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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Quel Sanremo che batte il covid

E’ calato il sipario su questo Festival di Sanremo, discutibile ma con ascolti molto importanti. Si dice che sia riuscito a spodestare il covid nella classifica delle ricerche fatte su Google, una ventata di spensieratezza ben attesa in questo lungo periodo di tensioni e paure.

Artisti di ogni generazione, uniti dal direttore artistico Amadeus, a rappresentare il passato (Morandi, Zanicchi, Ranieri…) e il futuro (Maneskin, Achille Lauro, Mahmood…).

Non sono mancati però pareri discordanti o contrari: “Sanremo, la fiera dei sermoni, delle sentenze, di tutte quelle cose che ci triturano ogni giorno. Il festival canoro dovrebbe presentare canzoni e non la passerella dei tuttologi bacchettatori”. E ancora: “Cantanti svestiti o con canotte. Chi si sbottona i pantaloni, chi si mette a dorso nudo. Sanremo era il festival della canzone e dell’eleganza”.

A proposito di queste critiche, che dire del cantante Achille Lauro, con la sua nudità impastrocchiata e mezza mano nei pantaloni? Non solo, vogliamo parlare anche della sua esibizione gratuitamente imbarazzante dell’auto battesimo con tanto di versamento di acqua sul capo, ritenuta blasfema dal Vescovo di Sanremo, che si ritiene indignato? “La penosa esibizione del primo cantante, ancora una volta ha deriso e profanato i segni sacri della fede cattolica evocando il Battesimo in un contesto insulso e degradante”, ha infatti commentato il Vescovo.

Moltissime invece le critiche positive sull’intervento di Checco Zalone, come ospite, che con la sua satira riassume questa società di grandi esibizionisti. Le nuove star di oggi non sono i cantanti ma i virologi. Graditissimo il suo video show “Pandemia che vai via”, che deride, ancora una volta, le viro-star.

Amadeus si è attorniato anche di co-conduttrici e, fra queste, merita una menzione speciale Lorena Cesarini, promessa del cinema italiano, con il suo monologo sul razzismo, interminabile, certo, ma reso necessario dagli insulti pubblicati sui social diretti al colore della sua pelle. “Sono nera e questo ha dato fastidio, ho scoperto che non sono italiana come gli altri”. L’attrice si emoziona, a fatica trattiene le lacrime e il suo monologo colpisce. L’intolleranza fa sì che la lingua sia più veloce del cervello e può fare molto male. L’ Italia sarebbe migliore se un’attrice di colore, sul palco di Sanremo, non fosse stata costretta a parlare di razzismo.

Passiamo ora ad un’altra co-conduttrice, Drusilla Foer, il cui vero nome è Gianluca Gori, frutto dell’immaginazione dello stesso autore, che veste abiti femminili e che prende in giro l’ipocrisia di tanti bacchettoni: “Sostituiamo la parola diversità con unicità”, esordisce sul palco. Ogni individuo vada rispettato nella sua integrità e nella sua interezza in quanto persona unica.
Naturalmente fioccano pareri discordanti su questo personaggio: “Non vedo l’originalità e neppure l’eccezionalità visto che abbiamo avuto per anni, ad esempio, in prima serata la Signora Coriandoli e altri come Platinette”. A questo punto è doveroso aggiungere il grande Paolo Poli, attore, regista teatrale e cantante. Poli recitava spessissimo en travesti, in altri tempi e contesti.

Nella serata finale del Festival, come da pronostico, trionfano i giovani Mahmood e Blanco con “Brividi”, una romantica poesia d’amore. Canzone d’amore, del donarsi e degli errori che si fanno quando ci si mette a nudo e come ci si può sentire poi. Libertà di amare chi si vuole senza pregiudizi o limitazioni. Bisogna ammettere che il loro affiatamento sul palco ha reso la canzone più bella ed emozionante.

Illustrazione di copertina a cura di Carlo Tassi

Michelangelo e Burri
la materia grezza come metafora della condizione umana

 

La consapevole scelta di Michelangelo di lasciare in alcune delle sue opere parte del marmo grezzo, serve a mostrare la sua eccezionale tecnica che gli consentiva di scolpire perfettamente una parte senza sbozzare il resto.
Questo modo di procedere prevede che l’autore abbia una precisissima immagine tridimensionale della statua che dovrà scolpire. Per Michelangelo del resto, la scultura preesiste al suo intervento essa è già idealmente imprigionata nel blocco di marmo il suo compito è liberarla. La vicinanza con la cultura e il pensiero neoplatonico, così diffusi nella corte medicea, è evidente; la statua diventa allora metafora dell’anima e il marmo grezzo del corpo che la imprigiona.

Prendiamo, ad esempio, la figura del giorno nelle tombe medicee.
Il marmo grezzo rappresenta la materia che imprigiona lo spirito, la dimensione terrena e corruttibile dell’uomo; ma in virtù del soggetto questo dualismo si trasferisce dal microcosmo umano al macrocosmo diventando sostanza stessa dell’esistente.
Nelle grandi figure delle tombe medicee eroiche nella loro nudità classica la contorsione dei corpi sembra rappresentare un vano sforzo di liberarsi dal marmo che le imprigiona.
Esse simboleggiano il fato di ogni uomo legato al corpo, al suo decadere nel tempo e al destino di morte.

Il “non finito” michelangiolesco rappresenta la condizione umana, Michelangelo stesso negli ultimi anni di vita, quando disse: ”Io sto ancora imparando”, doveva forse sperimentare questa condizione d’essere un’anima potente ancora affamata di vita e sapere imprigionata in un corpo che più non sapeva esprimerne, attraverso l’arte, la grandezza. A tal proposito ricordiamo che la fatica fisica era per lo scultore un tributo dovuto all’arte, quasi un sacrificio mistico che purificava l’anima: da qui derivava l’abitudine di lavorare da solo senza aiuti

Materia scabra, ruvida, quella di Michelangelo, come quella usata da Burri nella serie dei grandi sacchi.

La juta, materiale povero, umile, nella quotidianità era riservata agli usi più diversi, rozzi sacchi per il trasporto di merci, stracci ruvidi per pulire secchi e stoviglie, apprezzata forse per la resistenza, mai per il suo aspetto. Attraverso l’opera di Burri, la juta verrà esposta come parte di un’opera d’arte, raccogliendo lo straccio consunto, dall’uso ne fa un simbolo.

Questa scelta ci conferma due aspetti fondamentali dell’arte.
Primo, la bellezza non è unico scopo dell’arte, è quasi sempre mezzo e raramente fine dell’atto artistico, e gli artisti non esitano, come fa Burri, a sacrificare la piacevolezza estetica di fronte all’urgenza del contenuto.
Secondo, un’opera parla pur senza figure, come una musica senza parole.

La tela così sdrucita e consumata è una rappresentazione intensa della condizione umana, soprattutto se la vediamo attraverso gli occhi dell’autore: il medico Albero Burri aveva vissuto una difficile esperienza al fronte durante la seconda guerra mondiale.
La tela ruvida e organica diventa quindi di nuovo metafora del corpo straziato consunto ferito. Le cuciture che Burri pratica sulla iuta sono repliche delle cuciture che pratica sul corpo nella sua attività di medico. Gli strappi ricuciti sono testimoni dei drammi passati e rimangono segni indelebili dell’ostinata volontà dell’uomo di sopravvivere.

In queste opere l’autore inserisce come colore dominante il rosso a chiaro richiamo del sangue. Il corpo umano è rappresentato nella sua fragilità involucro pulsante ed effimero della vita. 

In Burri quindi, proprio come in Michelangelo, la materia grezza ricorda la transitorietà e la dolorosa mortalità del corpo, che nella loro poetica è il presupposto necessario a qualsiasi atto eroico. Le loro opere sembrano suggerire l’eroismo presente ogniqualvolta l’uomo si eleva aldilà dei suoi limiti, superandoli senza prescinderli.

In Copertina: Michelangelo, Pietà Rondanini, 1552-1564, Milano, Castello Sforzesco (particolare)

Le storie di Costanza /
Febbraio 1959 – Il carnevale di Casalrossano

L’8 Febbraio del 1959 era l’ultimo giorno di Carnevale. Mia madre con le sue tre amiche: Camilla, Clementina e Rita, andarono a festeggiare la giornata a Casalrossano, un paese a cinque chilometri da casa loro sul cui territorio c’era la sede del comune al quale apparteneva anche Cremantello, la stazione ferroviaria dalla quale partivano i treni per la città, l’ufficio postale, un teatro, diversi negozi e l’ostetrica.
Portavano cappotti, scarpe di pelle basse con le stringhe, calze di nilon appena immesse sul mercato e subito adottate in via definitiva, maglioni di lana fatti in casa con lana disfatta lavorata per la seconda volta, a righe dai colori sgargianti.

Andarono a Casalrossano in bicicletta, l’unico mezzo di trasporto che si potevano permettere oltre alle loro gambe. Le Biciclette avevano un passo lungo, un manubrio stabile e le selle comode di pelle imbottita. Molto facili da guidare e veloci. Tutte nere. Le bici colorate, costruite in serie, arrivarono dieci anni dopo. Furono sicuramente più economiche, ma meno durevoli e sicure, uno dei primi segnali del consumismo in avvicinamento.
La mamma ricorda di aver sentito dire che, nel lontano 1930, la nonna Adelina andava a Trescia in bicicletta per aiutare i suoi fratelli che aveva aperto là un negozio di stoffe, facendo ottanta chilometri in un giorno (quaranta per andare e quaranta per tornare) con quelle biciclette pre-moderne.
Lo zio Giovanni non andò al carnevale, era troppo piccolo, aveva 11 anni. Lagnò un po’, ma poi arrivò Toti (il suo cane) e l’attenzione si spostò sui giochi che si potevano fare sul tappeto, rotolandosi con il cucciolo.

Casalrossano aveva più abitanti ed era sicuramente più ricco di Cremantello, perché sul suo territorio c’erano le filande, aziende nelle quali si lavoravano i bozzoli dei bachi per produrre la seta. Le filande erano costruzioni di mattoni basse e lunghe con finestroni che arrivavano fino al soffitto.
La filanda Riccini era la più grande. Vi lavoravano all’incirca cento persone, quasi tutte donne. Gli uomini erano sei: il fuochista che aveva la funzione di mantenere l’acqua bollente per sgarzare i bachi, il custode della fabbrica, il proprietario, due uomini che si occupavano della logistica e il proprietario. Riccini non si vedeva mai, era un parlamentare e stava sempre a Roma.

L’ambiente di lavoro più favorevole e richiesto dalle giovani operaie, era la “sala” dove si facevano le matasse di seta, perché non si doveva mettere le mani nell’acqua bollente per sgarzare i bozzoli. Chi passava le giornate con le mani in acqua, si piagava la pelle ed era costretto a sopportare il bruciore continuando a sbollentare i bachi. L’unico rimedio era la pomata a base di glicerina che si applicava alla sera, una volta finito il lavoro.

La direttrice della “sala” era la prozia di mia madre e si chiamava Annunciata, detta Ciadin. Era piccola, minuta, aveva un viso ovale con occhi scuri. Indossava sempre un grembiule che veniva chiamato “il grembiule delle converse”, perché portato dalle novizie dei conventi prima di ricevere i voti perenni. Ciadin faceva parte dell’ordine di Sant’Angela Merici.  Le suore Angeline erano anche conosciute come “suore in casa” perché non vivevano in convento, ma prestavano la loro opera pastorale nella comunità di residenza. Era molto paziente e molto devota, pregava continuamente. Andava sempre in chiesa e vi trascinava anche sua nipote.

Fu così che mia madre a sette anni sapeva molte preghiere, novene, canti religiosi, era un’esperta di rosari, processioni e benedizioni di persone, oggetti, campi e nuvole.
Quell’8 Febbraio del 1959 Ciadin non partecipò al carnevale ma andò in chiesa a pregare San Girolamo, il santo del giorno.

Casalrosso aveva una grande piazza coi portici. La piazza dava sulla chiesa parrocchiale che era raggiungibile attraverso una scalinata.
Le case erano abitazioni di campagna su due o tre piani imbiancate e con i tetti spioventi.  Quasi tutte di proprietà. Sotto i portici della piazza c’erano tre negozi: il cappellaio, la merceria e il panettiere. La domenica mattina la piazza si riempiva di banchi del mercato e i commercianti dei paesi vicini andavano là per fare affari di vario genere. Nelle mattine di mercato, era presente un notaio che redigeva i contratti.

Nel 1930 in quella piazza era stato arrestato un fratello della nonna Adelina perché aveva guidato una sommossa, cappeggiando i mercanti al fine di ottenere una diminuzione del pagamento del pedaggio necessario al posizionamento dei banchi con le merci da vendere. Eravamo in pieno fascismo, lo zio fu portato in caserma e minacciato.
La nonna Adelina, in perfetto stile Giovanna d’Arco, andò a riprenderselo e, di fronte alla intraprendenza di quella donna, il gerarca fascista rilasciò il fratello.

Ventotto anni dopo, in quel freddo giorno di carnevale del 1958, mia madre e le sue amiche fecero colpo su un gruppo di ragazzi che stazionavano in quella stessa piazza.
Mia madre se ne ricorda due. Uno era piccolo, moro, gli occhi scuri, gli occhiali, chiacchierone. Anni dopo è diventato medico di base e ha aiutato molte persone. Il secondo si chiamava Rino era alto, magro, con i capelli castani ed è diventato un esperto di gestione del personale. Due lauree e due carriere decisamente brillanti per il tempo. Le ragazze di Cremantello avevano “pescato” bene.

C’erano maschere, carri sui cui erano posizionati personaggi di cartapesta, oppure persone vere travestite.  Ad un certo punto vennero accese delle girandole infuocate che zittirono la piazza. Brillarono per un po’ nel cielo come fiamme di fuoco scagliate in alto da un vento improvviso e poi si spensero nel grigio ghiacciato di quel cielo invernale.
Ma la cosa che mia madre e le sue amiche ricordano meglio furono i ragazzi con cui si fermarono a parlare. Diventarono loro amici e si frequentarono per molti anni. Mia madre ha visto Rino l’ultima volta dieci anni fa.

Questa è la vita e questo è ciò che fa la differenza. Le persone che incontri valgono più di mille girandole, di mille maschere, di cento cesti di frittelle e “panadì” (le castagnole di carnevale). Valgono più dell’oro, più di un bel cinema all’aperto e di un grande concerto. Le persone che diventano “amiche” valgono ancora di più. Sono le persone a cui ti puoi rivolgere quando hai bisogno, che avranno una parola di conforto in caso di accidenti negativi, che faranno il tifo per te quando dovrai dimostrare che sei quello che vale di più o, più semplicemente e molto più eticamente, il più onesto.

Anche in quel mese successero nel mondo degli eventi che segnarono la storia.
Il 2 Febbraio ci fu l’incidente di Passo Dyatlov. Quella notte nove escursionisti accampati nella parte settentrionale dei monti Urali morirono per cause rimaste sconosciute. Un altro grave lutto avvenne il giorno dopo. Il 3 Febbraio del 1959 persero la vita tre giovani musicisti: Richie Valens, Buddy Holly e J.P. “The Big Bopper” Richardson (per molti anni fu ricordato come “il giorno in cui morì la musica”). Il 13 Febbraio iniziò la commercializzazione di una bambola che rivoluzionò il mercato dei giocattoli per l’infanzia ed ebbe un successo clamoroso. Si chiamava, e si chiama tutt’ora, Barbie. Il 15 Febbraio in Italia prese il via un nuovo governo presieduto da Antonio Segni e il 19 Febbraio Cipro divenne indipendente con il trattato-anglo-greco-turco.

Ho chiesto a mia madre quando le fu regalata la prima Barbie e lei mi ha risposto: “Io non ho mai avuto una Barbie. Quando ero una ragazzina a Cremantello nessuno sapeva della sua esistenza. Da piccola avevo una sola bambola che si Chiamava Vilma, aveva il viso di Ceramica e il corpo di pezza. Era bellissima. Me l’aveva regalata una zia che abitava in città e faceva l’ostetrica (uno dei pochi lavori che permettevano a una donna di essere indipendente a quei tempi). Ho scoperto le barbie quando eravate piccole voi. Nel 1975 sono stata molto indecisa se comprarvele o no, perché mi sembravano molto brutte, ma poi ho visto che tutte le bambine le avevano e ve le ho prese. Vi sono piaciute subito!.

Già, le barbie, una trovata commerciale di grande portata e fortemente rivoluzionaria. Ma a Cremantello la rivoluzione delle barbie arrivò vent’anni dopo.

N.d.A. I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore sotto il titolo. 

DIARIO IN PUBBLICO
Dal vostro eroico spettatore di Sanremo

 

Dopo un robusto caffè, riemergo dall’ascolto delle canzoni sanremesi. Da ragazzini per esprimere la difficoltà di un compito si usava dire, sia fosse per un problema non risolto, o sia per una glossa filosofica non capita: “Mon dieu de la France che mal à la pance!”. In tal modo si può commentare l’incredibilità della kermesse sanremese, che nei miei più oscuri incubi mai avrei supposto o pensato.

Dagli amici più cari mi si fa osservare: “Ma chi te lo fa fare!”. Rispondo convintamente che, se non si sperimentano le scelte del sentire comune, è poi inutile sproloquiare, riportando in luce cause ed effetti della Rivoluzione francese, che parte dall’assalto dei bifolchi a Versailles e si conclude con Robespierre, Marat, Napoleone.

Forse, a differenza di allora manca, o si nasconde, il critico che potrebbe interpretare il tempo e le sue ragioni. Ma chissà se fra qualche decennio sapremo se oggi c’è un Montale o un Leopardi che abbiano saputo esserne all’altezza.

Cominciamo dalle mises dei cantanti, che dovrebbero indicare l’orientamento di una delle maggiori fonti dell’industria e creatività italiane: la moda. Sarà vero che i giovani preceduti dagli anziani vestiranno come i cantanti sanremesi? In nome dell’indifferenza del genere? Quella parola-concetto che sembra (forse) ribadire l’assoluta commistione tra maschile e femminile?

Si propongono allora gonne al posto di pantaloni, camicette trasparenti su petti villosi, tette al vento seppure cadenti, catene e pendagli accompagnati da gesti che vorrebbero sottolineare una sessualità inventata.

Il make-up esalta maschere tragiche lette sul viso e sul corpo che, come su un foglio di carta, raccontano l’inibizione e la trasgressione. Certo! La necessità del raccontare proibita dall’insipienza linguistica affida idee (lasciamo da parte gli ideali) ad un vocabolario visivo espresso dai tatuaggi e di scritte sulla pelle.

Che schifezza! Soprattutto sapendo che almeno il 70% degli italioti condivide questo modo d’esprimersi. Quindi diventa, di conseguenza, lo specchio del caos politico. Sento salire dentro di me l’orgoglio della diversità. E lo chiamino pure effetto radical chic, o superbia intellettuale.

L’ineffabile Amadeus [Qui] si circonda di co-conduttrici rese celebri da serie televisive di successo. Scelgo di vedere la performance di Maria Chiara Giannetta [Qui], intelligente interprete di serie televisive di grande successo.

