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Vite di carta /
L’irresistibile fascino del bancario
(specie se scrive romanzi)

 

Che sia questo il motivo del mio gradimento? Con la testa fra le mani di Nicola Cavallini mi sta piacendo, sono a circa cinquanta pagine dalla fine e mi ritrovo piena di curiosità; trovo con piacere il momento per dedicarmi alla lettura e intanto ripasso velocemente il dove ero rimasta.

Possibile? Il protagonista è un bancario, il dottor Marco Malucelli. Ha circa quarant’anni, è sposato con Francesca e insieme hanno un bambino, Matteo, di quattro anni. Non c’è nulla che mi riguardi e mi accomuni a lui, non la professione, né tanto meno l’età e la composizione della famiglia. In più, la sua è una lingua con una forte coloritura di genere, è un uomo che si esprime e utilizza i gerghi che gli sono propri, senza rinunciare a un pizzico di turpiloquio, se si può ancora chiamare così.
Mi rifugio nelle parti in cui Marco racconta come passa le giornate in ufficio e a quel punto fa ricorso al linguaggio bancario. E’ bravo: sento che potrei capirci qualcosa se le rileggessi un certo numero di volte.

Leggo con attenzione i resoconti delle trasmissioni radiofoniche che un paio di sere alla settimana tiene insieme all’amico Augusto e qui mi sento coinvolta, vagamente complice: le pagine sono dedicate a una passione, finalmente! Oltre, però, non vado perché non conosco il pop anglosassone, genere che i due amano alla follia e non so riconoscere un disco che uno. Un gruppo sì, solo gli Abba.

Eppure affronto le ultime cinquanta pagine con interesse. Nel punto in cui mi trovo la vita quotidiana di Marco e famiglia ha registrato un vistoso miglioramento: dopo un paio di errori commessi sul lavoro e dopo le conseguenze nefaste che questi hanno comportato sul bilancio famigliare e sulla sua autostima, Marco ha tentato di dare una svolta al destino. Come? Meglio non svelarlo, oppure meglio dire solo qualcosa, altrimenti non si comprendono alcuni dei motivi per cui il libro mi è piaciuto fino in fondo. Diciamo che insieme a Francesca ha messo in atto ‘un po’ di ricatto’ che ha fruttato un mucchio di soldi, ora fermi in una banca accuratamente scelta per non destare sospetti.

Questo romanzo ha un ottimo ritmo narrativo, un ritmo brioso, adatto ai trenta-quarant’anni (ecco uno dei motivi per cui mi diverte leggerlo): ergo non possiamo essere arrivati al traguardo della storia. Può succedere molto altro nelle cinquanta pagine che restano e infatti succede. Succede che la polizia indaga sulla truffa compiuta da un amico d’infanzia di Marco ai danni di numerose Assicurazioni e gli fa domande in proposito. La sua banca ha il truffatore tra i propri clienti. E’ una vertigine per Marco essere interrogato, si sente braccato, messo allo scoperto: è la truffa in cui ha messo il naso anche lui per ricavarne il suo gruzzolo!

Succede anche che, dopo essersi ripreso a fatica da questo episodio angoscioso, accetta di condurre una seconda trasmissione radiofonica assieme al fedele Augusto, trovando momenti di evasione che lo ritemprano. Dai due viene inserito in scaletta un quiz letterario che invita gli ascoltatori a riconoscere il titolo di un libro e il suo autore ascoltando l’incipit. In questo caso ne capisco qualcosa di più e allora trovo che i libri proposti sera dopo sera sono di grande qualità e rivelano la “genuina passione per la letteratura” del personaggio Marco e del suo autore (ecco un altro motivo di gradimento).

Poi la situazione precipita. Quando Marco legge un incipit che non esiste in letteratura, un inizio di romanzo formulato da lui in cui allude alla truffa alle Assicurazioni, solo chi ne è l’artefice è in grado di chiamare in radio e di dare la risposta giusta. Ora questo ascoltatore è al telefono e sfida Marco, dice il luogo e il momento in cui devono incontrarsi. La posta è altissima, la tensione narrativa al massimo. Sono arrivata all’ultima pagina e mi sento guardinga: è quando uno dei due vince che si conclude la storia? Per fortuna sì e no. Se ci si riferisce alla avventura in cui Marco ha voluto infilarsi, improvvisandosi truffatore, tutto è andato in fumo. Ha voluto uscire dal proprio calibro, dal suo lavoro nella filiale della banca, ma alla fine è rimasto schiacciato da ingranaggi più grandi di lui. E’ un bravo ragazzo, Marco. Lo svela nelle pagine in cui cerca di manipolare e azzerare il senso di colpa per il ricatto, che lui chiama “provvigione”, ma nel profondo sa che ciò che ha fatto legittimo non è.

Non è finita, invece, se si leggono con attenzione le poche righe rimaste: non è un finale consolatorio e non è esplicito. Le parole di cui è fatto sono allusive e sfumano in sensazioni uditive e visive indefinite, come in una dissolvenza da film. Da lì potrebbe cominciare un secondo romanzo, un sequel perfettamente agganciabile alle ultime righe. È anche un finale inquietante, perché come dicevo non consola e non redime il protagonista. Per questo mi ha convinta. Questo romanzo ha il pregio di essere scritto da uno di noi, con la lingua che ci esprime  e con la parabola di vita che realisticamente ci tocca in sorte. E’ un motivo che pesa parecchio sul mio gradimento, potrei definirlo l’aspetto più contemporaneo della scrittura di Nicola Cavallini.

Infine c’è il vissuto. L’io narrante riproduce con molta esattezza l’atmosfera della sua infanzia  e dell’adolescenza. Come lui l’ho vissuta in una piccola comunità, la mia di paese, la sua di quartiere. Riporto le parole che parlano della pubertà e le sottoscrivo pienamente: “La mia pubertà è legata al mito delle giornate di sole trascorse, con gli amici, a giocare a ping pong. Giornate interminabili, dall’alba al tramonto, nella calura trasudante dai muri di pietra e dal cortile, nell’aria un odore di acne, dai balconi un profumo di panni stesi, le nostre opportunità ancora intatte, un immenso crocevia di strade ancora vergini, inesplorate”. In un’altra bella pagina che voglio riportare è ritratta la fase dopo i vent’anni, che Marco chiama “il periodo dei matrimoni degli amici” e poi li ricorda alla Muccino, alla maniera del film L’ultimo bacio di recente ritrasmesso in tv. E’ la fase in cui le scelte fatte per lavoro e famiglia ci dànno consistenza e ci imbrigliano.

Quando la storia ha inizio il nostro bancario lo troviamo lì, nel suo ufficio, qualche anno dopo il suo matrimonio con Francesca. Appare stressato per le cattive relazioni in filiale, è oppresso dalle difficoltà economiche e si sente in gabbia.

Il suo forte sono i rapporti con i clienti. Dice di sé in una delle pagine iniziali: “…essermi conquistato una credibilità sia come consulente che come assistente alle tesine mi riempie di orgoglio. Alcuni clienti…mi fanno l’occhiolino con aria complice, sperando che, prima o poi, passi loro una di quelle esclusive che so io”. Bella soddisfazione, espressa con una lieve nota di onnipotenza, ma la pagina non finisce così: con una virata linguistica, che attinge al cinismo del giovane Holden, la voce narrante lavora su di sé per sottrazione, mette a nudo il proprio errore, l’aver sbagliato il suo primo investimento in borsa. “Io penso di essere un idiota ma, sapete, in giro è pieno di gente troppo severa con se stessa”.

Nell’articolo faccio riferimento alle seguenti opere:
– Nicola Cavallini, Con la testa fra le mani, Giraldi Editore, 2006
– D.Salinger, Il giovane Holden, Einaudi, 1961
– Muccino, L’ultimo bacio, film, Italia, 2001

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

La Finlandia dice addio alla neutralità che poteva fare scuola

 

Sembra cosa fatta, Svezia e Finlandia sono già dentro la Nato, effetto boomerang per la Russia. Non ci saranno avamposti occidentali ai confini della linea rossa meridionale ma altri 1.340 km di confine al Nord si armeranno.

Una possibilità di cui avevo già scritto e che porterebbe alla militarizzazione del Baltico in difesa dell’avamposto russo di Kaliningrad e che, in fondo, darebbe ragione alle paure di accerchiamento di Putin nonché alle convinzioni dei pacifisti più puri, ovvero che alla guerra e alle provocazioni sappiamo rispondere solo con più guerra e altrettante provocazioni.

A confermare l’attitudine alla belligeranza degli anglosassoni, è di questi giorni un trattato che impegna la Gran Bretagna ad intervenire, nel caso di attacchi preventivi della Russia, a difesa di Svezia e Finlandia nel periodo di vacanza necessario al disbrigo delle pratiche per l’accettazione della candidatura (tempi mai certi, potrebbero volerci anche anni). Un impegno più politico che militare, ma intanto si tiene alta la tensione e si definisce l’impossibilità di un dialogo o il mantenimento di una neutralità invocata spesso a modello e che sta miseramente volgendo alla sua fine.

I fatti atroci dell’Ucraina dovrebbero segnare una svolta nella storia dei rapporti con l’Oriente e mentre una parte dell’opinione pubblica europea avrebbe pure voglia di imparare qualcosa, un’altra parte, Stati Uniti e Gran Bretagna, soffia sul fuoco e lo ravviva facendo leva sui sentimenti di parte dell’Europa dell’Est. Del resto il peso di Usa e GB è preponderante, sono quelli che la Nato l’hanno effettivamente creata e la dirigono, coprendo i ruoli chiavi del comando militare.

In ogni caso, che la Finlandia e la Svezia entrino davvero a far parte dell’alleanza atlantica non è scontato come viene fatto sembrare dai titoli, e questo è dovuto al fatto che nonostante tutto esistono delle regole che la stessa organizzazione si è data. Una di queste, fondamentale, dice che può diventare membro della Nato “qualsiasi altro Stato europeo in condizione di soddisfare i principi di questo trattato e di contribuire alla sicurezza dell’area nord-atlantica”.

Ed è ovvio che l’ingresso in particolare della Finlandia non contribuirebbe alla sicurezza europea, anzi. A ben guardare ne complicherebbe l’esistenza sancendo un ulteriore allontanamento dalla Russia, un paese che è bene ricordare basa la sua economia su una grande ricchezza di materie prime e non semplicemente sul potere della moneta, concetti che dovremmo imparare ad affrontare, validi anche per altri paesi come la Cina. Materie prime di cui abbiamo bisogno e che potrebbero essere il tramite per un dialogo molto più aperto di quello a cui la contrapposizione militare ci costringe oggi.

Sempre dal sito della Nato si legge che la sicurezza nella nostra vita quotidiana è fondamentale per il nostro benessere. Scopo della Nato è garantire la libertà e la sicurezza dei Paesi membri attraverso mezzi politici e militari. POLITICA – La Nato promuove i valori democratici e consente ai membri di consultarsi e collaborare in materia di difesa e sicurezza per risolvere i problemi, creare fiducia e, nel lungo termine, prevenire i conflittiMILITARE – La Nato si impegna a risolvere pacificamente le controversie. In caso di fallimento degli sforzi diplomatici, ha il potere militare di intraprendere operazioni di gestione delle crisi. Tali operazioni devono essere condotte in base alla clausola di difesa collettiva presente nel trattato fondativo della Nato – Articolo 5 del Trattato di Washington o dietro mandato delle Nazioni Unite, da soli o in collaborazione con altre organizzazioni internazionali.

 Insomma alla base degli sforzi della Nato ci sarebbero i valori democratici, la volontà di prevenire i conflitti e di risolvere le controversie. Solo in ultimo difendersi se attaccati e dopo aver esperito tutti i tentativi rivolti a mantenere la pace. Esattamente ciò che non è stato fatto in Ucraina dove si sono tenuti accesi i fuochi del conflitto dal 2014 o, andando ancora più indietro, dai primi anni ’90 del passato secolo. Si sono portate basi militari e armamenti nei Paesi liberati dal giogo sovietico che si sono trasformati in rampe di lancio per i missili puntati verso Mosca. Si è alzata la posta ben sapendo a cosa questo avrebbe portato (sono note le dichiarazioni di Clinton e dello stesso Biden in merito) e si è scelto di tenere alta la tensione invece di provare a includere un paese costretto a risorgere in un processo di integrazione europeo, quanto meno in un avvicinamento strategico.

La caduta del muro doveva segnare la fine della Guerra Fredda e di conseguenza anche la fine dell’Alleanza Atlantica, arma di difesa contro l’Unione Sovietica. Invece la Nato si è reinventata un dopo e gli interventi nei Balcani ne hanno fatto una forza d’attacco contro tutti i nemici della democrazia (occidentale) fino al disastro dell’Afghanistan. Il dopo ha visto l’ingresso, in un’alleanza militare che doveva aver perso la sua ragione d’esistere, di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia nel 2004, e poi di Albania e Croazia, che hanno aderito ad aprile 2009. Il Montenegro è diventato membro dell’Alleanza nel giugno 2017. La Repubblica della Macedonia del Nord è entrata a far parte della Nato nel marzo 2020. Attualmente la Nato conta 30 paesi e la Bosnia ed Erzegovina partecipano al Piano d’azione per l’adesione (Map) che è un programma Nato di consulenza, assistenza e supporto pratico adattato alle esigenze individuali dei paesi che desiderano aderire all’Alleanza. Lo stesso programma che dovrebbero seguire i nuovi candidati dell’Europa del Nord.

Per l’ingresso dovranno comunque votare tutti i partecipanti, un esito non scontato sulla carta ma che, vista l’influenza di Stati Uniti e Gran Bretagna (che hanno già deciso), potrebbe invece esserlo. Ci sarà da vedere cosa ne pensa davvero la Francia, che è l’unico paese europeo ad avere qualche peso strategico, oppure se la Germania riuscirà a far valere la sua forza industriale e i suoi interessi commerciali che guardano ad Est. Ci sono poi gli interessi energetici dell’Ungheria che è sempre più contraria ad un embargo totale di gas e petrolio verso la Russia e le riluttanze della Turchia che accusa i paesi nordici di essere troppo teneri con i terroristi del Pkk.

Nella sezione del sito Nato “Allargamento e articolo 10” c’è scritto: Il processo di allargamento in corso della Nato non rappresenta una minaccia per nessun paese. È volto a promuovere la stabilità e la cooperazione, a costruire un’Europa intera e libera, unita nella pace, nella democrazia e nei valori comuni.

Il ghiaccio scotta, lucida follia, la guerra è pace. La fantasia di Orwell oppure la realtà dei giganti che ci governano?

LO STESSO GIORNO: scoppia la ribellione Rosariazo contro la dittatura militare.

23 maggio 1969: scoppia la ribellione Rosariazo contro la dittatura militare. 

Entro la fine degli anni ’40, l’industrializzazione guidata dalla sostituzione delle importazioni stava raggiungendo i suoi limiti. Le concessioni per la classe operaia e la sua forza istituzionalizzata limitavano il tasso di sfruttamento e ostacolavano i profitti. L’apparato statale necessario al clientelismo peronista, con il suo esercito di impiegati impiegati nei sindacati, negli ospedali, nelle scuole, ecc., costituiva un onere crescente per la realizzazione del plusvalore a livello nazionale. L’arcaico commercio agricolo dell’Argentina, i cui profitti costituivano ancora la principale fonte di finanziamento per lo Stato, e che erano sfidati dalla concorrenza dei paesi occidentali più avanzati, iniziò a imporre limiti sempre più pressanti al sistema peronista. Per cercare di sopravvivere, Pedron doveva cercare investimenti esteri e soprattutto doveva disciplinare la classe operaia. I compromessi che Pedron cercava non piacquero alla classe alto borghese del paese. Nel settembre 1955 un colpo di stato militare sostituì Peron, giocando populisticamente anche sulla delusione dell’opinione pubblica per gli accordi con la Standard Oil (accordi con gli USA per lo sfruttamento del petrolio fonti in Patagonia).
Lo scopo del nuovo governo militare era innanzitutto quello di ridefinire gli equilibri di potere tra datori di lavoro e lavoratori, poiché, secondo la federazione dei datori di lavoro dell’industria metallurgica, i luoghi di lavoro erano “come un esercito in cui le truppe danno gli ordini e non i generali”.

C’è stata una forte risposta dei lavoratori di base alle nuove misure economiche. Tra il 1955 e il 1959 circa quattro milioni di giornate lavorative furono perse ogni anno a causa degli scioperi. Nel 1959 i giorni persi per scioperi salirono a dieci milioni. I lavoratori non hanno esitato a considerare occupazioni, sabotaggi e uso di esplosivi. Nonostante la lotta nel ’60 furono introdotti il lavoro a cottimo, e imposte nuove accelerazioni.

La tensione sociale era altissima, ma il movimento ebbe un rallentamento. Anni di battaglie, anche violente, ma nessuna conquista ancora. In mezzo a quella crescente tensione sociale però, una lotta studentesca travolse il paese nel 1966. Un nuovo regime militare prese il potere lo stesso anno e distrusse il movimento, ma non riuscì a fermare il processo di politicizzazione nelle università che era iniziato con esso. La radicalizzazione degli studenti e il loro coinvolgimento nelle lotte operaie sarebbero stati infatti un elemento importante nelle successive vicende insurrezionali del 1969.
Come successe in molte zone del mondo, quelli furono anni di alleanza tra studenti e operai, tra idealisti e realisti. Diversamente da le altre lotte, in Argentina i moti rivoluzionari di quegli anni furono sia lotta di classe, ma anche lotta contro un regime militare politico.

Il nuovo governo militare, guidato dal generale Ongania, si presentò inizialmente come ideologicamente corporativo e il suo colpo di stato fu accolto favorevolmente dalla maggior parte dei sindacati. Gli studenti cercarono di mettere in guardia su ciò che sarebbe successo dopo, ma la loro voce fu repressa nella violenza.  Ma nel 1967 le politiche economiche del governo si spostano verso la liberalizzazione e la razionalizzazione, adottando politiche antinflazionistiche che portano al crollo delle imprese non competitive, riducendo le barriere all’ingresso di capitali stranieri, e tagliando i poteri e le risorse dei sindacati.

Dal 1968 gli operai insorsero di nuovo in un crescendo di scioperi culminati con grandi eventi insurrezionali nel 1969, il Cordobazo. La tensione nella città industriale di Cordoba si è sviluppata principalmente attorno alle questioni dell’abolizione della settimana lavorativa di cinque giorni e dell’istituzione delle quitas zonales, regioni in cui i padroni potevano pagare meno del salario concordato a livello nazionale, che comprendeva la regione di Cordova .

Questo stesso giorno, il 23 Maggio 1969, il più grande sciopero di questi anni scoppiò a Rosario, nella regione di Cordoba. Uno sciopero che era prima di tutto guerra alla dittatura militare, guerra a alla violenza e brutalità della polizia militare, e anche lotta di classe. Il paese fu sequestrato e difeso sulle barricate dalla polizia, che uccise molti militanti.
Sebbene le insurrezioni furono violentemente represse con la violenza, lo Stato dovette ripristinare la contrattazione collettiva con i sindacati e moderare le loro nuove politiche economiche. Furono le prime conquiste in un paese che prima non ne aveva.

La lotta in Argentina non si ferma, e da allora non è si è mai fermata. Numerose sono state le conquiste, ma ancora numerose sono le tutele che mancano. Questo Paese, questi lavoratori e studenti, sono l’esempio che la lotta paga, e che non bisogna indietreggiare mai.

Gli ultimi cinque minuti
…un racconto

Gli ultimi cinque minuti
Un racconto di Carlo Tassi

Scendo in cantina in cerca di conforto,
rovisto tra le cose messe da parte.
Forse troverò un po’ di miele,
un dolce rimpianto, per rivivere l’incanto.
Ma non basta… dura poco, fine del gioco!

Torno su.
Un cielo nero sopra la testa,
una strada infinita quanto il cammino.
Solo ricordi spenti.
Nessuna voglia, nessun domani,
niente.

Pensieri sfatti, corpi sfatti,
facce gonfie, occhi chiusi.
Ogni giorno un presente da dimenticare.
Monotonia, claustrofobia,
aria malata, il respiro fugge via.

Benvenute malattie!
Gli anticorpi son scaduti,
diritti e doveri decaduti.

Il vuoto s’allarga, mi sfiora tagliente, silente.
La carne è putrefatta, maleodorante.
La piaga affiora, il bruciore è ardente.
Vermi nella mente.

Giro le dita attorno la ruota,
sono dato per spacciato.
Lo so, lo sono stato e lo sarò.

Solo promesse, sempre le stesse.
Quotidiane come il pane.
Bugie, ipocrisie, false terapie.
Se rinasco, mi dispiace, non ci casco.

Questa vita m’appartiene?
E se magari vita non fosse?
S’accettano scommesse!

Esco fuori, cerco colore.
Raccolgo sassi e conto i passi.
Sfuggo al dolore ma ritrovo rancore.

La gente guarda tutto
e non vede niente.
Denti finti, cariati, turati,
sorrisi dipinti, mascherati.
L’aria è saccente, l’alito pesante.

Pioggia acida nel cervello.
Apro l’ombrello, stringo il cappio al collo.
Questo mondo non m’appartiene.
Solo avvoltoi, sciacalli e iene.

Come un salto senza rete,
niente più fame né sete.
Finisce l’inganno totale,
dalla nascita al funerale.
Poco male.

Sarà la storia che mi compete,
e mia soltanto l’eterna quiete.

Riot (Ruby Amanfu, 2019)

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PRESTO DI MATTINA
La Chiesa, un popolo ospitale

Istruzioni per un popolo ospitale

«Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità». Così inizia nel documento conciliare Lumen gentium il capitolo che presenta la chiesa come popolo di Dio.

