Vite di carta /
L’irresistibile fascino del bancario
(specie se scrive romanzi)
Che sia questo il motivo del mio gradimento? Con la testa fra le mani di Nicola Cavallini mi sta piacendo, sono a circa cinquanta pagine dalla fine e mi ritrovo piena di curiosità; trovo con piacere il momento per dedicarmi alla lettura e intanto ripasso velocemente il dove ero rimasta.
Possibile? Il protagonista è un bancario, il dottor Marco Malucelli. Ha circa quarant’anni, è sposato con Francesca e insieme hanno un bambino, Matteo, di quattro anni. Non c’è nulla che mi riguardi e mi accomuni a lui, non la professione, né tanto meno l’età e la composizione della famiglia. In più, la sua è una lingua con una forte coloritura di genere, è un uomo che si esprime e utilizza i gerghi che gli sono propri, senza rinunciare a un pizzico di turpiloquio, se si può ancora chiamare così.
Mi rifugio nelle parti in cui Marco racconta come passa le giornate in ufficio e a quel punto fa ricorso al linguaggio bancario. E’ bravo: sento che potrei capirci qualcosa se le rileggessi un certo numero di volte.
Leggo con attenzione i resoconti delle trasmissioni radiofoniche che un paio di sere alla settimana tiene insieme all’amico Augusto e qui mi sento coinvolta, vagamente complice: le pagine sono dedicate a una passione, finalmente! Oltre, però, non vado perché non conosco il pop anglosassone, genere che i due amano alla follia e non so riconoscere un disco che uno. Un gruppo sì, solo gli Abba.
Eppure affronto le ultime cinquanta pagine con interesse. Nel punto in cui mi trovo la vita quotidiana di Marco e famiglia ha registrato un vistoso miglioramento: dopo un paio di errori commessi sul lavoro e dopo le conseguenze nefaste che questi hanno comportato sul bilancio famigliare e sulla sua autostima, Marco ha tentato di dare una svolta al destino. Come? Meglio non svelarlo, oppure meglio dire solo qualcosa, altrimenti non si comprendono alcuni dei motivi per cui il libro mi è piaciuto fino in fondo. Diciamo che insieme a Francesca ha messo in atto ‘un po’ di ricatto’ che ha fruttato un mucchio di soldi, ora fermi in una banca accuratamente scelta per non destare sospetti.
Questo romanzo ha un ottimo ritmo narrativo, un ritmo brioso, adatto ai trenta-quarant’anni (ecco uno dei motivi per cui mi diverte leggerlo): ergo non possiamo essere arrivati al traguardo della storia. Può succedere molto altro nelle cinquanta pagine che restano e infatti succede. Succede che la polizia indaga sulla truffa compiuta da un amico d’infanzia di Marco ai danni di numerose Assicurazioni e gli fa domande in proposito. La sua banca ha il truffatore tra i propri clienti. E’ una vertigine per Marco essere interrogato, si sente braccato, messo allo scoperto: è la truffa in cui ha messo il naso anche lui per ricavarne il suo gruzzolo!
Succede anche che, dopo essersi ripreso a fatica da questo episodio angoscioso, accetta di condurre una seconda trasmissione radiofonica assieme al fedele Augusto, trovando momenti di evasione che lo ritemprano. Dai due viene inserito in scaletta un quiz letterario che invita gli ascoltatori a riconoscere il titolo di un libro e il suo autore ascoltando l’incipit. In questo caso ne capisco qualcosa di più e allora trovo che i libri proposti sera dopo sera sono di grande qualità e rivelano la “genuina passione per la letteratura” del personaggio Marco e del suo autore (ecco un altro motivo di gradimento).
