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Le Voci da Dentro:
Una geniale invenzione umana

Le voci “da dentro” sono quelle che provengono dalla nostra coscienza e che ci parlano direttamente, ma sono anche quelle voci che provengono da chi è “dentro” cioè da persone che stanno vivendo l’esperienza del carcere. A partire da oggi, Periscopio ospita questa nuova rubrica con lo scopo di provare ad offrire un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali affinché, ognuno nel proprio piccolo, combatta la sua battaglia contro gli stereotipi ed i pregiudizi che non aiutano il completo reinserimento di queste persone nella società. È un modo per dar voce alle persone ristrette e a chi opera nel carcere ma è anche per dare orecchio a chi, da dentro, sta parlando alle nostre coscienze. La rubrica è scritta in collaborazione con “Astrolabio”, il giornale del carcere di Ferrara.

Il testo di apertura della rubrica si intitola “Il ponte” ed esprime bene il bisogno di costruire un dialogo fra due sponde della nostra città e della nostra società. Mentre il muro divide, il ponte unisce ed è solo avvicinandosi che si può arrivare a conoscere l’altro e la nostra umanità.
(Mauro Presini)

Il ponte

di J.H.

È una geniale invenzione umana per collegare le due rive di un fiume
è un atto di generosità umana
è il desiderio di andare oltre l’altro lato che non è altro che un fratello
è la solidarietà tra le anime
è la vita che cerca la vita
è la speranza nel futuro malgrado la nebbia che può accecare il cuore
è la fiducia nell’altro
è la volontà di andare avanti malgrado gli ostacoli della natura, del destino e della vita per andare a trovare l’altro, parlare con lui, salutarlo, regalargli un sorriso, una buona parola, una dolce speranza per superare e attraversare il vasto oceano profondo della vita
è condividere l’esperienza
è cercare l’equilibrio
è una necessità della natura umana
è un’esigenza dell’anima
è il nemico dell’impossibile
è la pace interna che cerca altro
è volare nel tempo
è aprire le braccia verso l’altro
è l’emozione di trovare il fratello
è l’individuo che trova la comunità
è cortesia, generosità, coraggio, capacità di resistenza, pazienza…
è un appello all’incontro
è il sogno dell’unità
è il dialogo
è l’anatema del silenzio
è l’orgoglio di creare un legame con l’altro mondo
è il cammino
è l’incontro
è l’umanità
è la capacità di vedere oltre i confini imposti dall’occhio che vede poco, quando esso non è totalmente cieco
è la volontà di rendere tutto ciò che è debolezza una forza benefica
è la negazione del rifiuto
è il rifiuto della diffidenza
è il modo giusto per relazionarsi
è fiducia nell’altro e nel futuro
è l’anima che cerca la sua voce
è confronto interiore
è ascolto reciproco
è sentire l’altro
è sentirsi umano
è cercare l’altro
è la bellezza del dialogo
è andare oltre il grande nulla
è scoprire emozioni mai provate
è la profondità dell’umanità
è la forza della libertà
è volare col tempo per percorrere lo spazio limitato
è la magia contro il silenzio
è contro il deserto della sete
è una camminata di emozioni, un ponte per vedere, sentire, capire
è conoscere l’altro
è l’anima che guarda avanti
è oggi che cerca domani
è la geografia che cerca la storia
è una porta aperta
è il desiderio di viaggiare per convinzione non per curiosità
è la speranza di fuggire dal nulla
è la negazione del silenzio
è un atto di fratellanza
Senza ponte non c’è vita
il ponte è il futuro
non c’è futuro senza passato
non c’è futuro senza comunità.
Il dolore divide od unisce?
L’uomo ha bisogno di sentirsi utile!


Si chiama Astrolabio il giornale della Casa Circondariale di Ferrara. Ed è un progetto editoriale che, da qualche anno, coinvolge una redazione interna di persone detenute insieme a persone ed enti che esprimono solidarietà verso la realtà dei detenuti. Il bimestrale realizza il suo primo numero nel 2009 e nasce dall’idea di creare un’opportunità di comunicazione tra l’interno e l’esterno del carcere. Uno strumento che dia voce ai reclusi e a chi opera nel e per il carcere, che raccolga storie, iniziative, dati statistici, offrendo un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali.

Cover: un’immagine della redazione di Astrolabio, il giornale del carcere di Ferrara : Il coordinatore Mauro Presini al lavoro insieme al gruppo dei detenuti redattori.

Per vedere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica.

Parole a capo
Secondo Reading di Primavera: 6 poesie alberate

 

Il primo giorno di aprile di quest’anno, nel parco del Montagnone a Ferraral’Associazione Culturale Ultimo Rosso, in collaborazione con la Biblioteca Popolare Giardino e il giornale online Periscopio, ha organizzato il Secondo Reading di Primavera dal titolo “Io sono gli altri”. Ai rami degli alberi, come si può vedere nelle foto di Valerio Pazzi in questo articolo, sono stati fatti degli innesti poetici, oltre 60 liriche di grandi autori e di poeti contemporanei. Molte di queste liriche sono state lette dalle poetesse e dai poeti presenti  all’evento. Le poesie di chi non ha potuto partecipare per diversi motivi, ma che ha risposto positivamente al nostro invito mandandocene alcune, sono state lette da alcuni portavoce. Nel numero della rubrica Parole a capo di oggi, ne pubblichiamo alcune. Come sempre, buona lettura e buone sensazioni.

 

Sibilla

Muta e peregrina
attraverso i vostri occhi
io sono gli altri,
conosco gli antri
nascosti nel vostro
cuore nudo.
Ma non conosco
oracolo, nascosta
nel mio antro
mi nutro di sguardi
attenti, passi lenti,
una parola lieve,
la premura di una mano
tesa, l’attesa
lieta di una rosa
schiusa
nel bel mezzo dell’inverno.

(Doris Bellomusto)

 

Incontro

Ci siamo toccati l’anima
con parole brevi
col battito regolare del cuore
con le parole dell’infanzia
con un principio di lacrime
pensando che arriverà quel tempo
che non ci rivedremo più
sospinti ognuno
dal maestrale padrone
verso un infinito mare

 (Elena Vallin)

 

Lippariniventigocce

Lippariniventigocce
Robiunabbraccio
Mammaseisplendida
Robbaletuepoesie
Piccolinativogliobene
Nanina
I nostri diversi nomi, in fondo, sono le nostre possibili sopravvivenze.
Le altre persone, chiamandoci, ci moltiplicano.
Siamo forse soli, talvolta.
Mai, però, siamo una cosa sola.
E se una parte di noi è in ombra, possiamo cercare la luce negli altri suoni del nostro nome,
di noi stessi.
Forse anche per questo abbiamo soprannomi, nomignoli, appellativi.
Perché siano molteplici le nostre vie di scampo.
Di salvezza.

(Roberta Lipparini)

 

Ho una manciata di nomi in tasca

Ho una manciata di nomi in tasca
Altrettanti sorrisi
Valgono uguale se appartengono a sconosciuti?
Scusate la schiettezza
Parlare di inclusione
Scoprire che non è
Solo accogliere
Non è  solo integrare
Significa che tutti
Devono cambiare
Chi non vede non sente
Non parla non cammina
Chi vede sente parla e cammina
E quella manciata di nomi e altrettanti sorrisi
nella stessa barca
con la stessa umanità.
Quanta ipocrisia anche in questa poesia
mi viene voglia di strappare il foglio
rimango sola col mio orgoglio
di  figlia madre sorella compagna.
Mi chiedo come fanno tanti altri
cosa sia l’amore per gli altri e ancor prima per se stessi.
L’amore  dunque
è incontrare l’altro
che nuota nel tuo oceano interiore
meravigliarsi nel guardarlo
affiancarlo tra le onde
riemergere, respirare
non preoccuparsi se non lo si riesce a fare
di amare tutto d’un fiato
chi magari ha colore diverso
un pensiero logico meno presente
un approccio alla vita che appare stupido e troppo spontaneo
ci vuole tempo e tanta tenerezza
e abituarsi a non specchiarsi dove la luce è opaca.

(Lidia Calzolari)

 

il binocolo

La notte quando accadeva il miracolo
era un largo spazio d’invisibili grilli impegnati a prender voce in capitolo.
Teneva compagnia l’aspro profumo
degli acini d’uva arrampicati verso l’alto
ancora acerbi per un soffio. Il mare
distava il tempo breve di un passaggio
dal cuscino alla cucina. Così sembrava
tutto vicino quando era tua la mano
nodosa a passarmi il binocolo: persino
brillava di luce propria sopra il mondo
l’anello di luna mancante al suo cerchio.

(Lara Pagani)

 

Certe mattine

Certe mattine sento l’amore
salirmi fino agli occhi,
la retina, le ciglia,

e da lì ridiscendere nel cuore,
dopo aver guardato il mondo,
mia famiglia.

(Miriam Bruni)

 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

LA SCUOLA DECLASSATA:
Autonomia differenziata e dimensionamento scolastico sono una minaccia per l’istruzione democratica

Autonomia differenziata e dimensionamento scolastico rappresentano una minaccia per l’istruzione democratica. A farne le spese soprattutto il Sud e le aree più fragili

di Stefano Iucci
(articolo originale in Collettiva del 12 aprile 2023)

Una doppia tenaglia si stringe sulla scuola: dimensionamento scolastico e autonomia differenziata. Se il primo è legge – nel senso che la nuova norma che alza il numero minimo di studenti e studentesse necessario per tenere aperto un plesso scolastico è contenuta nella Finanziaria – la seconda è ancora allo stato di proposta (il ddl Calderoli), ma le pressioni per una sua approvazione aumentano nell’esecutivo.

Come è stato ampiamente analizzato l’autonomia differenziata porterebbe alla nascita di tanti sistemi scolastici diversi, minando l’universalità della scuola pubblica e trasformandola in un sistema disuguale, con scuole e studenti di serie A e di serie B e percorsi formativi diversi che penalizzerebbe soprattutto il Sud.

Mezzogiorno penalizzato

Oggi in Italia la dispersione scolastica nazionale media è del 12,7%, in Sicilia raggiunge il 21,1% e in Puglia il 17,6%, mentre in Lombardia è all’11,3%, contro l’obiettivo europeo del 9% entro il 2030.

Secondo lo Svimez uno studente e una studentessa del Sud stanno in classe 100 ore in meno all’anno e i giovani tra i 15 e 24 anni fermi alla licenza media sono il 20 per cento, 5 punti sopra la media nazionale e 9 rispetto a quella europea. Inoltre, come risulta dall’ultimo rapporto pubblicato da Save The Children la Sicilia è al primo posto per dispersione scolastica a livello nazionale, con una media pari al 21,1% e con punte del 25%.

Nel video che pubblichiamo subito sotto Graziamaria Pistorino, segretaria nazionale Flc Cgil ci spiega perché l’autonomia differenziata aumenterebbe ulteriormente le diseguaglianze tra i territori.

Il tema è stato al centro di molti interventi anche all’ultimo congresso della Flc Cgil che si è svolto a Perugia: due insegnanti, da Nord a Sud, mostrano in questo video perché l’autonomia differenziata aumenterebbe le diseguaglianze.

Proprio per scongiurare questa iniziativa il Coordinamento per la democrazia costituzionale – insieme a Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola Rua, Snals Confsal e Gilda Unams – ha avviato una raccolta firme per una Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare di modifica di parte degli articoli 116 e 117 della Costituzione – contenuti nel titolo V della Carta – che ripartiscono le diverse competenze tra Stato e Regioni tra esclusive e concorrenti.

I diritti dei lavoratori

Rispetto a questa operazione, spiega Pistorino, “la prima emergenza che ci si pone come sindacato è quella di difendere e rilanciare il diritto universale all’istruzione. Differenziare i programmi su base regionale, assumere localmente insegnanti e dirigenti, magari pagandoli diversamente, configurerebbe un diritto allo studio ancora più diseguale di quello attuale”.

Fuori dai tecnicismi la proposta del Coordinamento punta a introdurre strumenti normativi per un sistema di equilibri tra Stato e Regioni in cui la governance resti in mano allo Stato, che deve essere il garante dell’interesse generale. Un tema come quello dell’istruzione – il cui obiettivo primario deve essere quello di formare i cittadini e le cittadine di domani – non può essere lasciato nelle mani di 21 ‘staterelli’ regionali.

Secondo la proposta, la potestà legislativa sarebbe esclusivamente statale (e non più concorrente con le Regioni) in materie strategiche per l’unità del paese, dall’istruzione, appunto, alla salute e al sistema sanitario nazionale, a porti, aeroporti, autostrade, ferrovie, reti di comunicazione. Si tratta, insomma, di una grande battaglia di civiltà democratica.

La scure del dimensionamento

Come si diceva, è molto pericoloso l’incrocio con il dimensionamento scolastico. L’articolo 99 della legge di bilancio prevede infatti una nuova ondata di accorpamenti tra istituti scolastici che, attacca la Flc Cgil, “potrà portare alla scomparsa, già nei prossimi due anni, di oltre 700 unità scolastiche”.

A questo “risultato” si arriva innalzando gli attuali parametri minimi per la costituzione delle autonomie scolastiche che passano da 600 a 900-1.000 alunni. In questo modo verranno, tra l’altro, ridotti i posti di organico di oltre 1.400 dirigenti scolastici e Dsga, un taglio che, proiettato al 2031-2032, significa il passaggio da 8.136 a 6.885 istituti.

Come ha commentato il segretario generale della Flc CgilFrancesco Sinopoli, “si configura nei fatti come un vero e proprio taglio che ancora una volta andrà a colpire le Regioni e i territori più deboli. Invece di potenziarle e sostenerle le affossano, senza investimenti e con una riduzione delle risorse”.

Anche in questo caso la scure colpisce soprattutto al Sud, la Sicilia ad esempio perderà 109 di scuole ma anche il destino della Sardegna, soprattutto nelle sue aree interne, non è dei migliori. Per questo la Flc regionale ha chiamato a raccolta sardi illustri – da Paolo Fresu a Gianfranco Zola – per un appello che si speri non passi inosservato: “Non chiudete le nostre scuole”. In Sardegna come nel resto del paese.

Il biogas non è rinnovabile, non è verde, non è sano

Per molti decenni in Italia la produzione di biogas si è realizzata prevalentemente in ambito agricolo per ricavare energia, da utilizzare prevalentemente all’interno delle stesse aziende, utilizzando gli scarti della attività di questo comparto, sostanzialmente biomassa vegetale e deiezioni animali. Oggi questa tecnologia, nel nostro paese e non solo, sta assumendo una rilevanza che senza dubbio si può considerare preoccupante per l’impatto ambientale complessivo che comporta. Secondo i dati del Consorzio Italiano Biogas (CIB), all’inizio del 2020 erano operativi più di 1.500 impianti di biogas, di cui 1.200 in ambito agricolo.

Nella mattinata di sabato 18 marzo si è tenuto, presso la sala congressi della sede provinciale CNA, un incontro-dibattito organizzato dalla Rete per la Giustizia Climatica di Ferrara sul tema della produzione di biogas che ne ha affrontato gli aspetti generali e le ricadute ambientali con un riferimento particolare alla situazione nella nostra provincia.

Il primo ad intervenire è stato Leonardo Setti, docente dell’Università di Bologna, esperto nell’ambito della biochimica industriale applicata ai sistemi energetici rinnovabili ed in particolare allo sviluppo di bioraffinerie per la valorizzazione chimica ed energetica degli scarti agro-alimentari, che ha trattato il tema “Quale energia nella transizione ecologica”. Di seguito, in video, Gianni Tamino, biologo, membro della Associazione italiana Medici per l’Ambiente (ISDE) e già docente dell’Università di Padova nonché europarlamentare del gruppo dei Verdi, è intervenuto sul tema “Biometano ed economia circolare”. Sono poi seguiti gli interventi di Rosolino Sini, responsabile dell’azienda elettrica comunale di Sassari, di Sandra Travagli per l’esperienza di Villanova e Andrea Bregoli del Comitato di Formignana in provincia di Ferrara. Un ulteriore contributo, in audio registrato, quello di Pippo Todolini del Coordinamento ravennate per il clima fuori dal fossile.

Può essere utile per iniziare una considerazione di fondo, citando le parole con cui Gianni Tamino apre il suo intervento in video: la produzione di biometano non è un metodo né economico né pulito, ma, soprattutto, non lo si può considerare “economia circolare””. L’unica vera economia circolare, ribadisce Tamino, è quella della natura che, attraverso l’energia solare utilizzata dagli organismi vegetali, sintetizza materia organica che funge da nutrimento per gli organismi animali; questi ultimi, assieme ai vegetali, quando muoiono, vanno incontro a processi di decomposizione che danno luogo all’humus, nutrimento per la terra, da cui nasceranno nuove piante, in un ciclo continuo.

Un’altra precisazione è necessario fare rispetto al termine Bio che troviamo nella terminologia degli impianti che trattano materiali organici, i Biodigestori, e i prodotti che ne derivano, Biogas e Biometano. Il prefisso bio, in questo caso, non ha un significato che possa riferirsi a un processo o prodotto sostenibile, ma un riferimento a un processo Biotecnologico, cioè l’applicazione alla produzione industriale di organismi e processi della biologia. Il termine “bio”, dice Tamino, significa vita e richiama l’idea di origine naturale e organica, ma anche il petrolio e il carbone in fondo sono di origine naturale. Al termine “bio” viene normalmente attribuita una valenza positiva e “naturale”, e di conseguenza queste tecnologie vengono in tal modo considerate far parte della cosiddetta “green economy”. “La mistificazione del linguaggio, conclude Tamino, in questo caso, è “strumentale a una politica di proliferazione di queste tecnologie sotto l’ombrello dell’ecologia e del rispetto della natura”.

In buona sostanza il biogas è il prodotto di un processo di bioconversione, intendendo questa come la trasformazione energetica basata su un processo biologico, e, per estensione, a tutte le tecniche che producono energia partendo dalla materia vivente. Più precisamente il biogas viene ottenuto dalla fermentazione anaerobica di materiali organici adatti allo scopo, che vengono detti biomasse.

Un’altra considerazione da fare, prima di analizzare compiutamente le tematiche affrontate nell’incontro, è che la problematica affrontata non è affatto nuova. Lo conferma un testo di parecchi anni fa – Il biogas, Longanesi, 1979 – che contiene la definizione di biogas e la descrizione delle prime e più significative esperienze di applicazione della fermentazione anaerobica di reflui e biomasse in Europa e nel mondo. Oggi questa tecnologia, nel nostro paese e non solo, sta assumendo una rilevanza che senza dubbio si può considerare preoccupante per l’impatto ambientale complessivo che comporta.

Per molti decenni in Italia la produzione di biogas si è realizzata prevalentemente in ambito agricolo per ricavare energia, da utilizzare prevalentemente all’interno delle stesse aziende, utilizzando gli scarti della attività di questo comparto, sostanzialmente biomassa vegetale e deiezioni animali. Secondo i dati del Consorzio Italiano Biogas (CIB), all’inizio del 2020 erano operativi più di 1.500 impianti di biogas, di cui 1.200 in ambito agricolo.

Nel testo sopra citato vengono riportati alcuni interessanti esempi relativamente alle rese in gas prodotto dal processo fermentativo e riferiti al tipo di biomassa utilizzata: nel caso del frumento da 1 ha di coltura si ottengono mediamente 3,5 tonnellate di paglia, che, “biodigerita”, fornisce circa 700 m3 di biogas, cioè 4,2×106 Kcal/anno; da 1 ha di giacinti d’acqua (in clima tropicale) si ottengono 3.000 tonnellate di biomassa che fornisce circa 30.000 m3 di biogas, cioè 180×106 Kcal/anno; infine da 1 ha di cereali, usati come mangime per bovini, si ottengono 4 tonnellate di deiezioni che, una volta trattate nel biodigestore, forniscono circa 450 m3 di biogas corrispondenti a 2,7×106 Kcal/anno. Questi dati fanno chiaramente intuire quale sia la convenienza a trattare le diverse tipologie di biomassa.

Date queste premesse, è legittimo domandarsi se per produrre energia questo tipo di tecnologia sia idonea e, inoltre, quale può essere il contributo offerto da essa rispetto ai consumi previsti negli anni a venire. Le risposte non sono per niente semplici.

Riferendosi a questi aspetti, il professor Setti ha svolto una serie di considerazioni sulla produzione di biogas nel nostro paese partendo dalla necessaria premessa di quali oggi siano le fonti che, nelle diverse forme, vengono utilizzate per la produzione energetica e quali i consumi e le evoluzioni previste, tenendo ben presente la differenza fondamentale tra i prodotti che forniscono direttamente energia termica (sostanzialmente i diversi tipi di combustibili) e le tecnologie che forniscono energia elettrica per gli usi domestici e industriali.

In seguito sono stati illustrati i dati sulla potenziale produzione di biometano in Italia, e sui materiali utilizzabili nei digestori. La quota più rilevante tra i materiali organici è rappresentata dalle deiezioni animali (130.000.000 di t/anno), seguita dai FORSU (Frazione Organica dei Residui Solidi Urbani) con 10.000.000 di t/anno, quindi i residui colturali (8,5 milioni di t/anno) e a seguire gli scarti agro-industriali con 5 milioni, i fanghi di depurazione con 3,5 milioni di t/anno e infine le colture energetiche equivalenti alla produzione di 200.000 ha di coltivazioni. Il trattamento di queste biomasse porterebbe ad una produzione stimata di circa 11 miliardi di m3 di biogas/anno, corrispondenti a 20 TWh (terawattora)/anno di energia elettrica.

Attualmente l’Italia, nel settore biogas, si colloca al quarto posto al mondo dopo Germania, Cina e Stati Uniti, con circa 2200 impianti operativi, di cui circa 1.730 nel settore agricolo e circa 470 nel settore rifiuti e fanghi di depurazione, per un totale di circa 1.450 MWe (megawatt elettrici) installati. Di questi, secondo il Gestore Servizi Energetici, circa 1000 sono nel settore agricolo.

Dai biodigestori, in funzione del materiale trattato, si ottiene una miscela costituita da metano (CH4) mediamente per il 60-70%, anidride carbonica (CO2), ossido di carbonio (CO), acqua, idrogeno solforato (H2S), ossigeno, azoto, ammoniaca (NH3) e altre sostanze. Per arricchire in metano questa miscela si applicano tecniche dette di upgrading che hanno appunto lo scopo di rendere massima la percentuale di questo gas fino a valori del 95/99%.

Il potenziale di sviluppo della filiera biogas/biometano nel breve/medio termine è consistente: stime del CIB-Consorzio Italiano Biogas identificano un potenziale produttivo al 2030 di 8-10 miliardi di m3 di biometano, pari a circa il 11-13% del consumo attuale di gas naturale in Italia e superiore all’attuale produzione nazionale.

Leggendo quanto viene comunicato su siti e pagine rintracciabili in rete, il biogas e relativa filiera vengono esaltati e definiti fonti e modelli di “energia rinnovabile”. Come esempio vale la pena riportare quanto si legge nel sito del Consorzio Italiano Biogas  quale realtà più rappresentativa di questo settore produttivo: “Il Consorzio Italiano Biogas è la prima aggregazione volontaria che riunisce aziende agricole produttrici di biogas e biometano da fonti rinnovabili [?]; società industriali fornitrici di impianti, tecnologie e servizi per la produzione di biogas e biometano; enti ed istituzioni che contribuiscono alla promozione della digestione anaerobica per il comparto agricolo. Il CIB è attivo sull’intera area nazionale e rappresenta tutta la filiera della produzione di biogas e biometano in agricoltura, con l’obiettivo di fornire informazioni ai Soci per migliorare la gestione del processo produttivo e orientare l’evoluzione del quadro normativo per favorire la diffusione del modello del “Biogasfattobene®” e raggiungere gli obiettivi al 2050 sulle energie rinnovabili e la lotta al cambiamento climatico.”.0
Una breve annotazione a questo testo: le “fonti rinnovabili” per la produzione di biogas e biometano a mio parere non lo sono affatto. Reflui, scarti agroalimentari, deiezioni animali, biomasse vegetali, ecc. non si possono considerare “rinnovabili”, anche se molti le inseriscono in questa categoria.

L’altro testo è ripreso dal sito della rivista Quale Energia [1], pubblicato a fine novembre del 2022: In Italia il biometano ha grandi potenzialità e potrebbe portare il nostro Paese ai primi posti europei nella produzione di gas “verde”. Ci sono però diversi ostacoli da superare, dalla complessità e lentezza delle autorizzazioni ai colli di bottiglia nella logistica, mentre i recenti sviluppi normativi – in particolare il decreto ministeriale con gli incentivi al biometano pubblicato in Gazzetta ufficiale a fine ottobre – dovrebbero dare nuovo slancio al settore. Quali sono allora le prospettive del biometano sul mercato italiano? Se ne parla in un nuovo studio della società di consulenza BIP. Gli autori ricordano che il piano REPowerEU punta a produrre 35 miliardi di metri cubi di biometano al 2030 in Europa (oggi: 3 mld m3) e che in Italia si dovrebbe arrivare a 6 miliardi di metri cubi. Sarebbe un balzo notevole visto che oggi nello Stivale la produzione annuale di biometano è di appena 220 milioni di m3. Ci sono opportunità per realizzare oltre 1000 impianti entro il 2026, riporta il documento, tra conversioni di unità a biogas e impianti del tutto nuovi. E secondo le stime di RSE (Ricerca sul Sistema Energetico), citate dallo studio, la potenzialità italiana sale a circa dieci miliardi di m3 di biometano al 2050. Anche qui tutto positivo, gli unici problemi sono quelli della burocrazia.

