscienza del volgersi fuori, ed uscire da sé, dal soggettivismo e sperimentare la realtà come conoscenza, intelligibilità derivante dal contatto con l’altro, come intersoggettività tra individui; il fenomeno dell’intreccio tra l’esperienza dell’io e quella dell’altro dà corpo alla verità senza ledere la libertà propria.

L’incontro con il filosofo Max Scheler la avvicina anche al cattolicesimo. Nel gennaio del 1915 superò l’esame di stato. All’inizio della prima guerra mondiale aveva scritto: “Ora non ho più una mia propria vita”. Durante la guerra frequentò un corso d’infermiera e prestò servizio in un ospedale militare austriaco presso i degenti del reparto malati di tifo. In particolare prestò servizio in sala operatoria, vedendo morire tantissimi giovani.

La fonte e la notte

Le letture della messa che narravano di due figure di valore del primo e nuovo testamento, la regina Ester e la Samaritana che incontra Gesù, mi sono sembrate empatiche per provare a tracciare un profilo di Teresa Benedetta della croce. Tanto che all’omelia ho iniziato così:

«Signore, manifestati nel giorno nella nostra afflizione, e a me dà coraggio” (Ester 4,17): è questa la preghiera che avvicina e fa corrispondere la regina Ester e la sua storia a quella di Edith Stein nella sua notte oscura, quando le SS piombarono nel monastero delle Carmelitane di Echt, in Olanda dove si era rifugiata. Edith prese per mano la sorella Rosa e disse: «Vieni, andiamo, per il nostro popolo».

Nel testo Essere finito ed essere eterno Edith scriveva: «Se l’anima si apre interiormente alla vita divina, essa stessa, e per suo tramite il corpo, viene formata ad immagine del Figlio di Dio, da essa partono “fiumi di acqua viva”, che hanno il potere di rinnovare mediante lo spirito il volto della terra» (in La mistica della croce scritti, Città nuova, Roma, 41).

Viene descritta qui la medesima esperienza: l’esperienza dell’essere cercati e del cercare Dio in “spirito e verità” nell’incontro con Gesù. Di qui il riferimento alla Samaritana, una pagina del vangelo che ha illuminato e dato forma alla ricerca di verità e alla vita di Teresa Benedetta della Croce.

Così la “fonte” e la “notte” e, per dirla con Giovanni della Croce, “il cantico delle sorgente”, mi sono sembrati le immagini di valore adeguate, almeno per oggi, per dire di colei a cui si addicono le parole di Dio al suo popolo, la sua intima empatia a questa donna figlia di Sion e serva di Yahweh; «Il Signore si è legato a te nel cuore e ti ha scelta… perché nella tua piccolezza il Signore ti ama» (Dt 7,7).

Così anche ora Teresa Benedetta della Croce ci affida il fluire dell’acqua viva che in lei è zampillata, quella della sua testimonianza carmelitana assimilata alla scuola di Giovanni della Croce:

Ben so io la fonte che sgorga e scorre, anche se è notte!
Quell’eterna fonte sta nascosta,
ma ben so io dov’essa ha sua dimora,
anche se è notte…
So ch’esservi non può cosa più bella,
che cieli e terra bevon d’ella, anche se è notte.
La sua chiarezza mai non s’offusca,
so che ogni luce da essa è venuta,
anche se è notte.
(Giovanni della croce, La fonte, “Cantico dell’anima che si rallegra di conoscere Dio per fede”).

L’esperienza della fede: uno schiarirsi delle tenebre

Significativo pure il ritornello del salmo: «Signore tu rischiari le mie tenebre».

Credere «non è un mero accettare il messaggio della fede solo per sentito dire − dice Edit Stein − ma un essere toccati interiormente e uno sperimentare Dio». Un immedesimarsi con l’altro. Così la fede è una forma radicale di empatia; l’empatia stessa di Gesù per i credenti, egli e il suo vangelo sono il luogo della fede: del suo principiarsi, del suo progredire e del suo andare verso un compimento.

Anche Edmond Husserl intuì la questione dell’empatia senza riuscire a trovare una chiara rappresentazione. La risposta venne proprio dalla sua studentessa e poi assistente Edith. Avviene con l’empatia un immedesimarsi, andando come a tentoni seguendo tracce, orme dentro di sé, un cercare le tracce degli altri, dell’Altro in “spirito e verità”.

Scrive nella Storia di una famiglia ebrea, Citta nuova, Roma 1992, 360: «Era un grande lavoro, perché la dissertazione aveva assunto dimensioni enormi. In una prima parte, ancora sulla scorta di alcuni accenni di Husserl nelle sue lezioni, avevo esaminato l’atto dell’“intuizione” come un particolare atto della conoscenza.

Di lì, tuttavia, ero arrivata a una cosa che mi stava particolarmente a cuore e di cui mi sono occupata in tutti i miei scritti successivi: la costruzione della persona umana. Nell’ambito di quel primo lavoro, questo esame era necessario per far capire come la comprensione di nessi intellettuali si distinguesse dalla semplice percezione di condizioni psichiche.

Riguardo a tali questioni le conferenze e gli scritti di Max Scheler, come pure le opere di Wilhelm Dilthey erano stati di grande importanza per me. Di seguito all’estesa mole di letteratura sull’intuizione che avevo preso in considerazione, aggiunsi alcuni capitoli sull’intuizione in campo sociale, etico ed estetico».

Empatia: il risveglio della coscienza, decisione della libertà per un cammino di trasformazione

«Si assimila la Scientia Crucis − dirà in seguito Teresa Benedetta della Croce − se si vive fino in fondo il peso della Croce, ma come è possibile questo?». La via è quella dell’immedesimarsi con l’altro, che tuttavia non genera una fusione, ma un’unione nella diversità, uniti nella differenza, salvaguardando e maturando la libertà di coloro che si immedesimano l’uno nell’altro.

Perché tutta la realtà (è uno dei principi della fenomenologia studiata da Edith Stein) può essere compresa, esperita solo in modo intersoggettivo attraverso l’esperienza di altri individui e quest’esperienza è detta appunto empatia. Sono i suoi legami reali, a volte faticosi e perfino drammatici, a permettere l’accesso alla realtà del mondo e a quella dello spirito.

Chiariamo. L’empatia non è un rispecchio emotivo, ma costituisce un invito, una chiamata a seguire dei «fili sottili, appena visibili», i quali suggeriscono una direzione promettente di sviluppo. Dall’empatia può nascere una sequela come quella tra Gesù e i suoi, tra la santa Madre Teresa d’Avila ed Edith. Essa non serve a nulla se non muove alla decisione, senza una partenza verso l’oltre, l’altrove. Senza mettersi in cammino l’empatia rimane sterile, frustrante: essa richiede e presuppone l’impegno, il gusto e lo sforzo delle relazioni.

È come una spinta che risveglia quello che in noi dorme, sonnecchia o è nascosto; quello che solo immedesimandosi con l’altro viene alla luce e fa sviluppare quanto è inespresso ancora in noi. L’empatia scopre nell’altro qualcosa che attrae e seduce. Geremia è l’esperto, ma anche Maria di Magdala non è da meno.

Edith−Teresa Benedetta attirata all’inizio da un’ospite inquietante come l’agnosticismo, poi il nichilismo incontrato nell’ambito universitario di Gottinga scopre, anzi è letteralmente sorpresa ed attirata da un ospite inatteso, che rinviene inizialmente attraverso la lettura di un libro, entrando per caso nella biblioteca di amici che l’ospitavano.

Era il testo La vita di Teresa d’Avila, e così attraverso Teresa scopre pure l’empatia verso il Cristo. È stato questo il momento chiave della sua vita: «Nell’estate del 1921 La vita della nostra Santa Madre Teresa mi era capitata tra le mani e aveva posto termine alla mia lunga ricerca della vera fede».

Era arrivata al Cristo non già per via di speculazione, bensì grazie a una profonda convinzione ottenuta attraverso il processo e la pratica dell’empatia. Così fu contagiata dalla stessa passione amorosa di Teresa per Gesù e la sua umanità, scoprendo attraverso la santa Madre che l’Amato è vivo ed era presente nel Castello della sua stessa anima e faceva strada con lei.

Il Castello interiore rappresentava la sua stessa anima, e la preghiera era la chiave del Castello e delle molte dimore. Se empatia è contatto con la realtà, partecipazione e acquisizione emotiva della realtà del sentire altrui, sarebbe stato allora possibile sentire cum Christo per Christo in Christo e da qui un «sentire comunitario e partecipato»: sentire cum Ecclesia e cum Mundo.

È possibile nascere di nuovo? Ogni volta che si ama e si è amati

È possibile, Signore, che sia nuovamente generato
chi ha già oltrepassato la metà della vita?
Tu lo hai detto, e per me fu realtà
Una lunga vita grave di colpa e di sofferenza
mi lasciò.
Sinceramente ricevo il bianco mantello
che essi mi pongono sulle spalle,
luminosa immagine della purezza!
Io tengo in mano la candela.
La sua fiamma annuncia
che in me arde la tua vita santa.
Il mio cuore è ora diventato una mangiatoia/che attende il tuo.
… Oh, nessun cuore d’uomo può comprendere
ciò che tu prepari a coloro che ti amano.
Ora ti possiedo e non ti lascio mai più.
Dovunque vada la strada della mia vita
tu sei accanto a me:
nulla mi può separare dal tuo amore.
(Testo poetico di Teresa Benedetta in Stare davanti a Dio per tutti. Vita. Antologia, scritti, a cura di Giovanna della Croce, Edizioni O. C. D., Roma 1991; citato in Città di vita, Marzo-Aprile 2/2004, 117).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Patria, individuo, impresa: l’educazione civica di Valditara

Patria, individuo, impresa: l’educazione civica di Valditara

La nuova proposta anticipa la revisione delle indicazioni nazionali e delle linee guida relative al primo e al secondo ciclo di istruzione. La scuola reagirà

Si tratta delle nuove linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica, che sostituiranno le precedenti, introdotte solo quattro anni fa dalla ministra Azzolina e rispetto alle quali la Flc Cgil aveva espresso riserve in assenza di scelte ordinamentali conseguenti in termini di tempi, spazi, risorse di organico.

Criticità tutte confermate, almeno a quanto è dato di sapere, considerato che il provvedimento, trasmesso al Consiglio superiore della pubblica istruzione, non è stato fino ad oggi inviato alle organizzazioni sindacali.

Dalle prime indiscrezioni, risulta che il testo delle linee guida definisca a livello nazionale curricoli prescrittivi, modificando radicalmente i traguardi e gli obiettivi di apprendimento e aggiungendo ulteriori contenuti. Di nuovo, e sempre “senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”, si cerca di scaricare sulle scuole la responsabilità di tutto ciò che viene definito “emergenza educativa e sociale”, dal bullismo/cyberbullismo alla violenza di genere, dall’abuso del digitale (dopo aver messo in campo scelte politiche e risorse tutte a sostegno del digitale come panacea di tutti i mali) all’incidentalità stradale, dalle dipendenze da sostanze all’educazione alimentare allo sport.

Ma soprattutto, l’operazione che sta per essere portata a termine anticipa la più complessiva revisione delle indicazioni nazionali e delle linee guida relative al primo e al secondo ciclo di istruzione, nel tentativo di imporre alle scuole di ogni ordine e grado la visione ideologica ben nota del ministro Valditara e dell’intera compagine governativa.

La prospettiva della nuova educazione civica è chiara: formare al significato e al valore della Patria, rafforzare la coscienza di una comune identità italiana, secondo una logica identitaria-nazionalistica e individualistica. A questo scopo viene addirittura attribuito strumentalmente alla carta costituzionale un profilo “personalistico” distorto e pervasivo per cui la società esiste solo in funzione dello sviluppo dell’individuo; per il resto l’approccio al tema della Costituzione rimane di tipo nozionistico, associato alla conoscenza dell’inno e della bandiera nazionale. Nulla si dice della matrice antifascista e dei valori democratici fondanti, perché lo scopo è rafforzare il senso di appartenenza alla comunità nazionale

Una prospettiva, quella del senso di appartenenza alla Patria, implicita anche nel significato e nel valore attribuiti all’integrazione delle/gli alunne/i che provengono da contesti migratori, in un’ottica assimilazionistica e adattiva, sottovalutando che solo la chiave di lettura interculturale e la pedagogia inclusiva possono offrire gli strumenti per affrontare le sfide del futuro.

E poi i richiami alla cultura del lavoro, da insegnare fin dal I ciclo, pari pari coincidente con la cultura d’impresa intesa come iniziativa economica privata basata sulla proprietà privata. E ancora all’educazione finanziaria e assicurativa come strumento per valorizzare e tutelare il patrimonio privato confermano l’idea di scuola aziendalistica, funzionale a un sistema che tutto subordina all’economia del profitto.

Si tratta, quindi, di linee guida che intenzionalmente non colgono la complessità del reale, rivolgono uno sguardo nostalgico al passato e sono portatrici di una sottocultura miope e reazionaria che sicuramente la scuola italiana saprà respingere per affermare il valore di una conoscenza laica, plurale, inclusiva e democratica.

Manuela Calza, segretaria nazionale Flc Cgil

 

Un trimestre (di buon reddito) non fa primavera

Un trimestre (di buon reddito) non fa primavera

Esulta il Governo, perché l’Ocse dichiara che i redditi reali delle famiglie (media per abitante) in Italia sono cresciuti nel 1° trimestre del 2024 più che in tutta Europa e Usa (+3,4% a fronte di una media Ocse di +0,9%). Ma è lo stesso Ocse a ricordare che siamo ancora sotto del 5,4% rispetto al livello raggiunto nel 2007 prima della grande recessione, mentre tutti gli altri Paesi sono già ritornati sopra. Gli andamenti dell’economia sono significativi considerando almeno un anno sull’altro (non un trimestre sull’altro); inoltre bisognerebbe non dividere il reddito generato in modo piatto tra tutti gli abitanti (ottenendo la media del pollo di Trilussa), ma considerando chi ha avuto forti incrementi (e sappiamo chi sono, i ricchi e super ricchi) e chi invece (poveri, operai, ceto medio) non ha avuto aumenti reali post inflazione.

L’opposizione ha potuto facilmente rispondere che, se si considera il periodo di Governo del centro-destra (dal 3° trimestre 2022 ad oggi) l’incremento dell’Italia è inferiore (+1,9%) a quello medio Ocse (+2,8%) e non poteva che essere così vista:

la bassa dinamica dei salari

la riduzione degli aiuti ai poveri

il taglio dell’indicizzazione di 3 milioni di pensioni

la mancata introduzione del salario minimo, presente in quasi tutta Europa.

Il confronto con la Germania fa capire quanto reddito abbiano perso gli italiani dal 2007 ad oggi. Ben venga l’aumento del 1° trimestre 2024, dovuto anche agli ingenti investimenti del PNRR (che non ci saranno più dal 2028). Il problema sono gli investimenti strutturali, che mancano in Italia. Ma quando le cose vanno bene per le imprese come per banche, assicurazioni, imprese energetiche, (lauti ricavi e ancor più lauti profitti), c’è una gran corsa a distribuire i dividendi agli azionisti più che ad investire.

Kimia Yousofi, Julio Velasco: come fare politica senza essere politici

Kimia Yousofi, Julio Velasco: come fare politica senza essere politici.

Di Imane Khelif, ora fresca medaglia d’oro del pugilato algerino, questo giornale si è già occupato qui. Oltre a lei, ci sono altre due figure dell’Olimpiade di Parigi appena terminata che si stagliano nette sopra l’orizzonte virtuale di Periscopio.

La prima è quella di Kimia Yousofi, atleta afgana portata a Parigi dalla federazione australiana, nazione dove vive attualmente. Nel 2021 a Tokyo aveva fatto da portabandiera ufficiale dell’Afghanistan. Subito dopo la fine di quelle Olimpiadi, il suo paese tornò nelle mani oscurantiste e feroci dei talebani. A Parigi è stata eletta nuovamente portabandiera del suo paese, ma stavolta ad opera di un “comitato olimpico afghano” in esilio, ed ha corso una batteria dei 100 metri arrivando nettamente ultima. Al termine della gara, ha rovesciato il pettorale e, a favore delle telecamere, ha mostrato cosa ci aveva scritto sopra: “Istruzione, i nostri diritti“. Ai microfoni ha poi rincarato la dose: “Non mi sono mai occupata di politica, faccio solo ciò che ritengo sia vero e giusto. Posso parlare con i media. Posso essere la voce delle ragazze afghane. Posso dire cosa vogliono: vogliono diritti fondamentali, istruzione e sport. Questa è la mia bandiera, questo è il mio paese”.

