L’uomo non è solo.
Per la vite si avvicina il tempo della potatura: «Le lacrime sono mio pane giorno e notte, mentre mi dicono sempre: “Dov’è il tuo Dio?”» (Sal 42/41).
Ricordo ancora mio padre intento alle viti nell’orto di casa che, quando ero di passaggio per un saluto, mi chiamava e diceva: «vieni, vieni, guarda: la vite piange». Quasi ci si specchiava in quella trasparenza delle gocce turgide e riflettenti, poco prima che cadessero nella terra, irrigandola.
Entrambi sapevamo di stare alla presenza della vita nel suo traboccamento, nella consapevolezza del suo mistero eccedente, aperto, che chiama fuori a guardare oltre.
Quelle volte ci salutavamo con un gesto silenzioso, liturgico: con il dito indice della mano destra si toccava la ferita del tralcio raccogliendo le sue lacrime trasparenti, quindi ci si faceva il segno della croce, e poi ci si bagnava gli occhi finché, ricolmi di speranza, ci salutavamo con lo sguardo.
Le lacrime, siano esse di gioia o di dolore, ci danno la consapevolezza che non siamo soli. Esse aprono al mistero dell’alterità nascosta di cui sono sacramento; dicono in silenzio di qualcun altro che ci cerca, anche quando siamo perduti e non cerchiamo più. (Sal 56, 9)
Ora so che vi era in quel gesto del toccare la vite in pianto, legata e tronca, un’affezione, un voler bene, una chiamata alla libertà a far prossimità con la gente, nella consapevolezza di colui che in segreto raccoglie le nostre lacrime nell’otre, contando i passi del nostro vagare.
«Non basta vedere, è necessario toccare il dolore delle persone − ci ha ricordato papa Francesco − quando dai l’elemosina, tocchi la mano della persona a cui la dai? Lo guardi negli occhi? Ci manca il toccare le miserie, e il toccare le miserie ci porta all’eroicità. Medici e infermieri, in questi anni di pandemia, hanno toccato il male, e hanno scelto di stare lì con gli ammalati… il tatto è il senso più completo, che ci mette la realtà nel cuore»
Il rabbino e filosofo Abraham Joshua Heschel [Qui] diceva: «Noi non viviamo soltanto nel tempo e nello spazio ma anche nella consapevolezza di Dio». I libri di questo autore furono per me una fondamentale guida quando arrivai a santa Francesca Romana, al pari della Storia di un’anima di Santa Teresa di Gesù bambino [Qui] durante gli anni del seminario.
Già i titoli dei libri di Abraham Heschel − L’uomo non è solo, Dio alla ricerca dell’uomo − alludevano a questa consapevolezza: che è una parola chiave, decisiva per lui, tanto ricorrere in quasi tutte le sue pagine. In essa si esplicita la grammatica dell’incontro con Dio, del suo e nostro cercarci l’un l’altro.
Heschel rilancia l’insegnamento del grande rabbi Baal Sem Tov [Qui], il Maestro del Nome, il quale ricordava che la “Sua” lontananza è un’illusione, che può venir dispersa da quella consapevolezza che viene agli occhi della fede, quando sono lavati e resi trasparenti e lucenti dalle lacrime:
«Come Dio conosce e scopre l’uomo quando cerca di nascondersi, così anche Dio viene scoperto quando si nasconde. Nel momento in cui ci accorgiamo che Egli si nasconde, noi Lo scopriamo. La vita è il luogo dove Dio si cela. E noi non siamo mai distaccati da Lui, che ha bisogno di noi».
Così le lacrime testimoniano che non siamo mai sopraffatti dalla solitudine fino in fondo, dispersi, versati come acqua che subito evapora nel deserto dell’eccesso del male. Le lacrime sgorgano come da una sorgente nascosta di una prossimità che non viene meno, né inaridisce.