Pochissimi i casi dove si evidenziano pregi e difetti di questa tecnologia. Tra questi il sito di Sorgenia  dove, a proposito della logistica dei siti produttivi si legge che “la pianificazione di un impianto deve valutare attentamente il bacino di approvvigionamento delle biomasse in ingresso, che se reperite a distanza troppo elevata rendono l’attività ambientalmente ed economicamente non sostenibile”.

L’insieme delle problematiche relative alla realizzazione e gestione di biodigestori per biogas è stato affrontato dal professor Tamino, il quale afferma quanto siano inutili e dannosi per l’ambiente e la salute le centrali a biogas e gli impianti di biodigestione anaerobica che vengono costantemente proposti su tutto il territorio nazionale per conseguire importanti incentivi economici, in quanto anch’essi spacciati per fonti rinnovabili quando in realtà lo sono soltanto formalmente.

Si può infatti parlare di fonti rinnovabili, continua Tamino, “solo se nel territorio di origine e nel tempo di utilizzo quanto consumato si ripristina. Ciò vale per l’energia solare e quelle derivate come il vento e l’energia idrica, ma non si applica totalmente alle biomasse intese come materiale prodotto da piante e destinato alla combustione. Se viene distrutto un bosco per bruciarne la legna, il bosco non si rigenera nel tempo di utilizzo per la combustione della legna. E’ possibile usare solo il «surplus» dell’attività forestale. Ancora più complesso il discorso se le biomasse provengono da colture agricole dedicate”. In questo caso un impianto alimentato da coltivazioni dedicate ha un bilancio energetico molto basso in quanto occorre da un lato calcolare l’energia necessaria per la produzione agricola (fertilizzanti, fitofarmaci, irrigazione, trasformazione, trasporti, ecc), dall’altro quella necessaria per far funzionare l’impianto. Oltre a ciò, afferma Tamino, “alimentare un impianto a biomasse con prodotti agricoli (mais, triticale, ecc.), che consumano terreno utile per produrre cibo, è un problema anche di ordine «etico»: mentre in varie parti del pianeta vi sono difficoltà di approvvigionamento e il nostro paese ne importa dall’estero, si preferisce utilizzarli come materiali nei biodigestori”. Va poi tenuto presente che “se si dovesse coprire il 10% del fabbisogno energetico italiano utilizzando biomasse, occorrerebbe una superficie di coltivazione grande 3 volte l’Italia”.

Va poi detto che le centrali a biogas, dal punto di vista sanitario, non sono affatto innocue. La fermentazione anaerobica infatti favorisce la produzione di batteri sporigeni anaerobi come il clostridium botulinum che, attraverso il digestato successivamente sparso sui campi come concime, può determinare problemi anche mortali negli animali d’allevamento, specie volatili, ma anche per le persone. Alla luce di queste considerazioni va tenuto ancor maggiormente presente il “Principio di precauzione” ratificato nel 1992 dalla Convenzione di Rio de Janeiro e inserito nel 1994 nel Trattato dell’Unione Europea «in base al quale un prodotto o un processo produttivo non vanno considerati – come si è fatto finora – pericolosi soltanto dopo che è stato determinato quanti danni ambientali, malattie e morti producono, ma al contrario, possono essere considerati sicuri solo se siamo in grado, al di là di ogni ragionevole dubbio, di escludere che possano presentare rischi rilevanti e irreversibili per l’ambiente e per la salute.»[2]

Gli interventi finali della conferenza svolti da Sandra Travagli per l’esperienza di Villanova e Andrea Bregoli per il Comitato di Formignana, mettono con forza l’accento sulle ricadute, a 360 gradi, della produzione di biogas nella nostra provincia. Mi limito ad elencare alcune delle criticità illustrate dai relatori, a cominciare dal consistente aumento della mobilità di mezzi pesanti che si prevede investirà le strade provinciali, già in molti casi parecchio dissestate, per il trasporto dei materiali in entrata e in uscita dagli impianti. Poi i problemi relativi alle notevoli quantità, e alla qualità, del digestato che residua dai processi produttivi del biogas e i connessi problemi derivanti dalla “odorosità” del materiale residuo, sia in fase di stoccaggio che di spandimento sui terreni. Infine tutto l’insieme dei problemi, agronomici in primis, derivanti dalle coltivazioni dedicate per la produzione delle biomasse da trattare negli impianti per il biogas.

Da ultimo, ma di estrema importanza, la mancanza di attenzione e di comunicazione da parte delle amministrazioni competenti nei confronti dei cittadini dei territori interessati. Queste, più volte sollecitate a dare risposte alle tante domande della cittadinanza, mai hanno mostrato interesse ad affrontare pubblicamente e a dibattere queste tematiche che tanta importanza hanno per la vita quotidiana delle aree coinvolte.

[1] https://www.qualenergia.it/articoli/biometano-grandi-potenzialita-italia-tanti-ostacoli-rimuovere/

[2] Rifiuto, riduco, riciclo: guida alle buone pratiche, a cura di Stefano Montanari, Arianna Editrice, 2009.

GLI SPARI SOPRA
Il fascismo non fu un’opinione, è un crimine

Il fascismo non fu un’opinione, è un crimine.

La “storicizzazione” del fascismo come fenomeno circoscritto e datato parte da lontano, ha radici antiche. Da quanto tempo si sente l’affermazione: ancora si parla di fascismo? Ma siamo nel 2023! Oppure: con tutti i problemi che abbiamo, ancora di queste cose dobbiamo parlare … . O meglio ancora: ma il fascismo non era come il nazismo, il primo fascismo ha fatto pure cose buone … sì però anche i partigiani … e il comunismo …

Tutte queste voci, spesso autorevoli e non solo di destra, hanno portato allo sdoganamento storico del fascismo, al suo annacquamento, alla volontà di scavalcare un ventennio, durato poi molto di più, senza mai farci compiutamente i conti. In Italia, dopo il 25 aprile del 1945 non è stato fatto nulla che assomigliasse ad un processo di Norimberga. Le istituzioni fasciste non sono state mai smantellate  completamente: magari formalmente sì, ma hanno mantenuto molto del corpo impiegatizio e burocratico operante durante il ventennio. I corpi dello stato, i servizi segreti in particolare, hanno continuato a scavare come talpe sotto le fragili fondamenta della repubblica e della nascente democrazia, per molti decenni. Per arrivare poi agli anni novanta, in cui Mani Pulite avrebbe dovuto spazzare via un sistema corrotto, ma ciò che arrivò a sostituirlo fu, in larga parte, il ventennio di Berlusconi, che vedeva comunisti dappertutto e fece un’operazione culturale di parificazione del marxismo al fascismo.

Non dobbiamo cadere dalle nuvole se la seconda carica dello stato finge di non conoscere la storia di via Rasella, se giornalisti e commentatori sussurrano o gridano l’opinione che un atto di guerra diviene un attentato. Peggio, la colpa fu dei partigiani che dovevano starsene zitti e buoni, perché sapevano che i nazisti si sarebbero arrabbiati e avrebbero applicato la aberrante formula matematica un tedesco = dieci italiani. No, io non credo che si possa banalizzare tutto, derubricandolo a problema di poco conto, come le violenze nei confronti di chi la pensa in modo diverso, vedi i ragazzi picchiati in strada davanti ad un liceo perché esprimevano la propria opinione tramite dei volantini. Non si possono trattare con leggerezza e superficialità segnali di questo tipo, spesso agli onori della cronaca.

I partigiani, anch’essi messi sullo stesso piano degli oppressori, tramite il lavoro di studiosi considerati dall’opinione pubblica come moderati, sono già il risultato di una parificazione antistorica. Durante e dopo la guerra civile ci sono sicuramente stati eventi di violenza grave, processi sommari ed esecuzioni da parte dei partigiani, nel famoso “triangolo della morte” emiliano, così come ai confini est dell’Italia e in altre zone. Ma questi fatti non possono in alcun modo mettere sullo stesso piano oppressi ed oppressori, patrioti e traditori. La guerra civile non fu una scaramuccia tra bande come per i ragazzi della Via Paal: si perpetrarono stragi e violenze inaudite, soprattutto dopo il ’43, ad opera dei fascisti e dei nazisti. Il fascismo nacque come movimento violento e liberticida, da subito, come ragione sociale di un movimento che effettivamente divenne di popolo, ma ebbe le sue origini come banda armata dei padroni e dei ricchi proprietari terrieri. A Ferrara le squadracce dell’ “eroico” Balbo misero a ferro e fuoco le sedi della Lega delle cooperative, le delegazioni sindacali e le sezioni dei partiti di sinistra già dai primi mesi del 1920.

Magari serve a rischiarare la memoria agli smemorati di Collegno e di altre parti d’Italia che la pratica barbara di parificare un morto a dieci, anzi a undici, fu propriamente inventata dai fascisti e precisamente il quindici novembre del 1943, in seguito all’omicidio avvenuto due notti prima del federale fascista Igino Ghisellini. Pavolini, capo del Partito Fascista Repubblicano ordinò l’omicidio di undici oppositori del regime come rappresaglia. I vertici del Partito Fascista Repubblicano di Ferrara rastrellarono settantaquattro persone, trucidandone la notte del 15 novembre undici, nel muro antistante il castello Estense (ed in altre zone della città). Da qui si perpetrò l’uso dello stragismo da parte dei nazi-fascisti al grido di “ferraresizziamo l’Italia”. Ancora non sono chiare le responsabilità dell’omicidio politico del federale, alcuni storici danno la responsabilità diretta al PFR di Ferrara, mentre altri pensano che i federali e i vertici del partito abbiano “venduto” Ghisellini ai Gappisti delle città.

La memoria e le parole hanno una importanza fondamentale. La brigata nazista italo-tedesca “Bozen” non è una banda musicale di pensionati. I fascisti non furono patrioti, lo furono i partigiani. Gli italiani durante la guerra civile non furono tutti uguali, c’era chi combatteva per la libertà e chi combatteva per consegnare l’Italia agli oppressori.

Sicuramente ci sarà chi commenterà questo articolo definendolo poco accurato dal punto di vista storico, chi lo riterrà frutto di una opinione. Su questo non sono d’accordo. Il fascismo non fu un’ opinione, fu un crimine.  In quanto tale va ricordato e studiato, le approssimazioni e falsità storiche sono gravi e non possono venire annoverate alla voce boutades.

L’antifascismo non è un valore divisivo: i nostri padri costituenti erano esponenti di tutti i partiti con valori diversi tra loro, cattolici, comunisti, socialisti, liberali, repubblicani, unionisti.

L’antifascismo, la resistenza e la liberazione sono divisive per i fascisti, questo è certo.

DISEGNARE FERRARA. UN INCONTRO DI PROGETTAZIONE PARTECIPATA
Palazzo Tassoni (via Ghiara 36), giovedì 13 aprile ore 16,00

DISEGNARE FERRARA. UN INCONTRO DI PROGETTAZIONE PARTECIPATA 

Organizzato dal Dipartimento di Architettura, Laboratorio di Sintesi Finale di Urbanista, Prof. Romeo Farinella 
in collaborazione con il Forum Ferrara Partecipata.
INCONTRO PUBBLICO
Salone d’Onore di Palazzo Tassoni, via Ghiara n. 36, Ferrara, giovedì 13 aprile 2023, con inizio alle ore 16

L’incontro è organizzato nell’ambito delle attività del Laboratorio di Sintesi Finale di Urbanistica LSFD, diretto dal Prof. Romeo Farinella e parteciperanno docenti e studentesse del LSFD e sono stati invitati rappresentanti di Enti, Agenzie, Istituzioni.  Si tratta ovviamente di una iniziativa culturale, svolta all’interno di un percorso didattico. Il LSFD è il laboratorio del 5° anno dove le studentesse e gli studenti del Dipartimento di Architettura preparano le loro tesi di laurea. 

Attualmente sono in corso di elaborazione tre tesi di laurea riguardanti Ferrara che approfondiranno dei progetti di rigenerazione urbana riguardanti le aree comprese tra:
– il Polo scientifico-tecnologico e Darsena City;
– l’area gravitante attorno all’ex Caserma Pozzuolo del Friuli;
– l’area gravitante attorno all’Ippodromo.
Verranno approfondite anche le relazioni con il Po di Volano e con il futuro potenziale corridoio verde coincidente con l’interramento della linea ferroviaria verso est.

Lo scopo di questo incontro è di contribuire alla costruzione del quadro problematico necessario per lo sviluppo delle tesi di laurea che secondo la nostra consuetudine si presentano come momenti di ricerca progettuale, applicando un metodo di lavoro denominato research by design. Lo scopo di questa iniziativa è anche quello di avvicinare l’università alla città contribuendo al rafforzamento del confronto sul futuro della città di Ferrara, attraverso un contatto con associazioni e cittadini, con l’obiettivo anche di rafforzare il public engagement di UNIFE nei confronti del suo principale territorio di riferimento.
 
L’incontro è pertanto pubblico e tutti i partecipanti potranno partecipare contribuire al dialogo. L’incontro si svolgerà presso il Salone d’Onore di Palazzo Tassoni, via Ghiara n. 36, Ferrara, giovedì 13 aprile 2023, con inizio alle ore 16.

Lavoro di gruppo degli studenti di Architettura

Parole e figure
Altroquando: mondo virtuale contro mondo reale

“Altroquando”: l’alienazione sia con noi. Quando il mondo virtuale sovrasta il mondo reale

Virtuale contro reale. Il primo straccia, supera, surclassa, inghiotte, divora, soverchia, annulla, cancella, annienta il secondo. Lo batte, inesorabilmente. Un triste e angosciante punteggio che, ormai, non si riesce più a dare. Una vittoria schiacciante. Di quelle tristi.

Ormai quasi tutti viviamo in un’altra dimensione, che è quella in cui ci conducono i nostri cellulari, ipad e computer. Questa dimensione può essere chiamata ‘altroquando’. È il posto dove siamo veramente, anche se non fisicamente. Quello dove stanno la nostra testa e i nostri pensieri, perennemente distratti e capaci solo di rispondere a monosillabi a domande che richiederebbero una riflessione compiuta e sensata, per quanto minima.

Il venezuelano Sandro Bassi ci propone un ‘silent book’ Altroquando (Kite edizioni, 56 pp.) dal tema e immagini fantascientifici, che ci trasporta in quel mondo – che ormai conosciamo fin troppo bene – che è la totale dipendenza da internet. Teste chine.

Una lettura silenziosa per tutti, un monito all’essere umano che si sta perdendo.

Questo albo racconta, senza usare le parole (perché parole non servono), quanto ormai viviamo in questo mondo e come possiamo sentirci disorientati quando veniamo sconnessi da questa dimensione, che ormai è quasi la nostra vita stessa.

Vi siete mai trovati in un luogo sena connessione alla rete? Oddio, telefono o pc non vanno… Il panico, il caos, siamo persi, senza identità. È il vuoto, la solitudine, il non poter scorgere o postare sogni, il non poter invidiare la felicità degli altri. Mentre non vediamo più il mondo intorno, quello vivo, quello pulsante, quello reale fatto di colori, parole, emozioni e sentimenti. Mentre non godiamo del silenzio o del fruscio del vento.

Ogni tavola di questo incredibile libro raccoglie mostri dai volti irriconoscibili fatti di geometrie o di oggetti deformi e informi. Menti che sono in un mondo parallelo: ma come abbiamo fatto a ridurci così? Davvero siamo arrivati al punto di non riconoscerci più? Purtroppo, questa è la triste e cruda realtà e Sandro Bassi ce lo sbatte in faccia senza mezze misure, attraverso pagine in bianco e nero, con illustrazioni in mezza tinta, a matita.

Nessun colore, tonalità grigia, come grigie sono le esistenze spente di chi sta sempre e maledettamente appiccicato ad uno schermo illuminato. I disegni sono piatti ma fluidi, a creare una linea discontinua di figure ferme: un mondo in continuo movimento che però racchiude vite statiche e tutte uguali, uniformi, a raffigurarci con orribili facce da mostri, come identità diverse da noi. Semplicemente ciò che ormai siamo diventati.

Nei vagoni di una qualunque metropolitana grigio ferro, ignorandosi fra loro, i passeggeri fissano i display dei loro cellulari. Lo stesso avviene in treno, sui bus, per la strada, nei bar e ristoranti. Stazioni, centri commerciali e pure musei, sempre la stessa scena. Pure al cinema o a teatro la gente fatica a chiudere quell’aggeggio infernale (si sarà capito, lo odiamo con tutta la nostra anima). Non ci si guarda più in faccia, non ci si parla più, non si ride, non si ascolta, non ci si accarezza. Il touch è riservato agli screen.

Qualche gruppo di ragazzi si sta accorgendo che così non va. Basti pensare, per citare un bell’esempio, al Luddite Club, un gruppo di giovani studenti della Murrow High school che hanno scelto di rinunciare a smartphone e social per condurre una vita più semplice, che sappia dare a libri, dialogo e musica lo spazio che si meritano. Ci si incontra la domenica sui gradini della Central Library in Grand Army Plaza a Brooklyn. Barlume di speranza.

Chissà… Allora, diciamocelo a gran voce: ritorniamo umani, se non è troppo tardi.

Sandro Bassi

È illustratore e artista plastico, anche se il suo percorso creativo cresce attorno a quello pubblicitario. È noto per i suoi ritratti di situazioni quotidiane, di ambienti carichi di dettagli grafici e personaggi, che cercano di svelare l’identità della città. In opere come “Pasajeros”, illustra frammenti della cultura latino-americana attraverso una narrazione tra i suoi paesaggi, i percorsi urbani e le storie quotidiane dei suoi viaggiatori. Tecnicamente, la composizione a piani sovrapposti, la forma della sua linea e i colori rimandano ai fumetti.

“Il circolo degli ex” di Massimo Vitali
Presentazione del volume: Sala del Grattacielo, 14 aprile alle 20.30

“Il circolo degli ex” di Massimo Vitali

Il gruppo di letturaDue pagine prima di dormire
In collaborazione con la Biblioteca Popolare Giardino

Invitano alla presentazione del libro

IL CIRCOLO DEGLI EX
Di Massimo Vitali

Dialoga con l’autore il gruppo di lettura

Venerdì 14 aprile 2023 alle ore 20.30
 presso la Sala Polivalente

Ferrara, viale Cavour 189 – Ai piedi del grattacielo

Una piccola commedia ironica che fa riflettere sui nostri enormi drammi sentimentali.

“Vi è mai capitato di uscire da una storia d’amore, senza uscirne per davvero? E se l’unico modo per ripartire fosse confrontarsi con altri cuori a metà? La fine di certe storie d’amore equivale alla fine universale dell’amore. Invece di aprirti al futuro, hai la certezza di non riuscire mai più a trovare un amore come quello che hai perso. Questa è la certezza di Pietro, che non sente Ginevra da due mesi e cinque giorni, dopo essersi lasciati e ripresi così tante volte da non ricordarsi più quante. Compresa l’ultima, per lui, come se fosse la prima. Fino a quando capisce che se l’amore a volte crea dipendenza e

Grazie alla sua scrittura originale Massimo Vitali illumina il lato più paradossale e tragicomico di certe relazioni con una delicata e profonda commedia ispirata a una storia vera: quella di tutti noi il cui universo almeno una volta nella vita si è fermato per la fine di un amore…fino al successivo.”

Massimo Vitali è nato e vive a Bologna. Ha pubblicato i romanzi L’amore non si dice (Fernandel, 2010)   e Se son rose (Fernandel 2011; Sperling &Kupfer 2021) ; da quest’ultimo sono state tratte due pièce teatrali e il film Nel bagno delle donne, prodotto da Rai Cinema. Con Sperling & Kupfer ha pubblicato anche Una vita al giorno (2019). È docente di scrittura creativa, realizza laboratori sulla fantasia nelle scuole e conduce un programma radiofonico chiamato Ufficio Reclami, dove accoglie le lamentele di tutti, compresi i lettori dei suoi romanzi.

Il volume: Massimo Vuitali, Il circolo degli ex, sperling & kupfer, 16,90 €

Torna il quotidiano l’Unità:
il benvenuto è d’obbligo, la diffidenza è lecita

 

Il 16 aprile, per la quarta volta, l’Unità tornerà in edicola, diretta da Piero Sansonetti, già direttore del Riformista, e che a suo tempo è stato capocronista, caporedattore vicedirettore e condirettore del giornale fondato da Antonio Gramsci nel 1924. Il Riformista verrà diretto da Matteo Renzi, a cui evidentemente non basta fare il senatore, il summit della Leopolda, eccetera. Entrambe le testate hanno come editore Alfredo Romeo, avvocato, imprenditore napoletano nel ramo immobiliare, assolto dopo un iter giudiziario durato cinque anni dalla accusa di corruzione, una questione di appalti: “il fatto non sussiste” sentenziarono i giudici.

“Faremo un gran casino” – ha detto Sansonetti presentando in una conferenza stampa a Cosenza il ritorno del giornale – e saremo garantisti” in un paese dove “l’informazione è ridotta ai minimi“. Il ritorno del quotidiano permetterà “di combattere per una civiltà più giusta, e anche più libera“.

C’è chi afferma che l’Unità tornerà in edicola il 18 aprile (non comunque il 25 aprile e nemmeno il 1 maggio). ma noi non vogliamo correre dietro alle date. La nuova edizione parte però con una zoppia: non vi lavoreranno i 4 poligrafici, e i 17 giornalisti che hanno fatto l’Unità sia cartacea che online, sino al 2017, con grandi sacrifici e rinunce, e che sono stati licenziati dal curatore fallimentare. Perché un giornale – lo ha sancito anche la giurisprudenza – è indissolubilmente legato a chi lo costruisce ogni giorno.

Il panorama dell’informazione oggi è profondamente cambiato. I giornali si leggono sempre meno: tuttavia, una voce nuova e attrattiva – chiamiamola così – sarebbe benvenuta, ridarebbe forza a battaglie sacrosante se fosse espressione di quella sinistra che non ha un’identità precisa e fatica ad essere un punto d’approdo per ampi strati di società che sono esclusi da un’informazione onesta. Perché, citiamo Gramsci, “tutto ciò che stampa (il giornale borghese, ndr) è costantemente influenzato da un’idea: servire la classe dominante”.

La “nuova” Unità porterà con sé i valori che ne facevano uno strumento per lotte spesso durissime, fin dalla Resistenza, una specie di simbolo da portare nelle case con le diffusioni domenicali e straordinarie, un giornale da sostenere a costo di grandi sacrifici, sia dei redattori che delle migliaia di donne e uomini impegnati nelle feste rinunciando alle ferie e al riposo?
Lo scopriremo leggendola. Intanto, permetteteci di coltivare una sana diffidenza.

Cancel Culture: Statue che muoiono, Amazzoni che risorgono.

 

Prima di diffondersi come la forma di ribellione prediletta dai contestatori del passato razzista e colonialista occidentale ed essere etichettata come Cancel Culture, l’abbattimento e la deposizione delle statue ha interessato e ispirato sceneggiature e grandi opere cinematografiche.

 

Nel 1928 il regista Sergei Eisenstein fa cominciare Ottobre, il film capolavoro sulla Rivoluzione russa, con le immagini di una folla lillipuziana di proletari, soldati e contadini che a Pietroburgo abbattono una colossale statua dello zar Alessandro III. [Vedi qui i 20 minuti iniziali del lungometraggio]

 

 

 

 

 

Nella sequenza di apertura de La dolce vita, 1960, di Federico Fellini, un elicottero che trasporta una grande statua dorata di Gesù Cristo a braccia aperte sorvola un quartiere in costruzione nella periferia di Roma. [La dolce vita: scena dell’elicottero]

 

 

 

 

Nella scena cult del film Good Bye Lenin! del 2003 di Wolfgang Becker, la protagonista femminile scende per la prima volta in strada a Berlino dopo la caduta del Muro e rimane esterrefatta nel vedere una grande statua di Lenin che viene trasportata via da un elicottero militare. [scena cult del film] 

 

Una scena simile era già stata rappresentata in La doppia vita di Veronica, 1991, di Krzysztof Kieślowski, ispirata da un fatto della storia berlinese post-Muro, ovvero lo smantellamento all’allora Leninplatz della grande statua in pietra di Lenin, con la sua testa di 3,5 tonnellate, ridotta in 129 pezzi seppelliti in una cava di sabbia.