Del resto, fu proprio al concilio Vaticano II che la Chiesa si è sentita nuovamente chiamata ad annunciare l’ospitalità di Dio offerta a tutti, e a porsi al servizio di questo dono per comunicarlo a tutte le genti.

Così la comunità dei credenti in Cristo, di coloro che guardano con fede a lui, ha riscoperto il suo essere un popolo messianico, nel senso di inviato agli altri popoli, affinché mediante il servizio al vangelo e ai poveri, ogni uomo e ogni donna abbiano parte a quella stessa santità ospitale di Dio manifestatasi nella storia, nell’esistenza singolare, nelle parole e nelle azioni di Gesù di Nazareth:

«Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza» (LG 8).

In forza della dignità e della libertà dei figli di Dio nel cuore dei quali dimora lo Spirito santo, istruita nella pratica del comandamento nuovo quello di amarsi in reciprocità gli uni gli altri come lo stesso Cristo ci ha amati, la chiesa è posta come segno e strumento del Regno promesso, germinazione e inizio «dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» e «pur non comprendendo effettivamente l’universalità degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l’umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza» (LG 9).

Resi così consapevoli che ogni cambiamento comincia da se stessi «i cristiani, ricordando le parole del Signore: “in questo conosceranno tutti che siete i miei discepoli, se vi amerete gli uni gli altri” (Gv 13,35), niente possono desiderare più ardentemente che servire con maggiore generosità ed efficacia gli uomini del mondo contemporaneo. Aderendo fedelmente al Vangelo beneficiando della sua forza, sono uniti con tutti coloro che amano e praticano la giustizia», (Gaudium et spes, 93).

Nel suo libro Come Gesù voleva la sua comunità. La chiesa quale dovrebbe essere (Milano 1987), il teologo tedesco Gerhard Lohfink [Qui] è persuaso che occorra offrire un’immagine ‘altra’ delle nostre comunità cristiane, più somigliante a quelle delle origini, parrocchie comprese, per arginare la deriva dell’individualismo religioso che, nel secolo scorso, ha segnato anche la teologia e la spiritualità cristiane.

Relegando la vita di fede all’ambito privato, come una pratica non pubblica destinata al singolo, alla sua interiorità, una parte della teologia liberale ha limitato la stessa comprensione della chiesa come società sino a spiritualizzarla. Definendola come una “societas in cordibus” la rendeva invisibile, insignificante per il dissolversi dei suoi legami sociali.

Gesù desiderava invece che proprio tra la gente del suo popolo, dalla sua famiglia risplendesse la buon notizia del suo Vangelo: un popolo, una famiglia dei discepoli come sale e luce del mondo: «non si accende una lampada per metterla sotto un secchio, ma piuttosto per metterla in alto, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa».

Da questa comunità riconciliata, da questo “piccolo gregge” doveva scaturire il fascino della libertà − “non vi chiamo più servi ma amici” − e risuonare l’annuncio della parola di riconciliazione e del dono della pace: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi».

In questi difficili passaggi d’epoca occorre pertanto recuperare il volto originario della chiesa che non si esprime solamente nel legame individuale con Dio ma si edifica attraverso rapporti interpersonali. Un intero popolo è chiamato a tessere, intrecciare la stessa socialità umana oltreché ecclesiale, a farsi servo del vangelo tra la gente.

Lo stile sinodale, che tende a realizzare un insieme di popolo in cammino attraverso relazioni di reciprocità, è chiamato a edificare la comunione praticando una prassi di solidarietà, che è poi lo stile con cui Gesù ha manifestato e reso presente la prossimità di Dio, quella che i vangeli sinottici e Gesù stesso chiamano il Regno di Dio e la sua giustizia.

Nel battesimo al Giordano, Gesù mettendosi in fila con tutta la gente, mescolandosi con i peccatori, ha voluto mostrarsi solidale con loro. Ma ancor più lo ha fatto lasciandosi abbracciare dalla croce, così da sperimentare umilmente il sofferto cammino di tutta l’umanità fin dentro la morte.

Ma è in tutta la sua esistenza terrena che egli si è fatto solidale alla condizione della gente povera, vulnerabile, sfruttata, emarginata, oppressa dalle ingiustizie, rivelando così una misteriosa ma reale solidarietà del Padre con il suo popolo, e attraverso questo, con tutti i popoli.

Così l’intenzione di Gesù − secondo Lohfink − fu quella di rivolgersi non solo alle persone ma a tutto l’Israele disperso, nel suo insieme. Egli desiderava convocare e trasformare il popolo di Dio lacerato e malato in una società riconciliata, segno di un futuro di umanità e di popoli riconciliati alla fine dei tempi.

Questo stile e prassi solidale fu così ispirazione per le comunità cristiane delle origini, di cui un testo emblematico lo troviamo nella Lettera di Paolo ai Galati (3, 28) nella quale si ricorda la reciprocità solidale tra giudei e greci, schiavi e liberi, uomini e donne che caratterizzava quella collettività:

«Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa».

La stessa sinodalità non può allora prescindere ma dovrà esprimersi attraverso relazioni di reciprocità solidale.

«Allēlōn», le molteplici variazioni della reciprocità

«Allēlōn», l’un l’altro, nella forma plurale «allēlous», gli uni gli altri. È stato Lohfink che ha declinato attraverso questa formulazione linguistica il concetto di solidarietà come reciprocità, ricercando tutte le sue ricorrenze negli scritti del Nuovo Testamento, soprattutto in Paolo e Giovanni.

Allēlōn lo troviamo citato infatti con grande profusione: più di 90 volte, e una cinquantina di esse si presentano come la forma stessa dell’amore reciproco e del servizio di un amore vicendevole.

Pronome e avverbio di reciprocità, allēlōn passa quasi non visto − non lo si trova neppure nel Grande Lessico greco del NT. È come un seme minuto, sperduto e sparpagliato tra le grandi parole del vangelo, così simile a quel granellino di senape della parabola evangelica. Semente da cui tuttavia può nascere, crescere e ramificarsi sulla terra l’albero della santità ospitale di Gesù, e attuarsi nella chiesa una trasformazione della mentalità cristiana, della coscienza credente e delle pratiche pastorali nelle nostre comunità cristiane.

L’allēlous è pronunciato proprio da Gesù durante la lavanda dei piedi ai discepoli nell’ultima cena: un dire attraverso un fare gli uni agli altri. Come una consegna fu pure quella del comandamento nuovo: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri».

Questo pronome, “gli uni gli altri”, capace di unire le diversità, dice la forma ecclesiale per vivere la sinodalità pur nella differenza tra persone e tra chiese. È forma significativa e pregnante, sia nell’ecclesiologia paolina come in quella giovannea, tanto che il nostro autore ha scritto che con tutti i versetti contenenti questa forma linguistica si potrebbe scrivere un’ecclesiologia di comunione e − aggiungo io − sinodale, anzi ecumenica ed interreligiosa.

Poiché credere è l’attitudine a praticare l’alterità ed è per questa “buona pratica” di reciprocità nel servizio vicendevole che la fede vive come amicizia e amore e la speranza evangelica diventa contagiosa, anzi attraente per quelli che ancora non la conoscono.

La fede nel cuore è l’altro nel cuore: e proprio per essere tale − ricorda Lohfink − che è capace di far sorgere un mondo nuovo: «Quando nasce veramente dalla fede, la Chiesa ha proprio la forma del mondo: non serve ad un popolo, è un popolo. Non richiede la giustizia, ma vive la giustizia. Non lotta per la libertà, è luogo di libertà». L’ecumene è allora il nostro mondo, luogo per edificare la solidarietà evangelica, ecclesiale tra noi e con le persone.

L’allēlōn ci fa dunque comprendere che la chiesa vive della regola fondamentale dell’accoglienza ospitale di Dio, la cui origine scaturisce dalla reciprocità di amore del Padre e del Figlio, dall’amore dell’uno per l’altro, che è lo Spirito, viene noi la grazia di quella reciprocità che fa nuove tutte le cose.

Per chiedere i cieli nuovi e la terra nuova può giovare allora lo stile e la pratica di un litania, come fosse un ininterrotto koan giapponese destinato a risvegliare la natura più profonda e reale del nostro vivere ecclesiale e sociale.

Obiettivo è quella profondità dove abita la grazia da cui scaturisce la reciprocità evangelica, il luogo dove si dà l’incontro con il maestro interiore, che al discepolo mormora spirando in lui il suo Spirito: allēlōn:

condividere la fede gli uni con gli altri (Rm 1,12),
gareggiare nello stimarsi a vicenda (Rm 12,10)
avere i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri (Rm 12,16)
accogliersi gli uni gli altri (Rm 15,7)
correggersi l’un l’altro (Rm 15,14)
salutarsi gli uni gli altri con il bacio della pace (Rm 16,16)
aspettarsi gli uni gli altri (1Cor 11 ,33)
aver cura gli uni degli altri (1Cor 12,25)
essere al servizio gli uni degli altri nell’amore (Gal 5,13)
portare gli uni i pesi degli altri (Gal 6,2)
confortarsi a vicenda (1Ts 5,11)
edificarsi gli uni gli altri (1Ts 5,11)
vivere in pace gli uni con gli altri (1Ts 5,13)
cercare il bene gli uni degli altri (1Ts 5,15)
sopportarsi a vicenda (Ef 4,2)
essere benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri (Ef 4,32)
essere sottomessi gli uni agli altri (Ef 5,21)
perdonarsi a vicenda (Col 3,13)
confessare i peccati gli uni agli altri (Gc 5,16)
pregare gli uni per gli altri (Gc 5,16)
amarsi intensamente gli uni gli altri (1Pt 1,22)
praticare l’ospitalità gli uni verso gli altri (1 Pt 4,9)
rivestirsi di umiltà gli uni verso gli altri (1 Pt 5,5)
essere in comunione gli uni con gli altri (l Gv 1,7)
prestare attenzione gli uni agli altri (Eb 10,24),
praticare l’ospitalità in maniera vicendevole (1Pt 4,9),
rivestirsi di umiltà l’un l’altro (1Pt 5,5)
essere in comunione gli uni con gli altri (1Gv 1,7).

E da una poesia le istruzioni per abbracciarsi

L’universo non ha un centro,
ma per abbracciarsi si fa così:
ci si avvicina lentamente
eppure senza motivo apparente,
poi allargando le braccia,
si mostra il disarmo delle ali,
e infine si svanisce,
insieme,
nello spazio di carità
tra te
e l’altro

(Chandra Livia Candiani [Qui], La bambina pugile ovvero la precisione dell’amore, Einaudi, Torino 2014, 11)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Le storie di Costanza /
Maggio 1959 – Il pozzo di metano

 

Siamo in Maggio. Fra due mesi inizio la maturità. Mi devo mettere a studiare di più, fra poco questa lunga fatica sarà finita. Non dovrò più fare tutta quella strada in bicicletta ogni giorno per andare a prendere il treno che mi porta a scuola e, soprattutto, potrò cominciare a lavorare e a guadagnare un po’ di soldi che, a casa mia, servono per mandare alle scuole superiori mio fratello Giovanni.
L’inverno che ha chiuso il 1958 e aperto il 1959 è stato molto freddo, ma adesso siamo in maggio, la primavera è arrivata con tutto il suo splendore e, qui in campagna, ci guarda con i suoi fiori e i suoi cieli azzurri e sembra ci voglia dire: “Vedete quanto sono bella?”.

Adesso sono seduta sul gradino che, da una delle uscite di casa, porta direttamente sotto la pergola di uva fragola del cortile. Sotto la pergola ci sono due sedie sdraio coloro verde militare e un tavolo di legno rivestito con una tovaglia plasticata a quadri bianchi e blu. La tovaglia è necessaria perché, soprattutto quando l’uva è matura, perde i chicchi marci che cadono e si depositano su tutto ciò che sta sotto. Mia madre si alza alle sei di mattina e, per prima cosa, pulisce il tavolo sotto la pergola oltre a dare un po’ di latte a Toti.  Le due sedie verdi hanno gli scheletri di ferro, li abbiamo comprati al mercato, mentre le sedute di stoffa le ha cucita mia madre Adelina. Ogni tanto si fa nella tela qualche strappo che rammendiamo con del filo robusto, le cuciture devono essere spesse e doppie, altrimenti non riescono a sorreggere tutto il nostro peso. Quel peso si deposita a volte abbastanza violentemente, soprattutto quando siamo stanchi, e non desideriamo altro che sederci sulle sdraio e guardare verso l’alto. Tra i rami e le foglie della pergola si vede il cielo che cambia colore e rasserena con la sua presenza.
Sotto la pergola si sta benissimo, mi piace molto leggere là sotto, così come mi piace parlare con Giovanni e mangiare il gelato.

Nel cortile davanti alla pergola c’è l’erba. Adesso è bella alta, una piccola savana. Mio fratello gioca con i suoi amici e con Toti in mezzo all’erba. Corrono e ridono e a volte li si vede emergere da quella superfice ondeggiante come dei giovani delfini che saltano e si rituffano subito dopo, sguazzando liberi in quel mare di erba. Nel mare verde di quei bambini c’è molto di quello che siamo e che dovremmo essere. C’è la voglia di vivere, il divertimento, lo stupore, tante aspettative. Sono questi sentimenti che danno forza propulsiva la mondo, che lo proiettano in avanti, verso un procedere sicuro e speranzoso per ciò che verrà, verso il loro futuro e quello di tutti.

Verso sera vado spesso al bar Del Cigno. Ci incontriamo là con i miei amici, fumiamo qualche sigaretta, beviamo qualche Crodino e parliamo di tutto. Di politica locale, di accidenti della popolazione di Cremantello, del Parroco, del medico condotto e della maestra. Quando mi siedo sulle sedie di ferro dei tavolini esterni del bar, tengo una gamba accavallata sopra l’altra, mi sembra di essere più affascinante così. A volte a forza di tenere le gambe a quel modo, mi viene un po’ di mal di schiena, ma faccio finta di nulla perché mi piacciono le mie gambe messe a quel modo.

L’argomento di cui parliamo tutti in queste ultime settimane è l’incendio del pozzo di Casalrossano.
Un anno fa a Casalrossano è stato trovato un giacimento di metano e la SNAM e l’AGIP hanno costruito dei pozzi per estrarlo. Da allora Cremantello è pieno di operai che si sono trasferiti qui perché lavorano al prelevamento dell’idrocarburo. Prima sono arrivati loro e poi, col trascorrere del tempo, sono arrivate le loro famiglie. In classe con mio fratello Giovanni c’è una bambina che si chiama Marisa, è la figlia di un ingegnere della SNAM. Marisa è bionda, ha gli occhi nocciola e ripete sempre: “Ciccia, ciccia” il nome della sua bambola.
Un mese fa siamo stati svegliati di notte da un rumore continuo e forte, sembrava ci fosse una portaerei in transito sopra la nostra testa. Straniti, siamo usciti di casa. Erano le undici e trenta di sera, ma il cielo era illuminato come se fosse mezzogiorno, si era incendiato un pozzo. Le mogli degli operai della SNAM erano già per strada in camicie da notte e sembravano disperate.  Abbiamo capito subito che era successo qualcosa di grave. I nostri vicini di casa sono andati a Casalrossano a vedere cosa stesse succedendo e, nel tornare, Mento Viglioli si è fermato a dirci che si era incendiato il pozzo numero tre. Miracolosamente non c’erano né morti né feriti.

E’ cominciato così un periodo della nostra vita davvero strano.  La luce è stata per tre settimane fortissima di giorno quanto di notte, a mezza notte si potevano friggere uova da mangiare all’aperto e i bambini potevano giocare a rincorrersi, c’era lo stesso chiarore del mattino. Quella strana luce dai riflessi verdastri era di una potenza e di una forza impressionante. Faceva addirittura più caldo. Ritrovarsi improvvisamente senza notte è stata una novità che ha destabilizzato tutti. Sono aumentati i casi di insonnia e molte persone hanno avuto sempre fame. La moglie di Mento strappava il prezzemolo dall’orto e lo masticava per farsi passare l’appetito, diceva che non voleva ingrassare. La verdura è maturata in fretta e i fiori sono sbocciati tutti insieme. La prozia Ciadin ha detto che bisognava ringraziare i Santi per quella incredibile fioritura, mentre lo zio Rigoberto ha detto che tutto quel caldo ricordava ai Santi l’inferno e che non erano loro da ringraziare per i fiori di maggio, ma la SNAM. Ciadin ha confidato a mia madre che lo zio non capisce niente e lo zio ha confidato a mia madre che quella “pretona” di Ciadin è stupida.

La gente è venuta da tutta Italia per veder il fuoco che ardeva dal pozzo. La via principale di Cremantello è diventata trafficatissima al punto che è stata divisa in due corsie: una che andava al pozzo e una che tonava, senza possibilità di fare una inversione di marcia. Oltre alle macchine è transitata gente in bicicletta, motorino, pattini, tutti sono andati a vedere l’incendio.

I giorni sono passati e nessuno sapeva più come fare per spegnere quell’incredibile fuoco che usciva dalla bocca di uno dei pozzi come lo sbuffo di un drago arrabbiato. E’ arrivato un esperto dagli Stati Uniti, ha studiato per una settimana la situazione e poi ha deciso di provare a soffocare il fuoco. Nel giorno fissato per lo spegnimento, è stata evacuata la popolazione che abita nella parte di Cremantello più vicina a Casalrossano e ai pozzi. Anche nell’altra metà del paese nessuno è potuto rimanere in casa, la polizia locale ha diffuso l’ordine di stare nei cortili. I tecnici avevano paura che il soffocamento della fiamma potesse provocare un terremoto. Si è creata così molta ansia intorno all’evento. Finalmente è arrivato il giorno deciso per lo spegnimento, mia madre e mio fratello sono andati nel cortile e io e i miei cugini siamo andati in bicicletta a Tirecco, al centro di igiene mentale dove è ricoverata una nostra parente. Siamo stati un po’ con là con Maurina che mangiava soddisfatta le caramelle che le avevamo portato (infischiandosene della nostra presenza), abbiamo mangiato un gelato e poi abbiamo ripreso le nostre biciclette e siamo tornati indietro. Quando siamo arrivati all’inizio del paese, il fuoco c’era ancora, non erano ancora riusciti a spegnerlo. La luce era la stessa di quando eravamo partiti. Cominciavamo tutti ad avere nostalgia di quella bella frescura che arriva verso sera e di quel cielo un po’ azzurro e un po’ blu che precede l’arrivo della notte e la saluta. Eramo vicini con le nostre biciclette alle prime case del paese, quando si è sentito uno strano rumore, una specie di “uffff” come se si fosse spenta una enorme candela e il fuoco è sparito. Siamo scesi dalle biciclette e ci siamo coricati per terra, ma ormai era inutile, il fuoco non c’era più. La stessa cosa hanno fatto mia mamma e Giovanni che erano seduti in cortile sotto la pianta di pere. Quando hanno sentito il sibilo si sono buttati in mezzo all’erba a pancia in giù e quando hanno riaperto gli occhi il fuoco non c’era più. L’erba era di nuovo di un bel verde e il cielo era tornato azzurro.

Quella vicenda avrebbe potuto essere una tragedia e invece non è successo nulla. I tecnici americani hanno fatto un lavoro eccellente, hanno spento il fuoco salvaguardando l’incolumità di tutti. L’ingegnere che ha progettato il soffocamento del fuoco è chiamato “Gamba di legno” perché ha una gamba sola, l’altra è una protesi. Ha perso una gamba nello spegnimento di un altro pozzo ardente.
La prozia Ciadin ha detto che bisogna ringraziare i Santi e, questa volta, lo zio Riogoberto ha detto che ha ragione.

L’8 maggio del 1959 viene festeggiata per la prima volta in Italia la “festa della mamma”, dopo che l’anno prima Raul Zaccari ne aveva proposto in Senato l’istituzione (approvata con normativa di legge dopo un anno di dibattiti).
Il 17 maggio Fidel Castro annuncia alla radio l’approvazione della legge per la riforma agraria di Cuba.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore.

Cover: Pozzo di  metano presso Taglio di Po. Dal gruppo Polesine in Facebook – scatto di Vinicio Zanardi

Armi nucleari: in Commissione Esteri alla Camera passa Risoluzione per il disarmo globale

da: Rete Italiana Pace e Disarmo

Senzatomica e Rete Pace Disarmo: “Passo positivo, ora l’Italia partecipi alla Conferenza di Vienna”.

“Siamo soddisfatti di questo storico risultato a favore dell’impegno dell’Italia per il disarmo nucleare”. Senzatomica e Rete italiana Pace e Disarmo esprimono soddisfazione per il voto di oggi in Commissione Esteri alla Camera che esprime indicazioni per il Governo affinché si attivi in percorsi concreti di disarmo nucleare e di avvicinamento ai contenuti del Trattato di proibizione delle armi nucleari (TPNW). Nella risoluzione si sottolinea come le armi nucleari costituiscano ancora oggi una grave minaccia per l’umanità come sia quindi fondamentale continuare gli sforzi per la loro riduzione con l’obiettivo di una definitiva eliminazione.

Con il documento a prima firma Laura Boldrini (ma sottoscritto anche dai Deputati Delrio, De Micheli, Fassino, La Marca, Palazzotto, Quartapelle Procopio, Ehm, Migliore, Emiliozzi), il Parlamento fornisce al Governo sollecitazioni chiare e indicazioni realizzabili per perseguire percorsi concreti di disarmo nucleare globale e definitivo: un obiettivo che tutti i recenti esecutivi italiani hanno confermato come prioritario.

