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SUI CRINALI DEL MONDO
Contro gli ecomostri eolici che devastano il nostro Appennino

 

Il 19 marzo 2022 nel Comune di San Godenzo (Firenze) si è svolta un’importante iniziativa per affermare una volta ancora che i Crinali di Monte Giogo di Villore nel Mugello non sono luoghi idonei alla costruzione di un impianto industriale di pale eoliche alte 169 metri, con apertura di strade larghe dai quattro ai dieci metri, cantieri, basi di cemento grandi come campi di calcio.

I territori dei crinali sono contigui al prestigioso Parco Nazionale Foreste Casentinesi che ha ricevuto premio nella Green list dei tre luoghi meglio conservati in Italia, di conseguenza costituiscono corridoi ecologici per la fauna del Parco, rotte migratorie, aree a speciale conservazione, protezione, denominate Natura 2000 per la varietà di ecosistemi fragili e preziosi e per la ricchezza della biodiversità della flora e della fauna.

Un indicatore inconfutabile dell’ottima conservazione dell’habitat naturale di questi territori è dato dal ritorno dell’aquila reale veleggiatrice a rischio di estinzione che correrebbe gravi pericoli di vita in presenza degli aerogeneratori, come dimostra la letteratura scientifica in merito.

I Crinali sono interessati a un’ampia e famosa sentieristica appenninica che ha visto unirsi, nell’organizzazione della Camminata aperta a tutti sui luoghi dove si vorrebbe fare l’impianto, il CAI della Toscana e il CAI dell’Emilia Romagna. I camminatori hanno potuto ammirare l’unica e introvabile bellezza naturale e paesaggistica dei luoghi con i loro richiami culturali e poetici a Dino Campana e ai noti Canti danteschi della Divina Commedia, immergendosi in un santuario naturale e spirituale che verrebbe irrimediabilmente profanato e compromesso per le generazioni future.

Nel pomeriggio le realtà territoriali contadine, produttive e culturali della cittadinanza partecipata hanno organizzato banchi, merenda in compagnia, musica con gruppi locali e tanti interessanti interventi con esponenti di associazioni, amministratori ed esperti del territorio e dell’ambiente.

L’estrema fragilità dei luoghi, classificata P4 per il rischio idrogeologico e la criticità sismica trovano conferma nelle scosse di terremoto verificatesi nel pomeriggio del 23 marzo (alle ore 17.45, magnitudo 2.1), con epicentro nel Comune di San Godenzo a nove chilometri di profondità.

Dato il raro valore dei luoghi, la Sovrintendenza e il Parco si sono espressi in modo contrario all’intervento di impianto industriale eolico che inizierebbe con sette pale e poi proseguirebbe quasi certamente sui crinali dell’Appennino tosco-emiliano. Anche diverse Associazioni ambientaliste e Comitati di cittadini hanno deciso di ricorrere al TAR per proteggere e difendere questi luoghi unici e non reperibili altrove.

Per mettere a conoscenza la popolazione della situazione in atto verrà organizzata nel Comune di Dicomano, Firenze, una Tavola Rotonda il 2 aprile alle ore 15 al Teatro in via Mazzini 49 con la partecipazione di enti, associazioni, amministratori, esperti del territorio e personalità della cultura alla quale è invitata tutta la cittadinanza.

Sul tema degli impianti industriali eolici e  fotovoltaici vedi anche l’articolo di Marina Carli Energie rinnovabili: la grande illusione verde

Frammenti di un discorso odoroso … un racconto

 

Spesso, la pubblicità porta in primo piano l’odore o, meglio, gli odori. Il sugo sulla pasta, il profumo… malizioso e complice di un cosmetico, il bucato col suo odore di pulito che non può che essere inquadrato in un interno di casa medio borghese. Ricordo che, oltre quarant’anni fa, un famoso musicista italiano pubblicizzava una birra con un po’ di schiuma sul naso dicendo (più o meno) “Chi ha naso, beve…”.

L’odore, nel senso di profumo, fa parte della vita quotidiana di tante persone, ma i bambini fanno spesso eccezione. Si dimenticano di lavarsi la faccia alla mattina, prima di andare a scuola, anche i denti non sono molto gettonati e l’alito che ne consegue lo conferma… Anch’io, quand’ero piccolo, non mi lavavo molto o, meglio, avevo un approccio alla pulizia del corpo in sintonia con le stagioni più miti. La scelta era dettata anche dalla necessità, ma diciamo che, la difficoltà di predisporre gli strumenti del lavaggio (la mastella, l’acqua calda scaldata nel pentolone sulla stufa, la legna che non sempre c’era perché mancavano i soldi), favoriva la diserzione da odori più favorevoli alla socializzazione.

Ricordo che in terza elementare c’erano alcuni miei compagni di classe che non mi erano amici perché dicevano che puzzavo. Erano figli di famiglie altolocate, ma penso che fosse una coincidenza perché con altri compagni della stessa categoria giocavo, sudavo, puzzavo e (poco) mi lavavo come loro, con la differenza che in quelle case, c’era già una stanza predisposta per il bagno.

Il maestro Alceste, per cercare di porre fine a divisioni nella classe, che avevano portato alla formazione di piccole bande, pensò di affrontare il problema con una soluzione di tipo… sportivo.

Dato che il capo dei bambini che non mi accettava era un certo Biancalana, di carnagione chiara, sempre pulito e profumato come se vivesse tutto il giorno in una vasca piena di detersivo (una volta c’erano le pubblicità molto gettonate dei detersivi per il bucato a mano, Olà o Tide), Alceste chiese ad entrambi se eravamo disposti a fare una gara di corsa, sulla distanza di circa 100 metri, nel giardino interno della scuola.

Chi vinceva avrebbe dettato le condizioni: continuare la presa in giro o fare amicizia. Eravamo alla fine di ottobre e, fortunatamente, il tempo tenne. Un freddo sabato mattina, con un sole che ormai non sudava più, ci fu la sfida. Tra due piccole ali di bimbi, scattammo al via e, dopo un forsennato testa a testa, superai di un soffio il mio compagno sul filo di… Biancalana. Il maestro Alceste mi strizzò l’occhio e io, in cambio, mi lavai più spesso.

Un’altra immagine di forti odori è collegata ai periodi estivi oltre il Reno, dai nonni materni a Lavezzola. Nella stanza dove dormivo, o dove andavo a riposare al pomeriggio, c’erano due travi da cui scendevano sempre prosciutti, salami, palle di grasso… e il profumo intenso delle trasformazioni suine si mescolava al fresco di una stanza, costruita con muri che supplivano bene alle esagerazioni delle diverse stagioni.

Gli oligarchi del gas di casa nostra

 

C’erano una volta le aziende pubbliche di servizi: le municipalizzate per gas, acqua, rifiuti, trasporti. Lo scopo era di garantire l’erogazione di servizi pubblici efficienti e vantaggiosi per i cittadini, facendo pagare il giusto agli utenti-clienti.
Certo, molte cose potevano essere razionalizzate, ed infatti si pensò di farlo ingaggiando operatori più grandi. ma pur sempre controllati dai Comuni.

Poi le società si quotarono in borsa e diventarono sempre più dei colossi, sempre più privatizzati (Hera spa è un esempio) e così lo scopo è divenuto il business: profitti soddisfacenti. Hera fa tante cose positive per la sostenibilità ma il primo interesse dovrebbe rimanere quello dei suoi clienti-cittadini.

E qui assistiamo al primo paradosso: i Comuni divenuti azionisti sono più attenti a ottenere buoni ritorni annuali delle loro quote (utilizzate per buone finalità) che non a verificare l’efficienza dei servizi e i prezzi fatti ai cittadini utenti, per esempio fare più investimenti per ridurre gli sprechi dell’acqua della rete e tenere calmierate le tariffe  (specie le fasce più povere), che ovviamente comporta minori profitti e meno dividendi dalle azioni.

Oggi per i Comuni – ad esempio il Comune di Ferrara, che ha venduto quasi tutte le sue azioni – Hera si può ‘controllare’ solo attraverso i contratti di servizio, che incidono su piccole cose, ma sono impotenti sulle tariffe.

Persino il costo del riscaldamento da fonte geotermica ha come riferimento il valore di mercato del gas metano: ci si fa forti della conversione al sostenibile, riducendola però al meccanismo dei carburanti fossili.

Nel 2021 Eni ha fatto 4 miliardi di utili e ne farà 14 nel 2022. Hera ha aumentato i ricavi del 49% a 10,5 miliardi di euro, per merito dei settori energy, per le attività di intermediazione, per il gas e l’aumento dei prezzi delle commodities. Il Margine operativo lordo (Mol) è cresciuto a 1,2 miliardi di euro (+9%), per i buoni risultati di energia e rifiuti. L’utile prima delle imposte a 492 milioni (+13%) e l’utile netto a 373 milioni (+15%). In forte crescita anche l’utile degli azionisti che sale a 333 milioni (+10%).

Ottimi risultati, che saranno ancora maggiori nel 2022, ma a vantaggio di chi?

Le famiglie hanno pagato in media di gas 1.320 euro nel 2020, 1.523 nel 2021 e si apprestano  a pagarne 3.000 euro nel 2022, passando da una spesa di 34 miliardi nel 2020 a 60 nel 2022. Per le imprese l’incremento è ancora maggiore (da 10 a 50 miliardi).

Gli importi abnormi delle ultime fatture Hera vengono fatti passare come conseguenza della guerra Russia-Ucraina. Ma già le fatture precedenti, quando non c’era ombra di sanzioni e ritorsioni, avevano registrato balzi del prezzo del gas a metro cubo (come Enel per l’elettricità). Già nell’ultimo trimestre 2021 ai distributori di carburanti le cifre aumentavano giorno per giorno.
Dalle fatture Hera si evince che il prezzo del gas all’ingrosso è aumentato da 0,173 euro al metro cubo di ottobre 2020, a 1,036 di novembre 2021 (e 1,286 di gennaio 2022). Ben prima dell’invasione dell’Ucraina, ben prima che scattassero sanzioni alla Russia, ben prima delle incertezze sulle forniture future.

A noi risulta che i contratti del gas siano per almeno per 2/3 dei volumi a 5 e più anni e che con uno stoccaggio del 90% si tira avanti per 2 anni e mezzo.Perché allora non si applicano i prezzi pattuiti a suo tempo? Perché lo stoccaggio non è stato fatto? Dov’é l’Europa?
Perché – mentre cresceva la dipendenza da gas russo (400 miliardi in Europa) e dal petrolio russo (170 miliardi) –  un anno fa ben 54 banche d’affari e 164 fondi finanziari speculativi (tutti occidentali) sono entrati nel mercato del gas per speculare? Evidentemente capiscono la geopolitica molto prima e molto meglio dei nostri governanti occidentali e delle multiutilities.

E’ vero come ha detto il ministro Cingolani che c’è una “truffa colossale”?
Il Governo era già intervenuto con 15 miliardi di aiuti, ora diminuisce le accise di 30 cent sulla benzina per 30 giorni, consente la rateizzazione dei pagamenti delle bollette e tassa del 10% gli extra-profitti.
Bene. Ma se gli extraprofitti attesi nel 2022 sono di almeno 40 miliardi (come dice anche il presidente della Confindustria!), vuol dire che il 90% rimane a carico dei clienti.

Ma com’è possibile che i prezzi delle bollette a cittadini e imprese siano fatti in base alle quotazioni del mercato di Amsterdam (Ttf) e non in base alle reali forniture?

Infine. nulla si dice su quel 10% di imposta sulle royalty dei prelievi, che fa dell’Italia il Paese più generoso d’Europa verso chi estrae gas dal sottosuolo e dal mare (la Norvegia ha costituito dalla tassa sulle royalty un fondo sovrano che sostiene il suo esemplare Stato Sociale).

Credo sia giusto sapere a che prezzo Eni e le grandi multiutily (Hera, Iren, Acea, A2A) hanno acquistato il gas (e le compagnie petrolifere che poi lo impongono ai distributori), in modo che sia chiaro a tutti che non ci sono speculazioni.
Se poi hanno fatto contratti “spot” per cui applicano il prezzo di mercato corrente, vuol dire che chi fa i contratti deve essere licenziato. E qualcosa di simile dovrebbe avvenire a livello europeo per l’incredibile mancato stoccaggio.

E’ inaudito che il prezzo di mercato del gas oggi influenzi le bollette che paghiamo, nonostante sia stato acquistato un anno fa a prezzi 10 volte minori. Riscaldamento ed elettricità sono beni vitali per i cittadini e non beni di lusso. Le  aziende dovrebbero servire prima di tutto i propri clienti, non i propri amministratori e gli azionisti.

Ma Eni, Hera, A2A chi sono? Sono ex-aziende pubbliche, passate di mano senza che i rispettivi attuali proprietari ci abbiano messo del proprio capitale a rischio.
Sono loro gli oligarchi italiani!
E sarebbe ora che il pubblico (Parlamento e Governo) alzasse la voce e li riportasse alla loro missionoggi esposta solo come vetrina pubblicitaria – e cioè la fornitura di servizi essenziali a prezzi convenienti, avviando un nuovo welfare in cui una quota minima di gas e di elettricità sia pagata a prezzo di costo per ogni singolo cittadino, in quanto bene primario.

Questo articolo è stato scritto in collaborazione con Rita Tagliati.

4 leggi di iniziativa popolare per cambiare la Politica Ambientale in Regione:
dal 1 aprile si raccolgono le firme nelle piazze.

 

Dai primi giorni di aprile si potrà firmare ai banchetti in tutta la nostra Regione per rendere possibile la presentazione di 4 leggi di iniziativa popolare regionale promosse dalla Rete per l’Emergenza Climatica e Ambientale Emilia-Romagna e da Legambiente regionale.
4 proposte di legge su questioni decisive rispetto alle politiche ambientali e di contrasto al cambiamento climatico: acqua, rifiuti, energia e consumo di suolo.

La genesi di questa scelta proviene da un percorso lungo, i cui presupposti stanno nel Patto per il lavoro e il clima promosso dalla Giunta regionale nel dicembre 2020 e sottoscritto da più di 50 tra Organizzazioni e Associazioni, a partire da quelle sindacali e imprenditoriali.
Quel Patto indicava obiettivi ambiziosi – il passaggio alle energie rinnovabili al 100% nel 2035 e l’azzeramento delle emissioni climalteranti al 2050 – ma, al di là del fatto che essi erano semplicemente enunciati e non supportati da interventi coerenti e cogenti, ancor più sono continuamente contraddetti dalle scelte del governo regionale.

Prevale, infatti, una logica economicista e produttivista, per cui l’importante è che ci sia una forte crescita quantitativa del PIL, senza verificare cosa ciò comporti per il benessere dei cittadini e per la salvaguardia delle risorse naturali ed ambientali.
Si continua a pensare che per tale sviluppo quantitativo è fondamentale attrarre investimenti, anche stranieri, al di là del loro impatto ambientale e anche delle ricadute sulla qualità e quantità dell’occupazione. Si ragiona sulle Grandi Opere, a partire da quelle autostradali, come leva per lo sviluppo, in continuità di un modello di mobilità basato sui veicoli privati e ignorando ciò che questa scelta comporta in termini di consumo di suolo.
Ancora: si prosegue con le privatizzazione di servizi pubblici, come quello idrico e della gestione dei rifiuti, che garantiscono la gestione di beni comuni fondamentali e si ripropone un’idea di produzione e distribuzione centralizzata e verticistica dell’energia, che ha come conseguenza quella di privilegiare le fonti fossili rispetto a quelle rinnovabili.

Una politica regionale in sintonia con quella del governo centrale, che, peraltro, utilizza la stagione terribile di guerra in corso in Ucraina per proporre ulteriori politiche regressive, in particolare in tema di energia, quando, a proposito di autonomia delle fonti, anziché puntare ad uno sviluppo rapido di quelle rinnovabili, si avanza l’idea di estrarre più gas e, addirittura, di far tornare in auge le centrali a carbone! Oppure quando, con il disegno di legge delega sulla concorrenza, attualmente in discussione in Senato, si prova ad estendere ulteriormente le privatizzazioni a tutti i servizi pubblici, da quello idrico ai rifiuti e alla sanità.

Le 4 proposte di legge di iniziativa popolare si muovono in direzione contraria e alternativa.
La proposta di legge sull’acqua
(e anche quella sui rifiuti) sposta l’intervento decisionale in materia più vicino ai cittadini e agli Enti Locali, superando l’attuale gestione centralizzata in Regione e riportandolo a livello territoriale e mette l’accento sul ruolo fondamentale della gestione pubblica.
La proposta di legge sui rifiuti si pone l’obiettivo di ridurre fortemente la loro produzione e quella dei rifiuti non riciclati, rendendo per questa via possibile l’uscita dal ricorso all’incenerimento nei prossimi anni.
La proposta di legge sull’energia è imperniata sull’idea della pianificazione regionale e territoriale degli interventi per arrivare sul serio alla copertura del 100% del fabbisogno energetico da fonti rinnovabili entro il 2035, alla riduzione del 32% dei consumi lordi finali al 2030 e del 55% di emissioni climalteranti al 2030, passando ad un nuovo modello basato sulla produzione e sul consumo decentralizzato e democratico.
La proposta sul consumo di suolo, dando priorità al riuso e alla rigenerazione urbana, anche attraverso un censimento degli edifici e delle aree dismesse, indica la prospettiva del consumo di suolo zero come quella da realizzare concretamente.

Pur dopo l’intervento della Consulta statutaria regionale, ispirata da una logica perlomeno restrittiva e poco incline a favorire la partecipazione dei cittadini, che  ha dichiarato inammissibili alcune norme contenute nella stesura iniziale delle proposte di legge, che intervenivano con ancora maggior cogenza sui contenuti sopra delineati, le 4 proposte di legge mantengono una forte valenza per cambiare radicalmente le politiche regionali finora perseguite su quelle questioni.
Ancor più, le proposte di legge vanno viste anche nella logica che le connette: infatti, mettere insieme e cambiare radicalmente il paradigma che riguarda i temi dell’acqua, dell’energia, dei rifiuti e del suolo significa non solo considerarli beni comuni da sottrarre al mercato, aggredire il complesso delle politiche ambientali, ma anche proporre un’idea alternativa dell’attuale modello produttivo e sociale. Lo stesso modello che provoca le crisi economica, sociale e ambientali in cui siamo immersi.

E’ necessario sottolineare che la promozione di leggi di iniziativa popolare, con la raccolta delle firme necessarie per presentarle, è una scelta che, volutamente, intende basarsi sulla partecipazione consapevole dei cittadini e sull’espansione della democrazia. E questo non solo perché ci troviamo di fronte alla gran parte della politica che sembra sempre più caratterizzarsi per essere distante dalle istanze delle persone e autoreferenziale, anche nella nostra Regione.
Basta pensare a quanto è stato fatto in tema di affidamenti del servizio idrico, che, con una legge regionale e con una modalità che hanno impedito una vera discussione pubblica, sono stati tutti prorogati alla fine del 2027. Decisione che, anche grazie all’iniziativa del movimento per l’acqua pubblica, è stata impugnata dal governo e ora è sotto esame da parte della Corte Costituzionale.

In realtà, puntare sulla partecipazione e su quanto si muove nella società, nonostante tutto, compreso ciò che è accaduto negli ultimi anni che ci hanno visto far fronte alla pandemia e ora alla guerra, potenti fattori per disincentivarla o perlomeno per far pensare che siamo sovrastati da eventi su cui non possiamo influire, non è un atto di “ottimismo della volontà”, ma si dipana dalla consapevolezza che solo così si possono determinare scelte che vanno in direzione dell’affermazione di un mondo che abbia un futuro, e che esso possa essere più giusto. Per non lasciarlo in mano ai potenti e a chi, per convinzione o ignoranza, li sostiene.

A Ferrara I primi banchetti in sono in Corso Martiri Libertà 55
venerdì 1 aprile ore 10-12,30 – sabato 2 aprile  ore 10-12,30 e 16-19 domenica 3 aprile ore 10-12,30

Per leggere tutti gli articoli di Corrado Oddi è sufficiente cliccare sopra il suo nome, anche sotto ogni suo articolo 

Una mattina partirò
…un racconto

Una mattina partirò
Un racconto di Carlo Tassi

Aria fresca nei polmoni questa mattina. Lascio il cuscino e mi vesto.
Un sole velato fa capolino dalla finestra. Ancora una mezzoretta e il cielo si ripulirà dalle scorie della notte.
Il mondo è più leggero… decisamente interessante!

Poi una nuova voglia: voglia di andare, di respirare, di assaggiare. Di scoprire ciò che non ho mai visto prima.
È il momento. Chiudo la porta e scendo. Uno zaino di ricordi sulle spalle e qualche carezza rimasta nelle mani.
La priorità è cancellare il tuo viso, i tuoi occhi dai miei, la tua voce dai rumori del silenzio.
Via da queste quattro mura, calde di certezze incartate, zuccherate. Basta mal di denti e mal di testa perenni, pillole e caramelle, acidità di stomaco e film già visti, commedie e commedianti.
Prendo la moto: il metallo è di razza, il motore è caldo e il serbatoio è pieno.
Sotto le ruote sento il ruvido e il secco della strada. Parto e via senza voltarmi!