La mia speranza che assieme a lei apparisse l’amatissimo peloso/a Linneo di Blanca [Qui] si è dimostrata vana, ma ben presto mi sono ricreduto, quando ha saputo recitare un dialogo in cui ogni parola e l’azione erano citazioni da titoli di canzoni. Brava!

E le canzoni? Non le so giudicare perché mi sfugge la misura del giudizio. Sono inni, preghiere, convinzioni sotto il velo dell’ambiguità? Anche oscenità, come attesta quell’orribile cantante che si battezza da solo.

In fondo, il trionfalismo del Festival serve per confermare non una aurea mediocritas, ma l’affossamento delle idee e ancor più radicalmente degli ideali, di cui la mia generazione, o meglio, parte di essa, si è nutrita.

A livello personale condivido entusiasticamente la nota del presidente Mattarella, che ricordava di essere stato presente all’ultima esibizione di Mina [Qui] alla Bussola. E spontaneo si alza il grido: “Anch’io c’ero!”

Eccome se c’ero!!!

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

L’uomo del fiume
…un racconto

L’uomo del fiume
Un racconto di Carlo Tassi
dedicato a Nick Drake

L’uomo del fiume guarda oltre la riva.
Nuvole sparse all’orizzonte.
Tre gabbiani intrecciano ricami nel basso cielo.
L’acqua scorre come il tempo,
dalle montagne al mare,
ininterrottamente, eternamente.
La vita insegue, come sempre,
da un passato di ricordi
a un futuro di speranze e delusioni.
In mezzo solo dolore e gioia:
la vita non s’accorge di vivere.

L’uomo del fiume arriva al mattino presto,
si siede sulla riva e s’accende una sigaretta.
Fuma lento, guarda la corrente e aspetta.
L’aria è leggera, come i pensieri, come il vento.
L’uomo del fiume è alla sua quinta sigaretta,
unghie e barba ingiallite.

È mezzogiorno.
Un magro bottino di pesce per la sera,
quattro bocconi di pane e formaggio,
e un bicchier di vino.
Poi di nuovo sulla riva
a guardare il tempo scorrergli davanti,
spumeggiante, indomabile, indifferente.

Il giorno è passato,
come altri mille e mille ancor prima.
Altri giorni passeranno
nell’attesa che qualcosa succeda.
Perché qualcosa dovrà succedere
prima o poi.

Ma l’unica certezza è nell’acqua
che scorre e non si ferma.
L’uomo del fiume allunga una mano,
la immerge nella corrente,
sente il tempo scorrergli tra le dita,
cerca d’afferrarlo ma gli sfugge.

L’uomo del fiume guarda oltre la riva.
Non può fermare il tempo.
Tra le ombre della sera osserva la corrente
che muove il mondo e decide.

Il fiume gli ha dato tanto
e gli ha tolto tutto:
una vita di attese,
le ceneri della moglie,
un figlio troppo acerbo,
adorato e scomparso
dentro un vortice al largo.

È mezzanotte.
Un passo oltre il pontile,
un tuffo nel buio,
un abbraccio gelido e avvolgente…

L’uomo del fiume ha catturato il tempo.

Nick Drake muore suicida nel 1974, all’età di ventisei anni…
River Man (Nick Drake, 1969)

Per visitare il sito di Carlo Tassi clicca [Qui]

PER CERTI VERSI
Il primo ricordo

IL PRIMO RICORDO

Il primo ricordo
Della mia vita
Curiosamente sta
In una foto
Grafia
Che
Oscilla
Permanente
In me
Nell’acquario
Di Piazza Maggiore

Col cappottino
Il berretto
Il sorriso
Le Topolino

Mi trastulla

Rincorro i piccioni
Con le briciole in mano
Come i ricordi
Che non afferro
Avevo due anni

Intorno il vuoto
Che frulla

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

Illustrazione di copertina a cura di Carlo Tassi

LINEA 5 – SANGUE E ACCIAIO
Una storia vera

 

Molto spesso i racconti sono frutto di immaginazione, sono pensieri collegati alla realtà, alle volte, spesso, non sono veri, vengono infarciti con dalla fantasia e romanzati ad arte dal narratore.
Questo no.

Thyssen Krupp è un gruppo industriale tedesco, con sede ad Assen. I più importanti insediamenti in Italia sono a Terni e a Torino.

Un giorno, intorno ad un tavolo ovale, il management del gigante della produzione dell’acciaio decide di disinvestire nello stabilimento di Torino. In particolare, ritiene la linea 5 non idonea a rimanere in Piemonte. Meglio trasferirla a Terni.

Le scelte delle multinazionali sono spesso discutibili, ma non ammettono discussioni.

E quindi si produce senza grossa attenzione alla manutenzione e alla pulizia. Le ditte in appalto vengono eliminate, tanto ancora pochi mesi e la linea verrà trasferita. Gli operai lo sanno, protestano, ma il ricatto del quindici del mese è troppo importante, il mutuo, l’affitto, la scuola dei ragazzi, la salute, le bollette, la spesa, non si pagano da sole.

Sono mesi che si toglie, sono mesi che i livelli minimi di sicurezza calano a vista d’occhio. Gli estintori vengono sostituiti tutti, meglio optare per un estinguente a CO2 rispetto ad uno a polvere, in caso di utilizzo sporcherà meno il prodotto. Abbiamo fretta, non possiamo perdere tempo a pulire i fogli di acciaio.

Sotto alle linee dei nastri trasportatori i bacini di contenimento traboccano di olio idraulico, ma chi doveva pensare allo svuotamento? Le ditte in appalto, che non ci sono più. Non ne abbiamo bisogno, fra qualche settimana smonteremo tutto, abbiamo fretta.

I pulsanti di arresto di emergenza dislocati ogni dieci metri di linea sono stati bypassati, se li spingi non funzionano. Ma perché, chi l’ha deciso? I capi. Non è che si può interrompere il flusso ogni tre minuti perché un coglione si diverte a spingere il fungo. Ma poi è vero che alcuni pulsanti, a livello progettuale sono stati debitamente installati ma non funzionano da sempre? Mah, così si dice.

Tutta quella carta ammassata in impianto andrebbe smaltita, è fonte di innesco, ed è pure unta. Ci penseranno le ditte in appalto. Ah già, gli abbiamo tolto i contratti di manutenzione; dai, manca poco.

Li avete visti i nastri trasportatori? Nessuno li registra più, carichi con i fogli di acciaio, sbarellano da tutte le parti, alle volte fanno attrito con le travi di sostegno e producono scintille. Qualche volta capita, non sempre, che si appiccano piccoli incendi. Ma i ragazzi sono bravi e con un paio di estintori a testa li spengono. Succede quasi tutte le notti, non è un pericolo, è tutto sotto controllo. Ci sono però delle volte che uno prende in mano un estintore e lo trova vuoto, la ditta che fa le ricariche non riesce a mantenere il ritmo di riempimento, occorre chiamarla, alle volte arriva dopo due giorni, insomma sono tanti gli estintori scarichi.

La notte tra il cinque e il sei di dicembre del 2007, in turno ci sono otto operai. Otto tute blu, otto storie diverse, otto colleghi, forse amici. E’ passata da poco la mezzanotte e la linea 5 ricottura e decapaggio è stata riavviata, come sempre scodinzola un po’, si vede che i tiranti dei nastri sono lenti, mannaggia a loro. Ecco che nel trasporto delle lamine di acciaio, lo strusciamento contro le colonne fa le solite scintille. Ecco che parte la rottura di coglioni, l’incendio. Provano a spegnerlo, qualche estintore non funziona, gli altri a CO2 hanno un basso potere estinguente. C’è fermento tra gli operai, uno corre in sala quadri, avverte gli altri. Nel PLC che controlla la linea non esiste un selettore a chiave che interrompa il flusso, anzi sì, ci sarebbe una sequenza alfanumerica che impostandola blocca i nastri, ma nessuno la conosce, è troppo lunga.

L’incendio aumenta, uno dei ragazzi è pronto con la manichetta, uno prova ad aggredire l’incendio da dietro con un estintore mezzo vuoto. I circuiti idraulici si surriscaldano, un tubo cede, comincia a sputare olio sopra la carta di protezione già in fiamme, i bacini di contenimento dell’olio prendono fuoco poi, in un attimo, l’inferno. Gli otto operai vengono investiti da lingue di fuoco che li risucchiano, li accartocciano.

  • Antonio
  • Roberto
  • Angelo
  • Bruno
  • Rocco
  • Rosario
  • Giuseppe

Antonio muore subito, Giuseppe dopo tre settimane, gli altri dopo ore o giorni.

Solo Antonio B. si salverà. Qualche ustione, prognosi di alcune settimane.

Gli altri? Carne offerta sull’altare del capitale. Nessuna sfortuna, nessun caso, nessuna sorte avversa.  E’ come sparare bendati al gioco dell’orso, nelle giostre di quaranta anni fa. Ad ogni colpo l’orso passa indenne, ma poi, continuando a sparare, sparare, sparare, l’animale a un certo punto alza le zampe e cade a terra.

La Corte d’Appello di Torino condanna i dirigenti del colosso industriale per omicidio colposo. Il primo grado non riconosce l’omicidio volontario. La freddezza dell’esecuzione rimane. Ci sarà un risarcimento. Ma un figlio, un padre, un marito, un fratello, un amico, non hanno prezzo. Il sangue su quell’acciaio non sarà mai lavato.

PRESTO DI MATTINA
Il girasole e il periscopio

«Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce»
(E. Montale, Tutte le poesie, Milano, 1996, 34).

Andando per questi versi di Montale [Qui] – come si va d’estate sotto il sole, cercando un poco d’ombra – pensavo e ripensavo cosa più potesse assomigliare a un periscopio. E ciò che balzò subito agli occhi del pensiero e fu da subito evidente al cuore era che assomigliava proprio a un girasole.

Come tutte le sementi sbuca fuori dal livello della terra, agitata o quieta che sia, piana o ondulata, ergendosi anche sopra tempestose cime. Ma il girasole fa di più. Come un periscopio gira seguendo il sole dall’oriente all’occidente, dal suo sorgere fino al suo tramonto, perché si faccia chiaro e trasparente là dove non si vede bene, nello sprofondo del sommerso, e traspaiano le cose come sono realmente, diradando le nebbie.

Proprio come fa il sole, periscopio che discende per far sorgere e ruotare tra «bionde trasparenze» il «giallino» periscopio/girasole sulla terra.

L’eliotropo − parola greca per dire girasole (elitropio) − oltre ad essere una pianta comune nei campi e tra le macerie e i terreni incolti, era anche uno strumento usato dai topografi per orientare i raggi del sole attraverso degli specchi in un determinato punto, per porre dei riferimenti, misurare distanze e operare mappature topografiche.

Ma non è così quando si scrive e quando si legge? Per gli scrittori e i loro lettori? Le parole, come tanti girasoli, riflettono e comunicano come specchi l’uno all’altra i significati nascosti in loro; significati che vengono alla luce nel riverbero della coscienza, fissando pensieri, fatti, storie, in narrazioni, punti e sentieri di una topografia esistenziale: terreni umani «bruciati dal salino».

Anche salendo in montagna, ad ogni passante di valico, si arriva ad una quota periscopica, dove è possibile osservare il cammino fatto e quello che ancora resta, senza escludere possibili nuove direzioni in un ambiente cangiante, mutato e ancora inesplorato.

Osare il cambiamento è lo stile a cui si è chiamati oggi e non solo nell’editoria, nell’informazione e nella comunicazione; ma nella vita.

È stato così anche per il quotidiano L’Osservatore Romano [Qui] fondato nel 1861: il giornale del papa divenuto un periscopio molto attento sui fatti internazionali, sulla cultura e la vita delle chiese nel mondo.

Ma lo stesso è accaduto per la più antica rivista italiana dei Gesuiti, La Civiltà Cattolica [Qui], nata nel 1850 da un gruppo di gesuiti desiderosi di parlare della “cultura viva”, vicina ai problemi del popolo e avversa alle divisioni tra credenti.

Nel 1975, Paolo VI definì la nascita della rivista un «gesto d’audacia» in un contesto «privo di cultura proporzionata ai bisogni e alle aspirazioni delle nuove generazioni». Dal 2013 è cambiato il font tipografico dal Bodoni al Cardo, che è un tipo di carattere open source, cioè libero, elegante e arioso, molto usato negli ambienti accademici e di ricerca per la sua flessibilità e l’ampio numero di segni propri delle altre lingue, un segnale di apertura alle culture.

Ma non solo. L’intento è stato quello «di condividere le proprie riflessioni non solo con il mondo cattolico, ma con ogni uomo e con ogni donna impegnati nel mondo e desiderosi di avere fonti di informazione affidabili capaci di far pensare e di far maturare il giudizio personale» (CivCat 2013, 3907, 6).

Si legge nelle Memorie della rivista del 1854 che «tutto in un certo modo è opera di tutti»: questo motto degli inizi si ripropone in forma nuova a livello editoriale oggi, che la chiesa con papa Francesco sta affrontando il passante di valico di uno stile e una prassi sinodali; un «giornalismo dunque che funzioni non solamente per trasmissione, ma anche per condivisione».

Fa riflettere la linea editoriale che papa Francesco ha voluto richiamare per un giornalismo che promuova l’informazione e la comunicazione culturale di una chiesa in uscita, che si faccia ponte e frontiera.

Sia nell’incontro del 2013 come in quello del 2017 con i giornalisti e gli scrittori della rivista, il papa sintetizzava il suo pensiero circa la loro missione in tre parole: dialogo, discernimento, frontiera: «Per favore, siate uomini di frontiera, con quella capacità che viene da Dio (cfr 2Cor 3,6). Ma non cadete nella tentazione di addomesticare le frontiere: si deve andare verso le frontiere e non portare le frontiere a casa per verniciarle un po’ e addomesticarle. Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, è urgente un coraggioso impegno per educare a una fede convinta e matura, capace di dare senso alla vita e di offrire risposte convincenti a quanti sono alla ricerca di Dio».

Nel secondo incontro del 2017 aggiungeva alle prime tre parole chiavi altre tre: “inquietudine”, “incompletezza”, “immaginazione”: «il vostro cuore ha conservato l’inquietudine della ricerca? Solo l’inquietudine dà pace al cuore di un gesuita. Senza inquietudine siamo sterili. Se volete abitare ponti e frontiere dovete avere una mente e un cuore inquieti…

Incompletezza. Dio è colui che è “sempre più grande” il Dio che ci sorprende sempre. Per questo dovete essere scrittori e giornalisti dal pensiero incompleto, cioè aperto e non chiuso e rigido. La vostra fede apra il vostro pensiero. Fatevi guidare dallo spirito profetico del Vangelo per avere una visione originale, vitale, dinamica, non ovvia.

E questo specialmente oggi in un mondo così complesso e pieno di sfide, in cui sembra trionfare la “cultura del naufragio” – nutrita di messianismo profano, di mediocrità relativista, di sospetto e di rigidità – e la “cultura del cassonetto”, dove ogni cosa che non funziona come si vorrebbe o che si considera ormai inutile si butta via…

Immaginazione. Questo nella Chiesa e nel mondo è il tempo del discernimento. Il discernimento si realizza sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che accadono, il sentire della gente, che conosce la via umile della cocciutaggine quotidiana, e specialmente dei poveri.

La sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita. Ma bisogna penetrare l’ambiguità, bisogna entrarci, come ha fatto il Signore Gesù, assumendo la nostra carne. Il pensiero rigido non è divino, perché Gesù ha assunto la nostra carne, che non è rigida se non nel momento della morte.

Per questo mi piace tanto la poesia e, quando mi è possibile, continuo a leggerla. La poesia è piena di metafore. Comprendere le metafore aiuta a rendere il pensiero agile, intuitivo, flessibile, acuto. Chi ha immaginazione non si irrigidisce, ha il senso dell’umorismo, gode sempre della dolcezza, della misericordia e della libertà interiore. È in grado di spalancare visioni ampie anche in spazi ristretti».

E riferendosi al pittore fiammingo Hans Memling [Qui], che rappresentava la gente con il miracolo della delicatezza del tratto, e ai versi di Baudelaire [Qui] su Rubens “la vie afflue et s’agite sans cesse, / Comme l’air dans le ciel et la mer dans la mer”, così il Papa concludeva la sua riflessione:

«’Sì la vita è fluida e si agita senza sosta come si agita l’aria in cielo e il mare nel mare’. Il pensiero della Chiesa deve recuperare genialità e capire sempre meglio come l’uomo si comprende oggi per sviluppare e approfondire il proprio insegnamento. E questa genialità aiuta a capire che la vita non è un quadro in bianco e nero. È un quadro a colori. Alcuni chiari e altri scuri, alcuni tenui e altri vivaci. Ma comunque prevalgono le sfumature. Ed è questo lo spazio del discernimento, lo spazio in cui lo Spirito agita il cielo come l’aria e il mare come l’acqua».

Nel 2019 altre due parole papa Francesco aveva rivolto ai giornalisti della rivista Aggiornamenti sociali  [Qui] del Centro di Studi sociali di Milano nata nel 1950, mensile di approfondimento e analisi sulle tematiche sociali, politiche, ecclesiali italiane e internazionali, composta da gesuiti e laici: l’ascolto della realtà e il dialogo.

«Bisogna ascoltare la realtà così com’è, mai coprirla, bisogna tracciare piccoli sentieri per andare avanti, avendo come riferimento il Vangelo. Mai si può dare un orientamento, una strada, un suggerimento senza l’ascolto. L’ascolto è proprio l’atteggiamento fondamentale di ogni persona che vuole fare qualcosa per gli altri. Ascoltare le situazioni, ascoltare i problemi, apertamente, senza pregiudizi.

Secondo passo. Ascoltare e dialogare, non imporre strade di sviluppo, o di soluzione ai problemi. Se io devo ascoltare, devo accettare la realtà come è, per vedere quale dev’essere la mia risposta. Fare un dialogo con quella realtà partendo dai valori del Vangelo, dalle cose che Gesù ci ha insegnato, senza imporle dogmaticamente, ma con il dialogo e il discernimento.

Mai coprire la realtà. Dire sempre: “E’ così”. Mai coprirla con quella rassegnazione del “vedremo…, forse dopo cambierà…”. Mai coprirla: la realtà così com’è. Poi, cercare di capirla nella sua autonomia interpretativa, perché anche la realtà ha un modo di interpretare sé stessa».

L’invito ad essere «buoni lettori e buoni scrittori» ci viene invece da Vladimir Nabokov [Qui], che introduce con un saggio che porta questo sottotitolo le sue Lezioni di letteratura (ebook, Milano 1982, 39). «Uso il termine lettore in un’accezione molto libera. Strano a dirsi, non è possibile leggere un libro, si può soltanto rileggerlo. Un buon lettore, un grande lettore, un lettore attivo e creativo è un “rilettore”. Nel leggere un libro, dobbiamo invece avere il tempo di farne la conoscenza», (ivi).

Nakobov narra poi un aneddoto accadutogli in occasione di un giro di conferenze in un college di provincia, dove propose un quiz per verificare tra gli studenti che l’ascoltavano quali dovevano essere i requisiti del buon lettore e anche di chi scrive.