Dopo un dibattito di alcune settimane, è stato approvato un testo che non solo richiama in via generale il disarmo nucleare, ma indica al Governo come poterlo realizzare nel quadro del percorso individuato dal Trattato TPNW, scaturito dalla “Iniziativa Umanitaria” della società civile internazionale. Anche se l’Italia finora ha deciso, come tutti gli alleati NATO, di rimanere al di fuori del percorso che sta coinvolgendo decine di Paesi del mondo è importante che ci sia un avvicinamento ai contenuti pratici e concreti proposti dal Trattato e un confronto con tutti gli Stati che stanno mettendo il disarmo nucleare al centro della propria azione politica.

L’Italia può e deve mettere in campo la parte migliore delle proprie risorse per costruire il disarmo nucleare, come sottolineato nella parte dispositiva della Risoluzione, che impegna il Governo “a continuare a valutare, in questo contesto, compatibilmente con l’obiettivo delineato, con gli obblighi assunti in sede di Alleanza atlantica e con l’orientamento degli altri Alleati, possibili azioni di avvicinamento ai contenuti del Trattato TPNW, in particolare per quanto riguarda azioni di «Assistenza alle vittime e risanamento ambientale», considerando la grande tradizione umanitaria dell’Italia e come previsto dall’articolo VI dello stesso Trattato”.

“Finché ci saranno le armi nucleari, ci sarà sempre il rischio che vengano utilizzate – afferma Daniele Santi, Presidente di Senzatomica – Le dichiarazioni della governance russa relativamente alla guerra in Ucraina hanno mostrato in maniera inequivocabile il vero volto della deterrenza nucleare quale strumento di ricatto che pone l’umanità sull’orlo della catastrofe. L’unica via per prevenire il loro uso è la loro eliminazione totale e per realizzare questo esiste oggi uno strumento: il Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari (TPNW). Mai come ora è necessario perseguire una politica che punti al disarmo nucleare e alla distensione dei conflitti tra le superpotenze. Al mondo esistono quasi 13mila testate nucleari, 40 delle quali sul territorio italiano. Siamo arrivati a un punto cruciale nelle iniziative per abolire le armi nucleari, uno scopo tanto agognato da molte generazioni in tutto il mondo a partire dagli hibakusha, le vittime dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki. Il TPNW è indispensabile per proteggere la pace dell’umanità nel suo complesso”.

“Solo ricordandoci della nostra umanità e decidendo un percorso serio e concreto di disarmo nucleare globale il mondo potrà smettere di basare un’effimera idea di sicurezza sulla possibilità di distruggere in pochi minuti intere città e milioni di persone” sottolinea Lisa Clark, responsabile per il disarmo nucleare di Rete Italiana Pace e Disarmo e coordinatrice di Mayors for Peace in Italia.

L’occasione per raggiungere questo risultato è rappresentata dalla Prima Conferenza degli Stati Parti del Trattato di proibizione delle armi nucleari (TPNW) che si svolgerà a Vienna dal 21 al 23 giugno prossimo. La campagna “Italia, ripensaci” sostenuta da Senzatomica e Rete italiana Pace e Disarmo (organizzazioni italiane partner di ICAN la campagna internazionale per la proibizione delle armi nucleari vincitrice del premio Nobel nel 2017) chiede al Governo una decisione in tal senso facendo eco a quanto votato dalla Commissione Esteri della Camera, che impegna l’esecutivo a “considerare, in consultazione con gli Alleati, l’ipotesi di partecipare come «Paese osservatore» alla Prima Riunione degli Stati Parti del Trattato di proibizione delle armi nucleari (TPNW) (…) tenendo conto della partecipazione dei Governi di Paesi NATO, come la Norvegia e la Germania”.

Rete Italiana Pace e Disarmo
La Rete Italiana Pace e Disarmo nasce il 21 settembre 2020 dalla unificazione di due organismi storici del movimento pacifista e disarmista italiano: la Rete della Pace (fondata nel 2014) e la Rete Italiana Disarmo (fondata nel 2004). Entrambe le reti hanno potuto contare fin dalla loro fondazione sul sostegno di decine di associazioni, organizzazioni, sindacati, movimenti della società civile italiana. Lo scopo è quello di creare insieme la pace a partire dall’unione delle nostre forze, degli obiettivi comuni, per rafforzare e far crescere il lavoro collettivo per la pace ed il disarmo.

Biblioteca Popolare Giardino
INIZIATIVE MAGGIO 2022

Biblioteca Popolare Giardino

INIZIATIVE MAGGIO 2022

Quando qui sarà tornato il mare
Storie dal clima che ci attende
Venerdì 27 maggio 2022 ore 21
Parco Coletta (giardini del grattacielo)

Wu Ming 1 dialoga con il Collettivo Moira dal Sito *

L’iniziativa è inserita nella rassegna “Festa della legalità 2022

*collettivo di scrittura coordinato da Wu Ming 1, nato da un laboratorio narrativo sul cambiamento climatico, condotto presso la biblioteca comunale di Ostellato, nel basso ferrarese, che ne ha curato e promosso l’iniziativa

Passeggiata letteraria
sabato 28 maggio 2022 ore 10,30

Alla scoperta del centro storico di Ferrara, accompagnati dallo scrittore Giuliano Gallini sulle orme della protagonista del suo romanzo “Storia di Anna“.

Ritrovo presso la sede della Biblioteca Popolare Giardino in viale Cavour, 183 Ferrara (piano terra del grattacielo) alle ore 10,30.

Per informazioni e prenotazione (obbligatoria)
tel. 3485807780 – 3423250382
Partecipazione a offerta libera, la passeggiata termina con un brindisi presso la biblioteca.

Appello di MIR Italia: l’entrata nella Nato di Finlandia e Svezia è un pericolo per la pace in Europa

Cari amici della Finlandia e della Svezia,

Ogni giorno è giorno di guerra in diverse aree del pianeta e non si prevede un vicino cambiamento, essendo dominante negli Stati una logica di guerra, di contrapposizione e di inimicizia. Prova ne è la crescente spesa militare collegata alla produzione e alla vendita di armi.

La terribile guerra in Ucraina, anziché attenuarsi, sta crescendo con il diretto coinvolgimento degli Stati dell’Alleanza Atlantica, fino a rischiare un conflitto mondiale con armi nucleari.
Gli sviluppi dell’aggressione della Russia in Ucraina hanno spinto i governi svedese e finlandese ad avanzare la richiesta di adesione alla Nato. Comprendiamo la preoccupazione e la paura di poter essere un obiettivo per una possibile azione di guerra.

Consideriamo la scelta di aderire alla NATO come pericolosa per la pace in Europa, innanzitutto perché accresce la contrapposizione militare nella regione e rafforza un’alleanza per la guerra, anziché sollecitare una de-escalation e un cambio di registro che privilegi alleanze e dialoghi per la pace.
L’Europa è stata dilaniata dalle guerre mondiali e l’Unione Europea nasceva con il proposito di creare un “unione” per costruire la pace e sostenere e salvaguardare la convivenza tra i popoli.
Rafforzare le alleanze militari significa dare alla forza delle armi il predominio nei rapporti tra gli stati.
Dobbiamo lavorare per la pace, con alleanze per la pace.

Venendo a mancare la neutralità di Finlandia e Svezia, ciò potrebbe provocare una reazione della Russia in un contesto che vede un sempre maggior allargamento di un’alleanza militare nata in funzione anti-russa. L’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia, rafforzerebbe l’Alleanza che già raggruppa 30 Paesi.

L’Italia è membro della NATO e questo comporta, tra l’altro, la presenza di basi militari con personale di altri paesi sul nostro territorio e l’utilizzo di queste basi per interventi in aree di guerra in cui noi, come italiani non siamo direttamente coinvolti e non vogliamo essere coinvolti. Di continuo riceviamo pressioni per aumentare la spesa militare e osservare gli obblighi che derivano da questo tipo di trattato. E’ un impegno militarista. “L’Italia ripudia la guerra quale strumento per la risoluzione dei conflitti tra gli stati”; questo è quanto recita l’articolo 11 della nostra Costituzione ed è quello che a gran voce ripetiamo sempre, anche ogni volta che purtroppo droni e missioni militari partono dalle basi sul nostro territorio. In aggiunta, l’Italia, che tramite ben 2 referendum ha rifiutato il nucleare, si trova suo malgrado ad ospitare circa 70 testate nucleari altrui in queste basi.

Noi in Italia non ci sentiamo più sicuri, anzi, ci sentiamo sempre pienamente coinvolti ogni volta che un velivolo militare decolla dalle basi di Sigonella o Aviano o Ghedi, per citarne solo alcune.
In tutta Europa, compresa l’Italia, organizzazioni della società civile si mobilitano per chiedere ai propri governi di uscire dalla NATO, di abbandonare uno schieramento militare che divide il mondo e che molto spesso è un asservimento a potenze straniere.

Occorre fermare questa folle escalation militare, insistendo per dei negoziati di pace, per la mediazione e per il dialogo. La nonviolenza è il nostro faro e la storia insegna che è possibile una trasformazione nonviolenta dei conflitti, affinché sugli interessi e le logiche nazionalistiche, prevalgano le ragioni della pace e della vita dei popoli coinvolti.

Occorrono nuovi gesti di pace, di apertura al dialogo.
Più armi non rendono il mondo più sicuro, bensì più vicino a facili inneschi mortali.

La vostra storia di neutralità è importante; serve rafforzare una “neutralità attiva” che contribuisca alla de-escalation e alla mediazione e che rafforzi il multilateralismo, per cambiare rotta dall’attuale rovinosa strada in cui prevale la logica della violenza.

Il nostro appello, amici finlandesi e svedesi, è che la guerra cessi, che i vostri popoli non siano coinvolti e le vite siano risparmiate e che si possa insieme, tutti insieme, collaborare per “costruire la pace”, con strumenti di pace, altrimenti non sarà mai pace.

Perché noi “popoli delle Nazioni Unite siamo decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra” ma anche e soprattutto ora, adesso, la generazione presente.
Continuiamo insieme a lavorare per la pace e a sollecitare i nostri governi ad un reale impegno costruttivo per la pace, all’insegna del multilateralismo, sostenendo anche la piena implementazione dei fini delle Nazioni Unite, “mantenere la pace e la sicurezza internazionale”.

In fratellanza con tutti voi.

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Il M.I.R. (Movimento Internazionale della Riconciliazione), branca italiana dell’IFOR (International Fellowship Of Reconciliation), è un movimento ecumenico per la pace, trapiantato in Italia nel 1952 grazie a esponenti valdesi e quaccheri, al quale hanno presto aderito persone di religione cattolica e di varie fedi religiose e laiche. I membri del MIR, sull’esempio di tanti maestri e testimoni di pace, si impegnano a praticare la nonviolenza attiva come stile di vita e come via alla pace: quindi nonviolenza, come amore, nelle relazioni con il prossimo e nei confronti della Terra sulla quale viviamo. Il MIR è tra i fondatori della Rete Italiana Pace e Disarmo e collabora con tante organizzazioni nella campagne per il disarmo, per la riduzione delle spese militari, per la riconciliazione e la pace nella giustizia nei paesi in guerra e dominati da regimi oppressivi, per l’accoglienza dei profughi, per l’educazione alla pace, per l’obiezione di coscienza al servizio militare e al lavoro militare, per la difesa civile non armata, per il controllo del commercio delle armi. La sede centrale del MIR è a Torino, via Garibaldi 13 e ha sedi locali in una decina di città italiane. Per contatti: segreteria@miritalia.org, www.miritalia.org, www.facebook.com/MIR.Italia/

La Serra Moresca di Villa Torlonia: la riscoperta

 

Tempo di primavera, di rinascita, di tepore, di voglia di aria e di respiro, di riapertura alla Bellezza, quella che aiuta nei tempi bui, quella che cura, protegge e salva. Così c’è chi decide per una passeggiata domenicale in un parco cittadino, chi per un museo, anche di un piccolo borgo poco abitato, chi per il mare, chi per la montagna, chi per la collina.

Io aspettavo questo momento dall’8 dicembre, quando, dopo un lungo periodo di complesso restauro condotto dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, il complesso della Serra Moresca a Villa Torlonia, nella mia amata Roma, ha riaperto al pubblico.

Ora ci sono, finalmente. Non c’è il sole che mi aspettavo per vedere i bellissimi riflessi delle vetrate (quasi da caleidoscopio, quelli dell’infanzia dorata e spensierata), ma mi accontento. Non è stato facile trovare i biglietti per entrare. Nel fine settimana è arduo, più semplice in giornata lavorativa. Basta sapere attendere. Ma entro, eccomi, entro.

Storia, natura e suggestioni lontane e degne dei sogni e delle fiabe più delicate, dialogano nel complesso della Serra e Torre Moresca, la cui architettura è ispirata all’Alhambra di Granada. Il complesso, con annessa Grotta artificiale, è stato progettato intorno al 1839, dall’architetto veneto Giuseppe Jappelli, chiamato a Roma dal Principe Alessandro Torlonia, e concluso, con le decorazioni di Giacomo Caneva, nel 1841.

Il primo progetto portava la dicitura “fabbrica entro cui trovasi e la grotta e l’Armeria e il Ninfeo, e la Pagoda indiana”, ma poi Jappelli scelse lo stile moresco per la realizzazione della serra, forse influenzato dal libro illustrato di James Canavah Murphy, The Arabian Antiquities of Spain,  pubblicato a Londra nel 1816, una copia del quale si trova nella Biblioteca vaticana e che lo stesso Jappelli stesso aveva consigliato a Caneva. La motivazione di tale scelta va ricercata nella volontà di Jappelli di riproporre a Villa Torlonia, come per i giardini del Regno Lombardo-Veneto, un motivo del periodo di Ludovico Ariosto.

La Serra vera e propria è uno stupefacente padiglione da giardino con una struttura in peperino e un largo uso del ferro, della ghisa e di splendide vetrate policrome.

Jappelli era a conoscenza dell’innovativo uso della ghisa, che aveva già sperimentato nella Villa Treves a Padova, e seguiva con attenzione l’introduzione di nuove tecnologie, come dimostrano vari suoi studi e progetti per costruzioni da adibire a serra. A Villa Treves aveva inserito gran parte degli elementi considerati costitutivi del giardino all’inglese: la grotta, la rovina gotica, il mausoleo romano, il tempio, l’eremo, il padiglione turco. Non tutti, ma buona parte di questi elementi – mescolati ad altri derivanti dalle suggestioni ariostesche richiamate più volte nel progetto di Jappelli – li ritroviamo anche a Villa Torlonia: il campo dei tornei, la capanna svizzera, il lago, la grotta, gli edifici moreschi.

Questa Serra era destinata ad accogliere piante esotiche e rare ma anche eventi spettacolari, come testimoniato dalla presenza di un vano seminascosto, interno alla grande sala, destinato all’orchestra. La Torre era invece riservata a incontri più intimi, per pochi partecipanti, invitati dal Principe Torlonia nella sontuosa sala da pranzo dell’ultimo piano, caratterizzato da ampie finestre con intelaiature in ghisa e vetri colorati e da pareti riccamente decorate da stucchi policromi. La sala aveva al centro un divano che, mediante l’azione di un meccanismo, poteva sollevarsi verso il soffitto, mentre dal piano sottostante saliva un tavolo imbandito che doveva sorprendere e impressionare gli ospiti del Principe.

Tra la Torre e la Serra, Jappelli aveva poi costruito una Grotta artificiale, retta da strutture in legno e stucco, oggi non più esistenti, con laghetti e percorsi in legno sospesi – solo in parte conservati – pensata come il luogo della Ninfa (“Nymphae Loci”) e quindi un luogo naturale e ricco di acque, che doveva destare meraviglia e stupore a chi l’attraversasse.

Tra il 2007 e il 2013, si è realizzata una prima e importante fase del recupero degli edifici. Il complesso era in condizioni di fortissimo abbandono e degrado (l’avevo scoperto, una prima volta, nel 2012 ed ero rimasta molto rattristata…), dovuto anche a numerosi di atti vandalici oltre che alla tromba d’aria del 2008 che l’aveva fortemente danneggiato: le coperture della Serra crollate, i vetri policromi in gran parte perduti, come perduti erano tutti gli arredi.

Il recupero condotto dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali è stato mirato al ripristino, il più fedele possibile, dell’assetto originario delle diverse parti del complesso, effettuato sulla scorta di documenti e immagini d’epoca e sull’analisi di quanto si era conservato. Il restauro ha interessato sia le strutture degli edifici che i molteplici apparati decorativi preesistenti, per riportare l’intero complesso al suo originario splendore.

La documentazione utilizzata per ricostruire l’aspetto degli spazi è costituita da fotografie e incisioni storiche, oltre che dalla testimonianza di Giuseppe Checchetelli, che descrive un paesaggio “arido” costituito da Palme, Agavi e Aloe, attorno alla coloratissima Serra, e una grotta artificiale, ricca di acque e percorsi sopraelevati in legno; due paesaggi e spazi totalmente diversi, secco e solare il primo, umido e ombreggiato il secondo.

Assecondando queste precise impostazioni storiche, il progetto ha previsto, nello spazio interno della Serra, il ripristino della fontana esistente e l’inserimento dell’attrezzatura tecnica necessaria per ospitare il pubblico e allestire una raccolta di Palme, Agavi, Ananas e Aloe, scelte fra le specie che erano già state introdotte nel nostro paese nel secolo XIX, cioè all’epoca di Jappelli. Le piante inserite sono disposte al centro dello spazio e davanti alla parete in muratura, in vasconi di ferro color corten (una tonalità che varia da un arancio iniziale a una colorazione bruno-rossastra che muta in base a condizioni climatiche ed esposizione agli agenti atmosferici), fornite di ruote, per poter essere spostati in caso di mostre, convegni o altro tipo di eventi. Un luogo magico dove incontrarsi.

L’accoglienza del pubblico è gestita nell’emiciclo d’ingresso, arredato con mobili disegnati ad hoc e realizzati in ferro, in consonanza con la struttura dell’edificio; particolare attenzione è stata posta all’illuminazione degli spazi. Nello spazio esterno antistante alla Serra è stata impiantata una piccola collezione di Palme, Agavi e Aloe con una illuminazione scenografica dedicata, realizzato l’adeguamento della scala esistente in pietra di tufo – che conduce al primo piano in cui si realizzeranno dei laboratori – ma soprattutto è stata inserita una nuova pavimentazione che rende lo spazio esterno più facilmente utilizzabile per eventi e attività integrative. Alla vallecola, “Nymphae Loci”, è stata restituita l’atmosfera originaria della grotta che la copriva, ripristinando e arricchendo i rivoli d’acqua che alimentano i due laghetti esistenti e inserendo nel secondo alcune ninfee, piante ossigenanti e fiori di loto.

Usciamo piano piano … in silenzio.

L’aridità e il sole del deserto occhieggiano al verde delle oasi e della vegetazione ombrosa e umida, oltre che agli anfratti boscosi abitati dalle Ninfe. Un paesaggio degno di una fiaba.

 

Articolo pubblicato su Wall Street International Magazine

Fotografie di Simonetta Sandri

Vite di carta /
La coincidenza di chiamarsi Marcovaldo

Vite di carta. La coincidenza di chiamarsi Marcovaldo

Come sono arrivata alle avventure di Marcovaldo è davvero frutto del caso, più esattamente una somma di piccole casualità. Sabato scorso ero al funerale triste e tenero di un compagno delle scuole elementari, Emilio Marco. Emilio era il nome che lui dava di sé, ma a noi bambini della classe piaceva di più il secondo. Non so dire per gli altri, personalmente trovavo Emilio un nome da vecchio e lo evitavo con decisione. Le scelte che si fanno da bambini sono spesso definitive e per tutto il resto della vita restano indenni da qualunque ripensamento.

Solo oltre cinquant’anni dopo, quando ho letto i suoi due nomi e il cognome sul necrologio esposto in piazza al mio paese ho pensato che non c’era più Emilio. Sarà che ora siamo vecchi anche noi per i bambini delle elementari e questo ora è il nome giusto, fatto sta che come Emilio l’ho lasciato andare, ma il nome Marco è rimasto. L’ho ritrovato nel protagonista del romanzo che sto leggendo, Con la testa fra le mani di Nicola Cavallini, un libro uscito nel 2006 in cui Marco, appunto, è un giovane uomo incastrato nei problemi dei quarant’anni, vivo che più non si potrebbe. Si dibatte fra il lavoro e i ruoli dentro la famiglia, fra le passioni che ha dovuto lasciare e la voglia di dare forma al proprio destino.

Al giovane Marco vorrei dare spazio in questa rubrica in uno dei prossimi articoli. Ora seguo la traccia che il caso mi ha disegnato: un altro Marco nonché Valdo è venuto dritto dritto dalla narrativa  degli anni Sessanta, nei panni di un tizio che era vicino a me stamattina al supermercato, uno che ormai arrivato alla cassa si è fermato bruscamente ed è tornato indietro, sterzando a fatica per invertire il senso di marcia, visto il carico che aveva accumulato nel suo “cestino di ferro con le ruote”. Ho pensato: chissà se va anche lui a disfarsi di tutte le mercanzie che ha comprato. Lo so che potevo pensare a una dimenticanza, a un ultimo barattolo da comprare, invece ho ripensato a Marcovaldo al supermarket, il  penultimo racconto dei cinque riservati all’inverno che formano la raccolta Marcovaldo di Italo Calvino, uscita presso Einaudi nel 1963.