Seguirò l’istinto del lupo, oltre la collina e il suo bosco. Poi altre colline e boschi fino alle montagne del nord. Attraverserò ponti e confini, la strada non finirà mai.
Il cielo sarà mio fratello e veglierà su di me.

Starò da solo, io e i miei segreti. Libero di perdermi e di scomparire.
Scamperò alle trappole del cuore. Nessun controllo, nessun programma, nessun orario, nessun appuntamento e nessun dolore.
Soltanto aria per respirare, acqua da bere e terra per riposare.

Ecco il mio viaggio: andare avanti, lontano e altrove.
Andare via e non tornare più.

Drops of Jupiter (Train, 2001)


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Carlo Tassi su questo quotidiano clicca sul suo nome.
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Ucraina 2014:
rivoluzione o colpo di stato?

 (tratto da pressenza)

Comprendere cosa avvenne in Ucraina nel 2014 è importante per capire cosa sta succedendo oggi. A febbraio di quell’anno ci fu un cambiamento radicale nel governo, di cui si è parlato come rivoluzione di Maidan.
Ci è stato raccontato che il popolo, insoddisfatto delle scelte filorusse del presidente Janukovyč,  manifestò per mesi fino a far cadere il governo: una rivoluzione popolare e democratica.

Ma studiando gli eventi ci rendiamo conto che le cose sono più complesse. Come è ben documentato da numerosi video e articoli, che elencherò successivamente, si è trattato di un colpo di stato con regia occidentale.
Prima di quegli eventi erano già presenti nel territorio ucraino strutture militari USA – NATO, dove venivano addestrati gruppi paramilitari neonazisti che avrebbero avuto un ruolo decisivo negli eventi di Maidan ed anche in quelli successivi fino ad oggi. Questa è un’affermazione grave e importante, ma ben documentata. In realtà basta anche solo leggere su Wikipedia la voce Battaglione Azov per rendersi conto che le cose sono molto diverse dalla narrativa ufficiale.

A maggio fu eletto presidente Poroshenko, un oligarca filo americano famoso come il re del cioccolato e i membri del governo furono decisi a tavolino da Washington. Un aneddoto non secondario: Hunter Biden, figlio dell’attuale Presidente Biden, entrò nel consiglio di amministrazione di Burisma, la più grande compagnia energetica privata ucraina. E proprio in base a un accordo tra Washington e Kiev che in Ucraina cominciò la produzione di gas estratto dalle rocce di scisto (Fracking), un procedimento proibito in diversi paesi per i notevoli danni all’ambiente.

Di seguito un elenco di alcuni documenti e studi che mostrano e analizzano gli eventi di Maidan.

Ukraine on fire. In questo film documentario di Igor Lopatonok prodotto da Oliver Stone vengono raccontati gli eventi di Maidan e la successiva crisi del Donbass. Ricco di informazioni e interviste.

Masks of the revolution del regista francese Paul Moreira del 2015. Interessante, censurato e difficile da trovare in internet.

La crisi ucraina spiegata dal Prof. John Mearsheimer – 2015. Conferenza molto interessante non solo per l’analisi, ma anche perché è il punto di vista di un eminente scienziato politico americano, nominato nel 1996 Distinguished Service Professor di R. Wendell Harrison presso l’Università di Chicago.

Colpo di stato euro-americano in Ucraina. Analisi del prof. Umberto Mazzei, direttore dell’Istituto di relazioni economiche internazionali Sismondi – Ginevra.

Viaggio nel 2016 di Geoff Pyatt, ambasciatore americano in Ucraina, alla base militare NATO in Ucraina – Khmelnytskyi, dove le forze statunitensi del 10° Gruppo Forze Speciali stavano addestrando le forze delle operazioni speciali ucraine.

Telefonata tra il Vicesegretario di Stato americano Victoria Nuland e l’ambasciatore in Ucraina Geoff Pyatt. Telefonata del gennaio 2014 famosa per il “Fottiti Europa!”, ma che in realtà mostra come gli USA stavano decidendo molto prima della “rivoluzione popolare” i membri del futuro governo ucraino.

Europa for peace – http://www.europeforpeace.eu

Gerardo Femina
Già presidente della Comunità per lo sviluppo umano in Italia, è impegnato in attività sociali, politiche e culturali. Da 20 anni vive a Praga, dove è stato tra i promotori della campagna “Europe for Peace” e della protesta contro il cosiddetto Scudo stellare, che gli Stati Uniti volevano installare in Repubblica Ceca. Scrive su
politica e società. Negli ultimi anni si è dedicato alla costruzione del Parco di studio e riflessione in Repubblica Ceca.

Cover: Cerimonia per i morti della strage di Odessa (Foto di Wikimedia Commons)

Il Papa pazzo, il Partito della Difesa e la stampa con l’elmetto

 

Papa Francesco ha appena dimostrato che anche un Papa può essere vicino a Cristo. Ha detto infatti che i paesi che hanno manifestato l’intenzione di aumentare l’investimento in armamenti fino al 2% del loro PIL sono “pazzi”. E che lui si vergogna per loro. Tra questi paesi c’è l’Italia, del keynesiano-per-una-notte Mario Draghi. E il principale partito che sta appoggiando questa scelta in Parlamento è il Partito Democratico, il cui acronimo PD può essere ormai declinato come Partito della Difesa.

La pazzia italiana “di sinistra”, tuttavia, non è una patologia dalla genesi oscura. Viceversa, è l’ effetto coerente di una causa talmente lampante da essere lancinante: il PD gestisce con i suoi uomini tutti i principali gangli della Difesa e del blocco istituzionale ed economico che ad essa fa riferimento, o di cui è emanazione.
Lorenzo Guerini (PD) è il ministro della Difesa. Su sua proposta, Nicola Latorre (PD) è diventato direttore generale di Agenzia Industrie Difesa, ente controllato dal ministero che si occupa delle forniture di armi e logistica al medesimo. Difesa Servizi, società diretta emanazione del ministero incaricata di gestirne il patrimonio immobiliare, ha come amministratore delegato Pier Fausto Recchia (PD).
Leonardo (ex Finmeccanica), decimo produttore di armi e sistemi di difesa al mondo, terzo in Europa, partecipata al 30% dal Ministero delle Finanze, ha come amministratore delegato Alessandro Profumo (tessera PD), cavaliere del lavoro condannato in primo grado a sei anni di carcere per aggiotaggio e falso in bilancio durante la sua presidenza in Monte Paschi (null’altro che tacche del curriculum per un top manager italiano).

La Fondazione Leonardo ha come presidente Luciano Violante (PD). La Fondazione Med-Or, anch’essa costola di Leonardo, ha come presidente Marco Minniti (PD), che si reca – pure lui – in Arabia Saudita a organizzare partnership nel campo dell’istruzione con quel regime (sospetto, vista la provenienza della fondazione, che il “do ut des” non sia confinabile all’interno delle aule universitarie).

Non ho la minima intenzione di denigrare le persone citate, alcune delle quali (dico Violante per dirne una) hanno un cursus di tutto rispetto e prestigio. Voglio solo dimostrare che la decisione bollata come “pazzia” da Papa Bergoglio e l’orientamento bellicista del PD sono perfettamente coerenti con l’occupazione capillare, da parte sua, dei ruoli di potere che fanno capo alla Difesa. Mi sarei meravigliato del contrario: piuttosto bisognerebbe chiedersi perché, tra i vari rami dell’amministrazione dello Stato, il PD abbia scelto di ‘occupare’ proprio la Difesa con modalità che Enrico Berlinguer (capo di quel PCI di cui il PD rivendica l’eredità: non aggiungo altro) così definirebbe, avendolo fatto già nel 1981: “I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali.”(per leggere l’intervista integrale clicca qui).

Siccome la corsa al riarmo non ha nulla a che vedere con l’opinione se sia giusto o sbagliato inviare armi ai civili ucraini – argomento che spacca anche l’opinione pubblica di sinistra, e sul quale non entro – mi domando cosa pensino di questa decisione non tanto i simpatizzanti ed elettori, ma i molti esponenti del PD che lo rappresentano nelle istituzioni, anche del nostro territorio. Mi stupirei molto del fatto che non si levasse nessuna voce critica, ed infatti attualmente il mio stupore è grande, perché non mi sembra proprio che si stia innescando un dibattito su questo. L’unico che si è esposto tra i vertici è Graziano Delrio, che si è astenuto nel voto sull’aumento delle spese militari.

L’art.11 della Costituzione recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”

Siamo in uno di quei casi in cui la Costituzione (tranne per l’inciso sulle limitazioni della sovranità: quelle ci sono, ininterrotte, dal 1945) viene derubricata a tesina dei buoni propositi, come se non si trattasse della legge fondamentale dello Stato. Siamo anche in uno di quei casi in cui le parole del Papa, che di solito campeggiano in prima pagina di ogni notiziario della tv pubblica, privata, dei principali giornali, come moniti della nostra massima autorità morale, vengono nascoste in qualche trafiletto a pagina quattordici, come se fossero le esternazioni folkloristiche di un mitomane.
Manca solo che qualcuno tra i nostri grandi e liberi direttori di giornale gli batta una mano sulla spalla, a Bergoglio, sussurrandogli “ma chi ti credi di essere, il Papa?”

Firenze: “In Sor Già Mo. In Sor Già Mo. In Sor Già Mo”

 

Reportage di Daniela Bezzi
Foto di Cesare Dagliana
(tratto da pressenza)

Firenze, 26.03.22 Sono da poco passate le 5 del pomeriggio quando la testa del corteo con l’enorme striscione della GKN con la scritta INsorgiamo a caratteri cubitali, entra in Piazza Santa Croce e dall’altra parte dell’Arno non c’è verso di scorgerne la fine.

Rullo incessante di tamburi. Una marea di bandiere e slogan e striscioni da ogni parte d’Italia. Oltre al contingente dei lavoratori GKN alla testa del corteo, ecco quello della TIM-dell’ATI, della Caterpillar, dell’Electrolux di Trevi, della Pasotti vicino a Brescia, del Cotonificio Fiorentino, e poi lo striscione degli Operai di Marradi che dovrebbero accettare la chiusura dell’impianto dove si producevano i famosi marron glacé, insomma un gioiello del Made in Italy, perché la proprietà ha deciso di delocalizzare a… Bergamo, chissà per quali logiche!

E poi lo spezzone dei Fridays For Future. E lo striscione del NoTap dalla Puglia che dice a caratteri cubitali Siamo La Natura Che Insorge. E i Comitati Giovani NoTav da Torino e da Pisa ‘perché è dai nostri territori che bisogna ripartire … perché mentre la crisi climatica è qui e ora, assistiamo allo scoppio di una guerra che dovrebbe giustificare la diversione di fondi che sarebbero così necessari per realizzare il vero cambiamento: inaccettabile!’

Una piazza importantissima quella che si è trovata oggi a Firenze ‘una piazza inclusiva, una piazza che segna la convergenza di tante componenti di una stessa richiesta sempre più urgente e unitaria di giustizia. Giustizia sociale, giustizia ambientale, un radicale cambio di paradigma, perché è di questo che abbiamo più che mai bisogno.’

Quanti saremo stati? 20.000… 80.000… 50.000… in ogni caso tanti, tantissimi, un serpente che per ore si è snodato nel centro elegante di Firenze e che accanto ai temi del lavoro, della salute, del diritto alla casa, di reali tutele per i giovani e per i migranti, oltre alla denuncia dell’alternanza Scuola Lavoro, ha urlato con particolare convinzione il più netto No alla Guerra: Fuori l’Italia dalla NATO, fuori la NATO dall’Italia, No alla Guerra dei Padroni contro la Salute e il Lavoro.

Un enorme telone con tutti i colori della pace mi sta passando davanti mentre chiudo queste note, così largo a lungo che è necessario per forza il rimbocco per farlo entrare nella piazza affollatissima. Al di là del fiume mentre il corteo non sembra avere fine, marea di bandiere e striscioni al ritmo dei tamburi. Sono i vari Si Cobas, Slai Cobas, sindacati di base, l’espressione di quella sempre più compatta resistenza che si combatte ogni giorno e anche di notte nei sempre più numerosi hub della logistica che in tutta la penisola dovrebbero giustificare il più scellerato consumo di suolo, ed è lo spezzone senz’altro più numeroso del corteo.

Giornata molto importante quella che abbiamo vissuto oggi a Firenze, che segna al tempo stesso un punto di arrivo e un momento di formidabile e unitaria ripartenza.

Il sogno di Ferrara sotto il cielo di Berlino.
Adelchi Riccardo Mantovani al Castello

 

Ciò che oggi so l’ho imparato da solo. Sono, per così dire, un pittore selvaggio, perché sono cresciuto come un selvaggio, senza aiuti né sostegni. A quel tempo (estate 1959) disegnavo molto dal vero: paesaggi, piante, fiori, oggetti domestici, ritratti di conoscenti e familiari. Disegnavo anche nasi, orecchie, mani, in tutte le variazioni possibili. Questa fu la mia scuola d’arte: osservare e disegnare
Adelchi Riccardo Mantovani

Arriviamo al Castello Estense, accolti dalle splendide sculture in rame e terracotta “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori – Umanità” di Sara Bolzani e Nicola Zamboni. Non solo cavalieri, possenti destrieri e personaggi di sapore epico-cavalleresco ma anche migranti, profughi e disperati che incarnano gli orrori della guerra tanto attuale, un angelo ispirato alla Melancolia di Dürer che scrive e alcuni personaggi del mondo cavalleresco di Ariosto, come Angelica e Astolfo con il senno di Orlando, ma anche il poeta stesso, coronato d’alloro e vestito all’antica, in piedi accanto a un tavolo dotato di una sedia alata, che simboleggia la possibilità di volare con la propria fantasia grazie alla letteratura. Non mi ero ancora soffermata su questo gruppo scultoreo che attira molti turisti nel farsi fotografare accanto ai personaggi che più rispecchiano il proprio sentire, le premesse sono ottime.

Con la mia amica Rosi sono diretta alla mostra antologica che Ferrara dedica, per la prima volta in Italia, al pittore Adelchi Riccardo Mantovani, ferrarese di nascita (di Ro Ferrarese, per la precisione) e tedesco di adozione. Leggo che questo artista, poco conosciuto in Italia (non pare lo stesso in Germania), è caratterizzato dalla capacità d’evocazione fantastica di cui, prima di lui, erano stati interpreti Ludovico Ariosto, Dosso Dossi e Giorgio de Chirico. Incuriosita percorro i lunghi corridoi del Castello, sfiorandone le prigioni, ed entro.

La mostra, organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e dal Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara in collaborazione con il Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, dove si trasferirà dopo la tappa ferrarese, ripercorre l’intera produzione di Mantovani attraverso oltre cento opere, tra dipinti e disegni, che documentano la sua personale interpretazione di un realismo onirico costantemente nutrito dall’osservazione del vero e dalla memoria.

È stupefacente, fin dalle opere delle prime sale, coloratissimo e lume per la fantasia. Si può solo guardare, restare rapiti e cercare di capire. Interpretare non è semplice, ma la bellezza di ciò che cui ci si trova di fronte sta anche nel cercare di trovare la propria personale lettura di un mondo fantastico, allegorico e fiabesco, che affonda le radici nell’arte antica (la pittura del Quattrocento padano e il naturalismo fiammingo) e raccoglie i suggerimenti delle più affascinanti correnti figurative del primo Novecento, dalla Metafisica di de Chirico alla Nuova oggettività tedesca, dal Surrealismo di Delvaux e di Magritte al Realismo magico.

La natura è il modello primario: ogni foglia o filo d’erba è accuratamente reso alternando la tecnica della tempera a quella dell’olio sulla tavola di legno ben levigata e preparata a gesso. Ci sono gli alberi, i prati, le piante, i fiori, li aliti di vento, il fiume, gli argini, il cielo e le nubi.

La particolare magia di queste opere sta anche nella scoperta della vita stessa di Mantovani, nella storia difficile di chi, dalle difficoltà, è emerso, alla fine, vincente con le sue sole carte e idee, con la propria volontà e capacità di creare qualcosa di assolutamente unico. Ferrara oggi celebra Adelchi Riccardo Mantovani nei suoi ottant’anni, trascorsi fisicamente lontano ma senza essersene mai realmente andato. In un sogno senza fine.

La regina, 2006

Nato a Ro Ferrarese nel 1942, figlio della bidella della scuola elementare, Mantovani, rimasto orfano del padre, a causa delle ristrettezze economiche familiari viene affidato alle suore dell’orfanotrofio di Ferrara dal 1946 al 1952. La sofferenza e la lacerazione portate da questo momento (le sorelle restano con la madre, solo lui viene lasciato all’istituto che si trovava in Corso Porta d’Amore e che oggi non esiste più) la si percepiscono in tutte le sue opere ma soprattutto in Nebbia, del 2017, dove il ragazzino che stringe forte la mano della madre percorre proprio Porta d’Amore, verso quel luogo triste che dalla sua nebbia esterna ne porterà di altrettanto fitta interiore.

Nebbia, 2017

Per non citare il quadro Mio padre (2010), dove viene ritratto il genitore in uniforme, nato nel 1909, non più tornato dalla guerra. Accanto a lui colpisce una cartolina, che pare una fotografia, spedita alla famiglia dal fronte sulla quale campeggia la scritta “Vinceremo”, a ricordare ancora (e sempre) la tragicità della situazione.

Successivamente, Mantovani viene mandato in collegio a seguire i corsi professionali per imparare il mestiere di tornitore e, nel 1964, a 22 anni, si trasferisce in Germania, stabilendosi a Berlino, dove inizia a lavorare in fabbrica. Il clima culturale della città lo incoraggia a riscoprire l’attitudine al disegno che si era manifestata ai tempi del collegio. “Quando ero dalle suore – ricorda lui stesso – mi procuravo le matite, strappavo le due pagine interne dai quaderni di scuola e facevo dei quadernini piccoli che riempivo tutti di disegni. Questo è stato il mio inizio”. A ricordare questi momenti, il quadro Scuola di disegno, del 1996, dove l’artista intende mostrare i primi tentativi artistici. Per questo ha usato una fotografia scattata il giorno precedente la sua cresima, a sette anni, per dimostrare non tanto l’originalità di quei tratti rispetto a quelli dei suoi coetanei quanto la caparbietà nel seguire una strada cui era destinato: quella di esprimere le proprie fantasie con l’arte. In questo quadro copia e riproduce diversi dipinti eseguiti fino alla metà degli anni Novanta, miniaturizzandoli, molto dei quali esposti. Una sorta di inventario per vedere i risultati di un percorso ricco e affascinante.

Scuola di disegno, 1996

Anche paesaggio eroico, del 2008, rappresenta una summa delle attività dell’artista: in un paesaggio prerinascimentale vengono passate in rassegna gran parte delle figure nate dalla sua ricca fantasia. L’unico personaggio nuovo è lui all’età di circa dieci anni ammirato da due bambine curate e ben pettinate.

Paesaggio eroico, 2008

In Prima del risveglio, del 2016, ritroviamo la severa atmosfera del collegio, dove un ragazzino sogna: i suoi compagni seguono una lezione di disegno ma possono disegnare tutto tranne la modella nuda che non devono nemmeno azzardarsi a guardare. L’insegnante, con la riga nascosta dietro la schiena, pronta a punire, veglia a che questo non accada. Il ragazzino si sveglierà presto dal suo tiepido sonno e tutto scomparirà. Da bambino, in quel collegio, Mantovani, racconta, era solito raccontarsi storie per scacciare la paura della notte e l’infelicità della solitudine e quel bambino che dorme e sogna ci fa pensare a questa sua consuetudine.

Prima del risveglio, 2016

Ma torniamo a Berlino, dove Adelchi frequenta le scuole serali di pittura, i corsi di nudo, studia la storia dell’arte ed espone in mostre collettive insieme ad altri artisti. Nel 1979 abbandona i panni dell’operaio per indossare, definitivamente, quelli di pittore. Dopo due personali berlinesi di successo (galleria Taube e Kommunale Galerie), può scegliere di dedicarsi a tempo pieno alla sua pittura fantastica, echeggiante il naif.

Fu Vittorio Sgarbi a scoprirlo e a organizzargli la prima importante mostra a Berlino; un suo articolo di Sgarbi L’Europeo incuriosisce poi un collezionista miliardario, Orazio Bagnasco, il quale acquista tutta la sua produzione iniziale, una quarantina di quadri.

In questo periodo giunge a piena maturazione la sua singolare ricerca tesa alla creazione del mondo fantastico, fiabesco e visionario che vediamo. L’amore per l’Italia c’è tutto.

Resto particolarmente colpita dalle visioni padane fatte di notturni, pioppi e casolari, e dai particolari ferraresi, che sorprendono perché paiono dipinte stando qui, mentre invece lo sono sotto il cielo di Berlino, lontani ma con un ricordo forte, intenso e reale.