Essi dovevano scegliere tra dieci definizioni di lettore quattro possibili risposte; queste le definizioni: «Un buon lettore dovrebbe: 1. appartenere a un club del libro; 2. identificarsi con l’eroe o con l’eroina; 3. concentrarsi sull’aspetto socioeconomico; 4. preferire una storia con azioni e dialoghi a una che non ne ha; 5. aver visto il film tratto dal libro; 6. essere un autore in erba; 7. avere immaginazione; 8. avere memoria; 9. avere un dizionario; 10. avere un certo senso artistico».

Le risposte degli studenti in quell’occasione si orientarono o all’identificazione emotiva, oppure all’azione e all’aspetto socioeconomico o storico. Alla fine le risposte secondo Nakobov per individuare il buon lettore erano quelle di chi aveva segnato le crocette su «immaginazione, memoria, un dizionario e un certo senso artistico, quel senso che mi propongo – scriveva – di sviluppare in me e negli altri ogni volta che mi si presenta l’occasione».

C’è allora da augurare al quotidiano dal nome nuovo quello che il poeta Valerio Magrelli [Qui] diceva del suo quaderno:

«Questo quaderno è il mio scudo,
trincea, periscopio, feritoia.
Guardo da una stanza buia nella luce»
(Cavie. Poesie, Torino 2018, 42).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Emily, la Natura ovunque

Le abbiamo scelte per voi, alcune poesie dedicate alla Natura della poeta statunitense Emily Dickinson (1830-1886), attenta osservatrice degli elementi naturali. Per lei, considerata fra i più grandi poeti degli ultimi due secoli, la Natura è ciò che conosciamo ma che spesso non sappiamo esprimere. La Natura è ovunque, continua fonte ispiratrice di ogni battito, di ogni respiro, desiderio e sentimento. Colline, meriggi e scoiattoli.

Emily ha saputo cogliere il significato della vita in ogni fremito del creato, in ogni suon battito, respiro e sospiro, ed è stata definita, per questo, una scienziata della Natura. Eccovi allora qualche scorcio, in suo omaggio, pieni di eterna e infinita gratitudine.

 

Consigli di lettura

Emily Dickinson-Natura, la più dolce delle madri (a cura di Silvia Raffo), 2021, Elliot, 176 p.

Emily Dickinson, Centoquattro poesie, Einaudi, 2020, 228 p.

Marta McDowell, Emily Dickinson e i suoi giardini. Le piante e i luoghi che hanno ispirato l’iconica poetessa, L’ippocampo, 2021, 268 p.

 

 

 

Un quotidiano come un “periscopio”
Una impresa editoriale collettiva

 

Poco meno di un mese fa anticipavo a tutti i nostri lettori una svolta imminente, un grande cambiamento. [Qui]

Già da ora, in cima al “vecchio” ferraraitalia, vedete periscopio, il nuovo nome del giornale. Da domani e nelle prossime settimane vedrete anche un po’ di confusione: per rimanere online, i nostri “lavori in corso” saranno alla luce del sole, visibili da tutti i lettori: piccoli e grandi cambiamenti, prove di colore, esperimenti e nuove idee grafiche…

Costruire il nuovo senza tradire il vecchio, cambiare nome e forma, è un lavoro delicato e complicato. Vi chiediamo perciò un po’ di pazienza. Solo a marzo (vi faremo sapere il giorno e l’ora) vedrete il giornale completamente rinnovato. Come sarà alla fine periscopio? Siamo abbastanza sicuri che piacerà ai lettori: ai tanti di ferraraitalia e ai tanti e nuovi che si aggiungeranno.

Non per questo buttiamo via le cose che abbiamo imparato e scritto in questi anni. Non perdiamo il contatto con la nostra Ferrara: per molti mesi nella home di periscopio continuerà a vivere il nome ferraraitalia e i contenuti locali continueranno a essere implementati. Il grande archivio di articoli pubblicati nel corso degli anni sarà completamente consultabile sul nuovo quotidiano.

In redazione abbiamo valutato tanti nomi prima di scegliere la testata “periscopio”: un occhio che cerca di guardare oltre al conformismo e alla confusione mediatica in cui tutti siamo immersi. Con l’intenzione di diventare uno spazio ancora più visibile, una voce più forte e diffusa. Una proposta informativa sempre più qualificata, alternativa ai media mainstream e alla folla indistinta dei social media. Un giornale libero, senza padrini e padroni, di proprietà dei suoi redattori, collaboratori, lettori, sostenitori.

Periscopio è anche una scommessa.
Per vincerla occorre passare dal semplice lavoro volontario (ma ancora tanto ce ne vorrà) ad una impresa editoriale vera e propria, piccola ma con una base solida, anche economicamente. Non pensiamo a impresa di uno o di pochi, ma un’impresa collettiva.

Nei prossimi giorni i nostri collaboratori, i lettori più fedeli, le amiche e gli amici, riceveranno una mail importante*
Contiene una proposta concreta per diventare insieme a noi protagonisti di questa nuova avventura.
Versando una quota (anche modesta) e diventando comproprietari di periscopio.
Oppure partecipando all’impresa come lettori sostenitori.

Intanto periscopio ha incominciato a scrutare… oltre il filo dell’orizzonte, o almeno un po’ più in là dal nostro naso. Buona navigazione a tutti.

Chi non ha ricevuto la mail e/o volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può farne richiesta scrivendo a: direttore@ferraraitalia.it

Celati forever (12):
Dialogo sulla fantasia

 

(Dialogo tenuto nel maggio 2005 all’Università di Trento e rivisto dagli autori nel maggio 2006)

Massimo Rizzante
Sembrerebbe che i narratori moderni non capiscano più cosa significhi raccontare l’altro mondo, quasi che fossero permanentemente ospedalizzati in questo mondo e nella cosiddetta ‘realtà’, di cui il loro linguaggio deve essere al servizio. Perciò quasi tutti i romanzi in circolazione debbono mettere avanti un progetto di dire qualcosa di drammatico su questo mondo, sulla ‘realtà’, per poter essere presi seriamente”. Quando ho cominciato a leggere il tuo ultimo libro, Fata morgana (2005), sorta di resoconto etnografico su una popolazione mai esistita, mi è subito venuto in mente Gulliver, e tutta una tradizione narrativa semiseria di viaggi fantastici e luoghi introvabili che probabilmente risale agli inverosimili racconti di Luciano di Samosata. Poi ho scovato nei miei appunti la citazione sugli scrittori “ospedalizzati” nella realtà. È stralciata dalla tua Prefazione a La miseria in bocca di Flann O’Brien, libro uscito nel 1987. Anche la vena satirica di O’Brien è profondamente fantastica: O’Brien non si fa nessuno scrupolo, alla stregua di Swift, a trasformare l’ospedale della realtà in un asilo per pazzi. Lilliput, il mondo sottomarino delle antiche fiabe gaeliche, o la tua valle dei Gamuna sono luoghi inverosimili, eppure ci raccontano qualcosa di ‘vero’. È da qui che dobbiamo partire?

Gianni Celati
La citazione dall’introduzione a Flann O’Brien, dove dico che i moderni sono come ospedalizzati nella cosiddetta “realtà”, è un po’ violenta come apertura di discorso. Partiamo da cose più elementari. Negli ultimi tempi mi è capitato di vedere alcuni film che sono considerati di fantasia, come Il signore degli anelli e Harry Potter. In modo inconfondibilmente anglosassone, la fantasia qui è data come un regno del torbido, del mostruoso, anche dello sporco e del polveroso. Il pragmatico mondo anglosassone vede la fantasia come una zona torbida della psiche umana, da dominare con la razionalità. Questo compito ora è affidato all’onnipotenza della tecnologia, con i suoi effetti elettronici che possono dominare la psiche di tutti. La separazione tra fantasia e realtà è ricondotta a quella tra mondo soggettivo e mondo oggettivo; e questa separazione sottolinea che le fantasie “non sono vere” perché esulano dalle “verità scientifiche”. Bisogna ripartire di qui, mettendo in dubbio che esista questa separazione netta tra il mondo immaginario o fantasticato e quello che viene ufficialmente dato come mondo reale quotidiano.

Massimo Rizzante
La conoscenza fantastica ieri come oggi non è mai stata presa sul serio dagli uomini, malati e “ospedalizzati” nella conoscenza cosiddetta razionale. Che cosa si deve fare, per liberarsi da un’idea di fantasia intesa come “irrealtà”, a cui credo faccia da pendant un’idea di realtà concepita secondo i canoni intimidatori della vulgata scientifica?

Gianni Celati
Il fatto è che noi ci serviamo della fantasia tutti i momenti per interpretare le cose, cercando di capire quello che è fuori dalla nostra portata; e tutto il nostro sistema emotivo dipende da come immaginiamo ciò che non è sotto i nostri occhi. Quando abbiamo paura, quando siamo a disagio, quando siamo gelosi, quando facciamo progetti, entra in gioco l’atto di fantasticare. Quando siamo innamorati non facciamo che ripassarci il film delle fantasie sull’essere amato, e anche quando riflettiamo cerchiamo aiuto nell’immaginazione o nella fantasticazione. Il fantasticare è così assiduo che lo diamo per scontato. Però se si inceppa abbiamo un campanello d’allarme, che è la noia: la noia è una specie di una nebbia mentale che blocca gli slanci immaginativi, e rende fastidioso anche il flusso di stimoli che viene dai sensi e dal mondo esterno.

Massimo Rizzante
Infatti l’immaginazione – che qui andrebbe tradotta con la parola “fantasia” – secondo Aristotele ha la funzione di regolare il flusso che viene dai sensi e che va verso l’intellezione

Gianni Celati
Sì. In un testo tra i massimi della storia della filosofia, il De anima, Aristotele cerca di spiegarsi come succede che portiamo in mente le immagini, ossia perché abbiamo in noi questa produzione immaginativa. Aristotele chiama in due modi le immagini che sorgono della mente: phantasma e phantasia, entrambi dal verbo phaino, “mostrare”. Sono figurazioni che “si mostrano” in noi come un richiamo a percezioni avute o possibili. Queste immagini nella mente, dice Aristotele, sono una combinazione di ciò che abbiamo percepito attraverso i sensi e ciò che opiniamo con l’intelletto. E nel suo trattato sulla memoria dice che sono oggetti di memoria quelli che cadono sotto l’immaginazione; dunque immaginazione e memoria non sono separabili: ricordare vuol dire in qualche modo immaginare la cosa ricordata, ripensarla fantasticamente. È anche l‘idea di Giambattista Vico, il quale diceva che “la memoria è l’istesso della fantasia”.

Massimo Rizzante
Volevo, se mi permetti, riportare un passo di Aristotele, tratto dall’opera da te già citata, Della memoria e della reminiscenza – fra l’altro riportato da Maria Corti nel suo studio sull’inventio dantesca. Eccolo: “La memoria, anche degli intelleggibili, non è senza immagine… È chiaro dunque a quale parte dell’anima appartiene la memoria, cioè a quella cui appartiene anche l’immaginazione: sono oggetti di memoria per sé quelli che cadono sotto l’immaginazione, per accidente, poi, quelli che non sono separati dall’immaginazione”.

Gianni Celati
I greci non avevano una parola per dire “conoscenza”, ma ne avevano una per dire “intellezione”: noèsis – il processo del pensiero nella comprensione di qualcosa. La noesiè per Aristotele un modo di percezione, dunque bisogna pensare l’intelletto come una specie di lente. Si possono usare altre immagini per dire questo processo, come quella della lampadina accesa nella mente, usata nei fumetti. Emanuele Coccia usa l’idea della trasparenza delle immagini, come la soglia attraverso cui percepiamo qualcosa nel processo di intellezione (La trasparenza delle immagini, Bruno Mondatori Editore, 2005). Insomma: le immagini sono uno stato ricettivo a cui si apriamo, e nei termini di Aristotele uno stato ricettivo è una passione (come l’opposto dell’azione). Dunque tutto il sentire dei sensi o percezione corrisponde a modi di passione. Non è nella forma bruta dello scambio di informazioni che capiamo qualcosa del mondo esterno, ma nel processo con cui ci proiettiamo verso ciò che si configura come un’esperienza e una passione.

Massimo Rizzante
Potresti portare un esempio di questo uso della fantasia intimamente legato alla memoria?

Gianni Celati
L’esempio più importante è Giambattista Vico. La rivoluzione portata da Vico sta nel concepire l’immaginazione e la fantasia non come produzioni soggettive, ma come una specie di filo che collega gli uomini. In altre parole: noi possiamo capire fantasticazioni e mitologie molto lontane da noi, perché anche la nostra forma mentis è disposta a produrre fantasticazioni e mitologie simili, cominciando da quando eravamo bambini. Solo così si possono rimemorare i processi che hanno dato luogo a costruzioni mitologiche e antropologiche, secondo stadi della vita collettiva; e in questo senso la fantasia non è qualcosa di soggettivo, ma una vasta memoria collettiva che ci collega al passato e anche a ciò che è lontano da noi, fino ai limiti dell’umano. La scienza che si occupa di queste cose, Vico la chiama “sapienza poetica”, come scienza delle forme fantastiche con cui gli uomini si intendono in quanto appartenenti alla specie umana. Questo è il succo del pensiero di Vico. Ed è il presupposto di ogni antropologia, che in questo senso è una memoria dove i cosiddetti primitivi non stanno più in una opposizione categorica rispetto a noi.

Massimo Rizzante
Il tuo discorso è chiaro. Fin quando ha avuto un forte legame con la memoria, la fantasia ha partecipato al processo cognitivo dell’uomo (penso a Montaigne, ad esempio).

Gianni Celati
La memoria non può mai essere pensata come neutra informazione che si accumula alla maniera del denaro. L’esempio decisivo è quello del nazismo, su cui abbiamo un’enorme informazione, che però lo presenta quasi sempre come un fenomeno unico, mostruoso e incomprensibile. Invece il nazismo è strettamente intricato con l’umano, con tendenze che pervadono tutta la vita comune, come ci ha insegnato Primo Levi. Con un po’ d’immaginazione si può intravedere come molti di questi uomini che stanno sempre a galla, che accettano i peggiori modi di trivializzare la vita per attenersi alle norme vigenti, se governasse il nazismo sarebbero votati al quella stessa burocratica ferocia. Uno dei principali organizzatori dei campi di sterminio, Eichmann, era un tecnocrate che credeva ai calcoli ben fatti, all’obbedienza ai superiori, e credeva ciecamente nella propria buona fede. Come ha detto Hannan Arendt, era un uomo senza immaginazione, senza fantasia.

Massimo Rizzante
Questo mi sembra il punto essenziale: possiamo ridare valore alla nozione di fantasia se ridiamo alla fantasia la sua funzione perduta di regolatrice della conoscenza umana, di scrigno di forme ricevute attraverso i cinque sensi, di mediatrice tra corporeo e incorporeo.

Gianni Celati
Ma nel modo in cui viene usata oggi, la parola “conoscenza” dà l’idea d’un sapere composto di informazioni che si capitalizzano per far carriera in qualche settore. Questa è la concezione di tutte le forme di expertise o professionalità attuali. E sempre di più trovi il romanziere che va in un archivio a raccogliere informazioni per scrivere il suo romanzo, dove la cosa studiata diventa un mistero stupidissimo per tenere il lettore sulla corda. A parte ciò, quel romanziere non ha mai tempo di studiare niente, perché deve scrivere la sue 500 parole al giorno e pubblicare un libro all’anno. Fino a Gadda, Calvino, Landolfi e Manganelli, scrivere e studiare erano la stessa cosa: si scrive perché si studia; perché studiando la testa si riempie di immagini che smuovono il pensiero; e perché il pensiero deve essere fatto lavorare altrimenti si fossilizza nella chiacchiera.

Massimo Rizzante
Una malattia più recente è quella che Milan Kundera ha definito nel suo ultimo saggio, Il sipario, come “morale dell’archivio”: un assurdo proliferare di informazioni e saperi, un’accumulazione senza freni di libri nel tentativo di abbracciare un Tutto, di cui – paradosso nel paradosso – da almeno un secolo, si predica l’inesistenza. Il risultato, al di là di un facile idillio con un falso concetto di eguaglianza, è che più concepiamo la memoria come archivio, più la nostra capacità figurativa, rammemorativa e reminiscente, viene meno.

Gianni Celati
Bene. Cambiamo argomento.

Massimo Rizzante
C’è un’affermazione piuttosto forte che tu hai fatto: hai detto di non credere nell’estetica così come è stata intesa dal Settecento in poi. È un caso se il tuo rifiuto dell’estetica moderna coincida con la critica alla pretesa moderna dei romanzi di regolare le avventure umane secondo le convenzioni della coscienza? Critica da te sviluppata in Finzioni occidentali.

Gianni Celati
Sì, Finzioni occidentali tratta di questo: le convenzioni della coscienza come una specie d giudice supremo di tutti i fatti della vita. Il romanzo moderno (in inglese novel) è cominciato con questa pretesa di spazzar via tutti gli errori – gli errori degli ignoranti, dei pazzi, delle donne, dei bambini e dei selvaggi – per il trionfo della coscienza maschile, adulta e civilizzata. Nel 1968 ho avuto una borsa di studio che mi ha permesso di passato due anni a Londra, chiuso nella biblioteca del British Museum. Ne è venuto fuori quel saggio sulla nascita del romanzo che hai citato. Questo si ispirava a Don Chisciotte, come mio eroe e guida nei pensieri. E ciò che mi appassionava di questo eroe era la sua resistenza a tutte le censure, il suo passare imperturbato attraverso le critiche degli intenditori che vorrebbero ricondurlo sulla retta via della coscienza “realistica”. Per questo il Don Chisciotte è così illuminante, perché qui si affaccia per la prima volta la questione della “realtà”, posta in un contrasto con l’immaginazione e le tendenze fantasticanti. E si affaccia anche l’idea che il “nuovo” sia qualcosa che spazza via le inutili anticaglie (i romanzi cavallereschi che hanno invaso il cervello di Don Chisciotte). Ma, posto questo schema, dove Don Chisciotte ha sempre torto in quanto invasato da fantasie passate di moda, poi succede che sono proprio le sue tendenze fantasticanti a arricchire di senso il mondo. Sono le sue fantasie e le sue riflessioni a farci intravedere l’aperto mondo sotto l’aperto cielo come la nostra unica vera casa. Tutto il Don Chisciotte rimane un esempio meraviglioso di questa potenza del pensiero figurale che ci guida verso un’apertura al mondo esterno.

Massimo Rizzante
A partire dagli anni Ottanta, con il nuovo esordio di Narratori delle pianure (1985), si accentua nelle tue opere e nelle tue riflessioni l’opposizione tra il “delirio critico razionalistico”, che vuole sempre spiegare e incasellare la “realtà”, e il senso comune, un sapere pratico, incapace di discriminare, che ci riconduce alla prosa del mondo, in basso, nella terra dei “luoghi comuni”: termine quest’ultimo che tu usi spesso, così come quelli di “banalità”, “ovvietà”, “sentito dire” in cui tutti noi siamo immersi. Che cosa puoi dirci a proposito di quell’epoca?

