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Prima che sia violenza

 

di Lara Ghiglione
da Collettiva del 25 novembre 2022)

 

Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: una ricorrenza che ha lo scopo di continuare a sensibilizzare rispetto a un’inaccettabile condizione che, non possedendo più i connotati dell’episodicità, è purtroppo diventata un drammatico fenomeno ordinario che colpisce e affligge ancora troppe donne. Una giornata che non deve essere vissuta come una ritualità, ma come l’opportunità per discutere, confrontarsi, fare un bilancio e trovare strumenti nuovi affinché non si debba ancora una volta arrivare quando è troppo tardi. L’eliminazione della violenza maschile contro le donne, infatti, è un obiettivo ancora lontano da essere raggiunto visto che anche in Italia, ogni 72 ore, avviene un femminicidio.

Da sempre la Cgil è impegnata a prevenire e contrastare la violenza contro le donne a partire dal diritto a ottenere e svolgere un lavoro stabile, adeguatamente retribuito e tutelato: l’autonomia economica, infatti, è lo strumento basilare per esercitare la propria libertà e il diritto di scelta quando ci si trova ingabbiate all’interno di un rapporto violento o di una relazione abusante.

Non meno importante è, da questo punto di vista, il ruolo svolto dalla formazione, in entrata e durante tutto l’arco della vita lavorativa, sia come possibilità di coltivare e incrementare la propria professionalità, e quindi la propria “spendibilità” nel mondo del lavoro, ma anche come elemento in grado di affermare la cultura del rispetto, contro ogni tipo di discriminazione e a discapito di quella patriarcale del possesso. Tra le altre opportunità, la formazione può servire a far emergere e contrastare fenomeni diffusi di svilimento del ruolo, bullismo offensivo e aggressione verbale esercitati sulle lavoratrici.

Lavoro e formazione si qualificano attraverso la contrattazione, strumento fondamentale nell’attività sindacale quotidiana, che deve essere agita a tutti i livelli – nazionale, sociale/territoriale, aziendale – e avere, rispetto al tema della violenza di genere, obiettivi e prerogative specifiche. Anche perché gli stessi contesti lavorativi non sono esenti da situazioni violente e da episodi di molestie e abusi nei confronti delle lavoratrici, specie di quelle particolarmente ricattabili: un fenomeno sommerso che l’Istat ha indagato nel 2018 evidenziando, al momento dell’indagine, che nel nostro Paese 1 milione e 400 mila donne avevano subito molestie fisiche e ricatti nell’arco della loro vita lavorativa.

Un numero importante ma anche sottodimensionato se consideriamo che una parte delle vittime di abusi e molestie tende a non far emergere il problema, per paura di giudizi e discriminazioni da parte dei colleghi. Per questa ragione è necessario pianificare una formazione specifica destinata a rsu/rsa e rls/ rlst/ rlssa e percorsi di formazione aziendali obbligatori su molestie e “ambiente” lavorativo anche per prevenire e contrastare la criminalizzazione delle donne che denunciano questi abusi.

La contrattazione che si occupa di fornire tutele e rispondere alle esigenze delle lavoratrici (contrattazione di genere) deve essere un patrimonio di tutta la nostra organizzazione e deve avere una sua dignità nelle piattaforme rivendicative a tutti i livelli, anche al fine di promuovere accordi territoriali, protocolli e tavoli permanenti. Nella maggior parte dei contratti nazionali sono state inserite misure specifiche per la prevenzione e il contrasto alla violenza di genere e in numerosi accordi aziendali e territoriali sono state recepite le intese sottoscritte da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil e da altre associazioni datoriali; servono ovunque accordi specifici, procedure di gestione e regolamenti che garantiscano l’anonimato e la tutela della dignità lavorativa della donna vittima di violenza e molestie, anche con la collaborazione dei Centri Antiviolenza.

Fondamentale, ad esempio, è l’estensione del congedo retribuito per le donne vittime di violenza -oltre i tre mesi attuali previsti- il diritto alla flessibilità oraria, al part time reversibile, al trasferimento, su richiesta della vittima, presso altra sede aziendale in caso di violenza famigliare, all’esclusione dai turni disagiati: obiettivi da raggiungere con la contrattazione a tutti i livelli.

Queste sono e devono essere prerogative di tutto il gruppo dirigente diffuso della Cgil, senza distinzione di genere, perché se è vero che la violenza la subiscono le donne è assolutamente necessario definire e condividere percorsi e obiettivi di cui anche gli uomini del sindacato devono farsi carico, con una rinnovata e convinta condivisione e assunzione di responsabilità. Le panchine rosse fuori dalle nostre sedi nazionali, che inaugureremo in una staffetta ideale tra categorie nazionali e confederazione, venerdì 25 novembre, serviranno anche a rammentarci ogni giorno, entrando e uscendo dai nostri uffici, che siamo chiamati quotidianamente, tutte e tutti, a fare la nostra parte.

In questo modo la Cgil potrà ancora, e meglio, fare la differenza nel difficile percorso verso l’eliminazione della violenza contro le donne, in un Paese che potrà davvero definirsi civile solo quando l’obiettivo sarà raggiunto.

Fotografare in teatro:
un seminario al Ridotto del Teatro Abbado di Ferrara

Il 25 e 26 novembre al Teatro Comunale di Ferrara, un convegno internazionale fa il punto sull’accessibilità degli archivi fotografici teatrali. A confronto le esperienze dei più interessanti archivi teatrali italiani e stranieri e dei più importanti fotografi di teatro

Venerdì 25 e sabato 26 novembre, al Ridotto del Teatro Comunale “Claudio Abbado” di Ferrara, si tiene il convegno internazionale La fotografia di teatro: attualità e potenzialità degli archivi fotografici, organizzato dalla Biblioteca della Fondazione Teatro Comunale di Ferrara e curato da Giuseppina Benassati, studiosa esperta di catalogazione fotografica, che metterà a confronto le esperienze dei più interessanti archivi teatrali italiani e stranieri.

L’obiettivo delle due giornate di studio è tracciare lo stato dell’arte sull’accessibilità degli archivi fotografici teatrali, a partire dall’esperienza di catalogazione e digitalizzazione realizzata dall’Archivio fotografico del Teatro di Ferrara, apripista nel settore e che, a oggi, conserva più di 350.000 immagini fotografiche.

A discuterne sono i rappresentanti dei più interessanti archivi teatrali italiani e stranieri e dell’ICCU – Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche.

Le varie esperienze di catalogazione e di inventariazione saranno messe a confronto e verranno proposti possibili punti unificati di aggregazione e consultazione.

Coinvolti per l’occasione sono i rappresentanti degli archivi del Dipartimento delle arti e dello spettacolo della Biblioteca Nazionale di Francia a Parigi, del Centro di documentazione delle arti sceniche e della musica del Ministero della Cultura di Spagna a Madrid, dell’Archivio Fondazione Teatro alla Scala di Milano, dell’Archivio Ravenna Festival, dell’Archivio del Piccolo Teatro di Milano, dell’Archivio Teatro delle Albe di Ravenna, dell’Archivio Emilia Romagna Teatro di Modena, dell’Archivio Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, del Centro Studi Teatro Stabile di Torino, il Museo Biblioteca dell’Attore di Genova, dell’Istituto del Teatro e del Melodramma della Fondazione Cini di Venezia, della Biblioteca Museo Teatrale SIAE di Roma e dell’Università Roma Tre.

Nella seconda giornata, il convegno offre un’occasione di incontro e confronto con i più illustri fotografi di teatro. Il critico teatrale Massimo Marino coordina la tavola rotonda con Massimo Agus, Vasco Ascolini, Marco Caselli Nirmal, Tiziano Ghidorsi e Silvia Lelli. Moni Ovadia, direttore generale del Teatro Abbado, leggerà per l’occasione una dichiarazione del fotografo di teatro Maurizio Buscarino.

Il convegno presenta infine il nuovo catalogo della mostra La pelle del teatro. Sguardi diretti e inconsuete trame di Marino Pedroni, e inaugura l’esposizione Volti della regia, con le fotografie di Marco Caselli Nirmal dell’Archivio del Teatro Comunale di Ferrara. 

L’evento, realizzato grazie al contributo della Direzione generale Educazione ricerca e istituti culturali del Ministero della Cultura, si svolge venerdì 25 novembre (dalle ore 10 alle 13 e dalle 14.30 alle 19) e sabato 26 novembre (dalle ore 9.30 alle 13) nel Ridotto del Teatro Comunale di Ferrara. L’ingresso è libero, su prenotazione online.