L’attesa, dipinta nel 2001, ricorda l’alluvione del Polesine del 1951, quando l’artista era in collegio, ragion per cui solo più tardi ne ricevette il racconto dalla madre. Il dipinto, un olio su tavola, raffigura una scena simile a quella che Mantovani riporta di aver visto in un film con Peppone e don Camillo, personaggi che infatti qui appaiono tra la folla, insieme alla madre, alle due sorelle e a un povero diavolo seduto su una piccola zattera in mezzo al fiume. La sua famiglia e gli abitanti di Ro si erano radunati sulla cima dell’argine destro del Po, convinti che se si fosse verificata l’esondazione si sarebbero salvati, convinzione bizzarra, perché la rottura dell’argine sarebbe potuta avvenire anche sotto i loro piedi. Ma il fiume straripò dall’argine sinistro inondando la sponda veneta.

L’attesa, 2001

Anche il Notturno padano e il Tramonto padano ci riportano alle nostre atmosfere.

Il primo, del 1994, sembra quasi una fotografia. Ma dopo una prima impressione di realismo, osservandolo bene, si cambia idea. Compaiono, infatti, alcune presenze bizzarre: animali selvaggi nella pianura padana, scimmie sul tetto della fattoria, una civetta gigante in mezzo a un campo, una tigre che passeggia sulla strada, due pinguini sull’argine che osservano i ciclisti ignari e spensierati. Queste presenze non disturbano però la serenità della notte, con le sue ombre, attraversata da nuvoloni e lampi disegnati originariamente a carboncino nel 1960. Perché tutto torna utile… Nella dolcezza della lontananza.

Notturno padano, 1994

Il secondo, del 2004, secondo quanto dice l’autore, trae ispirazione da una foto del sole con una piccola macchia nera, apparsa su una rivista online: il pianeta Venere che gli stava passando davanti. L’artista colse l’occasione per dipingerlo alla sua maniera, ambientandolo in uno scenario padano, tra campi di grano di una fattoria, un contadino con le sue mucche, uno spaventapasseri, un cane e un gatto, ma soprattutto una ragazza che resta affascinata dal sole con una macchia nera che tramonta dentro al pozzo.

La cantastorie 2, del 1986-87 ci porta alla delizia di Belriguardo, nei pressi di Voghiera, con la narrazione cantata della vicenda dell’Orlando furioso. Ciò che la giovane declama lo si può osservare nel piccolo teatrino ambulante alle sue spalle, Orlando che ha perso il senno per una delusione d’amore. A salvarlo arriva il cavaliere Astolfo che, con il suo cavallo alato, vola sulla luna alla ricerca del senno perduto dell’amico. Secondo Ariosto il senno si trova qui, chiuso in ampolle e contrassegnato con il nome del suo proprietario. Astolfo si avvicina a Orlando con l’ampolla per farlo rinsavire; in una giornata ventosa e piena di nubi dal colore di panna, ad assistere allo spettacolo solo un bambino con la sua maglietta azzurra e il suo cavallo giocattolo. Un prato fiorito che quasi emana profumo. Ferrara sempre presente.

La cantastorie 2, 1986-87

Il Paletot rosso, del 2006, che è stata scelta per la locandina della nostra e la copertina del suo catalogo, rappresenta, invece, una scena del racconto Trefossi dell’artista. Mariagrazia è seduta su un paracarro lungo l’alberato argine del Po, in un’ambientazione tipicamente padana: una nebbiosa e malinconica giornata invernale. Con il suo paletot rosso fiammante la si riconosce facilmente da lontano, nonostante la foschia. La chiamano la pazza del paese, attende qualcuno ma non si sa chi, non lo sa nemmeno lei. Quando vede l’amico Angelo arrivare con il motocarro, lo ferma perché forse vuole un passaggio per recarsi a Ferrara, nessuno sa per fare cosa. Una ragazza piena di misteri. Va in città o altrove? E perché mai? Angelo la prende con sé, è la sua preferita, non la considera matta, ma solo disorientata, incapace di gestire la prioria vita. Anche a noi piace immaginarla così. Tra serenità, candore, nostalgia, speranza e un poco di giovanile inquietudine.

Il paletot rosso, 2006

Molto belle anche alcune figure femminili. Dal viso dolce della ragazza lettone, dipinta a memoria, de La bella domenica (2003), con, sulla cornice la frase in latino “bramo colei che fugge e fuggo da colei che mi brama”, a quello di Fräulein Pusteblume, imperatrice di Bisanzio (2012), seduta sul trono, la cui cornice, molto lavorata, ha otto tondi con vari ritratti femminili presi dai suoi quadri. Adelchi sorride quando pronuncia la parola Pustelblume che in italiano significa soffione cioè pappo del tarassaco che, agendo come un paracadute, agevola con il vento la dispersione dei semi e la proliferazione della pianta, la sua vita. Questa icona è essa stessa un inno alla vita, un trionfo della natura.

La bella domenica, 2003
Fräulein Pusteblume, imperatrice di Bisanzio, 2012

E poi troviamo anche Greta, in Regina mundi (2020), una moderna Giovanna d’Arco che, con il suo fascino di timida fanciulla e il suo perfetto inglese, ha saputo mobilitare milioni di persone nel mondo – fra cui molti giovani – nella sua battaglia per il clima.

Una delle opere a chiusura del percorso, La fine della guerra infinita, realizzata nel periodo di pandemia (2021), ci riporta drammaticamente e incredibilmente alla situazione attuale.

L’artista aveva tre anni quando la guerra finì ma, malgrado la sua tenera età, ne ricorda soprattutto il poco che era rimasto della casa di famiglia distrutta da una bomba.

La fine della guerra infinita, 2021

“Considerando la storia umana”, scrive, “si ha però l’impressione che non ci siano state migliaia o milioni di guerre, bensì una sola iniziata a partire dall’apparizione dell’uomo sulla terra e mai terminata. Quella che chiamiamo pace sono in realtà delle brevi interruzioni di questa abominevole abitudine egli esseri umani di massacrarsi gli uni con gli altri, ergo, una guerra che terminerà probabilmente soltanto quando l’umanità sarà scomparsa”.

Attuale, troppo attuale. Drammaticamente attuale. Non gli vorrei credere, no davvero, ma il sorriso con cui sono entrata ha perso vigore.

Le fotografie sono di Luca Gavagna

 

Il sogno di Ferrara – Adelchi Riccardo Mantovani, Ferrara, Castello Estense, 5 marzo – 9 ottobre 2022
Da un’idea di Vittorio Sgarbi. Organizzatori: Fondazione Ferrara Arte e Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara, in collaborazione con Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Orari di apertura
Dalle 10.00 alle 18.00, chiuso il martedì (la biglietteria chiude 45 minuti prima)
Prenotazioni https://prenotazionemusei.comune.fe.it/ – Ufficio Informazioni e Prenotazioni Ferrara Mostre e Musei | tel. 0532 244949

PRESTO DI MATTINA
La Chiesa che non c’è

 

«Che cos’è luna? il pezzo greggio
di minerale, non ancora fuso e forgiato»
(Ted Hughes).

La chiesa che non c’è. Immaginare la chiesa nel cono di luce delle beatitudini: era questo il titolo che introduceva una giornata di studio interparrocchiale tenuta a Santa Francesca nell’ottobre 2017 per approfondire un nuovo cammino pastorale triennale indicato dal vescovo Giancarlo Perego appena eletto a Ferrara-Comacchio.

L’obiettivo era quello di declinare in diocesi l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013) riproposta con vigore da papa Francesco al V Convegno ecclesiale di Firenze (2015): “Sognate anche voi questa chiesa”. Di qui l’itinerario proposto e articolato dal nostro vescovo nelle seguenti tappe: 2017-2018 Immagini di Chiesa; 2018-2019 Partecipazione e sinodalità (le strutture della chiesa); 2019-2020 Stili di vita cristiana.

Un cammino riproposto anche per il 2021, durante il quale l’impegno si è concentrato sul “dare forma” alla chiesa del non ancora: una chiesa nascitura composta, nella nostra diocesi, dalle unità pastorali di una nuova geografia pastorale.

Scrive al riguardo il vescovo: «Ogni stato e stile di vita, con responsabilità e l’attiva partecipazione alla vita ecclesiale, favorisce in un determinato territorio il cammino del ‘popolo di Dio’, la costituzione del ‘corpo di Cristo’, che è la Chiesa. Un ‘popolo’ e un ‘corpo’ che vive anche di strutture, che nel corso della storia hanno assunto forme diverse: la diocesi, la pieve, la parrocchia, l’unità pastorale. A questo proposito, vi invito a continuare una riflessione iniziata nella nostra Chiesa, nei diversi organismi diocesani, vicariali e parrocchiali: la riflessione sulla nuova geografia della nostra Arcidiocesi, strutturata non più solo su due livelli – parrocchie e vicariati – ma su tre livelli – parrocchie, unità pastorali, vicariati».

A seguire ci fu la lettera sugli orientamenti pastorali del biennio “2022-2023: Eucaristia sacramento del dono“: «È un cammino che incrocia l’anniversario degli 850 anni del Miracolo Eucaristico di Ferrara (1171-2021), la celebrazione del Sinodo dei Vescovi sulla sinodalità, che accompagnerà anche la Chiesa Italiana fino al Giubileo (2025) e la preparazione alla Visita Pastorale Diocesana».

Tutto questo ha fatto da sfondo e premessa al sinodo dei vescovi sulla sinodalità che ora stiamo vivendo, una grazia e un compito allargati a tutto il popolo di Dio, con le sue tre fasi (“narrativa: l’ascolto”; “sapienziale: discernimento”; “profetica: scelte evangeliche”). Questo nuovo cammino voluto da papa Francesco va vissuto tenendo costantemente presente la dinamica fondamentale tra un “già” e un “non ancora”, alla scoperta di una chiesa che ancora non c’è.

La chiesa che non c’è è allora quella che c’è già, ma non ancora: come la nuova luna, che attende di nuovo di essere forgiata nel crogiuolo del sole, amalgamandosi alla sua luce, per disperdere le tenebre che la nascondono, per ritornare così a risplendere.

La chiesa lunare è immagine cara alla tradizione patristica e a papa Francesco: «Noi cristiani paragoniamo Gesù Cristo con il sole, e la luna con la Chiesa, la comunità; nessuno, eccetto Gesù, brilla di luce propria, nemmeno la chiesa non ha luce propria, e se la luna si nasconde dal sole diventa scura. Il sole è Gesù Cristo, e se la Chiesa si separa o si nasconde da Gesù Cristo diventa oscura e non dà testimonianza».

L’immagine della Chiesa-luna come “luce riflessa” era già al centro del breve intervento svolto da Jorge Bergoglio nel pre-Conclave; ma è ricordata pure nell’incipit del documento conciliare Lumen Gentium, 1: “Cristo è la luce delle genti, quella luce “che risplende sul volto della Chiesa”.

L’allora arcivescovo di Buenos Aires aveva parlato «dell’auto-referenzialità delle istituzioni ecclesiastiche» e del «narcisismo teologico» come patologie che si sviluppano quando la Chiesa «crede involontariamente di avere una luce propria».

È Ambrogio di Milano [Qui] il cantore della chiesa-luna: «La Chiesa rifulge non della propria luce, ma di quella di Cristo e prende il proprio splendore dal Sole di giustizia, così che può dire “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Davvero sei felice tu, o luna, che hai meritato un segno così grande! Felice non per i tuoi noviluni, ma per essere segno della Chiesa; coi noviluni infatti presti servizio (servis), in quanto sei segno della Chiesa sei amata (diligeris)».

Il tempo inaugurato da Cristo – ci ha ricordato il teologo Oscar Culmann [Qui] – è così caratterizzato, al pari delle fasi lunari, dal “già” e dal “non ancora” del regno di Dio. E la chiesa non scompare quando viene meno la luce: l’attende di nuovo con il venire a lei del suo sole.

Così essa – ci ha ancora ricordato il concilio – «costituisce in terra il germe e l’inizio. Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella gloria» (LG 5).

Ma lo stesso è della fede di ogni battezzato, che partecipa e alimenta tale dinamismo: è connaturato infatti alla fede cristiana vivere tra un “già” e un “non ancora”. Del resto il regno è un “simbolo in tensione” una “realtà pluriforme”: per questo nella predicazione del Gesù storico esso appare imminente, ma già presente, veniente e vicino o addirittura “in mezzo” a coloro che credono al suo annuncio.

C’è un distico latino, una strofa formata da più righe, che non solo mette in luce i vari livelli di lettura e comprensione delle scritture bibliche, ma dà ragione di questa tensione pluriforme del “già” e “non ancora”, di un vangelo che c’è e al tempo stesso è ancora nascosto, in quanto ancora da comprendersi e da attuarsi nell’oggi; un vangelo che non solo il futuro e la storia racchiudono, ma che è interiore ad ogni persona, celato e non ancora manifesto in essa. Il distico cui alludo enuncia:

“La storia dice ciò che è accaduto,
l’allegoria cosa credere,
la morale cosa fare,
l’anagogia dove tendere”.

La parola “anagogia” significa, alla lettera, ‘movimento o spinta verso l’alto, salita, ascesa’. Nell’uso cristiano questa parola ha finito per raccogliere in sé tutto il vasto campo del “non ancora”, distinto dal “già”, realizzato nella vita di Cristo e della Chiesa.

In altre parole, la tensione escatologica verso il compimento ultimo, il giorno senza tramonto, l’ultima Pasqua della vita cristiana. L’Eucaristia stessa è prognostica, anticipa ciò che sarà, facendo memoria della Pasqua essa è celebrata e vissuta “nell’attesa della Sua venuta” (cfr. 1 Cor 11, 26).

Nel discorso teologico l’anagogia consiste in una riflessione sulle realtà ultime: un dire. Invece nella prassi e spiritualità cristiane consiste nel tendere di fatto alle cose ultime: una prassi in cammino, che va facendosi man mano che si cammina.

Chi ha mostrato bene con un esempio questa duplicità è Agostino d’Ippona [Qui]: «Quando si vuole attraversare un braccio di mare – diceva – la cosa più importante non è starsene sulla riva e scrutare l’orizzonte per vedere cosa c’è sulla sponda opposta, ma è salire sulla barca che porta a quella riva» (La Trinità, IV,15, 20; Confessioni, VII, 21). È così che si va incontro alla chiesa che non c’è, nascosta con Cristo nel futuro di Dio.

Dal 2013 al 2017 nelle nostre parrocchie abbiamo messo a tema e ci siamo confrontati con le beatitudini del Regno per immaginare la chiesa tra “già” e non “ancora”. Sono le beatitudini un passante di valico da cui scrutare e cercare dove Dio si è accampato, dove ha posto la sua tenda per raccogliere la sua famiglia in esodo e guidarla alla terra promessa.

Dobbiamo avere lo sguardo di Gesù sul monte delle beatitudini che riconosce tra la folla che lo ascoltava il Padre in mezzo a quella gente, presente lì con loro; così egli non può non vedere in quella gente, in quegli uomini e donne, i destinatari del Regno dei cieli e delle beatitudini: per questo li proclama beati, cioè già ora accolti, già ospitatati nella prossimità del padre suo.

La prossimità del Padre – prossimità impensabile, incondizionata, affettiva (“Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio” Gv 3, 16), presenza di un amore che riapre, come nell’esodo, la storia di un popolo – si rivela di nuovo nella prossimità e intercessione del Figlio per l’intera umanità.

Prossimità e intercessione divengono così due tratti imprescindibili per immaginare, delineare e dare forma a una figura e una realtà di chiesa che è in essere, ma non è ancora: un nuovo capitolo di una storia di salvezza antica e sempre nuova – direbbe ancora Agostino: «Tardi ti ho amato, bellezza così antica e così nuova» (Confessioni, 10, 27).

Scrive Pierangelo Sequeri [Qui] ne La fede e la giustizia degli affetti, (Siena 2019, 272-272): «La testimonianza della giustizia/agape di Dio che elegge il suo campo di esercizio privilegiato nella folla dei poveri, dei vulnerabili, dei disperati e di tutti gli altri avviliti della vita di cui parlano le beatitudini, è il luogo di una chiesa-famiglia nella quale vanno investiti i beni residuali di una chiesa-città che non esiste più, perché la Chiesa ritorna ad essere prossimità e intercessione del Figlio nella Città secolare».

Una chiesa senza prossimità e senza intercessione resterebbe senza Dio, perché non esiste Dio senza prossimità all’umano, ma solo un idolo fatto da mani d’uomo. Se i segni della prossimità di Dio sono inseparabilmente liberazione dal male e offerta della sua giustizia/amore verso gli uomini e le donne delle beatitudini, nessuno può esimersi dal praticare tale giustizia che richiede la conversione del cuore, la prossimità e l’intercessione dell’uomo con l’uomo nella stessa misura di quella che il Dio, incarnatosi in Gesù, riserva a ogni uomo.

Nella parabola del servo spietato (Mt 18, 23-35) si dice: «Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». E in Matteo 25, 31-46 si riporta lo stupore di colui che ha avuto compassione: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”».

Come immaginare la chiesa che non c’è?

Leggiamo nel documento preparatorio del Sinodo dei vescovi (08/09/2021): «La capacità di immaginare un futuro diverso per la Chiesa e per le sue istituzioni all’altezza della missione ricevuta dipende in larga parte dalla scelta di avviare processi di ascolto, dialogo e discernimento comunitario, a cui tutti e ciascuno possano partecipare e contribuire» (n. 9).

«Ricordiamo che lo scopo del Sinodo e quindi di questa consultazione non è produrre documenti, ma “far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un ‘alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani“» (n. 32).

Anche nella poesia di Mario Luzi [Qui] troviamo questo simbolo in tensione della promessa e del compimento, del già e del “non ancora”:

L’invito ad aprirsi all’anelito segreto non ancora rivelato:

Nella notte e nella coscienza
Si apre al non ancora rivelato
L’anelito segreto svelandosi a sua volta,
e il desiderio-

L’appena detto,
il non ancora nominato
quando accendono una scaglia d’intelligenza negli occhi altrui;
e sfolgora un’intesa
e si giunge dall’uno all’altro attraverso il fuoco,
il fuoco ilare, il fuoco elementare della creazione incessante.

L’anelito che sospira una figura non ancora conosciuta:

L’alta, la cupa fiamma ricade su di te,
figura non ancora conosciuta,
ah di già tanto a lungo sospirata
dietro quel velo d’anni e di stagioni
che un dio forse s’accinge a lacerare.

Il destarsi a poco a poco delle immagini, che incalzano il futuro non ancora acceso, se non in quell’eremo sopra il cuore:

Rare immagini deste nella mente,
pochi misteri infine elucidati
dall’amore, ridoni a verità,
come te consentivano l’attesa.
Dall’incubo alle lucide promesse
ancora sconosciuta, non ancora
caduta nel cospetto dello spirito
incalzavi il futuro con fuochi di vittoria
pari a quelle potenze inquiete il cui trionfo
è un incombere eremo sopra il cuore.

Come i magi aperti alla novità:

Andavano cauti loro, i Magi,
occhiuto era il viaggio
in avanti
o a ritroso? Procedendo
o tornando
ai luoghi
d’un’ignota profezia?
Sapevano e non sapevano
da sempre la doppiezza del cammino. Non è ricaduta
inerte nel passato
e neppure regressione
nel guscio delle cose già sapute
questo
ritorno della strada
spesso,
s
u se medesima,
ma nuova
conoscenza, forse,
ed illuminazione
di un bene avuto e non ancora inteso –
dice
uno di loro
e gli altri lo comprendono
sì e no, ma sanno
ed ignorano all’unisono…
e proseguono
insieme,
vanno e vengono
insieme nel va e vieni del viaggio.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

 

“Sebastiano 2022”
L’arte come ricerca estetica dalla pestilenza al Covid

“Sebastiano 2022” è il titolo della mostra ferrarese di una ventina di opere incentrate sulla figura del santo trafitto dalle frecce, a cura del critico d’arte Lucio Scardino. La particolarità della rassegna espositiva – in corso fino a giovedì 31 marzo 2022 alla Idearte Gallery, via Terranuova 41, Ferrara – è la scelta di concentrare la ricerca estetica su una simbologia storicamente legata alla protezione dalla pestilenza, collegandola a un’emergenza sanitaria attuale come quella del Coronavirus.

Il curatore, che intorno a questa figura ha da tempo concentrato attenzione e studi, ha coinvolto per l’occasione una ventina di artisti contemporanei. Molti i ferraresi che già hanno contribuito con le loro opere a un ciclo di diverse esposizioni, ma anche artisti provenienti da tutt’Italia e da diversi Paesi d’oltreoceano. La mostra si caratterizza per l’attenzione a rintracciare un legame tra l’iconografia di provenienza religiosa e un tema di estrema attualità, che è quello legato alla pandemia.
Uno degli autori esposti, Alessandro Medori, romano, titola la sua opera proprio “San Sebastiano e il demone del Covid” [nella foto in alto]. La raccolta – spiega Scardino – è il frutto di oltre un decennio di ricerca estetica e figurativa, che ha preso forma negli anni attraverso un centinaio di autori.

Un raffinato disegno del Guercino contraddistingue catalogo e locandina della raccolta dedicata alla figura di San Sebastiano.