Non è un caso, allora, che tra le pagine del libro di Heschel si trovi un racconto che narra anche delle nascoste lacrime di Dio. Egli non lo dà a verde quando piange, perché le mescola con le nostre che diventano anche sue:
«Il nipotino di rabbi Baruch giocava a nascondino con un altro bambino; dopo essersi nascosto stette nel suo nascondiglio per parecchio tempo, credendo che il suo amico lo cercasse. Infine uscì e si rese conto che l’amico se n’era andato, senza neppure cercarlo e che il suo nascondersi non era servito a nulla. Corse allora in lacrime nello studio di suo nonno, lamentandosi dell’amico. Dopo aver ascoltato il racconto, Rabbi Baruch scoppiò in lacrime e disse: Anche Dio dice: “Mi nascondo ma nessuno mi cerca”».
Nell’introduzione del libro L’uomo non è solo (Milano1970) Cristina Campo [Qui] così descrive l’autore: «Heschel colpisce al primo sguardo per quello che i giapponesi definirebbero un classico portamento hara».
Nello Zen è detto di colui che trova il centro di se stesso fuori di sé, trova forza oltre il proprio ego, non necessita di forza fisica, perché vi è nel suo centro eccentrico un’altra forza misteriosa che agisce in lui e per lui senza sforzo che lo rende nella lotta invincibile.
Sembra che qualcuno combatta per lui; simile è pure l’esperienza mistica, quasi estatica, del salmista nel salmo 35/34: «Signore, combatti chi mi combatte. Afferra scudo e corazza e sorgi in mio aiuto. Impugna lancia e scure contro chi mi insegue; dimmi: “Sono io la tua salvezza”».
E continua Cristina Campo: «Centrato sulla verticale psichica che regge tutta la persona, eretto e abbandonato insieme, riposante perfettamente in se stesso. La stessa virtù desueta emana dai suoi libri… Quasi atterrisce l’apparizione dell‘uomo la cui mente – ma assai di più, la cui vita intera – ruota, in ardente ‘quietudine’, intorno a un centro. E questo centro, come la pertica che gli indiani Achiepa portano sempre con loro e piantano nel mezzo di ogni luogo dove vadano, non è di questa terra eppure tutta la attraversa e la ordina, è in ogni punto del tempo e dello spazio e insieme è totalmente altrove», (ivi, 5).
Per Hescel la consapevolezza di Dio implica una libertà capace di affidarsi, che si alimenta «alla forza di attendere, all’accettazione del fatto che egli è nascosto, la sfida della storia». Se di Noé è detto che camminò con Dio (Gen 6,9) e Mosè mette come condizione a Dio per partire, che cammini con il suo popolo, perché ci sia consapevolezza della sua presenza continua tra loro: «Come si saprà dunque che ho trovato grazia ai tuoi occhi, io e il tuo popolo, se non nel fatto che tu cammini con noi?» (Es 33, 14), ad Abramo, padre della fede, Dio invece dice “cammina davanti a me” (Gen 17,1).
Narra il Midrash [Qui]: «Si potrebbe paragonare Mosè all’amico di un re che si aggirava per vicoli oscuri, e quando il re guardò fuori e lo vide, gli disse: “Invece di aggirarti per vicoli oscuri, vieni e cammina con me”. Ma il caso di Abramo è paragonabile a quello di un re che stava penetrando in vicoli oscuri, e quando l’amico lo vide gli accese una luce attraverso la finestra. E questi gli disse: “Invece di illuminarmi attraverso la finestra, vieni e mostra una luce dinanzi a me”! Il mondo era coperto di oscurità, ma Abramo diede la luce che illuminò la presenza di Dio. Così le parole: “Io sono un forestiero sulla terra” (Sal 119,19) sono state attribuite a Dio. Dio è un forestiero nel mondo. La Shechinà, la presenza di Dio, è in esilio», (Dio alla ricerca dell’uomo, Borla, Torino 1969, 176-177).
Le lacrime, eccedenza e traboccamento di quel centro più interiore e intimo a noi di quanto noi lo siamo a noi stessi, portano alla nostra attenzione ciò che sta oltre la nostra comprensione.
Esse sono rivelative così di una consapevolezza “implicita”, data prima, antelucana, prima della luce del mattino che non è afferrabile con un sentire deduttivo, ragionato, ma contemplativo, mistico, che va atteso nel silenzio. Esse destano così la coscienza al senso dell’ineffabile quando sono lacrime di gioia o dello sgomento quelle scaturite dalla ferita della privazione e dell’abbandono.