Immagini ufficio stampa Teatro Comunale di Ferrara

Storie in pellicola /
Al via il set della nuova serie tv La Lunga Notte

 

Sono in corso a Roma, le riprese della nuova serie, in sei episodi, La lunga notte, interpretata da Alessio Boni per la regia di Giacomo Campiotti (noto al pubblico per Braccialetti rossi, Bianca come il latte, rossa come il sangue, Chiara Lubich – L’amore vince tutto, anch’esso ambientato nel 1943, e La sposa), una coproduzione Rai FictionÈliseo entertainment di Luca Barbareschi.

Accanto ad Alessio Boni, Duccio Camerini, Ana Caterina Morariu, Aurora Ruffino (che ha già lavorato con Campiotti in Bianca come il latte, rossa come il sangue e in Braccialetti rossi), Flavio Parenti, Marco Foschi, Lucrezia Guidone, Martina Stella, Luigi Diberti e Giuseppe Antignati. Poche le notizie che trapelano…

Martina Stella, foto CDA Studio Di Nardo
Flavio Parenti, foto CDA Studio Di Nardo
Alessio Boni, foto CDA Studio Di Nardo

Sceneggiata da Franco Bernini, Bernardo Pellegrini, con la consulenza alla sceneggiatura dello stesso regista e la consulenza storica di Pasquale Chessa, la serie narra le tre settimane precedenti la notte tra il 24 e il 25 luglio 1943 in cui si svolse l’ultima riunione del Gran Consiglio del Fascismo, organo supremo presieduto da Benito Mussolini, che sancì la fine del regime fascista, con 19 voti favorevoli, 7 contrari e 1 astenuto.

LA LUNGA NOTTE, ep.4 foto Di Benedetto

Saranno quindici le settimane di ripresa dedicata alla narrazione dei fatti che condussero a quel momento fatale, raccontando la Storia unitamente alle storie di uomini e donne che agirono da protagonisti e misero in gioco il loro destino personale oltre a quello del Paese.

Molte splendide location della Capitale si avvicenderanno con luoghi altrettanto evocativi nell’hinterland romano e si fonderanno con i costumi e auto d’epoca per richiamare con potenza narrativa i tormenti di Dino Antonio Giuseppe Grandi, Presidente della Camera dei fasci che decise di opporsi alle scelte di Mussolini in maniera legittima, convocando il Gran Consiglio, per rimettere il Paese nelle mani dei Savoia. Accanto alle sue vicende, quelle della famiglia Reale, di Edda e Galeazzo Ciano e di Claretta Petacci.

Perché, come ha indicato in un’intervista, Giacomo Campiotti, che ha avuto come maestro il grande Mario Monicelli, di cui è stato assistente e poi aiuto regista in Il marchese del Grillo (1981), Speriamo che sia femmina (1985) e I picari (1987), da regista ama raccontare storie di valore e aprire varchi.

Foto in evidenza Di Benedetto, ufficio stampa Eliseo entertainment

Accordi /
Il breve sabato di Nick Drake

 

L’abbiamo sperimentato tutti, tante volte.  L’attesa per qualcosa che deve accadere – sia essa un incontro o la prossima vacanza – è quasi sempre più bella e ricca di quanto poi ci si ritrova a vivere realmente. Insomma il sabato, con la sua aspettativa del dì di festa, è molto meglio della domenica.

Anche per questo, la donzelletta che vien dalla campagna di leopardiana memoria, si è incamminata infinite volte con il suo fascio d’erba. Perché, come in un racconto di Borges: la reinterpretazione di un concetto vecchio quanto il mondo è capace di generare ancora poesia.

E quella che vorrei qui ricordare, mi rimanda ad un negozio di dischi sotto la torre dell’orologio a Ferrara, sul finire degli anni Settanta. Un negozio che non esiste più, come Nick Drake, l’autore di questa ennesima rilettura del Sabato del villaggio.
Quarant’anni fa mi capitò tra le mani “Five leaves left”, un rimasuglio di magazzino, invenduto, come, allora, tutti e tre i dischi di questo cantautore inglese. Ne avevo letto anni prima una entusiastica recensione su  Musak, la rivista alternativa fondata da Gaime Pintor, il figlio del più famoso Luigi Pintor. Oltretutto il vecchio long playing  era ad un prezzo scontato e per uno studente come me, la cosa non era indifferente.

Dieci stupende tracce, con quell’ultima perla “Saturday sun”, il cui testo avevo in parte colto, anche con la mia scarsa conoscenza dell’inglese.

Saturday sun came early one morning        
In a sky so clear and blue                              

Il sole del sabato è arrivato presto una mattina
in un cielo così limpido e azzurro

Fu un amore al primo ascolto. Un amore travolgente come tutte le passioni giovanili.
Volevo ascoltare altri dischi di Drake, ma in giro non si trovava nulla. Sembrava che il nostro non esistesse proprio: nessun Lp, nessuna notizia. Vuoto assoluto. Poi, per caso, citato in un articolo sui cantautori inglesi degli anni Settanta, la tragica notizia: Nick era morto, nella notte del 24 novembre 1974. Ucciso dal male oscuro. Un’overdose di antidepressivi, non si sa se assunti consapevolmente o meno, se l’era portato via.

Parecchi anni dopo, Stefano Pistolini, noto critico musicale, ne aveva scritto. Un libro a metà tra l’indagine e l’autobiografia: Le provenienze dell’amore. Vita, morte e post-mortem di un cantautore inglese misconosciuto, molto sexy, rieditato, con un nuovo capitolo, qualche anno fa.
Leggendolo, mi ci ero specchiato. La donzelletta era arrivata al capolinea, come i versi finali della canzone di Nick:

but Saturday sun has turned to Sunday’s rain 

ma il sole del sabato si è trasformato nella pioggia della domenica.

 

Parole a capo /
Mattia Cattaneo: “Tre poesie”

“Nelle città senza Mare… chissà a chi si rivolge la gente per ritrovare il proprio equilibrio… forse alla Luna…”
(Banana Yoshimoto)

solo dopo
avevo capito
che potevo accendere la luna
senza arrampicarmi
la scala rotta
il vino versato per sbaglio
sulla tovaglia pulita
e un panno umido
per togliere i peccati
attendere l’estate
per cercare i grilli e prendere il sole
non so scrivere poesie
ma ne cerco il senso imperfetto

***

poi presi
la tinozza d’acqua
immergendoci
un giocattolo
a capofitto
come si fa con le sere isolate
dove nemmeno un tram
lascia tracce sull’asfalto
notte liquefatta
in un’altra città
sarebbe uguale
parlerei piano
per non svegliare le rondini
fisserei
la croce verde lampeggiante di una farmacia
per rendermi conto
di un tempo sciolto.

***

in un diagramma ascensionale
mi sono arreso alla fatica
di guardare da fuori
quel che mi è dentro
poi sradica
pulisce
e tratta con i tormenti
addolcendoli
come mangiasse
un filamento di nuvola
secante la luce della luna
ho posato le chiavi di casa
al solito posto di domani
ricordandomi di scrivere questa poesia.

(Poesie tratte da “Partiture di pelle“, Architetti delle parole, 2021)

Mattia Cattaneo è nato a Trescore Balneario (BG) il 31-07-1988, abita a Treviolo ed è laureato in Scienze della comunicazione.
Adora la montagna e la natura. Lavora come assistente educatore presso una cooperativa. Poeta e scrittore, ha pubblicato una trilogia poetica tra il 2016 e il 2018. Tra il 2018 e il 2019 ha pubblicato il romanzo “E le stelle brillano ancora” e “Dove sento il cuore”. Tra il 2021 e il 2022 invece una raccolta di poesie “Partiture di pelle” e il romanzo, edito a settembre, “Tra le onde dei ricordi”. Entrambi editi da Architetti delle Parole, associazione culturale fondata assieme all’amico Carlo Arrigoni col quale fa numerose letture teatrali in tutta la Lombardia e non solo.
Durante la pandemia e il lockdown 2020 ha dato vita al gruppo FB Circolare Poesia volto alla condivisione e lettura poetica , gruppo che conta quasi 1600 membri.
Contatti SOCIAL: Mattia Cattaneo – Mattia Cattaneo autore (FB e INSTAGRAM) –
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopioPer leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Suole di vento /
A Valencia con la Corale Veneziani

 

Ho realizzato quanto mi mancasse Valencia e quanto desiderassi tornarci solo quando, a sorpresa, domenica 25 settembre, dopo un bellissimo concerto nella stupenda Sala delle Carte Geografiche del Museo Archeologico di Ferrara, alcuni amici della Corale Veneziani mi hanno proposto di aggregarmi al loro viaggio, previsto per il ponte di fine ottobre.