L’ingresso della galleria che ospita la mostra dedicata a “Sebastiano 2022”

Una citazione storica significativa, in quanto la figura di questo santo ha un’origine molto antica e radicata nell’immaginario iconografico. Ritratti dedicati a Sebastiano sono rintracciabili quasi mille anni prima della rappresentazione dell’artista centese Giovanni Francesco Barbieri soprannominato Guercino, e vanno ricercati già nell’arte dei primi secoli dopo Cristo, in forma di decorazioni a mosaico. È il caso di quella del periodo di dominazione bizantina che si trova all’interno della Basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna (datata tra il 527 e il 565), ma anche della raffigurazione conservata nell’ex Chiesa di San Pietro in Vincoli a Pavia realizzata oltre un secolo dopo (anno 680) e dell’icona musiva di San Sebastiano dello stesso periodo (680), nella Basilica di San Pietro in Vincoli a Roma. Nel terzo altare della navata sinistra il santo è raffigurato come un uomo anziano e con la barba. Da rilevare un particolare che emerge già da queste antiche raffigurazioni: sulla lapide accanto all’altare della basilica romana viene specificato che l’immagine è stata realizzata come voto per respingere la peste che colpì Roma da giugno a settembre del 680.

Il legame tra il santo e la pestilenza è indagato da un saggio sulla Creazione di un santo della peste (titolo originale “The Making of a Plague Santo” contenuto  nel volume “Piety and Plague – From Bysanzium to the Baroque”, Truman State University Press, 2007)  in cui la storica dell’arte americana Sheila Barker indaga questo tema a partire dall’arte bizantina fino al Rinascimento.

È da questo momento storico, nel 7.o secolo dopo Cristo, che è stata infatti documentata l’identificazione del santo come protettore della peste. Il legame tra il culto delle reliquie del santo e la salvezza dalla malattia si consolida grazie a una suggestione figurativa. Dal momento in cui la popolazione credeva che la peste e le altre malattie contagiose si diffondessero attraverso l’aria alla velocità di frecce letali – spiega la storica che proviene dalla Columbia University – la connessione con Sebastiano non risulta essere sorprendente. Sicuramente questo concetto di contagiosità fulminea, che si diffonde attraverso l’atmosfera, diventa più che mai riconducibile ai caratteri dell’epidemia che in questi ultimi anni sta attanagliando il mondo intero.

Opere della mostra dedicata a “Sebastiano 2022” a Ferrara

Bisogna attendere il Tardo Medioevo e l’esplosione della pandemia pestilenziale che colpisce l’Europa a metà del 14.o secolo, perché si cristallizzi l’identificazione popolare e artistica della protezione dall’epidemia con l’intercessione del martire trafitto da una scarica di frecce. Quelle antiche raffigurazioni, però, sono ancora lontane dall’immagine classica del Sebastiano recepito dagli artisti raccolti nella rassegna ferrarese e che ha, comunque, radici antiche. La rappresentazione del santo non più come uomo in là con gli anni e barbuto, come compariva in mosaici di stile bizantino, ma con le fattezze di uomo giovane, che domina nell’interpretazione degli artisti in mostra, è successiva. Questi tratti di giovinezza e avvenenza – come viene spiegato dagli studi – sono infatti il segno distintivo dell’epoca rinascimentale.

Il decano degli artisti ferraresi Silvano Cavicchi accanto alla sua opera dedicata a San Sebastiano

E questi caratteri restano il tratto di prevalenza dominante nei lavori della rassegna espositiva ferrarese, composta in origine dalle opere di diciotto artisti: Rosamaria Benini, Aurelio Bulzatti, il centenario ferrarese Silvano Cavicchi, Franco Coluzzi, l’argentino Nestor Donato, Antonio Esposito, Alfredo Filippini, Renzo Gentili, Alberta Grilanda, il grafico Claudio Gualandi, Alessandro Medori, Lorenzo Montanari, il newyorkese Louis Olivencia, Sergio Padovani, lo statunitense Nicholas Quiring, Massimo Rubbi, Andrea Samaritani con una delle sue foto-dipinte, l’iraniano Amir Sharifpour, Remo Suprani, Emanuele Tasca, Giuliano Trombini, Giglio Zarattini.

A queste opere, presenti in catalogo, si è aggiunto in questi giorni in parete un nuovo dipinto, realizzato dopo l’inaugurazione dall’artista argentino Anibal Guerra.

Una collezione che, nel suo insieme, consente di spaziare dalla grafica, alla scultura e alla pittura più densa. Ed è un viaggio che, attraverso i simboli, sembra voler affermare la supremazia di bellezza e resilienza su orrore e dissoluzione.

“San Sebastiano 2022” da venerdì 4 a giovedì 31 marzo 2022, ore 10-13 e 16-19, chiuso la domenica, Idearte Gallery, via Terranuova 41, Ferrara.

“Contro Ventotene”:
ma la capriola storica del prof. Somma sbaglia il bersaglio

 

Alessandro Somma, del quale ho avuto modo di apprezzare l’impegno di studioso e cittadino durante la permanenza ferrarese, presenta a Ferrara (il 25 marzo presso la libreria IBS, Ndr) un suo libro dal titolo ributtante “Contro Ventotene. Cavallo di Troia dell’Europa neoliberale”. Lo fa in dialogo con un amico, che pure stimo.

L’inizio della prefazione è promettente “Per uno studioso la messa in discussione dei miti, e al limite la loro demolizione, è un imperativo categorico: è così che il sapere avanza, resistendo alla forza attrattiva dell’immobilismo intellettuale e offrendo nuovi materiali sui quali esercitare lo spirito critico e il culto del dubbio”. È opera particolarmente necessaria giacché “Il solo tentativo di gettare uno sguardo meno osannante su quella vicenda, se non mira semplicemente a chiarire i punti oscuri del Manifesto al fine di metterne a fuoco la valenza di testo sacro del pensiero federalista, identifica invece lo sparuto gruppo dei cattivi nazionalisti o peggio sovranisti.

“Sparuto gruppo”, verrebbe da aggiungere,  con sfumature dal grigio al nero, al governo nella nostra città e in testa in tutti i sondaggi di intenzione di voto, in Italia.
Apprendiamo che all’autore non bastano le critiche da sinistra, esemplificate da un simpatico romanzo “La macchina del vento”, perché “Da queste critiche non discende però una condanna dell’europeismo in quanto tale, bensì della sua declinazione attuale, ovvero della sua complementarità rispetto al progetto neoliberale”. Per polemizzare con la deprecata conversione al neoliberismo della sinistra storica non trova di meglio che prendersela con il Manifesto, che sarebbe altrimenti già dimenticato, oltre che con la personalità confusa e irrisolta di Spinelli.

Prosegue Somma: “Non è dunque un caso se il Manifesto di Ventotene, dopo una iniziale limitata circolazione, è sostanzialmente caduto nell’oblio in Italia e soprattutto negli altri Paesi europei. Se da noi è stato riscoperto in tempi relativamente recenti, è solo perché la sinistra storica se ne è servita per confezionare retoriche buone a spargere una cortina fumogena sulla sua imbarazzante conversione al neoliberalismo. Se così non fosse stato, Spinelli sarebbe ora ricordato semplicemente come personalità confusa e irrisolta, o più probabilmente lo si sarebbe dimenticato”.

In numerosi saggi, in lunghe interviste sul web, Somma ha anticipato i contenuti del libro. Le critiche a cosa è divenuta l’UE sono motivate e spesso condivisibili. Al centro è però l’idea che il ring più opportuno, nel quale condurre il conflitto redistributivo tendente alla giustizia sociale, sia lo stato nazionale sovrano. Sovrano all’interno e pure all’esterno, nei limiti previsti dall’art.11, che non autorizza cessioni di sovranità, ma solo limitazioni. Niente Europa dunque e men che meno federale, salvo si dimostri che in quel ring, da costruire, i lavoratori avrebbero maggiori opportunità e tutele.

Trovo singolare, per non dire altro, l’idea che al potere sovrastante dei mercati possano meglio rispondere Stati nazionali e non la loro unità federale, questa sì da costruire.

Ricordo spesso Lelio Basso che, mezzo secolo fa annota: “nonostante Marx avesse lanciato il famoso appello ‘proletari di tutti i paesi unitevi’ i proletari se ne sono dimenticati, e i capitalisti se ne sono ricordati”. Così “La democrazia appare sotto assedio. Un pugno di manager di immense multinazionali fa e disfa quello che vuole. Gli altri miliardi di uomini sono complici o schiavi. Se si rifiutano, nella migliore delle ipotesi, sono emarginati e non contano niente”.

Colpa di Ventotene? Consiglio la lettura di “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto” (in rete è possible scaricarlo dal sito della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli). È breve. È un testo, non sacro ma straordinario, del 1941, clandestinamente diffuso già quell’anno, portato fuori dall’isola dalle mogli dei confinati, Ada Rossi e Ursula Hirschmann. È altro dalla caricatura che ne fa Somma, preoccupato così di difendere il potere dei lavoratori. Lo stampa, per una più ampia diffusione, nel 1943 Eugenio Colorni, il cui contributo al progetto di manifesto è poco ricordato, rispetto agli estensori Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.

Vent’anni prima, nel 1923, quando il fascismo difende gli italiani dalla prepotenza dei mercati, Giacomo Matteotti, che ha a cuore, almeno quanto Alessandro Somma, il potere dei lavoratori, scrive nelle Direttive al Partito;  “L’Internazionale socialista mira invece a difendere e sostenere sempre la comune causa del lavoro, contro il parassitismo e la speculazione sfruttatrice dei diversi capitalismi. Dovrà quindi tentare o favorire ogni iniziativa che dirima i conflitti tra i popoli, li associ con vincoli pacifici, eviti o faccia cessare le opposte violenze e minacce. Dovrà favorire il formarsi di una vera Lega delle nazioni, e più immediatamente degli Stati Uniti d’Europa, che si sostituiscano alla frammentazione nazionalista in infiniti piccoli stati turbolenti e rivali”.
E in Parlamento “Sollecitiamo ardentemente con l’opera nostra, che è nazionale e insieme internazionale, sollecitiamo la formazione degli Stati Uniti di Europa, non rimandandola idealmente dopo il socialismo, ma affrettandola praticamente, perché essi costituiscono un anticipo sul socialismo, un avviamento al socialismo, un riconoscimento e un affratellamento fra i diversi lavoratori di tutte le nazioni, eliminando tante deviazioni e contrasti apparentemente nazionali, ma sostanzialmente capitalistici”.

Per me ha più ragione Matteotti. Garanzie non ce ne sono, ma una speranza c’è e va nel superamento dei cosiddetti stati nazionali.  Il bersaglio di Somma è, per me, sbagliato.  Mi basta la prefazione. Non acquisterò quest’opera, come non acquisterei un suo… “Pro Mein kampf. Misconosciuta difesa del nazionalismo sovrano”.

Cover: Isola di Santo Stefano (Ventotene) – Wikimedia Commons

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi di Daniele Lugli, clicca sul suo nome.

La guerra ai tempi dell’infodemia

Gli ultimi due anni hanno accelerato quell’inarrestabile flusso di informazioni che, volente o nolente, è il segno distintivo di quest’epoca: gli aggiornamenti sulla pandemia e sulla guerra in Ucraina ci accompagnano ovunque, stimolando un’inevitabile discussione. Tuttavia, è probabile che l’effetto destabilizzante di eventi del genere ci faccia andare dietro a conclusioni perlopiù condizionate dalla nostra bolla – il luogo in cui cerchiamo conferme, anziché spunti di riflessione – o dal nostro vissuto.

Gli aggiornamenti servono ad avere un quadro più ampio della situazione, ma non per questo esaustivo; d’altronde, è più o meno impossibile farsi un’idea ben definita di una guerra in corso, e discuterne sulla base di sensazioni o sospetti può essere pericoloso: c’è il rischio di un ulteriore cortocircuito mediatico. Nonostante ciò, l’abitudine di alcuni media a polarizzare e a stuzzicare ancor di più il dibattito pubblico persiste, lasciando dietro di sé degli strascichi con cui probabilmente faremo i conti durante la prossima campagna elettorale.

È opportuno quindi non fossilizzarci su una delle possibili e innumerevoli cause scatenanti, né tanto meno su una singola dichiarazione. È altrettanto opportuno distinguere tra aggressore e aggredito, tra propaganda e informazione, tra opinioni e fatti. Insomma, c’è bisogno di uno sforzo interpretativo: oggi più che mai, informarsi è come essere al supermercato e dover scegliere il cibo più salutare in mezzo a etichette fuorvianti, operazioni di greenwashing e packaging ammiccanti.

Se l’attuale infodemia non ci dà il tempo necessario a elaborare gli sviluppi di una guerra, ce lo dobbiamo ritagliare: che siano cinque o trenta minuti, l’importante è farlo con un approccio attivo. Infatti, “elaborare gli sviluppi” non vuol dire necessariamente stare in silenzio e accontentarsi di ciò che passa il convento, bensì provare ad approfondire le informazioni man mano che arrivano, scegliendo con calma i pezzi più idonei a formare il puzzle.

l social media e gli abbonamenti online ci danno la possibilità di avere accesso, ad esempio, ai giornali più autorevoli al mondo, ad agenzie stampa quali Reuters, Associated Press e Bloomberg, nonché alle testimonianze di chi si è recato sul posto [Qui] o dei civili che vivono quotidianamente la realtà della guerra. Ci sono poi degli ottimi “raccoglitori” di tutte queste fonti, sia sugli stessi social media che nel giornalismo italiano: prendiamoci del tempo per cercarli, valutarli e farne un uso consapevole. Il nostro futuro dipende anche da questo.

La guerra del reporter

 

Sono coraggiosi, hanno un profondo senso del ruolo, una lucidità e uno slancio particolare che li accompagna, li sostiene nel loro agire, permette loro di muoversi agilmente in una delle maggiori catastrofi della storia umana: la guerra.
Sono i corrispondenti, gli inviati speciali in situazioni di conflitto bellico, i fotoreporter: professionisti uomini e donne che vivono la guerra per descriverla e riportarne tutti gli aspetti militari, politici, geopolitici ma anche economici, diplomatici, umanitari, alla ricerca di informazioni, testimonianze, scenari e conferme in territori dove pericoli, minacce, rischi sono una assurda normalità.

Seguono l’evento bellico attraversandone ogni dettaglio, le operazioni militari, l’evolversi o l’involversi delle azioni, il destino dei civili, i bruschi cambiamenti ambientali. Le difficoltà che incontrano non riguardano solo le cannonate, i missili, le mine, i droni e le bombe intelligenti ma anche il mettere insieme le tessere di un mosaico che ogni istante può cambiare.  Ci vuole fegato e curiosità, tanta preparazione, intraprendenza e visione, contatti giusti, sangue freddo e acume, per affrontare tutto questo.

Cinema, letteratura, immaginario popolare hanno creato un alone mitico attorno alla figura del giornalista di guerra, attribuendogli spesso le caratteristiche dell’eroe che, a modo suo, combatte con la  scrittura e le  immagini accanto al soldato. Nella realtà dei fatti, più che di eroismo generico da celebrare si deve parlare di vita in tempo di guerra, dove ogni azione diventa un azzardo e ogni giornata è sospesa in attesa della seguente, seguendo gli esiti degli interventi armati e i tentativi di sopravvivenza della gente comune: in epoche passate come oggi, con la penna di ieri e con le tecnologie attuali.

E’ una strana fatalità che questa figura professionale sia nata proprio in Crimea con William Howard Russell (1820-1907), giornalista irlandese, definito “L’uomo che inventò le corrispondenze di guerra”, il padre dei reporter di guerra.
Dopo varie esperienze giornalistiche a Dublino, venne assunto a Londra dal Times, il giornale più prestigioso e diffuso dell’epoca, con le sue 20.000 copie vendute, dove si occupò di servizi che riguardavano l’attività parlamentare con competenza, affidabilità e indipendenza di giudizio. L’occasione di passare agli onori della cronaca arrivò nel 1854, quando venne mandato in Crimea dal direttore John Delane che aveva ottenuto l’autorizzazione ad inviare un giornalista al seguito del corpo di spedizione inglese per la guerra in quei luoghi, combattuta dal 1853 al 1856 dall’Alleanza tra Impero ottomano, Francia, Gran Bretagna, Regno di Sardegna, contro l’Impero russo zarista, per il controllo dei Balcani e del Mediterraneo.

Quella del direttore del Times era un’iniziativa senza precedenti e, come scrive lo storico Oliviero Bergamini in Specchi di guerra. Giornalismo e conflitti da Napoleone a oggi : era infatti la prima volta che un quotidiano inviava un proprio dipendente fisso, e per di più giornalista di fama, a seguire con continuità un’operazione militare”.

Nella penisola di Crimea, Russell non poté contare sulla protezione dei militari inglesi e si scontrò con l’attrito degli ufficiali che non gradivano avvicinamenti  e collaborazione con il corrispondente perché, come scrive Bergamini : “la sua presenza al seguito delle truppe era un fatto del tutto nuovo, non avevano ancora elaborato alcun metodo organizzativo per far filtrare e controllare l’informazione”. William Russell doveva provvedere completamente al proprio sostentamento,  gli alloggi sicuri, gli spostamenti, aggirandosi negli accampamenti autonomamente per osservare, chiedere, rilevare fatti e testimonianze.

L’inviato scriveva delle condizioni  di vita miserabili dei soldati inglesi, le difficoltà dei trasporti, le condizioni climatiche insostenibili a cui non erano abituati e le condizioni igieniche delle truppe così carenti da provocare una violenta epidemia di colera. Nella sua cronaca di guerra, William Russell manifestava preoccupazione per i problemi logistici e organizzativi sempre più pressanti che ricadevano sui bisogni dei soldati al fronte. Ma fu la sua descrizione della disfatta militare del “600”, la brigata leggera dell’esercito inglese decimata dalle cannonate russe a Balaclava –  base dei rifornimenti britannici nei pressi di Sebastopoli – a suscitare scandalo e critiche nella madrepatria, dove arrivavano gli scritti, spesso unico mezzo di trasmissione delle informazioni mancando qualche volta il telegrafo, sui quali l’unico filtro operato era quello del direttore.

Le sue corrispondenze, tuttavia, non subirono alcuna censura sostanziale e a Russell rimane il merito di aver documentato e raccontato un conflitto dal punto di vista di “giornalista, prima che cittadino di un Paese che era parte in causa nella guerra, anteponendo la verità dei fatti al patriottismo”.
William Howard Russell ridusse le distanze tra i lettori e i campi di battaglia facendo conoscere più da vicino la straziante realtà della guerra e l’impatto dei suoi articoli sulla politica fu dirompente. Oggi i giornalisti di guerra continuano a raccontare ciò che sta succedendo dai teatri di macerie, il suono costante delle sirene d’allarme, i bunker, le code della povera gente per il pane e l’acqua, le donne e i bambini in fuga, le colonne di carri e quel cielo violato dai lampi dei missili.

“Se le tue foto non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino.” (citato in Randy Kennedy, The Capa Cache)
(Robert Capa)

In copertina: Robert Capa, Indocina ,1954 (Wikimedia Commons)

Vite di carta /
Il gioco dei bastoncini shanghai

Vite di carta. Il gioco dei bastoncini shanghai

Ho molte sollecitazioni in testa. Sono venute così, un giorno dopo l’altro leggendo libri, ascoltando su Rai3 una bella puntata di Maestri sulla presenza femminile tra gli autori della storia letteraria italiana, conversando a tavola con le amiche sulle nostre letture.

Ho letto per primo un libro che è da dimenticare e che ho già dimenticato: Molto amore per nulla. L’ho scelto distrattamente sul tavolo delle novità alla biblioteca del mio paese; ho pensato ‘non conosco questa Anna Premoli’. Ho visto che ha già venduto oltre 800.000 copie. L’ho letto, come dicevo. Ho anche saltato, con l’avallo di Pennac, molte delle pagine centrali, nella sicurezza di non perdere il senso della storia che è tutta uno stereotipo.

Lui e lei si conoscono, alla fine si amano e nel mezzo sono raccontate le tappe del loro avvicinamento: un repertorio di occasioni di lavoro e di incontri casuali, che portano i due verso il lieto fine. La scrittrice ha inserito alcune variabili narrative accattivanti, del tipo che lei è avvocato ed è single, ha una promettente carriera davanti a sé, ma non si cura come dovrebbe. Lui è bellissimo, ma anche sensibile e intelligente, al punto da accorgersi di lei anche se indossa abiti poco vistosi.

Sono passata ai racconti: ho aperto la raccolta curata da Corrado Augias dal titolo Racconti parigini e ho scelto di cominciare da La Torre Eiffel del nostro Dino Buzzati, unico italiano tra i venti mostri sacri scelti dal curatore, del tipo Walter Benjamin, Marcel Proust, Gertrude Stein e così via. Leggo molti più racconti ultimamente, perché è una sollecitazione che mi è venuta dall’esterno e perché voglio riaccostarmi in modo libero a questo genere, fuori dai percorsi scolastici.

Buzzati ne ha scritti di bellissimi e li ha ambientati in ogni parte del mondo, in situazioni concrete e quotidiane piene dei dettagli della vita ordinaria. Spruzzandoli però abbondantemente di magia, spargendoli di una polverina che li trasforma in fiabe misteriose.