I riferimenti storici, le allegorie e i simbolismi espressi dalle statue in questi capolavori del cinema d’autore trovano un epilogo nel documentario Anche le statue muoiono, girato in Africa e in Francia tra il 1950 e il 1953 dai cineasti Chris Marker e Alain Resnais, che si apre con questa frase: «Quando gli uomini muoiono entrano nella storia. Quando le statue muoiono entrano nell’arte. Questa biologia della morte è ciò che chiamiamo cultura».

Commissionata dalla rivista letteraria Présence africaine e appoggiata da numerosi intellettuali francesi vicini al movimento della negritudine, dopo la sua prima proiezione al Festival di Cannes nel 1953 e malgrado si sia aggiudicata il premio Jean Vigo nel 1954, la pellicola è stata censurata dal Centre National de la Cinématographie fino al 1963.
La censura è un’evidente conseguenza del fatto che i due registi si palesarono nel pieno della crisi coloniale attraversata dalla Francia, che da lì a un decennio avrebbe assistito all’indipendenza delle terre occupate in Algeria, Marocco, Tunisia, Africa occidentale, Africa equatoriale e Madagascar, con un documentario antimperialista che mostra come l’Africa diviene un laboratorio in cui si costruisce l’immagine del buon selvaggio imposta dall’uomo bianco e come l’arte africana e gli antichi significati che le appartengono vengano distrutti e sopraffatti.

La morte delle statue, intese come sculture, maschere e opere d’arte plastica, è chiaramente connessa alla nascita della commercializzazione dell’arte africana per il piacere dei ricchi colonizzatori, i quali pretendono che le statue continuino a vivere e a valorizzarsi nelle bacheche delle collezioni museali, mentre Resnais e Marker affermano l’opposto, ovvero che dalle teche dei musei le statue ci guardano ma non ci riguardano, dato che la funzione rituale, il simbolismo e l’autonomia del linguaggio che tali forme veicolano perdono il loro senso in uno spazio, totalmente decontestualizzato ed esclusivamente estetico, che le azzera.
Visto e analizzato da questo punto di vista, l’emergente fenomeno definito “Rivisitazione dell’Arte Coloniale”, nato dalla Cancel Culture, adottato dal Politicamente Corretto e qualificato come processo di de-colonizzazione post-museale dal Governo Francese in primis nei confronti della Repubblica del Benin, appare come una precipitosa fuga attraverso l’uscita di emergenza della storia, giù per scala di sicurezza del proprio passato colonialista.

I sottili limiti esistenti da secoli fra saccheggio e collezionismo da un lato, e mercato e schiavismo dall’altro, continueranno ad essere di stretta attualità anche dopo il 2022, in quella che si è presentata come una inaugurale stagione africana di appuntamenti fortemente simbolici e chiaramente rivelatori del rapporto che l’arte intrattiene con gli splendori e gli orrori della storia coloniale e che ha salutato la Repubblica del Benin come primo Stato dell’Africa subsahariana a rientrare in possesso di una parte del proprio patrimonio culturale sottratto da una potenza coloniale europea e che ha visto la Repubblica Francese come primo Paese al mondo a restituire a un Paese africano colonizzato una simbolica parte maltolta del suo patrimonio.

Nel confronto tra primati e primatisti, a manifestarsi è però un deficit insanabile.
Le prime richieste di restituzione da parte dei Paesi africani risalgono infatti agli anni Sessanta e per sessant’anni i Paesi europei hanno reagito senza compiere un solo passo in avanti. Parlare di restituzione è stato una sorta di tabù o di muro abbattuto solamente negli ultimi anni da cause legali mosse da comitati, associazioni, intellettuali e capi di Stato: dal 2019, oltre al Benin, anche Senegal, Costa d’Avorio, Nigeria, Zaire, Etiopia, Ciad, Mali e Madagascar hanno inoltrato richieste ufficiali.

L’insensibilità con la quale il colonialismo europeo ha impedito il senso contestuale/culturale dell’arte africana, l’assenza di dialogo culturale con i popoli indigeni, lo sviluppo di un’arte di mercato dove il bianco è l’intenditore-compratore di manufatti da inglobare nel sistema estetico e formale dell’arte occidentale, toccano i punti cruciali delle riflessioni sul valore storico-antropologico che i manufatti artistici possiedono per le società che li producono.
Tutti sanno come le popolazioni indigene siano state pagate per vendere la loro stessa identità e il proprio patrimonio culturale materiale e immateriale, tutti sanno che l’arte nera è stata il più delle volte rubata, come ha testimoniato in molte pagine del suo diario di viaggio, L’Africa fantasma (1934), l’etnologo Michel Leiris negli anni della Missione etnografica Dakar-Gibuti (1931-1933) che arricchì a dismisura i depositi del Musée de l’Homme di Parigi con 3.600 oggetti, 300 amuleti, collezioni di pitture, manoscritti in 30 differenti lingue, 6.000 fotografie…
Leiris ha denunciato i mezzi spicci e predatori con cui gli etnologi francesi si sono appropriati degli oggetti artistici o rituali degli indigeni e con cui estorsero informazioni su celebrazioni, tradizioni, canti e danze riservate agli iniziati e nel libro egli si rimprovera di aver usato esattamente gli stessi metodi dei colleghi: il furto e l’inganno.
Per tutti questi motivi, l’uscita del libro, nel 1934, venne accolta con aperta ostilità: il capo missione Marcel Griaule -assistente all Ecole des Hautes Etudes, etnografo e linguista- furioso, definì l’ex amico, “un uomo senza onore che ha compromesso l’avvenire degli studi sul campo”; Marcel Mauss- luminare dell’antropologia culturale francese- ridusse Leiris a un “letterato” e “non un etnologo serio”; il Ministero dell’educazione nazionale stigmatizzò il libro come “opera la cui apparente intelligenza è dovuta soltanto a una grandissima bassezza di sentimenti”. Gran parte delle copie andarono al macero: la distruzione totale verrà completata sette anni dopo, nel 1941, ormai sotto l’occupazione tedesca, quando il Ministero degli interni del governo di Vichy interdisse ufficialmente l’Afrique Fantome. Solo nel 1951, il volume sarà finalmente ristampato venendo riconosciuto da molti, insieme a Cuore di tenebra di Joseph Conrad, come uno dei capolavori letterari che l’Africa ha ispirato.

Il significato dell’arte “primitiva” è stato alterato e gli indigeni pagati per vendere il loro patrimonio culturale e la loro stessa identità, trasformando le loro vite in una farsa diretta dai colonizzatori, in cui la sfera magico-religiosa viene rimpiazzata dagli interessi economici speculativi dell’Occidente e pervasa da un concetto di “esotismo esteriore” che coglie motivi ornamentali e periferici in grado di suscitare un “interesse autoreferenziale e uno spaesamento temporaneo circoscritto e fine a sé stesso”, come lo ebbe a definire Elemire Zolla in Uscite dal Mondo, (1992, capitolo: Parigi fra il 1862 e il 1932).
Resnais e Marker, difendendo il diritto di riconoscimento dell’arte africana in tutte le sue sfaccettature e livelli di complessità storica, sociale, artistica, rituale, magica, estetica e performativa, si domandarono: «Perché l’arte nera si trova esposta al Musée de l’Homme, mentre l’arte greca o egiziana sono esposte al Louvre?». Un interrogativo lapidario che ancora oggi pone non pochi problemi alla ricerca e alla critica antropologica, artistica e museale.

Interrogativo che pone problemi anche all’atteggiamento patriarcale colonialista che preferisce parlare di “museo dell’uomo”, di “uomo preistorico”, di “evoluzione dell’uomo” piuttosto che di umanità. Con il loro quesito, i due autori hanno avviato l’urgenza di un processo di de-mistificazione e di de-musealizzazione dell’arte indigena, problematizzando il tema del presunto primitivismo africano e sostenendo che quando vengono sottratte, inventariate, comprate a basso prezzo, rivendute ai proprietari dei negozi di antiquariato, ri-collocate ed esposte dietro le vetrine museali, “anche le statue muoiono”. L’affermazione dei due registi mette in discussione lo statuto dell’istituzione museale, sostenendo che un oggetto è morto quando lo sguardo attivo, vivente, antropologico, che si posa su di esso, è annullato. Per l’arte africana ciò avverrebbe quando i manufatti vengono inseriti nei circuiti museali dove muoiono formando, più che una collezione, un cimitero.

E’ in merito a tali considerazioni che si è parlato di rinascita espositiva -oltre che di crollo di un muro- a proposito del grande successo ottenuto, con centinaia di migliaia di visitatori dal 21 febbraio al 22 maggio, e grazie alla riapertura dal 16 luglio al 15 settembre, dalla mostra “Arte del Benin di ieri e di oggi: dalla restituzione alla rivelazione” presso le sale provvisorie del palazzo Presidenziale della Marina di Cotonou.
La seconda parte di questa esposizione, chiamata “Tesori Reali del Benin” ha presentato ventisei opere restituite dopo centotrenta anni trascorsi nei musei francesi, da quando cioè, nel 1892, la Francia attaccò il Regno del Dahomey con il pretesto di condurre la lotta al cannibalismo, ai sacrifici umani e alla poligamia attribuite alle popolazioni autoctone, mentre in realtà stava procedendo per completare l’occupazione di quella che sarebbe divenuta l’Africa Equatoriale Francese, una federazione di possedimenti di 2.349.651 km² che si estendeva dal fiume Congo fino al deserto del Sahara.

All’epoca non esisteva una legge internazionale sul saccheggio delle opere d’arte, gli ufficiali francesi poterono agire liberamente a titolo personale e non si saprà mai con esattezza quanti oggetti preziosi siano stati prelevati e quanti altri senza dubbio siano ancora oggi nelle mani dei loro discendenti. Secondo stime accertabili in Francia si troverebbero 90.000 manufatti artistici di inestimabile valore, dei quali 46.000 -meno 26- sottratti durante il periodo coloniale.
Fu il colonnello franco-senegalese Alfred Amédée Dodds, tra il 1893 e il 1895, a restituire al Museo Etnografico del Trocadéro i ventisei tesori reali sequestrati nella reggia di Abomey che sono stati esposti nella capitale beninese, tra i quali spiccano il trono di Re Béhanzin, quattro porte del palazzo del re Glélé, tre statue reali antropomorfe metà uomo-metà pesce di Béhanzin, metà uomo metà leone del re Glélé e metà uomo metà uccello del re Ghézo, attribuite al grande intagliatore Likohin Kankanhau Sossa Dede, oltre a scettri, monete d’oro, gioielli in avorio e metalli preziosi, sculture sacre, arredi, tessuti e oggetti di uso rituale e quotidiano.

Dodds ha inoltre contribuito a svelare il mito relativo al leggendario corpo di élite dell’esercito imperiale del Regno del Dahomey, noto per le popolazioni Fon, Yoruba, Ewè e Ashanti con il nome di N’Nonmiton, Mino o di Agodjies, che venne poi descritto dai colonizzatori francesi e inglesi con il nome di Amazzoni del Dahomey.
Quando partì da Cotonou alla testa di oltre tremila uomini, dal 26 ottobre al 17 novembre 1892, prima di conquistare e saccheggiare la capitale Abomey, dovette affrontare la resistenza all’ultimo sangue di un esercito composto da sole donne guerriere giudicate superiori ai soldati maschi in termini di fedeltà, coraggio e valore in battaglia.
L’esercito maschile e le popolazioni locali si difesero strenuamente e si contarono ben ventitrè cruenti battaglie e massacri alle quali presero parte i combattenti della Legione Straniera armati di micidiali mitragliatrici. Quella del 26 ottobre fu la battaglia più sanguinosa. A cinquanta chilometri da Abomey, i francesi dovettero affrontare un esercito immenso, composto da donne, intervenute per tentare di opporre un’ultima strenua resistenza.

Dimostrarono di non aver nessuna paura né di uccidere, né di morire.

Si lanciarono all’attacco in prima linea e combatterono senza nessuna remissione, usando la tecnica di combattimento da loro preferita, il corpo a corpo.
Mentre i francesi tentavano di mantenerle a distanza a mitragliate, le donne cercavano lo scontro fisico diretto e si catapultavano davanti alle baionette dei soldati per affrontarli faccia a faccia.
I soldati francesi rimasero sorpresi dal loro coraggio e atterriti dal fatto che non esitavano a decapitare i nemici uccisi, per ritornare all’attacco impugnando le loro teste. Nonostante la loro eroica resistenza, le N’Nonmiton non riuscirono a tenere testa alla superiorità militare dell’esercito francese, ma non si arresero e vennero sterminate: il 17 novembre 1892, quando i francesi raggiunsero la capitale Abomey e dopo gli ultimi attacchi venne istituito il Protettorato Francese, ne sopravvissero soltanto un centinaio.

Gli aspetti leggendari legati alle Amazzoni del Dahomey presentati per la prima volta in Europa dai Francesi tramite le imprese di Dodds negli ultimi decenni dell’Ottocento, sono strumentali e viziati da una visione patriarcale finalizzata più a riflettere l’impegno dei soldati francesi e i presupposti ideologici di conquista coloniale con i quali venivano impiegati in Africa, che non a considerare che la tradizione locale legata a queste donne era molto più antica, dal momento che le origini delle Mino sono attribuibili a una principessa della famiglia reale di Tado, di nome Abigbonu, che avrebbe generato le dinastie sovrane di tutti i regni sorti tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo nelle regioni centromeridionali delle attuali repubbliche di Togo, Ghana e Benin, cioè in una culla della civiltà che si ritiene sia stata abitata senza interruzioni perlomeno dal 3.700 a.C.

L’esempio materiale di come avrebbe potuto nascere un esercito composto da donne guerriere fu però merito di un’altra principessa, Tasi Hangbè, figlia del re fondatore del regno di Dahomey, Aho Houegbadja e sorella gemella del quarto re Houessou Akaba, che durante una battaglia contro un popolo rivale, travestitasi da suo fratello gemello rimasto ucciso sul campo, impugnò le armi e si mise a combattere al comando dell’esercito senza essere riconosciuta dal nemico.

 

 

 

Tasi Hangbè, divenne regina, salì al trono subito dopo la morte del fratello e regnò dal 1708 al 1711 e il suo ricordo ha ispirato la recente costruzione di una gigantesca statua in bronzo di 30 metri di altezza, opera dell’artista cinese Li Xiangqun, che domina come un faro la capitale sul sito del Memoriale della Riconciliazione, dietro il Palazzo della Marina.

 

 

L’esploratore Richard Francis Burton ha lasciato dei commenti sulla mascolinità fisica di queste donne, che le rendeva in grado di competere con gli uomini in quanto a forza, resistenza e capacità di sopravvivenza alle privazioni, precisando che le dimensioni del loro scheletro e della loro massa muscolare erano tali che la femminilità poteva essere rilevabile solo dal seno.

Servire nel Mino offrì alle donne l’opportunità di essere rispettate ed equiparate agli uomini, di salire a posizioni di comando, di godere di influenza, prestigio e privilegi, come quello di avere diritto a propri schiavi e di assumere ruoli di rilievo nel Gran Consiglio discutendo la gestione del regno anche in materia di politica estera.
Stanley Alpern, autore dell’unico studio completo in lingua inglese intitolato Amazons of Black Sparta, ha scritto che quando le Amazzoni uscivano dal palazzo, erano precedute da una serva che portava una campana. Il suono imponeva a ogni maschio di allontanarsi dal proprio percorso, ritirarsi a una certa distanza e guardare dall’altra parte.
Intoccabili e giurate, non potevano sposarsi o avere figli ed erano soprannominate “Le mogli del re” perché facevano un voto di castità prima di entrare nell’esercito e proteggevano il trono finché non esaurivano il compito che era stato loro affidato fedeli al proprio motto “vincere o morire”.

La giornalista francese Marie Madeleine Prevandeau negli anni ’30 fu una delle prime europee a parlare di queste guerriere cercando di interpretare la loro esistenza e il loro esempio come prova di un movimento femminista ante litteram, rilanciando l’idea di una primitiva civiltà delle donne e di un passato matriarcale dell’umanità inteso non come semplice ribaltamento del patriarcato, cioè la dominazione opposta di un sesso sull’altro, ma di una cultura di bilanciamento dei ruoli.

L’adattabilità, lo spirito di sopravvivenza, la resistenza, la capacità di autogovernarsi, l’insofferenza per i ruoli imposti dalle differenze di genere, sono state le doti più importanti delle Mino, esempi di donne rivoluzionarie, anticolonialiste, intellettuali, che potrebbero essere utili e in grado di imprimere alla prospettiva storica del passato un esemplare parallelismo con il presente, rafforzato dalla scelta di veicolare l’identità visiva, l’immagine pubblica e il richiamo turistico della Repubblica del Benin tramite la statua-simbolo della bellezza, della forza e dell’emancipazione delle N’Nominton – Le nostre madri – le uniche donne combattenti in prima linea, conosciute e documentate nella storia delle guerre moderne.

In copertina: Repubblica del Benin, costruzione della colossale statua della Regina Tassi Hangbé

Vi prego, non pregate nella scuola pubblica

A me sembra che, ogni giorno per qualsiasi cosa accada, l’attività principale praticata da molti di coloro che hanno la responsabilità di informare sia il ‘buttarla in vacca‘.
Certi titoli di giornale sono scandalosi, certi articoli di una faziosità preoccupante, quasi offensiva per un lettore di intelligenza media.
Sembra che qualsiasi fatto venga usato per dividere strumentalmente l’opinione pubblica, per creare astio, per insegnare ad odiare.
È grave questa scelta giornalistica perché impedisce ai lettori di capire, di formarsi un’opinione e li condiziona nell’interpretazione dei fatti.

Capita spesso anche quando si legge di scuola. Prendo ad esempio il recente fatto di cronaca che riguarda la sanzione comminata ad una maestra per aver fatto pregare gli alunni in classe.
Dalle prime informazioni sembrava che questa maestra, che insegna storia, geografia e musica nella primaria di San Vero Milis (Oristano), fosse stata sospesa per 20 giorni con riduzione dello stipendio, per aver fatto recitare un Padre Nostro ed un’Ave Maria ai bambini e alle bambine di una classe terza di una scuola pubblica.
Raccontata in questo modo la sospensione, in effetti, sembrerebbe eccessiva.

Per moltissimi politici bigotti del nostro Paese ciò è apparso intollerabile e allora giù con la difesa della “nostra cultura”, della “nostra storia”, delle “nostre radici”. E ancora giù contro la laicità, contro la furia iconoclasta, contro la sinistra, insomma giù contro il mondo intero.

È stata necessaria una precisazione da parte del responsabile dell’Ufficio Scolastico Regionale della Sardegna dottor Feliziani che ha detto che “Non si è trattato soltanto di una preghiera in classe”, facendo capire una cosa ovvia e banale cioè che gli Uffici Scolastici Regionali non decidono sulla base della segnalazione ma si accertano prima di procedere e che “l’azione dell’ufficio è improntata a canoni di correttezza amministrativa, senza nessuna finalità ideologica”.
Se ne deduce che se si muove un Ufficio Scolastico regionale c’è dell’altro e c’è qualcosa di ben più grave di una preghiera recitata in classe perché quando arriva una sanzione vuol dire che ci sono stati prima diversi richiami.

Dalle informazioni successive si è venuto a sapere che la stessa maestra aveva insegnato agli alunni a realizzare un rosario, che compieva una sorta di benedizione dei bambini con olio proveniente da Medjugorje e che spiegava i terremoti e le eruzioni vulcaniche come ‘castighi di Dio’ per la malvagità degli uomini.

Lei si è difesa dicendo che “Ho portato l’olio da Medjugorje, l’ho dato ai bambini e loro se lo sono messi l’un l’altro, come in un gioco“, “Non c’è stata nessuna benedizione. Dopo il Pater e l’Ave, li ho salutati con un ‘Che Dio vi benedica!’: è un saluto cristiano a chi si vuol bene“.

Sicuramente c’è dell’altro in questa faccenda e noi non possiamo sapere tutto ma, nel frattempo, la macchina dell’odio è già oliata a dovere: quindi vai con i Fratelli d’Italia che difendono la maestra considerata martire, con Vittorio Sgarbi che la vorrebbe premiare, con il presidente della Sardegna Christian Solinas che ha dichiarato: “Un provvedimento preoccupante, che ha il sapore della censura se non addirittura della persecuzione religiosa”, con Matteo Salvini che dice: “Siamo alla follia. Buona Santa Pasqua a questa maestra, un abbraccio ai suoi bambini”.

In tutta questa baraonda mediatica, non ho notizia di qualcuno che abbia ricordato che la scuola in cui quella maestra insegna storia, geografia e musica non è una scuola privata a carattere religioso, ma è una scuola statale quindi pubblica, dove si dovrebbe rispettare il principio di laicità.
È una scuola pubblica di un Paese, il nostro, che non ha una religione di Stato.
È una scuola pubblica in cui la dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica non è più «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica» come era scritto nei programmi per la scuola elementare del 1955.
È una scuola pubblica che “mira all’acquisizione degli apprendimenti di base come primo esercizio dei diritti costituzionali. Attraverso le conoscenze e i linguaggi caratteristici di ciascuna disciplina, la scuola primaria pone le premesse per lo sviluppo del pensiero riflessivo e critico necessario per diventare cittadini consapevoli e responsabili” (Fonte MIUR).
È la scuola pubblica della Costituzione in cui “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Comincio a credere che il gran clamore su questa vicenda non sia tanto per la vicenda in sé ma per distogliere l’attenzione dal fascismo sempre più dilagante, dalle incapacità governative, dalla mancata realizzazione di certe promesse elettorali, dalle continue gaffe di ministri vari che ne dimostrano l’impreparazione imbarazzante e la disumanità incredibile.
Continuo ad immaginare che i ministri di destra che hanno giurato sulla Costituzione non ci credano proprio nella nostra Carta Costituzionale.

Seguito a pensare che i tanti richiami e/o oggetti religiosi di cui fanno sfoggio certi politici siano in contrasto evidente con il loro modo di comportarsi.

Verifico con preoccupazione che il richiamo indiretto al motto “Dio, patria e famiglia” funziona sempre in un Paese come il nostro non completamente istruito ma ostruito da certa informazione spazzatura e da certa politica bigotta.

Mi auguro che il lavoro quotidiano di tante docenti e di tanti docenti, ottimisti per natura e per mestiere, non si faccia intimorire dal brutto clima ma, nel proprio piccolo, si provi a resistere e ad influenzare l’ambiente con il vento adatto per i ‘cambiaMenti’, le temperature emotive giuste, adottando nuove strategie didattiche di rilievo, collaborando per portare più luce sul lavoro cooperativo, insomma praticando l’inclusione con ‘classe’ e facendo vivere la Costituzione a scuola.

L’Aquila Gaia a fumetti

 

Vedi anche su Periscopio: Il Sentiero dell’Aquila Gaia: una storia molto vera 

Il primo volo dell’Aquila Gaia

Gaia, la giovane aquila reale nata nel maggio 2017 a Frasassi e liberata dal WWF Italia a settembre dello stesso anno dopo essere sopravvissuta alle fucilate di un bracconiere, ha percorso oltre 1.000 km in 14 mesi. Già da oltre un anno frequenta soprattutto il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi. Due fotografi naturalisti, Cristian Donati ed Emanuele Cheruan l’hanno immortalata con due preziosi scatti.

Gli ultimi mesi di spostamento dell’Aquila Gaia

I dati degli ultimi mesi di telemetria satellitare ci aiutano a ricostruire gli spostamenti nell’appennino tosco-romagnolo della giovane aquila reale nata nel Parco Regionale Gola della Rossa e di Frasassi e curata e liberata dal WW a settembre 2017, dopo essere stata ferita da un bracconiere. Gaia è stata la prima aquila dotata di satellitare GPS in Italia, grazie al quale si possono monitorare i suoi viaggi. Questi dati ci consentono di studiare gli spostamenti di Gaia, e di evidenziare gli spostamenti talvolta improvvisi anche di oltre 100 km in un giorno.
Le sue ali l’hanno portata prima nel nord delle Marche, frequentando i territori di altre 5 coppie (Furlo, Nerone, Petrano, Catria, Cucco) per poi tornare a Frasassi e scendere verso sud attraversando Valnerina, Sibillini, Laga, Monti Reatini, Gole Antrodoco, Terminillo fino alla riserva del Velino in Abruzzo e l’area del Lago del Salto nel Lazio. Dopo essere passata tra il Vettore Sibillini e Laga, è partita in volo per raggiungere la riserva del Pigelleto e, successivamente, il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi.
Nel Parco ha utilizzato come aree di caccia le aree basse montane e come dormitori i grandi abeti bianchi secolari presenti nelle foreste vetuste. Ha volato spesso nella zona di Monte Falco, la Burraia, Monte Falterona, la foresta della Lama, La Verna e Camaldoli. L’aquila è in ottima salute ed è riuscita ad effettuare 200 km in volo in un paio di giorni all’interno del Parco Nazionale.