Valencia – Mercato Centrale

Mi sono attivata immediatamente per le prenotazioni di volo e hotel e ho cominciato a sognare, ho comprato la Cartoville del Touring Club, ho cercato, senza trovarli, romanzi contemporanei ambientati in quella città (ma ho trovato un interessante saggio di Vittorio Caratozzolo dal titolo VALENCIA – Una città mondo, che presenta una panoramica antologica dei romanzi di Blasco Ibáñez da una prospettiva particolare, un punto di vista urbanistico, architettonico, topografico, spaziale) e mi sono messa ad aspettare ansiosa il 29 ottobre, giorno della partenza.

Sapevo che avremmo assistito a due concerti in due luoghi diversi di Valencia e dei dintorni e anche questo mi rendeva particolarmente felice perché adoro la musica, qualunque musica, e, in più, faccio parte anch’io di un coro e so quanta emozione dà cantare lontano da casa, far conoscere i nostri brani all’estero e realizzare scambi con altri cori.

Ma per ora la protagonista voglio che sia Valencia, avremo tempo per parlare dei cori e del motivo per cui la Veneziani ha viaggiato fino a qui per cantare…

A Valencia abbiamo pure guardato, visitato, ammirato posti nuovi e altri conosciuti, abbiamo gustato tapas e paella e bevuto tanta buona cerveza, da soli o in piccoli gruppi; e, in più, il programma comune prevedeva una escursione di un giorno intero a Gandìa, nel nome dei Borgia!

Io qui racconterò prevalentemente la mia Valencia, quella delle architetture modernissime, che desideravo assolutamente rivedere (Calatrava), o scoprire per la prima volta (Chipperfield, Foster) e quella del centro storico e dei palazzi antichi, di cui avevo solo un ricordo sfocato, visto che la volta scorsa, alcuni anni fa, ero in viaggio di istruzione con una classe, con la responsabilità di docente organizzatrice ed accompagnatrice, il che mi ha reso difficile fare “la turista”.

Tra le scoperte voglio assolutamente citare il Giardino Botanico, fondato nel 1567 e collocato, a cura della Università, nel 1802 nell’attuale sede in Carrer de Quart, non lontano dalle due imponenti Torres de Quart. Ospita specie di tutto il mondo; comprende anche una serra tropicale in ferro bianco del 1859 e un giardino (Umbràculo) in ferro grigio del ‘900. Ci hanno colpito particolarmente le tante palme altissime e le canne di bambù enormi.

Valencia – Umbracle

Io sono appassionata di mercati, soprattutto quelli in ferro battuto dei primi del Novecento e nelle città spagnole ce ne sono di veramente belli; al Mercato Centrale siamo andati in orario di pranzo appena arrivati il primo giorno; abbiamo ammirato i coloratissimi banchi di generi alimentari di ogni tipo e le cupole, vetrate e ceramiche che arricchiscono la struttura, tipico prodotto di Art Nouveau risalente al 1928.

L’ultima sera, con la nostra preziosa tour-operator Marta,  abbiamo raggiunto, per l’aperitivo, il Mercato Colón, ora centro commerciale e sede di baretti e ristoranti molto pittoreschi; è un vero gioiello Art Nouveau, adorno di trecadís, frammenti di ceramica alla Gaudí, in voga all’inizio del Novecento.

Amo moltissimo anche le stazioni ferroviarie, piccole e grandi, antiche e moderne. Il nostro hotel, per una felice combinazione, si trova vicino alla Estació del Nord, opera del 1917 di Demetrio Ribes, ancora un gioiello dell’Art Nouveau, con una sorprendente facciata decorata con ceramiche e un ancor più sorprendente atrio delle biglietterie, per non parlare della sala d’attesa!!!

Il centro storico è ricco di monumenti di altissimo rilievo: la Cattedrale col bellissimo campanile ottagonale denominato  Micalet; la Lonja de la Seda, vale a dire la Borsa della seta, capolavoro in stile gotico civile della fine del Quattrocento; una serie di bellissimi palazzi di Ottocento e Novecento di cui ho ammirato gli angoli arrotondati, i decori, i balconi, le finestre.

E veniamo all’architettura modernissima. Quello stesso pomeriggio del giorno dedicato al centro storico e ai grandi viali, me ne sono andata, da sola, a cercare di raggiungere, prima a piedi, poi, quando ho capito che si trovava decisamente in periferia, in taxi, il Palau de Congressos realizzato nel 1998 da Norman Foster, un altro dei miei architetti preferiti; è un palazzo a forma di pesce inclinato, pensato per ricevere la massima luce possibile.

Una giornata intera ho poi dedicato, insieme a una coppia di amici, alla passeggiata nel Jardí del Turia, un parco naturale di 7 chilometri realizzato sul letto dell’omonimo fiume, deviato nel 1957; la “giornata Calatrava” era in realtà iniziata in metropolitana, per raggiungere, anche se con una sola fermata dal nostro hotel, quella disegnata appunto dal famoso archistar valenciano: Alameda, che si caratterizza all’esterno per la curvatura che anche in Italia riconosciamo come suo tipico disegno: il Ponte della Costituzione a Venezia, la Stazione dell’Alta Velocità di Reggio Emilia…

Valencia – Palau de les Arts

La passeggiata, rallegrata dalla vista di tantissimi Valenciani a piedi, in bici, famiglie con bimbi festanti, ci fa ammirare la “cupola” di vetro del Palau de la Música costruito su progetto di José María Paredes nel 1987 e ci conduce, uno dopo l’altro, ai capolavori di Calatrava: la Città delle Arti, concepita sul tema della natura e dell’acqua e dominata, all’ingresso, dal giardino sospeso dell’Umbracle  i cui 55 archi evocano le lische di un pesce; l’Hemisfèric, il cinema detto “l’occhio” che riflette in una vasca la sua semisfera  contornata da una “palpebra” in metallo; il Museo delle Scienze “Principe Felipe”, un edificio che assomiglia a una colonna vertebrale e che accoglie un museo interattivo su tre livelli.

Valencia – Hemisferic e Museu de les Ciències

Terminata la visita al Museo delle Scienze, ci “tuffiamo” nello straordinario Oceanogràfic, un parco marino disegnato da Felix Candela che riproduce i mari freddi e caldi, offre emozioni fantastiche nell’acquario-tunnel lungo 70 metri e “regala” tre volte al giorno una spettacolare esibizione di delfini.

Siamo giunti quasi al mare e, col Bus 95, arriviamo in prossimità di una sorta di ‘padiglione  minimalista’ di 10.000 mq, Veles e Vents, disegnato nel 2006 da David Chipperfield per offrire alle personalità intervenute per assistere all’America’s Cup la migliore vista sulle regate e altre manifestazioni marittime: quattro piani di piattaforme che affacciano sull’orizzonte.

E ora, musica!

Per presentare, a chi non la conosce, la Corale Veneziani, riporto, dal sito web, la sua “storia”.

La costituzione dell’Accademia Corale “Città di Ferrara” risale al 1955 e ha visto come promotori  Mario Roffi, presidente dell’istituzione per delega del Sindaco fino alla sua morte, avvenuta nel 1995, Renzo Bonfiglioli vice presidente e il maestro Vittore Veneziani, rientrato nella città natale dopo un trentennio trascorso a Milano come direttore del coro scaligero.

Veneziani portò la sua esperienza e il suo entusiasmo nella nuova attività, assumendone la direzione e l’organizzazione artistica. Da allora l’Accademia, che nel 1958 prese il suo nome per celebrarne la memoria, ha svolto un’intensa, ininterrotta e qualificata attività concertistica in centinaia di concerti, tournée, convegni e rassegne in Italia e all’estero.

Fu per diversi anni diretta dal maestro Emilio Giani. Gli successe, negli anni dal 1980 al 2000, il maestro Pierluigi Calessi, sotto la cui direzione sono state eseguite tre incisioni discografiche e numerose tournée all’estero.

Per l’attività musicale e culturale promossa e realizzata fin dalla sua formazione, l’Accademia ha ottenuto nel 1988 il Premio Willaert e nel 1989 il Premio Stampa. Dal settembre 2000 al 2019 si sono poi succeduti alla guida della Corale V. Veneziani i maestri Giuseppe Bonamico, Stefano Squarzina, Giordano Tunioli, Maria Elena Mazzella; dal settembre 2020 la direzione artistica dell’Accademia è stata assunta dal maestro Teresa Auletta.

Ed è alla direttrice Teresa Auletta che chiedo di parlarmi del progetto che ha portato ai due concerti “valenciani”. La intervisto sul bus che ci riporta a Valencia da Gandía, a conclusione di una giornata di storia, arte e musica. A Gandía sono nati i Borgia, anche Lucrezia, che a Ferrara ha vissuto e sofferto e concluso in convento la sua esistenza e questo particolare legame è all’origine del gemellaggio tra città che ha portato al gemellaggio tra cori.