Attraverso un gesto elementare come scrivere quattro parole a penna, Kimia Yousofi ha compiuto un atto politico di portata enorme. Ha utilizzato un palcoscenico globale per rivendicare quello che le donne afghane chiedono ma senza poterlo fare, se non a rischio della vita. Ha riacceso un faro sulla tragica situazione dell’Afghanistan, del quale i media mainstream non parlano più da quando il potere è tornato ad essere talebano. La potenza del suo gesto è paragonabile a quella, forse ancora più dirompente, di Tommie Smith e John Carlos, oro e bronzo per gli Stati Uniti ai 200 metri maschili delle Olimpiadi del 1968, che alzarono un pugno chiuso guantato di nero sul podio durante l’inno americano. “Quei pugni alzati erano dedicati a tutti quelli che erano a casa, nei quartieri poveri di Chicago, Oakland e Detroit, a chi stava nel Queens e a Brooklyn, a tutti i fratelli e le sorelle, i padri e le madri a Birmingham, Atlanta, Dallas, Houston, St Louis, New Orleans” dichiarò Tommie Smith nella sua autobiografia. Il gesto è del 16 ottobre: ricordiamo che il 4 aprile dello stesso anno fu assassinato Martin Luther King.

 

Uno dei propositi dichiarati di Periscopio è quello di fare un’informazione “verticale”. Tecnicamente, nel gergo aziendale, la comunicazione verticale è quella che trasmette informazioni tra diversi livelli della struttura organizzativa. Julio Velasco, allenatore della nazionale femminile di pallavolo vincitrice dell’oro a Parigi, è un esperto di comunicazione verticale. Talmente esperto che molte aziende lo chiamano per tenere seminari ai capi su come si costruisce e si gestisce un gruppo di lavoro.

La stampa e i media sono intasati in questi giorni soprattutto dal riportato delle frasi di Velasco, che vengono circondate da un’aura profetica che lo accredita come una sorta di santone laico: etichetta che lo stesso coach argentino si incarica di togliersi di dosso, ogni volta che riafferma il contrario di quello che gli vorrebbero mettere in bocca i giornalisti: che non è un maestro di vita; che non ha chiuso nessun cerchio, non avendo rimuginato affatto in questi anni sulla circostanza di non avere ancora vinto un’Olimpiade; che la stampa italiana deve piantarla di nutrire un’ossessione per la vittoria che genera solo ansia. Un elemento di curiosità nella storia dell’argentino trapiantato in Italia è sicuramente il passaggio da militante comunista negli anni immediatamente precedenti l’avvento della sanguinaria dittatura di Videla, a “precettore” di manager che vogliono carpire dalle sue labbra i segreti per essere un buon leader. Il cerchio che si chiude allora potrebbe essere: da precettore destituito (ai tempi di Videla, per ragioni politiche) a precettore osannato (e ben pagato) dai padroni del vapore. Infatti sospetto che, più che nella filosofia – se uno ha studiato filosofia non deve essere per forza il nuovo Immanuel Kant – lui eccella in senso pratico. Alla domanda su come si sopravvive alla dittatura, risponde: “Dipende dal tipo di dittatura. Innanzitutto, non bisogna mai perdere le misure di sicurezza, altrimenti si rischia di non raccontarla. In Argentina, molta della gente uccisa le aveva sottovalutate. Ad esempio, mio fratello fu preso a casa di mia madre. Non militava più e si sentiva sicuro. Sbagliava. In secondo luogo, resistere. Non solo politicamente. Nelle piccole cose. Bisogna sforzarsi di non diventare come gli altri, come quelli che fanno da sostegno alle dittature. Quindi è fondamentale essere onesti e accettare le differenze. Di ogni tipo”. Accettare e comprendere le differenze, altra dimostrazione di pragmatismo: una volta capito che certe leve (ad esempio, l’orgoglio) funzionavano sui maschi ma non sulle femmine ha avuto l’intelligenza di cambiare approccio, investendo energie sulla componente affettiva e togliendo un po’ della polvere dei secoli di educazione patriarcale che condizionano l’agire femminile: la donna non deve rischiare, e non deve fare errori (altro motivo per non rischiare).  L’autorevolezza che gli viene riconosciuta ben oltre i suoi eccellenti trascorsi agonistici, deriva anche dal fatto di saper ascoltare e modulare le proprie convinzioni sulla situazione concreta. Come è tipico delle grandi personalità (e quindi anche raro), mentre è lui che esce da se stesso per incontrare l’altro (per usare le sue parole), sembra essere il mondo ad andare verso Velasco.

La cosa che mi sento di rimproverare non a lui, che appare davvero una magnifica persona, ma al velaschismo modaiolo aziendalista, è che quello che è riuscito a fare con le azzurre di volley, ovvero cementare un gruppo lacerato da alcuni ego ipertrofici, può essere un ottimo insegnamento anche per le aziende, a condizione che si comprenda che un’azienda non è una squadra di pallavolo o di calcio, e che la competizione aziendale non equivale alla competizione agonistica. Quando Velasco racconta ai manager che teneva bassi i compensi fissi e massimizzava i premi di risultato per selezionare i giocatori sulla base della loro disponibilità incondizionata – cioè non condizionata da un compenso economico sicuro – un brivido mi corre lungo la schiena: non per disistima verso l’oratore, ma per la capacità di equivocare del suo uditorio. L’aneddoto ha senso in un contesto agonistico in cui la performance è parte integrante del contenuto della prestazione, ma può essere molto pericoloso se calato bovinamente nelle aziende: ci sono già troppi fenomeni che rappresentano il lavoro quotidiano come un torneo, dove però a vincere sono solo gli amministratori delegati e i grandi azionisti. 

Parole a Capo
Tania Chimenti: “Sono la più grande ottimista” e altre poesie inedite

Nominare un oggetto equivale a sopprimere i tre quarti del godimento della poesia, che è dato dall’indovinare poco a poco: suggerirlo, ecco il sogno.
(Stephane Mallarmé)

 

Sono la più grande ottimista.
Quando arriva la telefonata,
penso all’invito ad una festa
o alla vincita:
“Buongiorno,
dunque lei è l’infermiera?
Magari c’è un errore,
un semplice scambio di nome.”
L’avviso respingo,
rinnego ogni referto,
chiamo in mia difesa la gioia:
le ultime sbronze con le donne,
le giornate più liete di poesia.
“Nessun indugio, vada al sodo.
Preferisco la lama fendente
alla diagnosi incerta,
al dubbio indecente.
La morte è sincera,
non promette.
Dica, dunque, sono di fretta.”

 

*

 

Moriremo
per sfinimento, come
falene librate ai lampioni.
Meglio sarebbe accettare
le ombre, forse i bui,
senza foro d’uscita
dello sparo:
la luna.

 

*

 

La gioia è appoggiata ai teli
sulle ringhiere dei terrazzi,
le case al mare lo sanno.
Mentre i giovani asciugano
i capelli al vento
nessuno si accorge del tempo:
le efflorescenze saline
risalgono, coprendo
di bianco.

 

*

 

Promettiamoci
che chi di noi
andrà via prima
lascerà aperta
la fessura dei mondi
ascolteremo
contaminazioni
canti
voci
rivelazioni.
Promettiamoci
che nessun
agghiacciante silenzio
sarà un addio.

 

*

 

È controvento
Che misuriamo la potenza del volo
La struggente sensazione di cadere
Gli occhi sprofondano nel precipizio
Poi finalmente il decollo
Il vento in faccia
Impiuma come ali
Le nostre braccia

 

(Ringrazio Tania Chimenti per averci inviato queste poesie inedite)

TANIA CHIMENTI (Bari, 1968). Da sempre legata alla sua città natale, è qui che ha completato gli studi scientifici e conseguito la laurea in Giurisprudenza.
Inizialmente responsabile del personale in una multinazionale, attualmente è consulente aziendale. La passione poetica è personale ma diventa bisogno di condivisione e urgenza di esplorare.
Ha partecipato a diversi concorsi ricevendo menzioni di merito e le sue liriche sono presenti in alcune antologie. Ha pubblicato la sua prima silloge poetica “Abbracciami Cielo” nel marzo 2023 e la sua seconda silloge nel 2024 “Versi orfani di ignoto destinatario” (Macabor editore). In “Parole a capo” sono state pubblicate altre poesie di Tania Chimenti il 16 novembre 2023.

La redazione di “Parole a capo” informa che è possibile inviare proprie poesie all’indirizzo mail: gigiguerrini@gmail.com per una possibile pubblicazione nella rubrica. 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 242° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

Vite di carta /
“La portalettere” di Francesca Giannone.

Vite di carta. La portalettere di Francesca Giannone.

“Devi leggere La portalettere, è troppo bello. Lo cominci e non ti stacchi più”. Dopo essermelo sentito dire più e più volte, ho chiesto e avuto in prestito il libro da Federica, che è nel gruppo di lettura della biblioteca del mio paese.

Eccomi qui ad aspettarla davanti al nostro bel Castello Lambertini da poco restaurato. Non esco mai di pomeriggio e oggi fa molto caldo, ma per un libro… Federica arriva e riparte sulla sua auto in un battito di ciglia, eppure fa in tempo a sorridere porgendomi il volume e a dirmi che le fa piacere passarmelo. “Buona estate, e grazie” le rispondo, grata per questa sintonia.

La sera comincio la lettura senza sapere nulla sulla trama e sulla scrittrice. Ho aspettative altissime e il senso critico a mille: in queste condizioni è difficile stabilire una sereno patto tra me lettrice e la voce narrante. Difatti per le prime cento pagine procedo attratta dal racconto ma anche pronta a trovarci qualche difetto, come nel caso di Anna, la protagonista, che ha una personalità forte, ma poco sfumata. Così monolitica da risultare inverosimile.

Vengo catturata alla distanza. Il respiro della storia è lungo quattrocento pagine e mentre procedo ne riconosco l’istanza narrativa: ecco un altro bel romanzo del nostro realismo otto-novecentesco, che in questi anni mi risulta praticato da altri apprezzati autori, con un impianto narrativo solido e articolato su molti personaggi, e un ambiente ben definito che fa da spazio vitale alle vite che dentro vi disegnano il loro percorso.

Come mai gli altri non sono più riusciti a staccarsi dalla lettura? Perché la voce che narra ottiene la nostra fiducia, portandoci in un paese del Salento, Lizzanello, come fossimo al seguito di Anna Allavena, che dalla Liguria ci arriva con la corriera nel 1934.

Va a viverci col marito, che lì è nato e ora ha avuto casa e terre in eredità, e col figlio piccolissimo. Come lei ci guardiamo intorno straniati, e subito notiamo come è fatta la gente al sud e come ci si vive. Le risorse della terra e del clima e una mentalità chiusa.

Comincio a sentirmi proprio a casa quando si parla del cibo e si nomina Lecce. Sono conquistata dalla pagina in cui alcuni personaggi vanno alla pasticceria Alvino, in piazza Sant’Oronzo, e gustano i pasticciotti, che conosco anche come buccunotti, per come li chiamava mia suocera.

Mi si para davanti agli occhi la scena dal film Le mine vaganti di Özpetek, in cui Ennio Fantastichini compera una grossa guantiera di dolci per gli ospiti che ha a casa: amici del figlio venuti da Roma che egli si ostina a vedere come giovanotti dalla virilità prorompente e invece sono gay.

Cara Lecce, bellissima e deserta in altre scene, con il barocco delle chiese che parla la più bella lingua del mondo e ostenta il colore caldo del tufo anche sullo schermo.

Ma torniamo al romanzo. Alle spalle di Anna ci intrufoliamo nella raggera di parenti e amici che prendono posizione attorno a lei nel tempo. Entriamo nella piazza del paese e nelle botteghe, nella casa ereditata e in quella del fratello del marito.

Quando lei caparbiamente fa la domanda per occupare il posto di portalettere, frequentiamo l’ufficio postale e la mattina di ogni santo giorno suoniamo campanelli e bussiamo a porte e portoni.

Anna non se ne è andata dopo il primo impatto come fa la signorina elegante nella novella verghiana Fantasticheria: fino al 1961, anno della sua morte, si aggrappa allo stesso scoglio dei compaesani, entra un minuto nelle loro case per leggere le corrispondenza a chi è analfabeta e sa trovare le parole giuste di fronte a missive importanti.

Di una mia prozia, postina storica al mio paese, si diceva che volente o nolente sapeva tutto di tutti, e che negli anni dell’ultima guerra doveva bere un goccetto prima di portare a certe madri il telegramma con la notizia della morte del figlio caduto in combattimento.

Poi Anna fa di più: fonda la Casa per le Donne, occupando l’abitazione che è stata di un’amica a cui ha dato aiuto per anni e che da tempo vive con lei. Insieme accolgono ragazze abbandonate e prive di mezzi. A questo doveva prepararci il sommario in copertina: ” Italia, anni ’30. Un paesino del Sud. Una donna del Nord. Un incontro che cambierà entrambi”.

Questa donna del nord, scopriamo alla pagina dei ringraziamenti, è la bisnonna di Francesca Giannone, che ne ha ricostruito la storia a partire dal biglietto da visita con su scritto Anna Allavena – Portalettere”. Ha anche lavorato di fantasia, ha modificato e rimaneggiato le storie familiari “per restituire al meglio… il paesaggio e l’atmosfera del territorio”, in cui peraltro è tornata a vivere dopo avere vissuto e lavorato a Bologna.

 La forza di questo romanzo sta nella compattezza che sa assegnargli la voce narrante, capace di controllare ogni rivolo narrativo e di intrecciarlo con gli altri, mantenendo fluida la esposizione e fluido lo stile.

So di andare a saccheggiare la nostra storia letteraria, come deve avere fatto anche Giannone, e di rispolverare due categorie narrative della tradizione più illustre: la prima è l’entrelacement, ovvero la matassa di fili narrativi magistralmente orchestrata da Ariosto nel Furioso; l’altra corrisponde al verosimile manzoniano, in cui si fondono gli elementi del vero storico e della invenzione romanzesca e ne esce quel “bravo figliuolo” di Renzo, che se fosse vero non potrebbe essere diverso da come lo ha immortalato la pagina.

Ne La portalettere sono molti i personaggi ben riusciti, tipi umani credibili e dalla psicologia anch’essa verosimile, e non mi riferisco tanto ad Anna – come dicevo – quanto a una folla di personaggi minori. Alcuni abitanti di Lizzanello, per esempio, sbalzati con pochi sicuri tratti di penna sullo sfondo del paese con la sua ritualità all’apparenza immobile.

Come il fruttivendolo, che somiglia tanto a Gilda, la venditrice di erbe al mercato rionale di Taranto da cui ricevevo ogni volta un ciuffetto di menta in più o il dono di una pesca.

Nota bibliografica:

  • Francesca Giannone, La portalettere, EditriceNord, 2023

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Le voci da dentro /
La “battitura” in Val Susa: il messaggio dai domiciliari di Nicoletta Dosio

La “battitura” in Val Susa: il messaggio dai domiciliari di Nicoletta Dosio

Giovedì 8 agosto. I rintocchi del mezzogiorno giungono di lontano sulle ali del vento che in Valle non manca mai, neppure nell’afa pesante della canicola.

Nonostante il brevissimo preavviso, le donne e gli uomini del movimento NO TAV sono venuti a condividere con me questa mezz’ora di solidarietà verso i detenuti nelle carceri e nei CPS di tutt’Italia.

L’iniziativa, partita dalle prigioni, prevede la “battitura”: chi è rinchiuso, batte su inferriate e blindi con i poveri mezzi che la detenzione permette. Condividere la protesta ci sembra giusto, bello e doveroso; per questo motivo, qui davanti a casa mia si è data appuntamento almeno una cinquantina di persone con oggetti da cucina, tamburelli, sonagli e c’è perfino un rudimentale olifante… e a chi non ha portato strumenti basta una pietra da battere sulla cancellata. Tra tutti c’è una dolcissima ragazzina, occhi azzurri e capelli biondi, l’immagine di un futuro che chiede di sapere. La sua presenza ha la grazia e la meraviglia delle prime, importanti esperienze.

Loro sulla strada, io al di là del cancello, reclusa ai domiciliari.

Parte la battitura, rumorosa, un po’ surreale tra tutto questo verde di siepi, alberi e giardini.