Gianni Celati
Per alcuni anni sono andato in giro per la valle del Po, prima insieme ad alcuni fotografi e poi da solo, a prendere appunti. Di qui è venuto fuori quel diario di viaggio intitolato Verso la foce. Una delle attività che facevo era quella di piantarmi per interi pomeriggi nei bar di campagna e ascoltare cosa dicevano gli avventori. A ogni momento sentivo accenni a storie possibili, e di lì mi sembrava di capire come nascono i racconti. L’altra cosa che mi veniva in mente è l’idea che noi viviamo dentro al “sentito dire” collettivo, ossia che tutto il mondo per noi sia come foderato dal “sentito dire”. Continuamente no parliamo di cose che ci sono “note”, perché sono cose che immaginiamo in un modo o nell’altro attraverso un “sentito dire” (che può essere anche quello dei giornali). Il “sentito dire” è come uno spillo: qualcuno mi punge con quello spillo e mi spinge a farmi delle domande per capire di cosa si sta parlando. Questo è il lavoro di chi scrive racconti: sente una cosa, vuole capire ciò che si dice, e parte a farsi domande, ossia a fantasticare. Quello che lega gli uomini sono le domande che gli uomini si fanno: non le affermazioni, ma il pensiero interrogativo, dove ogni interrogazione promuove altre immagini e fantasie.

Massimo Rizzante
Mi ricordo che quando lessi Verso la foce (1989) mi colpì molto la “Notizia” che tu, come autore, avevi posto sulla soglia del libro. Mi è sempre rimasta impressa, soprattutto la parte finale: “Ogni osservazione ha bisogno di liberarsi dai codici familiari che porta con sé. Ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non capisce, per poter arrivare ad una foce dove dovrà sentirsi smarrita. Come una tendenza naturale che ci assorbe, ogni osservazione intensa del mondo esterno forse ci porta più vicino alla nostra morte, ossia ci porta ad essere meno separati da noi stessi”. Questa tendenza naturale è una variazione del senso comune? E ancora: scrivere sotto questo imperativo naturale che ci assorbe, significa scavalcare il recinto del territorio estetico per porci in un territorio di ascolto e visitazione “fantastica” degli altri?

Gianni Celati
L’idea di ascolto e visitazione fantastica degli altri è bel concetto. In realtà poi ognuno di noi va sempre in cerca d’una sua popolazione, d’una popolazione d’individui a cui associarsi anche solo fantasticamente. Allo stesso modo i cani vanno in cerca d’altri cani con cui annusarsi, e i bambini cercano altri bambini con cui giocare, e gli adolescenti cercano altri adolescenti per parlare di cose da adolescenti. Gli antichi dicevano che il simile cerca il simile. La letteratura stessa a me sembra non un prodotto di autori separati, ma di popolazioni, di bande di sognatori, tra cui avviene quell’ascolto e quella visitazione fantastica che hai detto. Per questo la letteratura cavalleresca è la tradizione narrativa italiana che più mi attira e che bisognerebbe rimettersi a studiare. Perché non parla di individui separati nella loro cosiddetta psicologia, non parla dell’individuo moderno chiuso nel proprio guscio, ma sempre della vita come un fenomeno vegetativo generale, dove tutto è collegato e tutto è animato. E parla di popolazioni di sognatori passionali e sbandati, puramente esposti alla fatalità del destino, come Don Chisciotte.

Massimo Rizzante
La tendenza naturale, per chi scrive racconti, dunque, è complementare a quella capacità fantastica che affonda le sue radici nel terreno del senso comune?

Gianni Celati
Sì. E riflettere sulla fantasia aiuta a capire quello che tu chiami senso comune: cosa ci lega agli altri nei pensieri a distanza, anche nel quadro d’una separazione generale degli individui come quella in cui viviamo. Per questo credo sia utile la ripresa del pensiero di Aristotele, di Vico, come ripresa di un’idea di intellezione collettiva. Essere al mondo vuol dire essere con gli altri dall’inizio alla fine. Anche se sono su un’isola deserta, gli altri sono sempre con me in una trama che determina i miei gesti, i miei atteggiamenti, quello che voglio e quel che non voglio.

Massimo Rizzante
Vorrei ritornare su qualcosa che forse nella mia domanda precedente non è risultato chiaro. La “tendenza naturale” ad andare verso l’altro e scoprire ciò che abbiamo tutti in comune, nei tuoi racconti procede, a partire dagli anni Ottanta, attraverso la descrizione e l’osservazione. La tua prospettiva è diversa da quella di molti scrittori moderni per i quali il bersaglio privilegiato è lo spazio interiore. Mi sembra di poter dire che tu hai condiviso questa prospettiva antipsicologica con altri autori italiani e stranieri, primo fra tutti il maestro Italo Calvino. Fin dagli anni Settanta (ma probabilmente fin dall’inizio della sua carriera letteraria) uno dei problemi più assillanti per Calvino è stato: come descrivere le cose? Come farsi assorbire dall’esterno, evitando i trabocchetti dell’io? All’ombra della nozione di fantasia (che oggi Calvino, grazie a uno dei suoi guizzi, avrebbe certamente contribuito a illuminare) ti chiedo: dove risiede secondo te la frontiera tra il tuo modo di vedere o di fantasticare rispetto a quello del tuo amico Italo?

Gianni Celati
Non ci ho mai riflettuto. Ma se c’è stato un sodalizio tra noi, credo sia nato da una simpatia comune per libri esenti dal peso della psicologia: Ariosto e la letteratura cavalleresca, i romanzi settecenteschi inglesi, e poi Swift, e infine Beckett, che Calvino onorava molto. Nel 1968-70 ogni volta che passavo da Parigi per andare a Londra dormivo a casa sua, e andavamo a spasso parlando di cose da scrivere, e lui fantasticava sempre a ruota libera. Certe volte si incazzava con me per cose strane, come il fatto che attraversavo l’Europa in macchina senza una carta stradale: lo trovava inconcepibile. Ma ogni volta lo ritrovavo contento di vedermi per chiacchierare di libri e di idee sullo scrivere. Nell’ultima di queste mie soste a Parigi, tornavo dall’America con le Avventure di Guizzardi finito, e lui mi è venuto a prendere all’aeroporto di Orly.

Massimo Rizzante
Ma con la fantasia come la mettiamo? Calvino, fino all’ultimo, fino alla stesura delle Lezioni americane, dove c’è un bellissimo passaggio su Dante, ha insistito con convinzione sulla nozione di fantasia…

Gianni Celati
Ho ma ho l’idea che certe sue cose nascano appunto da una volontà di tener fede alla nomea di scrittore fantastico. Così per la trilogia, con l’eccezione del Cavaliere inesistente. Di questo libro lui si vantava, a ragione, dicendo che era il “libro del maggiore scripturalist italiano”. La parola scripturalist non so dove l’avesse scovata, ma cadeva a proposito. Voleva dire che il suo era un lavoro di fantasia usando la scrittura come una specie di disegno a mano libera. Non credo che nessuno abbia mai studiato l’influsso dei disegnatori sul suo modo di scrivere. Calvino mi raccontava che il nostro grande disegnatore Rubino capitava nella villa dei suoi genitori a Sanremo, quando lui era piccolo, e gli faceva dei disegni per intrattenerlo – quei disegni con quelle linee art nouveau così eleganti. C’è tutto un percorso di Calvino verso questo modo di uso “fantastico” delle parole, come quello dei fumetti o delle illustrazioni per ragazzi. La sua tendenza a usare la scrittura alla maniera delle vignette, dei fumetti o delle caricature, è stato ciò che gli ha dato una grossa libertà d’azione rispetto agli altri narratori italiani. Ma è anche qualcosa che a un certo punto lui ha sentito come un limite, perché gli veniva troppo facile. A volte diceva: “Io devo pormi degli ostacoli, altrimenti sono uno scrittore domenicale”. Di lì in poi è come se si fosse dato degli ordini, per mettere vincoli alla facilità della sua vena fantasticante. Poi nel Castello dei destini incrociati e nelle Città invisibili, la sua vena disegnativa è venuta in primo piano, attraverso un confronto con le figurazioni dei tarocchi, delle miniature dei vecchi libri di viaggi o con immagini nelle mappe medievali. E ha cominciato a usare dei frames o incorniciature, che creano un effetto simile a quello postmoderno della auto-riflessività.

Massimo Rizzante
Nella Presentazione che hai scritto con Jean Talon ad Altrove di Henri Michaux (2005), c’è un passo che mi è sembrato subito significativo, e ancor più adesso, dopo quanto abbiamo detto: “Riprendiamo l’idea del pensiero come tragitto. Un bambino scrive un tema scolastico: si ferma, non sa più cosa dire. Ha scritto ciò che chiamiamo un ‘pensiero’. Ma, chiede Michaux, cosa c’è intorno alla frase che si blocca dopo aver espresso un pensiero?…Ci sono ‘abissi di nescienza’. Sono gli abissi di tutto quello che non sappiamo ancora, o non sapremo mai”. Calvino fa parte di una categoria di scrittori che ad un certo punto della loro vita, contemplando fuori della finestra, hanno ricominciato come bambini a scrivere i propri temi. Penso al suo amato Ponge. Tuttavia la sua contemplazione non contemplava l’abbandono, non contemplava il pericolo rappresentato dagli “abissi di nescienza” di cui parla Michaux, non contemplava la scrittura come “gesto”, “movimento sulla pagina” privo di giustificazioni, di significato. Che ne pensi? Questa riflessione è legata al problema della forma, problema che Michaux sembra non porsi. Calvino, invece, se lo poneva, eccome! Il suo amore per Perec non era forse legato alla sua ludica ossessione per le serie matematiche? Al suo distacco nei confronti della “realtà”? Nei tuoi racconti, Celati, tutto questo non c’è. C’è piuttosto un abbandono alla contemplazione delle cose fuori di noi.

Gianni Celati
Ora non so rispondere a questo. Posso aggiungere qualcos’altro su Calvino. Lui era uno molto più “abbandonato” di me, nel senso che era più sicuro di sé. Ricordo la sua casa di Castiglione della Pescaia, dove lo andavo a trovare d’estate. Si metteva lì in un angolo e scriveva mentre io parlavo con sua moglie, e dopo un po’ diceva: “Sentite cosa ho scritto”.

Massimo Rizzante
Credevo che Calvino fosse uno scrittore che prima di mettere la parola fine a un manoscritto si torturasse parecchio…

Gianni Celati
Tornando alla tua domanda sulla frontiera tra il suo modo di vedere e il mio, mi viene in mente questo: Calvino era “Lo Scrittore”. Anche nell’intimità delle chiacchiere e degli scherzi era come se non potesse dimenticarsi quel ruolo. Era molto modesto e onesto, perché non si travestiva mai da qualcos’altro, non aveva le pose dello scrittore all’americana che vanta la propria “esperienza di vita”. Calvino era “Lo Scrittore”, e giustamente non gli interessava “l’esperienza di vita”, gli interessava la letteratura, come un serio artigianato della penna. In questo vedo la frontiera tra me e lui. Perché io non mi sono mai sentito “scrittore”, e non credo di aver mai fatto carriera.

Massimo Rizzante
Volevo tornare ancora sulla forma. Cosa succede quando si scrive? Si tratta di tracciare con le parole delle linee in modo da creare, come tu dici a proposito di Michaux, “luoghi da esplorare”? “Bisogna lasciare che venga”, affermava ancora Michaux. È così che anche tu concepisci il tuo scrivere? Un movimento esplorativo che non si pone nessuna meta? Nessuna “opera”?

Gianni Celati
In questi termini non so rispondere. So però che scrivere è un rituale che noi impariamo a scuola, quando siamo bambini: una rituale dove si cerca di mettere in moto il pensare-immaginare, per farsi venire in mente una frase, per ricordare una parola. Tutto questo fa parte di qualcosa che è molto costruito in noi, e va inevitabilmente insieme a un certo grado di fantasticazione. Poi c’è qualcos’altro, che è la distanza da cui si guarda la figurazione delle parole che sorge dai segnetti scritti. Nei libro che hai citato, Altrove, Michaux parla di una popolazione immaginaria e descrive i loro costumi e i loro teatri: “A teatro si rivela il loro gusto del lontano. La sala è lunga, il palcoscenico è profondo. Le immagini, le forme dei personaggi vi appaiono grazie a un gioco di specchi. Gli attori recitano in un’altra sala, e vi appaiono più reali che se fossero presenti. Più concentrati, più purificati, più definitivi, sbarazzati di quell’alone che produce sempre la presenza reale, faccia a faccia…”. Questa idea di attori che recitano in un teatro dove sono visti attraverso un gioco di specchi, mi sembra una figurazione del gioco dello scrivere, che non può mai essere diretto. È sempre un gioco sulla distanza che ci sottrae al faccia a faccia con la realtà, e al tempo stesso potenzia la percezione come un gioco di specchi. Perché in questa modo non vediamo soltanto qualcosa: vediamo il vedere, guardiamo il guardare, percepiamo l’atto di percepire. Il rituale dello scrivere prevede questo effetto, come una messa a distanza delle percezioni, per sottrarle alla casualità e portarle verso la trasparenza dell’intelleggibile. Solo in questi termini riesco a scrivere, e faccio fatica a sopportare chi prende lo scrivere come un riflesso della sua esperienza personale o della cosiddetta realtà nuda e cruda, senza vedere il processo rituale a cui le parole debbono essere sottoposte (metrica, ritmo, colore tonale, distanza focale).

Gianni Celati – Dialogo sulla fantasia con Massimo Rizzante, Tratto da: Griseldaonline, n. VII, 2007-2008.

In copertina: Paul Klee. “Canzone araba” (Burqa su tela di juta, dettaglio)

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Gasss… Sembra blu ma è marrone.
Chi decide in Europa?

 

Sembrano fatti di cronaca, semplici notizie provenienti da zone calde ma in realtà possono aiutarci a comprendere come si muovono gli Stati e quanto sia reale l’impotenza dell’Europa di fronte all’unica potenza egemone rimasta dopo la caduta del muro di Berlino.

L’Europa finisce di essere indipendente dopo la seconda guerra mondiale per ovvi e noti motivi, ma mentre per un certo periodo l’ordine delle cose e le gerarchie erano più chiare, adesso sembra quasi che stiamo imparando a nascondercelo, sempre di più facciamo persino finta di essere “indipendenti” e che scelte evidentemente oscure facciano parte di piani a sostegno di interessi casalinghi.
Resta apparentemente fuori dallo schema la Gran Bretagna da cui gli Usa hanno raccolto il testimone e con cui si sono scambiati i ruoli, e la Francia che si è creata uno spazio piccolo dentro uno spazio più grande e lavora per avere una dignità all’interno dell’impero americano. Un po’ per vocazione imperiale e un po’ spropositato orgoglio nazionale.

In questo periodo abbiamo fame (anzi freddo) di gas. Le nostre bollette si impennano, famiglie in difficoltà e aziende costrette a chiudere per il raddoppio dei costi energetici. Nessuno lo vorrebbe, nessuno ne avrebbe bisogno, e se da una parte c’è un’Europa che ha paura della Russia, a torto o ragione e per lo più per ragioni storiche di posizionamento geografico, un’altra non avrebbe nessuna necessità di mostrare i muscoli.

La Russia è la principale fornitrice di gas dell’Europa e, soprattutto, ha costruito nel tempo una serie di infrastrutture che lo trasportano o potrebbero trasportarlo in maniera costante e abbondante. Ci sono però paesi dell’ex blocco sovietico poco stabili da cui passano i gasdotti che a tratti ne minacciano la sicurezza e il passaggio.

Poiché il gas a noi serve comprarlo e ai russi serve venderlo hanno costruito un gasdotto, il Nord Stream 2, che bypassa questi paesi e arriva direttamente in Germania, paese sicuro e stabile, per poter poi essere smistato in Italia, Francia e altrove. Questo gasdotto passa sotto il Mar Baltico che è un mare interno dell’Oceano Atlantico, e che tocca i seguenti paesi: Danimarca, Svezia, Finlandia, Russia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Germania.

Di questi paesi, la Finlandia ha storicamente sempre evitato di innervosire il suo potente vicino e confinante riuscendo però a tenere ottimi rapporti con gli Stati Uniti e Nato tenendosene però saggiamente fuori come ha fatto del resto la Svezia. La Danimarca è invece un membro della Nato e un fidato alleato degli Stati Uniti e non ha problemi di approvvigionamento di gas in quanto già da tempo ha raggiunto l’autosufficienza.
Ci sono poi i paesi ex sovietici cioè le Repubbliche Baltiche e la Polonia che invece hanno motivi di tensione con la Russia e per questo appoggerebbero qualsiasi operazione contro di essa, ospitano ben volentieri basi, mezzi e uomini americani o Nato, cosa che ovviamente viene accolta e promossa da Washington, interessata a stabilire avamposti sempre più vicini ai confini russi.

È un po’ un gioco agli scacchi, o forse al massacro. Per una corretta comprensione delle dinamiche e oltre alla geografia, bisogna anche tener presente che la Nato esiste per tutelare gli interessi americani, unici a promuovere guerre che a volte è logico far combattere agli altri, e che l’Europa serve da campo di battaglia per un’eventuale guerra futura. Lo era stato maggiormente durante l’era pre-muro ma anche oggi, al tempo dei missili galattici, non è un argomento scomparso del tutto.

Fatta la cornice, costruita la mappa fisica e concettuale, torniamo all’Ansa. Annalena Baerbock, la ministra degli Esteri tedesca, ha dichiarato: “Mosca si espone a conseguenze gravi in caso di aggressione all’Ucraina”. Parlando al Bundestag ha sottolineato che le sanzioni coinvolgerebbero anche il gasdotto Nord Stream 2 “Prepareremo un pacchetto di sanzioni forti”, ha spiegato che includono per diversi aspetti “anche Nord Stream 2”.

La Germania ha quindi parlato di sanzioni alla Russia come giustamente deve fare un Paese che fa parte della Nato e che nonostante sia una potenza economica è strettamente controllata, come l’Italia, da un’infinità di basi e soldati americani dislocati da decenni sul proprio suolo. Ma per quanto possibile si è tenuta sul vago, del resto ha tantissimi interessi sia nell’Est europeo sia proprio con la Russia. Interessi commerciali, si intende, quelli che fanno girare l’economia, danno lavoro, benessere e a volte riscaldano.

Il Nord Stream 2 porterebbe benefici a Paesi, ad esempio, come l’Italia, la Francia e la Spagna oltre che alla stessa Germania, che non hanno nessun interesse nell’aumentare le tensioni in confini che andrebbero studiati bene ma siamo costretti, nostro malgrado, a partecipare a questo piano.
Certo, la Russia non sarà simpatica, potrebbe legittimamente non piacerci ma, come ha detto il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov parlando davanti alla Duma “I nostri colleghi occidentali sono letteralmente in uno stato di frenesia militarista» e fanno «dichiarazioni isteriche”. “Siamo pronti a tutto – ha detto ancora – noi non abbiamo mai attaccato nessuno, siamo sempre stati noi ad essere attaccati, e quelli che l’hanno fatto non se la sono cavata».