Gli operai che costruiscono la Torre, a centinaia cominciano a lavorarci a turni serrati; il narratore è uno di loro, è un bravo operaio meccanico che è stato ingaggiato da Gustavo Eiffel in persona: descrive perciò il lavoro iniziale con una precisione tecnica che rimanda al filone della letteratura industriale in voga negli anni Sessanta; fa pensare alle grandi opere narrate da Primo Levi nel suo La chiave a stella.

Gli operai condividono fin dall’inizio un segreto e, quando la Torre raggiunge i cento metri di altezza, un anello di nebbia, che piacerebbe a Magritte, avvolge il suo culmine, impedendo a chi ci lavora di vedere in basso e di essere visto. Il cappello di fumo sale mentre anche la costruzione va su fino ai 200, poi ai 280 e infine ai 300 metri e anche oltre: fino all’infinito la porteranno gli operai, il loro segreto si trasforma via via in un sogno.

Il racconto si chiude con la inaugurazione del 31 marzo 1889 [Qui]: è finita la Torre che il mondo intero attende, dalla straordinaria altezza di 312,28 metri. Durante la cerimonia, però, i vecchi operai piangono tutta la loro delusione: da quando le forze dell’ordine hanno minacciato di aprire il fuoco contro di loro, sono stati costretti a scendere dal “sublime esilio” e ad amputare la guglia, rinunciando al “poema” che volevano elevare fino al cielo.

Dopo il libro totalmente orizzontale di Anna Premoli, fatto per solleticare una facile emotività, mi ci voleva la spinta verso l’alto narrata da Buzzati, l’ardore di osare, il gusto delle situazioni paradossali che tocca in profondità le simbologie del nostro immaginario.

Nel ripensare a La mattina dopo di Mario Calabresi, che ho riletto appena sveglia per alcune delle ultime mattine, mi viene in mente una linea obliqua, o meglio una linea spezzata che punta comunque verso il basso. E’ partita da un punto alto di dolore e di smarrimento e lo perde via via, come una zavorra che non può fare testo nella vita dell’autore, non le viene lasciato il modo di corrodere troppo.

La mattina dopo la brusca interruzione del suo lavoro di direttore di La Repubblica Calabresi si reinventa. E così si comporta nei mesi successivi, occupandosi della storia di famiglia e della ricerca di un tempo adatto ai rapporti con gli altri, con coloro che ama o che gli sono amici. Intanto metabolizza il vuoto che è subentrato nelle sue giornate e si abitua al nuovo silenzio, lontano dalla redazione e dal telefono che squillava perennemente. Il racconto della sua nuova vita segue i lembi della ferita che gli è stata inferta e li cuce poco alla volta, con le parole che nascono dai ricordi e dalle riflessioni di cui si è capaci nella maturità.

Le linee ora sono tre e, come shanghai [Qui] lanciati in alto e poi lasciati cadere, si trovano sovrapposti, ognuno col suo colore e con una direzione da seguire.

Le letture di questi giorni non sono però finite.

L’ultima non viene da me, ma dal gruppo di lettura di cui faccio parte al mio paese: Nessuno si salva da solo di Margaret Mazzantini. Ho pensato “meno male una donna, un’altra autrice che riporta in pari il conto con Buzzati e Calabresi”. Questo libro lo penso però come una narrazione poco riuscita, come un organismo in cui le parti non collaborano tra loro. I contenuti della storia hanno una loro stabilità (la separazione dolorosa tra Delia e Gaetano viene ricostruita dalla voce narrante mentre i due sono a cena al ristorante, in un continuo andirivieni tra presente e passato), mentre la lingua sembra non aderire in molti punti a ciò che viene detto dei due personaggi, sembra un vestito che non ha le stesse misure della persona che lo indossa.

Troppe esplosioni improvvise di un linguaggio turpe, che tradisce, anziché esprimere la personalità di ognuno. E’ la sua gratuità che fa suonare falsa la pagina; viene da pensare che due persone come Delia e Gaetano possono esistere, ma usano quel linguaggio? Che in una fase così delicata della loro storia il turpiloquio sia così spesso la chiave espressiva di cui hanno bisogno? Le linee che escono dal libro di Mazzantini restano due, come due lunghi shanghai, che hanno tratti in parallelo e tratti in cui si staccano l’uno dall’altro, assumendo il profilo di linee spezzate.

Mi succede spesso che la scia lasciata dai libri prenda la forma di linee colorate nello spazio, che si dispongono a formare geometrie composite. Quando guardo col giusto distacco gli oggetti della conoscenza mi riesce di sintetizzarli in un colore, in una linea o in una forma stilizzata.
Per esempio: I promessi sposi sono un quadrato di colore rosso, impenetrabile, La coscienza di Zeno una margherita dai petali gialli, azzurre e senza contorni precisi le nuvole di colore lasciate dalle poesie dei Canti orfici di Dino Campana.

Mi viene in mente che potrei ricostruire anche il repertorio degli odori che lasciano i libri. Magari un’altra volta.

Nel testo faccio riferimento ai seguenti libri:

  • Anna Premoli, Molto amore per nulla, Newton Compton Editori, 2020
  • Corrado Augias (a cura di), Racconti parigini, Einaudi, 2018
  • Mario Calabresi, La mattina dopo, Mondadori, 2019
  • Primo Levi, La chiave a stella, Einaudi, Premio Strega 1978
  • Margaret Mazzantini, Nessuno si salva da solo, Mondadori, 2011

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

Fino al 10 aprile: poesie, alberi e vento.
L’equinozio di pace del Collettivo Ultimo Rosso

 

Domenica 20 marzo, parco del Montagnone. Sono arrivati i primi camion smisurati, e già cominciano a montare giostre mostruose per dare altezza, brividi e nostalgia per la festa di San Giorgio. Come tutti gli anni, sarà il brucomela ad aprire per primo.
In questo 2022 l’equinozio è arrivato con 24 ore di anticipo, e il primo giorno di primavera si presenta in gran spolvero: sole tiepido, cielo azzurrissimo e un vento fatto apposta per far volare gli aquiloni.

Qui, nel parco che accompagna le Mura di Ferrara, invece degli aquiloni, appese con uno spago ai rami degli alberi, sventolano una cinquantina di poesie “contro ogni guerra”. Il vento gira i fogli, le poesie si alzano, si abbassano, scappano, ritornano. I passanti, i ciclisti, le famiglie con bambini al seguito, i ragazzini si avvicinano a quel piccolo spettacolo. Molti catturano con una mano i fogli ballerini per leggere le poesie. Anche i corridori e i camminatori seriali, impegnati nel giro domenicale sulle Mura, si fermano qualche minuto per leggere cosa c’è scritto.

La gente continua ad arrivare, l’iniziativa piace, interessa, diverte. Forse anche per la sua assoluta semplicità, il suo carattere spontaneo e improvviso.
Intanto, tra prato ed “alberi parlanti”, comincia il reading di poesia del Collettivo Poetico Ultimo Rosso. Sono una ventina, forse di più, le poete e i poeti che si alternano alla lettura, unico corredo scenografico: un nastrino rosso al polso, un leggio nero e un mini-aplificatore rosso portatile. Molti sono di Ferrara città e provincia, ma alcuni sono arrivati da Padova, da Imola, dal Modenese, dalla Brianza. Leggono le loro poesie per la pace e le poesie dei grandi poeti: Saffo, Prevert, Pasolini, Szymborska, Quasimodo, Brecht, Rodari, Lennon…

Gli alberi della poesia al Parco del Montagnone continueranno per alcune settimane a chiedere la pace: pregheranno al vento come bandierine tibetane di fermare tutte le guerre, in Ucraina e in tutto il mondo. Le 44 poesie appese a un filo resteranno a sventolare fino al 10 aprile.

Per info e per aderire al Collettivo Poetico Ultimo Rosso scrivere a: lultimorosso.ferrara@gmail.com
Visitate  la pagina Facebook [Qui]

Le foto, compresa quella di copertina, sono di Valerio Pazzi.

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GLI SPARI SOPRA
Scusate, mi sfogo. E non mi schiero

 

Dio, patria e zar (o Cesare, che dir si voglia). Non brillerò per originalità, avendolo già scritto su queste pagine, ma è per forza da qui che occorre partire. Il Patriarca Kirill e i  Pope ortodossi assoggettati al potere temporale di un Cesare, che è più un boss che uno zar; una grande madre Russia che non richiama, nell’immaginario collettivo, l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche ma l’Impero. Tanto che l’innominabile imputa addirittura a Lenin la colpa della situazione ucraina, un secolo prima della colpevole Nato.

Gli esperti di geopolitica pullulano, così come i virologi fino a due settimane fa. La realtà virtuale ritorna ad essere la polis dove urlare il proprio sdegno o tifoseria. Intanto la guerra fa il suo mestiere. Uccide, uccide e basta.
E’ una certezza: le armi sono fatte per togliere la vita, e per i morti in guerra non è molto importante sapere da quale canna viene sparata la pallottola letale. Gli invasori invadono e muoiono, gli invasi si difendono e muoiono anch’essi, il testosterone dei patrioti da ambo le parti genera mostri, come la storia dell’evoluzione ci insegna. Anzi, non ci insegna un cazzo. A terra, sotto le macerie fumanti di città accerchiate, come Troia, Costantinopoli, Leningrado, Sarajevo (l’assedio più lungo del ‘900), Cobane … restano i civili, soprattutto donne, vecchi e bambini.

Perché i soldati si sparacchiano addosso al fronte, che non c’è. Le bombe non sbagliano, colpiscono gli ospedali, i teatri e i palazzi perché quello vogliono colpire. L’innominabile – fino a ieri fraterno amico di potenti leader occidentali o idolo da t-shirt di piccoli fasci nostrani –  si trasforma in un attimo nel Cattivo.
Perché, prima era buono? Quando mai lo è stato? Un ego degenere che arringa le folle per liberare la Russia dai Bolscevichi, portando McDonalds sulla piazza rossa, stampella di un ubriacone, e prima ancora strenuo difensore del palazzo che con una pistola e 12 colpi salva le mummie del Politburo. Quando mai è diventato cattivo? Lo è sempre stato.

Non è una guerra dell’Est contro l’Ovest, non è una guerra tra Europa e Asia, non è una guerra di religione, nessuna ideologia contrapposta: il neoliberismo e capitalismo criminale russo è il più fulgido esempio dello sfruttamento dei padroni nei confronti del proletariato.
Provo davvero fastidio quando si cerca di negare questo: non è in atto nessuno scontro di civiltà, solo barbarie contro barbarie. E che dire dell’imperialismo? Chi insegna a chi? Da quanto tempo i potenti impongono la propria volontà con la forza e la violenza? Quanti sono stati gli anni in cui sulla Terra non c’è stata la guerra? Facile rispondere, non c’è bisogno di essere uno storico: nessuno.
L’evoluzione ci ha solo insegnato a come ucciderci meglio. Nell’antichità il Caesar moriva sul campo di battaglia, ora divide et impera da una bella poltrona in pelle, seduto ad un tavolo tondo o rettangolare lungo un chilometro. Quanti morti occorre portare al tavolo delle trattative?

Il nostro parlamento, proprio tutto, a parte 19 deputati di schieramenti misti, chiede al governo di aumentare le spese militari fino al due per cento del Pil. Una bazzecola, direte. Dagli attuali 25 miliardi euro all’anno a circa 38 miliardi di euro.
Lo scorso anno solo 10 Paesi su 30 che aderiscono alla Nato hanno raggiunto questa soglia, tra cui Stati Uniti (3,5 per cento), Regno Unito (2,3 per cento), Polonia (2,1 per cento) e Francia (2 per cento). In media, nel 2021, la spesa per la difesa nei 30 paesi Nato ha rappresentato il 2,65% del Pil complessivo di tutti i Paesi che ne fanno parte.

E il resto del mondo? Idem, si svuotano i granai e si riempiono gli arsenali.

Gli Stati Uniti dovrebbero avere circa quattromila testate nucleari, la Russia circa tremila, non so i numeri di India, Corea, Cina e altri paesi del mondo. Quante ne basterebbero per creare l’inverno nucleare? Per fare diventare l’intero pianeta un biotopo per scarafaggi e insetti robusti, credo ne basterebbero una trentina. E quindi. di cosa stiamo parlando? Se Belzebù potesse fulminare qualche decina di egoarchi, il popolo ne incarcerasse un altro paio di centinaia, forse il mondo prenderebbe un’altra piega.

Ma non c’è nessuna speranza se da qualche parte, nell’unico pianeta che abitiamo, non si innesca un nuovo rinascimento, un nuovo ’68 di speranza e consapevolezza, dove il popolo ucraino e quello russo ritornino ad essere fratelli e ad unirsi contro la violenza del potere.
Un mondo dove i crimini di guerra sono riconosciuti per tutte le guerre. Dove i popoli oppressi sono tutti uguali, dal Centro Europa, al Kurdistan, passando per la Palestina, fino a raggiungere la Siria, la Libia, e poi giù, fino al cuore dell’Africa, oltre l’oceano dove i Mapuche e i nativi americani vivono in gabbie come le scimmie dello zoo. Dove finalmente i profughi di guerra suscitano tutti la stessa indignazione, siano essi bianchi caucasici, arabi, africani o latinoamericani.

L’homo sapiens è uno e unico, non si divide in razze, specie o sottospecie, se non sbaglio condividiamo questo privilegio di unicità solo con una specie di formichiere africano, l’oritteropo (la famiglia, Angela, sarebbe fiera di me).

Dell’accusa di non essere schierato non mi frega niente. Credo di avere il diritto, senza lanciarmi in analisi geopolitiche, di poter dire che la guerra mi fa schifo. Odio il potere e i potenti, qualunque sia la loro bandiera, odio il machismo del capitale. Mi fanno schifo gli ipocriti, i falsi, i bigotti, i corrotti. Provo ribrezzo per chi uccide: con una doppietta, un fucile di precisione, una mitra, un drone, un aereo, un bomba, un missile a corta o lunga gittata. Disprezzo i paradisi fiscali dove amici e nemici si mischiano, forse basterebbe bombardare il Lussemburgo e le Cayman e saremmo liberi.

Questo sfogo potrebbe non avere né capo né coda, però adesso sto meglio.

Obiettori? Ora più che mai.

 

Che cos’hanno in comune un geometra, un maestro elementare, un dirigente d’azienda, un pedagogista e un dipendente pubblico da pochi giorni in quiescenza? In anni diversi, tutti hanno svolto il servizio civile a seguito della scelta di obiezione al servizio militare. Una scelta e un’esperienza che li ha fatti crescere umanamente e professionalmente, e che sentono più che mai attuale.

Alcuni giorni fa si sono ritrovati ripercorrendo le ragioni della loro obiezione, e hanno ritenuto che meritassero di essere confermate anche nelle presenti circostanze. Riproporne il senso acquista un significato ulteriore dal momento che la leva obbligatoria è sospesa ma non cancellata. La questione anche in Italia potrebbe dunque tornare di attualità.

I protagonisti – Michele Balboni, Giordano Barioni, Andrea Casari, Patrizio Fergnani e Mauro Presini – credono che anche altri servizio civilisti avranno piacere di unirsi all’iniziativa per testimoniare l’opposizione alla guerra, il maggior crimine contro l’umanità secondo la definizione di War Resisters’ International.

Inoltre mettono a disposizione la loro esperienza, della quale sentono l’attualità, nei confronti di giovani che vogliano confrontarsi sull’impegno per la pace presso enti di servizio civile, scuole, gruppi e associazioni.
Singoli o gruppi che vogliano mettersi in contatto con loro possono farlo scrivendo all’email noalleguerre.fe@gmail.com

Mi complimento con i 5 moschettieri senza moschetto per questa bella iniziativa. Anch’io ho svolto il servizio civile, obiettando al servizio militare. Oggi, come e più di ieri, contrario ad ogni guerra, refrattario a tutte le armi, fedele alla nostra Costituzione, convinto disertore di qualsiasi esercito.
Francesco (Checco) Monini

AUMENTO SPESE MILITARI
104 (milioni) di motivi per gridare: Vergogna!

 

di Renato Sacco, Consigliere Nazionale di Pax Christi

Il 18 marzo 1935 nasceva don Tonino Bello, Vescovo di Molfetta e Presidente di Pax Christi.
La tentazione è quella di dire: “Se fosse qui oggi don Tonino sicuramente direbbe…”
Oggi sono a Molfetta, la sua città. Questa sera ci sarà una marcia della Pace, sullo stesso percorso di quella Marcia nazionale voluta da don Tonino il 31 dicembre 1992, di ritorno da Sarajevo.

No, non chiediamoci cosa direbbe don Tonino oggi. Ma riscopriamo le sue scelte, i suoi gesti le sue parole, perché siano di stimolo di forza per noi oggi. Per non tacere, noi, qui e adesso.
Pax Christi è già intervenuta in questi giorni per denunciare la pazzia di questa guerra, e di tutte le guerre. Non aggiungo nulla. Solo dolore.
Ma sento il dovere, e con me credo tutta Pax Christi e tante donne e uomini di pace, di gridare forte, proprio da Molfetta la parola VERGOGNA! davanti alla decisione della nostra Camera dei Deputati che ha approvato, il 16 marzo, a larghissima maggioranza un Ordine del giorno che impegna il Governo ad avviare l’incremento delle spese per la Difesa verso il traguardo del 2 per cento del Prodotto lnterno Lordo. Come si legge sul sito www.milex.org “significherebbe passare dai circa 25 miliardi l’anno attuali (68 milioni al giorno) ad almeno 38 miliardi l’anno (104 milioni al giorno)”.

              Sì, è una vergogna!

E non si può accettare una decisione così folle. La guerra è pazzia, e questa decisione ne è la conferma. Con quello che il mondo sta vivendo perché una scelta del genere? Verrebbe da pensare, ma non si può scrivere perché non ci sono le prove, che la lobby delle armi sia cosi forte, da poter allungare anche qualche tangente. Ma… non si può dire.

Faccio mie le parole di un amico di don Tonino Bello, Tonio Dell’Olio, che nel suo Mosaico dei giorni scrive: “Tra la massa di coloro che hanno votato a favore (391 voti favorevoli su 421 presenti, 19 voti contrari) ce ne sono moltissimi di quelli che gridano “Viva il Papa” ogni volta che ripete di ridurre la spese delle armi a favore di quelle sociali. E ci sono pure quelli che dicono che bisogna creare un clima di fiducia tra le nazioni con la cooperazione e il dialogo. Di cosa stiamo parlando esattamente? … Avete letto bene: 104 milioni di euro al giorno. E adesso pensate a quante cose si potrebbero realizzare in questo nostro Belpaese con 104 milioni al giorno.” (www.mosaicodipace.it).

E così il numero 104, finora legato ad una legge che riconosce la possibilità ai lavoratori di dedicare tempo accanto persone anziane o disabili, viene spazzato via da questa valanga di milioni spesi per la morte. Da una 104 per la vita, a 104 milioni di morte di cui vergognarsi!

E Mario Draghi a fine settembre lo aveva detto: “bisognerà spendere molto di più nella difesa di quanto fatto finora…”
Detto. Fatto. Ci prepariamo alla guerra? Anzi no. Oggi non si usa più la parola guerra, ma in Tv si sente spesso dire: ‘Un lungo confronto’. È più soft.

Don Tonino, morto di tumore il 20 aprile 1993, ha sofferto molto per la guerra in Somalia, Iraq, Sarajevo ma anche per le tante e pesanti critiche ricevute. In fondo era un po’ un impallinato della pace…
Ora la Chiesa ce lo indica come Venerabile: dovremmo prenderlo ad esempio. Rileggere le sue parole nel cinema Radnik di Sarajevo, il 12 dicembre 1992: “Allora io penso che queste forme di utopia, di sogno dobbiamo promuoverle, altrimenti le nostre comunità che cosa sono? sono soltanto le notaie dello status quo e non le sentinelle profetiche che annunciano cieli nuovi, terra nuova, aria nuova, mondi nuovi, tempi nuovi… Gli eserciti di domani saranno questi: uomini disarmati!”.

Concludo con le sue parole al ritorno da Sarajevo la sera del 13 dicembre: “Poi rimango solo e sento per la prima volta una grande voglia di piangere. Tenerezza, rimorso e percezione del poco che si è potuto seminare e della lunga strada che rimane da compiere. Attecchirà davvero la semente della nonviolenza? … Fino a quando questa cultura della nonviolenza rimarrà subalterna?… E quale è il tasso delle nostre colpe di esportatori di armi…? Sono troppo stanco per rispondere stasera. Per ora mi lascio cullare da una incontenibile speranza: le cose cambieranno, se i poveri lo vogliono.”.             

Renato Sacco, Consigliere Nazionale di Pax Christi

In copertina: Tonino Bello

articolo originale:  https://www.paxchristi.it/?p=19513

DIARIO IN PUBBLICO
Lettera a Elsa

 

Tra gli innumerevoli riciclaggi anche l’importante onomastico di San Giuseppe diventa la ‘Festa del Papà’, con tutte le lacrime televisive che ci scorrono addosso, non distinguendo più se si deve lacrimare per gli orfani ucraini o per la nascita nel giorno della festa della nascita di un bimbetto tenuto in braccio dal padre collaboratore del parto.