Io, nella mia condizione di detenuta sì, ma in una casa ampia e quieta, protetta dai cedri centenari, non posso non ricordare chi soffre il caldo torrido dell’estate in una cella due metri per tre, in edifici fatiscenti e sovraffollati, lontano dagli affetti e sottoposto ad ogni arbitrio fisico e psicologico da parte di guardiani incattiviti per professione e alienazione.

Il non-tempo di quel non-luogo l’ho provato anch’io, quattro anni fa, per tre mesi: pochi, ma sufficienti ad alimentare in me una rabbia che non passa e a rafforzare la tenerezza per le donne recluse nel blocco femminile delle Vallette, mie sorelle per sempre.

Per fedeltà e per affetto batto col mio bastone alle sbarre del cancello e racconto: il sovraffollamento sempre crescente, la desolazione dei rapporti impediti con le famiglie, la nausea della sbobba carceraria, i muri scrostati e i materassi pieni di macchie, le tre docce a funzionamento intermittente per cinquantanove persone, la mancanza di aria e di luce, la rozza prepotenza di certe secondine, il vuoto alienante dei giorni festivi, privi anche dei contatti minimi con l’esterno e le storie personali di miseria, violenze subite, malattia, le rotte insidiose dell’emigrazione e la nostalgia per i propri cari lontani, la preoccupazione per i figli piccoli.

Per molte di loro il carcere è tortura presente e, insieme, unico punto fermo rispetto alla mancanza totale di prospettive rispetto al dopo-carcere.

Leggo pubblicamente la bella lettera che due mie compagne tuttora rinchiuse nel carcere di Torino hanno inviato al mondo fuori, a nome di tutti i detenuti, per denunciare la situazione sempre più insostenibile, così crudelmente insopportabile e alienante da far preferire il suicidio.

L’appello accorato che da quelle pagine è rivolto a chi, eletto nelle istituzioni, dovrebbe far rispettare la Costituzione nata dall’antifascismo e dalla Resistenza stride più che mai rispetto alle leggi manettare varate in questi giorni dal Parlamento italiano: essere poveri, rivendicare uguaglianza e dignità, lottare per la giustizia sociale e ambientale, opporsi concretamente alla follia di un sistema che sta distruggendo ogni prospettiva di futuro, ecco i “reati” contro cui agirà con pugno di ferro il braccio giustiziere della legge.

Contro tanta ingiustizia urge rompere l’indifferenza del “mondo di fuori” straniato dai mass media di regime e congelato nell’“interiorizzazione della sconfitta” che uccide forza e iniziativa.

Le “voci dentro” parlano di noi tutti e ci avvertono che il tempo della delega è scaduto: che non cadano nel silenzio!

Nessuno sarà veramente libero finché ci saranno incatenati.

L’alternativa al carcere esiste ed è la giustizia sociale.

La mezz’ora di “battitura” passa veloce. Ognuno se ne va, ma senza fretta, quasi a malincuore.

Ci rivedremo a mezzogiorno del quindici agosto, quando l’iniziativa si ripeterà in tutte le carceri italiane.
La data non è casuale: il Ferragosto in galera è un supplizio che non finisce mai.

Ed ecco il messaggio delle “voci dentro” che Nicoletta ha condiviso ieri dai suoi domiciliari:

In un clima “rovente, non solo per le temperature, scriviamo questa lettera dalla sezione femminile del carcere di Torino. Siamo due “ragazze” qui recluse e ci facciamo portavoce del pensiero e della necessità di molti altri reclusi. Il detto “stare al fresco” non si addice più a nessuna galera, perché ormai scontiamo le nostre pene stipati, nascosti e dimenticati in questi “magazzini di corpi” che sono polveriere in cui non c’è rispetto, né dignità, né futuro. La misura è colma, anzi stracolma… Quando la bomba esploderà di chi sarà la colpa?

Si soffoca, c’è una pressione insostenibile in tutta la comunità penitenziaria che è costituita da detenuti e detenenti! Ci rivogliamo a tutto il Parlamento: “Disinnescate la bomba”. Non c’è più tempo e c’è una responsabilità politica diffusa in tutto ciò. Non abbiamo più neppure il diritto ad iniziative pacifiche come lo sciopero della fame. Tutto ormai ci mette a rischio di ritorsioni o denunce. Non sappiamo come fare per essere ascoltati. Scriviamo per far arrivare “oltre il muro” la richiesta di misure straordinarie che diano equità e giustizia al sistema penitenziario come liberazione anticipata speciale, amnistia, indulto; non come forma di impunità generalizzata, ma che siano una risposta all’emergenza umanitaria che viviamo. Qui dentro non ci sono i “banditi”, i “mostri”, qui dentro sono ingabbiati per lo più i corpi di coloro che incarnano disagi di ogni tipo.

La realtà è che la dignità umana è un concetto estraneo, così come la risocializzazione. Il sistema giustizia-carcere è fuorilegge. Sostanzialmente incostituzionale, produce altro carcere, rabbia, non imprime legalità, non dà futuro, porta all’alienazione e alla morte. Il potere centrale si nasconde dietro a misure slogan, mentendo apertamente e lasciando tutto nelle mani dei direttori.

Chiediamo ai garanti, specie a quello nazionale, di battersi per i nostri diritti. All’opposizione dichiamo fate opposizione. Tutti gli eletti, anche i più “manettari”, devono garantire il loro servizio rispettando la Costituzione. Ci sentiamo di rivolgerci al Presidente Mattarella affinchè scuota l’indifferenza dei decisori, del ministro, della politica! In lui riponiamo le nostre ultime speranze. Grazie!

Nicoletta Dosio

Cover: Nicoletta Dosio, detenuta agli arresti domiciliari, davanti al cancello del carcere

Olimpiadi 1, quello che non ci manca:
il (positivo) modello italiano

Olimpiadi 1, quello che non ci manca: il (positivo) modello italiano 

Chi ha vinto le Olimpiadi di Parigi? I media dicono gli americani e i cinesi a pari merito per medaglie d’oro (40), nonché 126 in totale per gli Usa e 91 per la Cina; ma se consideriamo la popolazione, in realtà a vincere anche quest’anno è stata la Nuova Zelanda che ha vinto 47 medaglie (di cui 10 d’oro) con una popolazione inferiore ai 5 milioni di abitanti. In questa mia speciale classifica fatta in base agli abitanti seguono Australia, Ungheria, Giamaica. In questa classifica ho considerato 3 punti per l’oro, 2 per l’argento e 1 per il bronzo e rapportando la somma che risulta agli abitanti, l’Italia è al 18° posto (era al 17° a Tokyo). Tra i grandi paesi meglio dell’Italia fanno Francia, Regno Unito e Sud Corea, ma veniamo prima di Stati Uniti, Cina, Giappone, Germania, Spagna e Brasile.

Classifica in base al totale delle medaglie (oro=3 punti, argento= 2, bronzo =1) e totale in rapporto agli abitanti (clicca sulla tabella per il dettaglio)

Avanzano i paesi poveri e africani anche se, per ora, alimentano i paesi ricchi di molti dei propri atleti (vale anche per la Russia, vedi la pallavolista Ekaterina Antropova, italiana da un anno o Andy Diaz Hernandez, cubano 3° nel salto triplo) i quali da giovani vengono individuati dai “cacciatori di talenti”, e migrano volentieri verso i paesi ricchi che offrono loro volentieri cittadinanza, soldi e supporto sportivo, e li inseriscono nelle nostre scuole superiori, che sono di fatto “obbligate” a promuoverli. Circa metà delle medaglie italiane sono di immigrati o figli di immigrati. E’ (in apparenza) paradossale che la vincitrice dell’ultimo podio – la maratona femminile, gara simbolo delle Olimpiadi – sia l’ olandese Sifan Hassan, una musulmana che porta il velo sul podio olimpico. Da un lato ciò dà la misura della crescente presenza di immigrati e figli di immigrati nei paesi ricchi e del crescere del multiculturalismo nelle società occidentali, dall’altro provoca la reazione sempre più forte di una parte dei cittadini (vedi le recenti manifestazioni nella, un tempo tollerante, Gran Bretagna) rispetto ad una immigrazione che viene ritenuta troppo rapida e portatrice più di svantaggi che di vantaggi.

Una delle caratteristiche delle “vecchie” Olimpiadi è che potevano partecipare solo i dilettanti e non i professionisti. Col tempo ci si è resi conto che la manifestazione avrebbe assunto maggior valore se avessero potuto partecipare tutti i migliori atleti. Oggi partecipano di fatto anche i professionisti (per citare solo i più ricchi, dai tennisti a Lebron James, il giocatore Usa di basket pagato 40 milioni di dollari all’anno). Le Olimpiadi hanno così mostrato quanto siano in parte gonfiati certi miti, sport e tornei, come quello dei professionisti basket NBA Usa, la cui squadra ha battuto di pochissimo la piccola Serbia nelle semifinali, dopo essere rimasta sotto di 10 punti (ed aver toccato anche il meno 17) per 3/4 della partita e aver vinto solo nell’ultima fase, anche a causa del ridotto numero di giocatori della Serbia che hanno pagato la penuria di cambi rispetto allo squadrone americano, oltre che un paio di scelte arbitrali molto discusse (95 a 91 il risultato finale).

LItalia ha conquistato 12 medaglie d’oro (2 in più di Tokyo) ed è interessante vedere come l’ottimo risultato sia il prodotto di un modello pubblico di supporto agli sport “minori”. Pur non avendo sponsor o società sportive che possono mantenere gli atleti nelle categorie con minori spettatori (che minori non sono), ha adottato una strategia che potremmo definire “pubblica”: gli atleti migliori vengono assunti tramite concorso pubblico – riservato a chi ha raggiunto determinati risultati a livello nazionale o internazionale – da alcune organizzazioni militari o civili in qualità di volontari in ferma prefissata di 4 anni (polizia, esercito, marina, aviazione, guardia di finanza, vigili del fuoco). Ciò garantisce a questi atleti la libertà di allenarsi a tempo pieno nei centri sportivi senza dover lavorare, con uno stipendio analogo a quello dei colleghi. Al termine della carriera agonistica gli atleti possono rimanere in servizio e qualificarsi come istruttori, allenatori, preparatori atletici, massaggiatori presso i centri sportivi nazionali, oppure partecipare ai concorsi interni e progredire nella carriera. Il maggior numero viene assorbito dalla Polizia di Stato (Fiamme Oro) con 101 atleti, seguito dalla Guardia di Finanza (Fiamme gialle) con 54. Seguono: Esercito 39, Carabinieri 33, Aeronautica 25, Polizia penitenziaria (Fiamme azzurre) 23, Marina 18, e Vigili del fuoco (3 atleti delle Fiamme rosse). Ciò ha consentito a ben 296 atleti sui 403 italiani (73%; erano il 70% alle precedenti Olimpiadi di Tokyo) di partecipare alle Olimpiadi di Parigi assieme ad altre 207 compagini nazionali, di vincere 40 medaglie (12 ori, 15 argenti e 12 bronzi) e di portare più atleti (403 contro 384). Il modello organizzativo dell’Italia, sempre più imitato anche dai paesi poveri, dimostra che senza una organizzazione pubblica avremmo alle Olimpiadi solo gli atleti sponsorizzati dalle grandi società private e dagli sponsor, limitando non solo le vittorie ma la partecipazione allo sport di migliaia di giovani (basta fare un confronto coi pessimi risultati nel calcio).

Le Olimpiadi sono un evento di valore mondiale e mostrano come lo sport possa essere trattato ancora come un bene comune, oltreché essere una straordinaria forma di sviluppo umano e di apprendimento, capace di superare ogni divisione. Peccato che si siano voluti penalizzare gli atleti della Russia, Bielorussia, Iran, etc. cioè l’”asse del Male” (anche se poi molti hanno gareggiato sotto la bandiera di altri Stati come Germania, etc…). Mentre noi occidentali saremmo l’”asse del Bene”: la cosa avrebbe certamente indispettito Pierre De Coubertin, che riprese a far disputare i Giochi nel 1896, dopo che l’imperatore romano cristianizzato Teodosio li aveva fatti cessare nel 393 d.C. perché ritenuti uno spettacolo pagano. Erano nati ufficialmente nel 776 a.C., anche se la loro origine è probabilmente più antica, quando veniva premiato non chi arrivava primo ma chi svolgeva l’esercizio (corsa, lancio del disco, lotta, etc.) con più armonia. Alle gare non erano ammessi stranieri, schiavi, persone disonorate e le donne, alle quali era vietato persino assistere alle gare.

Visto da vicino nessuno è normale
La follia nel DDL 1179, Disposizioni in materia di tutela della salute mentale

Visto da vicino nessuno è normale. La follia nel DDL 1179, “Disposizioni in materia di tutela della salute mentale”

Se per Basaglia “visto da vicino nessuno è normale”, se ormai è consolidato il concetto che non esiste un confine fra follia e normalità, se sappiamo che solo Lombroso poteva pensare di distinguere fra sani e folli, come è possibile che sia stato presentato un disegno di legge con la proposta di “interventi che riducano il divario esistente tra le persone affette da disturbo mentale e le persone sane”?

Questo ha scritto Francesco Zaffini di Fratelli d’Italia nel DDL 1179, Disposizioni in materia di tutela della salute mentale presentato al senato il 27 giugno scorso (qui il testo e qui un articolo su Repubblica, unico quotidiano che finora ne ha parlato).

A me queste parole suonano come “ridurre il divario fra chi deve usare una sedia a rotelle per muoversi e chi no”, “farò uscire il caffè dai rubinetti”. Quale sarebbe lo scopo? Far camminare tutti con le gambe per non dovere abbattere le barriere architettoniche? Che nessuno si senta diverso? Che sia obbligatorio essere o sembrare sani?

Dando un colpo al cerchio e uno alla botte, nel disegno di legge si parla della “incolumità e dell’aggiornamento dei professionisti” e della “massima attenzione alla sua [del “malato”] incolumità fisica, a quella dei suoi familiari e degli operatori”. Non si parla quindi del benessere di chi ha un disagio, ma della sua supposta aggressività.

Il testo è intriso della ambigua malizia di anteporre una finta offerta di protezione a chi soffre, sottintendendone nello stesso tempo la pericolosità certa, e la necessità di curare tale predisposizione mediante la segregazione e il contenimento, anche tramite la forza pubblica.

Come se tutto fosse perfettamente predeterminato e immutabile fin dall’inizio, la legge attiverà una “individuazione precoce del disagio giovanile, la prevenzione dei disturbi e l’intervento precoce psicosociale” e “l’individuazione tempestiva dei disturbi mentali sin dalle fasi dell’infanzia,” “al fine di assicurare il godimento del diritto alla salute mentale, intesa come uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”.

Obbligheranno le persone al diritto di stare bene? Si capovolge anche il senso della dichiarazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la cui definizione completa recita:  ”una condizione di completo benessere fisico, mentale e sociale e non esclusivamente l’assenza di malattia o infermità.”  Questo contraddice la distinzione fra sani e malati, perché la salute è come si gestisce l’insieme, comprese le patologie. Se una persona ha il diabete, il suo diritto alla salute si realizza nella possibilità di vivere pienamente, al di là del disagio.

Il politico si rivolge a una bella fetta di elettorato: intanto tutti quelli in cui è stata instillata la paura di tutto da una informazione malata, che ha caricato falsità sugli episodi di aggressione negli ospedali; poi gli operatori sanitari stessi, che si occupino di salute mentale o no, le famiglie, che in grande numero convivono con la sofferenza psichica in condizioni di carenza di supporto medico e di politiche sociali, la scuola, caricata sempre più di compiti che non sono i suoi.

Ancora una volta, i più fragili tra i fragili vengono individuati come capro espiatorio, facile operazione in un contesto dove ci si sente autorizzati a definire “oggettivamente” con un semplice conteggio chi è normale e chi no, senza neanche prendersi la responsabilità di dire che lo si sta stigmatizzando, crudeltà gratuita e vigliacca. L’atteggiamento è sempre quello di far credere che esistano persone sbagliate, che vanno aggiustate per il loro bene.

Un’idea completamente campata in aria, quella della pericolosità di chi ha un disagio mentale. È stato dimostrato infatti che le persone con patologie psichiche gravi commettono gesti delinquenziali con tassi analoghi a quelli di chi non ne è affetto.

Il DDL Zaffini è la concretizzazione di questo: deriva da una cultura della sopraffazione.  Le statistiche, al contrario di quello che si pensa, riportano che è più probabile che una persona con disturbo mentale subisca piuttosto che operi violenza e che di solito essa tenda a fare male a se stessa, piuttosto che agli altri.