E la Russia sembra, in effetti, sotto assedio da quando sono state partite le rivoluzioni colorate, di cui abbiamo visto solo frutti avvelenati. All’obiezione eventuali sulle questioni georgiane, della Crimea, del Donbass e magari sulle questioni della Bielorussia risponderei che bisognerebbe provare prima ad escludere insufficienti conoscenze storiche, rivendicazioni territoriali, problemi di confini, ingerenze. Insomma …“dati (prima) cause e pretesti”…

Dunque, adeguate dichiarazioni dalla Germania, russi che difendono le loro posizioni in maniera diplomatica, mentre gli Usa, senza troppi giri di parole e per bocca del portavoce del dipartimento di Stato Usa, Ned Price (parlando all’emittente radiofonica pubblica Npr, e come riportato dal Guardian), dice: “Voglio essere molto chiaro: se la Russia invade l’Ucraina in un modo o in un altro, il gasdotto Nord Stream 2 non andrà avanti“. “Non entrerò nei dettagli”, ha detto, ma poi ha aggiunto: “Lavoreremo con la Germania per garantire che non vada avanti”.

Gli Usa terranno in considerazione gli interessi tedeschi e europei? Dubbi in proposito. Sembra più una minaccia, sembra voler far capire a russi ed europei che al di là di qualsiasi interesse in campo, ce n’è uno che vale di più, il loro.

Un attento osservatore potrebbe notare che gli Usa hanno diritti sul Mar Baltico più o meno come ne avevano in Italia ai tempi della tragedia del Cermis. Saranno loro a decidere, da Paese occupante, e a noi resterà il freddo dell’inverno, guardando al ticchettio del contatore del gas e alle perdite economiche dell’interscambio commerciale.

Illustrazione di copertina a cura di Carlo Tassi

Parole a capo
Nazario Pardini: “La solitudine del mare” e altre poesie

“Il mare è un antico idioma che non riesco a decifrare.”
(Jorge Luis Borges)

L’ULTIMO AUTUNNO

L’ultimo autunno che vivremo assieme
sarà per impolparci dei colori
della nostra stagione. Verrà il mare
con le sue inquiete onde a raccontarci
storie di antichi approdi; a suonarci
ottobrine romanze. Stai con me.
Sarà bello abbracciarsi; sarà di nuovo bello
confondersi coi lampi di una fine,
come lo era,
coi fremiti nascenti delle fronde.

 

PICCIONI

Bianchi, bigi, rossi, sopra il tetto
si assiepano, la testa fra le piume,
a tu per tu col vento. Sono liberi.
Appena il sole sbuca da levante
scuotono il manto e volano decisi
sui campi a becchicchiare qualche seme.
Svolano sulle foglie delle viti,
sugli stecchi crocifissi delle piante,
su tutto ciò che è avanzo dell’autunno.
Hanno solo l’istinto. Il loro volo
rompe i raggi lucenti e stampa in basso
ombre vaganti; e con i suoi schiocchi
batte dell’ali il tempo della vita.
Se getti le granaglie sul cortile
accorrono in picchiata; e via nell’aria
o sul suolo a tubare calorosi
in cerca dell’amore. Libertà,
spazi aperti, profumo di granturco,
rapina di micragne; anche la pioggia
per loro è acquasanta; li battezza,
scivolando sul dosso come l’aria.
Sono lì, li vedi di pedina,
vivi, trepidanti, nell’attesa
di nuove corse da donare al cielo.

E poi la morte. Dove andranno a morire
quando la sorte tocca?
Non ce n’è traccia. Sarà forse il destino
a riservare loro un angolino?

 

Il FALCIONE

Nel mezzo ai tanti attrezzi è lì un po’ triste
il falcione che più profuma d’erba;
ha perso la sua foga fra le miste
ferraglie di cantina; anche se acerba

la verzura del campo nelle mani
callose di mio padre si accendeva
dei riflessi del sole, ed i suoi suoni
sembravano dei canti a primavera.

Ora è lì, senza voce: una bestia ferita,
accanto ad una cesta e ad un barile.
Nemmeno ti risponde se lo chiami.

La lama arrugginita pare cinta
da un’aria d’abbandono. Nel cortile
l’ho portato, all’aperto, fra i richiami

di paperi e galline. Riluceva;
mi sembrava felice; era una spera.

 

LA PIENA DEL SERCHIO

Piove a dirotto stamani, ed il Serchio
gonfia il suo letto; è già nelle golene,
tra gli alberi che invocano l’aiuto
frusciando melanconici richiami
col loro ciuffo sopra la corrente;
niente risparmia l’acqua inferocita,
tutto porta con sé, alla deriva.
Qui dall’argine l’occhio si spaventa
a mirare la potenza che sprigiona:
le barche sradicate dai pontili
corrono in grembo al grosso defluire,
e ciottoli, tronchi, tavole, e ferraglie
si rincorrono in gara verso il mare.
Mi sposto, e vado svelto a miscelarmi
alla furia spaventosa della foce.
Tira Tramontana, se Dio vuole,
fosse Libeccio chissà che inondazione.
Qui le melme del fiume si accavallano
con l’onde spaventate
che sembrano opporsi a tanta furia.
Odori di salmastro e d’acqua smossa,
di erbe trascinate contro voglia,
mi invadono narici. E mi confondo
con tutto quel fracasso naturale:
divento un ramoscello in mezzo al mare.

 

LA SOLITUDINE DEL MARE

Sono solo e l’inverno mi percuote
coi suoi venti freddi e burrascosi.
Innalzo le onde fino al sommo cielo
e le porto alla strada per sbirciare
gli addobbi di Natale. Ogni tanto
mi vengono a trovare dei ragazzi
innamorati: seduti sul pattìno,
allungano lo sguardo, incatenati,
tra un bacio e l’altro, fino all’orizzonte.
Mi fanno compagnia. La solitudine
mi fa pensare al mondo, al mio vagare,
mi fa pensare ai giorni dell’estate,
ai tanti corpi immersi dentro me,
alle grazie di giovani fanciulle
che mi lisciavano il corpo. Ora ricordo;
vivo nel rievocare quei momenti,
mi sento triste se mi torna in mente
il pianto di una madre e il suo inveire
contro la risacca, e la corrente,
che portarono via un figlio in fiore,
sperso nei miei fondali. Ma a pensarci
sono tanti i mortali sprofondati
nelle mie cavità. Ora son solo;
alzo le braccia al cielo e mi imburrasco
per la forza di un vento che d’inverno
mi assale con frustate. Se m’incontri
di questi tempi ombrosi e nuvolosi,
quando il respiro mio si fa più denso,
mi vedi in piena angoscia. Tiro fuori
tronchi, detriti, ciocchi e tavoloni,
spurgo ogni cosa che mi porta il fiume
e riempio la spiaggia di vestigia;
si fanno le mie acque intorbidite;
trovo la pace solo se la luna
frantuma le sue chiome in tante scaglie.
Allora mi riposo. Puoi vedermi
quando arancio le guance e tingo il cielo
degli amplessi fecondi che dal dentro
fuoriescono per visualizzare
l’inquieto stare chiuso dagli scogli
senza poter sfuggire oltre le sponde.
Senza poter capire, e mi tormento,
quello che fuori esiste; e che mi è ignoto.

Nazario Pardini (Arena Metato, Pisa, 1937). Poeta e critico letterario, laureato in Letterature Comparate e in Storia e Filosofia è ordinario di Letteratura Italiana, blogger, critico e collabora con riviste specializzate. Ha pubblicato molti libri di poesia, racconti, e saggi, tra cui: Foglie di campo. Aghi di pino. Scaglie di mare (1993), Le voci della sera (1995), Il fatto di esistere (1996), La vita scampata (1996), L’ultimo respiro dei gerani (1997), La cenere calda dei falò (1997), Suoni di luci ed ombre (1998), Gli spazi ristretti del soggiorno (1998), Paesi da sempre (1999), Alla volta di Lèucade (1999), Radici (2000), Si aggirava nei boschi una fanciulla (2000), D’Autunno (2001), Le simulazioni dell’azzurro (2002), Poesie di un anno (2002), Dal lago al fiume (2005), Canti d’amore (2010), Racconti brevi (2010), L’azzardo dei confini (2011), Scampoli serali di un venditore di arazzi (2012), Dicotomie (2013), A colloquio con il mare e con la vita (2012), I simboli del mito (2013), Lettura di testi di autori contemporanei I (2014), I canti dell’assenza (2015), Letture critiche dei miei testi II (2016), Antologia poetica a tema “Il padre” (2016), Cantici (2017), Di mare e di vita (2017), Cronaca di un soggiorno (2018), Lettura di testi di autori contemporanei III (2019), Lettura di testi d’autori contemporanei IV (2020), Lettura di testi di autori contemporanei V (2021). Ha pubblicato inoltre le raccolte di poesie: I dintorni della solitudine (2019), I dintorni dell’amore ricordando Catullo (2019), I dintorni della vita. Conversazione con Thanatos (2019), Nel frattempo viviamo (2020), Dagli scaffali della biblioteca (2020). È inserito in numerose storie della letteratura. Ricapitolativo il saggio critico di Floriano Romboli L’azzardo e l’amore. La ricerca poetica di Nazario Pardini (2018). È fondatore, curatore, e animatore di “Alla volta di Lèucade”, blog culturale.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

LAGER LIBICI
Una antica vergogna che oggi si ripete

 

Aumentano gli sbarchi di persone in cerca di rifugio e assieme la detenzione nei lager libici, che ne trattengono, aggiungendo disperazione a disperazione. Le speranze dell’UE sono in una riforma costituzionale e in una legge elettorale che assicuri un governo stabile.

Nessun serio contrasto all’estrema violenza praticata, con soldi europei, nei centri di detenzione. È denunciata da tutte le organizzazioni internazionali e documentata anche dalle visite dei medici legali sui corpi torturati. (Ne ho scritto anch’io su Azione Nonviolenta). Cinquemila sono nei lager ufficiali, diverse migliaia in quelli non riconosciuti. Le condizioni in questi non sono certo migliori, e neppure in quelli organizzati dai colonizzatori italiani.

Draghi ci prova con Macron e tutta l’Ue. Ecco le foto dei bimbi morti, bisogna fare qualcosa, ma l’Europa guarda altrove scrive Alberto Negri.
Draghi va a Tripoli e Abdul Hamid Dbeibah restituisce, a Roma, la visita. Il pieno rispetto dei diritti di rifugiati e migranti è l’impegno ribadito.

Come fidarsi delle assicurazioni di un Paese che non riconosce le convenzioni internazionali sui rifugiati? Intanto questo dovrebbe, come minimo, fare. Abbiamo buoni motivi per diffidare dei loro impegni. Loro, forse, anche più dei nostri.
Nel momento di massima collaborazione tra i due Paesi l’Italia non esita ad appoggiare Usa, Gran Bretagna e Francia nella guerra alla Libia. La Libia è uno stato-mafia, ricorda Alberto Negri. Con la mafia si convive ovunque e si fanno affari, dentro e fuori il nostro paese e dunque perché no nella quarta sponda?

Il distretto dell’Emilia-Romagna è, a buon titolo, un distretto di mafia, dice la procuratrice generale reggente di Bologna inaugurando l’anno giudiziario. Non mi meraviglia. Non meraviglia neppure che i campi profughi libici siano campi di concentramento. Sappiamo che i campi di concentramento non sono una novità in Libia. Ce ne parla più volte il già ricordato Negri. Nei libri di Angelo Del Boca ne troviamo notizia. Così negli scritti di Giorgio Rochat, che ricordo straordinario docente a Ferrara. In particolare Negri segnala i lavori di Eric Salerno, io aggiungerei il più giovane studioso Matteo Dominioni, di Del Boca allievo.

Dagli scritti di Eric Salerno – i titoli sono eloquenti: Genocidio in Libia e Uccideteli tutti – oltre al documentato racconto sull’uso dei gas contro la popolazione civile e sulla deportazione dei libici in Italia, emergono oltre 100mila detenuti nei 13 campi di concentramento in Cirenaica e nella Sirtica e altrettanti assassinati. Non manca neppure un campo per gli ebrei: lì ne muoiono 600, ai sopravvissuti pensano i tedeschi a Bergen-Belsen. Salerno sente citare da Gheddafi El Agheila, un villaggio divenuto campo di concentramento e da lì parte la sua ricerca, che è molto nei territori interessati. Alla Farnesina molti documenti sono distrutti, fuori posto, difficilmente rintracciabili, ma qualche traccia emerge.

L’estesa rete di campi di concentramento risulta da documenti ufficiali. I funzionari, contrappongono alla richiesta di risarcimenti, una relazione accurata. Gli impiccati sono meno di quelli pretesi, le fucilazioni senza processo dei ribelli normali atti di guerra, i bombardamenti della popolazione civile episodi spiacevoli.
Quanto ai cosiddetti campi di concentramento non è vero niente, El Agheila come gli altri, sono luoghi di raccolta. A uomini, donne e bambini è garantita alimentazione controllata, assistenza sanitaria e scuola. Il fatto che ai carabinieri fosse affidato il servizio di guardia è, suppongo, un’ulteriore garanzia di legalità. Un risarcimento è tuttavia riconosciuto anche se, denuncia il regista libico Abo Khraisse, non compensa le vittime. Getta piuttosto, scrive Salerno, le basi per una nuova epoca di campi di concentramento finanziati dall’Italia con l’aiuto di collaborazionisti libici che vengono pagati generosamente.

Dalla ricostruzione del più giovane studioso Matteo Dominioni, fondata sugli studi di Rochat e su documenti ritrovati, ricavo qualche ulteriore elemento. Nel giugno del 1931 si creano campi di concentramento capaci di accogliere l’intera popolazione del Gebel, colpevole di appoggio alla resistenza, vent’anni dopo l’invasione. Sì, quella che commuove Pascoli, La grande proletaria si è mossa, ottiene l’adesione del nostro unico premio Nobel per la Pace, Teodoro Moneta.

È insufficiente l’opposizione. Si distingue per intransigenza, motivazioni, preveggenza e proposte Giacomo Matteotti. Dopo vent’anni l’Italia non si ritira, non è mica come gli Stati Uniti. Graziani con i tribunali volanti stabilisce la pena di morte per il possesso di arma o l’aiuto ai ribelli.
I campi mirano a troncare i rapporti tra popolazione e ribelli e impedire l’autosussistenza delle comunità. Il 90-95% del bestiame è eliminato tra il 1930 e il 1931. Per impedire i contatti con l’Egitto – 20mila libici vi si rifugiano – si costruisce un reticolato lungo 270 km e largo metri. È un’altra grande opera – dotata di fortini e sorvolata da aerei – realizzata in pochi mesi, sempre nel 1931. È imitata ancora oggi in Europa.

Badoglio è cosciente di quel che sta facendo: Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla fino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica.

Rochat stima in 100-120mila i deportati nei campi. Mancano i medici, forse quattro in tutto, c’è pure un’epidemia di tifo e non ci sono i mezzi per sterilizzare vesti e vettovaglie. Ai detenuti viene tolta, con la terra e il bestiame, la possibilità di vivere e imposto il lavoro, soprattutto nelle grandi opere del regime, con un terzo del salario dei lavoratori italiani. Le donne si esercitino nella tessitura. Le vittime della repressione sono stimate tra le 50 e le 70mila. Forse più, come scrive Salerno.
Nota Rochat: Questo non è l’unico genocidio della storia delle conquiste coloniali, se ciò può consolare qualcuno, ma è certo uno dei più radicali, rapidi e meglio travisati dalla propaganda e dalla censura.

NOTA 1
Sull’impero coloniale italiano, la guerra d’Africa, i campi di concentramento e gli eccidi degli italiani in Libia,
Franco Ferioli ha scritto per questo giornale un lungo saggio/reportage dal titolo: 25 APRILE A METÀ. Radici del razzismo e scheletri negli armadi”. Lo puoi leggere [Qui]

NOTA 2
Il presente articolo di
Daniele Lugli è uscito con altro titolo sulla rivista online Azione nonviolenta

DIARIO IN PUBBLICO
La perdita delle consonanti

Se, nella settimana che ha portato all’elezione del presidente della Repubblica volessimo, come tento di fare, notare la pronuncia delle espressioni che la commentano, potremmo osservare che, come già aveva predetto Pier Paolo Pasolini, la lingua si adegua alla provenienza regionale.

Solo pochi anni fa la grande differenza era tra la parlata del Sud e quella Centro-Nordica, ma nel caso attuale il Sud adotta una dizione ‘neutra’ o meno riferibile alla dizione locale.

Ovviamente si parte da Roma.

Se ad una romana verace (prendiamo la première dame di Trastevere, vale a dire G.M.) le si chiedesse di esternare i dovuti auguri alla rielezione del capo dello Stato, si noterebbe subito un capovolgimento delle consonanti che perdono la in favore della b- e la t in luogo della d.

A questo punto l’evidente scempiatura delle doppie, propria ai ministri ferraresi Franceschini e Bianchi eredi della contigua parlata veneta, confermano la localizzazione regionale. In tal modo vanno menzionate le parlate di tanti altri grandi elettori provenienti dalle diverse regioni italiane.

Se al modo di esprimersi si associa la postura e il comportamento fisico si veda come trottavano indaffaratissimi i politici grandi elettori e non solo nelle loro apparizioni, senza nemmeno avere la cortesia per la salute pubblica di usare le ffp2 raccomandate (vedi quelle orride di stoffa esibite dal maggior rappresentante della Lega, M.S)!

E che dire dei commenti succhiati come caramelle dai soliti noti – sempre quelli – che implacabili novelle ‘Sibille Cumane’, con l’occhio acquoso e incollato al telefonino, sparano i prevedibili e inutili commenti!

Le ragazze commentatrici scuotono la bionda chioma esibendo tacchi 98, come la mia amata Lilli nei loro giubbotti di pelle, che fa sempre molto corrispondente di guerra.

Apprezzatissimo il noto V.S. che, come nelle più celebri sequenze dantesche, arrota i denti in una parlata che non riesce a nascondere i segni della provenienza ferrarese, tra il rosso acceso della sua bellissima casa.

E veniamo alla lingua principe, il toscano, gestito nella sua versione vernacolare da M.R. La scorpacciata di aspirate raggiunge livelli altissimi mentre esibisce un impeccabile soprabito degno dell’antico e magistrale artigianato toscano.

Frattanto sul tavolo s’accumulano libri e libri sulla Shoah e sul Giorno della Memoria. Da sempre contrario alle proposte avanzate dal direttore del Teatro Comunale di Ferrara, Moni Ovadia, sulla settimana delle Memorie.

Sempre più convinto dell’unicità della Shoah, leggo e metto in relazione le pagine di Primo Levi raccolte nel volume: Così fu Auschwitz. Testimonianze 1945-1989 con Leonardo De Benedetti, con la nuova edizione di una testimonianza fondamentale quale quella di Donatella Di Cesare [Qui]Se Auschwitz è nulla, Bollati Boringhieri,2022.

se auschwitz è nullaLa riflessione della Di Cesare illustre filosofa, da tempo sotto scorta per le ignobili minacce subite, prelude con un commento che spiega, se non tutto, molto sull’evoluzione del negazionismo: “Il negazionismo è una forma di propaganda politica che negli ultimi anni si è diffusa entro lo spazio pubblico coinvolgendo ambiti diversi e assumendo accenti sempre più subdoli e violenti” (ivi, p. 13).