Come si sa nel testo si alternano cinque gruppi di racconti dedicati alle stagioni, secondo la scansione ciclica primavera-estate-autunno-inverno. Marcovaldo e la sua famiglia devono districarsi nella non facile vita della grande città in cui vivono: lui immigrato dal sud insieme alla moglie, mentre i loro bambini sono nati lì. Sono una famiglia povera, che vive dello stipendio del papà manovale e i figli non hanno mai visto un bosco, pensano di poter cacciare i piccioni che fanno il nido sul terrazzo condominiale, regalano al figlio di un ricco industriale dei fiammiferi, un tirasassi e un martello, credendo che sia povero e via dicendo. Sono ingenui e sensibili come il loro papà.

A questa raccolta di racconti ho girato intorno molte volte nel corso della mia carriera di insegnante. Li ho letti e riletti insieme ai ragazzi, cogliendo di volta in volta elementi diversi nella tessitura dei testi. Oggi, però, niente lezione sullo straniamento con cui Marcovaldo guarda alla rumorosa città industriale negli anni del boom economico italiano, niente riferimenti alla canzone di Adriano Celentano Il ragazzo della Via Gluck, con la sua difesa del verde e della natura contro il cemento e l’aria ammorbata della metropoli. In una quinta ricordo che avevamo anche formulato l’ipotesi di un Calvino precursore della letteratura postmoderna in Italia, proprio a partire da questi racconti, ironici e con tratti surreali, ma già così malinconici, tutti costruiti sulla sconfitta, a cui va incontro un ‘eroe’ come il nostro manovale ogni volta che affronta la complessità di un mondo per lui non decifrabile.

Oggi penso al carrello di Marcovaldo, semplicemente. Nel freddo dell’inverno 1963 un contadino,  immigrato come lui dalle campagne del sud, trova nel carrello della spesa traboccante di cibi un autentico oggetto del desiderio. Lo si trova dentro al labirinto dei piaceri del supermarket, disponibile all’ingresso con la sua bocca vorace che chiede di essere riempita con ogni bendidio. Sono le sei di sera e la “folla consumatrice”, che per il resto della giornata ha prodotto beni di consumo, si riversa nei supermercati, facendo a gomitate per fare acquisti.

Marcovaldo è a passeggio con la moglie Domitilla e i suoi quattro bambini: a che fare? Calvino dice che “essendo senza soldi, il loro spasso era guardare gli altri fare spese”. Non stasera, però. Stasera entrano tutti e sei, ognuno prende un carrello, poi avanzano “in processione” tra gli scaffali pieni di roba. Non si tocca nulla, dice il pater familias, è proibito. Ma chi può resistere a simili tentazioni? I bambini vedono le altre signore riempire di barattoli i loro carrelli e di getto si tuffano a mettere scatole e scatolette nei loro. Di nascosto anche Marcovaldo si prende il lusso di riempire il suo: va a zig zag tra le corsie dell’edenico labirinto e afferra datteri, salsa piccante e spaghetti. E’ purtroppo vero che la cassiera lo attende, laggiù alla cassa, ma intanto anche uno come lui, a cui lo stipendio tra “rate e debiti scorreva via appena percepito” nel risucchio della famiglia numerosa , “poteva per almeno un quarto d’ora gustare la gioia di chi sa scegliere il prodotto, senza dover pagare neanche un soldo”.

Non finisce bene questa avventura trasgressiva e straniata sulle quattro ruote di un carrello. Ho già svelato che i nostri ‘eroi’ devono disfarsi dell’insidioso carico di merci che hanno accumulato, perciò approfittano di una apertura lasciata nel muro dai manovali del cantiere che lavora all’ampliamento del supermarket. Escono nel buio e procedono sobbalzando… Il racconto finisce mentre loro lassù “sul castello d’assi d’un’impalcatura, all’altezza delle case di sette piani” scaricano il loro bottino dentro le “fauci di ferro” di una gru, quando la sua enorme ganascia raggiunge il bordo dell’impalcatura. Surreale. E anche simbolico: tutte le bocche sono state riempite, quella del carrello e ora quella di una macchina, tranne le loro.

 

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Insolite note
La giornata della Terra

 

Qualche giorno fa, alla vigilia di San Giorgio, il santo ferrarese come sempre impegnato ad ammazzare draghi, abbiamo celebrato la Giornata della Terra. Da celebrare però, c’è ben poco. La “festa” alla Terra gliel’abbiamo già fatta, visto che a metà estate ce ne servirebbe già un’altra da consumare. I calcoli sono presto fatti: verso fine luglio contabilizzando le risorse consumate (dall’ossigeno all’acqua, al suolo) saremo a debito, ovvero andremo ad intaccare il capitale perché la rendita che ci fornisce questa Terra sarà già andata. Noi italiani facciamo anche peggio: la nostra impronta ecologica come paese è tale che tra una quindicina di giorni – giorno più giorno meno – ci saremo già giocati tutta la nostra parte di pianeta. E’ da tempo infatti, che nel Belpaese una rondine non fa più primavera. Non solo perché di questi straordinari volatili in giro se ne vedono sempre meno, qui è la primavera che fatica a ritornare, schiacciata tra un inverno che assomiglia all’autunno ed un’estate che si allarga come una macchia d’olio, mangiandosi ogni possibile sfumatura.

I numeri sono impietosi. Io che ho insegnato per metà della vita ad usarli, faccio veramente fatica a trovare qualche cifra incoraggiante. Non voglio quindi snocciolare statistiche infauste, seppellendovi sotto una valanga di misfatti ecologici, tutti ugualmente gravi, tutti inderogabili. Non sono le informazioni che ci mancano. Tutt’altro. E’ come quando proviamo a metterci a dieta o decidiamo che è venuto il momento di alzarci dal divano per fare un po’ di attività fisica. Sappiamo che dovremmo farlo, ma poi è la nostra costanza a venir meno. La coerenza fa a pugni con la difficoltà; l’impegno s’impenna sulla quotidianità.

Per oltre vent’anni sono stato un infaticabile attivista ambientalista. Mi sono sporcato le mani, raccogliendo i rifiuti abbandonati da tanti “somari”, sulle spiagge e tra i boschi. Ho attraversato in lungo ed in largo la nostra provincia, per decine di cause o manifestazioni tese a salvaguardare qualcosa di questo meraviglioso territorio. Ho praticato l’educazione ambientale, il confronto delle idee, lo scontro sui principi.  Poi ho mollato per stanchezza: troppe pacche sulle spalle, tante sui denti. Chi veniva in associazione, lo faceva quasi sempre perché aveva un “proprio” problema: un impianto di qualche tipo, che non riteneva giusto “ambientalmente parlando” che fosse costruito vicino a casa sua; il traffico insopportabile davanti alla finestra; il rumore, la puzza, o una qualche potenziale fonte d’inquinamento in arrivo a poca distanza dal cortile, dopo anni di vita tranquilla.  Problemi a volte degni di essere affrontati, in molti casi, marginali in un serio rapporto tra costi e benefici ambientali. Sempre però, bisognosi di energie, studio, impegno, discussione, scelte conseguenti e coerenti. Tutte cose che normalmente la gente rifugge, cercando le soluzioni facili e immediate. A distanza di oltre quindici anni dalle mie ultime uscite con il cappello giallo della Legambiente, mi chiedo se ne è valsa la pena, ovvero se alla fine, come dice un mio vecchio amico, ho lasciato il mondo un po’ meglio di come lo avevo trovato quando ho cominciato ad impegnarmi materialmente e direttamente nella sua salvaguardia.
Conclusione provvisoria, ma abbastanza sconfortante: la Terra ha bisogno di testimonianze, ma soprattutto di una quotidianità attenta e diffusa. E di scelte concrete, non sempre facili da compiere, soprattutto quando toccano anche noi stessi o interessi non immediatamente popolari. L’uovo di colombo, si dirà! Certo. Una conferma indiretta di questa semplice, ma impietosa considerazione, deriva dalla cosiddetta transizione ecologica, così urgente e attuale, che è dal 1973, ovvero dalla prima, vera crisi petrolifera che se ne parla, continuando a spostare le lancette del suo serio inizio, ad un imprecisato domani.
Così più della piccola Greta e degli effetti dei cambiamenti climatici sulla nostra vita, poté Putin e la guerra. Ma la cosa straordinaria è che di fronte alle ragioni della geopolitica, non si parla ancora di passaggio deciso e ponderato alle fonti rinnovabili, ovvero a quell’economia circolare così alla moda, ma semplicemente, si fa per dire, alla sostituzione del petrolio e gas russo con il petrolio e gas di paesi altrettanto “fragili” e poco affidabili sul piano politico, sparsi in Africa e Asia.

Quindi, tornando alla nostra metafora iniziale, stiamo sul divano e non vogliamo alzarci. Quanto al nostro rapporto con i cambiamenti climatici, assomigliamo a quegli studenti che difronte ad una pagella tutta in rosso continuano a pensare fino all’ultimo che si possa rimediare. La catastrofe ambientale è già cominciata. Non è più possibile invertirla, almeno nei tempi umani. Possiamo solo cercare di rallentarla e con fare preoccupato contare quanti anni avremo nel 2060-70, termine entro il quale gli scienziati collocano per esempio, lo scioglimento dei ghiacci ai poli, tirando poi un respiro di sollievo nel momento in cui ci rendiamo conto che saremo probabilmente già all’altro mondo. Almeno noi.

Anche la musica ha provato a scuoterci. Sono tanti i musicisti o i cantautori che hanno tentato di sensibilizzare su questi problemi, aggiungendo la loro voce a quella di attivisti e testimoni. “non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia”, ci ricorda Guccini, rimettendo al centro l’eterno dilemma dell’arte e della sua capacità di incidere veramente sulla realtà. Non ho risposte semplici. Quindi non voglio chiedermi quanto conti o abbia contato, per la causa delle balene, “Whale song(canzone delle balene) dei Pearl Jam.  Il brano è stato pubblicato nel 2003, all’interno di “Lost Dogs”, un doppio album che proponeva materiale inedito assieme a out-take, cover e pezzi ritenuti minori, quelli che si definivano i lati-b di un singolo. Una musica lancinante e “grunge”, per un grande gruppo che, tra mille contraddizioni, ha provato a sperimentare la sostenibilità nelle proprie produzioni.
Nel 2003, anno in cui viene pubblicato, i Pearl Jam hanno investito una grossa somma di denaro per coprire l’impatto ambientale dovuto alla produzione e distribuzione del loro lavoro in studio.  Non è una medaglia, ma indica almeno una preoccupazione, che unita all’attenzione del gruppo all’intero ciclo del loro agire – dal prezzo dei biglietti all’impatto dei loro concerti – non è frequente trovare.

“Whale song” non è cantata da Eddie Vedder, il frontman della band, ma da Jack Irons, che  per un periodo è stato il batterista della  band statunitense. Il brano è stato scritto alla fine degli anni novanta ed è stato ripreso in diverse raccolte di musica ambientalista. Si parla ovviamente di caccia alle balene, ancora oggi, dopo vent’anni dalla canzone, autorizzata da Islanda (che ha recentemente annunciato che la sospenderà solo nel 2024), Norvegia e Giappone. “Moby Dick” ovviamente è lontana anni luce da questa pratica, che come la caccia tout-court, aveva un senso quando Melville scriveva il suo capolavoro. Non certamente oggi. Il testo è forse un po’ naif, sicuramente un po’ datato e schematico, ma è da ascoltare.

WHALE SONG

The sun was in clouds, the sun looked out         Il sole era tra le nubi, il sole stava spuntando
Exposed a trail of mist and spouts                      illuminando un sentiero di nebbia e di getti d’acqua
Ships followed the ancient lead                          le navi seguivano l’antica pista
Deceiving friends under the sea                          ingannando gli amici sotto il mare

Wow, imagine that? They won’t fight back        wow,  immaginalo ? Loro non reagiranno
I got a theory on that                                           Io credo che

A whale’s heart is as big as a car                         Il cuore di una balena sia grandissimo

A whaler’s thought                                               Il pensiero di un cacciatore di balene
Must be smudged by the dark                              deve essere segnato dal buio

 

They won’t fight back                                           Loro non reagiranno
I’m sure they know how                                        So che saprebbero farlo
Means they love or are too proud                         Significa che amano o sono troppo orgogliose
They won’t fight back                                           Loro non reagiranno
I’m sure they know how                                        So che saprebbero come
Means they love or too proud                               Amore o fierezza
They swim, it’s really free                                     Nuotano, totalmente libere
It’s a beautiful thing to see                                     E’ bellissimo da vedere
They sing                                                               Cantano

Hunters of land, hunters of sea                                                 Cacciatori di terra e di mare                            Exploit anything for money                                                      Sfruttate ogni cosa per denaro
I refer to anybody that takes advantage                                       Come chiunque tragga vantaggio da of what that is free                                                                                                         ciò che è di tutti

They won’t fight back                                                                                            Loro non reagiranno
It’s only a thought that makes it seem right                              E’ solo un’idea a farlo sembrare giusto
What you don’t see is because of your sight               Ciò che non vedete è perché non volete vederlo

Take what you want, kill what you can                Prendete quello che volete, uccidete quanto potete
That’s just one way from the mind of man                   Questo è quanto viene dalla mente dell’uomo
Take their lives, sell their parts                            Prendete le loro vite, vendete le parti dei loro corpi
But there is not taking of their hearts                                    ma non riuscirete a prendere i loro cuori

If i was lost at sea                                                                                              Se mi perdessi in mare
That harpoon boat in front of me                                                 Quella nave piena di arpioni davanti
It’s the whale i’d like to be                                                                       E’ la balena che vorrei essere
They won’t fight back (5x)                                                                                    Loro non reagiranno
They don’t know how                                                                                      So che saprebbero come
They won’t fight back (3x)                                                                                    Loro non reagiranno

(la traduzione, con qualche licenza poetica, è del sottoscritto)

Manipolare le parole per manipolare il pensiero

 

È da tempo che mi occupo della crisi di linguaggio che stiamo vivendo.
Una crisi archetipale perché la lingua è lingua madre, è parola incarnata che  viene da lontano, ed è legata ai corpi delle donne, alla terra in cui nasciamo, alle vibrazioni dei pensieri e delle parole che hanno accompagnato il nostro sviluppo da embrione a feto, fino alla nascita e che accompagnano, poi il nostro viaggio qui sulla Terra ( anche lei madre).

Dunque una crisi che segna quanto malato, non solo fisicamente, sia il tempo che stiamo vivendo!
Questa crisi del linguaggio mi è apparsa chiara molti anni fa quando ho cominciato a interessarmi della pratica aberrante della maternità surrogata.
Allora mi ero resa conto quanto fossimo immersi, in modo del tutto inconsapevole, in un linguaggio distopico, disconnesso dalla realtà viva e palpabile. Noi che avevamo chiaro quanto fosse aberrante questa pratica, cosa per altro evidente, è infatti lampante che è una pratica commerciale, anche quella “altruistica” remunerata con rimborsi spese – dove il giro di affari non riguarda solo la donna madre surrogata, ma avvocati, assicurazioni, cliniche mediche, laboratori etc. –  ci trovavamo a dover contrastare una narrazione che la dipingeva come uno dei più grandi atti di amore e di gratuità.

Per descriverla, le parole venivano e vengono ancora oggi manipolate, staccate dalla loro reale incarnazione, staccate dalla realtà e restituiscono alla opinione pubblica questa pratica come una battaglia progressista e di nuovi diritti.  Le forze progressiste, oggi, ne hanno fatto una bandiera di libertà e di diritti.

Dare dei figli a chi non può averli è il gesto più altruistico che si possa fare, i figli diventano un diritto di tutti e i diritti sono sacri inviolabili.  Questi gli slogan delle democrazie occidentali, il così detto mondo “primo” ! E questa narrazione ha funzionato ed è diventata fondamentale per portare avanti quella idea di libertà fallace che in tanti  denunciamo  da tempo, e che oggi è la bandiera del pensiero transumanista che ci governa.

Le parole che ci hanno accompagnato in questi due anni di emergenza sono uguali a quelle che hanno accompagnato la narrazione della maternità surrogata. “Più vaccinati più liberi“, eccola li la libertà nuovamente immessa sul mercato!
E di nuovo, come per la maternità surrogata, la maggioranza della gente non ha avuto moti di indignazione. I pochi che hanno osato farsi delle domande sono stati dileggiati, diffamati e poi  perseguitati.

Il Green Pass e il super Green pass sono un altro lampante esempio di distorsione delle parole.
Cosa ha di green la tessera verde? 
La parola green ce l’hanno spalmata ovunque, ma non c’è un’azione politica che sembra corrisponda al suo vero e profondo significato. Quando è comparso all’orizzonte questo nome che serviva a definire appunto una tessera che apriva le porte alla vita sociale, alla vita lavorativa, agli studi agli sport , la maggioranza delle persone non si è accorta dell’uso manipolatorio di questa parola.

E la domanda è sempre la stessa: “quanto è diventata accettabile questa tessera legandola alla parola green?”  Sappiamo bene che il super green pass non era una misura sanitaria, e anche se lo fosse stato, mai avremmo pensato anni fa che avremmo accettato supinamente una misura che obbligava surrettiziamente le persone a fare delle cose sul proprio corpo contro la loro stessa volontà per potere accedere al lavoro, alla scuola alla università, agli sport etc.

Chi per ragioni proprie, di salute o di libera scelta, ha legittimamente esercitato il suo sacrosanto diritto alla autodeterminazione facendo  una scelta contraria al pensiero dominante, si è visto togliere addirittura il diritto al lavoro, il diritto allo studio, il diritto allo sport!

Siamo giunti ad accettare che minoranze, perché di queste si parla, venissero progressivamente escluse dalla vita sociale fino a rendergli quasi impossibile vivere e sopravvivere.  Siamo giunti ad accettare che giovanissimi potessero essere esclusi dallo sport. La famosa autodeterminazione, per noi femministe tema alla radice di ogni nostro ragionamento filosofico e pratico, nella emergenza è diventata carta straccia.

Questo tipo di manipolazione delle parole proviene da lontano.  E’ stata costruita a tavolino con astuzia, appartiene alla storia del potere da sempre  e noi donne dovremmo conoscerla bene, eppure mai sembra abbia raggiunto vette così distopiche. L’esercizio del più banale ragionamento logico difronte ad aberrazioni di senso è stato  bandito dalle scuole, dalle aule, dalla vita.  In questi due anni il mainstream si è fatto portavoce del distorcimento delle parole. Più paradossale è l’incongruenza tra il significato autentico della parola e il suo uso e più diviene utile al mercato e al potere di cui il mercato è il padrone.  Ed è questo che è sconvolgente. Sembra che la gente abbia completamente perso il senso critico, quello semplicemente dato dal “ buon senso” !

Foto della scatola da 10 pz in vendita

Oggi ho ricevuto da una cara amica, con la quale spesso ci confrontiamo su questa crisi  delle parole, una foto illuminante. Alla Coop di Busalla erano esposti in bella vista i pacchi da 10 di ffp2 imballate in una bella scatola di cartone rosa e bianca dove campeggia al centro l’immagine di un mascherina, con su scritto “RESPIRATORE”.
Se con questo ultimo esempio non vi viene un sussulto dal profondo,  non avete un moto di rabbia, quella sana, che vi possa finalmente muovere  in direzione opposta e ostinata, beh credo che la vostra lingua madre ormai sia finita nei meandri più reconditi del vostro inconscio con il danno conseguente che siete  irrimediabilmente disconnessi da voi stessi e dal mondo che vi circonda.

Bologna. Aggressione nazi-fascista a una militante politica

La notte del 4 maggio una ragazza di 22 anni è stata vittima di un’aggressione e tentativo di violenza sessuale da parte di esponenti ucraini legati a gruppi di estrema destra. L’aggressione, di matrice nazi-fascista, per fortuna è stata limitata nei danni grazie alla pronta risposta della ragazza, e lo stupro sventato.

Gli aggressori, due uomini e una donna, hanno pedinato la giovane tra le vie del centro cittadino di Bologna, mentre questa rientrava da una serata con gli amici. Nessun tentativo di furto e nessuna parola proferita tra i tre dimostrano come questa vile aggressione fosse mirata a danneggiare la ragazza. La giovane attivista, appartenente a Cambiare Rotta Organizzazione giovanile comunista, non è stata una vittima casuale.
L’episodio, già preoccupante se preso singolarmente, si inserisce in un quadro molto più allarmante .

Infatti le provocazione cominciano il 23 aprile in occasione del festival popolare “Oltre il Ponte”. Durante la giornata di festa organizzata nel quartiere Bolognina dal Circolo Granma e partecipata da tante realtà, si è verificata una gravissima provocazione da parte di alcuni Ucraini Banderisti. Nel tardo pomeriggio, in brevissimo tempo, un gruppo di circa quaranta uomini e donne ucraini si sono presentati alla festa e impegnati nel tentativo di contestare violentemente un banchetto del Comitato Ucraina Antifascista. Fortunatamente la pronta risposta degli organizzatori è riuscita a impedire la minaccia. Nonostante saluti romani e bandiere naziste atti a provocare, la situazione è stata gestita senza l’uso della forza, e gli aggressori fascisti allontanati.
Durante l’aggressione alla festa i provocatori hanno acclamato il ruolo di Stepan Bandera, leader dell’Organizzazione di Nazionalisti Ucraini, come eroe, e hanno definito la strage degli ebrei ucraini come un fatto giusto e necessario alla costruzione della patria.
Dopo le provocazioni arrivano le minacce. Gli uomini hanno minacciato di ammazzare e sgozzare chi si era posto in difesa del banchetto e della festa. Durante le ore di tensione gli aggressori hanno più volte intonato il coro “slava Ukraini”, slogan nazionalista utilizzato dal nazismo di Bandera. Hanno inoltre rivendicato all’appartenenza al gruppo paramilitare di estrema destra Pravy Sector.