Oggi sappiamo che il nostro comportamento è dovuto a una triade di fattori: quello biologico, quello psicologico, cioè come le esperienze ci hanno influenzato, quello sociale. È la società intorno a chi ha il disagio ad essere malata e la cura avviene in un’interazione fra i tre livelli, che si modificano a vicenda. Il modo in cui una persona può relazionarsi nel sociale è quello che la cura o la ammala: meglio faremo stare una persona nel sociale, meglio starà e meno aggressività potrà incamerare.

Lascio riflettere il lettore se sia possibile pensare che una patologia possa guarire senza la collaborazione del paziente. Durante la pandemia abbiamo assistito al rifiuto dei vaccini da parte di un grande numero di persone; la costituzione garantisce la libertà di cura.

Ma al di là di questo, si dovrebbe sapere, affrontando il tema della salute mentale, che la non consapevolezza della malattia è un sintomo esso stesso che si chiama “anosognosia”. Lo psicologo Xavier Amador raccontava di una signora che doveva prendere i farmaci e che, quando li trovava nella spazzatura, chiedeva ai familiari di chi fossero, perché non si rendeva conto di averli buttati lei. Amador ha studiato un approccio alle persone con disturbo che ottiene la loro fiducia e la loro aderenza alla cura, ma tale approccio esclude categoricamente la coercizione e se seguite uno dei suoi video, molto piacevoli, potete anche capire perché l’obbligo non può funzionare.

Certo anche il nostro Zaffini dice che bisogna cercare di ottenere il consenso, ma senza contarci troppo. Nel disegno di legge infatti “sono disposte le misure di sicurezza pubblica necessarie al contenimento degli episodi di violenza contro il personale”, “Gli operatori della salute mentale attuano misure e trattamenti coattivi fisici, farmacologici e ambientali”. Il trattamento sanitario obbligatorio viene esteso da un massimo di 7 giorni a 15 giorni: non so se questo sia un modo per rendere la vita degli operatori e delle operatrici più semplice.

Una persona con un disturbo non è necessariamente violenta, quindi, e anche se ha una psicosi può scegliere di non commettere le azioni comandate dalle voci che sente, tanto che tra gli psichiatri è aperta la discussione se sia opportuno perseguire chi commette un reato avendo un disturbo psichico. D’altronde si rileva continuamente che gli autori di delitti efferati non soffrono di patologie psichiche.

Purtroppo la professionalità anche degli psichiatri non è sempre al massimo livello, e pare che non tutti siano padroni delle tecniche di de-escalation che servono per placare lo stato d’animo di un paziente agitato. Queste tecniche sono usate in vari campi, tanto che lo psichiatra Valerio Rosso, che pubblica un brillante e utile blog, consiglia il testo usato dalla polizia negli Stati Uniti Conflict Management For Law Enforcement: Non-escalation, De-escalation, and Crisis Intervention For Police Officers. Ognuno, ognuna di noi ha bisogno di apprendere queste tecniche che ci possono proteggere in situazioni di violenza in cui possiamo incorrere.

Allora difendiamoci davvero e contrastiamo il disegno di legge Zaffini, su cui è già stata avviata, da associazioni e personalità autorevolissime, una raccolta firme. [ Qui] l’appello: Fermare una tragica nostalgia di manicomio, e reagire.

Cover: Marc Chagall, Muveszete lart 

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La libertà del dolce far niente: quanta vita lontano dai pacchetti-vacanza

La libertà del dolce far niente: quanta vita lontano dai pacchetti-vacanza

di Gerardo Iandoli
articolo originale su Strisciarossa del 7 agosto 2024

Basti pensare alla merce più venduta in questo periodo estivo: la vacanza. Sono innumerevoli le agenzie che vendono vere e proprie tabelle di marcia di momenti di libertà, per poter sfruttare al meglio il tempo delle ferie, senza perdere il ben che minimo granello di secondo. E il momento di pausa dal lavoro viene trasformato nell’ennesimo spazio-tempo da dover gestire, organizzare, progettare. Il demone dell’efficienza si insinua ovunque e la nostra libertà più grande, cioè la possibilità di scialacquare il proprio tempo, diventa l’ennesima fonte di sensi di colpa, cioè ansie da inettitudine.

Ebbene sì, è il perdere tempo la nostra libertà più grande: il non dover fare nulla, né dimostrare nulla, né doversi preoccupare della reazione altrui. Un mero godere del piacere di esistere, in vista della prossima scelta in cui attivarsi, non per seguire uno schema, ma per assecondare ancora di più questo godere di sé. Di fatto, a essere venduto in questi pacchetti vacanza è un senso di sicurezza: la possibilità di non scegliere, e quindi di non pensare, per poter comodamente seguire un percorso già tracciato, dove basta seguire i binari e lasciarsi andare al flusso.

C’è una poesia di Cinzia Coppola, tratta dal suo Rêveries, pubblicato nel 2023 da Delta 3, che nel suo linguaggio asciutto ed estremamente chiaro mostra la ferocia che soggiace al modo di pensare fin qui trattato:

Mattino

Cielo del mattino,
il cristallino che hai oggi
mi contagia
la voglia di ridere
fino a sentire gli occhi e il cuore funzionare.
Sono brevi attimi,
forse è la luce del sole
o un progetto a cui pensare.
Forse solo l’auto da mettere in moto
per andare a lavorare.

La prima immagine è stereotipata: quel senso di benessere che si prova quando si viene colti dal bel tempo appena dopo essersi svegliati. Tuttavia, sono presenti delle parole che incrinano l’idillio e virano l’atmosfera verso sentori più inquietanti: prima di tutto, l’energia viene trasmessa per “contagio”, quasi come se non fosse un flusso vitale che va dal cielo alla terra, ma un miasma pestifero che si appropria della voce dell’io poetico. E quest’ultimo si presenta come una macchina, che inizia a “funzionare”. E, di fatto, questo fanno le immagini stereotipate: attivano la nostra mente in maniera meccanica, perché sono così codificate da eliminare ogni mistero e quindi disattivare ogni possibilità interpretativa.

Nella seconda parte, in un crescendo ironicamente tragico, l’io poetico viene sottratto al proprio momento vitalistico e richiamato all’ordine, gettato nella propria dimensione del dovere.
Si parte dal sole, figura divina e simbolo del calore che dà la vita, per arrivare subito alla “progettazione”, che rinvia a una divinità più moderna: il management. E ritorna nel finale l’elemento meccanico, in cui si vede l’io poetico specchiarsi in questa auto messa in moto: il cielo terso non è lo scenario dell’inizio di un’avventura, ma l’immagine dell’ennesimo spreco di vitalità in favore del lavoro, dell’energia finalizzata alla produzione.

L’elemento interessante di questa poesia è che il lavoro non viene descritto come momento che distrugge l’idillio, ma anzi come qualcosa che può essere coerente con l’idillio stesso: il contagio è avvenuto, e quindi anche il lavoro può entrare a far parte della galassia di senso che ruota intorno al simbolo del sole mattutino. Il lavoro come bel tempo, come ben-essere, come estate e come vacanza. Un paradosso?

Cinzia CoppolaRêveriesGrottaminarda, Delta 3, 2023.

Diario in pubblico /
Dal tronetto giallo di re Crimildo

Diario in pubblico. Dal tronetto giallo di re Crimildo

Il re Crimildo della stirpe dei Giannantoni se ne sta sul suo tronetto giallo posto sul balcone che dà sulla via principale della sua amata città, Laida, ad osservare le mosse dei suoi vicini di casa increduli, se non stupefatti, del progressivo innalzarsi della nuova torre di Babele minacciosa e incombente che ormai ha raggiunto il cielo.

Il rumore della ferraglia si stava esaurendo tra i singhiozzi dell’immenso camion che porta carichi di cemento e che non riesce a passare per la via, a causa di vetture pettegole che non gli lasciano il passo. Invano l’autista cerca una via d’uscita ma loro, indiscrete, non cedono il passo.

Sempre più frettolosi i passanti, che non mollano per un istante il loro Graal-cellulare, a testa china transitano affannati, non concedendo nemmeno un secondo ai pelosi in cerca di un luogo atto alla pisciatina ristoratrice.

Così decidiamo di prendere Benny e trasferirci al caffè, come i miei antenati chiamavano un luogo di delizie pieno. Qui si sorseggia la nera bevanda e nello stesso tempo si commentano vesti e paludamenti atti ad affrontare il percorzo lungo ed estenuante verso quell’acqua che si chiama mare e che io, Crimildo, non ho ancora visto da vicino.

Al silenzio stupefatto della torre abituata all’urlo bestemmiante dei lavoratori costretti a cedere le armi in attesa del cemento fatale si aggiunge il fruscio degli eleganti abiti da spiaggia e l’occhiata severa di chi ti giudica per quello che indossi!

Indosso la maglietta con le gardenie dipinte, dono affettuoso della mia stirpe, e ancora una volta mi domando come sia possibile che quel mastodonte blocchi la via e si rifletta da ogni punto di vista. Non si sa né, immagino, nessuno lo vuole sapere. I racconti degli “infedeli” narrano di lunghe trattative, di pazienti attese, di desiderio di stupire.

Beh, su questo non ci sono dubbi. Stupiamoci e godiamoci questa nuova idea di paesaggio, perché siamo Emilia-Romagna, l’eccellenza dei luoghi marini.

Allora io, Crimildo, cedo il bastone e mi ritiro a leggere testi sublimi nascosto nel mio studio, dove ho trasportato il mio tronetto giallo.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Coblas di via Colomba
3. Tre stanze in via Colomba

Coblas di via Colomba. 3. Tre stanze in via Colomba

In questa casa, vedi, in queste stanze. Tre, due più una terza aggiunta poi, con una porta in un muro tramezzo. In queste stanze che vedi ora. Le imposte di legno, gli inquilini degli anni e delle decadi. Ora che è pieno di auto, di motori, che ogni piazza è un parcheggio e pure qui, in piazzetta Colomba, in piazzetta Muzzina; ora che non c’è più la piccola prostituzione nei vicoli, verso via della Concia, ora che i camion dei traslochi, ora che i bus, ora che cavalli azzurri e ippogrifi e stese di dehors, ora che techno fino a notte, ora che sembra tutto in svendita, ora guarda, al Capo delle Volte, la vastità del cosmo dentro porta.

Questa casa in cui visse Penelope, con un baule di taccuini e mappe; e poi la figlia di Giuseppe, Sara, il suo compagno Omar e Sirio, il loro figlio. In questa casa passò anche Leone, di passaggio tra Bologna e Venezia – non però quella volta in gennaio, quando alle Fondamente Nove guardò i cipressi, l’isola di San Michele, il futuro sottile come alghe.

In queste stanze diventate tre, la rastrelliera con le bici dove era l’orto, a metà aprile si fermò la Gabri: stette una settimana e con suo marito visitò Ferrara, Mesola e Pomposa. Guarita dal covid prima ondata, due mesi in ospedale – la vicina di letto nel frastuono, con la testa nel casco, nel marasma – Gabri che recitava il Rosario in latino, un’idea che le venne per la fede, per la voce, per la forza del cuore e le antenate, un’idea che forse anzi certo la curò e forse giovò anche alla vicina, ma certo che le giovò, la guardava senza sentirla, la testa dentro il casco e la guardava.

In questa casa stiamo un po’ al riparo, all’ombra. A pochi passi c’era, ci fu per anni, la rivendita di bassa macelleria. E poco più lontano l’ingrosso dei detersivi, un labirinto di cartoni con scritte grandi dove noi, molti di noi, imparammo a leggere. E lì nella piazzetta si fermò Elena, con addosso un tailleur bruciato e ghiaccio, e Ida molti anni dopo: ma assieme guardarono il cantone, la piazzetta di là. Quasi un campiello veneziano, qualcosa che il ricordo non contiene.

E al numero ventidue viveva Marta, che aveva nove anni quando i suoi le gettarono nel fuoco il sillabario – che lavorasse subito e da subito – ma poi diventò maestra e socialista.

Allí, león, allí furia del cielo,
te dejaré pacer en mis mejillas;
allí, caballo azul de mi locura,
pulso de nebulosa y minutero

Autunno del 1929: Federico García Lorca è a Manhattan, alla Columbia University. Furioso verso il capitalismo, grandi industrie e iniquità e sfruttamento, come in un grido di orrore si butta a scrivere, scrive come un pazzo, scrive Poeta en Nueva York. Penelope ha ancora un quadernetto, da allora, e anche una giacca appartenuta a Marta.

Da qui al Castello, ai Diamanti, alla Giovecca, da qui a ovunque pochi passi.
Al Borgo dei Leoni, al vecchio ghetto, da qui poca distanza.

Ed eccola, Penelope, sarta e tessitrice. Vicina a García Lorca a Nuova York, supplente a scuola al Delta del Po. Penelope in cartoleria, in via Contrari, e in treno nei feriali tra Ferrara e Bologna.
Eccola che cammina verso la stazione alle sei del mattino, zaino leggero, da porta san Giovanni mezz’ora di buon passo, il vuoto verde di piazza Ariostea poi i Diamanti, passi e ancora passi, poeta in porta Po – pochi minuti in più se vai per la Giovecca e quando avvisti le torri, il grattacielo, ecco sei già in stazione.

Penelope che sta a Porta san Giovanni, che lavora a Bologna a Porta Lame, e il treno i viali i portici le scivolano addosso. Il male lo conosce, e la fatica, e uno scatto di gioia indistruttibile. Ha un taccuino e una giacca nell’armadio, una giacca con fodera a quadretti, la cucì la zia Maggio tanti anni fa.

Siamo qui, siamo tante. Da secoli e millenni siamo qui.
E a dispetto dell’epica, della leggenda dello stratagemma, delle storie sulla paziente attesa, Penelope ha da fare e non aspetta.
Non Odisseo. Non Ulisse, nessuno. Non un uomo di nome Nessuno.

Tessere viene prima.
La tela è nata molto tempo prima.
La tela e la stoffa, andare e tornare, moto apparente moto pendolare, ordito e trama, Porta Lame stazione Porta Po, camminare e fermarsi, tessere e ritornare. Orto e cartoleria, chiacchierare leggere raccontare. Macerie, mercerie.

Nel dolore e nel caos la schiena dritta, sorelle conosciute e figli altrui, figlie nostre, e il chiacchierone dal multiforme ingegno che vada o torni dove pare a lui. Molto prima di Ulisse, la tela. Fare rizomi e tessere, filare, darsi del voi, cantare a tempo e cantare a respiro. Saturare, tendere il tempo, andare. Divenire tela, divenire rabbia. Divenire gioia.

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Per certi versi /
E bruciano bruciano ancora

E bruciano bruciano ancora

 

E bruciano

Bruciano ancora

I libri

Sono dei Neri

Stavolta

Non gli Ebrei

I neri lanciati

Nello spazio

Dalle bestie

Trionfanti

Bruciano

Nella città

Che non diresti mai

La città

Degli Scarabei

Bruciano

In tanti angoli

Di Albione

 

 

Chi brucia

I libri

Sta già bruciando

Le persone

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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Ancora un morto: Cpr come buchi neri

Ancora un morto: Cpr come buchi neri

 

Le organizzazioni del Tavolo Asilo e Immigrazione esprimono il loro sgomento nell’apprendere la notizia della morte di Belmaan Oussama, un ragazzo algerino di 19 anni trattenuto nel Centro di permanenza per i rimpatri di Palazzo San Gervasio, in Basilicata, per il quale il procuratore della Repubblica di Potenza, Francesco Curcio, non esclude l’omicidio, doloso o colposo. Indetto un sit-in per sabato 10 agosto alle ore 11 davanti al Cpr .

 

La morte di Oussama, che sarebbe avvenuta lo scorso 5 agosto, “ha innescato una rivolta delle persone trattenute nella struttura e sollevato numerosi interrogativi – scrive in un comunicato il Tavolo Asilo –. Cosa è successo dopo le dimissioni dall’ospedale? Perché è rientrato nel centro? Chi ha fatto il certificato di idoneità per il suo reingresso? E chi ha vigilato sulla sua incolumità? Risulta che al momento del decesso fosse in servizio un solo infermiere, nessun medico, per 104 persone trattenute”.