In tal modo la Di Cesare commenta l’evoluzione nel ventunesimo secolo del negazionismo che si presenta in forma ‘politica’ : “… il negazionismo non è riducibile in nessun modo alla revisione ed è invece un fenomeno che può essere considerato solo alla luce della sua matrice complottistica” (ivi, p. 36), così che “Il  ‘complotto ebraico mondiale’ è il cardine del nuovo negazionismo nella sua versione più recente.” (ivi, p. 38)

Una considerazione che va tenuta ben presente nell’attuale situazione politico-economica mondiale.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

VITE DI CARTA /
Fausto Coppi e la Livra, ovvero la leggerezza

 

Come ogni mercoledì ho attraversato la piazza del mio paese e le vie d’intorno per stare al mercato e respirarne l’atmosfera. È un rito, lo so bene, ma non ci posso rinunciare.

Stavolta non ho nemmeno fatto spesa di verdura e frutta, non mi serviva nulla che non avessi trovato proprio il giorno prima al supermercato. Però c’è stata una piccola avventura dello spirito, come accade spesso.

Piccola, ci tengo a ribadirlo, ed è questa.

La Livra, il soprannome di sempre, non compare nel necrologio che ho letto entrando nella piazza: ci sono cognome e nome e la bella età, 93 anni portati col sorriso fino all’ultimo giorno.

L’ho incontrata l’ultima volta in ottobre, proprio sul bordo di questa piazza, con una affettuosa badante seduta sulla stessa panchina. Ahi, ho pensato, non sei più sulla porta della tua casa a guardare chi passa stando in piedi a braccia conserte.

Abiti a due passi da qui e, se ti vedo seduta e scruto il tuo sorriso, trovo che è cambiato insieme a te, è più opaco, leggermente smarrito. Ma mi riconosci: non appena ti saluto e ti chiedo come stai, pronunci il mio nome e subito mi collochi nel passato che abbiamo in comune, quando i nostri appartamenti affacciavano sullo stesso cortile.

Ci vorrebbe mia madre, qui e ora, a tirare fuori dal cilindro dei ricordi una quantità di aneddoti più o meno faceti, che potremmo rivivere con leggerezza.

Io ero bambina e voi due giovani donne sposate: mia madre lavorava per una ditta che le consegnava a domicilio montagne di scarpe da cucire e tu seguivi la casa e la famiglia. Ma lei manca da oltre vent’anni e tu da qualche giorno, come mi ha appena detto il necrologio.

Nessuna di voi due è più qui, non mi rimane che la leggerezza. Mi arriva dai ricordi infantili (dalla vita) e dalle letture che ho in corso (dalla letteratura).

Il caso vuole che in queste settimane mi stia dedicando a conoscere la figura e l’opera poetica di Roberto Roversi [Qui]. È un primo approccio, frammentato in tanti brevi momenti in cui consulto i manuali e le storie della letteratura che ho nello studio, alternandoli con la lettura delle sue poesie.

fausto coppi roberto roversiIl testo che Roversi ha dedicato a Fausto Coppi [Qui] mi è apparso sullo schermo mentre navigavo in internet alla ricerca di un’altra sua raccolta. L’ho letto con rapimento e mi sono sentita catturare in particolare da tre versi: il primo recita “Coppi leggero leggero come un pensiero” e gli altri due “Fausto un gatto/anzi no, una livra”.

Eccola, la lepre stigmatizzata dal poeta, scegliendo la versione del nostro dialetto bolognese, la lepre che accende la scintilla, in cui si incontrano un ciclista eccezionale e una donna della mia infanzia.

Sul dizionario Treccani il lemma ‘lèpre’ recita nella prima accezione di significato: “Nome comune delle varie specie di roditori leporidi del genere Lepus, diffusi in tutto il mondo; hanno abitudini prevalentemente notturne, indole paurosa, udito finissimo con buona vista e olfatto; ottimi corridori, molto veloci e resistenti, sono uno dei capi di selvaggina più comuni e ricercati”. E più avanti sul suo valore simbolico: “È talora assunta come simbolo o metafora della velocità nel correre, della timidezza, della sospettosità”.

Ho trovato il tratto semantico che cercavo, posso uscire dal dizionario e tornare alle due figure umane in cui la qualità principale dell’animale, la sua velocità nella corsa, è stata fissata come uno stigma. Roversi abbrevia la similitudine, non usa il come per il confronto con Coppi, ma utilizza una metafora netta, “Fausto un gatto…, una livra”.

Quanto alla mia simpatica compaesana, il soprannome inchioda anche lei a quella sua agilità nei gesti e nella camminata. Nei paesi o nei quartieri di città usava (e usa ancora) identificare le persone con un soprannome.

Ora la nostra Livra trovava espressa nel suo la dote della velocità in senso letterale, secondo la variante della dantesca legge del contrappasso che fa corrispondere per analogia la qualità e la persona.

Potrei citare altresì il caso di un mio coetaneo piuttosto robusto che veniva chiamato Trasparént in ossequio all’altra variante, quella secondo cui la corrispondenza avviene in modo contrario.

Mi piacerebbe divagare su nomignoli, apostrofi e soprannomi paesani, alcuni sono un vero spasso linguistico, ma torno a lei. La vicina di casa giovane e poco esperta, che dalle finestre aperte nella stagione calda sentivamo camminare in lungo e in largo nel cortile, tra casa, lavanderia e bassocomodi.

Parlava tra sé e sé e la voce era spesso alterata dall’ansia di fare bene i lavori di casa, attività in cui metteva tanto impegno, ma in cui l’organizzazione di giorno in giorno si manteneva difettosa. Vedevamo le sue gambe magre avvicinarsi alla finestra sotto la quale mia madre lavorava alle sue preziose scarpe: aveva sempre un lavoro venuto male di cui discolparsi, un consiglio da chiedere. A volte un prestito.

Temeva il giudizio del marito, che al rientro dal lavoro le chiedeva cosa avesse fatto durante il giorno, non trovando pronta la cena o non ancora asciutti i suoi indumenti. Eppure la sua giornata era piena di battute di spirito e risatine.

Anche Coppi sapeva dissimulare la fatica lungo i percorsi di montagna, sapeva attaccare e arrivare da solo al traguardo della corsa dopo una lunga lunghissima fuga solitaria. Mio padre lo vide correre al motovelodromo di Ferrara, quando ancora non era famoso, e rimase conquistato dal suo portamento timido e dalla gambe esili, che in realtà sapevano pedalare come delle bielle d’acciaio. Quella per Fausto Coppi rimase poi una fede assoluta fino all’ultimo giorno.

Mi rimane la leggerezza, dicevo. In quella forma che Italo Calvino nella prima delle sue Lezioni americane definisce “una immagine figurale di leggerezza che assuma un valore emblematico, come, nella novella di Boccaccio, Cavalcanti che volteggia con le sue smilze gambe sopra la pietra tombale”. Presso il Battistero di Firenze scavalcò infatti con un balzo solo un imponente sarcofago e si liberò della sgradita brigata di Betto Brunelleschi – dice Boccaccio – “sì come colui che leggierissimo era”.

Tuttavia questa definizione non basta. La leggerezza attiene anche alle parole con cui formuliamo le nostre narrazioni e i ricordi, e consiste – mi soccorre di nuovo Calvino – in “un alleggerimento del linguaggio, per cui i significati vengono convogliati su un tessuto verbale come senza peso”.

Le parole aleggiano come “un pulviscolo sottile” sopra le cose, agiscono per astrazione. Direi, distillano dalla distanza che si sono date i significati che vanno a immettere nella comunicazione.

Della Livra e di Fausto Coppi ci arriva da un lato l’essenza figurale della lepre che corre veloce e del gatto dal passo felpato, dall’altro la parola che rende lei e il Campionissimo leggeri come pensieri.

Nota bibliografica:

  • Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio. Garzanti, 1988
  • Giovanni Boccaccio, Decameron, Garzanti, 1974 (novella di Guido Cavalcanti, VI,9)
  • Roberto Roversi, Quando Coppi e Bartali correvano in bicicletta (L’Espresso, 29 luglio 1979)

 

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica di Mercoledì, clicca [Qui]

TERZO TEMPO
El más grande

Ciò che è successo ieri a Melbourne sarebbe l’epilogo perfetto di un film o un documentario su Rafa Nadal: il record dei 21 Slam, giunto al termine di una rimonta folle e imprevedibile, è infatti la sublimazione di un’intera carriera, nonché il modo ideale per chiudere il cerchio della sua legacy. Di conseguenza, se fossimo al cinema o davanti a un biopic di Netflix, dopo una vittoria del genere ci aspetteremmo i titoli di coda poiché faremmo fatica a immaginare una chiusura migliore di quella.

La carriera di Nadal, invece, andrà avanti ancora per un po’, ed è probabile che tra qualche mese ci ritroveremo a commentare il superamento di quello stesso record. Nel frattempo, prendiamoci il tempo necessario a digerire l’assurdità e l’epicità dell’impresa di ieri: basti pensare che, dopo aver perso malamente i primi due set, le chance di vittoria di Nadal – quelle mostrate da Eurosport durante un cambio campo – si aggiravano attorno al 4%. Aggiungete a tutto ciò le cinque ore e mezzo di gara, i dieci anni d’età che separano lo stesso Nadal da Medvedev e, soprattutto, il fatto che il 35enne maiorchino non giocava con regolarità da agosto 2021 a causa di una patologia al piede sinistro con cui fa i conti da molti anni.

Infine, date un’occhiata alle prime pagine dei giornali spagnoli di oggi [Qui] e, se vi piace l’idea di immortalare l’unicità del presente, datevi da fare per conservarle il più a lungo possibile: salvatele, condividetele, commentatele. Insomma, trattatele come quel biglietto del cinema di molti anni fa che custodite gelosamente da qualche parte.

Cover: foto di Beth Wilson

Mangiami!
…un racconto

Mangiami!
Un racconto di Carlo Tassi

Mangiami!
Mangia la mia carne.
Mangiane a sazietà. Condita col sugo del mio sangue!
Gusta il sapore del mio dolore. Congruo tributo per il tuo riscatto d’appetito.
Sacro cuore, sacre frattaglie, sull’altare del tuo piacere.
Sono nato per questo.

Partorito e allattato da mia madre che mai ho potuto sentire.
Inchiodato nella croce del volere naturale.
Eccomi, curato, purificato e macellato. Non serve che m’arrenda.
Perché tu, uomo, mangi solo carne innocente, esente da peccato.
Eccomi, sono io l’infante. Fai presto, prima che la paura mi prenda.

Ridotto a oggetto morituro, mangiato fresco e presto dimenticato.
Sono nato per non vivere, paradosso mercantile dell’umano procedere.
Non voglio tremare, non voglio urlare, non voglio morire, ma a qualcosa devo servire.
Sennò che senso avrebbe farmi nascere, farmi crescere, per tuo volere?

Eccomi, la vita che mi hai dato ti ho restituito. Fanne buon uso.
Pezzetti di vita tagliati fini fini, conditi con l’olio, salati di lacrime e spezie.
Pezzetti gustosi, nutrienti, senza occhi, senza sentimenti.
Sono stato mai qualcuno? Essere vivente, muto, implorante?
Sarò mai stato un figlio da amare? Qualcuno da crescere e rimpiangere?

Migliaia di me ti chiamano, numeri anonimi, spiriti invisibili.
Massacrati dalla prassi quotidiana, al riparo da sguardi sensibili.
Tra urla silenziose e macchine d’acciaio rumorose si compie il mio destino.
Così si consuma la mattanza. Inizia e termina l’atroce dolore.
Nessun senso di colpa, nessun rimorso, nessun rancore.
Saluto tutti col mio ultimo, disperato battito di cuore.
Perché alla fine tutto si cancella. Basta un mio piatto di pietanza e resta solo il buonumore.

Riscattami dalla pena del disegno prestabilito, liberami dalle catene dell’anonimato.
Mangiami e ricordami.
Mangiami e ricorda ciò che ero.

E che, anche se per poco, sono esistito!

Weird Fishes/Arpeggi, live from studio (Radiohead, 2007)

Per visitare il sito di Carlo Tassi clicca [Qui]

Mattarella, Draghi e il Gioco dell’oca dei partiti

 

Quel giorno Luigi Pintor superò se stesso: “Non moriremo democristiani”, così titolava la prima pagina del manifesto il 28 giugno 1983. La DC aveva sostanzialmente perso le elezioni politiche e, per la prima volta dal lontano 1948, la Sinistra (allora esistevano ancora il PCI e il PSI) poteva sperare di andare al governo, scalzando il lunghissimo dominio scudocrociato.
Non andò cosi. A sbriciolare la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista ci pensò una decina di anni dopo Mani Pulite, mentre il PCI aveva già perso nome, simbolo e direzione politica dopo la Caduta del Muro di Berlino.

La fine dei vecchi partiti portò in scena una nuova classe politica. Nuovi partiti e nuovi leader (figli senza passione e senza memoria, quindi peggiori dei padri) che avrebbero dovuto aprire una era diversa ed inedita nella nostra storia repubblicana. Perciò si parlò tanto di “Seconda Repubblica”, e quindi, nei decenni a seguire, di Terza o Quarta Repubblica.
Anche questa volta, non andò così. Siamo rimasti alla Prima Repubblica.

O meglio, alla infinita, mortificante, sgangherata agonia della Prima Repubblica. Intanto, ci sono passati sotto gli occhi (e sulla schiena) molte stagioni. “Gli anni di panna montata” di Bettino Craxi. La discesa in campo del Cavaliere Azzurro e il suo sogno di Stato-Azienda. L’utopia qualunquista di Beppe Grillo. Il bonapartismo di Matteo Renzi. Il populismo pecoreccio di Matteo Salvini. Infine, dopo alcune prove generali, i tecnici hanno sostituito i politici, diventando essi stessi politici. Più politici dei politici. Non è forse un politico Mario Draghi?

Siamo a oggi, o appena a ieri. A quella indegna settimana di accordi mancati, veti incrociati e candidati bruciati. Giorni e notti per cercare inutilmente l’intesa su un nome da votare come Presidente della Repubblica. Ognuno ha mosso le proprie pedine, come in un grande Gioco dell’oca… per ritrovarsi poi, tutti insieme, alla casella numero uno. Mattarella presidente e Draghi a capo del governo.

Tutti (apparentemente) felici e contenti. Ma nessuno ci crede. La crisi dell’Italia dei partiti è ormai conclamata e irreversibile. Non comandano nel governo, nel parlamento, nel Paese. E non comandano nemmeno i loro governatori e i loto deputati. Iscritti, militanti e simpatizzanti si sono ridotti all’osso.
Dietro il paravento del povero Mattarella e lassù, sopra i partiti, governa Draghi e la sua squadra. A lui, l’ha detto chiaramente in conferenza stampa, sarebbe piaciuto tanto fare il Presidente della Repubblica, ma ci proverà di nuovo e con più chances fra un annetto.

Intanto, l’unico vero vincitore del grande gioco dell’oca, complice la pandemia, è proprio Mario Draghi, l’uomo solo al comando. Con lui, desideri e progetti dei partiti politici sono stati decisamente subordinati ai diktat dell’economia e della finanza. Con lui, anche senza un formale presidenzialismo, la Seconda Repubblica è già cominciata. E non è una buona notizia.

Auschwitz

FARE POESIA DOPO AUSCHWITZ

Iniziamo un percorso all’interno delle poesie di Primo Levi, proponendo l’approfondimento di suoi testi molto noti, che vale sempre la pena di ricordare come testimonianza della Shoà.
E’ famosa l’affermazione di Adorno del 1949: “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto barbarico”: secondo un primo significato, ciò indica che dopo Auschwitz è impossibile, o ingiusto, fare poesia. Il termine “barbarico”, però, potrebbe anche significare “irrazionale”: quanto è accaduto chiederebbe al poeta di “ricollocarsi entro uno stato percettivo e cognitivo tutto straniero e anteriore rispetto a quello della cultura occidentale, fondata sui principi (…) della razionalizzazione”.

Primo Levi si pone più semplicemente rispetto al problema: in una intervista del 1984 con Giulio Nascimbeni che gli riproponeva l’affermazione di Adorno, egli risponde: “La mia esperienza è stata opposta. Allora (nel 1945-46 n.d.r.) mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro (…): In quegli anni, semmai, avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz”, “…o per lo meno tenendo conto di Auschwitz”. Perché è stato un evento irreversibile nella storia umana, aggiungerà in una conversazione con Lucia Borgia.

 

In una intervista del settembre-ottobre 1986 su Qol preciserà ulteriormente: “Io credo che si possa fare poesia dopo Auschwitz, ma non si possa fare poesia dimenticando Auschwitz. Una poesia oggi di tipo decadente, di tipo intimistico, di tipo sentimentale, non è che sia proibita, però suona stonata. Mi pare che la poesia oggi, in qualche modo dovrebbe essere impegnata. Impegnata anche se non in modo vistoso. In modo esplicito, ma siccome penso che ogni essere umano debba in qualche modo impegnarsi, così a maggior ragione chi scrive prosa o poesia dovrebbe riflettere nel suo scritto un suo impegno. Ma non è un precetto, è una preferenza”.

Shemà

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

(10 gennaio 1946)

Questo articolo è uscito con il medesimo titolo su Peacelink del 27 gennaio 2022.

Biblioteche: partecipazione vera o finta?
L’Amministrazione Comunale di Ferrara preferisce decidere da sola.

 

Finalmente è  arrivato il momento della partecipazione?!?
Abbiamo appreso dalla stampa cittadina che, nei prossimi giorni, partirà il progetto “Cara biblioteca”, organizzato dall’Amministrazione comunale di Ferrara e volto a coinvolgere i cittadini nella definizione del futuro del sistema bibliotecario comunale. Parrebbe una buona notizia, dopo l’insistenza con cui, in vari modi, da più di 2 anni, bibliotecari, cittadini, Associazioni che hanno a cuore le politiche culturali nella città avevano sottolineato la necessità di procedere in questa direzione.
Di criticità, però, a questo proposito, ce ne sono molte e non si può certo dire che siano il prodotto dei soliti malcontenti o che giungano improvvisati.

In primo luogo, quest’ascolto dei cittadini, organizzato tramite 5 assemblee, avviene a valle della decisione dell’Amministrazione Comunale di esternalizzare le biblioteche Rodari di viale Krasnodar e Luppi di Porotto, avvenuta nei mesi passati.
Esternalizzare, o sarebbe meglio dire, privatizzare 2 delle 6 biblioteche esistenti nel territorio comunale non è un fatto di poco conto. Ha significato cambiare volto al sistema bibliotecario ferrarese nel senso di un evidente disinvestimento e deresponsabilizzazione dell’Amministrazione comunale in questo settore.

Logica avrebbe voluto che una scelta di questo tipo, come peraltro richiesto in tante occasioni e da molti soggetti, dovesse eventualmente avvenire dopo aver messo in campo un reale processo partecipativo e di ascolto dei cittadini. Decidere prima e chiamare poi a discutere, se è ancora possibile poter dire la propria su questo cambiamento, non depone certamente a favore della bontà e delle reali intenzioni di chi oggi promuove questo percorso.