La storia è questa: Bologna e Valencia sono gemellate dal 1980; quarant’anni dopo, a seguito di un incontro virtuale tra imprenditrici e professioniste bolognesi dell’Associazione Fidapa e donne valenciane dell’Asociazione Evap per condividere esperienze imprenditoriali in tempo di Covid, si è pensato di aderire ad un programma di iniziative turistico-culturali lanciato da due agenzie di viaggi, una bolognese e una valenciana.

In questo ambito, la sezione di Ferrara della Fidapa ha immaginato un gemellaggio di carattere artistico-musicale, coinvolgendo l’Accademia Corale Veneziani, nota come “il coro di Ferrara”; nel contempo, l’assessorato alla cultura di Gandía procedeva all’organizzazione di una giornata di incontro “nel nome dei Borgia” culminata con un concerto serale con il coro Orfeo Borja de Gandía e, per allargare al capoluogo, si individuava nell’importante Studium Vocale San Nicolás il coro gemello, che nella primavera del 2023 ricambierà la visita e sarà ospitato a Ferrara.

I due direttori, della Corale Veneziani e dello Studium Vocale, una volta accettato questo “incontro in amicizia”, si sono spesso sentiti e visti online per concordare gli aspetti musicali, mentre i due tour operator agivano sul piano della organizzazione turistica; ben ventiquattro coristi hanno dato la loro disponibilità ad affrontare, a proprie spese, questa nuova avventura che si è aggiunta agli eventi già in corso di programmazione e di realizzazione.

Per questo, afferma Teresa, per quanto riguarda il repertorio da eseguire, ci si è accordati sulla libertà reciproca di proporre ambiti diversi, ma individuando anche due canti da interpretare insieme, ognuno scelto da ciascuno dei due direttori. La Corale ferrarese, nello specifico, ha portato brani di Vittore Veneziani, tratti dalla raccolta dei “Canti Spirituali di Israele”, più alcuni pezzi di autori del Novecento che erano in corso di preparazione quando si è cominciato ad organizzarsi per il viaggio a Valencia, scelti prevalentemente perché ‘a cappella’ quindi eseguibili senza la necessità di accompagnamento strumentale.

Il coro valenciano, che fa servizio liturgico nella omonima, magnifica chiesa di San Nicolás, ha preferito portare brani del Cinquecento e del Seicento, per cui l’intero concerto ha abbracciato un tempo lungo e molto significativo; l’accordo è culminato nei due brani eseguiti insieme, per i quali si è scelta la caratteristica della ‘notorietà’ accompagnata alla facilità di armonizzazione fra voci che cantavano unitamente per la primissima volta.

Palau Ducal di Gandìa – Nella grande sala, prima di cantare

I due cori, precisa Teresa, sono abbastanza simili perché entrambi amatoriali e anche come vocalità, nel senso che sono voci ‘non impostate’ seppur formate con lo studio e via via migliorate, grazie ad un lavoro sulla respirazione, sulla emissione, sul controllo della muscolatura e l’attenzione alla postura.

Per quanto riguarda alcune anticipazioni su quello che succederà ad aprile 2023, nella settimana dal 13 al 16, si prevede di organizzare un concerto dei due cori gemelli a Ferrara e un altro, che verrà realizzato col supporto di AERCO, l’Associazione Emiliano-Romagnola Cori, a Bologna.

Col coro di Gandía l’incontro è stato più estemporaneo, ma ugualmente interessante per la evidente diversità del repertorio eseguito; si è concordato anche in questo caso un brano finale da cantare insieme e, trattandosi di Va’ pensiero, l’apprezzamento del pubblico si è manifestato in scrosci di applausi molto sentiti.

Il bilancio complessivo della direttrice sull’esperienza è decisamente positivo, perché molto stimolante è stato ogni momento; è stato importante gustarsi il tempo della quotidianità (pur in versione “vacanza” ) condiviso, è stato utile e stimolante incontrare altri cori, formati da persone allo stesso modo appassionate della musica, è stato divertente pranzare e cenare insieme e scoprirsi turisti curiosi e appassionati delle stesse cose, ma anche desiderosi di scambiarsi preferenze e passioni e curiosità diverse.

Un soffitto mirabile

Chiudo l’articolo dedicando un’altra immagine alla magnificenza del Palau Ducal di Gandía, visitato in mattinata e mirabile cornice del concerto serale in una delle grandi sale e ringraziando l’Accademia Corale Veneziani per l’opportunità offertami di partecipare ad un’esperienza in cui il piacere del viaggio si è intrecciato con la condivisione di momenti di socializzazione, di arte, di musica, di cultura.

Libri e siti web consultati:

Cover: Corale Veneziani e Studium Vocale San Nicolás: i due cori dopo i brani comuni

Cover e foto nel testo di Maria Calabrese

Vite di carta /
Idda, una “vita di carta”

 

Da un po’ di tempo volevo parlare di Idda, il romanzo di Michela Marzano uscito presso Einaudi nel gennaio del 2019. L’autrice è venuta a parlarcene all’Ariosto nell’anno scolastico seguente, sulla mia copia ho la sua dedica con la data del 2 febbraio 2020: pochi giorni ancora e saremmo stati presi in pieno dalla pandemia.

La scuola chiusa e le lezioni svolte da casa col computer. Quel giorno eravamo tutti lì, i ragazzi erano pronti a porle tante domande, alcuni ancora ricordavano l’impressione forte lasciata in loro dall’altro romanzo psicologico uscito nel 2017, L’amore che mi resta.

Non so distaccarmi dai ricordi della mia attività scolastica che è finita due anni fa. Credo di non dovere nemmeno. Se penso a Marzano sento di avere accumulato attorno a lei e ai suoi libri un’aura felice: il folto gruppo di lettura formato dagli studenti e dalle colleghe, la presenza all’incontro, organizzato alla Sala Estense per motivi di capienza, di un’altra sensibile autrice, Nadia Terranova, col suo romanzo Addio fantasmi uscito sempre presso Einaudi nel 2018.

La chiacchierata al Brindisi davanti a un piatto di superbi cappellacci con la zucca, commentando la bella mattinata di scuola fatta insieme come se ci conoscessimo da tempo e con le isoipse delle nostre psicologie vicine tra loro, molto vicine.

Marzano è piena di energia dialogica, parla di sé con ricchezza senza sforare nel protagonismo. Pone davanti a chi l’ascolta un paesaggio interiore sviscerato da lei in chissà quanti anni di introspezione e lo mette a disposizione del confronto.

Poi, alcuni giorni fa Idda viene discusso dal gruppo di lettura della biblioteca del mio paese: vengono fuori sul libro opinioni molto diverse, almeno tre persone lo bocciano in toto. Il motivo: è costruito su temi piuttosto sfruttati dalla narrativa, come il tema della memoria della propria infanzia e il recupero del vissuto come momento imprescindibile della propria identità.

Penso alla trama del racconto: Ale, la protagonista che è anche voce narrante, vive a Parigi insieme al suo compagno Pierre e nell’assistere la madre di lui che si è ammalata di Alzheimer è presa da una inattesa pulsione a conoscerne il passato.

A comprendere il rapporto tra la madre, il cui nome è Annie, e il figlio Pierre; tra lei e il marito Jean. Soprattutto, sente la spinta a tornare indietro alla sua vita in Italia, nel Salento. Alla famiglia d’origine, funestata da un drammatico incidente d’auto in cui ha perso la vita Giulia, madre di Ale, ed è rimasto gravemente ferito il padre, da quel momento condannato sulla sedia a rotelle.

Mentre ci mostra la sua vita quotidiana a Parigi, in quel che ha di abituale e rassicurante, Ale si focalizza sui pensieri nuovi che la occupano, sulle emozioni furtive che prova mettendo in ordine i documenti di una vita trovati in casa di Annie.

Le tornano come flash i ricordi di quando era bambina, le parole del dialetto per cui Annie ora nei pensieri di Ale diviene idda, lei, identificata dal pronome salentino. Torna il rapporto tra i suoi genitori prima così affettuoso e poi segnato dal conflitto.

Ricorda la fuga. Dice di essere scappata in Francia dopo l’incidente mortale di cui ritiene responsabile il padre e si ripromette di mantenersi coerente con il taglio netto che ha dato al suo passato. Da anni non risponde alle telefonate che arrivano dall’Italia, si rifiuta di parlare con lui e con la zia che lo assiste.

Mi domando se il parere negativo che ho appena sentito, un parere che salva lo stile della scrittura di Marzano ma non i contenuti della storia,  può modificare il mio. Mi colpiscono le osservazioni di questi adulti che sono lettori di lunga data e che aspettano ora da me la mia risposta.