L’Ucraina è nostra vicina, ma la Cina ci è già entrata in casa

 

Come ho argomentato in altri articoli, dietro la guerra in Ucraina c’è ben altro: uno scontro per la leadership mondiale nel XXI secolo che la Cina non è più disposta a lasciare agli Usa come nel secolo scorso. Questo spiega l’inefficacia delle sanzioni alla Russia che commercia bellamente con l’altra metà del mondo, il quale se ne infischia dell’Occidente (Cina in testa). Possiamo portare tutte le ragioni che vogliamo (noi siamo una democrazia, loro sono dittature), ma lo spaventoso curriculum di guerre e devastazioni che gli Usa hanno accumulato ha fatto scendere dal podio l’Occidente, e metà del mondo ci contesta vigorosamente.

Paradossalmente è stata proprio la globalizzazione americana e la “modernità” a far crescere la potenza economica della Cina, che ha cominciato a pensare a questa idea nel 2009 (dopo la crisi finanziaria made in Usa dei subprime), raccogliendo le proteste silenziose di decine di paesi che usano il dollaro come moneta di riserva. Nel 2009 il governatore della Banca popolare cinese Zhou Xiaochuan elogiò l’idea di Keynes del Bancor (un paniere di monete e non solo il dollaro, in origine proposta dall’economista nel 1944) ed auspicò la sua creazione, con conseguente de-dollarizzazione. Ebbe l’appoggio di Russia, India, Brasile e Sud Africa (BRICS). Anche Tommaso Padoa Schioppa, ministro del governo Prodi nel 2010, parlò con interesse del Bancor e disse che “l’orientazione monetaria globale era fissata o fortemente influenzata dalla Federal Reserve Usa, esclusivamente in base a considerazioni nazionali”. Il dollaro ha come controvalore (dal 1972) non più l’oro ma la forza della sua economia e il potere militare e, dal 1999, la potenza della finanza occidentale che guida i mercati.

La Cina era consapevole che la sua potenza economica non era però sufficiente. Così ha cominciato a osservare con interesse quanto avveniva in Europa dal 2014, col crescente conflitto con la Russia per via dell’allargamento della Nato ad est e all’Ucraina. L’abbandono dell’alleanza della Russia con l’Europa avrebbe potuto portare in dote alla Cina un alleato insperato come la Russia, appunto: un vicino non proprio amico e militarmente forte. A quel punto bisognava solo trovare il terzo pilastro che contrastasse la finanza occidentale. Questo pilastro è stato individuato nelle materie prime e terre rare (di cui la Cina è il primo fornitore), che saranno alla base di tutti i prodotti ad alta tecnologia futuri. Materie prime che interessano ai paesi (non solo quelli poveri) più della Finanza, una sorta di rivincita della “vile terra” sull’”oro virtuale”.

A questo punto si tratta di avviare un Nuovo Sistema Monetario basato sullo yuan cinese, ma con un paniere di altre monete come, peraltro, aveva proposto Keynes al posto del dollaro a Bretton Woods nel 1944. Al prossimo summit che si farà in agosto in Sud Africa i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) pare abbiano intenzione di dare vita a una nuova moneta internazionale. Interessati sono anche Arabia Saudita, Iran, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Uruguay, Argentina, Messico, Bangladesh, Pakistan, Nigeria e molti altri. Il Pil dei Brics è già a livello del G7 e un sistema valutario alternativo al dollaro eviterebbe che una prossima (peraltro attesa) crisi finanziaria dell’Occidente si scarichi anche su altri paesi, com’è avvenuto sempre in passato.

Già oggi l’aumento dei tassi a 4,75% della Federal Reserve Usa crea gravissimi problemi a molti paesi che detengono la valuta americana come moneta internazionale di scambio. Gli Usa hanno un deficit sull’estero di oltre 18mila miliardi (la Cina ha un avanzo di 6mila e la Russia di 400 miliardi) che si possono permettere di finanziare solo in quanto sono l’unica moneta internazionale. Nel momento in cui non lo fossero più, dovrebbero ridurre i livelli di benessere che si sono permessi sino ad oggi. L’effetto gigante si riverbererebbe anche sul resto dell’Occidente (Europa, Gran Bretagna, Canada, Australia).

Barry Eichengreen (Univ. di Berkeley) ha scritto sul Financial Times che “la guerra in Ucraina sta erodendo le basi dell’egemonia monetaria Usa”. E’ possibile che gli Usa questa volta abbiano fatto un “passo più lungo della gamba”, e nella foga di ottenere più potere allargando la Nato ad Est, abbiano creato le condizioni di un’alleanza Cina-Russia, rafforzando il loro vero nemico: la Cina, appunto.

A questo punto la “frittata” è fatta e, a mio avviso, è impossibile fermare questo processo, data la forza dei BRICS. All’Occidente conviene trattare e negoziare (anche per l’Ucraina), ma insieme: non come si è fatto in Afghanistan, lasciando la trattativa solo tra gli Americani e i Talebani. Occorre prendere atto che il XXI secolo sarà un mondo con poteri multipolari e non più sotto la sola egida degli Usa. Con tutte le critiche che possiamo fare all’uomo d’affari Trump, dobbiamo riconoscere che è il primo presidente Usa ad averlo capito. Questo spiega perché vuole chiudere tutte le guerre americane aperte nel mondo. L’alternativa è una guerra non solo e tanto commerciale, ma una vera guerra – che ovviamente non conviene a nessuno.

Giulio Capurso in concerto e “Bicycle Day” di Brian Blomerth in anteprima italiana:
doppio evento al Centro Sociale La Resistenza, martedì 11 aprile a partire dalle 19

Martedì 11 aprile, alle ore 19, al Centro Sociale La Resistenza, in via della Resistenza 32-34, si terrà, in anteprima italiana, la presentazione del libro Bicycle Day di Brian Blomerth (WoM, 2023). L’evento fa parte della rassegna Pazienza & Resistenza, ideata e curata da Marco Belli e Michele Ronchi Stefanati, in collaborazione con la libreria indipendente La Pazienza Arti e Libri.
Resoconto storico degli eventi del 19 aprile 1943, quando il chimico svizzero Albert Hofmann ingerì una dose sperimentale di un nuovo composto noto come L.S.D e si imbarcò nel primo trip da acido del mondo, “Bicycle Day” di Brian Blomerth è una graphic novel in stile technicolor comix, testimonianza dell’espansione della mente e storia visiva straordinariamente originale. L’editore dialogherà con Silvia Meneghini.
A seguire, dalle 21.30, sempre alla Resistenza, arriva il concerto di Giulio Capurso e Enrico Malucelli.
Giulio Capurso e la sua chitarra
Capurso porta in giro per il mondo uno spettacolo unico in cui suona una chitarra elettrica che ha disegnato e costruito con l’aiuto e la supervisione del liutaio Luca Stanzani, si tratta di una doppio manico a sette corde, quattordici corde in tutto. Suona questo strumento utilizzando due tecniche diverse: tapping e finger-picking.
Contemporaneamente, Capurso suona una batteria a pedale composta da tre diversi modelli di stompbox e assemblati seguendo una nuova logica di utilizzo, suggerita da un supporto di sua invenzione, che permette di usare due stompbox con un piede. Il repertorio è composto da standards jazz e latin jazz, nati sul pianoforte e reinterpretati in modo unico.
Capurso si esibisce da tanti anni in ogni tipo di contesto: dal Premio Tenco di Sanremo nel 2018, nella prestigiosa cornice del teatro Ariston come ospite speciale al Premio Tenco di Barcellona presso Casa degli Italiani, fino a tre edizioni del festival europeo Posidonia Green Festival, di cui due al Museu Maritim di Barcellona e una a Santa Margherita Ligure e ancora l’Harlem Jazz Club di Barcellona nel 2018, il Festival Cose di Amilcare di Barcellona, il Take Five di Bologna nel 2016 e l’Imola jazz festival nel 2009.
Per entrambi gli eventi l’ingresso è gratuito e riservato ai soci ANCeSCAO.
Cover: Giulio Capurso in concerto

Presto di mattina /
La grande neve della Pasqua

La grande neve della Pasqua

È l’ultima neve della stagione,
Neve di primavera, la più abile
A ricucire gli strappi dell’albero secco
Prima che vengano a prenderlo per arderlo.
È la prima neve della tua vita
Poiché, ieri, erano solo chiazze
Di colore, brevi piaceri, timori, tristezze
Inconsistenti, in mancanza di parola.
E vedo che la gioia ha la meglio sulla paura
Nei tuoi occhi, che la sorpresa schiude
Con un gran balzo chiaro: questo grido, questo riso
Che amo, e che trovo ricco di senso.
Perché siamo davvero vicini, e il bambino
È il progenitore di chi un mattino
Lo ha preso tra le mani di adulto sollevandolo
Nell’acconsentire della luce.
(Y. Bonnefoy, Quel che fu senza luce. Inizio e fine della neve, Einaudi, Torino 2001, 211).

Parole fragili e resistenti insieme, ad un tempo solide e fluide, cangianti e ingegnose nelle forme, come sono i cristalli di neve, a formare trine intrecciate di luce, poi un velo nuziale sulla terra, sugli alberi, sulle case, tutto avvolgendo di una veste bianchissima, candida.

Così mi sono sembrate le parole di Yves Bonnefoy, poeta francese, agnostico e tuttavia appassionato dell’assoluto nascosto nelle cose, come cercando quel cielo infinito che si specchia tutto in una pozzanghera e che ama la neve che acconsente alla luce, trasfigurazione del visibile nell’invisibile sino a rendere desiderabile, atteso nel vecchio, l’orizzonte di un mondo nuovo.

Neve che posandosi ricuce gli strappi dell’albero secco della vita perché ricopre e congiunge con il suo manto il tutto e il nulla, il limite con l’infinito, l’indicibile e il suo detto poetico, ciò che sta oltre con ciò che è qui e ora, il grido e il sorriso che amiamo: questi nostri affetti ricchi e insieme esitanti di senso quando sulla terra si prendono per mano aggrappandosi alla luce.

Entrare nella grande neve è per il poeta come entrare in quella foresta grande che è la riserva naturale a Williamstown, in Massachusetts, luogo della sua ispirazione: «Mi fermo, e il suolo sembra aprirsi all’infinito».

Così entrare per un istante nella grande neve è come entrare nell’altro cielo. Scompare per un attimo lunghissimo l’orizzonte tra il dentro e il fuori, il confine tra l’alto e il basso. Il visibile sfuma nell’invisibile e il limite si avvicina all’infinito, tocca il lembo del suo mantello. Di più, si annoda ad esso come un «bisbiglio di fiocchi che si moltiplicano».

Debbo veramente molto ad Hopkins Forest,
La trattengo al mio orizzonte, per quella parte
Che sfuma dal visibile all’invisibile
Nel trasalire di azzurre lontananze.
La ascolto, attraverso i fruscii, e pure talvolta,
D’estate, calpestando le foglie morte
D’anni trascorsi, chiare nella penombra
Di querce troppo fitte tra le pietre,
Mi fermo, e il suolo sembra aprirsi
All’infinito, mentre le foglie vi cadono
Tranquille, o risalgono, senza più alto o basso,
Né fruscio, salvo il leggero
Bisbiglio dei fiocchi che subito
Si moltiplicano, si avvicinano, si annodano
– E rivedo allora tutto l’altro cielo,
Entro per un istante nella grande neve.
(ivi, 207).

L’altra neve

Per l’ “altra neve” «la gioia sopravvive al sogno». La fine si avvicina alla sua origine, l’inizio intravede il suo compimento e «quel che fu senza luce», il tutto e il nulla, viene illuminato: «Sia per te la grande neve il tutto, il nulla,/ Bambino dai primi passi incerti nell’erba,/ Gli occhi ancora pieni dell’origine,/ mani aggrappate solo alla luce… E che l’acqua che scorre nel prato/Ti mostri che la gioia può sopravvivere al sogno/Quando la brezza venuta non si sa da dove già sperde/ I fiori del mandorlo, tuttavia l’altra neve» (ivi, 215).

Attraverso di lei, nei tuoi occhi «vedo che la gioia ha la meglio sulla paura». Intravedo pure la prossimità degli opposti come incontro possibile. Vicini ugualmente l’adulto e il bambino dischiusi dalla stessa sorpresa che esce dal loro sguardo, di chi è preso per mano e sollevato nella luce del mattino, e anche il più piccolo solleva colui che lo ha innalzato.

L’altra neve – la grande neve – segno dell’Alterità senza fine, di un Mare senza sponde, dell’Assoluto trascendente che si fa accondiscendente, e che abbassandosi dentro ogni oscura bassezza si lascia intuire, balbettare, circoscrivere, toccare nella concretezza di una incarnazione, di un incontro. Passando dal primo all’ultimo posto si fa presente in ogni cosa, in ogni frammento minimo del mondo.

La grande neve è segno per me della Pasqua, quel passante di valico sempre aperto nella morte dal Risorto. Così l’ “ultima neve” della Pasqua si scioglie dal gelo mutandosi in acqua sorgiva, vita risorta nella grande Pasqua. Nel suo abbassamento ultimo fin dentro le viscere della terra viene poi innalzata verso la luce risorgendo in essa; non senza aver prima irrigato e fecondato la terra e fatto germogliare le sue sementi: «Hanno posto/ Lo specchio nella terra, sotto la neve,/ Come fosse un seme; come la spiga del cielo/ Che deve marcire a lungo nel fango del mondo» (ivi, 123).

Poesia: prima neve

La parola poetica è come la prima neve, a chiazze, che non riesce a ricoprire i colori della terra, né ha pretesa di definire con le parole l’indicibile: è una follia tra i concetti. Essa scrive in punta di piedi una parola che è fuori dal mondo. E tuttavia per quella fragile e resistente parola, l’indicibile è tradotto dentro il linguaggio del mondo.

Jean-Pierre Jossua, sottolinea che «Yves Bonnefoy opponeva la parola-concetto, lontana dalla cosa e costitutiva della ‘lingua’, alla poesia, “follia nella lingua” per il suo modo di intendere e di cogliere le parole. Invero dice Bonnefoy “le parole essenziali, una volta unite in un ordine interiore dai legami che uniscono in me le cose”, possono cercare l’assoluto: “ed ecco che l’unità del divino vi brilla, è la presenza reale… la presenza dell’Uno del mondo vi traspare, come un bene; è quello che chiamo poesia” (colloquio con Patrick Kéchichian, 1994).

In una simile prospettiva, il termine “trascendenza” designa insieme l’oggetto non formulabile tramite il discorso – il frammento minimo del mondo sensibile – e l’assoluto: “Il cielo/ Infinito/ Ma tutto intero nella pozzanghera breve”» (J. P. Jossua, La letteratura e l’inquietudine dell’assoluto, Diabasis, Reggio Emilia 2005, 71).

Prima neve, stamattina presto. L’ocra, il verde
Si rifugiano sotto gli alberi.
La seconda, verso mezzogiorno. Non resta
Del colore
Che gli aghi dei pini
Che cadono anch’essi a volte più fitti della neve.
Poi, verso sera,
Il flagello della luce s’immobilizza.
Ombre e sogni hanno uno stesso peso.
Un po’ di vento
Scrive in punta di piedi una parola fuori del mondo
(ivi, 167).

Il cuore innamorato a Pasqua

Va’ Maria di Magdala, il cuore trepidante, nella grande neve a cercare l’abito suo di festa, donna vestita di neve, Maria Maddalena, l’ultimo fiocco esitante, l’ultima dei discepoli, e tuttavia, a Pasqua, apostola degli apostoli, colei che annuncia loro il risorto dai morti, colui il cui volto brilla come il sole e le sue vesti sono candide come neve. L’annuncio del vangelo si compie per tutti con il cuore trepidante nella grande neve.

Nevica. Che volevi tu, anima,
Di nascita eterna, che non abbia avuto
Guarda, tu hai qui
Una veste di festa anche per la morte.
Un abito come nell’adolescenza,
Di quelli che uno prende con cura in mano
Poiché la stoffa è trasparente e resta
Tra le dita che la svelano alla luce.
Si sa che è fragile come l’amore.
Ma corolle e foglie vi sono ricamate
E già la musica si sente
Nella stanza vicina, illuminata.
Un misterioso ardore ti prende la mano.
E vai, il cuore trepidante, nella grande neve
(L’abito, ivi, 191)

Noli me tangere

Il “No, non toccarmi” pronunciato dal Risorto non è detto per mantenere la distanza, quasi fosse un nuovo insuperabile limite all’amore, invalicabile confine tra il cielo e la pozzanghera, tra noi e Lui risorto. Si può forse trattenere la luce al sorgere dell’alba?

Ma neppure è possibile afferrala e trattenerla con le mani, coi piedi, nemmeno con gli occhi; ed è così pure con la neve: vi ci cammini dentro, ti viene incontro, ti sfugge tra le dita se l’afferri, e tuttavia puoi danzare in essa silenziosamente rapito, in essa annunciare lungo la notte la sua fedeltà: ritorna sempre la luce e al mattino cantare il suo amore che ti abita, ti circonda ti abbraccia.

Nonostante tutto andiamo a tentoni e la cerchiamo nelle nostre oscurità e disperazioni; non è lontana da noi, nella luce viviamo, ci muoviamo e siamo: ecco allora «che anche il dire no sarebbe luce».

Esita il fiocco per il cielo azzurro
Ancora, l’ultimo fiocco della grande neve.
E così entrerebbe nel giardino colei che
Aveva ben dovuto sognare ciò che potrebbe essere,
Quello sguardo, quel dio semplice, senza ricordo
Del sepolcro, senz’altro pensiero che la gioia,
Senza futuro
Se non il suo vanificarsi nell’azzurro del mondo.
«No, non toccarmi», le direbbe,
Ma anche il dire no sarebbe luce.
(Noli me tangere, ivi, 193)

Una nevicata di bende

La Risurrezione, una nevicata di bende, le fasce e i legami della morte, che il risorto, innalzandosi abbandona lievemente sul sepolcro vuoto imbiancandolo tutto con la leggerezza e il candore della neve.

È così mi ritorna questo pensiero ogni volta che guardo la tela del Risorto nell’aula battesimale della chiesa di santa Francesca Romana, opera pittorica del maestro Paolo Baratella.

Risorto Paolo BaratellaEra il 2013 e al maestro Baratella avevo chiesto di esprimere con una sua opera il movimento battesimale di discesa ed ascesa nel e dal fonte battesimale, lo stesso movimento di Cristo nella morte e nella risurrezione.

Nella grande tela di Ludovico Carracci in Santa Francesca, nella prima cappella entrando a destra, è infatti raffigurata la crocifissione, la cui irresistibile luce già scende sui Patriarchi Adamo, Abramo, Isacco, su Mosè fino a Davide e ai profeti che attendono nello Sheol la discesa del Cristo che verrà a liberarli.

La discesa di Gesù nella morte, agli inferi, preconizza così il primo movimento del battesimo: “sepolti con Cristo nella sua morte”.

Si desiderava poi che nell’aula battesimale, a cui si accede proprio dalla cappella laterale del Carracci, scendendo un gradino, figurasse il secondo movimento battesimale, quello dell’ascesa, liberazione dalla morte e risalita per “camminare in una vita nuova” (Rm 6,4).

La tela di Baratella doveva esprimere la presenza del risorto, il suo volto radioso, le sue vesti candide come la neve e il suo corpo trasfigurato, proprio lui, il Cristo e “la potenza della sua risurrezione” (Fil 3,10). In questo il maestro Baratella si ispirò all’affresco di scuola giottesca del monastero delle Benedettine di S. Antonio in Polesine e avendo presente le icone bizantine della risurrezione e della discesa agli inferi.

Ma proprio in quella Pasqua, nella cui veglia inaugurammo il dipinto, mi scrisse una nostra anziana parrocchiana, Maria Letizia Meccia, una poesia. Lo fece da una di quelle periferie doloranti delle nostre case di riposo, ispirandosi proprio alla risurrezione:

Allungavi le ossute braccia
verso un sì tardo venire
gocce di sangue,
gocce di sudore lungo le strade di nostro Signore
Aprirò la finestra a una nevicata di bende,
mio Signore, mio Gesù.
Non sarà mai tolta la bellezza
divina dal tuo volto.

Nella tela del Risorto di Baratella si vede proprio la candida e svolazzante neve della veste del Cristo, si vedono pure le nostre mani nelle mani protese dei patriarchi e quelle del Cristo che le afferrano: mani che si distendono e si protendono invocanti intimità di vita, perché la fede è intimità, abissale “affectus” di vita; così l’affetto che passa dalle sue mani alle nostre, “admirabile commercium”, generativo di comunione degli affetti:

come fiocchi che subito
Si moltiplicano, si avvicinano, si annodano
– E rivedo allora tutto l’altro cielo,
Entro per un istante nella grande neve.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Per certi versi /
Le tre promesse

Le tre promesse

Cresta di onde
Spugne
Di bianche
Divise
Il pero
Il melo
Il ciliegio
Marinai
Con vere
Promesse
Tinteggiano
Il cielomare
Rami d’onde
Mossi
Dal celebre
Vento
Che scatena
Il nitido
Contrasto
D’azzurro
E pernaud
Del pero
L’acceso melo
Col rossetto
Incarna
Quel divino
Femminile
Che cuce
E racconta
Sotto
Il paradigma
Del ciliegio
cappello
Di nuvola
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Pasqua contro la guerra: Papa Francesco e Tiziano Terzani

Sognare, volere, impegnarsi per la Pace e contro la guerra. Due pensieri di Papa Francesco e Tiziano Terzani.

La pace è molto più della semplice assenza di guerra. La parola biblica shalom indica una condizione di pienezza di vita che la violenza distrugge e annienta alla radice. Occorre una riflessione radicale sulla necessità della fraternità e l’assurdità della guerra. Papa Francesco non fa sconti a nessuno e individua nella bramosia del potere, nelle relazioni internazionali dominate dalla forza militare, nell’ostentazione degli arsenali bellici le motivazioni profonde che stanno dietro alle guerre che ancora oggi insanguinano il pianeta. Scontri che seminano morte, distruzione e rancori e che porteranno nuova morte e nuova distruzione, in una spirale cui solo la conversione dei cuori può porre fine. Il dialogo come arte politica, la costruzione artigianale della pace, che parte dal cuore e si estende al mondo, il bando delle armi atomiche, il disarmo come scelta strategica sono le indicazioni concrete che ci vengono affidate affinché la pacificazione diventi realmente l’orizzonte condiviso su cui costruire il nostro futuro.
Perché dalla guerra non può nascere nulla di veramente umano.

Papa Francesco, Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace

 

Opporsi alla guerra come tale, come ricorso collettivo alla violenza, come distruzione della bellezza e dell’armonia del mondo, come inarrestabile sequenza di odio, di dolore e di morte. Nelle Lettere contro la guerra, con le quali accompagna il suo pellegrinaggio, Terzani dichiara: ho capito che è giunto il momento di reagire, di dire no alla barbarie, all’intolleranza, all’ipocrisia, al conformismo, all’indifferenza. ….. E dunque – ecco l’impellente raccomandazione morale che ne deriva, dobbiamo cambiare anche noi: fermarci, riflettere, prendere coscienza, provare vergogna per le nostre “vite normali”, divenire operatori di pace.

Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra

In copertina: Giotto, Assisi, Basilica Inferiore, Cappella della Maddalena, Noli me tangere

I “Volti della regia” di Marco Caselli Nirmal

Abbiamo una Stella in quel di Ferrara, che brilla di luce propria, e che non tutti conoscono. Fortunatamente, per una volta, non vale però il nemo propheta in patria.

Perché la sua città ne ha scoperto, riconosciuto, compreso e valorizzato il talento.

Questa Stella oggi illumina, con le sue immagini, una rotonda, uno spazio che fende il cielo, da cui si vede il cielo blu. Una cornice per gli astri più luminosi, dalla quale passano timidamente i raggi della luna, la nostra Rotonda Foschini che sa di magia. Un luogo pieno di fascino e quasi nascosto, un piccolo cortile nicchia dalla forma ovale, dedicato all’architetto, accademico e scrittore Antonio Foschini, uno dei due progettisti del Teatro Comunale. Una piccola porta per l’infinito. Polvere di stelle.

Antico passaggio di carrozze da Corso Martiri della Libertà a Corso Giovecca, oggi questo luogo ci fa transitare verso le nuvole e i sogni. E allora, pufff …abracadabra …

La bacchetta di Mago Merlino potrebbe avere fatto comparire, come d’incanto, dodici grandi fotografie che ci portano nella storia del teatro. Quella vera.

Scatti del nostro Marco Caselli Nirmal, che, come il Signore di Firenze, oserei definire il Magnifico, lasciatemene la licenza (pensando, ovviamente, non al senso originario dell’appellativo di Lorenzo legato alla sua massima carica di Gonfaloniere di Giustizia ma al suo raffinato gusto per le arti e la bellezza).