Ancor più, vale la pena ragionare su come esso si dovrebbe svolgere.
Al di là del coinvolgimento assembleare e della sottolineatura dell’importanza dell’ascolto, passaggio certamente importante e che si spera venga promosso non solo con l’informazione tramite articoli di stampa, occorre chiedersi cosa vuol dire realizzare una reale partecipazione
Se s
i intende, cioè, la reale possibilità per i cittadini, in termini individuali ma anche collettivi, di poter contare nella formazione delle decisioni. Oppure essi siano semplicemente chiamati ad esprimere un’opinione che non è dato sapere quanto potrà essere tenuta in considerazione e tantomeno influire nelle nelle scelte che si andranno a compiere.

Non mi si dica che dire ciò significa avere una posizione pregiudiziale o essere animati da uno spirito sospettoso. Basta ragionare su ciò che è successo negli anni passati, quando sono stati utilizzati varie forme e strumenti, compresi quelli  previsti dallo Statuto comunale, per sollecitare l’Amministrazione comunale ad attivare una seria partecipazione e discussione.

Nei mesi di ottobre e novembre del 2019 è stata promossa, da parte dell’assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori delle biblioteche, con il sostegno dei sindacati di categoria CGIL CISL UIL, una petizione rivolta all’Amministrazione comunale che chiedeva di dar vita ad una nuova e importante struttura bibliotecaria nell’area Sud della città, procedere ad assunzioni adeguate di personale comunale e rinnovare il modello bibliotecario.

Sulla petizione sono state raccolte più di 2000 firme e, da parte dell’Amministrazione comunale, sono arrivate solo risposte generiche, ma nessun impegno concreto.
Sull’ipotesi di una nuova struttura bibliotecaria nell’area Sud della città, assistiamo all’alternarsi, quasi con un andamento carsico, di dichiarazioni di intenti e assenza di iniziative fattive in proposito.
Sulle assunzioni di bibliotecari comunali, a fronte dell’uscita progressiva degli stessi per il pensionamento, non si procede neanche alla loro sostituzione integrale.
Sulla assoluta necessità di un nuovo modello bibliotecario all’altezza dei tempi, di cui non si intravede neanche l’ombra di un impegno in questo senso.
Analogo destino l’ha subito un’altra petizione, promossa nella primavera del 2021 dal Gruppo cittadine e cittadini a difesa delle biblioteche, su cui si erano registrate un migliaio di adesioni individuali e più di 30 tra Associazioni e organizzazioni sociali e culturali, per certi versi ancora più circonstanziata nei contenuti e tanto più ignorata.

In ogni caso, se l’Amministrazione comunale è seriamente intenzionata a portare avanti un reale percorso partecipativo, lo può dimostrare con i fatti.

Esso, infatti, per essere tale, oltre al momento dell’ascolto, si regge se ha almeno altri due punti di svolgimento.
Il primo è quello, una volta terminata la fase di espressione delle domande e dei bisogni, di dar vita ad un Tavolo partecipativo, promosso dall’Amministrazione comunale, cui chiamare Associazioni e soggetti interessati alle politiche culturali nella città, rappresentanze dei cittadini che hanno partecipato alle assemblee preparatorie, gli stessi bibliotecari, il cui ruolo è fondamentale e sarebbe certamente sminuito se rimanesse limitato ad un incontro preliminare, come quello rivolto agli utenti.
Tale Tavolo dovrebbe avere il compito di elaborare proposte e allargare la discussione, chiamando anche “esperti” e confrontandosi con altre esperienze esistenti al di fuori della nostra città e che si cimentano con il tema di costruire sistemi bibliotecari adeguati agli anni che stiamo vivendo.

Da lì dovrebbero scaturire le linee di un nuovo progetto per disegnare il futuro del sistema bibliotecario a Ferrara, che poi – ed è questo il secondo punto di ulteriore sviluppo di un meccanismo partecipativo – andrebbero riportate alla discussione di tutti i cittadini interessati, con una nuova tornata assembleare.

Sono questi i basilari e sperimentati passaggi su cui si fonda una partecipazione capace di dare protagonismo ai soggetti interessati: ascolto e esplicitazione dei bisogni, costruzione di un’ipotesi di progetto di intervento, verifica della stessa attraverso una discussione larga.

Se non ci si incammina su questa strada, vuol dire che siamo di fronte ad un’idea di partecipazione guidata dall’alto, che serve solo ad autolegittimare le scelte di un’Amministrazione autoreferenziale e nessuna intenzione di tener conto di quello che pensano i cittadini/utenti e le persone che lavorano nel sistema bibliotecario.

Un modo di procedere che abbiamo già visto in passato, con Amministrazioni precedenti, e che si conferma oggi. Sul nodo biblioteche ma anche su altre questioni e situazioni.
Sembra che, da un po’ di tempo in qua, da piazza Municipale in molti si esercitino a magnificare la partecipazione e, contemporaneamente, lavorino per depotenziarla e renderla inoffensiva, rendendo residuale il ruolo dei cittadini, delle Associazioni, dei soggetti sociali e dei lavoratori.
E lo sappiamo bene, senza un vero protagonismo, nessun progetto, anche il più innovativo, riesce realmente a decollare e vivere.

Allora sì, come giustamente ha rilevato Ranieri Varese qualche giorno fa, saremmo solamente di fronte all’ennesima conferma che non c’è una volontà di assumersi responsabilità, capacità di progettare il futuro, rilanciare una forte presenza pubblica nel sistema culturale e bibliotecario della città.

Per leggere tutti gli articoli di Corrado Oddi è sufficiente cliccare il suo nome sotto il titolo.

CONTRO VERSO
Filastrocca dei miei panni (quasi un rap)

 

Michael ha 15 anni e diverse denunce. Un padre violento da sempre, da cui ha chiesto di essere protetto. La violenza che ha subito, lui l’ha imparata. Adesso che gli educatori vorrebbero aiutarlo la sputa indietro, non riesce a fidarsi, fa e si fa del male, molto male.
C’è chi dice che non si possa più fare niente per Michael, a parte prescrivere gli psicofarmaci adatti.

Filastrocca dei miei panni (quasi un rap)

Sono tutto matto – matto, matto
vivo soddisfatto – tanto, tanto
di tenervi in scacco, scacco matto
sotto ad ogni attacco che vi faccio.

Perché sono matto, assai violento
sono il più tremendo e vi tormento
rompo tutto quanto, scappo, arraffo
urlo vi distruggo e mi fa un baffo

che ci sia un’udienza, una pendenza.
Forse una condanna è la sentenza
ma ci sono nato, è la violenza
quella che ha plasmato ormai l’essenza

di ogni relazione. È la ragione
che mi fa potente tra la gente
e immediatamente mi consente
di sciupare tutto ciò che tocco.

Perché ve l’ho detto, sono tocco,
quel che tocco rompo e lo distruggo
se mi dai un confine sai che fuggo
ho già visto troppo e sono matto.

Vedo mio fratello, dolce e bello.
Vedo poi mio padre, e il ritornello:
lui che col bastone, a suon di botte
ci distrusse troppe, troppe volte.

E da qui vi osservo, rido e faccio
tutto ciò che voglio, strappo, straccio,
butto varechina, e la catena
l’àgito all’istante su un passante.

Sono adolescente, e della gente
me ne importa poco, anzi, niente.
Vivo con un tarlo nella mente.
Sono matto, mica deficiente.

Giro per il mondo, ho 15 anni,
so che se mi guardi mi condanni.
Prova tu a campare nei miei panni!
Vieni solo un giorno nei miei panni!

Una delle possibili conseguenze del maltrattamento sui bambini è che questi, crescendo, diventino a loro volta violenti. Non c’è niente di preordinato nel comportamento umano e non è detto che accada, ma una correlazione esiste ed è tutto sommato comprensibile: se si è sperimentato per anni che i rapporti più importanti si definiscono secondo la legge del più forte, meglio trovarsi dalla parte di chi si impone che da quella di chi soccombe.

CONTRO VERSO, la rubrica di Elena Buccoliero con le filastrocche all’incontrario, le rime bambine destinate agli adulti, esce su Ferraraitalia  il venerdì. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

BOMBE SU FERRARA:
il racconto dei bombardamenti del 29 dicembre ’43 e 28 gennaio ’44

 

Presentazione di Roberto Paltrinieri

Tra i molteplici effetti positivi dello scrivere vi è la capacità di suscitare nel lettore emozioni, muovere tutta una serie di riflessioni, considerazioni personali a volte così profonde e coinvolgenti da far nascere una significativa relazione tra chi scrive e chi legge.
Certo si tratta nella maggior parte dei casi, di una relazione “ a distanza”, ma in alcuni casi fortunati si trasforma in una relazione interpersonale vera e propria.
Proprio questo è capitato tra il sottoscritto e Carmelo Galeotti, di cui ho il piacere di presentare su questo giornale, un suo scritto sul primo bombardamento avvenuto verso la fine della seconda guerra mondiale, a Ferrara nel dicembre del 1943.
Carmelo aveva letto alcuni miei racconti pubblicati su FerraraItalia, che avevano suscitato ricordi molto piacevoli sulla sua giovinezza. Pochi mesi fa ho ricevuto una sua graditissima lettera dove mi sono reso conto che Carmelo, per gli amici Melo, oltre che essere un distinto signore di novantasette anni ancora molto attivo, è un valente scrittore.

Carmelo Galeotti nasce a Messina nel 1925. Vive la sua adolescenza a Tripoli di Libia, allora Colonia italiana dove, dopo la crisi mondiale del 1929 si è trasferita la sua famiglia e dove il padre ha un bar gelateria, una torrefazione di caffè e una piccola distilleria.
Nel 1940, con la Seconda Guerra Mondiale, Tripoli è territorio Oltremare e zona di operazioni di guerra.
Nel 1941 deve interrompere gli studi e poi rientrare i Italia dove, dopo varie peregrinazioni come profugo di guerra, arriva a Ferrara nel 1943.
Qui continua gli studi e nel 1949 si laurea in ingegneria civile nell’Università di Bologna.
La sua attività professionale si svolge tutta nell’Ente Pubblico. Prima , per un anno, come assistente volontario, senza stipendio, nell’Istituto di Scienza delle Costruzioni dell’Università di Bologna, poi nel Comune di Ferrara e poi, in Provincia di Ferrara dove, concorso dopo concorso, giunge al grado apicale di Ingegnere Capo.
Dal 1990 è in pensione.

Carmelo è anche uno scrittore particolarmente dotato.
Pochi anni fa ha scritto un libro di natura autobiografica dal titolo che prende il nome da quello della sua famiglia ,“Galeotti”, ma che in verità è molto più di una banale saga di una famiglia siciliana, è piuttosto un vero atto di amore verso la Vita.
Un libro bellissimo, ancora non pubblicato, che ho avuto il piacere di leggere, dove viene riportata anche la descrizione del primo bombardamento su Ferrara nel ’43.

Ed ecco che sono arrivato.
Carmelo legge il mio racconto L’amore di Nina, racconto che prende il via dalle conseguenze del secondo bombardamento su Ferrara del 28 gennaio del 1944. e mi propone di pubblicare per il giorno dell’anniversario di quell’avvenimento terribile per la nostra città, il brano sul primo bombardamento tratto dal suo libro.

BOMBE SU FERRARA

di Carmelo Galeotti

Era un mercoledì. La giornata si annunciò fredda e senza vento, il cielo sin dalle prime ore, divenne azzurro così profondo come raramente accade a Ferrara, città piatta e liscia di pianura, figlia sottomessa della nebbia.
Melo e Valentino, suggestionati da queste frizzanti condizioni atmosferiche, dopo la frugale colazione a base di caffè di orzo tostato e macinato fatto in casa da mamma Maria, uscirono di casa respirando a pieni polmoni.
Non avevano impegni per quel mattino
La loro giovane età e l’eccezionale bel tempo avevano fatto effetto di una inconsapevole euforia.
Di certo, non sarebbero stati così euforici se il tempo fosse stato come nelle settimane precedenti, con le giornate piene zeppe di nebbia fitta e umida da gelare le ossa, con la gente dall’aspetto triste che si trascinava per le strade con facce smunte e occhiaie livide.
La bella giornata li aveva contagiati e erano speranzosi, non avevano dubbi le cose sarebbero certamente cambiate in meglio.
Per l’avvenire il tempo avrebbe giocato a loro favore.
D’altronde …peggio di come erano ora le cose….
Si diressero verso la piazza del Duomo dove c’erano cartelloni che portavano affissi le copie della stampa locale: il Corriere Padano ed un altro giornalucolo, edito dalla Federazione Fascista, poi c’era una copia del Bollettino di guerra del giorno precedente, poi c’erano i manifesti degli spettacoli dei cinema.
Sfiorarono con una occhiata il Corriere che, con un titolone, riportava:
“a Ortona le truppe germaniche hanno scritto una pagina di storia”
In seconda pagina, invece, lessero notizie che li fece sorridere:
“ …la Finanza ha inferto un duro colpo al mercato nero : sequestrati 52 chili di residui di tabacco..”
Ormai anche le cicche mozziconi di sigari e sigarette raccolti per terra, residui di tabacco fumato, erano diventate merce di qualità protetta.
“ … in via Voltino n° 5 , con un colpo ladresco i soliti ignoti hanno rubato un rimorchio di cui non si sa il valore, forse 18.000 lire.
La signora Pastorelli Maria ha udito i rumori dei ladri ma non è intervenuta perché è rimasta a letto…”
“… in questi giorni, per il mese in corso, saranno distribuiti 50 grammi di grasso in sostituzione dei 50 grammi di burro che non erano stati distribuiti…)
L’attenzione maggiore, però, la concentrarono sulle locandine dei cinema.
A Ferrara ne funzionavano sette: il Nuovo, l’ Apollo, il Ristori, il Boldini, il San Pietro, l’Estense in piazza Municipale, il Diana in piazza Travaglio.
Poteva essere lo svago per il pomeriggio, tanto più gradito perché assieme ad Armando Rosella, figlio del Comandante dei Carabinieri della caserma Pastrengo sarebbero entrati gratis al cinema.
Il maresciallo Rosella, di solito, comandava un carabiniere di accompagnare i tre ragazzi fino all’ingresso del cinema, poi con un cenno di intesa al botteghino li faceva accomodare nelle poltrone di platea.
Si avvicinava mezzogiorno quando decisero di tornare a casa per dare una mano alla mamma per il pranzo.
Si apparecchiava la tavola, si grattava un po’ di formaggio da una rinsecchita crosta di parmigiano, si andava a prendere in cantina un paio di tronchetti di legna da ardere nella “cucina economica” a tre fuochi e fornetto.
I tronchetti di legna costituivano un combustibile problematico perché la legna era umida, faceva fumo, aveva un potere calorifero basso e bisognava avere molta perizia e tanta pazienza, per ottenere un fuoco sufficientemente acceso.
Per ottenere qualche vantaggio, nelle settimane precedenti nelle lunghe serate d’autunno si era ricorso a creare del combustibile alternativo.
La trovata consisteva nell’appallottolare palle di carta di giornale, da incarto ed altro, macerate in acqua e lasciate essiccare.
Le palle di carta non producevano molto calore ma avevano il vantaggio di bruciare rapidamente così da essere un buon comburente per i tronchetti legna e per qualche misero pezzo di carbone coke.

Dopo la colazione di mezzogiorno, toccò a uno dei due fratelli lavare i piatti sfregandoli con la cenere delle palle di carta raccolta nel cinerario del fornello della cucina.
Gli altri ascoltavano la voce della radio, quella nazionale dell’EIAR a volume normale, quella di Radio Londra quasi un bisbiglio.
Erano da poco passate le 13,30 quando un cupo ronzio di aerei si fece sempre più forte provenendo da ovest.
Certamente uno stormo di bombardieri.
Con il sole alle spalle era la condizione ideale per bombardare Ferrara eludendo l’artiglieria contraerea.
Ma la contraerea non sparò neanche un colpo, non ci fu nessuna reazione.
Probabilmente gli artiglieri stavano facendo la digestione del rancio, giocando a carte.
Il bombardamento, il primo di una successiva lunga serie, su Ferrara città inerme, fu molto brutto
Tutta la famiglia Galeotti scese a rotta di collo le scale dall’ultimo piano dell’edificio fino all’interrato della cantina
L’edificio sorgeva a qualche centinaio di metri dalla stazione ferroviaria e le bombe caddero a grappoli così vicine che le finestre furono divelte, i portoni sventrati.
Non ci fu nessuno scampo per quei sventurati delle case colpite.
Dopo qualche minuto il ronzio dei bombardieri si allontanò verso est lasciando Ferrara sotto una densa nuvola gialla.

Il racconto del bombardamento di Ferrara, corre il rischio di cadere nel banale usando i soliti aggettivi di effetto privi di originalità identici a tanti altri racconti di analoghi avvenimenti.
Ciò capita perché può identificarsi con il fenomeno psichico dell’alterazione dei ricordi per indurre nei lettori o gli ascoltatori di oggi quel senso tragico e angoscioso di allora.
D’altronde, dopo oltre settanta anni, un racconto aderente alla realtà del vero avvenimento creerebbe poche emozioni.
La dura realtà è che in quel primo bombardamento morirono nel giro di pochi minuti trecento dodici persone, uomini donne bambini.
Nei mesi successivi, molti altri disgraziati morirono per lo scoppio di residuati bellici.
Oggi, quando si trova qualche residuato bellico arrugginito corroso e quasi inoffensivo, la stampa ed i media ne danno un risalto nazionale.
Si evacuano interi quartieri cittadini e si paralizza ogni attività per ore poi si fa brillare l’ordigno profondamente interrato che scoppia con un soffocato rumore.
Nel bombardamento di Ferrara, in quel primo bombardamento, di quegli ordigni ne esplosero in pochi minuti qualche centinaio.
Negli oltre venti bombardamenti ed incursioni su Ferrara, di quelle bombe di aereo esplosero migliaia.
Melo e Valentino, frastornati per lo scampato pericolo, uscirono per strada ancora sotto il fitto polverio dei mattoni e dei calcinacci polverizzati dalle bombe.
Intanto che il vento disperdeva la fitta nuvolaglia videro gente impaurita che correva o che si guardava attorno indecisa che fare.
Gente incredula e sbigottita.
L’impressione più impressionante la fece un tizio, un poveraccio, che in mezzo alla strada, si muoveva come se cercasse una direzione dove andare.
Era come uno di quei manichini usciti dal pennello di De Chirico.
Al posto della testa di un comune normale essere umano, con i capelli, il naso, la bocca, aveva un’informe testa
Una testa a forma d’uovo, che a differenza dei manichini di De Chirico aveva quattro fori: due per gli occhi e le due per le narici in cui le palpebre degli occhi battevano in cerca di pulizia e luce e le narici si dilatavano in cerca d’aria.
Una mano poderosa sembrava che l’avesse preso per i piedi e a testa in giù l’avesse immerso una vasca piena di una liquida poltiglia di malta da muratore.
Il poveraccio si sfregò li occhi e si pulì la bocca e, dopo qualche istante, come se avesse indovinato una direzione, barcollando voltò l’angolo e sparì.
L’indomani mattina, 30 dicembre 1943, quando aprì l’Anagrafe del Municipio, c’era una ressa di persone davanti la porta dell’ufficio dell’Ufficiale dello Stato Civile.
La moltitudine di persone stava facendo la coda per denunciare la morte “per incursione aerea” di congiunti o amici.