Ammetto che nel mio giudizio sul libro, del tutto positivo, entra la conoscenza personale con la scrittrice e racconto brevemente come è avvenuta. Riconosco che l’impianto della autobiografia rimanda a un genere piuttosto collaudato nella narrativa di ogni tempo e dunque anche nel nostro, tuttavia trovo che il racconto sia toccante e che siano efficaci lo stile e il ritmo narrativo.

Mi piace che nella parte finale la protagonista ritrovi il nesso tra i due tronconi della sua vita e sappia compiere nuove importanti scelte piene di futuro. Intanto mi incalzano i commenti all’intorno: ci sono altri modi più convincenti di raccontare la propria vita, modi meno personalistici, meno insistiti sui meandri dell’io.

Quando riprendo la parola mi sforzo di spiegare da dove proviene il mio sì al racconto contenuto in Idda. Viene dalla propensione che ho verso i racconti sulla vita esperita nella quotidianità, verso le parole che tracciano la parabola del vivere e sanno anche tirare le somme.

Davanti a libri così  raccolgo l’invito a  misurarmi. A riflettermi davanti alle sinuosità di una biografia, ai picchi di dolore verso il basso, ai punti più in alto e più belli. Niente discorso della scala stavolta, sento che le cose che devo dire mi escono adesso.

Dico cosa vado cercando nei libri fin da quando ho cominciato a leggere con assiduità negli anni della adolescenza: la possibilità di solidarizzare con  altre vite e di misurarmi con esse, l’opportunità  di stabilire un legame di sorellanza, io che non ho avuto fratelli né sorelle in famiglia.

Aggiungo esempi di autori che nella adolescenza mi hanno dato la rotta da seguire e le parole per metabolizzarla, come e più delle persone che stavo incontrando nella vita.

Mi taccio. Potrei anche tirare diritto con altre considerazioni, dire che la narrativa degli ultimi due secoli ha riportato il fuoco su protagonisti comuni e sulla loro quotidianità diseroicizzata. Che il romanzo ha preso il posto del racconto epico. proprio mettendo in campo la singolarità del personaggio protagonista nel suo contrastato rapporto col mondo.

Ma non corro il rischio di farla sembrare una lezione di storia letteraria, non è questa l’occasione per rivestire i soliti panni. Qui siamo adulti che si scambiano libere opinioni, e infatti mi si imprime bene nella mente l’idea che i gusti di lettura sono proprio diversi.

Per alcuni le storie più belle sono ammantate di fantasia e leggere vuol dire estraniarsi dalla realtà presente. Mi pare legittimo. Dico sempre che la letteratura occupa un piano parallelo rispetto a quello reale. Tuttavia quello che cerco nei libri non è solo un’evasione, una parentesi pur utile che mi riporta intatta alla mia realtà e non ha cambiato i miei pensieri. Semmai si è limitata a interromperli, senza deformarne la mappa come è avvenuto con Idda.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

La Turchia bombarda il Rojava nel silenzio internazionale

di Davide Grasso –

L’attacco è stato giustificato come risposta alla strage di Istanbul del 13 novembre. Una donna siriana ha lasciato, a volto scoperto di fronte alle telecamere di sorveglianza, una borsa con esplosivo nella via più affollata della città, tornando poi a casa per esservi immediatamente arrestata. Il suo nome è Ahlam Albashir e sarebbe originaria delle aree tra Aleppo e Afrin sotto il controllo dei jihadisti usati da Ankara come supporto alle proprie truppe, ma anche di un’altra fazione jihadista – Hayat Tahrir as-Sham –  branca siriana di Al-Qaeda. Secondo le indagini Albashir avrebbe ricevuto l’esplosivo da un uomo chiamato Husam, arrestato nella città siriana di Azaz, anch’essa sotto controllo turco-jihadista. È stato interrogato anche un altro uomo, che ha telefonato alla sospettata prima dell’attacco: Mehmet Emin İlhan, dirigente del partito turco di estrema destra Mhp, principale alleato di Erdogan nel governo (subito rilasciato).

Nonostante questo, già il 14 novembre il ministro dell’Interno turco Suleyman Soylu dichiarava che l’arrestata aveva agito su ordine delle Unità di protezione del popolo curde (Ypg), che combattono proprio l’invasione turco-jihadista della Siria nel Rojava (Kurdistan siriano). Le Ypg non hanno mai agito su suolo turco né utilizzato tattiche terroristiche, e hanno negato il loro coinvolgimento. Sono parte del grande esercito rivoluzionario e interetnico delle Forze siriane democratiche: difendono l’unica regione siriana che sia riuscita, a oltre un decennio dalla primavera del 2011, a instaurare una forma di autogoverno autonomo dalla Turchia e dal regime di Assad, l’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est (Aanes).

L’Aanes si fonda su assemblee e commissioni popolari dette Comuni, animate dalla parte della popolazione che si riconosce nei principi egualitari ed ecologisti promossi dal Partito di unione democratica (Pyd). Riconosce alle donne autonomia e un ruolo strategico di direzione politica. Nelle sue istituzioni ogni organo è co-presieduto da un uomo e una donna, ogni consiglio prevede quote di genere (40%) e una rappresentanza prestabilita è assegnata ai giovani e alle minoranze religiose e linguistiche.
Molti, tra la popolazione turca e soprattutto a Istanbul, non sono persuasi dalla goffa ricostruzione governativa della strage. Contano, come in Siria e ovunque, le contrapposizioni politiche nella società. Almeno metà della popolazione vorrebbe farla finita con Erdogan, vuoi per la gestione disastrosa dell’economia, vuoi per la cappa oscurantista che negli anni ha fatto calare sul paese. Lo scontro tra tendenze alla secolarizzazione e reazioni tradizionaliste (o fondamentaliste) è trasversale alla Siria e alla Turchia, fino all’Iran e all’Afghanistan. È attrattore di tutte le istanze, da quelle socio-economiche a quelle concernenti la giustizia e il patriarcato.

La repressione in Turchia, dove centinaia di funzionari eletti sono in carcere, o in Iran, dove il governo ha lanciato un’operazione contro il dissenso nel Rojhelat curdo nelle stesse ore in cui la Turchia bombardava il Rojava, ha certo a che fare con il decennale rifiuto delle potenze regionali di risolvere la questione curda, ma si inserisce in un quadro più ampio. Le donne iraniane (curde e non) stanno tentando di cambiare il proprio paese negli stessi mesi in cui quelle afghane affrontano in piazza i Talebani. Le donne del Rojava costituiscono un elemento di ispirazione ben presente, al punto da disseminare il proprio slogan: “Jin, Jiyan, Azadi” (Donna, vita, libertà). Esistono diretti contatti politici tra il Kongra Star (Congresso delle donne del Rojava) e gruppi organizzati di donne attive in Iran e Afghanistan.

L’Iran ha fatto trapelare l’ipotesi di un’invasione delle regioni curde d’Iraq, dove l’esercito turco è impegnato da anni, senza successo, in una operazione d’aria e di terra contro il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) da cui Kongra Star e Kodar (analogo organo misto curdo-iraniano) hanno mutuato la loro idea di rivoluzione femminile. Una cooperazione tra Iran e Turchia contro i curdi non stupirebbe: ha già portato alla costruzione concordata di un muro al confine tra i due paesi per controllare sia i militanti che i migranti.

I governi turco, iraniano e afghano, al di là delle loro differenze confessionali e di politica estera, dipingono le rivolte come manovrate dagli stati occidentali, ma si tratta di contraddizioni interne a quelle società, per sostenere le quali da occidente, a livello governativo e non, si fa in realtà ben poco. I bombardamenti turchi avvengono in uno spazio aereo controllato da Russia e Stati Uniti, che acconsentono concretamente alle continue stragi di civili e militanti del Rojava. I media occidentali minimizzano o silenziano in modo inquietante le operazioni turche (la Turchia è paese Nato). L’abitudine della sinistra sociale o radicale a considerare, incredibilmente, un argomento di destra la denuncia delle imposizioni nelle società e nelle comunità islamiche, può spiegare esitazioni o reticenze maggiori rispetto ad altri temi.

L’articolo originale su Micromedia online

In copertina: proteste dei curdi contro l’assedio di Kobane, Roma, 15 febbraio 2017 (su licenza Wikimedia Commons)

La Banda del Formaggio:
un contributo in vista del congresso del Pd

 

E dopo, niente, Caruso l’avevo visto una volta, alla festa dell’unità. Era lì a fare il servizio d’ordine, alla festa dell’unità, nazionale. L’avevo salutato, un po’ imbarazzato. Che, più che altro, mi imbarazzava il fatto di farmi vedere alla festa dell’unità, nazionale, l’ultimo giorno, che non so neanche perché c’ero andato. Che mi aveva fatto un effetto.