Questi volti, che non necessitano di parole, arrivano dritto al cuore su un’elegante carrozza trainata da cavalli bianchi direttamente dall’archivio fotografico della Fondazione del Teatro Comunale ”Claudio Abbado”, dodici ritratti fotografici opera di Caselli Nirmal. Per la precisione, dodici trovano posto alla Rotonda, altri sei si affacciano sospesi e mobili sotto le arcate del portico, ad accogliere gli spettatori all’entrata del Teatro. Re e Imperatori. Gigantografie, di nome e di fatto. Grandi i volti, grandi i nomi: protagonisti della regia teatrale del Novecento e dei primi decenni di questo secolo. L’avanguardia, la tempesta e l’impeto. Il Genio e la sregolatezza.

Le rughe di quei visi parlano, sono esperienza, sapienza, conoscenza, espressioni di tempi che furono. Sono Arte.

Tadeusz Kantor, Eugenio Barba, Carmelo Bene, Peter Stein, Robert Wilson, Peter Brook, Lindsay Kemp, Luca Ronconi, Egisto Marcucci, Marco Martinelli, Leo De Berardinis, Giorgio Barberio Corsetti, Dario Fo, Carlo Cecchi, Mario Martone, Toni Servillo, Daniele Abbado e Moni Ovadia.

Testa all’insù, sguardi che si perdono, ammiriamo en plein-air autentici giganti del rinnovamento teatrale, personalità straordinarie ed eclettiche, diverse l’una dall’altra, accomunate dall’autore e dall’occasione della ripresa: la presenza a Ferrara per spettacoli memorabili o incontri con il pubblico. Quelli che si ricordano.

Una galleria all’aperto nel cuore del teatro, ideata da Giuseppina Benassati, per rendere visibile su scala urbana una piccola, importante, porzione del patrimonio fotografico che, conservato dall’istituzione all’interno dei propri spazi (non a caso, la mostra era stata inaugurata, il 26 novembre scorso, al termine del convegno internazionale La fotografia di teatro: attualità e potenzialità degli archivi fotografici), riconquista un rapporto diretto con la città attraverso i sembianti di uomini illustri.

Non un pantheon allestito con immagini stereotipate, ma un vivido susseguirsi di volti ognuno dei quali si dà, grazie alla capacità interpretativa del fotografo, come vera e propria entelechia, una sorta di essenza intesa come assoluta singolarità, per usare la felice definizione del ritratto fotografico proposta da Leonardo Sciascia.

Marco Caselli Nirmal

E Caselli Nirmal, ferrarese classe 1957, architetto che ha collaborato con la designer Nanda Vigo e poi fotografo dal 1977, è ormai divenuto massima espressione del rapporto fotografia-teatro, nelle sue caratteristiche di evento e di spazio scenico. Un talento che ci affascina. Testimone di quell’essere in atto che è la fotografia.

Le sue immagini accompagnano gli spettacoli teatrali da lungo tempo.

Ci sono i colori, i volti, i salti, i movimenti, i piccoli gesti, le luci e le ombre, abilmente colti e fermati nei loro attimi più significativi e intensi a farci ritrovare nelle dimensioni del sogno e della fantasia. Con la libertà di sentire ciò che si vuole.

Nella Rotonda, pertanto, ci si muove godendo la vista di una sorta di ”galleria di uomini illustri”, molti dei quali scomparsi, che della tradizionale iconografia mantiene, e solo parzialmente, la sequenza dell’allestimento: ritratti verticali giustapposti entro nicchie, delimitazioni spaziali volutamente adottate in antitesi a personalità che del teatro hanno sovvertito, dilatato, rifondato spazi e rapporti.

Spesso si tratta di volti con lo sguardo rivolto verso il basso, a rammentarci quanto il teatro ci guardi e ci ri-guardi e la visione attenta ne sia una delle componenti essenziali. ”E quando gli uomini scelgono di vedere, quell’attimo è grandioso, luminoso nella tenebra del conformismo, dell’indifferenza, dei ruoli, delle funzioni. Quell’attimo c’è e si sente. Le immagini che continuano a vivere nel tempo sono costruite intorno a quell’attimo e la loro vita continuerà fino a quando ci saranno occhi a guardarle” (Leonardo Sciascia, Sulla fotografia). “Entelechia”, dunque, scriveva Sciascia: il ritratto fotografico è “come un consegnarsi a mano altrui: al destino, alla morte, a Dio. E all’ignoto sé stesso”. I piani di pensiero si incastrano, si sovrappongono, diventano una superficie unica.  Partendo dall’aneddoto riportato da Roland Barthes che aveva ritrovato l’intero di quello che sua madre morta era stata, in una foto che la ritraeva bambina, Sciascia osservava: c’erano in quell’immagine “il presente di quando la fotografia è stata fatta, il futuro che è diventato passato, il tutto che la morte ha concluso”. Su un cartoncino sbiadito, un “sortilegio di contrazione del tempo, sul punto della dissolvenza e dell’oblio: e appunto perciò investito da un estremo fulgore. Qui giunti, niente è precluso. Nulla è più vicino all’abolizione del tempo, tra le rappresentazioni che l’uomo sa dare della propria vita, della fotografia; ma al tempo stesso nulla ne è più lontano”. Lo scatto che imprigiona un istante si traduce in “una guerra contro il tempo: non illustre, umile e quotidiana piuttosto”.

E quelle vite che ci osservano sono lì, quasi a tenersi per mano in un amorevole girotondo che la passione per l’arte tiene unite saldamente, ci saranno sempre.

Con una piccola provocazione che vuole essere un gentile invito: attendiamo i volti di altrettanto illustri artiste donne.

 

LE FOTO ESPOSTE ALLA ROTONDA FOSCHINI

LUCA RONCONI

 Nato l’8 marzo 1933 a Susa, in Tunisia, si diploma all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma nel 1953 ed esordisce come attore in Tre quarti di luna con la regia di Luigi Squarzina. Attore in spettacoli di Orazio Costa, Giorgio De Lullo e Michelangelo Antonioni, inizia nel 1963 a lavorare come regista con la compagnia di Corrado Pani e Gianmaria Volontè. Ma è la straordinaria messa in scena nel 1969 dell’Orlando Furioso di Ariosto, nella riduzione di Edoardo Sanguineti, a portarlo al successo internazionale.

Nel corso degli anni collabora con diverse istituzioni teatrali: dal 1975 al 1977 è Direttore della Sezione Teatro alla Biennale di Venezia e tra il 1977 e il 1979 fonda e dirige il Laboratorio di progettazione teatrale di Prato.

Dal 1989 al 1994 è direttore del Teatro Stabile di Torino, nel 1994 è nominato direttore del Teatro di Roma, e, dal 1999 al 2010, è direttore artistico del Piccolo Teatro di Milano.

Ha diretto anche le versioni televisive di alcuni dei suoi spettacoli più importanti ed è stato curatore e allestitore di mostre.

Ha ottenuto prestigiosi premi e riconoscimenti, fra i quali il Premio Antonio Feltrinelli per la Regia teatrale, dall’Accademia Nazionale dei Lincei (2008), e ha ricevuto lauree honoris causa dalle Università di Bologna (1999), Perugia (2003), Urbino (2006) e Venezia (2012). Nell’ambito della Biennale Teatro di Venezia, nel 2012 ha ritirato il Leone d’Oro alla Carriera, mentre nel 2013, in occasione dei suoi ottant’anni, il Sindaco di Milano gli ha consegnato il Sigillo della Città.

Muore il 21 febbraio 2015 a Milano.

ROBERT WILSON

Regista, scenografo e attore, nasce a Waco, in Texas, il 4 ottobre 1941. Studia economia aziendale ad Austin, ma abbandona i corsi nel 1962, per trasferirsi a New York dove si iscrive ad architettura e progettazione di interni al Pratt Institute di Brooklyn: qui consegue il Bachelor of Fine Arts. In quegli anni vede gli spettacoli di Martha Graham, Merce Cunnigham e Alwin Nikolais: è con quest’ultimo e il suo gruppo che nasce una collaborazione e Wilson disegna le scene per Junk Dances e Landscape (1964). Mentre studia, lavora con i bambini handicappati e mette a punto le sue prime opere, tra cui un cortometraggio cinematografico astratto, Slant (1963).

La svolta arriva nel 1966, con The King of Spain che l’artista considera come il suo primo vero spettacolo da cui inizia a elaborare quella suggestiva visione dello spazio e del tempo teatrale che diventerà la sua inconfondibile cifra stilistica. Quello stesso anno la Brooklyn Academy of Music gli commissiona un’opera, The Life and Times of Sigmund Freud, mentre del 1970 è Deafman Glance, “opera del silenzio” costruita davanti agli occhi di un sordomuto: questo spettacolo rende il regista texano noto in tutto il mondo e il clamore si rinnova due anni più tardi con un’altra rappresentazione-evento, Ka Mountain and Guardenia Terrace, che si svolge per 7 giorni e 7 notti sulle 7 montagne attorno a Shiraz-Persepoli. Nel 1973 produce The Life and Times of Joseph Stalin, nuova opera del silenzio di dodici ore, rappresentata in diverse parti del mondo, mentre nel 1976 collabora con il compositore Philip Glass alla scrittura di Einstein on the Beach, una delle opere più influenti del secondo dopoguerra.

In seguito, lavora nei teatri europei di prosa e lirici e all’inizio degli anni Ottanta risale d’altra parte uno dei suoi progetti più ambiziosi the CIVIL warS: a tree is best measured when it is down, affresco epico creato con un gruppo di artisti internazionali e concepito come opera centrale delle Olympic Arts Festival del 1984. Negli ultimi anni, si sta dedicando sempre più al Watermill Center, laboratorio da lui fondato nel 1992 che svolge attività didattica, produttiva e archivistica.

È un autore a tutto campo la cui opera ha percorso e a tratti guidato l’avanguardia teatrale. Wilson non affronta le contraddizioni del nostro tempo in modo diretto, attraverso una narrazione convenzionale, ma costruisce una struttura di rimandi visivi e uditivi che agiscono sull’interiorità dello spettatore.

TADEUSZ KANTOR

Pittore e regista teatrale polacco, nasce a Wielopole (Cracovia) il 6 aprile 1915. Iscrittosi nel 1939 all’Accademia di Belle Arti di Cracovia (dove insegnerà trent’anni dopo) per studiare pittura e scenografia, frequenta i laboratori sperimentali di Jerzy Grotowski, ma lo affascina soprattutto l’incontro con Konstantin Sergeevič Stanislavskij.

Iniziata la carriera come scenografo, nel 1945 lavora al Teatro Stary di Cracovia, dove porta avanti l’attività di regista e di pittore.

Nel 1955 presenta il gruppo Cricot 2, da lui fondato e diretto per interpretare la propria denuncia, espressa nei numerosi manifesti pubblicati in un ventennio e dedicati, tra gli altri, all’Arte informale (1960), agli Imballaggi (1962), al Teatro zero (1963), al Teatro degli avvenimenti (1968), al Teatro della morte (1975), all’Antiesposizione popolare (1979).

Ha ricevuto premi e riconoscimenti sia come pittore che come regista: il premio di pittura alla Biennale di San Paolo (1967), il premio Marzotto per la pittura (1968), il Gran premio Teatro delle nazioni di Caracas (1978), la croce dell’Ordine Polonia Restituta (1982) e la Legion d’Onore francese (1986).

La sua arte è stata definita informale, la sua pittura metaforica in quanto caratterizzata da un’attenzione particolare al movimento, al cromatismo, alle forme che aiutano la definizione dei caratteri. Le sue scene cinetiche, in continua trasformazione in quanto partecipi dell’azione, sono il risultato di un tipo di ricerca tecnica sull’organizzazione dello spazio per combattere ogni forma di routine teatrale, ogni cliché di recitazione; sono realizzate di preferenza in stazioni, ospizi, scuole, caffè, e hanno per protagonisti gli oggetti quotidiani, la cui simbologia intende significare lo stato transitorio ed effimero della vita. Per questo predilige l’uso della materia bruta (argilla, fango) e dell’oggetto povero che, semplicemente, ”è”, senza che l’artista intervenga a imporgli la sua volontà di espressione e interpretazione.

Muore a Cracovia il 6 dicembre 1990.

CARMELO BENE

Nasce il 1° settembre 1937 a Campi Salentina (Lecce), dove i genitori hanno in gestione un tabacchificio di proprietà della famiglia Reale.

Trascorre infanzia e adolescenza fra Campi e Lecce, compiendo gli studi classici presso la scuola degli scolopi e poi dei gesuiti, prima di partire ventenne per Roma dove, per la famiglia, avrebbe dovuto laurearsi in giurisprudenza; invece, contemporaneamente, si iscrive alla scuola di recitazione Pietro Scharoff e ai corsi per attore dell’Accademia d’arte drammatica, che, insofferente, abbandona prima del diploma, per iniziare in autonomia la sua originale e fortunata carriera artistica.

Dal 1959 porta avanti per oltre quarant’anni un’intensa attività. Lungo è elenco delle sue opere: più di 60 spettacoli teatrali, 9 fra corti e lungometraggi cinematografici, 25 edizioni televisive e una ventina di registrazioni radiofoniche.

Rifiutando i riconoscimenti al suo talento, si è sempre definito un genio (“Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento”: Opere con l’Autografia di un ritratto) per dichiarare la necessità e la libertà del suo agire artistico: un’azione e una riflessione che intendeva liberare l’attore dalla sua stessa scena e il teatro dai suoi limiti e dai suoi stessi modi.

Tra avversari e detrattori, il successo lo porta nei maggiori teatri italiani, fino alle vette del teatro alla Scala di Milano. Fra i suoi ammiratori e interlocutori, oltre ai migliori critici teatrali italiani (Ennio Flaiano, Alberto Arbasino, Giuseppe Bertolucci, Franco Quadri, Goffredo Fofi…), vanno citati personaggi come Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Eugenio Montale, nonché in Francia Jacques Lacan, Michel Foucault e gli amici Jean-Paul Manganaro (suo traduttore) e Gilles Deleuze.

Le due autobiografie sono le fonti più autorevoli: Sono apparso alla Madonna. Vie d’(h)eros(es) e Vita di Carmelo Bene. Da esse si evince che l’artista abbia sempre consciamente perseguito e inconsapevolmente realizzato un’assoluta fusione fra arte e vita: l’’arte grande’ e la ‘vita breve’ di un attore, tanto discusso quanto importante e forse il più imponente del teatro italiano del Novecento.

“Contro la Rappresentazione” è stato il suo slogan costante: la chiave del suo manifesto culturale e il senso del suo progetto artistico. E l’Attore fuori dalla Rappresentazione è stato il suo obiettivo e infine, il suo capolavoro: “E non si dà capolavoro d’arte. Fuor dell’opera si è capolavoro”.

Lo spettacolo che segna il debutto d’attore è una rappresentazione del Caligola di Albert Camus, in scena a Genova nel 1959; il primo spettacolo in cui appare come attore e regista è un Concerto Majakovskij tenuto a Bologna nel 1960. Da subito la sua proposta spettacolare è duplice: alle messe in scena di testi drammatici o letterari – rielaborati o ideati e comunque sempre ‘riscritti’ – si alternano ‘concerti d’attore’, basati sui testi lirici o epici dei più grandi poeti.

Fra la fine degli anni Cinquanta e il 1967 partecipa al movimento delle cosiddette ‘cantine romane’. Fonda e dirige un primo teatro laboratorio situato a Roma, in Trastevere, a piazza S. Cosimato, per allestire più tardi un teatro intitolato al suo nome in un fondo di via del Divino Amore. In quelle sedi, prova e replica i suoi primi spettacoli, alcuni dei quali vedranno riedizioni più complesse e riallestimenti meno precari su palcoscenici sempre più importanti. Ma per la sua prima vera tournée in Italia organizzata dall’Ente teatrale italiano (ETI), deve attendere il successo della sua seconda edizione di Pinocchio del 1966.

Cristo 63 è lo spettacolo di un primo ‘scandalo’ che dà origine alla sua fama di imprevedibile e irriducibile provocatore, in particolare, legata alla leggenda dell’attore che avrebbe orinato in faccia a un critico e poi replicato il gesto in altre occasioni. Come provocatore, celebre rimarrà il suo intervento al Maurizio Costanzo Show del 27 giugno 1994, intitolato Uno contro tutti.

Inaugurato dall’attività cinematografica, il secondo periodo artistico (1967-1980) è caratterizzato dall’esplorazione e dallo sfruttamento di altri mezzi e linguaggi come, in particolare, la radiofonia ma anche la televisione e le prime edizioni discografiche. In questo periodo infatti produce tutti i suoi film, cinque edizioni televisive dei suoi spettacoli e 13 interventi e opere radiofoniche.

Il ritorno in teatro è segnato dal nuovo allestimento di Nostra Signora dei Turchi (1973), per proseguire con stagioni dominate da riscritture del repertorio shakespeariano: una serie di “Shakespeare secondo Bene”.

Arriva la Francia, Parigi. La cultura e la letteratura francese erano sempre stati riferimenti privilegiati; e però il cinema che crea  i presupposti di una ammirazione da parte del pubblico e della critica transalpina, poi cresciuta con il teatro e tramutata in relazione stabile. Nel 1977 porta a Parigi il suo Romeo e Giulietta, nonché il S.A.D.E., ed è un trionfo. Vi torna nel 1999 con il suo Macbeth Horror Suite e in quell’occasione, con una Lectura Dantis all’Odéon, ringrazia per la nomina a chevalier de l’art et de la culture, un riconoscimento della sua arte ma anche un certificato di adozione.

L’ultima fase del lavoro di Bene (1980-2002) inizia con le due più grandi manifestazioni spettacolari della sua carriera: il Manfred, opera di Byron e Schumann che, con il debutto alla Scala di Milano il 1° ottobre 1981, sancisce il suo ingresso nel mondo della musica; quindi, la Lectura Dantis, eseguita a Bologna il 31 luglio 1981 che decreta la definitiva confusione tra teatro e poesia, attore e poeta.

Da qui l’elenco delle sue opere è infinito. L’ultimo appuntamento con il pubblico avviene con una Lectura Dantis al Castello di Otranto, il 5 settembre 2001.

Muore il 16 marzo 2002 nella sua casa di Roma.

PETER STEIN

Nato a Berlino il 1º ottobre 1937, è un regista teatrale tedesco, oltre che attore teatrale e regista d’opera lirica.

Vive l’infanzia in piena epoca nazista. Suo padre Herbert è direttore della fabbrica di Alfred Teves, una industria di motocicli che è stata adibita dal regime alla costruzione di componenti automobilistiche. Herbert comanda 250.000 lavoratori forzati. Ma, nonostante ciò, aderisce clandestinamente alla Bekennende Kirche (Chiesa confessante), un gruppo di resistenza. Questi eventi hanno un profondo effetto sulla formazione e sulla vita di Stein. Comincia a lavorare a Monaco dietro le quinte come tecnico, guadagnando a ruoli sempre più importanti. A trent’anni, nel 1967, debutta come regista. Impegnato politicamente, continua a dirigere pièce “anarchiche” e liriche come Discorso sul Vietnam di Peter Weiss (1968), Nella giungla delle città di Bertolt Brecht, e Torquato Tasso di Goethe.

Nel 1970 fonda il collettivo teatrale della Schaubühne am Halleschen di Berlino Ovest, che guida fino al 1985. Il gruppo realizza messinscene trasgressive che stravolgono la struttura dello spazio teatrale e scenico. Oltre a “riscrivere” testi classici antichi e moderni, allestisce nuovi spettacoli che esplorano linguaggi e temi imbarazzanti per il senso comune dell’epoca.

Tra le opere più significative di quel periodo Peer Gynt di Henrik Ibsen (1971), Il principe di Homburg di Heinrich von Kleist (1972), I villeggianti di Maksim Gor’kij (1974), Orestea di Eschilo (1980), riallestita in lingua russa a Mosca nel 1994 con la Compagnia dell’Armata Rossa. Quest’ultimo è il capolavoro in cui il regista abolisce la scena, sostituita dal muro del Palazzo, collocando il coro in mezzo agli spettatori seduti su gradini.

Nel suo incontro con Anton Čechov, del quale propone Tre sorelle (1984), Il giardino dei ciliegi (1989 e 1996) e Zio Vania (nel 1996 al Teatro Argentina di Roma), rivela una inesplorata comicità nella tragedia dell’autore russo.

Dal 1992 al 1997 dirige la sezione prosa del Festival di Salisburgo.

Vive ormai da anni in Italia (ha sposato l’attrice Maddalena Crippa) ed è stato insignito di numerosi riconoscimenti internazionali, tra i quali l’onorificenza francese di Commandeur de l’Ordre des Arts et Lettres et Chevalier de la Légion D’Honneur. Nel 2011 riceve il Premio Europa per il teatro, a San Pietroburgo.

È considerato tra i più importanti artefici del teatro tedesco ed europeo della seconda metà del Novecento.

EGISTO MARCUCCI

Attore e regista italiano, è nato a Firenze, 25 dicembre 1932.

Diplomatosi nel 1961 alla Civica scuola del Piccolo Teatro di Milano, svolge qui le prime esperienze come attore. Dal 1963 al 1967 è scritturato a Trieste dal locale Teatro Stabile. Tra le sue prime interpretazioni l’Egmont di Goethe con la regia di Luchino Visconti per il Maggio Musicale Fiorentino del 1967.

Nel 1969, fonda il Gruppo della Rocca, con il quale nel 1972 passa alla regia con Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare. Dal 1978 al 1981 insegna alla scuola di recitazione del Teatro Stabile di Genova. Nel periodo 1983-1985 è direttore artistico dell’Ater-Ert (Associazione dei teatri dell’Emilia-Romagna).

Fra le sue regie più significative si ricordano: Il mandato (1976) e Il suicida (1978) di Nikolaj Ėrdman; La donna serpente di Carlo Gozzi (1979 e 1995); Il vampiro di San Pietroburgo di Suchovo-Kobylin (1984); La lezione di Ionesco (1986 e 1996); La coscienza di Zeno di Tullio Kezich da Italo Svevo; Il silenzio delle sirene di Giorgio Albertazzi; La marchesa di O… dalla novella di Heinrich von Kleist (1990); La famiglia Mastinu di Alberto Savinio (1990); Stadelmann di Claudio Magris e Il suo nome di Alberto Savinio (1991); Dyskolos di Menandro (1995); Le sedie (1997) di Ionesco; Una burla riuscita da Italo Svevo (1998).

Ha curato la regia di opere liriche, tra cui L’italiana in Algeri (1981) e Il turco in Italia (1982) di Gioacchino Rossini.

Muore a Milano, il 18 gennaio 2016.

EUGENIO BARBA

Regista e teorico teatrale italiano, nasce a Brindisi il 29 ottobre 1936. Emigrato in Norvegia, si trasferisce a Varsavia dove nel 1962 diventa assistente di Jerzy Grotowski. L’influsso dell’esperienza polacca lo porta a fondare al suo ritorno a Oslo nel 1964 l’Odin Teatret. Trasferisce poi il suo teatro-laboratorio a Holstebro in Danimarca. Gli spettacoli dell’Odin Teatret non sono basati sulla messa in scena di un’opera ma sul confronto con un testo o una problematica e sul montaggio del materiale elaborato dall’attore in vista di una ricerca introspettiva ed espressiva collettiva.

Fra il 1974 e il 1975 l’Odin Teatret realizza, in Italia, esperienze antropologiche di scambi con le culture locali del Salento e della Barbagia.

Tra i suoi spettacoli si ricordano: Talabot, 1988; Itsi Bitsi, 1991; Kaosmos, 1993; Mythos, 1998; Andersen’s Dream, 2005. Tra gli scritti teorici: Alla ricerca del teatro perduto, 1965; Théâtre et Révolution, 1970; Il libro dell’Odin, 1975; Il corpo dilatato, 1985; Teatro: solitudine, mestiere, rivolta, 1996; L’arte segreta dell’attore. Un dizionario di antropologia teatrale, 1996.

GIORGIO BARBERIO CORSETTI

Nato a Roma l’11 gennaio 1951, è uno dei rappresentanti più significativi del teatro in Italia, nelle vesti di regista, autore e attore.

La sua avventura professionale inizia nel 1976 con la fondazione, insieme ad Alessandra Vanzi e Marco Solari, della compagnia “La Gaia Scienza”, che prende il nome dal saggio di regia con cui egli, appena l’anno precedente, si era diplomato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”.

Successo e attenzione della critica lo portano sciogliere il gruppo nel 1984, dopo l’esperienza solista di Animali sorpresi distratti, e a fondarne uno con il suo nome.

Inizia la strada della sperimentazione del video in collaborazione con Studio Azzurro, realizzando tra gli altri Prologo a Diario segreto contraffatto (1985), Correva come un lungo segno bianco (1986) e La camera astratta (1987), cui va un premio Ubu per il video-teatro.