Per ragioni personali ho sempre rifiutato la figura del padre, ma non ho mai potuto non accettarla nel mondo della cultura, addirittura chiamando i miei libri ‘i miei bambini, a cui ho voluto procurare casa e protezione’.

Intanto si consolidava un’altra figura: quella dello zio che ormai fa parte dell’immaginario familiare. Quando si dice ‘zio’ s’intende ‘zio Gianni’, per tutti nipoti e pronipoti e affini.

Ma di un ragazzo, nato dalla penna della mia divina Elsa, mi sento padre. È Arturo. E in questo giorno mi sento di ripubblicare una lettera che le indirizzai e che uscì nel 2012 sulla Nuova Ferrara indirizzata a Lei, l’amatissima.

E non San Giuseppe né padre, ma il fortunatissimo adorante seguace della – per me – più grande scrittrice del secolo breve.

Carissima (posso chiamarti adorata?) Elsa.

Così sono sulla tua isola; anzi, sull’isola di Arturo e improvvisamente tutto si chiarisce quando scrivesti della differenza tra i F.P e gli I.M. Nel Mondo salvato dai ragazzini che tu mi dedicasti con un severa ammonizione: di non rendere carcerario il tuo mondo con le mie armi da critico, i “Felici Pochi” contrastano il male della Storia abitata dagli “Infelici Molti”, (la Storia, quella tremenda, con la S maiuscola) con la loro innocenza, con lo sguardo terribile di Useppe e di Bella, la cagna madre, che non riescono più a capire il canto degli uccellini che commentano le vicende del mondo, della Storia insomma, e sussurrano: “E’ tutto uno scherzo”.

E così muoiono

Purtroppo, la Storia non è uno scherzo. È forse il male da cui i paradisi – perché Procida è un paradiso – non sono immuni. Qui dove la bellezza ha fatto dell’isola il suo regno, la sua giustificazione, viene cacciata con le armi del progresso. È l’incubo del traffico che rende irrespirabile l’aria: è l’indifferenza degli sguardi che affermano il diritto di sporcare la bellezza con la convulsa e purtroppo giustificabile esigenza della ricerca di un lavoro che gli ex marinai procidani ricercano trasformandosi in bottegai, in ristoratori, in cuochi. Cosa conta avere eletto la marina di Coricella, dove Arturo si sarà bagnato, in sito Unesco, se per arrivarci occorre respirare i veleni di un traffico che nulla ha di umano? I colori festosi del borgo ancora saldamente in mano agli abitanti dell’Isola, quei colori che non possono essere cambiati perché così la tradizione ha voluto fossero per rendere più amato e più festoso il ritorno:

Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio;

 e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more

O la presenza di bellissime ragazze, le tue Nunziatelle, Elsa, di una bellezza matura e consapevole che conservano nei visi occhi e labbra di divinità greche.

In questo furore che scambia la bellezza con l’utilità e il godimento del forestiero (quello non avvertito, che nemmeno s’accorge di calpestare la terra degli dèi) Procida sta per subire la stessa sorte delle isole consorelle, quella sorte che ha trasformato Capri e Ischia in luoghi per famosi proponendo memorie irrintracciabili e per sempre cancellandone la qualità. Ancora per poco, la tua isola, adorata Elsa, Procida la bella che un amico marinaio mentre mi porta sulle spiaggette così definisce porgendomi furtivamente un foglietto dove aveva scritto nella lontananza dei viaggi il suo amore per l’isola “ca t’ammalia ‘o core//cu canti e cu surrise assaje cianciuse/c’’a zenniata d’uocchie a labbra schiuse” sarà l’sola di Arturo che vive nelle tue pagine mentre i pesanti limoni dei “giardini di Elsa” cadono al suolo e il luogo dove sei vissuta e hai amato Arturo e la sua giovinezza si è trasformato nella sede “prestigiosa” di uno Yacht Club. 

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Gli assedi delle città: la guerra ripete se stessa.
Dobbiamo tornare a parlare di disarmo

 

L‘assedio è una strategia bellica in cui un esercito controlla l’accesso a una località, di solito fortificata, allo scopo di costringere i difensori alla resa o di conquistarla con la forza. Chi mette in atto un assedio si pone lo scopo di isolare chi lo subisce in modo che questi non possa più avere comunicazioni con l’esterno e che non sia in grado di ricevere rifornimenti di cibo o di mezzi. Ciò avviene, solitamente, circondando l’obiettivo col proprio esercito.
L’assedio è stata una strategia di guerra usata fin da tempi antichissimi che ha avuto quasi sempre esito positivo per gli aggressori.  Gli invasori hanno potuto instaurare “governi fantoccio” dopo aver ridotto l’esercito regolare e i civili allo stremo. Durante gli assedi la percentuale di civili morti è sempre stata altissima. Le prime notizie di assedi arrivano da fonti antichissimi. Ricordo, ad esempio, l’Assedio di Troia, l’Assedio ateniese di Siracusa (413 a.C.), l’Assedio di Costantinopoli (1453), l’Assedio di Leningrado (1941-44) e due assedi che avvennero in Italia: l’Assedio di Torino del 1706 e quello di Roma del 1849.

L’assedio di Torino rappresenta uno dei momenti più cruenti della Guerra di successione spagnola (1701-1714). Da Maggio a Settembre 1709, la città dovette difendersi dagli assalti di circa quarantacinquemila soldati francesi e spagnoli. Venne bombardata con palle di pietra e bombe incendiarie, mettendo a dura prova la resistenza della popolazione civile, mentre nell’intricato labirinto di gallerie scavate nel sottosuolo si combatteva una guerra senza sosta. L’assedio si concluse con la battaglia del 7 settembre, nella quale le truppe austro-piemontesi, guidate da Vittorio Amedeo II e dal Principe Eugenio di Savoia, riuscirono a costringere gli assedianti alla fuga [Qui].

Un secondo assedio avvenuto in Italia, è quello di Roma del 1849. Fu il generale francese Nicolas Charles Victor Oudinot che ordinò l’assedio della città. Il militare, inviato dal presidente della Seconda Repubblica francese Luigi Napoleone, tentò per la seconda volta l’assalto a Roma, capitale della neo-proclamata Repubblica Romana. L’assedio si concluse con la vittoria e l’ingresso dei francesi in città e con l’insediamento di un governo militare in attesa del ritorno di papa Pio IX. Resta tristemente famoso il bombardamento dal Gianicolo con l’utilizzo di bombe a scoppio ritardato, che uccisero soprattutto bambini, andati a vedere da vicino quei proiettili inesplosi. Oudinot entrò in città il giorno 3 luglio e, il 5, prese possesso di Castel Sant’Angelo [Qui].

Fra gli assedi più recenti ricordo l’assedio di Sarajevo avvenuto durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina che  è stato il più lungo assedio del XX secolo. (5 aprile 1992 – 29 febbraio 1996) Tale assedio vide scontrarsi le forze del governo bosniaco, che aveva dichiarato l’indipendenza dalla Jugoslavia, contro l’Armata Popolare Jugoslava (JNA) e le forze serbo-bosniache (VRS), che miravano a distruggere il neo-indipendente stato della Bosnia ed Erzegovina e a creare la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina. Si stima che durante l’assedio le vittime siano state più di 12.000, i feriti oltre 50.000, l’85% dei quali tra i civili. A causa dell’elevato numero di morti e della migrazione forzata, nel 1995 la popolazione si ridusse a 334.664 unità, il 64% della popolazione pre-bellica [Qui].

Un ultimo assedio da ricordare è quello del 2004 di Falluja (in arabo: الفلوجة‎, al-Fallūja), una città del governatorato di al-Anbar in Iraq, situata sull’Eufrate, circa 69 km ad ovest di Baghdad. In Iraq è conosciuta come la “città delle moschee” per le oltre 200 moschee nella città e nei villaggi circostanti. È uno dei luoghi più importanti per l’Islam sunnita nella regione. Nel 2003 è stata coinvolta nella seconda guerra del Golfo. Considerata dal comando angloamericano una irriducibile roccaforte degli insorti sunniti e degli elementi della resistenza irachena, fu teatro di alcuni dei più aspri e violenti combattimenti urbani del conflitto, con un numero elevatissimo di vittime civili. La guerra ha danneggiato circa il 60% degli edifici di cui il 20% totalmente distrutti, incluse 60 moschee della città provocando un elevato numero di vittime. L’utilizzo di ordigni al fosforo bianco su Falluja durante la seconda guerra del Golfo è stato al centro di una grossa polemica, scaturite nel novembre 2005 da un servizio giornalistico di Rainews24.

Nel 2015, MSF (Medici Senza Frontiere Qui) ha supportato circa quarantacinque strutture  mediche nelle parti settentrionali e occidentali della Siria e ha registrato 4.634 morti di guerra, di cui 1.420 (31%) erano donne e bambini del governatorato di Damasco. Questo è un chiaro esempio delle conseguenze mediche e umanitarie delle strategie di assedio militare-continuato. Nel caso di Madaya, né medicinali né cibo sono stati autorizzati a entrare tra ottobre e dicembre, né è stata consentita l’evacuazione di casi medici gravi per cure ospedaliere salva-vita (Qui)Il numero di strutture supportate da MSF è stata solo una parte di tutte le strutture mediche ufficiali e di fortuna in Siria, quindi i dati riportati da MSF rappresentano  un campione relativamente esiguo. Particolarmente preoccupante è il fatto che nel 2015, le donne e i bambini abbiano rappresentato il 30-40 percento delle vittime della violenza in Siria, dimostrando che le aree civili sono state costantemente colpite da bombardamenti aerei e da altre forme di attacco.

Il conflitto siriano del 2015 si è configurato come un insieme di guerre sovrapposte e combattute simultaneamente tra potenze regionali e internazionali entrate nel conflitto in fasi diverse, principalmente tra Stati Uniti e Russia e tra Iran e Arabia Saudita, assumendo i contorni di una proxy war (guerra per procura). Si è inoltre registrato tra dicembre e gennaio 2015 un numero elevato  di morti per fame [Qui].
Così riporta il report di MSF: “Che le infrastrutture civili – come scuole, moschee, ospedali e mercati – siano deliberatamente presi di mira, o che il bombardamento di spazi civili sia il risultato di attacchi aerei e bombardamenti indiscriminati, in entrambi i casi viene violato l’obbligo di proteggere i civili dalla violenza della guerra, nell’inosservanza del diritto internazionale umanitario.”

Venendo alla guerra che si sta combattendo ai confini dell’Europa e che sta preoccupando tutti in questi giorni, la speranza e il desiderata di tutti i costruttori di pace, è quella che in Ucraina non si scateni una campagne militari che assedi le città e trasformi la guerra in corso in un massacro senza uguali.

Mi sembra che la storia ci abbia insegnato molto poco, che gli errori fatti si ripetano sempre uguali, che l’orrore sia sempre quello, che gli assedi tolgono la vita a tutti e che in guerra la maggioranza dei morti è civile. MI chiedo perché nessuno ricordi ciò che è già successo in altre guerre e che questo potrebbe insegnare molto, anche se è vero che né i ricordi collettivi, né quelli individuali sono lineari ma sono il frutto di elaborazioni cognitive complesse che tengono conto della cultura, delle aspettative, dei bisogni, della sofferenza e della follia.

Credo che sia necessario, aldilà del fine negoziale della guerra in corso (prima che muoiano tutti) ritornare a parlare di disarmo mondiale. Mi sembra anche doveroso ricordare che, contrariamente a quanto in maniera molto superficiale viene diffuso come notizia triste, di disarmo si è sempre continuato a parlare e che esiste una vera e propria CD (Conferenza del Disarmo). Istituita nel 1979 dopo la prima Sessione speciale sul disarmo dell’Assemblea Generale dell’ONU, la Conferenza del Disarmo (CD) rappresenta il più importante foro multilaterale a disposizione della comunità internazionale per i negoziati in materia di disarmo e di non proliferazione.

Oggi la Conferenza del Disarmo, sita a Ginevra, è costituita da 65 Paesi membri e 38 Stati osservatori, tra cui i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Cina, Francia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti), gli altri Stati dotati di armamento nucleare e tutti i Paesi militarmente più significativi.
Mi chiedo però quanto sia efficace questa conferenza visto che la spesa per gli armamenti continua ad aumentare in tutto il mondo, Italia compresa.

Infine mi sembra utile citare Johan Galtung  e la sua teoria del trans-armo. Il trans-armo è la trasformazione dell’armamento.
“Noi vorremmo il disarmo – diceva Galtung durante la guerra fredda – ma siamo minoranza e non l’otterremmo. Allora chiediamo che cambi l’armamento, anche per maggiore sicurezza. Fra il riarmo e il disarmo c’è il trans-armo: trasformazione dell’armamento da crescente a calante, soprattutto da strutturalmente offensivo, aggressivo, a strutturalmente, esclusivamente difensivo“. Scriveva inoltre: “Trans-armo: processo di transizione da un modello di difesa fondato su armi di offesa a un modello di difesa che utilizza esclusivamente armi difensive, sino alla loro totale estinzione nel caso della difesa popolare nonviolenta. Comporta un mutamento profondo della dottrina di sicurezza militare e costituisce l’effettiva premessa per un reale e duraturo disarmo generalizzato in quanto non si limita a proporre lo smantellamento dei sistemi d’arma lasciando inalterato il meccanismo che li genera, ma modifica il punto di vista, il paradigma e la dottrina militare” [Qui ].

In copertina: Età neoassira, assedio città elamita di bit-bunakki, da pal. n di assurbanipal a ninive, 648-31 a.c. (licenza Wikimedia Commons)

L’Europa alla prova dei profughi

 

Sembra fatta apposta la direttiva, accompagnata da linee guida per renderla operativa. Prevede infatti protezione temporanea in forme semplificate, rispetto alle procedure di asilo, in presenza di afflusso massiccio di sfollati e condivisione dell’accoglienza tra gli stati membri. L’arcivescovo di Ferrara Gian Carlo Perego, sensibilissimo al tema e presidente di Migrantes, auspica che la decisione possa “aiutare ad aprire menti e cuori all’accoglienza dei profughi. Tutti”.

La Direttiva, 2001/55/CE del Consiglio, 20 luglio 2001, [vedi anche in Nota] è risvegliata dalle bombe russe da un sonno più che ventennale. La Comunità Europea l’adotta perché vicino è il ricordo delle guerre nell’ex Jugoslavia.
Quando gli arrivi però si fanno effettivamente massicci non viene affatto applicata. Una reazione tempestiva di tutela delle persone sfollate, evitando di pregiudicare il normale sistema d’asilo, non appare necessaria.

Quando gli arrivi divengono imponenti ogni paese è lasciato pressoché solo a farvi fronte. Lo si fa con diversa attenzione e ferocia. L’Italia non è tra i peggiori pur subendo una fortissima pressione. La destra, razzista e xenofoba, sfrutta a proprio vantaggio i timori che un’immigrazione inattesa comporta in un paese per più aspetti in crisi. Non solo economica. E questo avviene un po’ ovunque in Europa.

In vario modo gli stati cercano di sottrarsi, sulla pelle dei migranti, dagli obblighi di diritto internazionale, europeo, nazionale.
Chi giunge in un Paese dell’Unione e chiede asilo non può essere respinto. La sua domanda va esaminata secondo norme precise. È un diritto umano riconosciuto, ribadito dal diritto dell’Unione e del Consiglio d’Europa, particolarmente tutelato dalla Costituzione italiana.

Se entrano devi prenderli in considerazione. Allora è importante che non entrino, senza che questo sia respingimento. Di qui la tutela delle frontiere terrestri e marittime per far fronte all’invasione di disperati da tenere fuori, costruendo muri dove si può.
Di qui l’accordo con Stati che non si pongono il problema dell’asilo o dei diritti umani, per bloccare flussi verso paesi europei, in cambio di adeguati finanziamenti.
Oltre ai muri ai confini della fortezza Europa si creano frontiere interne per evitare i movimenti secondari, si esternalizzano le frontiere e dunque il diritto d’asilo. Colpisce il ruolo di avanguardia assunto dalla Danimarca. Si riduce complessivamente l’area della protezione internazionale nell’intera Unione Europea.

[oggi, n.d.r.] L’arrivo più massiccio di profughi ucraini è naturalmente in Polonia, che si mostra capace di adeguata prima accoglienza. Di lì i profughi proseguono il loro viaggio. Non sembra lo stesso governo che respinge nel modo più inumano i profughi alla frontiera con la Bielorussia. Anche se a quel confine, come a questo, il meglio della società civile polacca soccorre generosamente.
Il Governo polacco però non ha cambiato atteggiamento. Assieme ai suoi compari del cosiddetto gruppo di Visegrad, con l’aggiunta dell’Austria, memore del suo passato imperiale, ha ottenuto una modifica al testo originale di applicazione della Direttiva. Si prevede un possibile trattamento diverso per i cittadini ucraini rispetto ai residenti in Ucraina di altre nazionalità.
Sia mai che qualche colorato si insinui tra i profughi ucraini-ucraini.

Tra gli effetti della guerra non sembra esserci l’apertura di menti e cuori auspicata da Perego. Al contrario, l’emergenza guerra fa passare in secondo piano (dimenticare?) le misure dell’Unione per ricondurre Polonia e Ungheria al rispetto dello stato di diritto e dei valori europei, solennemente condivisi al momento dell’adesione.

Mi è parso doloroso il distacco della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Consola l’idea che questo possa agevolare la trasformazione dell’Unione in uno stato federale democratico e agente di pace, capace di sottrarre il popolo europeo ai deliri nazionalisti e guerrafondai. Leggo titoli come: Ucraina, profughi: i Paesi Ue ne hanno accolti 2,2 milioni, la Gran Bretagna solo 300 o anche: Guerra in Ucraina, Gran Bretagna: sì ad aiuti militari no ai profughi in fuga.

Anche in Italia c’è chi pensa che occorra combattere fino all’ultimo uomo, ucraino naturalmente. Invece per attuare la Direttiva, risvegliata dal sonno, occorre che tutti i Paesi europei concordino delle quote per farsi carico della prima accoglienza.
È questo il primo passaggio, fin che dura l’emergenza. Si deve favorire la scelta del profugo del paese dove stabilirsi. Il diritto di scegliere va garantito anche poi, per i rifugiati che non torneranno in Ucraina. Il loro ritorno, in sicurezza, dovrà essere accompagnato. Queste misure vanno estese ai rifugiati di tutte le guerre.

Fare fronte adeguatamente a quest’esodo è sommamente impegnativo. Mobilita le risorse pubbliche e della società che ogni tanto, merita l’aggettivo di civile. “Potrà raggiungere e superare i 5 milioni di profughi, che si aggiungono agli oltre 5 milioni di immigrati ucraini nel mondo” stima Perego. Ricorda pure la presenza rilevante di ucraini in Italia e il ruolo straordinario di molte donne, che si prendono cura dei nostri bambini e dei nostri vecchi, supplendo alle carenze di assistenza. “Tutti i rifugiati e profughi hanno la stessa storia”, tutti meritano l’aiuto di cui siamo capaci.

Nota
Direttiva, 2001/55/CE Norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli stati membri che ricevono sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi”

Per leggere tutti gli articoli di Daniele Lugli, clicca sul suo nome,

Perchè il nostro impegno per il riciclo e il riuso è un atto politico

E’ chiaro a tutti che l’emergenza globale determinata dai cambiamenti climatici rappresenta il problema con cui tutti i Paesi a livello mondiale, in maggiore o in minor misura, stanno facendo i conti e li dovranno fare sempre più negli anni a venire.
La produzione di gas climalteranti, come la CO2 in primis, ma anche come il metano, il biossido d’azoto e altri derivati dalla combustione delle fonti fossili ai fini della produzione energetica, sono la causa principale del riscaldamento del pianeta.
La società capitalista e il modello liberista, che hanno preso il sopravvento ormai in tutti i Paesi, si fondano sullo sviluppo senza limiti del consumismo produttivista di una parte della popolazione, quella più ricca(cioè anche noi), e sullo sfruttamento delle popolazioni più povere e delle risorse naturali (acqua, aria, estrazione di minerali, distruzione di foreste, cancellazione di forme vegetali e animali con perdita di biodiversità ecc..).
La produzione di beni semplici e complessi, la trasformazione dei prodotti, la movimentazione delle merci e tutte le fasi, fino al consumatore finale, esigono un dispendio di energia enorme, un’altrettanto enorme disponibilità di risorse naturali e danno luogo a grandi sprechi sia di energia che di risorse. Tutto questo viene ottenuto attraverso forme di sfruttamento del lavoro e delle persone che si pensavano inimmaginabili in società avanzate e ‘civilizzate’ come i Paesi occidentali. Per non parlare delle condizioni “sotto il livello di sopravvivenza” in cui sono costretti i popoli di quelli che amiamo chiamare “Paesi in via di sviluppo”.
Sappiamo bene ormai, e da più di mezzo secolo, che le risorse del nostro pianeta sono ‘finite’, non infinite e inesauribili. Sappiamo anche che la velocità di consumo e di spreco delle stesse sembra diventata  inarrestabile. Eppure, sotto il dominio della finanza e del mercato, e con il silenzio assenso dei capi di governo, il motore consumista continua a girare a pieno regime.
La prima conseguenza del consumismo, quella che è davanti agli occhi di tutti, è l’incredibile produzione di rifiuti. Rifiuti che, per essere smaltiti, non solo richiedono un’altra grande quantità di energia, ma che provocano ulteriori forme di inquinamento delle risorse naturali e la  devastazione di aree e territori.
Si può fare qualcosa? Si può rompere la catena di questo circolo vizioso?
Forse sì. Almeno un piccola cosa, che possiamo fare tutti: allungare il più possibile la durata di vita di ogni bene prodotto (riuso) e impiegare qualsiasi bene-rifiuto quale risorsa per un nuovo processo (riciclo) e utilizzo.
Ogni volta che riutilizziamo qualcosa, stiamo risparmiando risorse naturali, evitiamo la produzione di beni inutili e ulteriori rifiuti, risparmiamo energia, evitando la produzione di gas climalteranti.
Se mi dite che è poco davanti a un sistema economico che sarebbe da ribaltare da cima a fondo, rispondo che – aspettando la rivoluzione e il sol dell’avvenir – l’impegno per il riciclo e riuso è comunque un atto politico. Una atto consapevole di rifiuto di una società che sfrutta persone, animali, beni comuni e minaccia la sopravvivenza del pianeta Terra.