Che io, quando andavo in giro, alla mia età, mi veniva da pensare che le cose che vedevo, e che sentivo, non andavano fatte e dette così come erano fatte e erano dette, andavano fatte e dette così come si facevano e si dicevano quando io ero giovane.

Per esempio la festa dell’unità, secondo me, non avrebbero dovuto chiamarla festa del PD, perché si chiamava festa dell’unità; e le bandiere che c’erano alla festa dell’unità, non dovevano essere bandiere tricolori, dovevano essere bandiere rosse. E i cappellini e le bandiere che avevano quelli che ascoltavano i comizi, non avrebbero dovuto darglieli all’ultimo minuto quelli dello staff, avrebbero dovuto portarseli loro da casa. E la canzone Bandiera rossa non doveva finire, come l’avevo sentita cantata dai volontari in un ristorante della festa del PD con la strofa “Evviva il PD e la libertà”, doveva finire con la strofa “Evviva il comunismo, e la libertà”. Che poi, in origine, diceva sempre mia mamma, era “Evviva il socialismo, e la libertà”.

Ma forse ero io, che ero così, che volevo che, anche i comizi, io volevo che si parlasse come dicevo io, che secondo me, ma perché ero vecchio, io quando avevo sentito, alla festa del PD, il comizio del segretario che cominciava dicendo “Care democratiche, cari democratici”, ma come si fa, dopo un inizio del genere, a dire qualcosa di sensato?, mi ero chiesto, e come si fa ad ascoltare qualcuno che inizia il suo discorso non dicendo “Buongiorno”, non dicendo “Benvenuti”, non dicendo “Cari amici”, non dicendo “Compagne e compagni”, non dicendo “Signore e signori”, ma dicendo: “Care democratiche, cari democratici”? Non si ascolta, secondo me non si ascolta, ma perché ero vecchio, e allora scappavo, e andavo a cercare le cose che riconoscevo, negli angoli, i ristoranti, le facce e i vestiti della gente che ballava, e quelli che guardavano, e i bambini che giocavano ai giochi che facevamo una volta, che mi sembrava che eran sempre quelli, e i bagni, che i bagni alle feste dell’unità eran fatti in un modo che c’erano solo lì, e a veder quelle cose mi veniva in mente quel passo del libro Cronosisma dello scrittore americano Kurt Vonnegut, quel passoche diceva “Mio zio Alex Vonnegut, un assicuratore che aveva studiato ad Harvard e che abitava al 5033 di North Pennsylvania Street, mi insegnò una cosa molto importante. Disse che quando le cose vanno davvero bene dovremmo fare in modo di accorgercene.

“Non parlava di grandi trionfi bensì di semplici epifanie: bere una limonata all’ombra in un pomeriggio afoso, sentire il profumo di una panetteria vicina, pescare e fregarsene se si pesca qualcosa o no, ascoltare qualcuno che suona bene il piano nell’appartamento accanto al nostro.

Zio Alex mi suggeriva, in tali occasioni, di dire a voce alta: ‘Se non è bello questo, cosa mai lo è?’”

Paolo Nori, La Banda del Formaggio, Milano, Marcos Y Marcos, 2013, pp.215-217.

Si ringrazia Paolo Nori per aver acconsentito alla pubblicazione di un estratto dell’opera.

Parole e figure /
Siamo foresta

21 novembre, giornata nazionale dell’albero

Ai miei affezionati lettori ormai è noto quanto gli alberi e la foresta siano per me importanti oltre che grande fonte di ispirazione, in quanto costante elemento di continuità con l’universo. Parte integrante di esso, noi con loro, imprescindibili l’un l’altro, avvolti in un legame indissolubile.

I bambini forse ne sono più consci degli adulti, nel loro girovagare libero e leggero per prati e boschi, capaci di abbracciare un albero o di accarezzarne teneramente e delicatamente la spessa corteccia. Loro sanno anche (e ancora) arrampicarsi spensieratamente sugli alberi, sicuri che i rami li sorreggeranno, magari attratti dal sogno di farvi sopra una bella casetta, il cui tetto non sia altro che la folta chioma del loro fedele amico. Bei tempi, quando anche noi abbracciavamo gli alberi o avevamo la voglia, la possibilità e la libertà di passeggiare a piedi nudi sull’erba.

A guidarci in questo mondo fatato, regno di una biodiversità che fa bene a tutti, pianeta in primis, ci sono tanti albi illustrati ma oggi due verranno regalati a voi, sensibili lettori.

Il primo è Alberi, di Tony Johnston, illustrato da Tiffany Bozic, Nord Sud Edizioni (2021), dedicato a tutti coloro che amano davvero gli alberi. I disegni di questo bellissimo e colorato volume sono stati possibili grazie agli stessi alberi: tutti dipinti, infatti, su tavole di legno d’acero, indica l’illustratrice in nota finale al libro, dalla sua casa di campagna in California, sotto alte e gigantesche sequoie. Tiffany ha un tratto elegante, deciso, colorato, caldo e magico. Coinvolgente, profondo e unico (scorrete il suo sito e ne resterete immediatamente conquistati…).

Nei disegni di Alberi ci sono i kapok, le querce, gli alberi della canfora, gli aceri palmati, le sequoie, i meli, le betulle, i pini di Jeffrey, i salici piangenti e varie foglie e rami. A tutti loro dobbiamo l’aria che respiriamo, le case in cui viviamo, i tetti che ci proteggono, i libri che leggiamo, la diversità che celebriamo, la bellezza che ci circonda. La vita, insomma.

Tiffany Bozic

Gli ingredienti sono tanti. Tratti delicati e avvolgenti, così come le parole che li accompagnano, che partono dalla credenza degli antichi greci che gli alberi fossero esseri viventi a testa in giù, con la testa nelle radici. Terra e aria, radici e foglie. Cuore ed energia. E poi la fotosintesi chesadimagia, tramite la quale gli alberi rilasciano ossigeno, fondamentale ed essenziale alla vita.

Gli alberi amano il cielo, tutto quell’azzurro che sta sopra di loro, immenso stupore attraversato dai raggi solari che illuminano cose e anime. Fitti fitti, zitti zitti, ne amano anche le multiformi nubi irriverenti e velate, alle quali si protendono, quasi a volerle toccare e accarezzare.

Durante il giorno assolato porgono i loro rami possenti ad accogliere il cinguettio degli uccelli, durante la notte argentina li tendono alle stelle ballerine che brillano e alla magica e trasparente luna. Verità, purezza e nobiltà, questo sono gli alberi.

Hanno foglie verdi che brillano, che luccicano al passaggio della rugiada e della pioggia, sono forti, sbocciano in fiori rosa o candidi come la neve, come la neve portano felicità.

Sono vecchi, antichi e secolari, con tanti faticosi anni negli anelli dei loro maestosi tronchi, tante storie vissute e viste vivere, tante estati, primavere, autunni e inverni. Anni e secoli. Sempre lì, coraggiosi, amici, come gli amici sanno essere e restare, disponibili a invitare ad arrampicarvisi sopra. Invito ben accetto e presto accolto, soprattutto dai bambini e da tanti simpatici animaletti, che ricordano i pelouche dei regali di Natale di un felice e spensierato tempo che fu.

Gli alberi offrono ombra ai passanti stanchi e a quelli meno stanchi, a chi è allegro e a chi è triste. Un refrigerio che fa bene. Bello leggere all’ombra di un albero, noi e lui, soli. Perché siamo foresta.

E qui arriva il secondo albo di oggi, dell’italiana Nadia Al Omari, per il testo, e del peruviano Richolly Rosazza, per le illustrazioni: Siamo foresta io e te, Kite Edizioni (2022), un volume sorprendente e delicato che parla di natura e deforestazione. Questo terribile mostro.

Richolly Rosazza

Una scimmietta dalla coda riccia sbircia fra gli alberi, ha gli occhi furbi e pare molto curiosa. Tanti fiori e piante intorno. Una bambina ama così tanto un albero da sognare l’incubo più tremendo, che venga abbattuto e portato via. Un rumore assordante, la foresta grida, gli uccelli scappano impauriti.

La bambina dai lunghi capelli lisci e con il suo bel vestitino bianco, corre nella foresta, va da lei, vuole vederla e sentirla, assicurarsi che tutto vada bene, è preoccupata. Fermandosi in quel luogo magico, respira aria, luce e verde, mentre una coccinella curiosa spunta fra le foglie.