Dal 1988, inizia una riflessione sull’opera di Kafka che lo conduce alla messinscena di una trilogia di racconti brevi: Descrizione di una battaglia (1988), Di notte (1988), Durante la costruzione della muraglia cinese (1989), lo confermano uno dei maggiori talenti della scena italiana e l’interesse della critica gli procura un premio Idi per la regia del successivo Il legno dei violini, di cui è anche autore.

Nel 1993 inizia un ampio lavoro di rilettura del Faust goethiano, il cui primo risultato è Mefistofele, studi, schizzi e disegni per un Faust privato (1995), ma che soprattutto si conclude con un Faust (1995) che segna la maturità del regista nell’utilizzo sperimentale del video: anche interprete, monta i monitor su alcuni carrelli che percorrono lo spazio scenico, rimandando l’immagine degli stessi protagonisti e chiamandoli a dialogare con essa.

Nella continua ricerca attraverso le diverse manifestazioni artistiche, inoltre sperimenta l’incontro con l’opera lirica che, avvenuto nel 1999 (Maria di Rohan di Gaetano Donizzetti) continua a al più recente allestimento di Tosca per l’edizione 2005 del Maggio Musicale Fiorentino.

Gli viene assegnata la direzione della Sezione Teatro della Biennale di Venezia, dal 1999 al 2002, senza rinunciare a collaborazioni internazionali prestigiose e a dirigere progetti del calibro di Graal (2000), Woyzeck (2001), Le metamorfosi da Ovidio (2002 / 2003), Paradiso (2004), Argonauti (2005).

LINDSAY KEMP

Nato sull’Isola scozzese di Lewis e Harris il 3 maggio 1938 e cresciuto nel nord dell’Inghilterra, orfano di padre, disperso in mare nel 1940, sin dall’infanzia s’innamora della danza, del teatro, del cinema, nonostante l’opposizione della madre.

Terminati gli studi al Bradford College of Arts, si trasferisce a Londra dove frequenta la scuola del Ballet Rambert, quindi si perfeziona con Sigurd Leeder, Charles Wiedman, Marcel Marceau e tanti altri. Particolarmente significativa per Kemp è l’esperienza formativa con Marceau che gli ha “dato le mani”, giocando con le parole per indicare sia l’effettiva importanza delle mani nell’arte mimica e nella sua personale interpretazione di essa.

Lavora in varie compagnie di danza, teatro, teatro-danza, cabaret, musical, mimo, coreografa perfino spogliarelli, fino a formare nel 1962 la sua prima compagnia, la The Lindsay Kemp Dance Mime Company.

Verso la fine degli anni sessanta continua a sviluppare la propria sintesi fra diversi linguaggi teatrali privilegiando un approccio personale e innovativo alla danza e al teatro, così nel 1968-1969 nasce la prima produzione di Flowers… una pantomima per Jean Gênet, liberamente tratto da Nostra Signora dei Fiori di Jean Genet.

Precursore di un genere di danza onirico, ricco di contenuti e ispirazione, al limite dell’acrobatico e forte di effetti spettacolari ancorché ottenuti in modo semplice attraverso l’uso sapiente della musica e delle luci, ha reinventato l’arte del mimo e ha influenzato molte compagnie

Fra gli anni Settanta e Ottanta lascia un segno indelebile: con la sua messa in scena dei concerti The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars del suo allievo David Bowie, una pietra miliare nel genere dell’opera rock, quindi producendo le sue opere più significative e conosciute e con il citato Flowers, Sogno di una notte di mezza estate, liberamente tratto da Shakespeare, Salomè da Oscar Wilde.

Negli anni ’90 continuano i successi della Linsay Kemp Company: Onnagata CenerentolaVariété. Nel 1993 Kate Bush, che ha cominciato la sua carriera come allieva di Kemp, lo ospita nel video musicale prodotto per il lancio del suo LP The Red Shoes. Nel 1995 esordisce nella regia lirica con una versione de Il barbiere di Siviglia che affascina il pubblico e conquista la critica.

Dal 2005 al 2012 interpreta il ruolo della fata Carabosse ne La bella addormentata del Balletto del Sud con le coreografie di Fredy Franzutti, la collaborazione continua con l’interpretazione del mago Koščej ne L’Uccello di Fuoco dal 2007 al 2010.

Dal 2009 inizia la collaborazione con la danzatrice Daniela Maccari, inizialmente chiamata a curare le coreografie dello spettacolo Cinderella. Nasce un rapporto di destinato a durare sino alla scomparsa di Kemp. Daniela Maccari diverrà la sua prima ballerina, coreografa e collaboratrice costante.

Nel 2015, lAccademia di belle arti di Brera consegna all’artista il Diploma accademico di II livello honoris causa in Arti multimediali interattive e performative.

Muore il 25 agosto 2018 a Livorno.

LEO DE BERARDINIS

Nasce a Gioj Cilento il 3 gennaio 1940, ma cresce a Foggia.

Tra il 1959 e il 1960 frequenta a Roma il Centro universitario teatrale e nel 1962 debutta con la compagnia di Carlo Quartucci, recitando le opere di Beckett Finale di partita e Aspettando Godot.

Nel 1965, inizia il lungo sodalizio artistico con Perla Peragallo, attori e registi di numerose messinscene teatrali e cineteatrali, la prima delle quali è La faticosa messinscena dell’ Amleto di Shakespeare (1967) e Sir and Lady Macbeth (1968) . Quando nel 1981 si conclude il sodalizio con Perla, ritorna a Roma, dove inizia una serie di lavori teatrali che segneranno il passaggio dal “teatro del non-finito” al “teatro dell’improvvisazione”.

Nel 1983 si trasferisce a Bologna e inizia una nuova collaborazione artistica con la Cooperativa Nuova Scena – Teatro Testoni / Interaction. Continua i suoi studi su Shakespeare e nasce la ricerca sugli spettacoli Assolo che porta alla creazione di messinscene come Dante Alighieri – studi e variazioni, con la quale vince il Premio UBU come miglior attore dell’anno nel 1984, e Il Ritorno, riflessi da Omero- Joyce.

Nel 1987 realizza Novecento e Mille, un’opera che racchiude in sé studi sperimentali sul teatro e sugli autori più svariati, da Pasolini a Beckett, fino a PirandelloNello stesso anno lascia la “Nuova scena” e fonda il “Teatro di Leo”, diventandone direttore artistico ed organizzativo: qui non solo produce spettacoli teatrali, ma crea laboratori di ricerca e organizza giornate di studio sul teatro, convegni e rassegne teatrali. Fra gli spettacoli teatrali prodotti nel “Teatro di Leo” ci sono DelirioL’uomo capovoltoMachbethNovecento e Mille e Il fiore nel deserto, tratto dall’opera di Giacomo Leopardi.

Nel 1989, produce, in collaborazione con “Teatri Uniti di Napoli” e il “Festival dei due mondi di Spoleto”, Ha da passà ‘a nuttata, tratto dall’opera di Eduardo De Filippo; l’allestimento ottiene il Premio UBU come miglior spettacolo dell’anno, mentre lui vince il Premio IDI come miglior attore e il Premio per la carriera da parte dell’Associazione Nazionale dei critici.

Nel 1990 “Il Teatro di Leo” trova, a Bologna, un suo spazio scenico chiamato “Lo spazio della memoria” e in questo ambito nascono molti laboratori di ricerca, come quello sulla scrittura scenica, in collaborazione con l’Università di Bologna.

Nel 1991 riceve il Premio Eduardo, il Premio Giuseppe Fava, in riconoscimento del carattere civile e politico del suo teatro, e il Premio Città di Pontecagnano, per la sua arte attoriale. Nel 1992, egli ottiene anche il Premio UBU Speciale, “per la coerenza e la necessità del suo teatro”.

Dal 1994 al 1999, è direttore artistico del “Festival di teatro di Santarcangelo”. Sempre in questo periodo dirige il Teatro San Leonardo di Bologna e cura, per il “Teatro sperimentale” di Spoleto, la regia del Don Giovanni di Mozart.

Il 4 maggio 2001, la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Bologna gli conferisce la Laurea ad honorem.

Muore a Roma il 18 settembre 2008. Alla sua memoria, nel 2015, è stato dedicato un teatro-auditorium a Vallo della Lucania.

MARCO MARTINELLI

Drammaturgo e regista teatrale, nasce a Reggio nell’Emilia, il 14 agosto 1956.

Nel 1983 fonda, con la moglie Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni, il Teatro delle Albe e nel 1991 è nominato direttore artistico di Ravenna Teatro, “Teatro Stabile di Innovazione”.

Nel 1999, inventa il “Cantiere Orlando”, ricognizione nell’universo dei poemi cavallereschi rinascimentali.

Nel 2005 firma la regia dello spettacolo La Mano, “de profundis rock”, nel 2007 è in Senegal, dove lavora insieme a Ermanna Montanari e Mandiaye N’Diaye a una nuova “messa in vita” de I Polacchi. Lo spettacolo Ubu buur debutta nel cuore della savana, nel villaggio di Diol Kadd, con un coro di Palotini senegalesi. Ubu buur viene presentato in prima europea al Festival des Francophonies en Limousin (Francia), che lo ha anche coprodotto, in prima nazionale al Teatro Festival Italia di Napoli e a VIE Scena Contemporanea Festival di Modena, nell’autunno 2007.

Nel 2008 cura la regia di Rosvita, lettura-concerto di Ermanna Montanari e di Stranieri di Antonio Tarantino. Nel 2009 firma la regia e le luci di Ouverture Alcina, spettacolo che riscuote un grande successo di pubblico e critica in occasione delle numerose recite in varie città del mondo: da New York a Mosca nell’ambito del Festival internazionale “Stanislavskij Season”, da Tunisi a Berlino e Limoges.

Nel 2010, le Albe si immergono nell’opera di Molière e, nello stesso anno, debutta Rumore di acque, testo e regia di Marco Martinelli, un monologo capace di trasfigurare in grottesca e malinconica poesia la cronaca tragica dei barconi alla deriva nel Mediterraneo. Lo spettacolo ottiene il patrocinio di Amnesty International.

Nel 2012 debutta PANTANI, testo e regia di Marco Martinelli, che vede impegnata tutta la compagnia, con il quale Martinelli vince il Premio Ubu 2013 come “migliore novità italiana (o ricerca drammaturgica)”.

Nel 2014 scrive e dirige Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, ideato con Ermanna Montanari, spettacolo sulla leader birmana premio Nobel per la pace nel 1991. Ne dirigerà un film omonimo (il suo primo film), nel 2016.

Nel 2017 sempre con Ermanna Montanari firma l’ideazione, la direzione artistica e la regia di INFERNO Chiamata pubblica per la “Divina Commedia” di Dante Alighieri prodotto da Ravenna Festival in coproduzione con Teatro delle Albe/Ravenna Teatro.

Nel 2018 scrive e mette in scena – con Ermanna Montanari – Va pensiero, affresco corale capace di far luce sulla corruzione mafiosa in Emilia-Romagna. Saluti da Brescello (di Marco Martinelli) ne costituisce il prologo, in forma di dialogo tra le statue di Peppone e Don Camillo nella piazza di Brescello. Per questi due lavori viene conferito a lui e a Montanari il Premio Articolo 21 e della Federazione Nazionale Stampa Italiana

Nell’autunno 2019 esce il suo secondo film, The Sky over Kibera, che racconta la “messa in vita” della Divina Commedia nell’immenso slum nel cuore di Nairobi con 150 bambini e adolescenti delle scuole locali in relazione alla Fondazione AVSI.

Il 20 novembre 2021 in Prima nazionale per FilmMaker Festival a Milano presenta la pellicola fedeli d’Amore e nello stesso anno Ulisse XXVI, un cortometraggio centrato sul XXVI canto dell’Inferno di Dante recitato da Ermanna Montanari.

Cura anche la regia assieme alla Montanari di Pasolinacci e Pasolini, racconto personale del maestro, “faro” di riferimento fin dall’adolescenza negli anni Settanta.

È fondatore, con Maurizio Lupinelli, della non-scuola, esperienza teatrale all’interno delle scuole superiori di Ravenna nata nel 1991 e tuttora in atto, che coinvolge ogni anno oltre 400 giovani.

PETER BROOK

Regista teatrale e cinematografico inglese nasce a Londra il 21 marzo 1925.

Il padre, nato in Lettonia da una famiglia di piccoli negozianti, emigrò giovanissimo, nel 1907, a Parigi per motivi politici, seguito dalla ragazza che sarebbe diventata di lì a poco sua moglie, Ida Janson. Entrambi si laurearono in Scienze alla Sorbona, per trasferirsi poi a Liegi e a Londra dove iniziarono a lavorare per l’industria bellica. Presero la cittadinanza inglese, e l’originale cognome Bryk, già trasformato in Francia in Brouck, divenne definitivamente Brook.

Peter passa la sua infanzia con i genitori e il fratello maggiore Alexis, in un clima familiare abituato a una mentalità liberale e scientifica, ricco di interessi culturali, tanto che si avvicina presto alla letteratura, al teatro e al cinema. Grazie alla passione del padre per i viaggi, conosce le principali capitali europee.

Studia al Gresham’s School ed alla Università di Oxford, dove si laurea, ma e il suo incontro col teatro è casuale. Esordisce giovanissimo nella regia teatrale con il Doctor Faustus di Marlowe (1943), imponendosi come acuto interprete del teatro di William Shakespeare.

Dopo essersi affermato in Gran Bretagna, diventa noto nel resto dell’Europa grazie al tour del Tito Andronico nel 1955. Il suo interesse per Shakespeare è tale che l’artista è annoverato tra i maggiori interpreti – per mezzo delle sue regìe – del drammaturgo inglese. Mise in scena con successo anche le cosiddette opere minori di Shakespeare.

Muore a Parigi il 2 luglio 2022. 

Tutte le immagini sono di Marco Caselli Nirmal.

MARCO CASELLI NIRMAL

Collabora con i maggiori artisti italiani e internazionali oltre che con teatri, centri d’arte contemporanea, rassegne e premi, orchestre, case discografiche, compagnie teatrali e di danza, centri di produzione teatrale, festival musicali e teatrali in Italia e all’estero. 

Nel 1981 avvia una significativa collaborazione con Paolo Natali, etnomusicologo e vicedirettore del Teatro Comunale di Ferrara, con il quale allestisce la mostra documentaria dedicata a Béla Bartók; collaborazione che continua fino alla scomparsa prematura di Natali, nel 1986.

Dal 1990 è stato fotografo ufficiale del maestro Claudio Abbado in numerose tournée concertistiche. Sua la documentazione fotografica del nuovo Auditorium del Parco di Renzo Piano, sorto all’interno del parco del Forte spagnolo a L’Aquila, da un’idea di Claudio Abbado, inaugurato nel 2012

Nel corso di oltre quaranta anni di attività, ha raccolto e organizzato un archivio fotografico poderoso, che raccoglie una memoria teatrale che spazia fra i diversi generi dello spettacolo dal vivo, comprendendo le maggiori esperienze artistiche di fine Novecento e del nuovo millennio: dal Living Theatre a Tadeusz Kantor, da Claudio Abbado a John Cage, da Luca Ronconi a Nekrosius, da Marco Paolini a Umberto Orsini, da Roberto Benigni a William Forsythe, Fabrizio Gifuni, Babilonia Teatro, Socìetas Raffaello Sanzio, Pina Bausch, Marina Abramovic, Sasha Waltz. Un archivio che raccoglie la documentazione fotografica di circa 10.000 spettacoli per un totale di circa un milione scatti.

Svolge occasionalmente attività di formazione, ha collaborato con il Dipartimento di Architettura e Analisi della Città/UNIROMA, Facoltà di Magistero Università di Siena, Brookes University di Oxford, facoltà di Architettura.

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I “40 giorni per la vita”
Cosa c’è dietro le proteste antiabortiste davanti agli ospedali

di Alessandra Vescio
articolo originale in Valigia blu del 4 aprile 2023

Di fronte la clinica di salute sessuale e riproduttiva MSI Reproductive choice di Brixton, a Londra, una donna legge in piedi accanto a un quadro che raffigura la Madonna e due cartelloni, uno con l’immagine di una mamma e un bambino sorridenti e la scritta “Love them both” (Amiamo entrambi) e l’altro con un numero di telefono a cui sono invitate a chiamare donne in gravidanza e che cerchino aiuto morale, economico e pratico. Resterà lì per qualche ora e poi qualcuno arriverà a darle il cambio, mi dice quando le chiedo informazioni. Accanto l’ingresso della clinica, c’è un uomo inginocchiato con un rosario in mano. “Siamo qui dalle 8 di mattina fino a tarda sera. In questo periodo stiamo cercando di fare di più, perché siamo in Quaresima, sai”, afferma.

I “40 giorni per la vita”

Ogni anno infatti, durante i quaranta giorni che precedono la Pasqua e successivamente in autunno, un movimento internazionale che prende il nome di “40 days for life” organizza sit-in di preghiera di fronte a cliniche che garantiscono l’accesso all’aborto. L’obiettivo, si legge sul sito del movimento, sarebbe quello di “mandare un messaggio alla comunità sulla tragica realtà dell’aborto”, e a partecipare sono diversi gruppi religiosi, locali e internazionali.

Nato in Texas in seguito all’apertura di un centro di salute sessuale e riproduttiva dell’organizzazione Planned Parenthood, questo movimento si è poi espanso prima a livello nazionale e poi internazionale. A Francoforte, ad esempio, un gruppo di manifestanti dei “40 days for life” si è riunito davanti un centro di consulenza su sessualità, gravidanza e contraccezione, ha esposto cartelloni con slogan come “Unborn lives matter” (Le vite non nate contano) o “L’aborto non è una soluzione” e ha iniziato a pregare.

In Italia invece il movimento “40 days for life” ha ispirato la nascita dei “40 giorni per la vita”, una campagna al momento ufficialmente presente a Bergamo e Sanremo e promossa dall’associazione Pro Vita & Famiglia. Durante i “40 giorni per la vita” che, a differenza dell’evento internazionale, sono iniziati a fine dicembre e terminati a febbraio, un gruppo di manifestanti si è ad esempio presentato di fronte l’ospedale di Treviglio, esibendo, oltre alle raffigurazioni religiose, l’immagine di un medico e un bambino e la scritta “Meglio in braccio che sulla coscienza”.

Movimenti religiosi e posizioni antiabortiste

I “40 days for life” non rappresentano l’unico momento in cui cliniche e ospedali che garantiscono servizi di interruzione volontaria di gravidanza vengono presi di mira in diversi paesi nel mondo da gruppi antiabortisti. Molte di queste associazioni hanno carattere religioso e si riconoscono per le iconografie e i simboli che portano ai presidi, ma mentre i gruppi evangelici sono spesso descritti come più aggressivi nel loro modo di protestare, i gruppi cattolici, come quelli presenti di fronte la clinica di Brixton, hanno una strategia diversa.

Definendosi come gruppi “pacifici” e con l’unico intento di pregare fuori dalle cliniche e offrire soluzioni alternative all’aborto, si rivolgono alle donne che stanno andando ad abortire chiamandole “mamme” e danno informazioni errate e fuorvianti sulla procedura dell’interruzione volontaria di gravidanza. Sui volantini distribuiti fuori dalla clinica di Brixton, ad esempio, si legge che “la gravidanza è un fattore di protezione contro il suicidio” e che “1 aborto su 10 provoca infezioni all’utero”. Nel caso specifico delle infezioni all’utero viene citata come fonte una pagina web del Servizio sanitario nazionale (NHS) che però non è disponibile. Sul sito dell’NHS è invece spiegato che le infezioni all’utero in seguito a un aborto si verificano in un numero ridotto di casi e tendono a essere curate per tempo.

La ragione dietro il ricorso a queste informazioni pseudoscientifiche è legata a una questione di efficacia. Molti di questi gruppi, infatti, hanno scelto di intrecciare, spesso anche anteporre, alle loro posizioni religiose la divulgazione di dati e notizie inesatte presentate però come prove tangibili e “scientifiche” del pericolo dell’aborto. Allo stesso modo, diverse associazioni a carattere religioso hanno introdotto i diritti umani e i diritti delle donne nelle loro argomentazioni, iniziando a sostenere che poiché l’identità di una donna si manifesta e coincide con la maternità, l’aborto non può che essere frutto di una costrizione dall’esterno e rappresenta dunque un tradimento verso la sua natura e un attacco ai suoi diritti.

Il tema dei diritti umani viene ripreso anche da gruppi antiabortisti non religiosi. L’organizzazione americana pro-vita Rehumanize International ad esempio ha definito il ribaltamento della sentenza Roe V. Wade da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti, che ha portato all’eliminazione del diritto all’aborto a livello federale e lasciato ai singoli Stati il potere di decidere in merito all’accesso all’IVG, come “un momento di celebrazione per questa monumentale espansione dei diritti umani”. Rehumanize International infatti si autoproclama un’organizzazione “per i diritti umani dedicata alla creazione di una cultura di pace e vita” che si oppone a “tutte le forme di violenza aggressiva contro l’essere umano”, tra cui vengono incluse la violenza da parte della polizia, ma anche l’aborto e l’eutanasia. Tra le altre cose, Rehumanize International organizza presidi di fronte ai centri che offrono il servizio dell’interruzione volontaria di gravidanza per “incoraggiare attivamente le persone che intendono abortire a scegliere la vita”.

L’impatto sulle donne

Qualunque sia il metodo o la ragione dietro le proteste fuori dalle cliniche, ciò che resta invariato è l’impatto che queste azioni hanno sulle donne.

L’organizzazione britannica che si occupa di diritti riproduttivi British Pregnancy Advisory Service (BPAS) gestisce un database di testimonianze di donne e persone che le accompagnano nelle cliniche per abortire. “La loro esperienza”, ha raccontato a Valigia Blu Rachael Clarke, responsabile staff della BPAS, “è che si sentono molestate ed è una situazione che provoca loro un grande disagio. Si sentono giudicate dalle persone che incontrano fuori dalle cliniche, e questo le fa sentire molto turbate riguardo alla decisione che stanno prendendo”.

“È anche una questione di privacy”, ha detto Clarke. “L’attenzione viene attirata su di loro, rendendo molto difficile l’idea di accedere a cure mediche private e riservate, perché la gente le osserva mentre arrivano e vanno via. In alcuni casi, temono di imbattersi in persone che conoscono, che stanno fuori dalle cliniche e che sanno che stanno andando ad abortire. Non importa che si tratti di preghiere ‘silenziose’, che vengano avvicinate da qualcuno o che vengano loro dati dei volantini. In ogni singolo caso, le donne ci hanno detto che queste azioni provocano loro un profondo stress e sentono di essere molestate”.

Greg Irwin, medico all’ospedale Queen Elizabeth di Glasgow dove a febbraio un gruppo di antiabortisti si è riunito per i “40 days for life”, ha riferito che questi manifestanti intimidiscono, molestano e turbano molto le donne che accedono alla struttura sanitaria e lo staff che vi lavora, e lasciano le persone in lacrime. Ad Albury, in Australia, le proteste dei gruppi anti-aborto che per anni si sono tenute fuori l’unica clinica della città che offriva l’accesso all’IVG avrebbero provocato profondi traumi e disagi alle donne, soprattutto adolescenti, che si erano rivolte alla struttura.

I manifestanti avrebbero anche fotografato, filmato e preso nota dei nomi delle donne che accedevano alla clinica, e una donna ha raccontato che i membri di un gruppo religioso hanno bloccato l’ingresso della struttura, l’hanno circondata e hanno iniziato a mostrarle immagini esplicite di bambini morti. La donna aveva scelto di abortire perché il feto presentava malformazioni e danni cerebrali e la sua vita era in pericolo.

Se i presidi davanti le cliniche che si occupano di salute sessuale e riproduttiva rappresentano un momento di turbamento per le donne che vogliono interrompere una gravidanza, il disagio può essere ancora più profondo per coloro che cercano supporto psicologico o consulenza, per quelle che abortiscono per un problema di salute o se le proteste si verificano di fronte un ospedale, dove le pazienti accedono per svariati motivi. Un’azione “colpevolizzante per la donna” è come ad esempio la Dottoressa Alessandra Kustermann ha definito l’affissione di un cartellone contro l’aborto di fronte la clinica ostetrico-ginecologica Mangiagalli di Milano nel 2019: “Era un brutto messaggio per le donne, sia per quelle che avevano scelto di interrompere la gravidanza, magari in seguito a una diagnosi prenatale patologica di anomalia del feto, sia per quelle che avevano avuto un aborto spontaneo”, ha ricordato Kustermann che della Mangiagalli è stata primaria fino allo scorso anno. Dall’altro lato, Claudia Hohmann, direttrice del centro di Francoforte preso di mira dal movimento “40 days for life” ha dichiarato che le pazienti si sentono ora anche intimidite nel chiedere assistenza.