Esponenti di questo gruppo si sono presentati anche nei giorni successivi.

Gruppi poco numerosi si sono presentati sia per la manifestazione per il 25 aprile, sia per la piazza organizzata da USB per il 1 maggio. In tali occasioni non hanno provocato fisicamente ma si sono limitati a fare foto e video alle facce di chi, appena pochi giorni prima, aveva impedito il loro tentativo di violenza.
Nella stessa notte del 1 maggio sono state tagliate le ruote di una macchina utilizzata per lo scarico dei materiali durante la giornata. C’è stato il tentativo di forzare la porta del Barnaut, bar che ha partecipato alla giornata e ritrovo di molti degli organizzatori.

Un’escalation di provocazioni e minacce culminata nella vile aggressione del 4 maggio.

Quanto avvenuto in queste settimane non è casuale, ma arriva contestualmente all’escalation bellica nell’est Europa. All’interno delle nostre città cresce sempre più un clima guerrafondaio e interventista, in cui azioni squadriste da parte di banderisti ucraini sono legittimate e passano inosservate. L’invio di armi in Ucraina e l’appoggio a gruppi neo-nazisti quali Pravyj Sectron e il Battaglione Azov legittima l’espansione e l’operato di gruppi di estrema destra in tutta Europa. In Italia, dove la comunità Ucraina è molto forte, la propaganda di guerra esalta quegli elementi che ora adducono a una caccia al nemico interno.

Questa situazione allarmante e pericolosa minaccia l’agibilità democratica e politica nelle nostre città, minaccia la libertà di chiunque di noi. È una diretta conseguenza di una politica guerrafondaia e di una retorica di minaccia che giornali e telegiornali portano avanti da mesi. Queste organizzazioni di stampo nazi-fascista stanno prendendo piede nel nostro paese come in molti altri in Europa.

I fatti di Bologna non sono isolati, si inseriscono in un quadro di tensione che prende tutto il paese. Ricordiamo ad esempio il lancio di molotov contro l’abitazione di una coppia di russi a Livorno, o ancora la propaganda razzista comparsa sui muri di Napoli, o le provocazioni a Senigallia durante un’iniziativa di Potere al Popolo contro la guerra.

Di seguito lasciamo la conferenza stampa tenuta da USB- Unione Sindacale di Base, Potere al Popolo e Cambiare Rotta sui fatti accaduti a Bologna: [qui]

PRESTO DI MATTINA
Il deserto e il pozzo

 

«Sono il pozzo e il deserto attorno al pozzo; traggo da me l’acqua che mi feconda. Queste parole che procedono da me, sono incapace di verificarle nella mia vita di ogni giorno. Ma io credo, io attendo ch’esse mi siano donate. Ne assumo la responsabilità. Io le bevo, poi le lascio ritornare nel silenzio» (Pierre Emmanuel,  Le desert et le puits, in Esprit, 320/9 1963, 202).

Olivier Clement [Qui]  ha scritto di Pierre Emmanuel [Qui] che egli vedeva ovunque il segno di una doppia assenza, di un duplice silenzio: quello di Dio sepolto nell’uomo che vive senza Dio, e quello dell’uomo sepolto nel pensiero che Dio è morto.

«Sole sventrato oscurità senza mistero… Il deserto grida invano un albero Signore». E tuttavia agli occhi del poeta un “sabato santo” è la storia, un vivere come «mirra nel deserto»: attesa, indugio ma anche appello, quando il desiderio di Dio presso il pozzo del suo silenzio, come presso la tomba chiusa del sabato santo, diviene per Pierre Emmanuel desiderio della Parola, esperienza del suo sorgere, del suo “sì alla Parola.

Una responsabilità verso la parola affinché non venga meno e non soccomba alla minaccia di una perenne assenza e definitivo silenzio. «Cammino nella mia parola ed essa mi aiuta ad avanzare… essa riaccende il senso «in attesa di una risurrezione inimmaginabile e forse imminente… Il mio incontro con la parola e con Dio è nel seno delle cose».

Ricorrente − soprattutto nei testi che hanno una trama biblica e alludono al pozzo di Isacco, di Giacobbe, della Samaritana − è negli scritti di Pierre Emmanuel il riferimento alla simbologia del deserto (come «silenzio di Dio») e del pozzo (ad identificare il suo mistero): «Così Giacobbe: il suo volto è l’orlo del pozzo/ Scavato da Dio nell’uomo e l’uomo in Dio, insieme», (Jacob, 90).

Nell’immaginario del deserto e del pozzo possiamo attingere così alla forma della realtà: un fuori (dehors) e un dentro (dedans) che ci consentono di scorgere il carattere simbolico della parola che accede al reale, lo apprende e infine lo comunica.

La sua è funzione di segno provvisorio che emerge dal pozzo e poi ritorna nel suo silenzio per attingerne di nuovo il senso. E in questo movimento di ascesa, discesa e risalita essa indica che c’è dell’altro, oltre, in fondo ciò che essa fa vedere alla superfice.

La parola è messaggera nell’esteriorità, il deserto del senso, di un’interiorità, il pozzo di acque feconde. Essa significa così nel fuori un dentro, eccedenza misteriosa e nascosta del senso del vivere. Ma non solo: nel suo manifestarsi la parola grida che il silenzio non è assenza, ma presenza che trasforma, fecondazione e gestazione di una nuova parola.

Per questo la realtà è “deserto” e “pozzo” insieme, un fuori e un dentro comunicanti l’uno con l’altro: «Lentamente, oscuramente, io sarò cambiato, rinnovato. Obbedirò senza nemmeno sapere al suggerimento dell’Essere: alla sua intenzione su di me che è il mio stesso essere. Voglio questa presenza profonda, questo significato di cui l’intenzione mi è nascosta. Non mi ha dato altra legge che tendere l’orecchio e dire. Ascolto e dico» (ivi).

Simile è così il poeta a Rachele al pozzo, l’unica vera amata da Giacobbe: «al limite del silenzio/ Ascolta l’enorme orecchio tutt’intorno/ Il deserto parla./ Il pozzo è una scala per il paradiso/ La tua anima è l’intero deserto, il cielo dei sogni».

Ma pure simile a Rachele è la Parola: Tu sei la strada e la scala e l’acqua nel pozzo. L’eternità, parte della Promessa»; il linguaggio è «fuoco greco» che nemmeno l’acqua può estinguere: «La tua fiamma innerva i mondi/ Senza toccare il profondo/ Distanza tra me e me/ Perché l’oceano del linguaggio/ Non è che un pozzo a cielo aperto/ di cui l’intero universo ne è il bordo e la grata/ Ma la stella in fondo al pozzo Immensità puntiforme m’intima al centro un segreto/vertigine di cui sono fatto/ Verbo senza parole o simboli/ Abisso della Parola/ voragine e battito del senso/ che mi sospende e mi trapassa/ che mi separa per sospendermi/ allo Zenith del mio nulla/fino alla roccia del mio nulla», (Evangeliaire, 30-31).

Deserto e pozzo sono i due volti, i due universi, il fuori e il dentro, il visibile e l’invisibile che connotano l’esperienza del reale, il suo mistero. Così per Pierre Emmanuel «il mistero è il senso nascosto sotto ciò che appare»; ciò che è visibile della realtà nasconde qualcosa d’altro, di cui essa diventa segno che manifesta un altrove in cui cercare.

Pertanto al fine di approcciarsi al mistero – ma sarebbe meglio dire per lasciarci avvicinare da lui − non serve essere un veggente, ma un viandante e nomade nel deserto delle apparenze. Come a dire che possiamo andare verso e attraverso l’invisibile senza abbandonare il visibile di cui è traccia, ma non senza però manifestare a questo mondo e ai suoi volti un’intima attenzione per scorgere attraverso il volto, il mistero che si illumina e si nasconde in esso.

Così per Pierre Emmanuel «credere al mistero e credere che tutto è segno e che ogni cosa compreso me stesso è figura che sempre porta un significato. O piuttosto sono io che dò significato senza distogliere lo sguardo dall’apparenza dove scelgo e dò diversa forma alle mie immagini.

Non fuoriesco mai dal mondo eppure in virtù del simbolo e della sua azione che trasforma io sono allo stesso tempo nel mistero, in sua presenza. Sono io che suscito dei segni per intendere attraverso essi l’eco che orienta la mia fuga: qui sta l’essenziale, il mistero è questo pensiero che di figura in figura fugge ad ogni limitazione oggettiva e gioisce presentendo l’eterno invisibile. Non posso afferrare l’impercettibile ma da lui sono preso» (Le desert et le puits, 194).

Si sperimenta la vita attraverso quel passante di valico, il duplice piano delle apparenze e del mistero, del fuori e del dentro e allo stesso tempo della loro unità. Facciamo esperienza della frammentazione e di ciò che mi manca, e tuttavia i segni e le parole ci ricordano qualcos’altro, indirizzano verso qualcuno mancante, con il quale poter formare un tutto.

Questa itineranza claudicante risponde dunque ad un’eco originaria che dal fondo del pozzo risale e sparpaglia le sue risonanze tra le dune ventose e sempre mobili, vaganti del deserto. Un’eco nella forma di un richiamo, di una vocazione che è «soffrire l’abisso di una distanza presentendone la pienezza: tale è la vocazione simbolica dello Spirito».

Ed in essa si rispecchia pure la vocazione poetica di Pierre Emmanuel: «Questa vocazione è per me essere un poeta. Essa dà alla mia poesia non solamente un linguaggio ma una destinazione. Vocazione che fa della mia poesia non è solo una lingua ma uno scopo.

Definisco poesia per quello che voglio che sia: un linguaggio orientato verso il significato nascosto – linguaggio di un essere che manca di Essere e che tende verso l’Essere pronunciando appunto questa mancanza. La poesia così intesa è un’attività singolare: la mia. Sono la mia poesia.

Ma al tempo stesso sono io e pure un altro. La mia poesia oltrepasserà sempre ciò che io sono al momento di scriverla. La poesia è Atto totale: l’Atto di chi si mette e si cerca nella sua parola. Colui che cerca se stesso si cerca al di là di se stesso mettendo il suo essere in ricerca dell’Essere ma sempre senza saperlo… Nessuna opera d’arte prende forma senza dare forma a chi lo crea», (ivi, 195; 200).

«In nome di che cosa?»

È il titolo di una comunicazione di Pierre Emmanuel al congresso della rivista Esprit fondata dal filosofo Emmanuel Mounier [Qui] (Au nom de quoi?, in Esprit, 325/2 1964).

I verbi che definiscono il linguaggio in quanto parola sono: affermare, designare, contestare, profetizzare. Infatti, scrive il nostro autore, «la parola è proiezione dello spirito creatore nell’esistenza di chi la proferisce e nel mondo in cui vive. La parola valorizza la realtà, essa incarna il linguaggio, vi introduce una presenza umana e credo pure divina come un fatto irreversibile e irriducibile» (ivi, 179).

In nome di cosa allora − si domanda il nostro autore − continuare a parlare, a scrivere ed affermare, designare, contestare e profetizzare?

La sua risposta abbastanza articolata circa il significato della letteratura in una società che dispone di nuovi mezzi di conoscenza offre una prima indicazione: «in nome della fame. Il nostro mondo della abbondanza e della sazietà non è altra cosa che il mondo della fame. La fame è l’esperienza decisiva dell’uomo “cosmico”, quella che determina ogni nostra sorte materiale e spirituale.

Perché la fame – fame organica – è diventata talmente un grido alle nostre porte che la nostra cultura occidentale viene annientata sotto i nostri occhi e che la nostra arte la nostra letteratura e anche il nostro pensiero assomigliano ai giochi alessandrini, nel vano tentativo di preservare, mentre si gioca per distruggerlo, un rituale le cui regole non hanno più senso e la carestia del copro si unisce così a quella dello spiritoLa vita interiore è forse solo questa fame che è divenuta cosciente e che trasforma il mondo, sia per nutrirsene che per scavare in esso» (ivi, 187; 189).

L’altra indicazione offertaci da Pierre Emmanuel è questa: «Io parlo in nome della parola che porto dentro di me e che mi contiene, come voi la portate e siete compresi in essa. Parlo per dare fiato alle parole divenute rarefatte, per respirare in loro nello stesso respiro, insieme accrescendo la mia capacità spirituale e il loro significato.

Dare un significato più trasparente alle parole della tribù”, rimane così la vocazione di ogni servitore del linguaggio, l’appello che ogni parola del linguaggio ci rivolge come suoi servi. Se non siamo tutti chiamati a fare poesia, siamo tutti poeti, creatori di senso – o i suoi procreatori

La parola è dentro me, costituisce il mio essere; non è lei che mi esprime più o meno bene, sono io che sono più o meno lei. Fintantoché non comprendo questa intimità, e dimoro nel luogo segreto nella parola, non sono trasformato da essa; dal giorno in cui scopro che sono io che parlo questa parola che mi oltrepassa, che io lo attesti o no, posso solo convertirmi o rifiutarmi a lei, esserle fedele o praticare consapevolmente l’infedeltà» (ivi, 93-94).

La fedeltà alla parola trova il suo spazio interiore, la sua più intima intimità, nel cuore: luogo della trascendenza della parola perché è lì che essa sorge in comunione con l’amore: «A questa trascendenza del Cuore si dedica il poeta: alla modificazione del nostro essere che essa comporta attraverso un rinnovamento personale o interpersonale, da una nuova nascita che è un presentimento indefinitamente ampliato e l’apertura di un senso infinitamente oltre l’intimità in cui tuttavia riposa in noi.

Questo oltre infinito, questa santità del Verbo, ci mette di fronte all’estraneità sconvolgente (étrangeté bouleversante) di questa Parola: l’uomo parla e la parola di cui si serve si apre dentro un abisso, su un Verbo inesauribile, la cui pienezza sempre perseguita, eternamente inconcepibile, è l’unica giustificazione delle nostre parole e l’essere stesso della nostra adorazione» (ivi, 195).

Il deserto non senza il pozzo; il Verbo dentro il silenzio

Perché quest’uomo
Chiamato Gesù
Che visse il suo tempo e la sua ora
Mi parla così
Non dal fondo dei tempi
Ma ora e qui
Non dico più sono storie
Comprendo ciò che mi si dice
Scruto la faccia del Libro
E vedo Lui.
Voi siete tutti fratelli vostro Padre è il mio
Io sono il suo Unico
Ogni uomo è in me.
(Evangeliaire, 243)

 

Signore, insegnaci a parlarti
Il fuoco sia la nostra lingua
Affrontando la notte

Signore insegnaci
A sostenere il tuo silenzio,
Quando l’ombra s’addensa e il fuoco si spegne.

Signore insegnaci a ravvivare
D’un soffio sulle nostre ceneri
Il tuo sorgere (Ton Orient)

Signore, insegnaci a consumare l’attesa,
Per far sbocciare l’alba che ci attende.

Signore, insegnaci ad ascoltarti
Tu che sei sulle nostre labbra
Quando preghiamo

Signore, insegnaci a chiamarti Padre nostro:
una preghiera che ha il sapore del pane.
Una preghiera che sia la nostra casa
(Evangeliaire, 118)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Parole a capo
Emanuela Calura: “Sul materno” e altre poesie

 

“È lecito inventare verbi nuovi? Voglio regalartene uno: io ti cielo, così che le mie ali possano distendersi smisuratamente, per amarti senza confini.”
(Frida Kahlo)

SUL MATERNO

Volavano le stelle
ne celebravi la chiarezza
mi volevi nella tua capanna di foglie
preda della fatalità.
Mi volevi devota
alla tua fedeltà esile
rintocco ossessivo
di fragile stelo piangente
sottile tintinnio
delle porte sopra l’agile
colpo d’ala abile
a spalancare l’universo
al cielo punteggiato di stelle

(1 Gennaio 2022)

 

GUERRA E PACE

In tempo di guerra
ostile e tenace
amiamo di nuovo
il ritorno serale
a guardare le stelle.
Non celebriamo più
la distanza
né la differenza
tra il vicino e il lontano
cogliamo la nostra intima
somiglianza
con la speranza
nell’altro
universo infinito.

(26 Febbraio 2022)

 

SCRIVERE

Scrivere sembra
riconoscere l’Altro
in te più di te
e rinascere alba
rilucente stile
alla vita nuova

(28 Febbraio 2022)

 

ALL’AMORE

Amore che mi chiami
amante
da te amata
per sempre mèta
d’amore
fammi ardere fra
le tue braccia
fino in fondo
come fuoco
nella visione universale
del percepire
la tua e la mia
estasi smisurate.

(10 Marzo 2022)

 

MATRIMONI

Ti ho trovato nel volto
scavato del nobile conte
ti ho visto nelle vesti
dell’umile uomo di fatica
entrambi insieme
nelle ore della nostra vita.
Si sposarono i due giovani
nonostante le età differenti
i volti difformi
e le maniere così lontane
così vicine le mani
nell’intrecciarsi.
Sebbene i nomi siano nomi
i ragazzi che si amano
si sono incontrati con fortuna
e continueranno
ad amarsi
per sempre
nell’eternità del loro grande
volo d’amore

(21 Marzo 2022)

 

FERRARA

Affrettarsi lentamente
verso la bellezza maestosa
delle delizie estensi
dei giardini pensili
innamorarsi
delle fontane zampillanti
le acque eterne
delle cornucopie
ammirare esercitati
la città intorno a noi
così singolare
così unica.

(30 marzo 2022)

EMANUELA CALURA è stata Docente di Letteratura Italiana e Latina nei Licei di Ferrara. Ha pubblicato articoli e recensioni sul Rinascimento Fiorentino e Ferrarese nelle riviste “Intersezioni” e “Lingua e Stile” edite da “Il Mulino”. Ha recentemente pubblicato numerose recensioni sulla narrativa femminile contemporanea apparse sul quadrimestrale “Leggere Donna”. Ha pubblicato alcuni saggi su autori letterari del Novecento Italiano.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti  [Qui]

VITE DI CARTA /
Gli incontri di carta tra i giovani giurati del Premio Strega 2022

 

Siamo una trentina fra studenti del triennio, con alcuni volontari tra i piccoli del secondo anno, e docenti di Lettere. Tra queste siamo due pensionate, accolte a condividere una occasione davvero speciale. In più c’è una ex studentessa, ora laureata in Giurisprudenza, che per passione verso la lettura e verso il nostro storico gruppo Galeotto dà una mano nell’analisi dei libri da leggere e conduce la discussione con i ragazzi di poco più giovani di lei.

Siamo in circolo nella Sala di lettura dell’Ariosto e fuori, appena ci sediamo, si scatena la pioggia. Forse è proprio il temporale a rafforzare l’idea che siamo dentro una nicchia e facciamo sul serio.

L’occasione speciale è questa: discutiamo sui dodici libri semifinalisti al Premio Strega 2022, perché un gruppo di dieci studenti del Liceo fa parte della Giuria Giovani alla LXXVI edizione del Premio.

Siamo di più perché le richieste di entrare nel gruppo hanno superato ogni previsione, perciò sono stati organizzati  quattro incontri a cui possono partecipare e contribuire con le loro riflessioni tutti i magnifici volontari di maggio.

Oggi siamo in cerchio a discutere dei primi tre titoli in semifinale; gli altri nove verranno affrontati nei tre successivi incontri già messi in calendario. In questo modo i dieci votanti effettivi si misurano con altri lettori loro coetanei (tra i sedici e i diciott’anni) e con noi. Alla fine potranno inviare il loro voto di preferenza su uno solo dei romanzi in gara.

Guardo all’intorno questi giovani resi impenetrabili dalla mascherina, che solo a discussione avviata assumono posizioni più rilassate sulla loro poltrona e chiedono di intervenire a raffica. Gli interventi sono mirati a individuare le caratteristiche portanti di ogni romanzo e a darne un giudizio chiaro.

Da vecchia insegnante provo subito la meravigliosa e ben nota sensazione di essere lettori insieme, alla pari. Vedo anche spuntare dagli zaini molte copie cartacee dei libri, che vengono aperti con la guida di segnalibri colorati e lasciano intravvedere lunghe note scritte a matita. Eccole le “sudate carte” dei giurati e dei loro sostenitori. Ecco un incontro di carta.

Faccio solo un breve intervento per commentare il libro che ho letto per oggi. Sono d’accordo con la collega che coordina il gruppo relativo a Nova di Fabio Bacà: lo spazio maggiore va lasciato ai ragazzi.

Il tempo della discussione è animato e conduce a mettere a fuoco i punti di forza e i punti deboli del romanzo. Tutto ciò mi sarà utile quando insieme a Maria Calabrese presenterò il libro presso la sala Agnelli della Biblioteca Ariostea. Nel suo intervento Maria ricorda la data e l’ora ai ragazzi, il 17 maggio alle 17;  insieme li invitiamo a partecipare all’incontro e a fare interventi.

 

Ascolto poi la disamina dei due romanzi successivi, Randagi di Marco Amerighi e Mordi e fuggi.Il romanzo delle BR di Alessandro Bertante [Qui].

Intanto registro una specie di classifica su chi ha potuto già leggere il maggior numero di testi; so che la scelta è libera, ognuno di loro in autonomia legge quanto e cosa può.

Mi colpisce che un buon numero di ragazzi ne abbia già letti tre o quattro.

Tenuto conto che maggio è un mese diabolico per il carico di lavoro scolastico, le verifiche finali, le ansie di chiudere i progetti integrativi del curricolo, i viaggi di istruzione. Devo avere dimenticato qualcosa, però ho reso l’idea di quanto siano impegnative le ultime settimane di ogni anno scolastico.