Nel giro di pochi minuti gli stampati di “dichiarazione di morte” si esaurirono, e una squadra di dattilografe dovette fare gli straordinari fino a sera per stampare a macchina le dichiarazioni sostitutive.
Per guadagnare tempo, l’Ufficiale di Stato Civile ordinò alle dattilografe di scrivere negli Atti “ m. p. i. a.” al posto di “morto per incursione aerea” e, “U.S.C.” al posto della firma: “L’Ufficiale dello Stato Civile”
Gli Atti di morte di quel primo bombardamento, tuttora conservati nell’Archivio dello Stato Civile, sono trecento dodici.
In essi figurano 176 donne e 75 bambini, di cui il più piccolo aveva otto giorni e il più grande quindici anni.
Alla fine della guerra nell’aprile di due anni dopo, soltanto nel Comune di Ferrara, si contarono i morti : 1071 civili di cui circa 800 donne e circa 250 bambini.

Oggi, scrivendo ad oltre settanta anni, della tragica fine di circa duecento cinquanta bambini, si viene colti da una amara tristezza:
“..neanche Erode nella strage degli innocenti era stato capace di tanto..”
Questo fu il luttuoso contributo di Ferrara, città che a detta dei soliti “saputissimi” doveva essere una città “a vocazione agricola”, di “scarso interesse bellico” non “bombardabile” perché “città di Italo Balbo amico degli inglesi e beneamato dagli americani”
L’esperienza e, in particolare questo tipo di esperienza, insegna ed ammonisce: mai dare credito ai soliti saputissimi.

Cover: Ferrara bombardata – i luoghi del disastro (immagine tratta da: https://resistenzamappe.it/)

Celati forever (11):
I lettori di libri sono sempre più falsi

 

Uno studente di letteratura venuto a Milano per seguire i corsi di letteratura all’università, ha cercato a lungo di comprendere cosa vogliano dire i libri, e cosa vogliano dire i professori che parlano di libri e di letteratura.
Appena sbarcato all’università aveva subito cominciato a sentirsi a disagio, perché tutti i discorsi che ascoltava durante le lezioni erano per lui incomprensibili. Inoltre si vergognava di provenire da un istituto tecnico professionale, i cui studenti sono considerati inferiori a quelli che provengono dal liceo, e così spesso il nostro studente arrossiva.
[…]
Un giorno ha conosciuto quattro studenti napoletani e si è accorto che questi, grazie alla loro lunga esperienza di studenti falliti e fuori corso, erano giunti a farsi qualche idea su cosa succede nelle aule universitarie. Il nostro studente non era ancora riuscito a trovare un libro che gli spiegasse di cosa parlano i libri e i professori, e dunque s’è rivolto ai quattro napoletani, i quali ben volentieri hanno accettato di spiegargli le idee che si erano fatti in materia.
Gli hanno detto che nelle aule universitarie ogni insegnante non fa che vantarsi d’aver capito benissimo i libri che ha letto, e che gli studenti debbono solo imparare a far la stessa cosa.
[…]
Gli hanno spiegato che da un libro bastava ricavare poche frasi di rilievo, in modo da opporre un’idea ad un’altra idea, e così mostrare di aver capito tutto. Anzi, secondo loro le frasi di rilievo non bisognava neanche ricavarle dal libro, bensì dall’introduzione che spiega di cosa parla il librio, e questo era il metodo migliore. ha trovato il coraggio 

Mettendo in pratica questi consigli, lo studente di letteratura è effettivamente riuscito a superare alcuni esami con buoni voti. A questo punto però gli è sorto un dubbio, sul quale ha rimuginato alcuni mesi, con la testa confusa. Il dubbio era questo: mentre per lui era molto chiaro che i professori non parlano per vantare quello che c’è scritto nei libri, bensì soltanto per vantare se stessi di averlo capito, per lo stesso motivo non gli era affatto chiaro cosa ci fosse scritto nei libri, e dunque di cosa parlasse egli stesso quando a un esame si vantava di averli capiti.
Bloccato da questo dubbio vagava per le strade pensandoci su, e senza più pensare agli esami che avrebbe dovuto sostenere. Finché un giorno ha trovato il coraggio di esporre ai quattro ragazzi napoletani il suo problema, con queste parole: «Insomma, se i professori non fanno che parlare di quello che hanno capito, di cosa parlano i libri?»
I quattro gli hanno allegramente risposto di non saperne nulla, e la stessa cosa gli hanno risposto gli altri studenti a cui ha sottoposto il problema, nonché due due assistenti universitari piuttosto allibiti davanti a una simile domanda. La domanda però gli sembrava plausibile, allora il nostro studente ha ricominciato a vergognarsi e arrossire, non solo perché non capiva, ma perché gli altri deridevano i suoi sforzi per capire.
La sua situazione di studente diventava sempre più insostenibile. Con tali dubbi in testa e vedendo che per gli altri tutto ciò non aveva senso ., s’è quindi risolto ad abbandonare l’università ed a troncare ogni rapporto con le compagnie di studenti assieme a cui viveva, per i quali i libri erano soltanto qualcosa che bisognava fingere di aver capito, fingendo di aver capito cosa avevano capito i professori, onde sostenere gli esami.
Ha deciso di cercare un posto dove potersi dare alla lettura di moltissimi libri per conto suo (senza ascoltare le vanterie dei professori), in modo da riuscire a capire finalmente ad appurare di cosa parlassero e cosa volessero dire i libri.
[…]

Gianni Celati, “I lettori di libri sono sempre più falsi”, sta in Quattro novelle sulle apparenze, Milano, Feltrinelli, 2000, poi Quodlibet, 2017

Per leggere tutti i testi di Gianni Celati su questo quotidiano, clicca [Qui]
Puoi visitare l’esposizione NEL MIO DESTINO DI DISAVVENTURE PERPETUE: OMAGGIO A GIANNI CELATI presso la Biblioteca Bertoldi di Argenta fino al 31 gennaio 2022.

La Memoria di Ferrara:
ma l’Olocausto non è un Festival

Come è possibile dimenticare che Ferrara è stata culla dell’Ebraismo, con una Comunità Ebraica che affonda le sue radici nel XII secolo?

Stiamo parlando della città di Giorgio Bassani, autore de Gli occhiali d’oro Il giardino dei Finzi Contini, divenuto poi famoso in tutto il mondo grazie all’omonimo film del regista Vittorio De Sica [Qui].

Come dimenticare che, dei cento ebrei ferraresi deportati nei campi di sterminio, solamente cinque di loro hanno fatto ritorno?

Non si placano le critiche sull’inadeguata e infelice definizione di Festival delle Memorie per le iniziative in programma a Ferrara in occasione del Giorno della Memoria, 27 gennaio, nonostante il repentino cambio di nome in Settimana delle Memorie , da molti visto come una banale ‘arrampicata sugli specchi’.
Gli autori di questo cosiddetto ‘festival’ sarebbero l’attore Moni Ovadia [Qui], attuale direttore artistico del teatro Comunale di Ferrara, e il prof. Vittorio Sgarbi, come presidente di Ferrara Arte.
Numerosissimi i commenti e gli articoli negativi da parte dei membri della comunità ebraica, rappresentati anche da personalità di rilievo, indignati dall’organizzazione e dal messaggio che essa propone.
L’amico professore universitario Ugo Volli, scrittore e autore del libro Mai più! Usi e abusi del giorno della memoria, ha commentato a riguardo: “E’ possibile accostare la parola ‘festa’ (da cui ‘festival’ evidentemente deriva) al genocidio, alla strage e alla tortura di milioni di persone? Chi può essere così perverso e insensibile da pensare ad una Sanremo della Shoah?”
“Festival delle Memorie a Ferrara?”, scrive la giornalista Deborah Fait, “Banalizzazione della Shoah. Un minestrone di banalità, un’insalata russa di genocidi avvenuti nella storia. Il 27 gennaio è la data istituzionale legiferata nel 2005 dall’Assemblea delle Nazioni Unite per non dimenticare il genocidio del popolo ebraico. Tutti gli altri genocidi hanno le loro date specifiche”.
Anche Kiwan Kiwan, politico ferrarese di origini libanesi, sottolinea che “tutte le storie non possono essere accomunate per il solo fatto che hanno prodotto un genocidio”.
Ogni storia è a sè, ognuna ha la sua drammatica identità, e accomunarle e non dar loro separatamente il giusto rilievo vuol dire sminuire tutti i genocidi perpetrati nella storia.
Non poteva mancare il commento di Vittorio Polacco, uno degli ultimi sopravvissuti che sarà ospite giovedì 27 alla trasmissione I fatti vostri su Rai2: “La Memoria non può e non deve essere un festival. Chi vi scrive è un reduce della retata del 16 ottobre a Roma; caricato sul camion tedesco con nonni, zii e cugini, e di quel camion solo io mi sono salvato”.
Durante la conferenza stampa per la presentazione del Festival, Sgarbi ha voluto esternare un giudizio dell’amico Ovadia sul fantomatico ‘genocidio palestinese’ ad opera di Israele. L’atteggiamento e il pensiero di Moni Ovadia, ‘antitutto per eccellenza’ quando si parla di ebrei e di Israele, non rappresentano certo una novità agli occhi della comunità ebraica.
La delusione di molti deriva proprio da Vittorio Sgarbi, che ha scelto il momento meno adatto per certe dichiarazioni. Sgarbi si è sempre dichiarato amico degli ebrei e di Israele, dichiarando in passato che “Israele si difende da un estremismo fanatico. Gli israeliani non accoltellano i turisti per strada. Non lanciano quotidianamente razzi contro le abitazioni civili. Non incitano i giovani al martirio imbottendo loro di esplosivi. Si difendono. Contro gli israeliani e gli ebrei in particolare, pregiudizi inaccettabili, frutto di disinformazione e di rancore ideologico”.
E mentre noi scegliamo di generalizzare la Memoria di un’intera comunità, mettendola a paragone con altri drammatici eventi della storia dell’Uomo, nella giornata ad essa dedicata, pochi giorni fa in Toscana due ragazzine quindicenni sputavano e insultavano un dodicenne ‘semplicemente’ perché ebreo.
“Non ricordate gli ebrei morti, se non difendete quelli vivi”. Dobbiamo porci molte domande.

LA NAZIONE DELLE PIANTE E L’ASSALTO DELL’ANTROPOCENE

 

Un vero capodanno degli alberi, Rosh Hashana Lailanot, come gli ebrei, per Tu Bishvat, il 15 del mese di Shevat, per noi il 17 gennaio 2022. Questo vorrei per cominciare meglio l’anno.

La festa dell’albero del 21 novembre non mi convince. Non si direbbe più che Epifania tutte le feste porta via.
Inoltre quest’anno il capodanno degli alberi coincide con il Befanone, al Vción, Sant’Antonio abate insomma. Benedice gli animali, porta doni ai bimbi trascurati da altri passaggi (San Nicola, Santa Lucia, Babbo Natale, Befana), ricorda a tutti l’imprevedibilità dell’amore: al s’era inamurà int un busghìn, un maialino. Un giorno che ci ricordi il nostro legame con la natura, con gli alberi in particolare. Un giorno in cui gustare frutti e vini diversi, buoni però.

C’è bisogno di un capodanno così. La Fao ci ricorda che la deforestazione continua, al ritmo di 10 milioni di ettari all’anno, nell’ultimo quinquennio. In quello precedente erano 12 milioni, nel primo decennio del 2000 erano 15, e 16 tra il 1990 e il 2000. L’anno scorso siamo tornati ai 12 milioni. Nella sola Amazzonia è stato deforestato il 22% di suolo in più rispetto all’anno precedente.

In questa ricorrenza i bambini israeliani piantano alberelli. Lo farebbero anche da noi con la serietà che è propria di bimbi consapevoli dell’importanza dell’azione. “Se stai piantando un albero e ti dicono che è arrivato il Messia, prima finisci di piantare l’albero e poi vai ad accogliere il Messia”.

La nostra biografia si farebbe ecobiografia: “Io sono vita che vuole vivere, circondata da vita che vuole vivere” come scrive Jean-Philippe Pierron. Tutti siamo stati “arboricoli”, aggiunge. “Eravamo piccoli, ma talmente più grandi, quando, nell’albero dei nostri giochi, afferravamo con una mano un ramo più alto. E appollaiati su di esso, le ore meravigliate a contemplare la storia della specie che s’inventava in noi”. Arboricolo è, per tacere di Tarzan, il barone rampante che al padre oppone un irreplicabile “Ma io dagli alberi piscio più lontano!”. A tanto non mi sono spinto, non procedendo, bambino, oltre i rami più bassi dell’albero più alto della scuola di Roncobonoldo.

C’è chi continua ad abbracciare gli alberi, come fa Luca Zampini, testimoniandolo con le sue fotografie. È grazie a lui se le piante ci guardano con occhi meno severi: “Ci osservano gli alberi. Vorrebbero che noi ci accorgessimo di quanto è innaturale il mondo che gli abbiamo creato intorno. Ci guardano nella speranza che provvediamo a migliorarlo. Resistono e soffrono. Superstiti sempre più radi, troppo poco importanti ai nostri giorni per meritare attenzione”.

Bruno Latour, mette in evidenza come sia la stessa storia fisica e mentale degli umani ad essere legata a quella dei non umani e all’ambiente. Una visione più completa delle richieste e dei diritti delle parti in causa potrebbe darcela un “parlamento delle cose”. O almeno un “parlamento dei viventi”, evocato da Marielle Macé: “La terra si fa sentire, il parlamento dei viventi chiede ora di essere allargato. Esteso ad altre voci, altre intelligenze, altri modi di fare per vivere… L’ampliamento radicale delle forme di vita da considerare e degli accordi da costruire, questo è il punto cruciale”.

La posizione delle piante è nota, grazie a Stefano Mancuso, che, conoscendole bene ne ha stilato la Carta dei Diritti1. La Terra è la casa comune della vita. La sovranità appartiene ad ogni essere vivente. 2. La Nazione delle Piante riconosce e garantisce i diritti inviolabili delle comunità naturali come società basate sulle relazioni fra gli organismi che le compongono. 3. La Nazione delle Piante non riconosce le gerarchie animali, fondate su centri di comando e funzioni concentrate, e favorisce democrazie vegetali diffuse e decentralizzate. 4. La Nazione delle Piante rispetta universalmente i diritti dei viventi attuali e di quelli delle prossime generazioni. 5. La Nazione delle Piante garantisce il diritto all’acqua, al suolo e all’atmosfera puliti. 6. Il consumo di qualsiasi risorsa non ricostituibile per le generazioni dei viventi è vietato. 7. La Nazione delle Piante non ha confini. Ogni essere vivente è libero di transitarvi, trasferirsi, vivervi, senza alcuna limitazione. 8. La Nazione delle Piante riconosce e favorisce il mutuo appoggio fra le comunità naturali di esseri viventi come strumento di convivenza e di progresso.

Mi viene in mente Capitini: si interroga se sia indifferente per il carbone restare dov’è o essere utilizzato dall’uomo. Non sa darsi una risposta, però si fa vegetariano e sa che solo il fiore che non cogli è tuo. Nonviolenza, del resto, è apertura a esistenza, libertà, sviluppo di tutti gli esseri. L’assalto agli alberi, con la deforestazione, è alla base del virus di successo con il quale ci stiamo confrontando. Vacciniamo – questo è un bene – i popoli ricchi, e non i poveri – questo è un male – assicurando così la diffusione della pandemia. Si è rotto il climatizzatore della fabbrica del mondo, ci ripetono Marco Paolini e Telmo Pievani. Appare necessario e urgente un processo costituente, capace di trarre il meglio dalla nostra esperienza, senza che la paura ci rinchiuda – lo sta facendo – in identità di “sangue e terra”, già sperimentate col nazismo.

Una splendida introduzione a una possibile Costituzione della terra l’ha scritta Luigi FerrajoliNon si è fermato qui. Ha tracciato la Carta della Nazione degli Umani in un testo di 100 articoli. La prima parte enuncia principi e diritti fondamentali, la seconda poteri e organizzazione. L’impegno è costituzionalizzare la globalizzazione, globalizzare il garantismo costituzionale.

“L’umanità si trova oggi di fronte ad emergenze e a sfide globali che mettono in pericolo la sua stessa sopravvivenza: le devastazioni ambientali e il rischio di una prossima inabitabilità del pianeta, la minaccia nucleare generata da migliaia di testate atomiche, la crescita della povertà e la morte per fame o per malattie non curate di milioni di esseri umani, le ondate migratorie di masse crescenti di persone che fuggono dalla miseria, dagli sconvolgimenti climatici, dalle guerre civili e dalle persecuzioni politiche”. Non mi provo a riassumere il ricco articolato, una semplice bozza secondo Ferrajoli. Ne consiglio la lettura. Propongo solo i primi due articoli. Ce n’è abbastanza per orientare la nostra azione.

Articolo 1 La Terra, casa comune degli esseri viventi

La Terra è un pianeta vivente.
Essa appartiene, come casa comune, a tutti gli esseri viventi: agli esseri umani, agli animali e alle piante. Appartiene anche alle generazioni future, alle quali la nostra generazione ha il dovere di garantire, con la continuazione della storia, che esse vengano al mondo e possano sopravvivere. L’umanità fa parte della natura. La vita e la salute del genere umano dipendono dalla vitalità e dalla salute del mondo naturale e degli altri esseri viventi, animali e vegetali, che insieme agli esseri umani formano una famiglia accomunata da una stessa origine e da una globale interdipendenza.

Articolo 2 Le finalità della Federazione della Terra
I fini della Federazione della Terra sono: garantire la vita presente e futura sul nostro pianeta in tutte le sue forme e, a questo fine, porre termine alle emissioni di gas serra e al riscaldamento climatico, agli inquinamenti dell’aria, dell’acqua e del suolo, alle deforestazioni, alle aggressioni alla biodiversità e alle sofferenze crudeli inflitte agli animali; mantenere la pace e la sicurezza internazionale e, a questo fine, mettere al bando tutte le armi, nucleari e convenzionali, sopprimere gli eserciti nazionali e così realizzare il disarmo degli Stati e delle persone e il monopolio della forza in capo alle sole istituzioni di polizia; promuovere fra i popoli rapporti amichevoli di solidarietà e di cooperazione nella soluzione dei problemi globali di carattere ecologico, politico, economico e sociale e, a questo fine, garantire l’uguale dignità di tutte le persone e la conservazione e la tutela di tutti i beni vitali; realizzare l’uguaglianza di tutti gli esseri umani nei diritti fondamentali e, a questo fine, introdurre, in capo ad adeguate istituzioni e funzioni globali di garanzia, gli obblighi di prestazione e i divieti di lesione che a tali diritti corrispondono come loro garanzie.

Questo articolo, con altro titolo, è uscito il 24 gennaio sull’edizione online di Azione nonviolenta

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