Nelle poesie di Rainer Maria Rilke [Qui] traspare una consapevolezza esitante, che nel momento in cui affiora alla coscienza subito si ritrae evaporando. Ma l’invisibile volto pur disfatto nella notte, tuttavia non impedisce il respiro nel buio della terra, né l’alzarsi dello sguardo, così la sua incombente profondità crea uno slargo allo sguardo del volto su cui impalpabile si posa:
«Prodighi d’astri, cieli traboccanti/ splendono sull’affanno. Tu non piangere/ tra i cuscini, ma verso l’alto…/ Respira il buio della terra,/ respira e ancora alza lo sguardo! Ancora/ leggera e senza volto la profondità posa/ su te dall’alto. Il volto che la notte/ contiene in sé disciolto, al tuo dà spazio», (da Poesie sparse).
«Che avviene delle lacrime?» si domanda Rilke in un’altra elegia. A me viene da interpretare così: le lacrime dischiudono nell’abisso la consapevolezza che l’ineludibile non è l’ultima parola; il vuoto lasciato nell’orcio dalle lacrime versate si rivela essere uno spazio, ancora un vuoto capace di attendere l’ospite segreto a riaprire i giochi che si credevano definitivamente chiusi:
«Altri raccolgono il vino, altri raccolgono gli olii/ nella concava volta delle pareti loro./ Io, come più tenue misura e la più agile, a un altro uso mi scavo,/ in grazia d’impetuose lacrime./ Il vino s’arricchisce e nell’orcio si schiara più l’olio/ Grave mi fecero un tempo,/ e più m’hanno fatto cieco e cangiante sul fianco,/ m’hanno incrinato alla fine e m’hanno vuotato» (Orcio delle lacrime in Ultime poesie, Fussi, Firenze 1946, 37).
E un poco prima nello stesso testo: «Ch’io fossi allora – o sia: ma tu cammini/ oltre su me, buio di luce immenso./ E il sublime, che nello spazio appresti,/ accolgo, Ignoto, dentro gli occhi desti./ Notte oh! sapessi tu come io ti guardo,/ come l’essere mio si ritrae/ nella rincorsa, per osare il balzo/ fin presso a te; so come il doppio ciglio/ valica tali vortici di sguardo?» (ivi, 36).
Oso pensare che le lacrime si sprigionino dalla potenza spirituale nascosta nella nostra umanità; la potenza spirituale nel cuore stesso della materia − direbbe Teilhard − che tutto invisibilmente tiene noi nell’universo e noi in Dio.
Era un’estate in montagna di tanti anni fa. Attraversavo in solitudine i boschi del Passo della Mendola, quando lo sguardo fu attratto da un altro sguardo − doppio ciglio? − quello degli alberi su di me e in quel “vortice di sguardo” sui loro tronchi mi accorsi delle lacrime della montagna.
Le Lacrime della montagna
Gocciolanti trasudano resina
gli alberi feriti della montagna.
Lacrime che non evaporano
che non si lasciano asciugare
perché del dolore
la memoria resti.
Se t’avvicini,
le ultime versate
brillano “controsole”,
le altre come cera rappresa,
colate gialle e bianche,
trasformano in ceri
gli abeti supplici
sul candelabro della montagna.
Se le tocchi,
curioso o spensierato,
ti prendono e
come insetto ti appiccichi
a untuosa ragnatela.
Ritraendoti porti via
il contagio della morte.
Se le guardi con pietà
o le sfiori con carezze
sulla corteccia ruvida,
le mani toccheranno
grani d’incenso
come preghiere profumate.
Così la coscienza, risvegliata
a Colui che raccoglie nell’otre
le lacrime dell’Universo in attesa,
si lascerà penetrare
come da profumata mirra,
unzione profetica e primizia
di futura risurrezione.
Lacrime dell’universo,
gocce d’ambra preziosa
racchiudono incorrotta
la diafania della materia.
La sua potenza spirituale
infrangerà, o morte,
il tuo trasparente sepolcro,
trasfigurandosi
nello sguardo di Colui
il cui Volto è lavato, scavato, e reso visibile
da tutte le lacrime dell’Universo
divenute, le sue proprie lacrime.
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