 

Un sistema da abolire

“Non ci sono dati ufficiali e sistemi di rilevazione trasparenti ed efficienti per fare la conta dei morti – prosegue il comunicato –; una ricerca di ActionAid e dell’Università di Bari stima che siano 30 le persone che dal 1998 hanno perso la vita nei Cpr, fra cui, a febbraio di quest’anno, un altro diciannovenne, Ousmane Sylla, che si è suicidato a Ponte Galeria. Mentre notizie tragiche arrivano dalle carceri, anche nei Cpr le persone sono portate alla disperazione da un sistema di detenzione amministrativa che è un’aberrazione, uno spazio di negazione del diritto”.

 

Nel comunicato si ricorda che in Italia ci sono otto Cpr, “otto aberrazioni giuridiche e sociali, otto buchi neri in cui alle persone sono negati diritti e dignità. Un sistema irriformabile che va abolito. In questi centri è entrata una delegazione del Tavolo toccando con mano le condizioni di vita e trovando circa 550 persone che, dall’anno scorso, possono essere trattenute per 18 mesi”.

 

Servono politiche d’accoglienza

Diciamo da tempo che i Cpr sono un luogo di detenzione e di segregazione, dove non soltanto spesso vengono meno le condizioni di umanità minime delle persone, ma che proprio strutturalmente e concettualmente sono nati dall’idea sbagliata di avere un luogo dove persone a cui viene incollato il presunto reato di non avere un titolo di soggiorno, per il quale vengono confinate”, ci dice Maria Grazia Gabrielli, segretaria nazionale della Cgil, che partecipa al Tavolo Asilo.

 

“Questo strumento sbagliato delle politiche migratorie – prosegue – è all’interno di un quadro più complessivo che dimostra come l’approccio continui a essere su un’impronta che è tutta di ordine pubblico, sicurezza ed emergenza che sono i tre assi per assumere le scelte. È evidente che i Cpr andavano già chiusi molto tempo fa e invece stiamo tornando a un sistema di gestione della migrazione ancora una volta a svantaggio di una vera politica di accoglienza e integrazione. Basti pensare che aumentano le spese per la tutela dei confini con il protocollo Albania, dove in realtà portiamo i nostri operatori e le forze dell’ordine. Un buon sistema di accoglienza consentirebbe invece di costruire percorsi di reale cittadinanza nel nostro Paese”.

 

La Cgil e le altre associazioni del Tavolo hanno scritto una lettera al sottosegretario agli Interni, Nicola Molteni, con la quale è stato chiesto “di comprendere e di considerare i dati sull’immigrazione e dare risposta alle mancanze, ma le risposte concrete continuano a non arrivare – rimarca Gabrielli –. Una potrebbe essere il riconoscimento del titolo di soggiorno per sfruttamento a chi lavora nelle campagne, in agricoltura e non solamente. Persone che non hanno nemmeno gli strumenti per poter denunciare la loro condizione di sfruttamento e di schiavitù”.

Per la segretaria della Cgil serve cambiare l’approccio e nel contempo trovare anche soluzioni pratiche alle condizioni delle persone che lavorano in maniera regolare o irregolare nel nostro Paese, invece la politica continua a lavorare e a investire sulla sicurezza, sui confini, sul l’uso dei Cpr”.

“Rivendichiamo e chiediamo  anche in virtù della condizione umana e materiale di quelle persone una soluzione non mediana per rimuovere quella condizione”, sottolinea la sindacalista. Bisogna riaprire realmente una discussione – prosegue –, conoscendo l’importanza del quadro europeo, ma sapendo che ci sono scelte che intanto l’Italia può fare. Su questi punti continueremo il nostro lavoro, perché ci sono un fronte e un’attenzione ampia, c’è un’attività che abbiamo iniziato a fare e che continueremo perché per noi questi sono temi importanti e dirimenti”.

Per tutti i motivi esposti nel comunicato e da Gabrielli il Tavolo Asilo ha quindi indetto il sit-in per sabato 10 agosto alle ore 11 davanti al Cpr di Palazzo San Gervasio allo scopo di chiedere che tutti i centri vengano chiusi, che venga resa giustizia ad Oussama e a tutte le persone che hanno perso la vita nei luoghi di trattenimento.

 

Coblas di via Colomba
2. Agosto

Coblas di via Colomba. 2. Agosto

Il tempo e l’acqua. E l’arsura. Non piove da chissà quanto. La stazione dei treni, il rumore, caldo che è nebbia all’alba, poi sole e sole a picco e sole poi nebbia, nebbia e buio, finestre aperte sulla notte e basta.

In terrazza, a stendere il bucato, andiamo solo prima dell’aurora. In distanza le quattro torri, campanili, le pioppe sulle mura. Qui l’afa e il cantiere, il cantiere di un condominio di otto piani e poco più in là un grattacielo in costruzione. Rumore, rumore fino a sera. Non c’è mai stato un grattacielo, qui. Due torri di più di venti piani.

Di prima mattina poche lire di spesa, latte e pane, qualche uovo o susine, poi chiudersi in casa fino a sera. Barriera di Cavour, Porta Catena e Porta Po. Vetri chiusi, imposte chiuse. E nemmeno la radio, nel frastuono, in penombra.
L’odore dolce delle barbabietole. Odore giallo, odore appiccicoso.

In distanza canali, campi, argini. Qui esser vecchi, star chiusi, i muri che tremano e il caldo; e lamentarci no, che abbiamo visto tempi assai peggiori. Queste torri daranno casa a molti. Progresso, autostrade, vie ferrate.
In distanza il fumo del petrolchimico. Le torri il fumo le idrovore le ruspe le gru. Il progresso, dicono.

Presto sarà un cane nello spazio, un uomo una donna nello spazio, uomini sulla luna: intanto sono Astolfo e l’Ippogrifo, Giorgio e il Drago in città, quattro piani di scale ogni mattina. Il fumo che è il futuro, i ruderi postbellici e le ruspe. Ferrara nell’estate del 1957, cielo bianco sopra la pianura.

Come state, Lea?, ha detto la Lupe. Porto un pacchetto alla Clelia, la maestra. La Clelia del primo piano.
La Lupe, la cartolaia di via dei Contrari: la Lupe sotto casa, stamattina, mentre la Lea tornava dalla bottega.
Avete chi vi aiuta, Lea, con questo caldo? Se volete una cesta di pesche, ne ha fatte tante quest’anno. Vi suono il campanello e salgo io. Non state a scendere le scale.

Grazie, ha detto la Lea.
Da me c’è una stanza libera, dice allora Lupe. Al Capo delle Volte, in via Colomba, a pianterreno: casa vecchia, muri spessi. Anche io sto da sola, Lea. Venite a sfangare agosto là da me. Se vi trovate bene, bene. Se no, amiche come prima.

E Lea trascorse agosto in via Colomba, a casa dalla Lupe. L’agosto del ‘57, il più caldo che mai si ricordasse: fuori porta sorgeva un grattacielo – non c’è mai stato un grattacielo, qui – e al Capo delle Volte l’ombra, cantine e un orto, piccoli affari e biciclette, di rado un’auto sulla Ripagrande e il carro dei traslochi tirato da due cavalli grossi, quasi azzurri, gli zoccoli in cadenza sul selciato.

Poi fu il tempo dei fichi e dell’uva, poi oro e rame, poi tardo autunno e i cachi sui rami nudi, grandi sfere di luce nella nebbia. Per l’autunno e l’inverno, e poi per tutto il tempo che restò, Lea divise le spese e le giornate – si davano del voi, però ridevano – con la cartolaia di via Contrari. Per tutti Lupe, nata fuori d’Italia chissà dove, Penelope il suo nome vero.
In via Colomba, proprio in questa casa.

[Leggi domani pomeriggio su Periscopio il terzo racconto di Coblas di via Colomba]

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La libertà d’informazione in Italia è sempre più sotto attacco e Meloni ci sta isolando in Europa

La libertà d’informazione in Italia è sempre più sotto attacco e Meloni ci sta isolando in Europa

di Matteo Pascoletti
articolo originale su Valigia blu dei 31 luglio 2024

Nel giro di una settimana, la percezione in Europa dello Stato di diritto in Italia ha subito un duro danno di immagine, in particolare per quanto riguarda la libertà di informazione.

Il 24 luglio è uscita infatti la Relazione sullo Stato di diritto 2024, che analizza la situazione di ciascuno degli Stati membri dell’Unione europea. Secondo alcune indiscrezioni risalenti a giugno, la presidente uscente della Commissione europea Ursula von der Leyen avrebbe spinto per ritardarne la pubblicazione a dopo la sua nomina, per non complicarne le trattative che stavano coinvolgendo anche la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Nonostante lo slittamento, il risultato è poco incoraggiante, con i titoli internazionali che ci mettono in compagnia di Ungheria e Slovacchia. E questo soprattutto per la gestione del servizio pubblico.

Il 29 luglio è uscito il rapporto della Media Freedom Rapid Response dal titolo Silenziare il quarto potere. La deriva democratica dell’ItaliaNon è solo il contenuto dei due documenti a dover destare preoccupazione, lo è soprattutto la reazione della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ha ben pensato di prendere di petto la situazione, accompagnata dalla stampa di area.

Libertà e pluralismo dei media in Italia secondo la Commissione europea

Nella relazione della Commissione europea, varie criticità riguardano libertà e pluralismo dei media. Viene infatti evidenziata nelle raccomandazioni la necessità di garantire l’indipendenza del servizio pubblico e un adeguato finanziamento. Tre in particolare i punti critici sollevati dai “portatori di interesse” ascoltati. Il primo è la necessità di una riforma d’insieme della RAI, per garantire che l’azienda “sia maggiormente al riparo da rischi di ingerenze politiche”; il rapporto cita alcune dimissioni eccellenti avvenute in Rai a seguito del cambio di linea editoriale che si è avuta col nuovo governo. Il secondo è il nuovo regolamento sulla par condicio approvato prima delle elezioni europee: nonostante le rassicurazioni del governo permangono dubbi sul fatto che possa garantire un’informazione equa. Infine, c’è il problema del canone, per cui è prevista una riduzione nella legge di bilancio a fronte di un finanziamento diretto. Questo cambiamento potrebbe infatti incidere “sull’autonomia e sostenibilità finanziaria della Rai”, al punto da compromettere “il suo mandato di servizio pubblico”.

Per quanto riguarda invece la sicurezza dei giornalisti, sono in parte contestati i dati raccolti dal Centro di coordinamento del ministero dell’Interno che monitora minacce e intimidazioni sui giornalisti. Non sono infatte incluse le SLAPP (Strategic lawsuits against public partecipation) o querele intimidatorie, monitorate da altri organismi o da associazioni della società civile, come Ossigeno per l’Informazione. Questo, unito al fatto che molti giornalisti “non sempre denunciano alla polizia le intimidazioni o gli attacchi subiti”, potrebbe indicare problemi di sottosegnalazione, e quindi una difficoltà ad avere numeri coerenti con il quadro effettivo. Risultano poi completamente ignorate le raccomandazioni del 2023 per una riforma della legge sulla diffamazione e per la protezione delle fonti giornalistiche, problema che in Italia si trascina ormai da anni.

Altri punti critici per l’Italia riguardano il lobbying e il conflitto di interessi, due temi su cui il nostro paese è in pratica fermo e lontano dall’adeguarsi al resto dell’Europa, a partire dai parlamentari:

Anche se la Camera dei deputati dispone di norme sul lobbying e di un registro dei rappresentanti di interessi, mancano disposizioni complessive sul lobbying valide per entrambe le camere parlamentari. La mancanza di regolamentazione delle attività di lobbying è percepita come una delle principali carenze nel sistema di integrità nazionale. […] Come l’anno scorso, nessuno dei disegni di legge presentati è stato oggetto di discussioni parlamentari in nessuna delle due camere.

Infine, è utile menzionare il “ristretto” spazio civico, con casi di “aggressività verbale nei confronti di organizzazioni impegnate in attività umanitarie e contro chi partecipa a manifestazioni, e con episodi di volenza da parte delle forze dell’ordine.

La lettera di Giorgia Meloni a Ursula von der Leyen

Al rapporto è seguita una lettera di Giorgia Meloni alla neo-eletta Commissaria europea. Secondo Meloni, per la prima volta il contenuto della Relazione sullo Stato di diritto “è stato distorto a uso politico da alcuni nel tentativo di attaccare il Governo italiano. Qualcuno si è spinto perfino a sostenere che in Italia sarebbe a rischio lo stato di diritto, in particolare con riferimento alla libertà di informazione e al servizio pubblico radiotelevisivo”.

Meloni fornisce poi tre spiegazioni di massima ai rilievi contenuti nel rapporto. Primo, scrive  Meloni, l’attuale maggioranza ha ereditato gli assetti legislativi della Rai, con Fratelli d’Italia che si schierò contro la riforma della governance Rai del 2015. L’attuale governance, inoltre, è stata “determinata dal governo precedente”, escludendo Fratelli d’Italia, “una anomalia senza precedenti in Italia e in violazione di ogni principio di pluralismo del servizio pubblico”. Non si fa tuttavia riferimento ad altre nomine, tra cui la più importante: Roberto Sergio, amministratore delegato nominato nel 2023. Un aspetto che invece è trattato nel documento della Commissione europea.

In secondo luogo, Meloni sottolinea che la dipartita di nomi importanti dalla RAI è dipesa da “normali dinamiche di mercato”. Infine, per quanto riguarda il regolamento sulla par condicio, Meloni parla ancora di “mistificazione a uso politico”, poiché la delibera adottata dalla commissione di Vigilanza è stata “dichiarata peraltro dall’AgCom conforme alla disciplina vigente in materia”. Meloni omette tuttavia che l’AgCom aveva prima invitato la commissione a integrare le norme sulla par condicio, provvedendo poi ad approvare a sua volta un regolamento differente per quanto riguarda il settore privato.

Non è questo il problema principale della replica di Meloni, ma il suo essere pensato a uso e consumo dell’opinione pubblica interna, a beneficio di chi non ha letto la Relazione originale. Il grosso dei punti sollevati, infatti, è menzionato nella stessa relazione che cita per l’appunto il parere del governo. Inoltre la relazione tocca varie aree, non soltanto la libertà di informazione o la Rai. Meloni sceglie di rispondere solo su quest’ultima, evidenziando prima di tutto che è stato toccato un nervo scoperto.

Come se ciò non bastasse, il tono finisce per risultare completamente fuori luogo rispetto al contesto di una comunicazione pubblica tra un capo di governo e la presidente della Commissione europea. Un predicozzo in cui, senza neanche troppi giri di parole, si bolla il Rapporto come succube di strumentalizzazioni e fake news, minando quindi prima di tutto il lavoro della Commissione europea e la capacità di chi ha lavorato alla relazione. Conclude infatti Meloni:

Si tratta quindi di attacchi maldestri e pretestuosi […] che possono avere presa solo nel desolante contesto di ricorrente utilizzo di fake news che sempre più inquina il dibattito in Europa. Dispiace che neppure la Relazione della Commissione sullo stato di diritto e in particolare sulla libertà di informazione sul servizio pubblico radiotelevisivo sia stata risparmiata dai professionisti della disinformazione e della mistificazione.

“Silenziare il Quarto Stato”

Sempre a proposito di reazioni, Meloni e la stampa di destra si sono scagliati in queste ore  contro la relazione della Media Freedom Rapid Response (MFRR), dal titolo emblematico: Silenziare il quarto Stato. La deriva democratica in Italia. La MFRR è un’iniziativa co-finanziata dalla Commissione europea e che unisce alcune tra le più importanti organizzazioni per la difesa della libertà di stampa, tra cui European Centre for Press and Media Freedom, ARTICLE 19 Europe ed European Federation of Journalists.

Essendo un rapporto specifico sulla libertà di informazione, il quadro che ne esce è ancora più allarmante, oltre a confermare vari punti già visti nel Rapporto sullo Stato di diritto (come la par condicio). Si legge nell’introduzione:

La libertà dei media in Italia ha subito una continua erosione negli ultimi anni. La mancanza di indipendenza dei media pubblici e l’uso sistematico di intimidazioni legali contro i lavoratori del settore da parte di funzionari pubblici hanno caratterizzato a lungo il rapporto tra i media e la politica italiana. Tuttavia, queste dinamiche hanno raggiunto livelli allarmanti negli ultimi due anni.

Dall’ottobre 2022 allo scorso di giugno, sono 193 le segnalazioni relative all’Italia per quanto riguarda minacce o incidenti che colpiscono la libertà di informazione. In 54 di questi casi la fonte di questi attacchi proviene dal governo o da funzionari pubblici. La forma più diffusa di attacco è di tipo legale (53,7%), seguita da quella verbale (31,5%) e dai tentativi di censura (20,4%).