Trasecolo quando una collega dice di averne letti sette. Di più quando sento chiedere a una ragazza di quinta: “Tu a che punto sei? Tu che mi batti sempre, a quanti libri letti sei arrivata?” Lei risponde otto. Otto! Prima l’ho sentita intervenire in modo puntuale sui tre libri di oggi e ho apprezzato la chiarezza di idee. È fantastica questa ragazza, che ha anche l’esame di Stato da affrontare.

Sono fantastici tutti, anche i piccoli di seconda che non rientrano nel gruppo dei dieci giurati ma intanto leggono, partecipano, si candidano fin da ora a essere nella giuria del prossimo anno.

Uscendo qualcuno mi chiede se ho già recensito Nova. Rispondo che sì, l’ho letto alla fine dell’anno scorso e ne ho scritto su questo giornale in dicembre. Di recente ho letto anche il primo romanzo che Bacà ha pubblicato nel 2019, Benevolenza cosmica, e anche su questo ho scritto alcune osservazioni due settimane fa [Qui].

Mi fa piacere che qualcuno chieda della mia rubrica, è la reazione più ovvia da parte mia. Tuttavia sento che c’è un’altra soddisfazione più implicita, che devo far venire a galla.

Mentre guido per tornare a casa la rintraccio in mezzo alle belle sensazioni che il pomeriggio mi ha lasciato. E’ questa: nessuno si è meravigliato del fatto che io abbia voluto leggere di più sull’autore che incontrerò presto qui a Ferrara.

Perché è consuetudine del gruppo di lettura Galeotto fu il libro, di cui i giovani giurati sono una costola, andare a fondo il più possibile nella conoscenza di una scrittrice o di uno scrittore. Creando uno spazio attorno al libro da presentare, leggendo i libri pubblicati in precedenza e i libri apprezzati da ogni ospite.

Non credo di avere trovato, nella mia lunga carriera di insegnante, uno stimolo più potente alla lettura. Anche oggi mi porto a casa nuovi titoli e nuove indicazioni e commenti. Non credo di avere trovato un antidoto migliore contro la superficialità.

Indicazioni bibliografiche:

  • Marco Amerighi, Randagi, Bollati Boringhieri, 2021
  • Fabio Bacà, Nova, Adelphi, 2021
  • Alessandro Bertante, Mordi e fuggi.Il romanzodelle BR, Baldini + Castoldi, 2022

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

SABATO 14 MAGGIO, ore 10-13 Unife – Dipartimento di Economia
Presentazione del libro per Pino Foschi e i 50anni del CDS

 

Con l’introduzione del ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi si aprirà il seminario L’organizzazione reale della Ricerca e Sviluppo e la formazione dei novizi: Pino Foschi al CER-MONTELL, presso l’Aula Magna del Dipartimento di Economia dell’Università di Ferrara, sabato 14 maggio, dalle ore 10 alle 13. Nell’ambito dell’incontro verrà presentato il libro PER PINO, OLTRE L’ORIZZONTE – 70 anni di lotte, innovazioni, comunità di pratiche e tanta amicizia, per ricordare la scomparsa di Pino Foschi, avvenuta un anno fa, ma anche i 50 anni di attività del CDS – Centro Ricerche Documentazione e Studi Economico Sociali, inizialmente Centro di Documentazione Sindacale, che prese vita nel 1972 all’interno del Consiglio di Fabbrica della Montedison.

Il seminario verrà introdotto da Patrizio Bianchi, ministro dell’Istruzione e dagli interventi di Massimiliano Mazzanti, Direttore del Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Ferrara, Angela Travagli, Assessora al Personale, Lavoro, Attività Produttive, Patrimonio, Fiere e Mercati del Comune di Ferrara e Cinzia Bracci, Presidente di CDS Cultura OdV.

Seguirà la relazione di Federico Butera, sociologo, studioso di organizzazione e architetto di organizzazioni complesse, dal 1988 al 2013 docente di Sociologia dell’Organizzazione (prima all’Università di Roma Sapienza e poi a Milano Bicocca, di cui oggi è Professore Emerito) e fondatore del Corso di Laurea in Scienze dell’Organizzazione presso l’Università di Milano Bicocca.

Presidente e fondatore della Fondazione IRSO – Istituto di Ricerca e Intervento sui Sistemi Organizzativi, inizia lavorando come operaio alla Olivetti, ma in breve ne diviene capo dell’Ufficio Ricerca e Selezione Laureati. Lascia Olivetti nel 1973. Elemento centrale della attività di ricerca di Butera è il percorso di allontanamento dal taylor-fordismo in Italia e la ricerca-intervento sull’organizzazione che, dal 1970, si sviluppò in Italia soprattutto attraverso due percorsi: da una parte la nascita della sociologia dell’organizzazione e della ricerca-intervento in Olivetti e dall’altra la nascita e lo sviluppo dell’Istituto di Ricerca Intervento sui Sistemi Organizzativi. Il tutto attraverso progetti, ricerche, pubblicazione di libri e articoli, insegnamento a giovani, quadri e dirigenti delle imprese e delle Pubbliche Amministrazioni.

Nel 1998 diviene direttore di Studi Organizzativi, una rivista scientifica interdisciplinare che pubblica studi di casi, ricerche empiriche, saggi che hanno per oggetto la nascita, la gestione, la crisi, il cambiamento delle organizzazioni complesse (imprese grandi, medie e piccole), delle reti di imprese, dei sistemi di economia regionale, delle pubbliche amministrazioni centrali e locali, delle organizzazioni no-profit. In Studi Organizzativi vengono effettuati studi critici su esempi positivi di nuove forme di organizzazione e metodologie di progettazione e gestione del cambiamento organizzativo, promuovendo inoltre programmi di ricerca e di diffusione dell’innovazione organizzativa.

La mattinata proseguirà con gli interventi di Maurizio Biolcati Rinaldi, docente Dipartimento di Ingegneria, Università di Ferrara, Pier Giovanni Bresciani, psicologo del lavoro, Università di Urbino, Luca Fiorini, Delegato sindacale LyondellBasell, Andrea Gandini, direttore Annuario Socio-Economico Ferrarese e socio CDS Cultura OdV, Giovanni Masino, Docente Dipartimento Economia e Management all’Università di Ferrara, Salvatore Mazzullo, Primo Direttore del Centro Ricerche Ambientali di Ravenna, già Dirigente di LyondellBasell, Gaetano Sateriale, già Sindaco di Ferrara, sindacalista, presidente dell’Associazione Nuove Ri-Generazioni, Paolo Vita Finzi Zalman, ingegnere presso LyondellBasell.

Il libro Per Pino, Oltre l’Orizzonte curato da Andrea Gandini e Bruno Zannoni, socio CDS Cultura OdV, narra 70 anni di lotte, innovazioni e pratiche di comunità in una grande fabbrica che è stata all’avanguardia in Italia (e in Europa) sui cambiamenti organizzativi, dei modi di lavoro e nelle innovazioni dei prodotti e dei processi tecnologici. Nel volume vengono ricordate le grandi doti umane e le qualità professionali e sociali di Pino Foschi. I lettori, in particolare i giovani e gli studenti potranno farsi un’idea di un mondo passato ma che è parte della nostra storia più recente, e prendere coscienza degli sforzi fino ad oggi compiuti per arrivare fin qui, oltre a trovare spunti e idee, del tutto attuali, per migliorare la società e renderla davvero più fraterna, uguale e libera.

Patrizio Bianchi scrive, nelle pagine di presentazione del libro, che Pino Foschi è stato per tutti noi un Maestro. Un Maestro, da cui imparavi, cioè apprendevi e facevi tuo, ad ogni parola, ad ogni tratto di penna, ad ogni pausa, un maestro esigente che ti richiedeva ogni volta di guardare oltre l’orizzonte dei tuoi pensieri, ben oltre quella linea in apparenza irraggiungibile del tuo sapere, che invece altro non era che il limite autoimposto della tua esperienza passata. Poi, più avanti, raccontandone sinteticamente l’esperienza lavorativa, scrive che Pino, dopo essere stato ai vertici della Federchimici, fu l’animatore dell’Unione regionale della CISL dell’Emilia-Romagna ed anche in quell’esperienza fu forza trainante di una visione profondamente innovatrice dell’azione sindacale, sempre capace di trovare la più avanzata relazione fra territorio, produzione e innovazione. Di questo sforzo di innovazione sociale fu dapprima testimone poi agente il CDS, luogo vero di ricerca sociale e politica. Le pubblicazioni del CDS divennero rapidamente materiali di studio sull’organizzazione della produzione e sugli impatti sociali delle trasformazioni produttive. E conclude con l’immagine del lungo filo che si svolge in oltre cinquanta anni, ma che ha sempre avuto come riferimento la continua tensione fra innovazione e educazione, il bisogno non solo di esplorare spazi nuovi, oltre l’orizzonte conosciuto, ma nel contempo di dare ad altri gli strumenti per cercare i propri spazi, per superare il proprio orizzonte.

Per quanto riguarda la storia del CDS, nel libro viene riportato un documento autografo di Pino Foschi del settembre 1977, nel quale si avanza la proposta di portare il Centro di Documentazione, fondato nel 1972, ad un modello organizzativo più strutturato e allargato a tutto il mondo del lavoro. La proposta è di trasformarlo da soggetto sostenuto sostanzialmente dai chimici in particolare del Petrolchimico in un organo a sostegno di tutte le categorie e le strutture del sindacato confederale, con la conferma della visione unitaria che si sta affermando sulla base maturata nelle fabbriche e non solo.

Dopo qualche anno CDS modifica la sua struttura organizzativa, acquisendo una piena autonomia gestionale, e trasformando la lettera “S” dell’acronimo che passerà da “sindacale” a “studi” e diventando poi, nel 1980, cooperativa con personale professionale e con un allargamento ulteriore dell’area delle collaborazioni. Dopo un trentennio di intensa attività che ha visto una continuità non comune a realtà simili, nel 2019 avviene il passaggio ad Associazione di Volontariato, CDS OdV, con un ampliamento delle aree di interesse e degli strumenti di comunicazione, alla luce dei temi nel frattempo emergenti come ambiente, parità di genere, arte, sociale, ecc., ma mantenendo obiettivi e stessa immutata autonomia e libertà di espressione del Centro di Documentazione Sindacale delle origini. E continuando a pubblicare l’Annuario Socio Economico Ferrarese.

Gian Gaetano Pinnavaia, direttivo CDS

Segreteria ANPI:
preoccupanti le parole del ministro Guerini. Lavoriamo per la pace

 

La Segreteria nazionale ANPI esprime preoccupazione per i contenuti dell’audizione del Ministro della Difesa Lorenzo Guerini nelle commissioni riunite di Camera e Senato.

L’ammissione dell’invio in Ucraina di dispositivi militari, sia pur a cortissimo raggio, in grado di colpire postazioni in territorio russo contraddice l’auspicio di concrete e urgenti iniziative di negoziato condotto dall’UE che oramai da più parti e sempre più frequentemente viene manifestato. L’annunciato invio di nostri soldati sotto l’egida della NATO in Ungheria e Bulgaria è un elemento di ulteriore preoccupazione e di accrescimento della tensione internazionale.

Il ministro Guerini ha altresì comunicato che la dottrina militare russa prevede l’utilizzo di armi nucleari, seppure abbia aggiunto: “Credo che sia prevedibile che non vengano utilizzate”. Tutto ciò conferma l’inquietante escalation in corso, la cui prima vittima è il popolo ucraino e porta ad un accrescimento dei pericoli per la sicurezza nazionale del nostro Paese, oltre che per la pace nel mondo. È sempre più indifferibile una seria iniziativa contro la guerra ed un’ampia mobilitazione popolare con questo obiettivo. L’ANPI è impegnata in tal senso.

Segreteria Nazionale ANPI 

Il 20 maggio: lavoratori e realtà sociali scioperano per dire NO alla guerra

di Patrick Boylan
articolo originale su peacelink

La guerra in Ucraina, alla quale l’Italia partecipa ormai da cobelligerante, è riuscita a fare ciò che anni di appelli all’unità non hanno realizzato, ovvero far scendere in piazza, tutte insieme, le varie sigle sindacali di base e buona parte delle realtà sociali pacifiste, in un movimento compatto contro governo e padronato.

Queste diverse realtà si sono date appuntamento a Roma oggi (8 maggio 2022) presso l’ex sede Inpdai di viale delle Provincie, per mettere a punto uno sciopero generale contro la guerra indetto per il 20 di questo mese in tutta l’Italia. Sono previste grosse manifestazioni a Roma, Milano e Palermo nonché comizi e presidi a Torino, Bologna, Firenze, Pisa, Caserta, Cagliari, Reggio Emilia, Trieste e altre città ancora.

Cinque sono le parole d’ordine: Contro la guerra, l’economia di guerra e il governo della guerra; contro l’invio delle armi in Ucraina e l’aumento delle spese militari; per l’aumento delle spese sociali e dei salari; per il ripristino della scala mobile; per un reddito di base per tutte e tutti.

Ad aderire alla piattaforma rivendicativa sono i sindacati di base (ad esempio CUB, SGB, USI-CIT, i vari COBAS, USB) insieme a rappresentanti della società civile (come il vignettista Vauro Senesi e la filosofa Donatella Di Cesare, i Giuristi democratici, i Disarmisti esigenti, gli Obbiettori di Coscienza, gli Umanisti) e associazioni pacifiste come Abbasso la Guerra, l’Assemblea Antimilitarista e la stessa Rete PeaceLink.

Walter Montagnoli, della Segreteria Nazionale CUB, ha illustrato come la guerra in corso, oltre a causare morti e devastazioni in Ucraina, colpisce le popolazioni di tutto il mondo per via dell’interruzione delle catene alimentari, energetiche e di approvvigionamento di materiali. La mancanza di pezzi di ricambio, per esempio, ha fermato o rallentato molte fabbriche, causando numerosi ricorsi alla cassa integrazione. E mentre il governo taglia i fondi destinati alla sanità e ai servizi sociali per pagare i costi della guerra, contestualmente toglie l’IVA sulla commercializzazione delle armi, così da permettere ai grossi azionisti di Leonardo, di Fincantieri, di Breda… di incassare di più.

“Si spendono due mila miliardi annualmente nel mondo per produrre armamenti, ovvero per produrre strumenti di morte e di distruzione,” ha concluso Montagnoli. “Noi diciamo basta, bisogna produrre meno spade e più aratri – per sfamare le popolazioni del mondo, invece di ucciderle.”

Contro l’economia di guerra si è pronunciato anche Angelo Mulè della USI-CIT. “Il padronato vuole comprarci col bonus governativo di €200? Se li metta in quel posto”, ha tuonato. “Noi, il 20, scioperiamo contro la sua guerra, che è una catastrofe non solo per gli ucraini, ma anche per i lavoratori in tutto il mondo.”

“Inoltre – ha concluso, rivolgendosi ai giovani – non va dimenticato che il servizio di leva non è stato abolito in Italia, ma solo sospeso. Con l’entrata in guerra contro la Russia, il governo potrebbe ripristinarlo.”

Un rappresentante dell’Ufficio Informazione del Kurdistan ha sottolineato che la guerra in Ucraina – tra due imperialismi che usano cinicamente gli ucraini come pedine nei loro giochi di potere – non è l’unica oggi scatenata per scopi imperialisti. “La Turchia, ad esempio, sogna sempre il suo impero ottomano perso e ha invaso pezzi della Siria e dell’Iraq per estendere le sue frontiere, sterminando gli abitanti curdi che, di quel impero, non vogliono far parte; vogliono invece la propria autonomia.”

Il rappresentante curdo ha poi chiesto alla platea: “Perché l’Europa, così pronta ad applicare sanzioni contro l’invasore Putin, non le applica contro l’invasore Erdogan?”, suscitando un applauso scrosciante.

Ma non è soltanto la Turchia che fa guerre imperialiste ignorate dall’Occidente. La Francia di Macron sogna sempre l’impero francese in Africa di una volta; per realizzarlo, ha invaso il Mali otto anni fa, facendo bruciare villaggi interi per estirpare i resistenti; ma nessuno in Italia sembra aver sentito l’odore del fumo. L’Arabia Saudita sogna un vasto impero sunnita nel medio oriente e in Africa del nord; per realizzarlo, bombarda selvaggiamente lo Yemen da 7 anni e nessuno in Occidente applica sanzioni per fermare il genocidio in corso. Ma, si sa, la Turchia, la Francia e l’Arabia Saudita – per non parlare degli Stati Uniti che ha invaso e occupato molteplici paesi terzi in questi anni – sono paesi alleati e quindi possono fare quello che sta facendo Putin, liberamente e impunemente, senza destare scandalo tra i benpensanti occidentali.

La stessa guerra in Ucraina, che sembra dovuta esclusivamente alle brame imperialiste di Vladimir Putin, è in realtà il proseguimento di una guerra imperialista iniziata dall’Occidente.

Infatti, è l’Occidente che ha invaso l’Ucraina otto anni fa e che continua ad occuparla… solo che non si vede (o quasi).

Nel 2014, la NATO ha infatti addestrato segretamente, nelle sue basi in Polonia, milizie ucraine filo naziste che hanno poi dirottato la rivolta popolare degli ucraini contro il loro governo, imponendo come Presidente del paese l’uomo designato da Washington, Arseniy Yatsenyuk. “Yats” ha usato poi quelle stesse milizie per fare guerra, sempre per conto della NATO, contro gli ucraini russofoni dell’Est, una guerra strisciante durata otto anni, con 14.000 morti, e che poi è sfociata in guerra aperta quando la Russia ha incautamente voluto porre fine al genocidio invadendo l’Ucraina.

L’invasione di Putin è indubbiamente un crimine di guerra – anche se non si capisce perché non lo siano le invasioni imperialiste di Erdogan, di Macron, del Principe bin Salman e di tutti i presidenti statunitensi. Un crimine che non si può condannare, tuttavia, senza condannare, contestualmente, chi l’ha provocato deliberatamente.

“Scioperiamo e scendiamo in piazza il 20 maggio per dire NO a TUTTE le guerre e a TUTTI gli imperialismi,” ha concluso l’assemblea di viale delle Provincie, invitando chi vuole aderire alla giornata del 20 a scrivere a: scioperogenerale20maggio@gmail.com

Vite di carta /
“Quando verrà” di Cesare Manservigi

Vite di carta. Quando verrà di Cesare Manservigi

Quando verrà. Cronache, racconti, pensieri è il penultimo libro che Cesare Manservigi ha pubblicato e poi donato ai tanti compaesani che lo conoscono e lo stimano, come chi scrive. Il paese è Poggio Renatico, lo stesso che di mercoledì nella grande piazza ospita il mercato, a cui si ispirano alcuni articoli di questa rubrica. Il nostro paese, vera monade di un mondo sempre più grande, composito e in continuo cambiamento..

Ho conosciuto Cesare in anni recenti e ne sono felice. E’ una conoscenza fatta di letture: sono io che ho letto i suoi libri e gli articoli che pubblica da anni sui Quaderni Poggesi. E’ una conoscenza cresciuta in occasioni più pubbliche che private: alla presentazione dei Quaderni ogni dicembre, davanti ai soci che vengono a rinnovare l’iscrizione alla Associazione Storico-Culturale Poggese; in biblioteca, mentre si conversa sui suoi racconti e lui, modesto, risponde a frasi brevi e intense. Credo però che condividiamo molto, a partire dal gusto delle parole, dialettali e non, come veicoli del pensiero e del cuore.

Ne riporto alcune dalla prefazione al libro: “Quando vado a prendere a casa dalla scuola i miei nipoti, talvolta mi capita di rimanere stordito nel vedere bambini i cui genitori provengono da chissà dove mescolarsi con naturalezza con quelli di qui. E’ l’alba del mondo di domani. Il mondo di quasi tutte le storie qui raccontate è una realtà che è esistita, una realtà che non scomparirà del tutto perché qualcosa di ciò che è stato sempre rimane nel flusso del tempo che va, rimane nelle cose e in chi vive. E’ una realtà che il tempo non può cancellare del tutto ma che non tornerà”.

La realtà che Cesare ha alle spalle si muove da lontano: nel 1943 la sua famiglia si trasferisce da Bologna, dove c’è il pericolo dei bombardamenti, a Poggio Renatico nella grande casa rossa del nonno Zanen. Cesare ha pochi anni ma i ricordi della grande famiglia che si è radunata presso i nonni sono vivaci e hanno lasciato il segno in lui. In fondo il piccolo cosmo del nostro paese che compare nella sua scrittura, così pieno di individui e delle loro storie, è come quella grande casa che si è allargata a ospitare tutti.

Si ritrova, infatti, nei racconti di questo libro come negli altri una galleria di persone che sono frutto della fantasia ma sempre verosimili, oppure che sono vissute qui e la penna gentile dello scrittore le fissa per noi con tratti decisi. Sono padri di famiglia e madri, giovani coppie di fidanzati, bambini dall’infanzia vissuta in povertà ma che hanno conosciuto il gioco e l’amicizia, giovani che si sono impegnati in politica negli anni della ricostruzione dopo la seconda guerra.

Cesare ricorda di avere incontrato queste figure, di età e condizioni diverse, mentre era bambino, poi da ragazzo durante gli anni dell’università. Altre storie le racconta con gli occhi dell’adulto, negli anni in cui è stato docente alle superiori; infine questi ultimi racconti – come dice nella prefazione – sono la nuova stesura di “cose vecchie che il mio vizio di scrivere aveva prodotto”.