Sente la geografia della corteccia, mentre una farfalla rossa le sorride. Il suo amico albero, dov’è? Dove sono i battiti del suo cuore? Dove porta il respiro del suo corpo caduto? Pesanti sono i temibili passi di chi, senza scrupoli, si aggira per la foresta e abbatte gli alberi per portarli via…

Ma la bimba si sveglia, è nel suo caldo lettino, per fortuna è un solo un brutto sogno: l’albero è proprio lì, dove è sempre stato, alto come non mai, imponente, vivo, eretto verso il cielo. Che bello capire che potrà di nuovo arrampicarvisi fino in cima e vedere il mondo, quella meraviglia vivacemente colorata, da lassù, sentire le voci della terra sussurrare segreti. Che sollievo!

Mentre il cielo si apre e il sorriso torna, bimba e albero restano ad aspettare la luna, a respirare uniti. In silenzio, insieme, all’unisono. Perché insieme sono foresta. Per sempre.

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

 

DESTINI INCROCIATI
Rassegna di Teatro in Carcere in Italia e nel mondo
(Venezia, 23-25 novembre 2022)

DESTINI INCROCIATI
IX edizione 

Venezia – Università Ca’ Foscari, 23 – 25  novembre 2022

nell’ambito di Destini Incrociati – Progetto Nazionale di Teatro in Carcere

a cura di Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere (C.N.T.i.C.)
e Teatro Universitario Aenigma
in collaborazione con l’International Network Theatre in Prison (I.N.T.i.P.)
e l’Università Ca’ Foscari di Venezia

con il Patrocinio del Ministero della Giustizia

e le collaborazioni di:
Università degli Studi Roma Tre
Associazione Nazionale Critici di Teatro (A.N.C.T.)
AGITA Teatro
Balamòs Teatro

incontri, conferenze, proiezioni video, performance, mostra fotografica 
sul Teatro in Carcere in Italia e nel mondo

Si terrà a Venezia, da mercoledì 23 a venerdì 25 novembre, Destini Incrociati, rassegna nazionale di teatro in carcere, con la direzione artistica di Ivana Conte, Grazia Isoardi, Vito Minoia, Valeria Ottolenghi, Gianfranco Pedullà, Michalis Traitsis.

Giungendo alla sua nona edizione e alla luce del recente rinnovo del Protocollo d’Intesa triennale per la Promozione del Teatro in Carcere in accordo con il Ministero della Giustizia, nel 2022 la rassegna si conferma quale momento più alto di confronto tra le esperienze italiane di teatro in carcere ed apre operativamente le porte all’International Network Theatre in Prison con la presenza della Direzione Generale dell’International Theatre Institute dell’Unesco
(Vito Minoia, Presidente del CNTiC e Coordinatore INTiP).

La IX edizione, che si svolgerà all’Università Ca’ Foscari, presenterà performance, frutto di laboratori produttivi realizzati con detenuti, una sezione dedicata alla proiezione di video, strumento indispensabile per documentare le esperienze di teatro in carcere, incontri, conferenze e una mostra fotografica. Un progetto in grado di restituire un ampio panorama delle nuove esperienze drammaturgiche sperimentate da registi e autori professionisti che, da anni, lavorano sul campo con detenute e detenuti, spesso direttamente coinvolti nel processo di scrittura e allestimento.

Balamòs Teatro, tra i promotori di questa edizione della rassegna, sarà presente con tre eventi:

Mercoledì 23 Novembre, alle ore 16.00 presso la Casa di Reclusione Femminile di Giudecca (ingresso riservato agli autorizzati), sarà presentato lo spettacolo voci e suoni da un’avventura leggendaria tratto dall’incredibile avventura di Odisseo e i suoi compagni all’isola dei Ciclopi, eroiche avventure, miti e leggende senza tempo raccontati con leggerezza e ironia, diretto da Michalis Traitsis con un gruppo composto da donne detenute della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca e alunni della scuola secondaria T. Tasso di Ferrara.

Mercoledì 23 Novembre, alle ore 19.00, presso la sede della Fondazione di Venezia (Sestiere Dorsoduro, 3488/U), verrà inaugurata la mostra fotografica di Andrea Casari Scatti Sospesi, con un contributo video a cura di Marco Valentini (durata fino al 31 gennaio 2023). La mostra è composta da 40 foto stampate più altre 436 in una video proiezione che ripercorre le varie fasi del progetto Passi Sospesi di Balamòs Teatro negli Istituti Penitenziari di Venezia dal 2006 al 2022 (Casa Circondariale Santa Maria Maggiore, Casa Circondariale SAT di Giudecca, Casa di Reclusione Femminile di Giudecca). Durata della mostra 23 novembre 2022 – 31 gennaio 2023, visitabile da Lunedì a Venerdì dalle 10.00 alle 19.00, ingresso gratuito.

Venerdì 25 Novembre, alle ore 15.00, presso Ca’ Dolfin, Aula Magna Silvio Trentin (Calle de la Saoneria, 3829, Venezia), verrà presentato il video di Marco Valentini Passi Sospesi 2017 – 2021 dall’omonimo progetto teatrale di Balamòs Teatro alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca. Il video documenta il percorso e le metodologie del laboratorio teatrale, le prove e l’allestimento degli spettacoli, l’incontro e confronto con artisti e maestri del teatro contemporaneo, l’incontro e confronto con alunni delle scuole medie e dell’università, la presentazione di spettacoli provenienti dall’esterno.

Locandina della rassegna-DESTINI-INCROCIATI-Venezia, 23-25 novembre 2022

Comunicazione a cura di Balamos Teatro – Ferrara

Informazioni e documenti:

– Programma dettagliato DESTINI INCROCIATI – Venezia 2022
– Locandina voci e suoni da un’avventura leggendaria – Novembre 2022
– Scheda spettacolo voci e suoni da un’avventura leggendaria – Novembre 2022
– Locandina Scatti Sospesi – Destini Incrociati 2022
– Scheda SCATTI SOSPESI – oltre il visibile – mostra fotografica progetto Passi Sospesi 2006-2022
– Locandina video Passi Sospesi Destini Incrociati 2022
– Scheda video documentario progetto Passi Sospesi alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca 2017 – 2021

In Copertina: foto di Passi Sospesi (Balamos Teatro, Ferrara)

Economia Italiana, cittadinanza, stranieri e migranti di passaggio

 

Il tema dell’immigrazione in Italia può essere analizzato da varie angolature, in questo caso prendo in esame in particolare il versante economico, che però è immediatamente connessa ad aspetti più sociali e culturali, oltreché politici. Ancora una volta, quindi, dobbiamo confrontarci con la complessità

Su Repubblica del 25 Ottobre Rosaria Amato anticipa alcuni dati relativi al “Rapporto Annuale sull’economia dell’immigrazionecurato dalla Fondazione Leone Moressa, pubblicato il 14 Novembre.
I numeri indicano che gli stranieri (immigrati regolari) in Italia sono 5,2 milioni e contribuiscono per il 9% al Pil italiano, quasi 144 miliardi di euro in termini assoluti.  Si tratta di numeri in calo dal 9,5% rilevato prima della pandemia, con la contestuale discesa della loro incidenza tra gli occupati dal 10,3% del 2019 al 10% attuale.

Tutto questo ha conseguenze importanti (e preoccupanti) su diversi settori dell’economia italiana. In particolare  sulla agricoltura, l’edilizia e il turismo, dove il ritorno a pieno regime dell’economia dopo le chiusure imposte dal Covid ha evidenziato la difficoltà nel reperimento di manodopera.

Le misure adottate dai vari governi – ad esempio il Decreto Flussi che autorizzava l’arrivo di 70 mila lavoratori –  possono essere delle misure  congiunturali, ma richiedono una migliore implementazione a livello burocratico e gestionale e necessitano di un affinamento per rispondere in modo efficace alle richieste del mondo produttivo.

A questi dati è poi da aggiungere l’impatto positivo sui conti pubblici italiani dei lavoratori immigrati, che vede il saldo tra il gettito fiscale e contributivo (entrate, 28,2 miliardi) e la spesa pubblica per i servizi di welfare (uscite, 26,8 miliardi) rimanere in attivo per +1,4 miliardi di euro. E questo, nonostante la pandemia abbia determinato un calo nei redditi dichiarati da contribuenti immigrati (-4,3%).

Volgendo lo sguardo sull’aspetto sociale dell’immigrazione, possiamo rifarci all’analisi che il Deputato di Sinistra Italiana Aboubakar Soumahoro  – e il fatto che sia attualmente alla ribalta della cronaca per vicende legate ai suoi famigliari nulla toglie alla validità della sua analisi –  riporta nel suo libro “Umanità in rivolta – La nostra lotta per il lavoro e il diritto alla felicità” (Feltrinelli, 2020) relativo alla sua esperienza sindacale nei settori dell’agricoltura, della logistica e della cura alla persona.