L’evoluzione delle proteste e i legami internazionali

Se è vero, come dice ad esempio Kustermann riguardo al contesto italiano, che queste proteste ci sono sempre state, molti medici e attivisti stanno notando un’intensificazione e un inasprimento delle azioni.

“Dal 2014 abbiamo visto un aumento nel numero e nell’intensità delle proteste fuori dalle cliniche britanniche”, ha detto a Valigia Blu Rachael Clarke. “Prima di allora, invece, erano soprattutto gli anziani del posto a presentarsi e a pregare fuori dalle cliniche, ma erano solo loro e non avevano modo di coordinarsi. Dal 2014 in poi abbiamo assistito a una maggiore standardizzazione delle tattiche e a un maggiore coordinamento, e penso che questo sia molto legato alla crescita dei gruppi antiabortisti americani che hanno iniziato a lavorare molto all’estero. Abbiamo assistito alla crescita di varie organizzazioni internazionali fondate in America e gestite poi su base locale. Quindi ora si possono trovare persone della parrocchia locale che si presentano all’esterno delle cliniche, ma che ricevono finanziamenti da parte di qualche organizzazione americana. I manifesti, le candele, i siti web: si pubblicizzano tutti allo stesso modo. Adesso c’è molta più organizzazione e coordinamento”.

Il coordinamento a livello internazionale di cui parla Clarke è riscontrabile in gruppi come Helpers of God’s precious infants (“Gli aiutanti dei preziosi infanti di Dio”), fondato a Brooklyn e oggi molto presente nel Regno Unito e in Australia. Gli Helpers of God’s precious infants organizzano “veglie di preghiera” settimanali e mensili fuori dalle cliniche che forniscono servizi di IVG i cui partecipanti si dividono in coloro che pregano e coloro che si avvicinano alle donne che stanno per accedere alla clinica per convincerle a non abortire.

Compassion Scotland, invece, è stato fondato a maggio 2022 con l’obiettivo di supportare le proteste fuori dalle cliniche che garantiscono l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza in Scozia. Nonostante si descriva come gruppo indipendente, Compassion Scotland è stato accusato di ricevere finanziamenti o di essere in qualche modo collegato a gruppi contro l’aborto nazionali e internazionali, come Society for the Protection of Unborn Children, il primo gruppo antiabortista britannico, e Alliance Freedom Defence, organizzazione della destra americana che Southern Poverty Law Center ha definito come “gruppo d’odio” e che negli anni è stata sempre più presente e influente non solo nella politica americana ma anche in quella internazionale.

Molte delle proteste fuori dagli ospedali italiani, che sono spesso promosse anche da Pro Vita & Famiglia, vengono invece organizzate da Ora et Labora. Responsabile tra le altre cose dell’affissione del cartellone di fronte la clinica Mangiagalli nel 2019, Ora et Labora aderisce al movimento ’40 days for life’ ed è anche tra le associazioni aderenti alla Manifestazione per la vita che si terrà a Roma a maggio, a cui partecipa anche CitizenGO, organizzazione internazionale attraverso cui i principali gruppi americani anti-LGBT e antiabortisti sono riusciti a penetrare nella politica italiana.

I presidi organizzati da Ora et Labora fuori dagli ospedali vedono spesso anche la partecipazione del Comitato NO 194, che chiede l’abrogazione della legge 194 e che sul sito web si dichiara non pro-life ma antiabortista. Del Comitato NO 194 fa parte il Presidente della Camera dei Deputati Lorenzo Fontana, molto vicino anche alle associazioni che oggi rappresentano la “colonna portante del movimento contro i diritti riproduttivi e LGBT in Italia” e che hanno legami molto stretti con la destra e l’estrema destra italiane e i principali leader antiabortisti americani. Tra queste, vi è Pro Vita & Famiglia, nata dall’unione dei gruppi ProVita e Generazione Famiglia.

In Italia però i movimenti antiabortisti non si trovano solo fuori dagli ospedali, ma anche al loro interno. Il Movimento per la vita, uno dei più importanti gruppi contro l’aborto in Italia, è ad esempio presente in molte strutture sanitarie pubbliche attraverso i cosiddetti “Centri di aiuto alla vita”, che hanno lo scopo di convincere le donne a non abortire. Un volantino fornito in uno di questi centri che citava “i gravi rischi” dell’aborto è stato definito da Silvana Agatone, ginecologa e Presidente di Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’applicazione della legge 194/78 (LAIGA), come “una manipolazione dell’informazione senza alcuna seria base scientifica”. Il Movimento per la vita si definisce autonomo, ma sarebbe in realtà affiliato a Heartbeat, organizzazione cristiana nata in America e presente oggi a livello internazionale. Heartbeat opera sul territorio tramite i cosiddetti Crisis pregnancy centers, che, come i Centri di aiuto alla vita, hanno lo scopo principale di dissuadere le donne dall’abortire: per farlo, vengono ad esempio date informazioni false e pericolose, come il sostenere che l’aborto aumenti il rischio di cancro o che la gravidanza possa guarire da gravi malattie.

Il contrasto alle proteste fuori dalle cliniche

L’aggressività delle proteste fuori dalle cliniche che offrono il servizio dell’IVG ha portato alcuni aesi a stabilire le cosiddette “buffer zone”, ovvero zone cuscinetto in prossimità delle strutture sanitarie all’interno delle quali sono vietate le azioni anti-aborto. Queste zone cuscinetto sono state introdotte ad esempio in Australia, in Ontario, nell’Irlanda del Nord. In seguito a una lunga campagna per chiedere una legge che vietasse le proteste fuori dalle cliniche, a marzo anche l’Inghilterra e il Galles hanno approvato l’introduzione di zone cuscinetto. In Spagna invece intimidire o molestare chi entra in una clinica per un’interruzione volontaria di gravidanza è diventato reato lo scorso anno.

“Non puoi costringere nessuno a portare avanti una gravidanza per conto di un altro”, ha detto la dottoressa Kustermann a Valigia Blu. Anzi, “una gravidanza se non desiderata è equivalente a una malattia, può portare conseguenze psichiche devastanti. Bisogna sempre ricordarsi che non è vero che il non aborto è gratis, a volte è ancora più pesante”. Per questo, dice Kustermann, che si definisce non obiettrice da sempre, “Detesto il termine ‘pro-vita’, perché sembra che noi siamo pro-morte. Noi siamo pro-vita della donna”.

Immagine di copertina  da  “Catholic Parliamentary Office”

Le storie di Costanza /
Una pizza per Guido

Le storie di Costanza. Una pizza per Guido

Ieri mattina Guido è uscito da casa più tardi del solito. Era stanco e non aveva voglia di prendere la macchina, andare in università a Trescia e fare esami di Storia. “Ciao Giada” mia ha detto mentre usciva e non si è nemmeno voltato per vedere se gli sorridevo. Di solito, lo fa sempre, odia aprire la porta, lasciando dietro di sé del malumore, ma ieri mattina non aveva proprio voglia di uscire, poi si è fatto forza ed è andato via senza voltarsi.

La settimana scorsa è morta sua madre dopo una brutta malattia, purtroppo. Sono andata anch’io a Trieste al funerale. La morte di un persona care è sempre un grande dolore. Una corda che si spezza e che non si riattacca più. Un pezzo di carne che viene tritato dalla macelleria della vita e che tale rimarrà. Nel dolore di una perdita c’è il troppo freddo, il troppo caldo, il troppo amaro, il troppo salato, lo smarrimento, la fuga, il rimpianto.

Guido, da persona introversa qual è, parla poco di questo evento drammatico appena avvenuto, ma io vedo i segni sul suo viso. È come se la sua mobilità facciale si fosse ridotta. Come se i muscoli ci mettessero troppo tempo a muoversi e, in questa strana lentezza, lasciassero passare un po’ di tristezza. Come se il dolore albergasse tra la carne e i nervi del suo volto e facesse capolino a modo suo.

Sono alcuni giorni che ha anche il viso stranamente rosso. Lui dice che ha preso il sole passeggiando con Reblanco (il suo cane) sul vialetto dei castagni, ma secondo me non è così. È un rossore da apprensione, da tensione. Il sangue circola molto veloce perché i battiti cardiaci sono accelerati dal dispiacere. La velocità sanguigna è più sostenuta del solito e il suo viso è contemporaneamente un po’ rallentato e un po’ arrossato.

Non vuole che gli si parli di malattie, dolore, morte, funerali, tombe e questo è comprensibile. Ne ha già sentite troppe di queste storie. Anche un suo fratello è morto e anche un suo caro amico, il professor Edo. Lo conoscevo anch’io, una cara persona.

L’ho guardato mentre usciva e non sono riuscita a sorridergli, tant’è … sarebbe stato inutile, lui non si è girato per vedere se lo facevo. Mi chiedo come si possa aiutare un uomo in un momento così difficile e poi penso che sia necessario fare dei distinguo a seconda della persona, del carattere, dalle esperienze e dalle aspettative.

Ognuno di noi ha un suo modo per rimanere ancorato alla vita quando muore un parente caro. Ognuno di noi trova un suo modo per riprendere a camminare con le sue scarpe di pietra sulle strade del mondo.

Ho visto che apprezza l’equilibrio, a maggior ragione adesso. Non vuole che nessuno lo guardi con compatimento e nemmeno che rida raccontando assurdità per nulla consolatorie. Credo che questo valga un po’ per tutti. Nelle buone relazioni (quelle che capiscono e imparano) ci sta la comprensione e la complicità e anche la capacità di trovare la giusta via, quella strada unica e un po’ accidentata che permette di camminare insieme senza troppo sforzo.

Così lo consolerò senza fare nulla di strano, proverò semplicemente ad esserci. Se parlerà lo ascolterò e se non parlerà non lo ascolterò. Penso che in un dolore grande si riattualizzino tutti i dolori già passati. È come se in un unico dolore si riaddensassero tutti gli altri diventando attuali, materia di esplorazione e rielaborazione. È come se col lutto attuale si dovessero rivisitare tutti gli altri con una nuova lente e una nuova onestà.

Posizionare una perdita nel cimitero interiore è come rimettere in fila tutti i grumi di dolore in una nuova collana che li assembla tutti e che permette una nuova comprensione. Grazie a questa nuova esplorazione rivisitiamo noi stessi: quel che siamo stati con le persone che sono morte, quel che siamo riusciti a comunicare loro, quanto siamo riusciti ad essere in sinergia, empatici. Attraverso l’empatia che le buone relazioni permettono, incontriamo gli altri e scopriamo noi stessi. Ritroviamo un nuovo mondo e insieme ritroviamo un senso.

L’elaborazione del lutto e di tutti i lutti che con lui si rivitalizzano, porta a un nuovo modo di sentire l’esistenza, di percepire il tempo che scorre, di accogliere la mancanza e la separazione. In momenti così difficili si può anche cogliere il vero senso della vita, oppure no. Si può sentire con forza la presenza di chi ci vuole bene, la speranza, oppure no. Non è di certo attraverso l’esperienza della morte che si perde la speranza, non necessariamente la si ritrova.

È invece attraverso l’esperienza della solitudine che ci si avvicina alla morte, a un senso di fine imminente che non prevede alcuna comunione umana. Ma questa è un’altra strada oscura, un altro dramma che si consuma ogni giorno davanti ai nostri occhi, perpetrato dalla nostra indifferenza, dalla indifferenza di tutti.

Sto pensando a cosa posso fare per far sorridere Guido. Credo che tanti “paroloni” non servano e che la mia complicità sia inutile da esplicitare. Credo che stasera scenderò le scale e andrò a prendere una pizza sotto casa mia, da Giacinto. Le pizze qui sono buone, le fanno anche dolci. Credo che ne prenderò tre. Due alle verdure e una con la crema di cioccolato. A Guido piace la pizza.

Poi prenderò una birra scura per lui e una lattina di aranciata per me. A me non piace la birra. Guido lo sa, anche se non ha mai smesso di stupirsene. Una volta, molti anni fa, ha insistito perché io provassi a berne una, era convinto che la mia repulsione per la famosa bevanda gialla fosse un rifiuto dovuto a un qualche blocco di tipo cognitivo. Ma non è così. Io odio la birra. Quella notte ho vomitato e, da allora, di birra non ne abbiamo mai più parlato. Lui la beve e io no.

Mi metterò un vestito panna con le foglie verdi e per una volta le maledette scarpe col tacco. Gli piacciono. Per quale motivo non dovrei fare qualcosa che gli piace, a maggior ragione in un momento come questo?.
Se le scarpe col tacco servono ad ancorare un po’ di pensieri al tempo presente e a sospenderli dal dolore, perché non lo dovrei fare? Quindi lo farò.

Penso a lui adesso e poi penso a molti anni fa, quando abbiamo cominciato a frequentarci. Quanto era tutto diverso, quanto era a volte bello e a volte brutto. Anche adesso è così, a volte è tutto bello e a volte tutto brutto. È la vita che è così, è il suo scorrere a volte lineare e a volte tumultuoso che è così. Siamo nel tempo e poi non ci saremo più. Siamo nella vita e poi la lasceremo.

Ho capito che bisogna massimizzare il tempo in cui ci siamo, che bisogna dare senso, verità e rigore a ogni attimo che viviamo, perché potrebbe essere l’ultimo o perché, al contrario, potrebbe essere l’ennesimo in una fila interminabile di piccoli attimi eterni.

Mi accorgo di essere stanca di questo mio pensare, di questo riflettere sulla morte, su Guido e su tutto ciò che questa ultima settimana si è portata via. Si è anche portata via un po’ del suo sorriso, bene prezioso e importante, bagliore nella nebbia e attimo che brucia come il fuco.

Vado in garage e prendo la mia bicicletta. Salgo in sella e poi pedalo verso il fiume. Nel pedalare ritrovo un ritmo, un modo di rimettere in sincronia il tempo con la vita, ogni pedalata un respiro e ogni respiro un po’ di tempo in più. Mentre pedalo verso il fiume, ritrovo un po’ di me.

Mi sorprendo a pensare al Lungone, allo scorrere lento di quel fiume largo e profondo che qui accompagna la vita di tutti. Ieri è stata a casa mia Costanza Del Re, la prima fidanzata di Guido. È venuta a fargli le condoglianze. Mi sembra che Guido abbia apprezzato. Sempre molto gentile Costanza.

Sono stati un po’ a parlare seduti sulle sedie di vimini del mio balcone. Parlavano a bassa voce un po’ piegati in avanti per sentirsi tra loro. Devono aver parlato di vicende passate, di quel loro amico comune morto giovane. Una morte che li ha lasciati sgomenti e che ha consolidato la loro amicizia.

Condividono un dolore, un senso di abbandono e di riunione che durerà per sempre e che li riporta allo stesso sorriso, alle stesse mani belle che si muovevano sul sofà di via Santoni Rosa. Dopo la morte di Tito la vita di Costanza non è più stata la stessa e Guido lo sa. Anche Guido conosceva Tito ed è questo che ha creato tra loro un ricordo condiviso e perenne, una forte complicità.

Continuo a pedalare verso il fiume. Guardo l’acqua del Lungone che scorre silenziosa e che porta via tutto.  Porta via il tempo del dolore e quello del rimpianto, porta via la sofferenza e anche la pietà. Mi fermo, scendo dalla bici, mi avvicino all’argine guardo l’acqua da vicino.

L’acqua riverbera il viso di Guido i suoi occhi neri e il suo sorriso. Riverbera anche i suoi pensieri e le sue arrabbiature. Penso che lo amo così com’è e che darei qualunque cosa per vederlo sereno anche adesso che è quasi impossibile, soprattutto adesso che è quasi impossibile.

Poi ripenso alla pizza, alla birra, alle scarpe coi tacchi. Forse tutto questo un sorriso porterà, forse un po’ di buio lascerà spazio all’alba e il cielo si rischiarerà. Forse dovrei scrivergli che mi dispiace per quello che è successo, che la vita continuerà. Forse dovrei scrivergli che nella morte c’è molto distacco ma anche la pace eterna, che il Paradiso aspetta tutti e che prima o poi anche lui lo vedrà.

Ma per fare questo ci vorrebbe Costanza Del Re che fa la scrittrice di professione. Io purtroppo non sono brava a scrivere quel che penso e quel che sento. Risalgo in sella e ricomincio a pedalare. Non so stasera cosa riuscirò a dire a Guido.

Forse gli dirò “Mi dispiace” e forse una parola basterà e poi mangeremo la pizza e con lei un po’ di tempo leggero tornerà.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

 

Quei cómpiti da non fare compìti

Quei cómpiti da non fare compìti

Non sono colomba o coniglio

ma ti offro qualche consiglio;

non sono coniglio o colomba

io lo suonerei con una tromba.

Durante le prossime vacanze

c’è bisogno di belle speranze:

quelle di far ciò che ci piace,

e anzitutto che arrivi la pace.

Quindi datti da fare anche tu,

per donare gioia in su e in giù.

Si può fare in diverse maniere,

basta non stare fermi a sedere.

Tu divertiti che ce n’è bisogno,

poi confida a chi vuoi un sogno.

Leggi tutto il bello che puoi,

leggi a voce alta e a chi vuoi.

Scrivi usando bella calligrafia,

usa la luce come in fotografia.

Canta canzoni, come ti pare,

inventane una: tu puoi creare.

Studia, ripassa, non fare scene;

ti fa molto bene e ti conviene.

Salta e divertiti allegramente,

balla in un modo divertente.

Costruisci una cosa originale:

se la penserai tu sarà speciale.

Se stai da solo o con gli amici

ricorda che è bello esser felici.

Non sono un uovo o un pulcino

e te lo dico come un bambino;

non sono un pulcino o un uovo

ma il mio consiglio te lo rinnovo:

scoprire l’altro è una meraviglia.

Veri auguri a te e alla tua famiglia!

PRESTO DI MATTINA
L’albero della Pasqua

 

Quanto è accaduto a Pasqua, il senso e le ragioni più intime di questo evento cruciale per la storia dell’uomo restano nascoste in Dio. E tuttavia non ci sfugge del tutto la forza di questo amore vittorioso sulla morte, dell’innesto di una nuova vita per ferita nel vivere umano reso sterile da una malvagità mortale, come quando s’innesta un pollone fruttifero, un buon virgulto, in una pianta selvatica. Il mistero di questa polla segreta si riversa nelle pieghe della storia, e da quella frattura sorgiva continuano a fluire e riverberarsi, riflettendosi nell’acqua, le tracce dei passi di Gesù risorto, come a proseguire quelle lasciate dal Padre sul Mar Rosso (nel Salmo 77): «Ti videro le acque, o Dio, ti videro le acque e ne furono sconvolte; sussultarono anche gli abissi. Sul mare la tua via, i tuoi sentieri sulle grandi acque, ma le tue orme rimasero invisibili». Ne troviamo traccia nei fatti accaduti allora: le donne che arrivarono al sepolcro scoprendolo vuoto; gente che si credeva ormai priva di speranza ritrova una strada; l’angoscia iniziale si dilegua di fronte al nulla fino a intuire, in quella fine del nulla che resta, un nuovo inizio.

Accadde la Pasqua nei suoi amici, così li aveva chiamati prima della sua passione. Dalla paura germogliò una gioia grande; dalla rassegnazione sgorgò una fede dapprima incredula, incespicante, poi balbettante e, a poco a poco, capace di annunciare con la stessa vita ciò che era accaduto loro: l’uscir fuori nel silenzio della notte come da candida crisalide ‒ non più che un lenzuolo funerario ‒ lo Spirito del Risorto nella sua carne gloriosa, datore di riconciliazione e di vita, che li saluta: “Pace a voi, venite, guardate, sentite, toccate le ferite, sono proprio io, non un fantasma. Avete qualcosa da mangiare?”. E poi il coraggio di ripartire ancora oltre i confini d’Israele: «non portate borsa, né bisaccia, né sandali. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa”» (Lc 10,4). Ma non si fermò tutto in quel giorno.

Le orme impresse dallo Spirito per configgere Gesù Cristo ‒ come direbbe Francesco d’Assisi ‒ “in interiore homine”, hanno continuato a lasciare traccia nella trasformazione delle coscienze delle donne e degli uomini che sono venuti dopo, trasfuse nelle forme nascenti e aurorali di un nuovo stile di vita personale, sociale, religioso. Altri passi generativi di nuove storie di morte e risurrezione, di liberazione e di fraternità nei luoghi della schiavitù e dell’inimicizia. Come innesti vigorosi e fruttiferi su rami secchi o tagliati dell’umano vivere che nel momento in cui vengono percossi, feriti da quella salutare incisione, da quella stessa Pasqua, ne sono stati risanati. Guarisce così l’arbusto selvatico dalla sua sterilità di amore, e il suo futuro sarà come quello dell’ulivo cantato nel Salmo 52: «un olivo verdeggiante nella casa di Dio è chi confida nella sua fedeltà per sempre». Si diffonde e dilaga questa buona notizia ‒ come ci preannunciò il profeta Osea ‒ un vangelo per tutti ad un tempo attraente e fragrante: «si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’olivo e la fragranza del Libano» (14, 17).

Anche Paolo, l’errante tra le genti, nella lettera ai Romani ricorre alla metafora dell’innesto nell’ulivo per ricordare ai cristiani venuti dalle genti che la loro elezione in Cristo, mediante il dono pasquale del battesimo, va considerata come un trapianto nel buon ulivo dell’elezione di Israele. Elezione che resta indefettibile e non è andata perduta nemmeno con il rifiuto di quel virgulto cresciuto in terra arida. Anzi fu proprio grazie a quel rifiuto ‒ dirà ancora Paolo ‒ da quella spaccatura che fuoriuscì un’alleanza per tutti i popoli, accolti nell’alleanza primigenia e mai revocata con Israele.

Per questo i pagani, divenuti cristiani, dovranno guardarsi ‒ è ancora Paolo ad ammonirli ‒ dal disprezzare la radice da cui loro stessi hanno avuto vita e bandire ogni presunzione nei confronti di Israele. «Se alcuni rami sono stati tagliati e tu, che sei un olivo selvatico, sei stato innestato fra loro, diventando così partecipe della radice e della linfa dell’olivo, non vantarti contro i rami! Se ti vanti, ricordati che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te. … Se sei stato innestato su un olivo buono, quanto più essi, che sono della medesima natura, potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo!», (11, 17-18; 24).

Non diversamente si esprime anche Cirillo di Gerusalemme (313-386) nelle sue catechesi mistagogiche sul battesimo: «Recisi dall’oleastro siete stati innestati nell’ulivo buono e siete divenuti partecipi dell’abbondanza dell’ulivo. L’olio simboleggia la partecipazione all’abbondanza del Cristo che mette in fuga ogni traccia di potenza avversa. Egli è stato unto dell’olio spirituale di esultazione, cioè dello Spirito Santo chiamato olio di esultazione perché è l’autore della gioia spirituale. Voi siete stati unti di balsamo divenendo partecipi e compagni di Cristo», (Le catechesi ai misteri, 62-63; 68).

Ulivo gioioso e olio di letizia è Gesù a Pasqua. Nel testo di Isaia letto proprio da Gesù nella sinagoga di Nazareth (Lc 4, 18) che ispirerà e guiderà il suo ministero tra la gente per tre anni ‒ parole programmatiche di un annuncio e di una missione di consolazione ‒ l’olio ha la funzione di unire la sua persona con la sua stessa missione, quella dell’unto di Dio, il Messia: «Lo spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati» (Is 61,1-3). Lo stesso testo ci ricorda anche che la guarigione avviene mediante l’unzione con olio gioioso: «per allietare gli afflitti di Sion, per dare loro una corona invece della cenere, “olio di letizia” invece dell’abito da lutto». È “l’ulivo di unzione in misericordia” evocato da santa Caterina Vegri del nostro Corpus Domini di Ferrara, nel testo mistico I dodici giardini.

Il Cristo, a Pasqua, non è però solo l’unto del Signore, il suo Messia. Egli è l’«ulivo bello» riemerso dalle acque del diluvio, portato dallo spirito a Noè, il cui nome significa consolazione, riposo, conforto: «sul far della sera ecco la colomba aveva nel becco una tenera foglia di ulivo» (Gn 8,10). Il più bello tra i germogli di umanità, diffusa è la grazia sui suoi rami, benedetto per sempre da Dio; procedono da lui verità, mitezza, giustizia; le sue vesti son tutte mirra, aloè e cassia (Sal 44); vittorioso sull’ombra di morte, perché le sue grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo (Ct 8,7).