Di alcuni compaesani tratteggiati da lui conoscevo le vicende per sentito dire o dalle conversazioni della mia famiglia. Trasferiti sulla carta, hanno acquistato una sostanza umana direi paradigmatica: le parole hanno cristallizzato le loro convinzioni, le abitudini o qualche loro stranezza fissandole per sempre, con i tratti di un carattere umano.

Ma c’è di più nelle pagine dei libri di Cesare: ci sono le persone con addosso la parabola della vita che hanno vissuto su questa terra e c’è la fede che tutti loro fluiscano in un tempo eterno che li riassorbe nelle braccia del Signore.
Prendiamo lo zio Pino, vero personaggio da Oscar del cinema, quello che viene assegnato agli attori non protagonisti e magari rivela dei talenti straordinari.

La cifra della sua vita viene svelata in almeno due racconti: Lo zio Pino, il primo della raccolta Un picchetto, un’osteria uscita nel 2016 e La comunione di Pino, contenuto nel volume in oggetto, uscito nel 2020, in cui si legge: “Lo zio Pino era il capofamiglia, come allora si diceva, della famiglia dei fratelli della mamma. Era calzolaio come Amedeo e aveva ereditato il mestiere dal padre…Era mite e laborioso.

Dato che i genitori erano morti ancora abbastanza giovani, aveva affrontato sacrifici per tirare su meglio che poteva i fratelli più giovani, spesso levandosi letteralmente il pane dalla bocca. Non aveva figli ma voleva bene ai nipoti come un padre”. Mi fermo qui e dico: che uomo esce da un cameo come questo? Un lavoratore, un padre di famiglia anche se non è sposato, modesto e riservato, umbratile nella sola storia d’amore che di lui si ricorda.

Nell’altro racconto viene narrata con maggiore respiro la storia del suo breve fidanzamento: una sera Pino esce per “andare a morosacon la sua solita aria serena, torna però molto prima del solito e non sembra più lui. “Lo sguardo era perso. I lineamenti erano tirati. La schiena curva. Sembrava invecchiato di vent’anni”. Non dice nulla, anche se le sorelle preoccupate cercano di sapere cosa sia accaduto. Devono passare molti anni prima che racconti loro di quella sera, della morosa vista con i suoi occhi mentre baciava un altro.

Il testo conclude: ”Non toccò la porta a cui un attimo dopo avrebbe dovuto bussare. Né allora né mai più. Non ebbe mai più un’altra morosa e non si sposò mai. Il suo fu un trauma insuperabile. Ma la cosa più curiosa nello zio fu che quella delusione che ne cambiò la vita, nello stesso tempo in certo qual senso non lo mutò neppure di un nulla…

Era stato buono e continuò a esserlo per tutta la vita”. Mi fermo di nuovo per dare spazio alla stima che Pino mi suscita, verso il suo equilibrio straordinario. Ora leggo l’ultima frase: “Continuò a godere delle fortune altrui” e idealmente gli consegno la statuetta dell’Oscar alla magnanimità. Lo vedo salire sul palco e ricevere il prezioso premio, è un uomo “magro, piccolo e agile”: una sorta di legge del contrappasso lo ha dotato di una interna grandezza.

Nel racconto La comunione di Pino  l’autore lo ricorda tormentato da questioni metafisiche. L’episodio è ordinario ma mette di nuovo in luce una sensibilità non comune. Pino fa da testimone di nozze a una coppia di conoscenti che glielo hanno chiesto con calore e lui che “non era uomo da dire di no a chi gli chiedeva un favore” è  puntualmente all’altare accanto a loro.

“Quando giunse il momento della comunione, sia i due sposi che l’altro testimone la fecero. Rimaneva lui che non ebbe il coraggio di comportarsi in modo diverso dagli altri e si comunicò come loro. Solo che lui non si confessava da diversi anni e subito il pensiero di avere fatto una cosa moralmente illecita cominciò dapprima a fargli ombra e poi a tormentarlo. Lui era uomo scrupoloso in tutto”.

Occorrono molti interventi delle sorelle e dell’autore, allora adolescente, per alleviare la sua coscienza, e la pagina finale del testo indugia sulle ragioni di principio e sulla sensibilità con cui la famiglia riesce a dirimere i suoi scrupoli.

Anche l’autore è uomo che si interroga. Il titolo del libro contiene una affermazione – quando verrà – che è priva di soggetto: si tratta di Gesù e il tempo del suo arrivo tra gli uomini è un tempo del futuro. Quante domande si pongono i protagonisti dell’ultimo racconto, che dà il titolo alla raccolta. Una su tutte viene ripresa  dal vangelo di Luca: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” E ognuno prova a dare la propria risposta.

Torno a Cesare che prende i suoi nipoti da scuola e intanto osserva l’alba di un nuovo futuro nei bambini del mondo, quelli che sua madre, la Dirce, ha tanto amato e ancora amerebbe se fosse qui. Cesare ha fede nel futuro, ha fede.

Nelle righe che concludono il libro, prima della bella foto in cui è ritratto con la sua famiglia, risponde così a tutte le domande:” C’è chi ritiene che una sana filosofia possa aiutare a vivere anche avendo perduto le consolazioni e le speranze che vengono dalla religione. Per me è illusione. Se si perde la religione, per noi quella cristiana, si chiude il futuro per tanti uomini. E con il futuro si spegne il senso della vita. L’oggi ha un significato pieno se esiste anche il domani”.

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

La famiglia di Aldo e la vita in gioco

Aldo era il padre della mia amica Anna. Capitava a volte che mi fermassi a parlare con lei quando andavo a trovare mia mamma. Occasionalmente anche Aldo interveniva e parlava con noi. Anna era irritata, sembrava innervosita quando si intrometteva nei nostri discorsi. La vedevo scostante. Non gli rivolgeva mai la parola e nemmeno lo sguardo.
Quando eravamo bambine non era così. Sua madre lavorava tutto il giorno e, alternandosi alla nonna paterna, Aldo si occupava di Anna. Adorava quell’unica figlia frutto di un matrimonio in età non proprio giovanile. Quasi un miracolo.
Lei rideva, scherzava col padre. A volte Aldo ci portava alle giostre o al cinema.
Non capivo il cambiamento d’atteggiamento che negli anni Anna aveva avuto nei confronti del padre.
Quando Aldo morì non potei essere presente al funerale.
La chiamai la sera prima per farle le condoglianze.
Mi rispose in maniera inaspettata: non sentivo il suo dolore, solo la sua rabbia.
Non era arrabbiata con il destino che le aveva portato via il padre, però.
Era arrabbiata con Aldo.
Mi raccontò che suo padre era un giocatore d’azzardo.
Il pensiero di un giocatore è quello di vincere, vincere, vincere, ma ogni pensiero di vittoria è accompagnato dalla realtà di una sconfitta. Molto spesso il giocatore d’azzardo non riserva nessun aiuto economico alla famiglia.
Per fortuna la famiglia di Anna poteva contare sul reddito della madre che lei aveva visto lavorare anche 14 ore in un giorno.
Quando era bambina non lo sapeva del vizio del padre e a malapena giustificava i silenzi di sua madre.
Quei silenzi si concretizzavano in urla che sentiva quando stava per aprire la porta di casa. Al suo arrivo di nuovo teste chine e silenzi. Non capiva.
Poi un giorno lo scopri da sola. Un uomo di mezza età era apparso davanti al loro cancello. Aveva un atteggiamento minaccioso, cercava suo padre.
Lei aveva 14 anni. No, sua madre questa volta non poteva fare finta di niente.
La costrinse a dirle per quale motivo un uomo di quel genere, sciatto nei modi e nell’abbigliamento, con tutti i capelli in disordine e quasi sdentato, cercasse suo padre.
Non aveva nulla a che vedere con Aldo che era un bell’uomo, alto, con portamento, ordinato nei modi e nell’indossare i vestiti.
A sua madre non rimaneva altro che dirle la verità.
Quell’uomo disordinato era un creditore: suo padre giocava.
Anna cercò di affrontare l’argomento con il padre, piangendo, gridando che non poteva essere che lui gettasse tutti quei soldi al vento. Lui a sua volta l’accusò di essere egoista perché in fondo a lei non mancava nulla.
“La vita a volte è difficile” le diceva, ed era giusto avere uno svago.
Fino a circa 18 anni furono litigi continui con il padre.
Poi la rabbia lasciò posto alla speranza che il silenzio e l’evitabilità sarebbero state peggio per lui.
Non fu cosi.
Aldo pagava. Quando lavorava impegnava tutto il suo stipendio, poi, successivamente lo stipendio fu sostituito dalla pensione.
Quando sei un giocatore e paghi ti fanno credito. Ci sono persone che ti fanno credito. Se non paghi il giro s’interrompe. Anna aveva anche provato una volta a denunciare chi faceva credito a suo padre. Non era possibile.
Il credito di una persona, per la legge, poteva essere considerato l’atto di aiuto di un amico in caso di difficoltà.
Senza prove non c’era speranza. Di rivolgersi ai servizi che sono disponibili per la lotta contro le dipendenze Aldo non ne voleva assolutamente sapere. Non ne sentiva il bisogno. La moglie aveva scoperto che già da ragazzo giocava. I famigliari ne erano a conoscenza e avevano accolto di buon grado quella energica donna che inaspettatamente sarebbe entrata nella vita del loro figlio e fratello.
Aldo era fortunato. Non aveva mai avuto guai con la legge.
Un suo amico era persino stato in galera. Aveva commesso reati per procurarsi i soldi per il gioco.
Quando si può, se si può, ci si allontana da un giocatore d’azzardo anche se è un famigliare.
Quando non si può si vive l’inferno.
Anna conclude la telefonata dicendo che per fortuna suo padre non aveva fatto in tempo a imparare a giocare online. Era rimasto alle sale da gioco in presenza o ai gratta e vinci. Alla sua morte ne avevano trovati ovunque nelle sue cose personali.
Salutai Anna senza nemmeno ricordarmi che il motivo della telefonata era stato per giustificare la mia assenza al funerale del padre.
Uno dei miei film preferiti è “Il Principe delle Maree”.
Nella scena finale del film (che si può benissimo trovare su Youtube e io ogni tanto guardo e mi commuovo come sentissi quelle parole per la prima volta) a conclusione di un percorso di accettazione di un dramma famigliare, il protagonista pronuncia questa frase:
“A New York avevo imparato che dovevo amare mia madre e mio padre con tutta la loro imperfetta, vergognosa umanità e che in una famiglia non esistono crimini che non possano essere perdonati”.
Spero che Anna legga questo mio racconto e attraverso questa frase finale, questo spezzone di film, cominci ad elaborare il suo perdono.

Il cuore dove
…un racconto

Il cuore dov’è
Un racconto di Carlo Tassi

Primavera dell’Ottantadue.
Festa a casa di Marianna. Serata senza genitori e batticuore a mille.
Manca poco.
L’incognita dei baci. Baci immaginati, sognati, temuti, vietati.
Io sono pronto: polo bianca, jeans, scarpe da tennis e cinquemila lire in tasca.
Adrenalina, mal di pancia e un goccio di rhum di nascosto per carburare.

Esco.
Vado da Andrea. Alla fine della mia via giro l’angolo e sono sotto casa dei suoi. Saluto sua madre e salgo le scale. Lui mi accoglie in camera sua, si veste per la festa e mi parla di Beatrice. Mi racconta della sera prima, della sua prima volta. Mi mostra un succhiotto, mi dice tutto.

È il mio migliore amico, è giusto così.
Io l’invidio, non l’ho ancora fatto. Lui mi dice: «Senti, se non ti togli Roberta dalla testa, arriverai a vent’anni ancora vergine!», poi scoppia a ridere.

Ho con me i dischi che mi ha passato Marco. Sarà lui a stare in consolle, io gli darò una mano. A mixare e fare scalette è il più bravo di tutti, la banda si fida.
La banda siamo sempre noi: io, Marco, Andrea, Gepry, Sandro, Carion e tutti gli altri… I soliti insomma.
Poi ci sono le tipe della festa, ovvio.
Io sono cotto di Roberta, lo ammetto… Sì, lo so che a lei piace Marco, il fatto è che non riesco a non pensarla. E poi chissà, magari le è passata. Magari alla festa succederà qualcosa.
Nella testa solo fantasie e desideri. Agitazione, eccitazione, voglia d’esserci, di sognare ad occhi aperti.
Tra poco saremo al centro del mondo. Gira il mondo e gira la testa.

Penso a Roberta di continuo, è inevitabile. Forse stavolta s’accorgerà di me.
Occhi scuri come notte di tempesta, capelli lucenti come ossidiana, pallore lunare. Il viso, un ovale perfetto con una piccola cicatrice sulla fronte che fa impazzire. Il sorriso, un faro che illumina il mio mare di sogni.
Ma alla fine di tutto, il pensiero indugia sui suoi seni che mi bloccano il respiro, e scivola nel mistero celato sotto la gonna. Ultimo, sublime peccato mortale. Splendido arcano che mai riuscirò a scoprire… O forse sì.

Comincia la festa.
A pochi isolati di distanza c’è la casa di Marianna, una villetta indipendente in mezzo al verde di Villa Fulvia.
I genitori di Marianna sono fuori Ferrara. La taverna è diventata una discoteca affollata.
Io e Andrea ci diamo appuntamento là, lui prima passa a prendere Bea.
Questo sabato notte sarà completamente nostro. Siamo gli attori del nostro film preferito, siamo le star del tutto esaurito. La storia si ricorderà di noi, ne sono sicuro.

Sono arrivato.
Andrea e Beatrice si appartano in un angolo. Ruggy arriva con Elisa, stanno insieme da due mesi.
Carion mi saluta, è già mezzo ubriaco. Paola e Claudia ballano in coppia, come sempre.
Mi viene incontro Gepry. «Senti, Marco non s’è ancora visto. Ci pensi tu a mixare?» mi dice.
«Ok!» gli dico.
Vado alla consolle, un tavolino per picnic apparecchiato hi-tech. Accendo le luci strobo e inizio a metter su dischi: The Police, Simple Minds, The Cure, The Clash…
Mi guardo attorno, Roberta non è ancora arrivata.
Queen, Dire Straits, Duran Duran, The Stranglers, Culture Club…
Do you really want to hurt me… Marianna mi porta da bere. «Ciao Mary, hai visto Roberta?» chiedo.
«No, non l’ho vista» dice. Poi si mette a ballare reggae con Paola e Claudia.
Madness, The Specials, Devo, Talking Heads, The Jam, Soft Cell…
Where the heart is… Gepry mi passa accanto, occhi luccicanti e birra in mano. Lo blocco, «È arrivato Marco? Non voglio restare tutta la sera a metter dischi da solo!» gli dico.
«Dev’essere fuori in cortile… Dai, vallo a chiamare che qui ci penso io!»
«Ok grazie, vado e te lo porto!»

Esco fuori.
È buio e fa fresco. C’è una selva di vespe e motorini nello spiazzo del cortile. Mi guardo attorno, poi vedo due ombre in piedi dietro una siepe, mi avvicino.
Riconosco Marco, è di spalle e sta baciando una tipa.
Tossisco di circostanza, non voglio rovinare il momento. Marco si gira, mi vede e sorride imbarazzato. Dietro di lui c’è Roberta, abbassa lo sguardo e si sistema la camicetta.
«Ciao Carlo. Gepry m’ha detto che sei tu alla consolle. Stai andando alla grande!» dice lui.
«Beh grazie… Ti cercavo per dirti che vado a casa. Non mi sento per niente bene… devo aver mescolato troppa roba da bere», mi trema la voce, in realtà non ho bevuto quasi niente. «Mi ha sostituito Gepry, se vuoi dargli il cambio ti sta aspettando… ci sentiamo domani, ciao Marco!»

Distolgo lo sguardo e affretto il passo. Avrei mille cose da dire a Roberta. Parole che mi bruciano dentro, ma non ce la faccio. Non ho nessun diritto su di lei, lei non è la mia ragazza.
E Marco è mio amico…
M’allontano quasi di corsa, con la testa nel pallone.

Torno a casa.
Mi passo una mano sul petto. C’è un buco vuoto.
E il cuore dov’è?
È rimasto là fuori, alla festa. È caduto nell’erba… Tramortito, disseccato.

Che resti lì per un po’, per questa notte almeno, a bagnarsi di rugiada.

Where The Heart Is (Soft Cell, 1982)

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Un Po di benessere a Corte Stellata

Riceviamo e pubblichiamo

UN PO DI BENESSERE a Stellata di Bondeno a ridosso del Grande Fiume Po.

Domenica 8 maggio dalle 10.00 a.m. alle 6.30 p.m. presso il Casale “Corte Stellata”, in loc. Malcantone, luogo magico e tranquillo immerso nella natura, si terrà una giornata dedicata al Benessere Olistico, in cui 13 operatori metteranno la propria professionalità, energia e talento a disposizione dei visitatori che potranno scegliere fra numerosi trattamenti o consulenze individuali quali ad esempio la riflessologia facciale e plantare, i campi elettromagnetici pulsati, le costellazioni familiari, il Reiki o partecipare ad attività di gruppo come Yoga kundalini, Qi Gong, Bagno di Suoni con campane tibetane e canto armonico, riti di abbondanza, di purificazione della casa oppure assistere a seminari che introducono alla Medicina tradizionale Cinese fino ad arrivare ad un approccio al tema dei Registri Akashici e alla Astrologia.

Ci sarà chi illustrerà le tecniche di lavorazione dei grani antichi, la preparazione del kefir e vi sarà anche la possibilità di scegliere prodotti alimentari naturali e di qualità che sono fondamentali alla salute del nostro corpo.

Non mancheranno le pietre, i cristalli e altri oggetti artigianali realizzati con amore e creatività.

Il programma completo e i numeri telefonici sono a disposizione sulla pagina Facebook e Instagram di Corte Stellata.

In caso di pioggia l’Evento non avrà luogo.

Diabolik forever

Diabolik, il film dei Manetti Bros, girato in gran parte a Bologna (ma anche a Milano, Trieste e Courmayeur) e sostenuto dalla Regione Emilia-Romagna, ha ricevuto undici candidature alla recente sessantasettesima edizione del David di Donatello (miglior sceneggiatura non originale, miglior attrice protagonista, miglior attore non protagonista, miglior compositore, migliore canzone originale, migliore scenografia, migliori costumi, migliori trucco e acconciatura e migliori effetti visivi, “David giovani”.

Un unico riconoscimento durante la bella serata del 3 maggio 2022: David di Donatello per la Miglior canzone originale con il brano La profondità degli abissi, realizzato e cantato da Manuel Agnelli. Un risultato inatteso, ci aspettavamo di meglio, la pellicola ci era piaciuta, anche se molti non ne erano altrettanto entusiasti (critica divisa, gli amici ancor di più…). Ad aprile, Miriam Leone ha vinto il Premio Anna Magnani, per la sua Eva Kant, al Bari International Film Festival 2022, ma qui a Cinecittà (dove si è tenuta la cerimonia dei David), nulla.

Diabolik è l’adattamento cinematografico del celebre personaggio dei fumetti creato da Angela e Luciana Giussani, pubblicato per la prima volta nel 1962 (l’unico film tratto dal celebre fumetto era del 1967, di Mario Bava) e che oggi vanta oltre 850 episodi. La trama riprende liberamente quella di L’arresto di Diabolik (1963), il terzo albo della prima serie, dove compare per la prima volta il personaggio di Eva Kant, e di L’arresto di Diabolik – Il remake (2012).

A vestire i panni del ladro più affascinante e spietato di tutti i tempi, è oggi Luca Marinelli, mentre Miriam Leone interpreta Eva Kant. Il determinato ispettore Ginko è Valerio Mastandrea. Il tutto nella città immaginaria di Clerville, fine anni Sessanta. Il film segue le avventure del ladro dal volto misterioso che, a bordo della sua fiammante Jaguar E-type grigia, sfugge alla polizia, facendo innamorare (e restandone stregato a sua volta) la bellissima bionda Eva Kant, ricca ereditiera, vedova di Lord Antony Kant, giunta in città con il famoso e preziosissimo diamante rosa. Splendido quanto lei. Eva, che ricorda molto la Grace Kelly di Hitchcock, è la vera protagonista del film, fra eleganza, temperamento. colori, emozioni e scene spettacoli e rocambolesche. Lei che, amata da Giorgio Caron (Alessandro Roia), spietato (e ricattatore) viceministro della Giustizia, fa evadere Diabolik salvandolo dalla ghigliottina (prima entrata in scena da salvatrice) e che, con il binocolo guarda su una baia illuminata, quella di Ghenf (che, nella realtà è Trieste), capendo che è arrivato il momento di entrare (di nuovo) in azione e aiutare il suo uomo, non certo di star ferma e buona a fare “la mogliettina”.

Tanti gli ingredienti, anche pop, come lo sono i Manetti: i travestimenti, i tunnel nascosti, la moglie ignara (Serena Rossi), gli inseguimenti delle volanti della polizia, le scenografie e gli arredi da fumetto-cartolina, la suspense pura e vibrante, l’uso del codice Morse, il gusto della sfida e dell’adrenalina, tattica e strategia, combattimenti corpo a corpo, spietatezza e crudeltà, il silenzio di Clerville spezzato dall’allarme di una banca, l’intelligente e scaltro Ispettore Ginko che, aiutato dalla sua squadra, ha messo a punto un infallibile piano per intrappolare l’abile ladro. Riuscirà Diabolik a farla franca anche questa volta?

Diabolik, di Marco e Antonio Manetti, con Luca Marinelli, Miriam Leone, Valerio Mastandrea, Alessandro Roia, Claudia Gerini, Vanessa Scalera, Serena Rossi, Italia, 2021, 133 mn.