Tra i casi citati, le querele contro lo scrittore Roberto Saviano e il quotidiano Domani (verso quest’ultimo la querela di Meloni è stata ritirata sempre la scorsa settimana), di cui avevamo parlato su Valigia Blu, e la trasmissione Report:

Domani ha subito una serie di attacchi, tra cui diffide legali, querele, aggressioni verbali e presunti tentativi di compromettere la riservatezza delle proprie fonti giornalistiche. Nella maggior parte dei casi, questi incidenti sono riconducibili a funzionari pubblici. Analogamente, Sigfrido Ranucci, insieme alla sua squadra della trasmissione investigativa di punta della Rai, Report, è stato più volte bersaglio di violazioni della libertà di informazioneda parte di funzionari pubblici. La MFRR ha documentato segnalazioni riguardanti varie forme di intimidazione legale rivolte a Report da parte di importanti membri del governo e del partito della Meloni, Fratelli d’Italia; pressioni politiche ingiustificate sull’indipendenza editoriale di Report e abusi verbali rivolti ai suoi giornalisti. Altrettanto inquietante è la scelta del Presidente del Consiglio di condannare pubblicamente il team investigativo di Fanpage che aveva denunciato i riferimenti fascisti, razzisti e antisemiti di alcuni membri di Gioventù Nazionale, l’ala giovanile del principale partito della coalizione Fratelli d’Italia.

Un capitolo specifico è dedicato alla cosiddetta “Media capture”, quel fenomeno per cui l’industria dei media e il servizio pubblico sono ridotti a megafoni del potere politico. Spazio quinidi a quei casi che dai corridoi di viale Mazzini hanno poi tenuto banco nell’opinione pubblica, come la censura dello scrittore Antonio Scurati, la cancellazione del programma di Roberto Saviano Insider (che solo di recente è stato di nuovo annunciato) e la condanna inflitta alla Rai per comportamento antisindacale in occasione dello sciopero del 6 maggio scorso.

Ma, al di fuori del servizio pubblico, destano preoccupazioni anche le voci di un possibile acquisto di AGI da parte del senatore Antonio Angelucci. La “vendita”, si legge, “potrebbe creare il pericoloso precedente di un altro conflitto di interessi di tipo berlusconiano, mettendo potenzialmente a rischio altre agenzie di stampa del paese”. Infine, anche la repressione del dissenso finisce nel mirino, in particolare per quanto riguarda gli attivisti climatici e le proteste di studenti. Il tutto in un quadro generale che, unendo i puntini uno appresso all’altro, mostra all’opera una volontà di cambiare culturalmente il paese, puntando a un’egemonia che serri il più possibile la morsa del potere, prolungandola nel tempo.

Anche in questo caso, come anticipato, le reazioni sono state in un certo senso autoriferite al contesto italiano, non certo pensate per rispondere a livello europeo e internazionale del proprio operato. Commentando sia la lettera a Von der Leyen che il rapporto della MFRR, Meloni ha infatti detto che la sua era “una riflessione comune sulla strumentalizzazione fatta di un documento tecnico”. La Presidente del Consiglio ha anche aggiunto che “gli accenti critici non sono della Commissione europea” ma dei portatori di interesse. Ovvero i giornali come “DomaniRepubblica Fatto Quotidiano”. Sulle querele per diffamazione citate in particolare dalla MFRR, Meloni ha invece detto “non mi pare che in Italia vi sia una regola che dice che se tu hai una tessera da giornalista – che ho anche io in tasca – puoi liberamente diffamare qualcuno”. Analogo il tenore della stampa di destra, che va giù ancora più dura, secondo il collaudato tormentone “colpa della sinistra”, con tanto di elenchi dei giornalisti che non si allineano.

C’è però da far notare ancora una volta come questo tipo di risposta sia pensata più per l’ecosistema italiano e non certo per un pubblico europeo di funzionari ed esperti. L’uscita sui “portatori di interessi” ha senso per chi ci vuole crede, e per chi ignora la metodologia usata, non certo per una Von der Leyen. Nel rapporto della MMFR, questo è evidente in un passaggio in cui si citano i tentativi a vuoto di contattare esponenti del governo o della maggioranza, per ascoltarli sullo stato dell’informazione in Italia. La prima cosa di cui dovrebbe rispondere Meloni è della mancata collaborazione da parte del governo e della maggioranza. Si legge infatti:

LA MFRR ha richiesto incontri con rappresentanti ufficiali del governo e delle istituzioni, tra cui il ministro della Giustizia, il viceministro della Giustizia, il sottosegretario di Stato per l’Informazione e l’Editoria, la presidente della Commissione Giustizia del Senato, i senatori e i deputati della coalizione di governo. Purtroppo, nessuna di queste richieste ha avuto successo.

Invece siamo in uno scenario in cui gli esponenti del governo e della maggioranza che lo sostiene evitano di collaborare a un’autorevole iniziativa volta a monitorare l’operato degli stessi. Dopodiché, una volta che viene pubblicato il rapporto frutto di questa iniziativa, ci si presenta di fronte all’opinione pubblica dicendo in sostanza che esso è frutto di attacchi degli avversari politici, o di quegli stessi soggetti che vengono più o meno quotidianamente attaccatti. O che, nel migliore dei casi, gli autori si sono in pratica fatti incantare da astuti e loschi figuri (ovviamente di sinistra); dei fessi, in pratica. Una sorta di recita a soggetto cui partecipano anche e soprattutto i giornali di un senatore (Angelucci) che viene indicato come potenziale protagonista di un colossale conflitto di interessi. E in cui gli allarmi lanciati dai bersagli, tra comunicati di redazione, dichiarazioni di portavoce di associazioni o di parlamentari di opposizione, si perdono nel rullo compressore dei titoli, delle polemiche, dell’estremismo di governo spacciato per “polarizzazione”, simulando un gioco a somma zero che tale non è.

Un conflitto tra governo e giornalismo, in cui il governo punta a limitare la possibilità che il secondo eserciti la funzione che gli è propria. Veniamo del resto da settimane in cui ci è toccato assistere alla vergognosa conferenza stampa della seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa, in cui si è persino permesso di dire che lui non giocherebbe a calcio con un giornalista sotto scorta, Paolo Berizzi, piccato perché questi in precedenza aveva detto “non si gioca a calcio coi fascisti” (e chissà mai perché La Russa si sarà piccato). E dove per commentare l’aggressione squadrista a un giornalista che faceva il proprio lavoro (“incursione”, sempre per La Russa) ha lasciato intendere che alla fine il problema sarebbe stato il fatto di non essersi identificato come giornalista. Perché si sa che storicamente i fascisti non attaccano i giornalisti che si identificano. Al massimo aspettano di incontrarli su un campo di calcio per falciarli da dietro.

Insomma, la ricezione dei due rapporti da parte dell’estrema destra, si tratti di partiti politici, esponenti del governo o stampa, non fa che confermare la validità del contenuto e degli allarmi lanciati. Una dinamica descritta dalla giornalista Francesca De Benedetti su X/Twitter, in un thread dove spiega la metodologia usata da entrambi i documenti (che non è ovviamente quella descritta da Meloni): “Come liberi pensatori, giornalisti e media indipendenti siamo sotto attacco due volte. La prima, perché il governo Meloni prende di mira la libertà di informazione. La seconda, perché per provare che ciò non sta avvenendo, le vittime degli attacchi sono descritte come nemici della nazione”.

In copertina: Giorgia Meloni all’altare della patria, immagine di vialibera.it

Coblas di via Colomba
1. Penelope a Porta Saragozza

Coblas di via Colomba. 1. Penelope a Porta Saragozza

La prima volta è stata il nove dicembre. Lei si è seduta accanto a lui e gli ha letto un racconto: Silva, detto l’Occhio. Letto o raccontato, Leone non lo sa: c’era così poca luce.
Da allora è così ogni notte.

Bologna che non dorme mai, Bologna sveglia già prima dell’alba.
Leone si alza presto di mattina: la sua casa, la sua vita da solo, i tetti tra Frassinago e Sant’Isaia. Ma ora la moka è festa e alba, l’alba dei vecchi a porta Saragozza – così vicino ai colli – alba fragrante come pane.

Da mesi non usciva quasi più, Leone, e ora cammina tutti i giorni. Nella matassa dei vicoli pensa a Beatriz Viterbo, a Silva detto l’Occhio, alla ragazza Ida in piazzetta Colomba – neanche li conosceva, fino a ieri. Sua moglie, suo figlio lontanissimi; amici e parenti ancor più lontani, persi nel tempo e nello spazio; la sua carriera finita molti anni fa, quando rifiutò un favore in un appalto importante.

Certe mattine i portici di Saragozza e la biblioteca di Villa Spada, fieno e gelo sul fianco della collina: ore di Resurrezione e Cechov, o anche solo guardare gli alberi. E un giorno via Saragozza verso il centro, giù a piedi sotto i portici poi il Collegio di Spagna, uno slargo nel cuore, la piazza.

Nella biblioteca grande la vede davanti al bar, nel viavai del mattino: ma prima riconosce la sua voce, voce brunita e un po’ straniera, giovane. Ha i capelli rossi ed è pallida, ha preso un caffè stretto, senza zucchero.

Ma sei davvero tu.
Sì, Leone.
Come ti chiami.
Penelope.
Verrai ancora.
Sì.

Torna ogni notte, siede accanto al letto o alla poltrona. Gli dice di Colly e dei trilobiti, di Austerlitz e Lizzy. Di Luca che morì a Lissa, della casa del nespolo in malora. Di Giuseppe sull’uscio della bottega, nel vuoto largo di piazza Santo Stefano. Di Nina che vende rose. Di zia Rose che si sposa all’improvviso, già anziana, e che festa ascoltarla.
Dicembre 2011. Le notti più lunghe dell’anno.

Natale è dopodomani. Suona il telefono, è suo figlio, dice che non può scendere a Natale: vieni tu in treno, dice. Vieni tu a Milano, papà.
Leone va all’agenzia di viaggi, chiede gli orari per Milano. Poi rinuncia. Quella notte non c’è quasi rumore, a Porta Saragozza, e Penelope gli legge Fiesta.

La notte del tre gennaio è nevicato: luna piena sul mare bianco dei tetti e di là, verso i colli, dove le luci delle case tremano. E lei gli dice di un poeta russo, che raccontava ai suoi compagni, ai lavori forzati, Petrarca e Dante letti in italiano.

Il libro delle sonore argille, la libresca terra,
Il libro putrefatto, la diletta argilla
Che ci tormenta come musica e parole.

Undici gennaio, da tre giorni sereno: i giorni dell’alcione, del martin pescatore. Leone si alza presto e va in stazione, compra un biglietto andata e ritorno per Ferrara. Viaggio breve, ma da quanto non prendeva un treno. Arriva che è giorno fatto: il Capo delle Volte, i fondachi dei mercanti, piazzetta Colomba, a piedi fino in piazza, adagio, fino a che suona mezzogiorno. Vie che furono il ghetto, i suoi passi, gli androni.

Abre tu puerta cerrada que en tu balcon luz no hay
yo demandí por la tu hermosura
como te la dio el Dios

Passano pochi giorni, Leone torna all’agenzia di viaggi e chiede un biglietto per Venezia, domani, partenza all’alba. Mentre stampa il biglietto, l’impiegata dice: – Diciotto gennaio. Mica è una cosa da turisti, Venezia in gennaio.
Infatti è una cosa da poeti, dice lui. Una cosa da poeti russi.

Scende a Santa Lucia, prende per Cannaregio e guarda attorno. Vento largo, il ghetto, tutto è lì e gli ricorda troppe cose, un misto di giovinezza e di putredine. Così, come per perdersi, entra nel labirinto delle calli.
Fondali d’acqua scura, calli senza botteghe, una storia che aveva letto e dimenticato; poi, quasi con stupore, vede sorgere in fondo la laguna.

Leone alle Fondamente Nove. Una barca arriva dall’isola di fronte – un’isola cinta di mura, un’isola crestata di cipressi – e rompe l’acqua in un mosaico di luce.
In distanza il profilo delle Alpi, bianco di neve oltre la laguna; non sa perché, ma guardare – non la bellezza o la sorpresa, proprio e solo guardare – guardare gli fa quasi paura.

Senti che aria, Leone.
Penelope è scesa dalla barca: guance rosse di freddo, un ciuffo rosso fuori dal berretto; senti che odore, Leone. Alghe marine sotto zero.
Stanno lì, dove attraccano le barche. In piedi, fermi a guardare il tempo e l’acqua.

[Continua a leggere i racconti della serie Coblas di via Colomba domani e domenica pomeriggio su Periscopio]

Per leggere i racconti di Silvia Tebaldi su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

Storie in pellicola / Codice rosa

Un cortometraggio breve e che non ha bisogno di parole. Solo un colore: il rosa

In mare aperto, un fenicottero atterra su una portaerei. Per mantenere la pista libera e far decollare gli aerei, i militari devono sbarazzarsene. Ma il fenicottero e i suoi congeneri tornano implacabili per mettere di rosa la grigia macchina da guerra. La invadono.

Un cortometraggio bellissimo, “Code rose” (2022), diretto da Taye Cimon, Pierre Coëz, Julie Groux, Sandra Leydier, Manuarii Morel e Romain Seisson, sei alunni della scuola francese Ecole des nouvelles images di Avignone.

Il cortometraggio basato sulla folla – la nuvola di fenicotteri è potentissima – presenta un conflitto esterno tra esseri umani e animali, una messa in scena che coinvolge grandi distanze, un messaggio pacifista ed elementi del genere dei film di guerra, abilmente combinati con surrealismo e grande magia.

Le inquadrature sono ampie, non ci si concentra sulle espressioni facciali umane per creare tensioni o conflitti, ma lo si fa attraverso le posture del corpo, le performance dei personaggi e il confronto continuo tra la portaerei e i fenicotteri decisi.

Molti i punti forti di questo lavoro: ritmo visivo elevato, gestito attraverso il montaggio, il movimento all’interno dell’inquadratura, i movimenti della telecamera (panoramiche, riprese aeree), sceneggiatura altamente creativa con un conflitto insolito, elementi giocosi e surreali che ravvivano il film con umorismo, eccezionale lavoro estetico e di animazione, punti della trama efficaci e molte sorprese che catturano gli spettatori.

L’immersione nel rosa conduce in un mondo magico dove la bellezza ostinata può mettersi di traverso e fare la differenza. Trionfando, in beffa a tutto e a tutti.

Emilia-Romagna: occorre una svolta radicale nelle politiche ambientali

PER UNA SVOLTA RADICALE NELLE POLITICHE AMBIENTALI IN REGIONE MODIFICARE PROFONDAMENTE IL MODELLO PRODUTTIVO E SOCIALE

In tutto il Paese e in Emilia Romagna veniamo da anni di politiche ambientali (e non solo) sbagliate e inefficaci per contrastare il cambiamento climatico, affermare nei fatti la vera e necessaria transizione ecologica, fermare il dissesto idrogeologico e il consumo di suolo, attuare politiche per tutelare e preservare i beni comuni. Nella nostra regione abbiamo visto mettere in campo scelte in contraddizione con la necessità di uscire dall’economia del fossile (come il rigassificatore di Ravenna, il gasdotto Sestino – Minerbio e tutte le altre opere di potenziamento del sistema estrattivo), continuare a puntare sulle grandi opere stradali e autostradali in tema di mobilità (dal Passante di Mezzo a Bologna alla bretella Campogalliano – Sassuolo, dalla Cispadana alla Tibre), proseguire nel consumo di suolo (vedi il caso esemplare della logistica), devastare il patrimonio arboreo e boschivo, ignorare l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, dare seguito alle politiche di privatizzazione dei beni comuni, a partire dall’acqua e dal ciclo dei rifiuti.

È sempre più evidente che, invece, occorre promuovere una svolta radicale nelle politiche ambientali della Regione. E non solo in esse, visto che le stesse sono strettamente intrecciate con un modello produttivo e sociale, incentrato sul primato del mercato, la svalorizzazione del lavoro, la progressiva privatizzazione del Welfare.

La legislatura regionale che sta alle nostre spalle, e, in specifico, la Giunta regionale che l’ha condotta, è stata la prima responsabile di questa deriva regressiva. La proposta che oggi viene avanzata dal partito di maggioranza relativa con la candidatura di De Pascale sembra muoversi in sostanziale continuità con quelle scelte, a partire dall’esaltazione del Patto per il lavoro e il clima che, dietro affermazioni altisonanti, in realtà, le ha legittimate ed ha portato ad atti concreti addirittura più arretrati rispetto alle enunciazioni.