Poi la situazione precipita. Quando Marco legge un incipit che non esiste in letteratura, un inizio di romanzo formulato da lui in cui allude alla truffa alle Assicurazioni, solo chi ne è l’artefice è in grado di chiamare in radio e di dare la risposta giusta. Ora questo ascoltatore è al telefono e sfida Marco, dice il luogo e il momento in cui devono incontrarsi. La posta è altissima, la tensione narrativa al massimo. Sono arrivata all’ultima pagina e mi sento guardinga: è quando uno dei due vince che si conclude la storia? Per fortuna sì e no. Se ci si riferisce alla avventura in cui Marco ha voluto infilarsi, improvvisandosi truffatore, tutto è andato in fumo. Ha voluto uscire dal proprio calibro, dal suo lavoro nella filiale della banca, ma alla fine è rimasto schiacciato da ingranaggi più grandi di lui. E’ un bravo ragazzo, Marco. Lo svela nelle pagine in cui cerca di manipolare e azzerare il senso di colpa per il ricatto, che lui chiama “provvigione”, ma nel profondo sa che ciò che ha fatto legittimo non è.
Non è finita, invece, se si leggono con attenzione le poche righe rimaste: non è un finale consolatorio e non è esplicito. Le parole di cui è fatto sono allusive e sfumano in sensazioni uditive e visive indefinite, come in una dissolvenza da film. Da lì potrebbe cominciare un secondo romanzo, un sequel perfettamente agganciabile alle ultime righe. È anche un finale inquietante, perché come dicevo non consola e non redime il protagonista. Per questo mi ha convinta. Questo romanzo ha il pregio di essere scritto da uno di noi, con la lingua che ci esprime e con la parabola di vita che realisticamente ci tocca in sorte. E’ un motivo che pesa parecchio sul mio gradimento, potrei definirlo l’aspetto più contemporaneo della scrittura di Nicola Cavallini.
Infine c’è il vissuto. L’io narrante riproduce con molta esattezza l’atmosfera della sua infanzia e dell’adolescenza. Come lui l’ho vissuta in una piccola comunità, la mia di paese, la sua di quartiere. Riporto le parole che parlano della pubertà e le sottoscrivo pienamente: “La mia pubertà è legata al mito delle giornate di sole trascorse, con gli amici, a giocare a ping pong. Giornate interminabili, dall’alba al tramonto, nella calura trasudante dai muri di pietra e dal cortile, nell’aria un odore di acne, dai balconi un profumo di panni stesi, le nostre opportunità ancora intatte, un immenso crocevia di strade ancora vergini, inesplorate”. In un’altra bella pagina che voglio riportare è ritratta la fase dopo i vent’anni, che Marco chiama “il periodo dei matrimoni degli amici” e poi li ricorda alla Muccino, alla maniera del film L’ultimo bacio di recente ritrasmesso in tv. E’ la fase in cui le scelte fatte per lavoro e famiglia ci dànno consistenza e ci imbrigliano.
Quando la storia ha inizio il nostro bancario lo troviamo lì, nel suo ufficio, qualche anno dopo il suo matrimonio con Francesca. Appare stressato per le cattive relazioni in filiale, è oppresso dalle difficoltà economiche e si sente in gabbia.
Il suo forte sono i rapporti con i clienti. Dice di sé in una delle pagine iniziali: “…essermi conquistato una credibilità sia come consulente che come assistente alle tesine mi riempie di orgoglio. Alcuni clienti…mi fanno l’occhiolino con aria complice, sperando che, prima o poi, passi loro una di quelle esclusive che so io”. Bella soddisfazione, espressa con una lieve nota di onnipotenza, ma la pagina non finisce così: con una virata linguistica, che attinge al cinismo del giovane Holden, la voce narrante lavora su di sé per sottrazione, mette a nudo il proprio errore, l’aver sbagliato il suo primo investimento in borsa. “Io penso di essere un idiota ma, sapete, in giro è pieno di gente troppo severa con se stessa”.
Nell’articolo faccio riferimento alle seguenti opere:
– Nicola Cavallini, Con la testa fra le mani, Giraldi Editore, 2006
– D.Salinger, Il giovane Holden, Einaudi, 1961
– Muccino, L’ultimo bacio, film, Italia, 2001
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