Parole a capo
Stefano Tassinari: Due poesie

Qualche tempo fa, aprendo un numero de “Il cerchio di gesso”, che ho nella mia biblioteca, ho ritrovato due numeri della rivista di poesia “La tartana degli influssi”. Una specie di piccola matrioska letteraria. “Il cerchio di gesso” fu una rivista fondata a Bologna da alcuni intellettuali bolognesi come Gianni Scalia e Roberto Roversi e, tra il giugno del 1977 e il novembre del 1979 uscirono sei fascicoli. “La tartana degli influssi”, curata da Maurizio Maldini e Roberto Roversi, invece, è stata una rivista di poesia formata da un foglio unico piegato più volte. I numeri usciti sono stati 13. Torniamo a noi. Nel numero quattro di “La tartana degli influssi”  ci sono due poesie di Stefano Tassinari, operatore culturale poliedrico (scrittore, musicista, cooperatore, giornalista) di primo piano sia a Ferrara che a Bologna. Riportiamo [qui] una testimonianza significativa uscita su questo giornale mentre [qui] la pagina di Wu Ming 1. Ringrazio di cuore Maurizio Maldini  che ha dato la sua autorizzazione alla pubblicazione di questi testi di Tassinari.
(Pier Luigi Guerrini)

 

“Le città non sono solo scambi di merci: sono scambi di gesti, parole, emozioni, memorie, tempo, saperi.”
(Italo Calvino)

Turno di guardia

Il cerchio di luce-pila
si allarga
e inghiotte l’aspetto rinsecchito
della testimonianza di estraneità.
Gli occhi sollevano con la fantasia
l’ogìva di cemento sulla testa,
arcaica costruzione dissolvente di macerie corporee.
La rètina accecata distingue con fastidio
i contorni di legno sopraggiunto;
le mie scorie di astio
escono dalla bocca senza rumore,
e quando il tacco delle sue certezze stolte
sfrigola la neve della coazione a ripetere,
allora l’acqua comincia a sciogliersi
scendendo in un imbuto d’aria,
i muri vanno in avarìa
contagiando le sfuse percezioni
di un collo che resiste al cappio.
I piedi affondano con parsimonia
spegnendo il fumo dell’umiliazione;
poi il corpo torna a riverire obbligato
e la mente non concede assoluzioni.

Cervellesente

Rete perforata da incantesimi senza storia
precede l’altopiano del mio altare:
“Fate largo all’effetto di tomba!”;
stivali lucidi,
bagno schiuma che ottura i pori.
Le ali del palazzo si schiudono,
contenuto umano in viaggio
baratta giardini con polvere pirica.
Intimismo senza variazioni
è sepolto da ozio puntato nel vuoto…
il risveglio non ha la forza di alzarsi!
Poi, il rapido susseguirsi di gesti
avverte che l’incandescenza
sta arrivando su questa terra
popolata dalle pressioni impazzite.
Allontanate la coperta d’insetti
arrotolata sul mio corpo inerme!
Sul reticolato consunto,
affollato di misure d’ordine,
si spegne la traccia di ogni mia ricerca.

Stefano Tassinari (Ferrara, 24 dicembre 1955 – Bentivoglio, 8 maggio 2012) è stato uno scrittore, musicista, drammaturgo e sceneggiatore italiano. Ha pubblicato diversi romanzi e suoi racconti sono presenti in una decina di antologie, pubblicate in Italia e in alcuni Paesi stranieri.
Autore di testi teatrali, letture sceniche e di programmi radiofonici per Rai Radio 3, è stato ideatore e direttore artistico di varie rassegne letterarie, tra le quali La parola immaginata e Ritagli di tempo (ITC Teatro di San Lazzaro di Savena). È stato autore di documentari televisivi girati, oltre che in Italia, in Nicaragua, Spagna, Francia, Portogallo ed ex Jugoslavia.
Ha curato la messa in scena di decine di opere letterarie di scrittori italiani e stranieri, collaborando con attori e registi (tra gli altri: Leo Gullotta, Marco Baliani, Ottavia Piccolo, Silvano Piccardi, Antonio Catania, Matteo Belli, Ivano Marescotti, Laura Curino e Renato Carpentieri), musicisti (tra gli altri: Paolo Fresu, Riccardo Tesi, Mauro Pagani, Yo Yo Mundi, Têtes de Bois, Casa del vento, Mario Arcari, Armando Corsi, Antonello Salis, Daniele Sepe, Patrizio Fariselli, Jimmy Villotti, Paolo Damiani e Gianluigi Trovesi) e fotografi (tra gli altri: Mario Dondero, Giovanni Giovannetti, Tano D’Amico, Raffaella Cavalieri, Luca Gavagna e Dario Berveglieri).
Vicepresidente dell’Associazione Scrittori Bologna, ha scritto di letteratura su quotidiani e riviste. È stato direttore e fondatore di Letteraria (rivista semestrale di letteratura sociale), legata dapprima ai nuovi Editori Riuniti e poi dal 2010 a Edizioni Alegre. È stato prima militante di Avanguardia operaia, poi segretario della federazione ferrarese di Democrazia Proletaria, infine (dopo una parentesi nei Verdi Arcobaleno), è stato militante del Partito della Rifondazione Comunista, fondatore e animatore del circolo PRC “Víctor Jara” di Bologna. È scomparso nel 2012 all’età di 56 anni dopo una lotta contro una grave malattia durata otto anni. (da Wikipedia)

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

LO STESSO GIORNO
2 maggio 1940: rinviati i giochi Olimpici, ma li svolgeranno i prigionieri di guerra

2 maggio 1940:
vengono rinviati i giochi Olimpici, li svolgeranno i prigionieri di guerra

Tutti quanti conoscono le Olimpiadi dell’era moderna: l’evento sportivo quadriennale che racchiude i migliori campioni in quasi tutte le discipline praticate nei cinque continenti mondiali.
La competizione mondiale come la conosciamo noi si svolge per la prima volta nel 1896 nell’antica patria delle Olimpiadi, ad  Atene. Il neonato Comitato Olimpico Internazionale (CIO) radunò 241 atleti da tutto il mondo, il più grande evento sportivo mai organizzato nella storia.
Da subito un successo planetario, le Olimpiadi hanno sempre sfidato le avversità di un mondo in continua competizione, cercando di superare le avversità che nella storia hanno coinvolto i paesi di tutto il mondo.
Contrariamente alle speranze del barone De Coubertin, colui che presentò per la prima volta l’organizzazione dei giochi, in tre distinte occasioni i giochi non furono organizzati. Nel 1916 per la prima volta nella storia, a causa della prima guerra mondiale, i giochi Olimpici furono annullati. La stessa cosa avvenne a causa della seconda guerra mondiale nel 1940 e nel 1944.

Un anno dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, nel settembre 1940, la XII edizione dei Giochi Olimpici sarebbe dovuta andare in scena nella capitale Giapponese, a Tokyo.
Il Giappone era flagellato ormai da tre anni dalla seconda guerra sino-giapponese, il maggior conflitto mai scoppiato tra la Repubblica Cinese e l’Impero Giapponese. Il CIO non volle però rinunciare alla speranza di organizzare il maxi evento sportivo, convinti che potesse riunire le nazioni in un momento di altissima tensione. Fu così che nell’agosto del ’39 la sede della competizione fu spostata ad Helsinki, in Finlandia. Passano pochi mesi e nel settembre del ’39 scoppia ufficialmente la seconda guerra mondiale, coinvolgendo il suolo europeo nel grande conflitto.
I giochi non vengono annullati subito e il CIO continua ad incontrarsi in sedi neutrali e con permessi speciali per passare da un confine all’altro.
La guerra divaga in tutta Europa, sempre più nazioni vengono coinvolte e sempre più uomini vengono mandati al fronte a combattere. Tra guerra e devastazione questo stesso giorno, il 2 maggio 1940, gli ultimi rappresentanti del CIO si incontrano per l’ultima volta e decidono di sospendere l’imminente edizione dei giochi. In stessa sede si decide la sospensione a tempo indeterminato delle attività del Comitato Olimpico Internazionale, il quale si riunirà di nuovo solo nel 1946.

Mentre durante la guerra l’importanza dei giochi Olimpici passò in secondo piano, qualcosa di straordinario stava per succede. A pochi mesi dall’annullamento ufficiale della XII edizione, si celebrò un’edizione senza precedenti nella storia: nell’agosto 1940 si tennero i Giochi dei prigionieri di guerra internazionali.
Alcuni km fuori Norimberga, allo Stalag XIII-a, un campo di prigionia per prigionieri di guerra, detenuti belgi, francesi, britannici, norvegesi e polacchi si sfidarono in competizioni sportive clandestine.
Uno straccio rotto con cinque cerchi ad acquerello colorati sopra al posto del vessillo e l’inno olimpico suonato dall’armonica a bocca di Teodor Niewiadomski, una delle menti che organizzarono l’evento. Le gare che erano un insieme di spot, coraggio e furbizia, si tennero di nascosto dalle guardie. I detenuti si sfidarono in discipline come il lancio della pietra, il salto della rana ( una delle punizioni fisiche trasformate in sport) o addirittura in partite di pallavolo giocate in un campo disegnato per terra con gli indumenti degli stessi detenuti. Un parroco norvegese procurò palloni e alcuni attrezzi per le gare. Ai vincitori coppe ricavate dalle gavette, medaglie di cartone o un gagliardetto circondato da filo spinato. L’importante però non era vincere quei premi costruiti grossolanamente, quanto più avere un momento di libertà durante la spietata prigionia. Fu decisivo fare qualcosa per tenere occupata la mente, sentirsi per pochi istanti vivi e liberi.
Nel ’44 in molti campi di prigionia si replicò questa dinamica, persino con militari e carcerieri a competere con i detenuti durante le attività.

Sebbene negli annuali i Giochi Olimpici del ’40 e ’44 risultano non disputati, il museo dello sport di Varsavia in occasione dei Giochi del 2012 a Londra scrisse:
“No, furono disputate [le olimpiadi], in maniera precaria e al di fuori dei canoni classici, ma pur sempre tenute”

Cover: September 1964: A Japanese policeman checking the signs to be used during the opening parade at the Olympic Games in Tokyo. (Photo by Douglas Miller/Keystone Features/Getty Images) – licenza wikinedia commons

PRESTO DI MATTINA
San Giorgio

San Giorgio fuori le mura

San Giorgio “fuori” le mura. Non solo come avverbio geografico, ovvero per indicare il luogo in cui è stata edificata la chiesa a lui dedicata. Ma anche come preposizione storica, che allude a un valoroso defensor civitatis venuto da lontano – e precisamente dalla Cappadocia in Turchia – per approdare alle nostre terre contese da numerosi e bellicosi contendenti.

Terre che per conciliarsi necessitavano di un santo super partes; un immigrato che, arrivando dall’esterno, potremmo definire un santo neo-comunitario. Oltretutto è «un santo di punta»: il coraggio è quello di un guerriero, ma al tempo stesso il suo essere straniero lo rende sensibile e attento alla mediazione e all’integrazione delle pluralità diversificate e conflittuali, capace di conciliare i conflitti e tessitore di ciò che accomuna le parti.

Per questo fu scelto come alleato di questa chiesa e della città nella difesa delle proprie autonomie e libertà, compagno di viaggio nel processo identitario e unitario, difensore e custode, a presidio del diritto e dell’identità locali in formazione. Era un forestiero, ma è diventato cittadino a pieno diritto – civis optimo iure – in favore dei diritti e della dignità di coloro che lo hanno accolto e prediletto.

Giorgio [Qui] non è un proto-vescovo da cui si è originata la nostra chiesa, né un martire della chiesa locale, attorno al quale si raccoglie un’identità spirituale ecclesiale cittadina, perché egli è antecedente la nascita dell’una e dell’altra.

San Giorgio è un santo che precede, precursore e antecedente la chiesa locale e forse anche la stessa diocesi di Voghenza, attestata come sede vescovile a partire dal 330, da cui è nata quella di Ferrara. A metà del VII secolo la sede episcopale fu trasferita a nord dapprima a Ferrariola (Forum Alieni situato nell’attuale borgo San Giorgio, sorto sulla biforcazione del Po; di origine romana, l’abitato gravitava intorno all’attuale chiesa ove rimasero i vescovi per circa cinque secoli), quindi dal XII secolo a Ferrara.

San Giorgio è stato per la città e la chiesa locale come un innesto su in un albero selvatico, l’inserimento di un una preziosa gemma. Così come nell’olivastro viene innestato il germoglio di un ulivo buono, siamo stati uniti a lui per ferita martirale: la stessa che unì a Cristo il martirio di san Giorgio, avvenuto fuori le mura di Nicomedia, un’antica città dell’Anatolia. Così inseriti l’uno nell’altro per ferita il selvatico è divenuto albero fruttifero, di molteplici frutti oleosi.

Chi ha colto in profondità il senso di questo patrocinio ecclesiale non meno che civico è stato mons. Antonio Samaritani, storico pomposiano quanto cittadino. È una storia innovativa quella che si legge ne La Chiesa di Ferrara nella storia della città e del territorio, innovativa soprattutto come taglio, in quanto protesa a tenere insieme la comunità religiosa e la comunità civile in un fruttuoso intreccio.

«Una lettura ardua – ha ricordato Ranieri Varese – che, senza rinnegare la ‘storia’ in senso tradizionale, vuole fare emergere le ‘storie’, attraverso il recupero della memoria di avvenimenti e pensieri disparati e maggiormente collegati alla quotidianità del vivere; la loro somma, più di atti e azioni eclatanti, costruisce e caratterizza quel passato che vogliamo mantenere e del quale vogliamo dare consapevolezza» (Boll. Eccl. 2004, 3).

Attraverso la ricerca storica e la narrazione di microstorie, Samaritani riscopre così la vocazione “sinecistica” della nostra gente (sunoikismós da oikos=casa e sun=con). Vocazione unificatrice di pluralità molteplici e minoranze diversificate, chiamate ad abitare insieme.

Per stile sinecistico si intende l’unificazione di entità politiche precedentemente indipendenti in una città od organizzazione statale; uno stile “al plurale”, fatto di “scambio” dunque, “consortile”, capace di mediare tra realtà divere, che si colloca “tra” e si pone “in mezzo”.

Città, la nostra, avvezza a “modularsi” e, tuttavia, non priva di inquietudine – sottolinea Samaritani – perché coinvolta in uno «sforzo di libertà da uomini e cose», ma proprio per questo, attenta alle diversità, capace così di riconoscere ciò che giova al più e meglio vivere.

Ma seguiamolo tra le pagine del testo Radici della spiritualità ferrarese, (in Boll. Eccl. 2 1993); la sua bibliografia conta 419 titoli tra libri, saggi e articoli, catalogata e digitalizzata presso il Cedoc SFR [Qui]

«San Giorgio, certissimamente, è un santo che antecede la nostra diocesi. Non è un santo da nuclei cittadini, ma da nuclei bellicosi, castrensi. È un santo dei bizantini (e noi eravamo territorio bizantino, imperiale) è un santo anche degli aggressori, dei Longobardi, di cui Ferrara ha sempre temuto l’attacco, nonostante il primo freno del 568, quando essi si stabiliscono nella confinazione sul Panaro.

Il santo patrono costituisce l’identità civica di un complesso demico: laddove non c’è un santo patrono, non ci sarebbe una coscienza religiosa specifica, una coscienza civica specifica, e questo noi lo dobbiamo mettere in conto.

Siamo una diocesi, in qualche modo, acefala nata come castrum, il castrum Ferrariae (la zona tuttora presente tra via Mayr, Ripagrande e via XX Settembre, la zona tra via Casotto, via Belfiore, via Salinguerra). Questo castrum non è una civitas, è soltanto un momento di difesa del territorio, quindi non ha raggruppato una entità di popolazione tale da sprigionare, come coscienza religiosa, un suo santo patrono.

Fra i tre castra di Ferrara, della zona nostra, abbiamo il castrum di Argenta, che ha una titolazione a S. Giorgio (castrum documentato nel 515 nel Liber Pontificalis di Agnello di Ravenna [Qui]). Nel nostro territorio abbiamo poi la pieve di S. Maria in Padovetere (sono presenti il battistero in tracciato di fondamento, e il tracciato della chiesa stessa).

Il castrum di Comacchio ha la titolazione ad un altro santo castrense: S. Cassiano [Qui], un santo che non connota una spiritualità locale, ma trasferita da altrove. È singolare questa capacità di scelta ferrarese: questa gente, che non ha le punte polemiche del mondo bizantino, non ha la bellicosità longobarda, assume un santo che sia di mediazione, di adattamento.

Il carattere ferrarese in tutti i campi, ieri, oggi e forse domani, e anche nella tipica spiritualità, ha un timbro di sintesi, non di avanguardia. S. Giorgio è un santo di punta: va bene per la dominazione bizantina, ma va bene anche per la dominazione longobarda e le vicende che hanno fatto la nascita e la morte di Voghenza, e in qualche modo anche la nascita e l’affermazione tormentata di Ferrara, sono, appunto, vicende di scontro tra Romani e Bizantini e Longobardi», (ivi, 347-348).

Ferrara: da presidio militare a città umanistica

Un tormentato e difficile passaggio fatto di mediazioni, di integrazioni, di composizioni e di aggiustamenti in vista di una sempre maggiore unità. Da castrum a civitas: la trasformazione cioè di una polarità in contrapposizione, militarmente difensiva/offensiva, ad una comunità mediatrice, conglobante, conciliatrice e innovativa. Una duplice polarità attestata – così mi sembra – anche nell’iconografica ferrarese del patrono san Giorgio.

Una prima polarità guerresca: il san Giorgio del nuovo e dell’antico duomo, all’esterno, nella lunetta del protiro il primo, sulla facciata della chiesa extra urbana il secondo. Entrambi a cavallo; uno con la spada sguainata nell’impeto dell’assalto, l’altro tutt’uno con l’impennata del suo cavallo, brandendo la lancia come un pugnale, incombente sopra il drago.

Di contro, all’interno di entrambe le cattedrali, un san Giorgio pacato, in riposo, quale segno della seconda polarità pacificante. Un san Giorgio tutto interiore, contemplativo, quello del dipinto nell’abside dell’antico duomo, opera di Maurilio Scannavini.

In quello nuovo sta invece il san Giorgio bronzeo, rinascimentale, di Domenico de Paris [Qui]; quasi senza sforzo, come appoggiato alla lancia, trafigge il drago; elegante, composto, con la mano sul fianco, con il volto disteso, perfino tranquillo. Anche il san Giorgio del Maestro delle storie di Elena è elegante, pienamente umanistico, attendista, ma vigile; tiene la spada nel fodero e vi si appoggia con delicata attenzione. Dosso Dossi [Qui] lo ritrae invece con la spada e la lancia in disarmo, il drago accucciato ai suoi piedi, quieto, la posa prospettica e l’armatura, nella sua compattezza dinamica; viene da pensare al motto di Manuzio: festina lente.

Genius loci

Proprio la designazione da parte della chiesa locale di «vivente titolare», di patrono vivo e attivo anche nella realtà di oggi, aggiunge un nuovo tassello a quel mosaico in fieri che si vuole designare con l’espressione genio cristiano del luogo: la qualifica della nostra come Chiesa georgiana.

Così Samaritani: «L’unitarietà e l’unicità del patrono “castrense” di Ferrara, san Giorgio in Ferrara legittima, l’espressione di sempre di Chiesa Georgiana per Ferrara». Due cattedrali in successione per lo stesso patrono; ma con la nuova cattedrale, gli verrà affiancato un altro martire ma vescovo, san Maurelio [Qui], per un’ulteriore e più precisa sottolineatura dell’identità ecclesiale:

«I fautori della grande riscossa dell’identità ferrarese, saranno vescovi come Landolfo (1099–1139), il “fondatore” della nuova cattedrale, e promotore di numerosi sinodi, equilibratore delle nuove forze religiose emergenti. Non sono più i monaci, ma le vicinie, le corporazioni, le parrocchie cittadine, che nascono proprio in questo periodo, a far riemergere una sigla unitaria, che è il patrono S. Maurelio, ultimo vescovo di Voghenza, proto-vescovo di Ferrara.

La diocesi di Ferrara, quando nasce ha bisogno di recepire la sua estrazione georgiana, e così si può dire: nasce ferrea, castrense, però capisce che è troppo generico il patrocinio di S. Giorgio; ha bisogno del patrocinio specifico, di un santo contrassegnato dalla lotta spirituale, dalla difesa di un’ortodossia, insidiata da Ravenna come rappresentante dell’Oriente e in qualche modo tipica di una zona nella quale fu più forte il senso della romanità che non in Roma stessa. Ma questo santo patrono ha una vita dura ed una affermazione difficile» (ivi, 348).

Così è pure la nostra quotidiana lotta spirituale, dura e difficile, transito pasquale pure dall’incredulità al credere, dal disperare alla speranza dal disamore ad una provvidenza di amore: sempre e ancora una ferita martiriale. Una condizione che mi ricorda quella dell’oleoso ulivo di Virgilio, una promessa certa di fecondità e di pace: da ferita di vomere un carico di frutti.

Non serve al contrario coltura per gli ulivi,
non richiedono il falcetto ricurvo
e la costanza dei rastrelli,
una volta che abbiano attecchito ai campi
e resistito ai venti;
la terra, se viene aperta dal dente della marra,
fornisce da sé sufficiente umidità,
se poi viene arata dal vomere,
un carico di frutti.
Coltiva per questo l’ulivo
che nella sua fecondità
è simbolo di pace.

In copertina: San Giorgio e il drago di Paolo Uccello (da: wikipedia.org)

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