La destra, anche nella nostra regione, si presenta con un profilo che appare ancora peggiore sia rispetto alle scelte ambientali che al modello di società che propone. Coerentemente con la propria ispirazione negazionista, essa mostra l’intenzione, al di là delle affermazioni elettoralistiche, di rendere ancora più marginali, se non addirittura da annullare, tutte le politiche che guardano alla transizione ecologica, al contrasto al cambiamento climatico, al ridimensionamento dei poteri forti che continuano a voler perpetuare l’attuale insostenibile modello di sviluppo.

A fronte di questa situazione, la scelta prioritaria, per noi, è naturalmente quella di costruire e rafforzare la mobilitazione sociale per affermare la prospettiva di un modello produttivo, sociale e ambientale alternativo a quello oggi dominante. Per questo, rivendichiamo a chi guiderà la prossima legislatura regionale i seguenti obiettivi prioritari:

  • avviare l’uscita dall’economia del fossile, a partire dalla messa in discussione del rigassificatore di Ravenna e del gasdotto, per realizzare più rapidamente possibile il passaggio al 100% di energia prodotta da fonti rinnovabili;
  • difesa e ripubblicizzazione dei beni comuni, iniziando dall’acqua e dal ciclo dei rifiuti, per i quali vanno previsti la minimizzazione della loro produzione e di quelli non riciclati, uscendo al più presto dal ricorso all’incenerimento;
  • moratoria su tutte le opere che prevedono ulteriore consumo di suolo, con particolare riferimento ai poli logistici, e, invece, avvio di un programma serio di rinaturalizzazione dei corsi d’acqua e di riassetto idrogeologico. In questo quadro va inserito un intervento forte di tutela del verde, di rimboschimento e di blocco della distruzione di ogni area boschiva;
  • moratoria e ridiscussione delle grandi opere stradali (Passanti di Bologna, bretella Sassuolo-Campogalliano, Cispadana, Tirreno-Brennero e altre ancora), in connessione con il forte rilancio del trasporto collettivo e della mobilità ciclabile e pedonale;
  • stop definitivo all’espansione degli allevamenti intensivi e l’avvio di un programma per la loro riduzione, in un quadro di promozione di un sistema agroindustriale basato sulla prossimità e la valorizzazione della naturalità;
  • approvazione delle proposte di legge regionale di iniziativa popolare promosse da RECA e Legambiente regionale e dei loro contenuti in tema di energia, acqua, rifiuti e consumo di suolo, anche per dare valore agli strumenti di democrazia partecipativa.

Su queste basi, invitiamo tutte le realtà ambientaliste e sociali della regione a incontrarsi e confrontarsi, valorizzando tutti i possibili processi di convergenza, con l’intenzione di promuovere una grande manifestazione regionale per la metà di ottobre a Bologna, nella quale far vivere le nostre richieste e dare voce alla necessità di una svolta nelle politiche ambientali e sociali nella nostra regione.

COORDINAMENTO  REGIONALE  RETE  EMERGENZA CLIMATICA  E  AMBIENTALE  ER

Parole a Capo
Federica Graziadei (poesie inedite 2017-2020)

Cerca di conservare sempre un lembo di cielo sopra la tua vita.
(Marcel Proust)

 

Non so che cosa tu sei

Non so che cosa tu sei,
se stella,
se il profumo della rosa,
se il sole che entra dalla finestra
nel mio mattino di festa.
Non so che cosa tu sei,
se il mare,
se l’azzurro del cielo
di Primavera,
se la fragola fremente
che dona dolcezza alle mie labbra.
Non so che cosa tu sei.
Ciò che sento sei,
forse, il mistero del mio Tutto.

(Traduzione a cura dell’autrice)

Ich weiß nicht, was du bist,
Ob ein Stern,
Ob Rosenduft
Ob die Sonne, die durch das Fenster
in meinen feierlichen Morgen reinkommt.
Ich weiß nicht, was du bist,
ob das Meer,
das Hellblau des Frühlinghimmels
die erregte Erdbeere, die meinen Lippen Süßes verleiht.
Ich weiß nicht, was du bist,
Ich ahne,
dass du vielleicht das Geheimnis
meines Allen bist.

 

Le persone sensibili

Le persone sensibili
vedono quell’oltre
di inafferrabile dalla realtà.

Le persone sensibili
urlano dentro senza gridare.

Le persone sensibili
sentono lo stomaco stringersi
nel vuoto di una malinconia.
Le persone sensibili
Tengono cocci di parole
Per non scoprire troppo l’anima.

Le persone sensibili
hanno vene capaci di trasportare
emozioni travolgenti e silenziose.

Le persone sensibili
piangono per il peso
dell’innocenza di uno sguardo.

Le persone sensibili, tutto sentono,
eppure, riescono a stare in equilibrio
sul filo del loro cuore gonfio e fortunato.

 

Notte stellata

Dolce è questo silenzio,
l’anima mia ascolta
La stella più alta,
più lontana è il sogno
che inseguirò per tutta la mia vita.
Il suo nome è Verità.
Poi ci sono stelle più piccole, e guardo
vicine una all’altra
che hanno certi occhi scuri, vivi e curiosi.
Queste mi amano e mi proteggono.
Vega feconda e superba, brilla e tenta invano
di misurare il mio amare.
Le indicherò la strada di ciò che è essenziale.
I versi di Catullo appesi nella mia mente
-Vivamus , mea Lesbia, atque amemus –
Ama e non ti curar del giudizio.
Poi ci sono stelle luminosissime,
mostrano luci accecanti
dentro corpi lividi, neri, graffiati, strappati.
Queste mi chiedono carezze.
Il Sole infine, Stella che splende sui miei giorni
forte, coraggioso mi ricorda il suo muoversi fedele.
Addolcisce le mie inquietudini

Nel dolce silenzio
che l’anima mia ascolta.

 

La sera

 

Meravigliosa la sera
dei volti ripara gli anfratti
disegni del faticoso giorno
Silenzio e fascino …
nelle luci
tiepide e sospese
nei colori tenui
delle sagome
Suono ovattato di voci
tutto appare pace
sogno dentro al sogno
Oggi è il meglio di ieri
Se non è ancora felicità
la poesia di Saba
appesa nella mia mente
come una preghiera
Il mio cuore dolcemente
qui abbandono

 

Federica Graziadei è nata a Ferrara nel 1971. Vive nella sua amata città assieme al marito Giulio, i figli Anna e Giorgio. Lavora dal 2001 in un’azienda multinazionale di ingegneria progettazione impianti industriali. La passione per le lingue e la letteratura con predilezione per la poesia si rivela negli anni degli studi superiori. Nel 2002 ha pubblicato la sua prima silloge “Luna, da lassù” (Ed. Libroitaliano 2002). Nel 2003 ha ricevuto la segnalazione di merito per la poesia edita “Ombra” alla II Edizione del Premio “Gianfranco Rossi per la giovane Letteratura”. Suoi testi sono apparsi nell’antologia poetica “Sedici poeti ferraresi emergenti” (2009) e nella rivista culturale “l’Ippogrifo”, periodico ufficiale del Gruppo Scrittori Ferraresi. Nel 2016 la pubblicazione della seconda silloge “La luna nel bicchiere” (Ed. Aletti 2016). Promotrice di eventi culturali e dal 2019 Presidente dell’Associazione culturale” Gruppo Scrittori Ferraresi Aps”.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Questo che leggete è il 241° numero. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

 

Autonomia differenziata: alcuni dati e prime considerazioni

Autonomia differenziata. Alcuni dati e prime considerazioni

La legge 86/2024 sull’Autonomia differenziata è entrata in vigore il 13 luglio vistata dal Presidente della Repubblica. L’opposizione di centrosinistra ha indetto un referendum abrogativo che ha già raccolto in pochi giorni le 500mila firme necessarie (si farà nel 2025). Le preoccupazioni riguardano la possibilità che una parte maggiore di risorse (rispetto alle attuali) passi dalle regioni del Sud al Nord, visto che la legge impone “assenza di aggravio per le finanze pubbliche”. Tuttavia, come hanno scritto due esperti della materia su lavoce.info (che ha fatto un E-book di 250 pagine), Massimo Bordignon e Leonzio Rizzo (vicini al centrosinistra), la legge Calderoli esclude questa possibilità. Casomai, andrebbe sottolineata la difficoltà pratica di attuare la nuova distribuzione di risorse che la legge richiede, basata su costi e fabbisogni standard per i vari servizi (conseguenti all’attuazione dei LEP, i Livelli Essenziali delle Prestazioni, che devono essere fatti entro 2 anni) e che con molta probabilità saranno “Livelli Essenziali ma Minimi”.

Per i due esperti i problemi veri della legge sull’autonomia differenziata sono in realtà altri. Il primo riguarda le commissioni paritetiche “che ogni anno in una contrattazione tra Stato e singola Regione definiscono la compartecipazione ai tributi erariali che dovrebbe garantire il finanziamento delle funzioni delegate alla regione stessa. Poiché ogni regione può chiedere un insieme diverso di funzioni su diverse o sulle stesse materie, la potenziale complessità del sistema che ne risulta è enorme”. Se si conviene che il Veneto abbia un aumento del fabbisogno in una materia, dato il vincolo dell’invarianza finanziaria posto dalla legge, ci sarà un effetto su tutte le altre Regioni e ovviamente un aggravio per il Bilancio dello Stato (cosa che la legge esclude). Come possa funzionare un sistema simile con potenziali 15 diverse commissioni paritetiche in 21 diverse Regioni è un enigma. Se poi una Regione scopre che in una materia spende di più (del previsto) cercherà di restituirla allo Stato. E’ probabile quindi che anche di questa legge (come quella “mitologica” n.42/2009 sull’allora federalismo fiscale, così pomposamente definita, non se ne faccia nulla.

Il referendum potrebbe così diventare solo uno scontro politico in cui entrambi gli schieramenti rischiano: il centrosinistra perché ottenere 24 milioni di votanti come quorum, cioè il doppio degli elettori avuti come coalizione alle ultime elezioni, è molto difficile; il centro-destra perché se si raggiunge il quorum la maggioranza sarà certamente contraria. Lo è anche Marcello Veneziani, intellettuale di destra che di conti non ne se ne intende, ma vede questa legge come divisiva della patria Italia.

Il secondo tema critico, dicono Bordignon e Rizzo riguarda quante delle 23 materie sia opportuno decentrare (16 erano per l’Emilia-R.) nell’interesse pubblico. La teoria economica suggerisce che una materia dovrebbe essere decentrata quando: 1) influisce solo localmente e non crea esternalità su altri territori limitrofi; 2) le preferenze dei cittadini residenti differiscono molto da un territorio all’altro; 3) se non produce economie di scala, tali da generare importanti risparmi di costo nel caso in cui le decisioni vengano prese a livello nazionale.

Per i due esperti ci sono alcune materie che non vale la pena decentrate in quanto potrebbe portare a una gestione meno efficiente di quella garantita da un decisore nazionale come Ambiente, Beni culturali, Porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, Energia (trasporto e sua distribuzione). Ma anche tra le 9 materie su cui si è deciso che non sono necessari i LEP e su cui le regioni possono quindi già inviare le loro richieste (come già hanno annunciato di voler fare subito Veneto, Piemonte e Lombardia), ce ne sono molte che suscitano perplessità. Per esempio: Energia, Commercio con l’estero, Tutela e sicurezza del lavoro, Previdenza complementare e integrativa, Banche di interesse regionale, porti e aeroporti. Il rischio, concludono i due esperti, è che si “decentri troppo emale e anche nelle funzioni in cui un maggior ruolo delle regioni può avere un senso, non c’è alcun criterio che leghi la loro devoluzione a criteri che indichino una maggiore capacità gestionale delle regioni, effettiva o potenziale”. L’unico criterio è infatti la trattativa politica tra singola regione e lo Stato. E questo è molto bizzarro per uno Stato serio. Probabilmente si conta sul fatto che solo le regioni di grandi dimensioni chiederanno l’autonomia, perché per come è fatta la legge anche il Molise (269mila abitanti) potrebbe chiedere tutte le 23 materie e sarebbe (per il Molise) una catastrofe. Lo spirito della riforma dovrebbe essere quello di innescare una competizione virtuosa tra le regioni in grado di fare di più e meglio di quanto ha fatto fino ad oggi lo Stato centrale. In assenza però di Authority che misurano e monitorano almeno le materie più delicate (istruzione, ambiente, energia) il pericolo è quello di moltiplicare le burocrazie e i centri decisionali, di ingolfare le istituzioni (e il paese) con regole troppo diverse da regione a regione, nonché di alimentare un’ulteriore sovrapposizione delle competenze tra Stato e Regioni.

E’ tuttavia vero che la legge stessa prevede una durata di 10 anni e un monitoraggio annuale e che dunque, potremo avere informazioni (non sappiamo quanto accurate) anno dopo anno su come funziona questa sperimentazione (ammesso che decolli) e, nel caso di gravi inadempienze, lo Stato si riserva di togliere l’autonomia ad una singola regione in ogni momento. Non si potrà non riconoscere che fino ad oggi (in 75 anni) le ampie risorse gestite dallo Stato centrale a favore dei cittadini del Sud non hanno dato gli esiti che ci si aspettava e che non si vede perché Regioni che hanno dimostrato di avere buone pratiche (migliori di quelle dello Stato centrale) non possano gestire materie, a meno che non ci siano, come dicono appunto Bordignon e Rizzo, motivi seri (diseconomie di scala ed esternalità negative su altre regioni). Stiamo parlando di regioni di grandi dimensioni che hanno popolazioni come altri Stati: Lombardia come Svezia e Portogallo, Veneto Piemonte ed Emilia-R. come Irlanda, Norvegia, Finlandia, Danimarca e tutte sono dentro la cornice europea che pone normative comuni sempre più stringenti.

Nella tabella successiva riporto i costi regionalizzati al 2019 (più recenti non ci sono) relativi alle varie materie per la regione Emilia-Romagna. Ho evidenziato in giallo le materie che secondo Bordignon e Rizzo non sarebbe opportuno decentrare e in verde quelle richieste a suo tempo (2017) dalla Regione Emilia-R. Per un approfondimento delle diverse materie richieste dalle tre regioni [si veda qui]

Come si potrà notare l’Istruzione (che non comprende l’Università e gli ITS che rimangono una prerogativa nazionale) fa la parte del leone con 2.400 milioni, assorbendo da sola il 92% di tutte le risorse delle 23 materie potenziali da decentrare. Le restanti materie hanno costi irrisori tranne Ambiente (48 milioni) e Beni culturali (37 milioni) che comunque insieme fanno solo il 3,2% del budget trasferibile alla Regione, materie, peraltro, tra le 16 richieste anche dall’Emilia-Romagna.

La discussione dovrebbe quindi concentrarsi soprattutto sull’Istruzione (che è quella che ha di gran lunga un impatto maggiore sui cittadini) e su cui Bordignon e Rizzo non sollevano particolari criticità in quanto è indubbio che ogni regione abbia una sua specificità produttiva (che influisce sulla formazione professionale) e per il resto, anche sulla base dell’esperienza delle 5 Regioni a Statuto Speciale Autonomo, non si notano varianze significative nei programmi e nel complesso delle procedure organizzative. Nella scuola il finanziamento pubblico per alunno al Sud è solo del 9% più basso di quelle delle regioni del Nord, un valore che non compromette l’uguaglianza in quanto vanno considerati i minori costi per alcuni servizi e attrezzature in aree dove il costo della vita (certificato dall’Istat) è inferiore del 15-20-30% rispetto alle aree del Nord. Eppure in quasi tutte le scuole del Sud mancano le mense e il tempo pieno. Un rischio/opportunità è che i docenti diventerebbero dipendenti regionali anziché statali e ciò potrebbe portare ad un aumento degli stipendi nelle regioni più ricche, come avvenuto in Trentino e Alto Adige, ma ciò risponderebbe anche ad un bisogno reale di aree dove il costo della vita è maggiore che al Sud. Sul tema “Ambiente-eco-sistemi” e “Beni culturali” le tre regioni hanno buone pratiche e spesso hanno colmato ritardi e stalli delle amministrazioni centrali. I fautori della legge sostengono quindi che non si vede perché una maggiore autonomia potrebbe essere negativa.