VITE DI CARTA /
Marco Bechis: “La solitudine del sovversivo”
Storia di un sopravvissuto al carcere argentino

 

C’ero anch’io ad ascoltare Marco Bechis [Qui] alla Sala Estense lunedì 7 marzo, intervenuto a presentare per la rassegna Esercizi di memoria il suo recente La solitudine del sovversivo, il libro uscito nella primavera del 2021, in cui egli racconta la sua storia personale di sopravvissuto alla detenzione in un carcere argentino nel 1977 e insieme la dittatura militare a Buenos Aires e la piaga dei desaparecidos.

Ero insieme a un centinaio di studenti del Liceo Ariosto e alle docenti che li hanno coadiuvati nell’organizzazione dell’incontro, ad altri colleghi della scuola (alcuni in pensione come me) venuti per interesse verso un evento come questo. Risucchiata dentro alle attività del progetto di lettura che ho contribuito a fondare nel 2003 al Liceo e a cui ho lavorato fino alla pensione nel 2020.

Il progetto si chiama Galeotto fu il libro e Galeotti si chiamano tutti coloro che vi partecipano, gli studenti che scelgono di iscriversi al gruppo di lettura e i docenti di alcuni dipartimenti di materia, non solo insegnanti di Lettere. Perché ho dovuto ripercorrere il perimetro di questa attività che non ho mai lasciato e da cui sono stata letteralmente conquistata anche lo scorso lunedì?

Perché ancora una volta ho provato uno straordinario senso di inclusione. Me l’hanno fatta sentire le colleghe e amiche, che mi hanno accolta come se fossi ancora dentro la scuola e lavorassimo ancora insieme.

garage olimpoMe l’hanno accordata subito le ragazze rimaste a pranzo con noi insegnanti e il nostro ospite: davanti a un piatto di cappellacci con la zucca e tra un commento e l’altro all’incontro appena finito, tra una domanda a Bechis su cosa sta preparando ora, se libro o film (risposta: “un film”) e il progetto di incontrarci di nuovo per vedere insieme il suo Garage Olimpo del 1999.

 

la solitudine del sovversivoChiara mi presta la sua copia di La solitudine del sovversivo; è un libro che ho letto solo per le pagine iniziali e avere ascoltato la conversazione dei ragazzi con l’autore mi spinge ulteriormente a conoscerlo. Sempre Chiara non riesce a prestarmi il canovaccio con le domande preparate per oggi, perché deve consultarle se vuole scrivere sul suo blog il resoconto di questa giornata.

Ci scambiamo i numeri di cellulare e al mio rientro a casa trovo il suo whatsapp con il link del blog; in risposta le invio un mio Di Mercoledì risalente all’estate scorsa, che ho dedicato a Fabio Genovesi e al suo Il calamaro gigante [Qui].

Genovesi verrà a scuola la prossima settimana e Chiara, che ha letto il libro, partecipa anche a questo gruppo di lavoro. In quell’occasione potrò restituirle il libro di Bechis. Domani intanto potrò leggere sulla stampa locale l’articolo scritto sull’incontro di oggi dalle giovani giornaliste galeotte.

Che dire di un rapporto così? Della lunghezza d’onda comune ritrovata nel giro di una tarda mattinata e di un pranzo? Della facilità con cui si conversa a tavola, della tenerina al cioccolato mangiata a metà con Bechis, mentre ancora gli chiediamo dei suoi lavori e personalmente dico che sento l’urgenza di leggere il suo libro nei prossimi giorni, mentre ancora ho chiaro in mente il suo volto, le inflessioni della voce e la generosità con cui ha dato risposte dirette alle domande incalzanti dei ragazzi.

Ho finito poco fa di leggerlo. È un libro di grande qualità narrativa ma soprattutto è un libro-specchio, in cui chi ha scritto ha voluto con onestà totale porsi davanti a se stesso. Per una rivisitazione analitica e insieme sintetica degli ultimi quaranta e oltre anni di vita, per un senso che si rende ancora possibile afferrare e restituire alla parabola del vissuto.

Tra il vuoto del dopo-prigionia e i pieni della vita come uomo e come padre, come regista e scrittore da una parte, come cittadino dall’altra. Cittadino del mondo: Bechis è uno che non può esistere senza viaggiare, uno che ritiene arcaico il concetto di identità nazionale e si è fatto la propria con le abitudini e i tratti culturali che ha metabolizzato in una moltitudine di paesaggi e di paesi, alloggi comunitari e case, in cui ha vissuto e vive con le persone care.

Il suo libro costituisce un atto artistico e un atto politico; come è stato per i film che ha girato, anche la scrittura lo ha aiutato a uscire dal “carcere mentale” in cui è vissuto dopo la liberazione dalla prigione sotterranea al Club Atletico di Buenos Aires nel 1977, quando aveva poco più di vent’anni.

Le esperienze artistiche sono cominciate un anno dopo il rientro a Milano: Bechis si sposta a Parigi per un servizio fotografico nei caffè cittadini del primo ‘900 e in quella occasione comprende quanto rigore e intransigenza occorrano per costruire un’opera d’arte, quanto l’opera  debba coincidere con la vita.

Alla pagina 215 del libro leggo le riflessioni di allora “L’arte non può fare a meno della politica, sto iniziando a coniare una mia personale maniera di fare arte e quindi politica, l’azione artistica è intrinsecamente politica, altrimenti non è.”

Il suo è un libro non solo sulla memoria come esercizio introspettivo e di bilancio sul passato individuale e collettivo, ma anche come intersecazione col presente e col futuro. Come le domande degli studenti lo hanno indotto a spiegare, è un libro sull’essere eroi e traditori al tempo stesso, sul senso di colpa dei sopravvissuti alle torture dei militari argentini, sul vuoto incolmabile che è scavato dentro.

Il vuoto che la giustizia dei tribunali non ha colmato nel lungo dibattimento conclusosi a Buenos Aires nel 2010 con severe condanne ai diciassette aguzzini ancora in vita, ritenuti rei di crimini contro l’umanità.

Il loro è stato per tutta la durata del processo un “silenzio violento”: nessuno di loro ha confessato alcunché, non i nomi dei torturati, non il luogo delle sepolture, non le circostanze dei voli della morte per gettare i prigionieri nell’oceano.

figli/hijosNon le famiglie dove vivono i bambini strappati appena nati alle giovani madri poi fatte scomparire, come Bechis ha raccontato nel film Figli/Hijos del 2001. Senza dare la possibilità alle madri di elaborare una assenza che le ha segnate per sempre.

Tutto questo è incredibile che possa stare dentro una sola persona, la stessa che a tavola conversa con bonomia e ha la leggerezza di assaggiare una piatto nuovo col sorriso e di voler vedere la Rotonda Foschini, che sa essere insieme al Teatro comunale uno dei gioielli di Ferrara.

La stessa che, facendo precisi riferimenti alla guerra in atto in Ucraina, ha richiamato i ragazzi ai valori fondamentale del rispetto e della libertà, che li ha spinti a esercitare il diritto al voto appena avranno diciott’anni, che li ha esortati non a sperare e basta ma a domandarsi “cosa posso fare”?

Alla domanda “Lei come vede la nostra generazione?” ha risposto senza esitazioni e senza alcuna ombra di protagonismo “Avete un compito difficilissimo in un mondo come questo in cui tutto è più invisibile”.

Nota biblio/filmografica:

  • Marco Bechis, La solitudine del sovversivo, Ugo Guanda Editore, 2021
  • Marco Bechis, Figli/Hijos, 2001  (Italia, Argentina)
  • Marco Bechis, Garage Olimpo, 1999 (Italia)

In copertina: il regista Marco Bechis, Ph Marie Hippenmeyer

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica di Mercoledì, clicca [Qui]

Teatro Abbado: Il Nodo, bullismo e adolescenza

Il tema delicato del bullismo è andato in scena al Teatro Comunale di Ferrara dall’11 al 13 marzo, nello spettacolo Il Nodo, di Serena Sinigaglia.

L’opera di uno delle più interessanti drammaturghe americane sulla scena attuale, Johnna Adams, è stata interpretata da Ambra Angiolini e Arianna Scommegna, una madre e un’insegnante, due donne alle prese con una delle questioni più delicate, scottanti e attuali sul mondo dell’adolescenza. Una narrazione di grande impatto emotivo, che oscilla fra pathos e suspense, con grande attenzione sulla genitorialità.

Ci troviamo in un’aula di una scuola pubblica, un luogo che diventa quasi un’arena, un campo di battaglia fra due mondi; è l’ora di ricevimento per un’insegnante di una classe di prima media, Heather Clark (interpretatada Arianna Scommegna). La donna è tesa. Al colloquio si presenta inaspettatamente, Corryn Fell (Ambra Angiolini), la madre di un suo allievo, Gidion: il ragazzo è stato sospeso, dopo essere rientrato a casa pieno di lividi. La madre vuole a tutti i costi, e giustamente, capirne le ragioni. È stato vittima di bullismo o forse lui stesso è stato un molestatore… forse l’insegnante l’ha trattato con asprezza…

Sciogliere questo nodo, cercare la verità è l’unica possibilità a cui aggrapparsi. Perché, come conseguenza del fatto, il figlio ha commesso qualcosa di tremendo, di irreparabile. E solo un confronto durissimo tra le due donne potrà dare un senso al dolore, allo smarrimento e al loro reciproco, soffocante senso di colpa.

Il titolo originale, Gidion’s Knot, rimanda al nome del giovane Gidion, appunto, ma è anche un gioco di parole: in inglese suona come gordian’s knot, il “nodo gordiano”. “È un nodo che non puoi districare se non tagliandolo di netto – spiega la regista – la metafora del titolo è dunque chiara: esistono conflitti che non possono più essere sciolti, ma solo recisi”.

Al centro de Il nodo c’è un dialogo incandescente su valori e responsabilità, fra il mondo della scuola, in continua trasformazione, e quello della famiglia. Viviamo in una società dove i genitori troppo spesso difendono a oltranza i figli, difendendo in realtà solo se stessi. Una società dove gli insegnanti sono sottopagati e poco considerati, dove un qualsiasi ragazzo ha il diritto di sentenziare sulla validità dell’insegnamento, dove a volte fare l’insegnante è un ripiego, non il più nobile degli incarichi.

“Il nodo – continua Sinigaglia – non è semplicemente un testo teatrale sul bullismo – il che basterebbe a renderlo attuale e necessario – è soprattutto un confronto senza veli sulle ragioni intime che lo generano. Osa porsi domande assolute come accade nelle tragedie greche, cerca le cause e non gli effetti. Ed è questo aspetto ad attrarmi di più”.

Heather e Corryn non sono solo l’insegnante e la madre di Gidion; il loro conflitto, come quello tra Medea e Giasone, tra Dioniso e Penteo, tra Eteocle e Polinice, per la regista racchiude in sé tutti noi come singoli individui e tutti noi come società e ci pone di fronte alle nostre responsabilità: “Per ogni ragazzo ferito, umiliato, ma anche per chi umilia e ferisce siamo noi a essere sconfitti, come individui e come società, nostra è la responsabilità, nostra è la pena e il dolore. La madre e l’insegnante di Gidion, nel frastuono e nel clamore della loro battaglia non si accorgono che solo una voce resta muta e lontana: quella del figlio”.

ALCUNE NOTE SULL’AUTORE

Johnna Adams si è laureata al DePaul University Theatre School di Chicago, nel 1995. Ha poi seguito vari corsi con importanti drammaturghi americani, tra cui Marsha Norman, Steve Diets, Paula Vogel. Nel 2008, il suo testo Rattles debutta a Fullerton, in California; lo spettacolo viene segnalato dai critici come il migliore tra i nuovi progetti. Sempre nel 2008, il Flux Theatre Ensemble di New York mette in scena le sue tre commedie che compongono The Angel Eaters Trilogy. La trilogia viene nominata in sette categorie del New York Innovative Theater Awards, tra cui miglior commedia originale. Nel 2009, la sua commedia Sans merci vince il premio Reva Shirer, nel 2011, vince il Princess Grace Award – New Dramatists; nel 2012, Il Nodo viene pubblicato dall’American Theatre Magazine e nello stesso anno è prodotto dal Contemporary American Theater Festival. Debutta a Shepherdstown in Virginia e viene messo in scena da altre 40 produzioni americane, toccando numerose città tra cui New York, Philadelphia Chicago, Dallas, Houston, Berkeley e Los Angeles. Nel 2013, ha ricevuto una menzione speciale dalla Steinberg American Theatre Critics Association.

Guerra Ucraina: invio di armi e propaganda.
Intervista al Generale Fabio Mini

(intervista rilasciata alla redazione di l’AntiDiplomatico il 10 marzo 2021).

“Negoziare, finirla con il pensiero unico e la propaganda, aiutare l’Ucraina a ritrovare la ragione e la Russia ad uscire dal tunnel della sindrome da accerchiamento non con le chiacchiere ma con atti concreti.”. E’ il pensiero di Fabio Mini, generale di Corpo d’Armata dell’Esercito Italiano, già Capo di Stato Maggiore del Comando NATO del Sud Europa e comandante della missione internazionale in Kosovo. “E quando la crisi sarà superata, sperando di essere ancora vivi, Italia ed Europa dovranno impegnarsi seriamente a conquistare quella autonomia, dignità e indipendenza strategica che garantisca la sicurezza europea a prescindere dagli interessi altrui

 

Dal Golfo di Tonchino alle armi di distruzione di massa in Iraq – e tornando anche molto indietro nella storia – Generale nel suo libro “Perché siamo così ipocriti sulla guerra?” Lei riesce brillantemente a ricostruire i falsi che hanno determinato il pretesto per lo scoppio di diverse guerre. Qual è l’ipocrisia e il falso che si cela dietro il conflitto in corso in Ucraina?

Il falso è che la guerra sia cominciata con l’invasione russa dell’Ucraina. Questo in realtà è un atto nemmeno finale di una guerra tra Russia e Ucraina cominciata nel 2014 con l’insurrezione delle provincie del Donbas poi dichiaratesi indipendenti. Da allora le forze ucraine hanno martoriato la popolazione russofona ai limiti del massacro e nessuno ha detto niente. Per quella popolazione in rivolta contro il regime ucraino non è stata neppure usata la parola guerra di liberazione o di autodeterminazione così care a certi osservatori internazionali. E’ bastato dire che la “Russia di Putin” voleva tornare all’impero zarista per liquidare la questione. L’ipocrisia è l’atteggiamento della propaganda occidentale pro-Ucraina che, prendendo atto che esiste una guerra, finge di non sapere chi e che cosa l’ha causata e si stupisce che qualcuno spari, qualcun altro muoia e molti siano costretti a fuggire. Ipocrisia ancor più grave della propaganda è il silenzio omertoso di coloro che tacciono sul fatto che dal 2014 Stati Uniti e Nato hanno riversato miliardi in aiuti quasi interamente destinati ad armare l’Ucraina e migliaia di professionisti della guerra per addestrare e arricchire i gruppi estremisti e neo- nazisti.

 

Nella stampa occidentale si tende a definire Putin come “un pazzo che ha scioccato il mondo con la sua iniziativa”. Eppure in un video del 1997 l’attuale presidente americano Biden dichiarava come l’allargamento ai paesi baltici (non all’Ucraina!) della Nato sarebbe stato in grado di generare una risposta militare della Russia. Non crede che dal 2014 l’Europa abbia sottovalutato la questione ucraina?

Non credo sia stata sottovalutata, ma è stata volutamente indirizzata verso la trasformazione graduale del paese in un avamposto contro la Russia, a prescindere dalla sua ammissione alla Nato. Di qui la pseudo rivoluzione arancione “ (2004), il sabotaggio interno ed esterno di ogni tentativo di stabilizzazione, l’alternanza di governi corrotti, la pseudo rivolta di Euromaidan, il colpo di stato contro il presidente Yanukovich (2014) fino alla elezione di Zelensky. Quest’ultimo è passato da un programma elettorale contro gli oligarchi, contro la corruzione politica e la promessa di “servire il popolo” ad una politica dichiaratamente provocatoria nei confronti della Russia. E questo era esattamente ciò che volevano gli Stati Uniti e quindi la Nato dal 1997.

 

Il tema dell’espansione Nato però è sempre stato tabù da noi…

L’espansione della Nato a est iniziata in quell’anno dopo una serie di prove di coinvolgere nella “cooperazione militare “i paesi dell’Europa orientale ( programma “Partnership for peace”) è stata una provocazione continua per 24 anni. Per oltre un decennio la Russia non ha potuto opporsi e la Nato, sollecitata in particolare da Gran Bretagna, Polonia e repubbliche baltiche ha pensato di poter chiudere il cerchio attorno ad essa “attivando” sia Georgia sia Ucraina. La Russia è intervenuta militarmente in Georgia e questo ha dato un segnale forte agli Usa e alla Nato, che non hanno voluto intervenire. Durante la crisi siriana del 2011 la Russia si è schierata con il governo di Bashar Assad e successivamente con la guerra all’Isis è intervenuta militarmente dando un contributo sostanziale alla sua neutralizzazione. Bashar Assad è ancora lì. Le operazioni russe in Siria ancorchè concordate e coordinate sul campo con la coalizione a guida americana, hanno disturbato i piani di chi voleva approfittare dell’Isis e delle bande collegate per destabilizzare l’intero Medioriente.  Un altro segnale del mutato umore russo è stata l’annessione della Crimea subito dopo il colpo di stato contro Yanukovic sostenuto dagli Stati Uniti e in particolare dall’inviata del Dipartimento di Stato Victoria Nuland e dall’allora vice presidente Biden. Dal 2014 in poi l’Ucraina con il sostegno degli Stati Uniti e della Nato ha assunto una linea ancora più ostile nei confronti della Russia e iniziato ad integrare nelle forze armate e nella polizia  i gruppi neonazisti che si erano “distinti” negli scontri di Maidan. Gli stessi che ora organizzano la “resistenza ucraina” e coordinano i circa 16000 mercenari sparsi per il paese. Per tutto questo mi sento di dire che la Nato non ha trascurato l’Ucraina, anzi l’ha spinta con forza in un’avventura pericolosa per entrambi e soprattutto per noi europei.

In una recente apparizione in TV Lei ha detto di aver avuto modo di conoscere in prima persona i generali russi e ha definito quella russa “una guerra limitata per scopi limitati”. Quali sono gli obiettivi che i russi si sono posti sul territorio secondo lei?

In Kosovo avevo alle dipendenze anche il contingente russo di cui una parte garantiva sicurezza dell’aeroporto militare/civile di Pristina e un’altra schierata nel settore montano al confine con la Serbia. I rapporti con i generali russi erano quasi giornalieri e sempre molto corretti soprattutto nei miei confronti (in quanto italiano). Parlavamo di sicurezza collettiva e di futuro del Kosovo, una cosa alla quale nessuno nella Nato aveva pensato prima di andare in guerra. Parlavamo anche di operazioni militari e di dottrina. Vent’anni fa. La guerra limitata è una categoria prevista anche da Clausewitz e i russi sono sempre stati clausewitziani. All’inizio dell’invasione ho cominciato a vedere i segni non di una operazione speciale come l’ha definita Putin, ma di una serie di operazioni ad obiettivi limitati, unite dallo scopo strategico di impedire all’Ucraina di diventare il fulcro della minaccia militare alla Russia , ma tatticamente indipendenti. Le operazioni riguardavano la messa in sicurezza di territori del Donbass, la fascia costiera del mare d’Azov e del Mar Nero fino a Odessa e, se necessario, fino al confine con la Moldavia neutrale. L’avanzata su Kiev doveva essere l’operazione principalmente politica di pressione per i negoziati e l’eventuale instaurazione di un governo favorevole alla linea russa. Questa operazione non vincolata né al tempo né agli obiettivi: dipende dagli eventi. Se quelli diplomatici, politici e operativi evolvono in maniera soddisfacente l’operazione può essere interrotta. In caso contrario, dalla marcia d’afflusso le forze possono passare allo schieramento attorno alla città, e se ancora gli eventi sono negativi possono passare alla “preparazione” di fuoco poi al fuoco aereo e poi se e quando la città è allo stremo potrà iniziare la presa vera e propria della città. Questo tipo di operazioni con la tecnica del carciofo ha spiazzato tutti gli analisti della domenica che si aspettavano e forse cinicamente si auguravano di vedere la tempesta di fuoco alla quale ci hanno abituato gli americani in tutte le loro guerre. Ovviamente questa incredulità ha alimentato le speculazioni sull’effettiva potenza dell’apparato russo e sulla eroica resistenza ucraina che avrebbe arrestato  l’invasione. L’apparato che vediamo in televisione dice però una cosa diversa: l’operazione è ancora intenzionalmente alla prima fase, in attesa di eventi. In questa situazione i vantaggi vengono soltanto dall’efficacia e credibilità della pressione. Gli svantaggi riguardano sia le provocazioni esterne (da parte della Nato) sia il rafforzamento della resistenza interna che non muterebbe il risultato dell’operazione ma farebbe molti più danni.