Nel diluvio, l’ulivo e le altre piante non furono risparmiate, ma sommerse e travolte da onde impetuose. Esse tuttavia riemersero di nuovo al riemergere della terra nuova, come una rinascita. Forse fu per il loro spirito generoso, mite e innocente simile a quello del Servo del Signore cantato dal profeta Isaia: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca» (Is 53, 7). Del resto gli alberi non restituiscono nessuno dei colpi che vengono loro inferti, ma profumano di resina o di balsamo la scure che li recide. Non diversamente accadde a Gesù, la cui fragranza fluisce come olio profumato, lucente proprio quando viene percosso, privato dei suoi frutti come la bacchiatura delle olive (baculum /bastone). Come l’ulivo egli è un resistente e resiliente nella pratica della “satyagraha”, la “resistenza passiva”, o meglio letteralmente “insistenza per la verità”. Una resilienza nella verità che ben si coglie nell’interrogatorio di fronte al sommo sacerdote che gli chiedeva del suo insegnamento, quando Gesù rispose di aver parlato apertamente e insegnato in sinagoga e al tempio, tanto da invitarlo a interrogare quelli che l’avevano ascoltato: «Aveva appena detto questo, che una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: “Così rispondi al sommo sacerdote?”. Gli rispose Gesù: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?”» (Gv 18, 22-23).

Nel romanzo di Grazia Deledda Il fuoco nell’uliveto viene rappresentato il dramma del venir meno dei rapporti tradizionali di coesione familiare in ambito etico, sociale e religioso. Si descrive pure, con cruda aderenza alla realtà, la crisi e il processo di trasformazione e rinnovamento percorso per fuoriuscire da un passato antico verso una condizione germinale: il tutto non senza lacerazioni tragiche come quelle evocate, per l’appunto, dall’incendio tra gli ulivi: «C’è il fuoco nell’oliveto. Brucia la casa, bruciano gli olivi intorno: anzi la casa è già bruciata… Agostino e altri uomini accorsi tagliano le piante per fare uno spazio libero intorno all’incendio perché questo non si estenda». Ritorna qui l’avanzare doloroso ma irresistibile della vita, che urge anche in modo violento per trovare vie di uscita nel passato che la trattiene e rinchiude. Si sperimenta qui, come a Pasqua, l’urto tra vecchio e nuovo; tra ciò che non vuol morire e tenta di impedire un nuovo nascere. Qui, tra pessimismo e di-speranza tutto il dramma di una salvazione che per essere vera deve passare oltre.

La Pasqua non è di un solo giorno, ma mistero di transito di ogni giorno. Di qui l’attributo di transiliens, il ‘passatore’, conferito a Gesù, colui che passa oltre, che fa Pasqua. Un’espressione che si trova nei salmi e viene spiegata da Sant’Agostino: «Questo salmo è cantato dal transiliens. Da colui che non domanda a Dio nient’altro che lui stesso, che ama Dio gratuitamente». Lo ricalca quasi alla lettera Ruperto di Deutz, per il quale «Questo salmo è cantato dal transiliens – l’incipit è identico a quello del vescovo d’Ippona – e cioè da colui che oltrepassa tutto per non desiderare altro che Dio con tutta la sua volontà e la sua retta intenzione».

L’ulivo è l’albero della Pasqua. Prediamo le sue foglie brunite di un verde scuro ombroso, da un lato; dall’altro bianche, argentee, luminose e risplendenti al sole. In esse poi il vento genera un movimento continuo ed esse passano così dall’oscurità alla lucentezza simile ad un varco, quello che attraversando la morte approda alla vita come nel passaggio della Pasqua.

Albero della Pasqua è l’ulivo perché egli può anche essere paragonato a un “pozzo di luce”. C’è sempre un balenare di luce tra i suoi rami e le sue fronde, per l’aria che sempre l’attraversa anche nell’oscurità più profonda, restano luminose. Fa luce non solo all’intorno ma ‒ quale meraviglia ! ‒ la luce scende lungo i rami, dentro alle cavità contorte dello stesso tronco fino a raggiungere le radici. Come a Pasqua la luce raggiunge quel fondo senza fondo del pozzo di tenebra e di morte che è stato il sepolcro di Gesù, da cui è uscito, da oriente a occidente, l’Altro sole.

Così provo anch’io a pregare come un ulivo, avvalendomi di un testo poetico di padre Agostino Venanzio Reali, come un “bacio degli ulivi al sole”, che al tramonto passa oltre nella Pasqua di ogni giorno.

Se non torni con noi
la terra si oscura,
e mirare il verde degli ulivi
è tristezza se non torni
sul giumento a recar pace
alle case alle contrade.
(Primavere, 88)

Ti cerco, mia luce,
non voglio appartenere alla notte.
Mi vien dietro la morte
quando tu sei via
e nel silenzio l’anima
si tende all’ascolto
come sposa sola.
Non siano le tue labbra mute,
tu che desti una voce a ogni cosa;
dischiudimi la mente alla preghiera,
allungami il cavo della speranza,
tu che pendesti alla croce per me.
Volgendomi alla mia traccia
tremo come locusta
in un esausto sole di stagnola.
Oltre la soglia amata
la luce delle colline
la rugiada dei pleniluni
i miei occhi ti aspettano,
non paghi di simboli,
sul diaframma del mondo.
Il sole cade svenato
fra scolte di cipressi
baciato dagli ulivi
che si estollono a gara
a vederlo morire,
esangue rosa sul mondo
(Nostoi/ritorni, 73).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

 

Università e competizione: Il mito della meritocrazia

L’università italiana è malata di competizione. Periscopio ha già ospitato (qui) un commento al discorso che Alessandra De Fazio, presidente del Consiglio degli Studenti di Unife, ha fatto al Teatro Comunale, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico cui era presente, tra le autorità, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Il discorso ha toccato temi già affrontati nel 2021 da tre studentesse della Normale di Pisa, durante la cerimonia di consegna dei diplomi di laurea (leggi qui). De Fazio ha smascherato il mito della meritocrazia: una parola dietro la quale si cela un sistema basato sulla pura performance in unità di tempo. Ha denunciato il sistema delle borse di studio, “molto complesso a causa di sbarramenti burocratici, socio-economici e soprattutto meritocratici. Ma badate bene, ci viene data la possibilità di redimerci dalla nostra condizione di povertà, come fosse una colpa, a patto di esserne meritevoli, conseguendo risultati eccellenti entro periodi di tempo cadenzati e ristretti, tutto allo scopo di misurare quanto siamo performanti e catalogarci giusti articoli di una intensa produzione con il risultato di generare grandi bilanci sacrificando il benessere e la qualità del percorso accademico”.
Quindi: eccellenza (non buoni risultati), in tempi strettissimi (si impara una materia primaria studiandola 20 giorni e notti, o si passa un esame? a quale prezzo psicologico?) e da poveri (se non hai un Isee da indigente non hai diritto alla borsa).

“Si pensa banalmente che il merito possa essere un criterio equo, sostituto del vecchio privilegio del quale invece ha ereditato tutto il divario e la disparità, ma con una mutazione acquisita: l’ipocrisia. Le borse di studio sono un ricatto. Se tutti abbiamo lo stesso diritto perché qualcuna dovrebbe essere costretta a tenere tempi più serrati solo perché è più povera? Il sistema universitario è classista”.

De Fazio non denuncia semplicemente che le “pari opportunità” valgono solo per chi è povero in canna e, in quanto tale, deve dimostrare di essere un genio.
Quando parla del disagio mentale di chi non performa abbastanza per uscire dal mucchio e diventare un ‘povero che ce l’ha fatta’, dice qualcosa di più profondo, in cui risuona l’eco delle idee del professor Vittorio Pelligra, quando afferma: “(la meritocrazia) si basa su due assunzioni, verosimili, ma false entrambe: la prima, che i meriti individuali siano evidenti, facili da identificare, classificare – tu più, tu meno – e da ricompensare. La seconda, falsa anch’essa, che il mercato, e, più in generale, la logica della competizione, sia il meccanismo più efficace nel riconoscere e premiare tali meriti”. Mitizzare la meritocrazia significa spesso travestire con un abito figo una riproduzione familista della classe dirigente, come quando ancora Pelligra dice: “Il problema… non nasce quando desideriamo che la persona più capace diventi il neurochirurgo che vorremmo ci operasse nel caso ne avessimo bisogno, ma quando l’ideologia meritocratica rende più probabile, per il figlio di quel chirurgo, diventare quello stesso neurochirurgo per qualcun altro e quando questo, di conseguenza, rende più difficile ai figli di altri, indipendentemente dalle loro capacità, provare a diventare quello stesso chirurgo e, che, infine, questi privilegi ereditari vengano giustificati sulla base dei concetti di merito e demerito.” (leggi qui l’articolo di Periscopio che cita diffusamente il lavoro del prof. Pelligra).

Non la vedete attorno a voi questa riproduzione classista e familista?
Quanti stimati chirurghi, notai, manager sono figli di un carpentiere, di una donna delle pulizie, di un manovale?
Uno su mille ce la fa, cantava Gianni Morandi: una frase, nella sua semplicità, più aderente alla realtà di tanti slogan ottimisti sui “capaci e meritevoli” che vogliono e, quindi, possono. No, la stragrande parte vuole ma non può, e non potrà né oggi né mai.

Naturalmente un arrivato come il deputato Luigi Marattin, laureatosi a Ferrara, anch’egli presente tra le autorità, non ha perso l’occasione di stigmatizzare, su un quotidiano locale, le parole di De Fazio, scrivendo che “non ha voluto neanche ragionare più approfonditamente sul concetto di meritocrazia”.
E’ vero esattamente il contrario: quando Marattin fa la caricatura di De Fazio, descrivendola come una che vagheggia “un mondo in cui ci sono solo diritti e nessun dovere”, fa un’affermazione talmente superficiale da offendere persino la propria, di intelligenza.

Storie in pellicola /
La Straferrara in un documentario per raccontare 90 anni di teatro e di passione.

Presentato oggi il documentario sulla compagnia dialettale La Straferrara: una straordinaria avventura di 90 anni, memoria storica da salvare. Abbiamo incontrato Stefano Duo, il suo ideatore.

Conferenza stampa 6 aprile 2023, sala dell’Arengo della residenza municipale di Ferrara ( foto Valerio Pazzi)

Una compagnia teatrale dialettale affiatata e unita che ha oltre 90 anni, un successo dopo l’altro per un caso unico in Italia: la stessa famiglia l’ha gestita fin dalla sua creazione.

È la Straferrara. Fondata il 14 agosto 1931 da Ultimo Spadoni, Mario e Piero Bellini, Renato Benini, Leonina Guidi Lazzari, Arnaldo Legnani, Umberto Makain, Norma Masieri, Erge Viadana, lo stesso anno, il 3 settembre debutta al teatro dei Cacciatori di Pontelagoscuro con la commedia Padar, fiol e …Stefanin e la farsa L’unich rimedi, scritte entrambe da Alfredo Pitteri. Da allora, con un esordio da ‘tutto esaurito’ e un incasso di 716 lire, inizia la carriera di questa fantastica avventura: si calcano i palcoscenici del cinema-teatro Diana, dei teatri Nuovo e Verdi di Ferrara fino a quelli del Rasi di Ravenna, del Duse di Bologna e del Regio di Parma.

Durante la Seconda Guerra Mondiale la compagnia continuò la propria attività, pur sotto le incursioni aeree: il 23 aprile del 1945, la Straferrara fu sorpresa dalla prima granata caduta sulla città al teatro Diana dove stava rappresentando A la bersagliera, di Alfredo Pitteri. Portava lo svago agli sfollati in provincia e cercava di mantenere alto il morale di una popolazione stanca e provata. Onore al merito!

Nelle cronache di quel periodo molto citata e apprezzata è ‘Cici’ Rossana Spadoni, figlia del fondatore della compagnia, che a cinque anni era considerata una bambina prodigio, chiamata la Shirley Temple italiana.

‘Cici’ Rossana Spadoni

La Straferrara approdò a Roma nel luglio 1942 per il concorso nazionale delle compagnie minime di prosa svoltosi al Teatro delle Arti dove presentò due opere in lingua: Fuori dal nido, di Eligio Possenti e L’ombra, di Dario Niccodemi. Un buon risultato la fece annoverare tra le compagnie sovvenzionate dallo Stato. In occasione della trasferta la scrittrice Flora Antonioni dedicò a ‘Cici’ Rossana Spadoni una delle sue “lettere romane” che scriveva per Il Resto del Carlino. Una recita, in cui scrive, “fai piangere gli uomini perché sei davvero un’attrice, un’attrice nata che giustamente vuol fare cinema e quando ti troverai a recitare di fronte a un regista, anche il più glaciale del mondo, lui dovrà cercare il fazzoletto per asciugarsi una lacrimuccia e ti prenderà in braccio, commosso, per dire che sei una stella. Un’italianissima stella”.

I successi continuano: il primo premio assoluto al concorso regionale dei complessi dialettali emiliani al teatro comunale Giuseppe Verdi di Busseto (1963), un premio alla rassegna nazionale di Faenza al teatro Masini (1963), fasti rinnovati dalla direzione di Beppe Faggioli, genero di Spadoni (marito di ‘Cici’), che vi subentra nel 1966.

  • Ricordiamo anche il premio Masi-Recchi ricevuto dalla Camera di Commercio locale (1976) e un premio alla carriera attribuito Beppe Faggioli dall’Associazione Stampa di Ferrara (1996). Passando per il 1992 (anno in cui la compagnia porta alla luce, al Teatro Comunale di Ferrara, Madonna Frrara ch’è vvgnù in Villa, un manoscritto di ignoto del XVII secolo che giaceva ignorato nella Biblioteca Estense di Modena dove fu trovato tra carte inedite estensi dal prof. Alfonsi Lazzari) fino ai giorni nostri (l’ultimo spettacolo è Pez da 90, rappresentato al Comunale di Ferrara a novembre 2022).

Oggi, a raccontare questa compagnia dialettale un documentario,90 anni di applausi – La Straferrara”, diretto da Mattia Bricalli e ideato da Stefano Duo, che ha vissuto la compagnia negli ultimi venti anni. Stefano, cantante, chitarrista e attore, vuole soprattutto rendere omaggio a ‘Cici’. È il suo regalo.

Gli abbiamo chiesto come ha iniziato il suo idillio e bel sodalizio con La Straferrara, come è nato il progetto e con quali motivazioni e obiettivi.

“Quando giravano a Ferrara molte produzioni chiamavano la compagnia”, ci dice Stefano Duo, “Nel 2003, mi trovavo sul set di Baciami piccina, di Roberto Cimpanelli, avevo una piccola parte, una figurazione speciale e interagivo con Neri Marcorè. Non pensavo di certo a fare teatro, non ho memoria, ho sempre ritenuto che sia meglio il cinema, si girano piccoli pezzi e poi si montano. ‘Cici’ Spadoni si trovava lì e, vedendomi, ha chiesto di me. Voleva che facessi parte della compagnia. Le ho detto che proprio non me la sentivo, ma mi ha obiettato che avevano il suggeritore e che non mi dovevo preoccupare. Da allora ho iniziato a recitare con la compagnia e dopo un anno avevo all’attivo sei commedie. Mi hanno accolto a braccia parte, oggi vi sono veramente affezionato”, conclude.

Il progetto di raccontare questo percorso così importante per la città nasce non solo dall’affetto e dalla stima per la persona di ‘Cici’ Spadoni ma anche per la volontà di valorizzare l’immenso patrimonio che la signora detiene. “’Cici’ ha tutti i calendari degli spettacoli, i registri scritti a mano, con le parti, gli attori e i loro compensi, dal 1933. C’è la storia, racchiusa in questi documenti”, ci racconta, “tutti i carteggi sono tenuti da lei, si trovano a casa sua. Vanno conosciuti e preservati”.

 

“Alla compagnia, poi non è mai stata data una sede”, ci dice Stefano Duo, “ma è una vera istituzione e meriterebbe un valido riconoscimento, chissà che con il documentario non si apra qualche strada…”. Dietro ci sono quindi anche l’idea e la speranza che l’amministrazione comunale ne voglia fare un piccolo museo. Si tratta di un patrimonio della città. E, non da ultimo, il desiderio che alla compagnia si voglia, finalmente, dare una sede.

“Il sogno sarebbe anche quello di uscire da Ferrara”, continua, “di portare il dialetto ai giovani, e poi questa attività è fatta non solo di tanto palcoscenico ma anche di scuola”. E di scuole che fanno teatro dialettale, a parte la Tréb dal Tridèl, Cenacolo di Cultura dialettale ferrarese fondata, nel 1980, da Roberto Musacchi, non ve ne sono molte.

Prima del Covid, alla Sala Estense, da dicembre a marzo, ogni domenica pomeriggio vi era uno spettacolo della Straferrara. Ricordiamo anche noi i cartelloni colorati. L’epidemia ha fermato e rallentato tutto. Fino a Pez da 90. Oggi la compagnia, che da sempre si autofinanzia con gli spettacoli, è formata da una ventina di persone.

“Il dialetto si sta perdendo”, dice Stefano, “era importante fare un documentario, dove lo spettatore troverà interviste ma nessun audiovisivo dell’epoca, che manca totalmente negli archivi. Siamo partiti solo da copioni e foto. Abbiamo raccontato di ‘Cici’ quando passeggiava sul Listone, siamo entrati nel magazzino dove sono conservati i vestiti di scena, siamo stati ospiti del suo salotto, prendendo un thè in sua compagnia. Al nostro intervistatore, Guido Sproccati, lei si racconta come un fiume in piena, è inarrestabile”.

Il documentario di 50 minuti è nato quindi dagli archivi di questa artista unica e poliedrica, dalla bacheca di riconoscimenti che custodisce gelosamente, dai suoi racconti e dal libro di Maria Cristina Nascosi Sandri, biografa ufficiale della compagnia.

Da sinistra: Stefano Duo, Guido Sproccati, Mattia Bricalli

A Stefano piace ancora ricordare che le commedie della Straferrara sono state scritte anche da matrici diverse, italiane e straniere, poi recitate in dialetto. Sono storie, spaccati di vita dell’epoca, quando si voleva far ridere e sorridere senza cadere nel volgare.

La compagnia ha attraversato il Ventennio fascista, facendo piuttosto varietà, perché l’uso del dialetto era, per usare un eufemismo, osteggiato. Dialetti e lingue minoritarie erano visti come potenziali forze centrifughe e quindi contrastati con misure di unificazione forzata. L’avversione ai dialetti fu dettata dal timore che alimentassero spinte regionalistiche e localistiche. Il divieto di impiego dei dialetti fu rigido nella stampa, nella letteratura e nel teatro, mentre per non perdere il consenso delle masse dialettofone si praticò maggiore tolleranza nel cinema, specie durante la guerra.

Ma la compagnia continuava, con cautela. Recitava sotto i bombardamenti, non si è mai fermata, ci si gettava nei fossi durante la pioggia di granate. Si correva con i costumi.

Tanti gli aneddoti nel documentario: un’attrice non sapeva andare in bicicletta e allora veniva trasportata su un carretto; durante i bombardamenti c’erano buchi per le strade dove ripararsi. Al ronzio dell’aereo da caccia Pippo – o, meglio, degli aerei notturni perché erano numerosi -, i più pericolosi perché arrivavano senza allarme e mitragliavano a caso, tutti giù, nascosti in quei buchi, ma a un certo punto, un comico grida “occupato” … E tanto altro. Non ci si è mai persi d’animo, bisognava lavorare per rallegrare.

A ‘Cici’, quando parla, oggi trema leggermente la voce, in fondo è timida e si emoziona a tanti ricordi. Da perplessa, all’inizio di questa avventura, a felice, quando vede la sua storia sullo schermo. Perché è importante dare emozioni, interpretare. E lei lo ha fatto per tanti ferraresi e non. Per lungo tempo. Buona visione.

‘Cici’ Rossana Spadoni in “Pez da 90”, Teatro Comunale di Ferrara, nov.2022

Il documentario verrà proiettato in prima visione al Cinema Apollo Cinepark, il 12 aprile 2023, alle ore 21, al costo simbolico di 5,00 euro. Al termine della proiezione Rossana Cici Spadoni e gli attori saranno a disposizione del pubblico per domande e curiosità.

90 anni di applausi – La Straferrara, diretto da Mattia Bricalli, ideato da Stefano Duo, con Rossana ‘Cici’ Spadoni, Guido Sproccati, Stefano Duo, Maria Cristina Nascosi Sandri, Italia, 2023, 50 mn.

Cover: Rossana ‘Cici’ Spadoni in scena al Teatro Comunale Abbado di Ferrara nella commedia “Pez da 90”, novembre 2022
Tutte le fotografie sono di Valerio Pazzi

Numeri /
I “poveri assoluti” sono triplicati in 15 anni

Nel 2005 erano 1,9 milioni i “poveri assoluti”, nel 2021 sono cresciuti a 5,6 milioni (2,3 al Nord; 2,5 al Sud; 819mila al Centro, fonte Istat). Con l’alta inflazione del 2022 e quella del 2023 sono saliti (oltre 6 milioni?).
Ora il Governo taglia il sussidio principale ai poveri, il Reddito di Cittadinanza, da 8 miliardi a circa 5, riducendo la soglia Isee per ricevere l’aiuto (da 9.360 euro annui a 7.200) e, per chi è “occupabile”, (anche se non gli viene offerto il lavoro) da 500 euro mensili a 375. Ai ceti medi, colpiti anch’essi da inflazione e più redditi, si offre di colpire gli “ultimi” anziché i ricchi.

Per essere “povero assoluto” il reddito mensile deve essere inferiore a 853 euro (se si vive in una città metropolitana al Nord), e a 577 euro se si vive in un’area debole del Sud (redditi 2021). Istat considera il potere d’acquisto che varia del 33% tra le metropoli del Nord e i piccoli paesi del Sud.

I “poveri relativi” sono invece cresciuti da 10,1 a 11,2milioni (in due si deve avere un reddito inferiore a 1.040 euro in media).

Nel frattempo anche il welfare (sanità e scuola) si è ‘deteriorato’. I figli di genitori senza diploma si laureano solo nell’8% dei casi. I giovani accedono alle droghe in età sempre più giovane con gravissime conseguenze e la nuova scuola digitale rende tutti più analfabeti e dipendenti. Ciò avviene nel periodo della storia in cui è massimo l’aumento di ricchezza.

E non è vero che l’occupazione cresce, è circa agli stessi livelli del 1990.

Ciò che cresce sono solo soldi (per pochi) e diseguaglianze. L’Italia ha un tasso di diseguaglianza (41,6 Gini, fonte Istat) simile a quello Usa, ma ci sono paesi in cui è quasi la metà (Svezia, Danimarca, Finlandia, 29-27).
In questi paesi welfare e sussidi sono forti (oltre ad esserci più lavoro). Per fare un esempio, una donna con 2 figli percepisce 1500 euro al mese se non guadagna nulla, e 800 euro se ne guadagna 600 al mese.

Basterebbe far pagare le tasse in modo progressivo a tutti o quelle di successione ai ricchi come avviene in UK, Germania, Francia o in Usa dove una settimana fa l’Agenzia delle Entrate ha riscosso 7 miliardi di dollari dal decesso di un miliardario (più o meno quanto costa allo Stato italiano il Reddito di Cittadinanza per gli attuali percettori (2,1 milioni), pari a un terzo dei “poveri assoluti”.

Parole a capo
Cristina Simoncini: Tre poesie

“Ogni cosa ha la sua bellezza, ma non tutti la vedono.”
(Confucio)

I
Chissà se potresti capirlo
guardando quella foto,
se lo accenna o lo confessa
la piega scontrosa del sorriso,
o il braccio magari, se spunta
nella presa un’insidia di fine
senza tentennamenti,
se il quadretto domestico
ha un risvolto livido –
interrompiamo un attimo
il respiro per dirvi – se si nota
la cravatta atta ad allentarsi,
l’orologio al polso che
svela la durata, e l’età allora
delle bambine, troppo distratte
per sentire la voce premurosa
che si affaccia dal portone:
ora del decesso, adesso.

II
Negli anni ho provato a osservarti
da un’altra prospettiva – da dietro
vince ancora la parabola del corpo.
Una falce puntata sulla schiena, dici.
Sei seduta sulla soglia della finestra,
di fronte, la collina vuota e bruciata – mi vedi?
“quando luglio è ardente, miete lesto”,
la macchia di silenzio si allarga nella testa,
ma è solo la metà di te che vuole andare.
O forse sono io, così è consolazione.
Ti racconterò di Deiva, della sera
lenta e rosata che sale su dal mare,
al telefono non parli – allora è vero,
niente può essere mosso nel passato.
Resta il fermo immagine, lo scatto
in cui il tempo si congeda dal tempo,
la lotta con la memoria che ingombra
– cose senza peso, i fermagli, i coralli
della spilla, la moka per due, la foto
nel cassetto dove tua figlia sembra affievolirsi.
Non avremo una parola per riconoscerci.

III
Scrivere di te vuol dire sondare
il mio silenzio, ascoltarlo dal fondo
di un pozzo in cui ristagna una pellicola
bagnata col tuo volto

lasciare che rimbombi
il mio trauma, la trama di paura
di cui sono fatta.

Cristina Simoncini (1966) è nata a San Giovanni Valdarno, ha pubblicato su molti blog e riviste online, da poco anche su carta.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
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