Credo sia importante conoscere la situazione delle entrate proprie e della spesa primaria (e di conseguenza della differenza, detto residuo fiscale) nelle singole Regioni, in base all’unico studio qualificato disponibile (Banca d’Italia, 2020: Entrate e Spese delle Regioni nel 2019). Può essere che ci siano dati più recenti ma nessuno li tira fuori. In ogni caso la sostanza non cambia.

In base a questo studio si vede bene lo squilibrio tra Entrate e Spese nelle singole regioni. Per le Entrate si va dal massimo di 20.902 euro pro-capite del Trentino o dei quasi 19mila euro della Lombardia a 8.867 della Sicilia (ma anche Campania e Calabria sono su quel livello).
La spesa primaria è invece quasi uguale: è solo di poco più alta in Lombardia (13mila euro pro-capite) e quasi 12mila nelle più deboli regioni del Sud. Come si vede c’è un fortissimo riequilibrio garantito (giustamente) dallo Stato centrale con un fondo di riequilibrio che garantisce quasi pari risorse a tutte le Regioni. I problemi sono però due:
a) in alcune regioni (specie al Sud) queste risorse non si traducono in servizi;
b) al Nord questo fondo non è pagato da tutti ma solo da 3 regioni (Lombardia, Emilia-R., Veneto), oltre che dal Lazio. Queste 4 regioni versano circa 100 miliardi all’anno allo Stato di entrate proprie (essendo più ricche), il quale Stato ne trattiene 30 miliardi per sé e altri 70 miliardi li versa alle regioni del Sud ma anche a 2 regioni autonome del Nord (Val d’Aosta e Trentino Alto Adige) che spendono più di quanto incassano, approfittandosi di una convenzione storica firmata nell’immediato dopoguerra da De Gasperi con l’Austria ratificata dall’ONU, in cui al Trentino Alto Adige lo Stato versa risorse aggiuntive a tutela delle minoranze (italiana e ladina) in Südtirol. Una riforma che tutto il mondo ci invidia e che ha consentito (con soldi aggiuntivi) a minoranze (italiane e ladine) di essere ampiamente tutelate da una maggioranza (tedesca) che, di fatto, governa. “Soldi in cambio di pace” e che potrebbe essere anche una via dove ci sono tanti conflitti etnici e religiosi nel mondo (è stata proposta anche nel Donbass). Il problema è che questi soldi sono versati solo dai cittadini lombardi, emiliano-romagnoli e veneti.

Entrate pro-capite, spesa primaria, differenza (residuo fiscale). % spesa su entrate e simulazione nel caso di trasferimenti da 9 regioni del Sud a 3 regioni del Nord pari a +/-7% della spesa (18 miliardi annui), dati 2019 su fonte Banca d’Italia. (Fonte: Andrea Gandini su dati Banca d’Italia)

A mio modesto parere, dopo 75 anni, i trasferimenti dello Stato a Val d’Aosta e Trentino A.A. potrebbero diminuire, in quanto si tratta di regioni che un tempo erano povere (e il Trentino A.A. con enormi conflitti etnici) ma ora sono ricchissime e non hanno necessità di risorse aggiuntive da parte di uno Stato italiano (largamente indebitato) per tutelare le loro minoranze che, diventate tutte più ricche, vivono in pace. Un tema a cui nessuno Governo vuol porre mano perché ridurrebbe i consensi elettorali anche se va a scapito delle regioni che lo finanziano (Lombardia, Emilia-R., Veneto e Lazio). Il Lazio ha però un vantaggio enorme rispetto alle altre regioni: a Roma lavora gran parte della Pubblica Amministrazione statale e dei Ministeri ed è per questo che risulta un residuo fiscale attivo tra Entrate e Spese. In realtà se la P.A. fosse redistribuita in vari capoluoghi di regione, come pure si era pensato in passato, questo attivo non ci sarebbe. E anche questa redistribuzione sarebbe un fattore di uguaglianza e minore congestione di una città d’arte senza paragoni al mondo.

Rimangono così nella sostanza le “ragioni” delle tre regioni del Nord che finanziano le altre (specie il Sud e le due autonome del Nord). Non stupisce quindi che siano state queste che abbiano chiesto l’Autonomia differenziata, anche se ora Bonaccini (E.-R.) ha cambiato idea (penso per ragioni elettorali) e dice che “la vuole in modo diverso”. Una delle regioni più arrabbiate è il Veneto in quanto confina con il Trentino A.A. che, pur essendo più ricco, riceve risorse aggiuntive dallo Stato in quanto Regione autonoma (più l’Alto Adige che il Trentino) ed è per questo che periodicamente alcuni comuni veneti cercano di passare al Trentino A.A. solo per questione di soldi. L’Austria dal canto suo ha detto più volte che mai accoglierebbe le richieste (sempre minori) dei nostalgici che vorrebbero passare all’antica madrepatria Austria, la quale non vuole accollarsi le ingenti risorse che l’Italia spende per questo milione di cittadini (alquanto abbienti) ormai del tutto integrati in Europa.

La legge Calderoli prevede che le singole regioni possano chiedere allo Stato di gestire in autonomia tutte le 23 materie e che le regioni che non lo chiedono abbiano però le risorse per erogare i servizi e i beni pubblici “adeguati ad un livello di prestazione essenziale” (i famosi LEP), e siano finanziate attraverso l’attuale fondo perequativo che compensa la differenza tra bisogni e capacità fiscale delle singole Regioni. E si dice anche che “la spesa pubblica nazionale non risulti in aumento”. A tutta prima e anche secondo Bordignon-Rizzo “un’attenta analisi della legge, esclude la possibilità che il governo nella fase attuativa non rispetti i vincoli imposti dalla stessa legge e proceda a trasferimenti di soldi dal Sud al Nord e se lo facesse, sarebbe ben grave”. Nulla però esclude che nel corso di 10 anni (tanto dura la fase di sperimentazione), il Governo trovi il modo di trasferire risorse dal Sud al Nord. Ecco perché ho fatto la simulazione con una ipotesi di circa 18 miliardi. Esiste anche uno studio dell’Osservatorio della Cattolica (OCPI) fatto con 33 miliardi.

Personalmente non credo che il Governo farà una cosa del genere che viola la sua stessa legge, anche perché ci sarebbe una enorme reazione delle regioni del Sud. Credo invece che cercherà la via, senza togliere risorse al Sud, per dare qualcosa in più alle tre regioni del Nord. L’ideale sarebbe che, a parità delle attuali risorse, ci fosse una sperimentazione per chi sa gestire meglio tali risorse con tanto di monitoraggio.

Calcolare i LEP entro i prossimi 2 anni sarà poi molto complicato in quanto occorre definire: 1) i costi standard di ogni bene pubblico erogato in modo efficiente, 2) il livello di prestazione minima, 3) i fabbisogni di ogni amministrazione locale. Cosa che non si è riusciti a fare in 25 anni nella sanità coi LEA (Livelli Essenziali di Assistenza).

In sanità I LEA sono stati introdotti nel 1999 (qualcosa di simile ai LEP), furono approvati 20 anni più tardi e dopo infinite schermaglie tra regioni e stato. Sono stati aggiornati nel 2017, ma ancora oggi non sono erogati in quantità e qualità uniformi in tutte le regioni del paese. L’elaborazione dei costi standard degli asili nido ha richiesto dieci anni, come si potrà farlo per 23 materie in 2 anni è un mistero. Quando la capacità amministrativa è poi di bassa qualità (come al Sud) chi ne fa le spese sono i cittadini, i quali però, come nel caso della sanità al Sud, non hanno alcuna penalità se non quella di venirsi a curare al Nord (chi paga sono le singole ASL introducendo qualche ticket in più per i consumatori).

La discussione dovrebbe quindi concentrarsi su quali materie la gestione regionale potrebbe essere più efficiente di quella statale. Importante è che la legge 86/2024 preveda un monitoraggio annuale (oltre a quello della Corte dei Conti) e una durata massima di 10 anni e la possibilità per lo “Stato, qualora ricorrano motivate ragioni a tutela della coesione e della solidarietà sociale, conseguenti alla mancata osservanza, direttamente imputabile alla Regione sulla base del monitoraggio di cui alla presente legge, dell’obbligo di garantire i LEP, dispone la cessazione integrale o parziale dell’intesa, che è deliberata con legge a maggioranza assoluta delle Camere”.

L’auspicio è che in 10 anni si realizzino buone pratiche (sulla base di una comparazione) che consenta la loro diffusione tra Regioni o il ritorno di alcune materie allo Stato. Una Autority pubblica (che non è prevista) avrebbe agevolato questo processo in modo da coordinare il funzionamento di tutte le commissioni paritetiche e monitorare la situazione finanziaria di tutte le regioni d’Italia e nel caso dell’Istruzione (dato l’enorme peso che ha sulle altre) istituire una specifica Autorithy dell’Apprendimento, come aveva proposto nel 2000, Luigi Berlinguer, che analizzasse scuola per scuola (i dati aggregati non servono a nulla, essendoci enormi differenze tra le scuole nello stesso Comune) in base ad una ventina di parametri, in modo da aiutare tutti a migliorarsi. Viceversa, mancando questo approccio e un consenso con l’opposizione, il rischio è una riforma pasticciata alla Calderoli che rischia di provocare più caos che efficienza, con monitoraggi limitati e così indebolendo quel clima di unità del paese che un intellettuale di destra come Marcello Veneziani, ha condannato.

Io, che invece sono di sinistra, non sono contrario che si individui una via per rendere più responsabili gli amministratori (del Sud e del Nord) nei confronti dei loro cittadini, anche per un principio democratico e di sussidiarietà e perché non siano premiate le consorterie di potere in cui si aggregano interessi particolari (sia al centro, a Roma , poco controllabili) sia in alcune regioni, anche per stroncare ogni forma di opacità nelle regole di Governo, di criminalità e abusivismo (quello edilizio al Sud è al 50%). Ovviamente se dietro la legge c’è l’idea di sottrarre risorse in modo indiscriminato al Sud (vedi simulazione), essa diventerà un boomerang per le destre. La sinistra non si può però cullare in slogan “anti”, quando le ingiustizie in termini di entrate e spese sono evidenti a vantaggio sia di regioni ricche (autonome del Nord) che di povere (al Sud), perché, prima o poi chi paga (Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto) chiederà conto. Sono passati 75 anni dalla Costituzione e non possiamo non vedere che la gestione statalista al Sud è fallita, nonostante le ingenti risorse fino ad oggi erogate. Si dovrebbe quindi discutere nel merito perché ciò non prosegua. Certamente se ci fosse stato uno spirito di cooperazione tra le parti la legge (che non è cattiva) poteva essere migliore ed essere avviata come sperimentazione. Ma il Paese è da sempre diviso anche su cose essenziali e in particolare sull’assetto istituzionale che vede Regioni con 10 milioni di abitanti (Lombardia) e alcune come Val d’Aosta e Molise con meno abitanti di una provincia media (123mila e 289mila). Ci si dovrebbe muovere come disse 75 anni fa il compianto industriale politico visionario Adriano Olivetti con macroregioni e comuni da 100mila abitanti, senza togliere però il presidio nei piccolissimi Comuni (8mila) che potrebbero essere amministrati anche solo da pochi eletti.

Si ammetterà che in Italia si sono fatti vari pasticci (dalla DC al PCI, e con la modifica del titolo V della Costituzione nel 2001 dallo stesso centrosinistra), ultimo la soppressione delle province. Per quanto riguarda le Regioni l’approccio non è stato proprio limpido neppure da parte dei nostri (pur ottimi) Costituenti. Essi introdussero l’Istituto delle Regioni infatti con non troppa convinzione. La DC era favorevole in modo più strumentale che sostanziale, in quanto convinta di perdere le elezioni del 1948, mentre il PCI era tiepidissimo in quanto convinto di vincerle e così poter governare l’intero paese senza di mezzo le Regioni. Quando nel ’48 vinse la DC le posizioni si capovolsero e il PCI diventò un fiero alfiere delle Regioni, mentre la DC ci mise 22 anni prima di introdurle nel 1970. Come si vede anche i nostri Costituenti (politici di alto rango) non furono immuni da opportunismi nella costruzione delle Istituzioni. Un vizio antico che oggi si ripropone in modo accentuato. Al di là di come andrà il referendum, bisognerebbe avviare una discussione e poi sperimentazioni (prima di introdurre leggi nazionali).

Una nota per la mia simulazione (che è a invarianza di spesa pubblica nazionale, come dice la legge). Nel caso ci fosse tale trasferimento (“il diavolo è nei dettagli”, anche in quelli futuri che potrebbero venire) ma, per onestà intellettuale, questa la legge non prevede alcun trasferimento di risorse dal Sud al Nord, ho calcolato un trasferimento pari a circa 18 miliardi (+7% di spesa) nelle 3 regioni del Nord a scapito di 9 del Sud. Il Veneto ha sempre detto che si “accontenterebbe” di avere il 90% della spesa sulle sue entrate e quindi ho calcolato questa come suo massimo. L’Osservatorio dell’Università Cattolica ha invece fatto una simulazione su 33 miliardi.

Esso comporterebbe un vantaggio di circa 900 euro all’anno per i 19,1 milioni di residenti nelle 3 regioni del Nord e uno svantaggio analogo per i 22,1 milioni di cittadini delle 9 regioni del Sud (nell’ipotesi che quelle che hanno una spesa prossima alle entrate non abbiano modifiche: Marche, Liguria, Toscana, Friuli, Piemonte). Però più che un tale trasferimento dal Sud al Nord, temo che nel corso degli anni possa avvenire nelle “pieghe delle procedure” (il diavolo, ripeto, è nei dettagli) una manovra statale a vantaggio delle tre regioni del Nord senza colpire il Sud. Quando ci saranno i soldi…perché oggi non ci sono.

Il Governo infatti deve trovare: 30 miliardi per confermare gli sgravi fiscali e contributivi varati nel 2023, 12 miliardi per rispettare le nuove regole Ue di finanza pubblica, 20 per confermare il taglio del cuneo fiscale e il primo modulo della riforma Irpef a 3 aliquote: in totale fanno 62 miliardi, quando dal condono/concordato potrebbero arrivarne (se va bene) 7-8, dal taglio agli incentivi alle imprese ne arrivano 4 e fanno 12…e gli altri 50? E’ vero che nei primi 6 mesi del 2024 le entrate vanno bene…ma 50 miliardi sono una cifra imponente da trovare senza mettere mano ad una tassazione sui ricchi che non è nelle corde certo dell’attuale Governo.

Rimane così del tutto inevaso il vero problema e cioè come responsabilizzare i politici “amministratori” a gestire bene le risorse di cui dispongono, specie quelli del Sud che beneficiano di trasferimenti dalle tre regioni del Nord. La riforma potrebbe fallire se peggiorasse la capacità di saper amministrare autonomamente tali risorse, ma dubito che ciò avvenga in Lombardia, Veneto ed Emilia-R.

Il rischio potrebbe essere un indebolimento del ruolo (residuale) dello Stato al Sud, lasciando ancor più spazio alla criminalità e consorterie varie. Il vantaggio monetario del Nord sarebbe pagato da una catastrofe civile al Sud e non sarebbe di vantaggio di certo all’Italia nel suo insieme. Rimane sempre l’ipotesi che le Regioni del Sud chiedano anch’esse l’autonomia (in un’ottica di macroregioni) e non ci sia uno scatto di orgoglio dei suoi cittadini, i quali con le stesse risorse ma più poteri, ribaltino il corso delle cose esistenti, si mobilitino e chiedano ai propri amministratori quella trasparenza e correttezza di amministrazione che fino ad oggi è stata molto carente.

Come si vede il tema è complesso e non sarà certo risolto a colpi di slogan o referendum. Anche questa legge, che non è una cattiva legge, rischia il nulla di fatto. Essendo stata approvata a colpi di maggioranza è diventata materia di scontro ideologico e di referendum. Solo una sperimentazione condivisa con tanto di dati e monitoraggio da parte di una Autorithy pubblica indipendente può ri-avviare il Paese su come avere buone Istituzioni locali, che rafforzano la democrazia dal basso, sapendo che sono il principale fattore di sviluppo di un Paese. In teoria la sussidiarietà (amministrare nei luoghi più vicini ai cittadini se c’è la scala di operatività), il federalismo (più autonomi sotto uno Stato centrale, come è il caso di Germania e Stati Uniti), trasparenza e partecipazione si sono mostrati i principali fattori di sviluppo dei Paesi. Lo sono tanto più per noi che siamo un paese povero di materie prime.

 

Nota Bene
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