 

Ritiene che le armi che l’Italia invierà e i mercenari che stanno influendo potranno incidere sulle sorti del conflitto? E se comunque possono essere causa di ulteriori rischi…

Credo proprio di no. Lo renderanno più sanguinoso e anche di livello operativo più elevato. In caso di squilibrio di forze tattiche , si tende a passare a quello strategico e allora potranno essere impiegate armi di livello strategico come bombardieri, missili e perfino armi nucleari tattiche: tutte cose che porterebbero ad uno scontro diretto fra Nato e Russia.

 

Ritiene che il pericolo che i jihadisti-mercenari possano affluire dalla Siria in Ucraina in gran numero? E che complicanze si creerebbero nel conflitto?  

I Jihadisti mercenari saranno pochi e potranno influire sul livello di barbarie, alzandolo. Di mercenari ce ne sono tanti e sono anche ben pagati. Quelli per l’Ucraina con i soldi nostri e quelli per la Russia con i soldi russi. L’afflusso di mercenari ha però un lato interessante: smonta completamente la tesi dei volontari combattenti per la patria. Inoltre, le compagnie di mercenari o contractors non si accontentano mai della semplice paga per i soldati ma pretendono sempre grandi cose dagli stati che li assoldano. Vogliono anche potere, assetti  nazionali importanti come miniere, industrie, infrastrutture sensibili. Non sono mai soddisfatti e sono caduti dei regni per mercenari insoddisfatti.

Sui negoziati in Bielorussia. La Francia e Germania sembrano orientate ad un approccio di maggior mediazione mentre il nostro paese, assente nel vertice franco-tedesco-cinese, sembra preferire una visione più oltranzista. Giudica le richieste della Russia una base di partenza valida per l’Europa e cosa si rischia prolungando l’attesa di un vero confronto?

Le richieste russe, come in qualsiasi negoziato sono la base di una discussione. Se non è soddisfacente, ciascuna parte deve finirla di dire cosa vuole e cominciare a pensare cosa può cedere. In genere il più forte è quello più disponibile a cedere perché ritiene di “concedere” e quindi mantiene il prestigio intatto. La parte più debole deve solo ridimensionare il livello di ambizione. In questo caso ogni minima riduzione dell’ambizione ucraina porterebbe una grande concessione: la salvezza del paese. Il nostro paese ha decretato unilateralmente, come se parlasse per tutti, la fine dei negoziati, fra l’altro con un atteggiamento bullistico. L’atteggiamento degli altri è molto meno arrogante. E questo li rende in sintonia. Ma anche nel bullismo non siamo fra i migliori. La Gran Bretagna e la Polonia ci battono.

 

Il governo polacco ha dichiarato di voler fornire i propri Mig alle forze ucraine, ma facendoli partire dalle basi tedesche. Gli Stati Uniti hanno poi frenato l’iniziativa polacca. Quanto è reale l’opzione di una No fly zone in Ucraina e quanto è probabile un futuro coinvolgimento militare della NATO?

La dichiarazione di No fly zone dei cieli dell’Ucraina sarebbe un modo per accelerare il disastro. Chi la sta chiedendo a gran voce vuole il disastro e dimostra la propria incapacità di controllare il proprio spazio aereo. Vuole un pretesto per trascinare in guerra tutta l’Europa. Non dobbiamo cedere a questa tentazione perversa, soprattutto nei momenti come questi quando un attacco aereo finisce per colpire un padiglione di ospedale e l’emozione soffoca la razionalità.

La narrativa occidentale cerca oggi di minimizzare (o censurare del tutto) la presenza di neo-nazisti nei battaglioni incorporati alle forze ucraine, nonostante decine di reportage (dalla Bbc al Time al Guardian) in passato avessero fatto luce sulla vicenda con toni giustamente inorriditi. Ritiene credibile Putin quando parla di denazificare l’Ucraina come uno degli obiettivi?

La denazificazione a cui si riferisce Putin non riguarda l’Ucraina, ma il suo apparato governativo in cui tali elementi si trovano anche in posizione di vertice. I reportage hanno tutti ragione e comunque non rendono l’esatto conto della presenza e dell’influenza di questi gruppi. Sono state proprio le forze di polizia e dell’intelligence ucraina ad opporsi all’inserimento di tali elementi nei loro ranghi. Hanno dovuto subire ma oggi la caccia al russo (o filorusso) potrà mutare in caccia al nazi e visti i numeri e la frenesia degli interessati non mi stupirei se domani l’Ucraina cadesse dalla padella della guerra contro la Russia nella brace di una guerra civile .

 

Cosa dovrebbe fare il governo italiano in questo contesto e più in generale l’Europa?

Negoziare, finirla con il pensiero unico e la propaganda, aiutare l’Ucraina a ritrovare la ragione e la Russia ad uscire dal tunnel della sindrome da accerchiamento non con le chiacchiere ma con atti concreti. E quando la crisi sarà superata, sperando di essere ancora vivi, Italia ed Europa dovranno impegnarsi seriamente a conquistare quella autonomia, dignità e indipendenza strategica che garantisca la sicurezza europea a prescindere dagli interessi altrui.

DIARIO IN PUBBLICO
Riflessioni involontarie

 

Mi gingillo con tanti lavori cominciati e solo pochi conclusi: Bassani, Canova, Paola Masino, Elsa Morante, mentre l’occhio ansioso non abbandona le immagini e i commenti che la tv propaga ad ogni ora del giorno e della notte.

Dall’inconscio affiorano le terribili immagini che da bambino mi hanno accompagnato come ossessione e incubo, legate alla presa di coscienza che quello era – ed è – il mondo che mi toccava vivere. Unica salvezza: rifugiarsi nell’immaginario che diventa Storia, come ha scritto e insegnato la grandissima Elsa [Qui].

Nel mio percorso (orrida parola che rimanda al percorzo ogni giorno recitato nei mezzi di comunicazione) umano e culturale ho imparato che l’immaginario è ciò che di più reale vi sia e ci sia imposto. Un reale che s’impone e che non lascia via di scampo, come ha scritto ed esemplato il mio Cesarito, Cesare Pavese [Qui].

Allora la divaricazione tra vissuto quale fonte dell’immaginario e la realtà si fa precisa, dura, implacabile. L’esempio che spesso ho portato in anni giovanili al mio psicanalista è che qualunque avvenimento più o meno clamoroso si ritorceva – e tuttora si ritorce – in immagini familiari, in vissuto.

Allora, guardando la tragedia dell’Ucraina, involontariamente l’inconscio riporta alla memoria i passi cadenzati dei soldati tedeschi, che alla fine della seconda guerra mondiale si spostavano al Nord, mentre noi tremavamo nel ridicolo rifugio che ci ospitava, appoggiato al muro della Villa delle Statue.

O la sensazione del dolore fisico, che si propaga dalle innumerevoli immagini degli ospedali ucraini, che mi fa ancora dolere l’estirpazione di una ghiandola sotto la gola eseguita da un medico militare a Riccione, o nell’ospedale sant’Anna di Ferrara semi-assediato in tempo di guerra il terrore di mio fratello e mio, condotti mano nella mano all’operazione di ernia, eseguita bruscamente e duramente. Unica consolazione le camicie da notte mia e di mio fratello, di felpa bianca con cagnolini azzurri.

Sarebbe allora pericoloso rifugiarsi nell’immaginario? Certamente sì se non si compisse l’operazione rischiosa ma necessaria di far divenire l’immaginazione realtà, non rifiutando il vissuto, ma partendo da quello.

Ogni volta che un peloso attraversa la mia esistenza, specie le mie due Lille, ecco che il vissuto proietta nello specchio dell’immaginazione la Pupa grassa e ringhiosa, il mite Tavi e anche quelli che avrei voluto, ma che non mi è stato possibile avere.

Così l’immagine tremenda del ragazzo ucraino che porta in spalla per chilometri un grande cane dice in modo angoscioso e irreversibile come gran parte degli umani sia indegna di trattenere rapporti con gli altri ‘animali’ che popolano il pianeta.

E la frase che stupidamente pronunciamo come offesa e ingiuria: “Ti comporti come un animale”, andrebbe rovesciata in quella ancor più mostruosa e offensiva: “ti comporti come un uomo”.

Esempio totale e assoluto l’osceno Putin.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Lo Zar teme le libertà e l’Occidente gioca a Risiko:
il disarmo globale è l’unica realpolitik possibile

 

Non so dire quanto sia mortificante scrivere di una guerra comodamente seduto nel tepore della propria casa. E’ un esercizio quasi spudorato, perchè davanti ai nostri occhi non c’è un plastico con le basi missilistiche di latta, gli aerei e i soldatini con le divise dipinte, ma ci sono esseri umani come me, come te, come tua figlia, che dormono al freddo sotto i tubi arrugginiti di un capannone, mentre le loro case vengono bombardate da altri esseri umani – e questa è la tragedia supplementare, che non sono bestie quelli che fanno il male, perché le bestie non sono e non saranno mai così malvage da ammazzare i loro simili per una Patria, per una Nazione, per un Regno. Costruzioni mentali prettamente umane: noi non difendiamo un territorio pisciandoci attorno, noi distruggiamo l’umanità per trionfare vittoriosi, e soli.

L’unica arma è spegnere la tv (che crea inutile angoscia, oltre a riprodurre virtualmente la logica bellica, arruolando gli opinionisti tra le fila dei proputin o controputin) e leggere chi indaga e ragiona, cercando di spiegare le origini di tanto male.

Particolarmente inquietante è l’opinione di Fabio Mini, non un passante, bensì ex Generale di Corpo d’Armata dell’Esercito Italiano, già Capo di Stato Maggiore del Comando NATO del Sud Europa e pluridecorato comandante della missione internazionale in Kosovo. Pur avendo un curriculum atlantista inattaccabile, Mini attualmente non passa sui media mainstream nostrani, impegnati a costruire una narrazione antirussa che genera mostri culturali, tipo la cancellazione di Dostojevskji.

In una recente intervista (di cui potrete leggere ampio resoconto domani sul nostro giornale) l’ex generale afferma che la NATO non ha sottovalutato la reazione russa, ma viceversa ha fatto di tutto per sollecitarla, armando gli Stati confinanti con l’Ucraina, in particolare la Polonia, e influenzando pesantemente le dinamiche politiche in Ucraina in funzione antirussa.
Secondo lui, mandare armi in Ucraina non farebbe che rendere più sanguinoso e pericoloso il conflitto. Alla domanda su cosa dovrebbe fare l’Europa, la risposta è tranchant: “Negoziare, finirla con il pensiero unico e la propaganda, aiutare l’Ucraina a ritrovare la ragione e la Russia ad uscire dal tunnel della sindrome da accerchiamento non con le chiacchiere ma con atti concreti. E quando la crisi sarà superata, sperando di essere ancora vivi, Italia ed Europa dovranno impegnarsi seriamente a conquistare quella autonomia, dignità e indipendenza strategica che garantisca la sicurezza europea a prescindere dagli interessi altrui.”

Diverso, anche per estrazione accademica, è l’approccio analitico del criminologo Federico Varese, nostro concittadino che ha fatto ‘fortuna’ nel Regno Unito grazie al suo talento di studioso delle mafie, tra cui la mafia russa. Il suo punto di vista non è mai banale: come quando leggi le sfumature dell’animo umano descritte da un abile narratore, nel suo argomentare trovi quell’elemento obliquo capace di aprirti una prospettiva che non cogli nelle fredde, ciniche retrospettive storiche di molti altri esperti.

In questa sua intervista (qui), apparsa di recente su La Voce di New York, Federico ipotizza che l’elemento che ha mosso Vladimir Putin verso la sciagurata e criminale decisione di invadere l’Ucraina non sia da ricercare tanto o solo, come sostengono molti (tra i quali l’appena citato generale Mini), nella minaccia (percepita o reale) dell’accerchiamento ad opera di una NATO sempre più vicina, attraverso i Paesi ad essa progressivamente aderenti, ai confini russi. Questa ricostruzione, preferita dagli studiosi che colpevolizzano le mosse dell’alleanza difensiva occidentale, rendendole concausa della precipitazione degli eventi, si concentra sulle iniziative dei governi, dei potenti, dei vertici. Sono personalmente persuaso che questa ricostruzione contenga elementi di verità, ma essa guarda solo alle decisioni assunte da chi detiene le leve del potere, conferendo preminente importanza alla capacità di manipolare i popoli.
L’interpretazione di Federico Varese esamina le cause da una prospettiva diversa. Putin non era tanto preoccupato dell’adesione alla NATO di paesi limitrofi, quanto del fatto che in alcuni di questi paesi – segnatamente la Georgia e l’Ucraina – si fosse sviluppata una dinamica democratica, costellata di molte fragilità, battute d’arresto e pesanti contraddizioni, ma comunque espressione di istanze provenienti da una parte della popolazione; e che questo processo potesse scatenare un ‘effetto domino’, una saldatura tra questi moti e le istanze provenienti da una parte della popolazione russa.

Quando si parla di “processo democratico” in Ucraina, o in Georgia, non è probabilmente corretto leggerlo in astratto, con le nostre lenti di ‘democratici atlantici’. Se lo facciamo, concludiamo ben presto che in Ucraina non c’è una democrazia, ma c’è una guerra civile che dura da almeno otto anni; che non può essere definito democratico uno stato che vanta tra le file ufficiali del suo esercito il battaglione Azov, infestato da neonazisti. Le contraddizioni sono battute d’arresto (anche tragiche, anche sanguinose) dentro un faticoso percorso di affermazione della volontà popolare attraverso gli strumenti della democrazia rappresentativa, strumenti che non appartengono alla tradizione di un paese come l’Ucraina.

Eppure, se leggessimo certi eventi nostrani unendone i punti per ricavarne una (sinistra) trama, nemmeno l’Italia potrebbe essere considerata una nazione pienamente democratica: lo storico che ricostruisse i nostri anni post bellici fino alla caduta del muro di Berlino troverebbe Gladio, le stragi di Stato, la Loggia P2, le cellule neofasciste utilizzate come braccio stragista di una “strategia della tensione” orchestrata anche dai nostri servizi di intelligence. Quello storico faticherebbe a non ammettere che anche la nostra dinamica democratica sia stata gravemente condizionata dall’ ombrello della NATO. Per un lungo periodo l’Italia è stato un paese a sovranità limitata; l’analisi del contesto internazionale che portò Berlinguer, nel 1973, a partorire l’idea del “compromesso storico” è lì a dimostrarlo. E tuttavia, potremmo da questo tragico filotto di eventi trarre la conclusione assoluta che l’Italia non è uno stato democratico?

Ecco, riflettendo meglio, forse sono proprio le lenti che dovremmo indossare, da democratici mediterranei più che atlantici, che potrebbero aiutarci a leggere la guerra in Ucraina con quella acutezza laterale che ritrovo in Federico Varese. Se l’Italia, invece di Berlinguer e Moro (politici dotati di un altissimo senso della responsabilità) avesse avuto uno Zelensky (personaggio di tutt’altra statura), cosa sarebbe potuto accadere al nostro paese, già martoriato da decine di tragici attentati?

L’Italia aveva il più grande partito comunista d’Europa, ed è innegabile che attraverso questo veicolo le istanze delle classi subalterne stessero raggiungendo il livello più alto della rappresentanza. Da cosa era spaventato il potere atlantico? Dal fatto che il Patto di Varsavia potesse estendersi all’Italia o dal fatto che la classe subalterna potesse salire al potere attraverso il suo principale strumento di partecipazione democratica?
Nel 1976 Enrico Berlinguer azzerò ogni possibilità di equivoco, affermando che si sentiva più tranquillo sotto l’ombrello della Nato, ma aggiunse subito: “Di là, all’Est, forse, vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro. Ma di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà.”.

Anche lo storico Marcello Flores, in un articolo apparso sulla rivista Il Mulino (qui) afferma che il pericolo che avverte Putin non va letto con le lenti della Guerra Fredda: “Il «pericolo», tuttavia esiste, ma è un pericolo politico che Putin non può tollerare: quello di avere ai propri confini Stati che stanno – con fatica, lentezza e contraddizioni – camminando verso la democrazia e la libertà. Un pericolo di contagio democratico, questo è il motivo della faccia feroce che Putin da anni sta facendo sui suoi confini orientali, dietro la scusa della «minaccia» della Nato e dell’allargamento dell’Unione europea.”

Secondo Flores, Putin teme più di ogni altra cosa la democrazia, il libero dibattito, lo sviluppo di una opposizione interna, la libera informazione.
Lo dimostrano i fatti che elenca in successione: “Il rafforzamento della repressione in Cecenia, la guerra contro la Georgia per l’Ossezia del Sud nel 2008, la costruzione di una dittatura sempre più forte all’interno, segnata dalle uccisioni di Anna Politkovskaja nel 2006, di Boris Nemtsov nel 2015, dal tentativo di omicidio e dall’incarcerazione di Aleksej Naval’nyj nel 2020-21, dalla messa fuori legge di Memorial, non ha spinto a vedere nella strategia di Putin un mutamento profondo rispetto sia agli anni della Guerra fredda che al decennio dopo di essa..

Particolarmente inquietante sotto questo aspetto appare la “dichiarazione congiunta” Russia-Cina del febbraio scorso, in cui (scrive sempre Flores) si teorizza l’ “inizio di una «nuova era» in cui non è più determinante la “democrazia dell’occidente” ma ogni nazione possa scegliersi le «forme e metodi di attuazione alla democrazia che meglio si adattano al loro stato»”.
Se gli Stati Uniti possono essere accusati di avere esportato la “democrazia liberale” a suon di bombe o colpi di stato, Russia e Cina teorizzano ora una “democrazia non democratica”, su misura della nazione imperiale di turno (a tal proposito dovrebbe destare molta preoccupazione il destino di Taiwan).

L’originalità dell’analisi di Fabio Mini (oltre che dal fatto di provenire da un ex generale di primo piano nello scacchiere NATO) risiede nel sollevare il velo d’ipocrisia filoatlantica che imperversa sui principali media: se Putin è un criminale (e non da oggi), chi ha bombardato Belgrado per settanta giorni per ‘difendere’ il Kosovo autoproclamatosi indipendente (cioè la NATO) lo è stato altrettanto.
Mi limito ad un esempio geograficamente vicino per non allargare il campo alle innumerevoli guerre di “difesa” o “instaurazione forzosa” della democrazia combattute nel mondo dall’Alleanza Atlantica. Aggiungo che, mentre Ucraina e Russia condividono un vasto confine, la distanza tra Washington e Pristina è di circa settemila chilometri …

La peculiarità delle argomentazioni di Varese e Flores sta nella sottolineatura di quanto le spinte libertarie che provengono dal basso siano percepite come il massimo dei pericoli per una tirannide o un regime totalitario; che quindi l’aggregazione libera e democratica delle persone conta eccome, quando invece una narrazione cinica sembra attribuire valore, per le sorti del mondo, solo ai comportamenti delle elites economiche e militari. Che quindi il popolo non è solamente una massa indistinta di persone che possono essere manipolate, ma può essere ancora il motore dei cambiamenti.

Varese e Flores gettano una luce sul terrore del tiranno per le istanze di libertà.
Mini illumina con un faro di pragmatismo la situazione russo-ucraina, suggerendo una dose di sano realismo per evitare l’allargarsi del conflitto.

Un tempo si chiamava realpolitik. Non è azzardato affermare che l’avvento degli armamenti nucleari ha costituito una cesura tra la guerra novecentesca e la guerra del futuro. La guerra del futuro non solo non ha vincitori né vinti, soprattutto tra i popoli. Ma potrebbe non avere più il genere umano, per come lo conosciamo, a ricostruirne storicamente genesi e svolgimento, nelle generazioni a venire.

Mentre i ministri dell’Europa (nano politico-diplomatico) si fanno deliberare un aumento delle spese militari, non è paradossale affermare che il concetto di realpolitik adesso è traslato verso un’idea che cinquant’anni fa veniva tacciata di utopia e tuttora viene considerata da molti stupido idealismo: l’idea di un pianeta disarmato, che ha bandito l’ipotesi stessa della guerra. Che ha maturato il tabù della guerra. E’ questo il più elevato livello di realpolitik al quale l’umanità dovrebbe ormai guardare: se non per convinzione, per necessità.