Soumahoro sottolinea come l’approccio italiano al tema dell’immigrazione sia stato sviluppato dagli anni ’90 fino a oggi in un’ottica prevalentemente securitaria, presupponendo una diretta correlazione tra immigrazione e pubblica sicurezza, senza invece prevedere veri e regolari percorsi di inserimento per chi vorrebbe venire a lavorare in Italia.

Si applica quindi quella che lui chiama “categorizzazione” alla figura del migrante, il quale si vedrebbe a livello sociale, economico e culturale in una situazione di subalternità rispetto al resto della popolazione, contribuendo così alla generazione dei fenomeni del caporalato e dello sfruttamento lavorativo.

A queste due dimensioni, economica e sociale, si aggiunge quindi l’aspetto più propriamente politico culturale.

Il  concetto di “cittadinanza” che, paradossalmente, nasce nella penisola italiana 2000 anni fa, al tempo dell’Antica Roma.
Valerio Massimo Manfredi e Fabio Manfredi nel loro libro Come Roma insegna” (Libreria pieno giorno, 2021) ci ricordano come, proprio attraverso la cittadinanza “si cementasse all’interno della società romana quell’equilibrio tra diritti e doveri in grado di creare un circolo virtuoso tra i due poli del cittadino e dello Stato, ma quando questa veniva meno, l’equilibrio si rompeva e perdendo la consapevolezza che siamo legati gli uni agli altri da un “patto”, scompare la coscienza del proprio ruolo di cittadino, con i doveri non tanto solo legali ma anche e soprattutto morali che ciò comporta”.
A questo si può far riferimento quando si devono valutare le politiche da adottare in tema di cittadinanza per chi arriva in Italia e per i loro figli.

Occorre quindi approcciare il tema immigrazione, affrontando tre dimensioni, ovvero economica, sociale e culturale. tra loro strettamente legate, non limitandosi ad interventi che rispondono ad un unico aspetto, senza tener conto degli intrecci.
Ecco quindi che Rosaria Amato conclude il suo articolo rilevando come già dal 2011 le partenze degli immigrati dall’Italia siano diventate costanti, per tornare a casa oppure andare in Paesi più affini dal punto di vista linguistico come la Francia o il Regno Unito, contribuendo quindi all’acuirsi dei problemi economici, e della produzione di reddito del nosto paese.

La questione dell’immigrazione non è quindi  sempre più attuale,  ma è urgente affrontarla con interventi organici e strutturali e fuori da una logica emergenziale. Solo così è possibile dare risposte efficaci ad un fenomeno complesso, trasformalo cioè da problema insoluto in occasione di sviluppo economico e di integrazione sociale.

In copertina:  Manifestazione di migranti (foto tratta da SettimanaNews)

IL TOBIA CIRCUS A FERRARA OFF
Equilibrismi e grasse risate per una serata di teatro anche in famiglia

 

Una sala calda, piena di colori, musica dance e tante faccine giovani in mezzo ad alcune più adulte. È un teatro avvolgente e coinvolgente ancor prima che si abbassino le luci quello che mi ha accolto nella serata di sabato 19 novembre 2022 per lo spettacolo “Equilibrium Tremens” a Ferrara Off, lo spazio di recitazione, ricerca e cultura che si trova sulle mura di Ferrara, dietro all’area verde del baluardo del Montagnone al fianco del cuore storico della città.

“Equilibrium tremens”, Ferrara Off (© GioM)

L’energia del pubblico sembra scorrere come una linfa su e giù per la tribuna di sedie e anche attorno allo spazio scenico, circondato da altri posti a sedere a sinistra e a destra. L’attesa, seduti sulle seggiole variopinte e tutte diverse una dall’altra, è già uno spettacolo. Ci sono tanti bambini, famiglie, ma anche diversi ragazzi di età universitaria, fissi al loro posto dove ondeggiano, incatenati e incantati dalla musica ritmata e da un’illuminazione rinnovata di grande atmosfera.

Pubblico al teatro (© Ferrara Off)

I colori bigi, che di solito caratterizzano l’abbigliamento invernale del pubblico, sono rimpiazzati da felpe rosse, piumini imbottiti arancioni, giubbini turchesi, abitini di lana bianca, rosa, maglioni gialli, magliette verdi.

Marco Borghetti e pubblico (© GioM)

Quando entra in scena l’artista è subito un tripudio: il Tobia Circus che propone lo spettacolo “Equilibrium Tremens” è composto da un unico protagonista, attore, funambolo, clown e intrattenitore, che è Marco Borghetti. Una corsa in scena, vestito in abito giacca e pantalone rosato e cappello alla francese, e via che partono gli applausi e gli equilibrismi. Niente clave, palle ed attrezzi luminosi, però, rimpiazzati da semplici oggetti domestici come scope, bastoni da lavapavimenti, seggiolina pieghevole da cucina. Un baule lungo, come quelli dove ci si immagina che una bella fanciulla venga tagliata a pezzetti e poi tirata fuori intera, contiene invece tutto il necessario per una magia più domestica e simpatica, ma non banale. Gli stessi bambini del pubblico gridano “Noo, nooo” quando l’artista accenna a salire sul bastone appoggiato tra la seggiolina e il baule. Lui, intrepido con qualche smorfia di paura, si inerpica sul vuoto lasciando tutti col fiato sospeso e poi scende suscitando sollievo, grasse risate e la crescente predilezione dei suoi spettatori.

Marco Borghetti
“Equilibrium tremens”
Teatro Ferrara Off (foto GioM)

Tutto esaurito in sala per questa prima esperienza di spettacolo adatto anche ai bambini che il teatro Ferrara Off ha proposto in orario serale. Una scelta davvero azzeccata, che ha trovato grande consenso delle famiglie e che ha regalato un’occasione di divertimento svagato e coinvolgente anche agli adulti. “È da tempo che ci chiedevano di organizzare qualcosa che andasse bene anche per i più piccoli alla sera – racconta Stefania Andreotti insieme con il direttore tecnico della compagnia Marco Sgarbi – e il sold-out di questa sera conferma la bontà della scelta”.

Andrea Bochicchio e Marco Borghetti (© GioM)

L’artista Marco Borghetti tornerà in scena con il collega d’arte Andrea Bochicchio sabato 10 dicembre 2022 alle 21 con “Squilibrismi”, un’ulteriore esperienza di ricerca di inaspettati e sempre nuovi equilibri, che è il risultato del lavoro della residenza artistica del duo a Ferrara Off. “Abbiamo creato una macchina – ha anticipato l’artista funambolo – per vedere come ognuno può conquistare in ogni momento il suo non facile equilibrio, che come ha dimostrato la pandemia, è strettamente legato agli altri e a qualcos’altro fuori da noi. È un esperimento e sarete i primi con cui andremo a testarlo”.

Per info: teatro Ferrara Off, viale Alfonso I d’Este 13, Ferrara pagina web https://www.ferraraoff.it/rassegna/autunno-2022/.

GIORNALISTE IN CARCERE PERCHE’ DICONO LA VERITA’

 

Molte giornaliste finiscono in carcere ogni anno perché provano a documentare ciò che sta succedendo nel mondo. Una questione che mi sembra importante affrontare e approfondire è il legame tra il modo di intendere la professione di queste giornaliste, il rischio che corrono e le conseguenze ne derivano.

Zhang_Zhan (foto OMCT, SOS Torture Network)

Un caso che mi ha colpito particolarmente è quello della blogger cinese Zhang Zhan, che è stata torturata dalla polizia segreta cinese e condannata a quattro anni di carcere perché accusata di “false informazioni sui social media” attraverso un rapporto da lei redatto nel 2020 sulla cattiva gestione della pandemia Covid-19 da parte del governo cinese.

In particolare, Zhan ha documentato come funzionari dello Stato molestassero le famiglie degli ammalati. La situazione era sicuramente grave, la malattia allora sconosciuta e la tensione sociale alle stelle, ma questo non giustifica l’atteggiamento dei funzionari del governo. Inoltre, l’uso della tortura nei confronti della giornalista è vergognoso, universalmente inammissibile. [si veda: https://www.amnesty.it/appelli/firma-per-zhan/ ].

Di solito i giornalisti, le giornaliste in questo caso, sono sottoposti a rischi tanto più forti quanto la notizia porta con sé la capacità di sovvertire uno status quo o, comunque, è contraria alla ‘visione dominante’ di un evento, di una politica o ideologia. Il potere dittatoriale si fonda sulla costruzione di un “unica versione dei fatti” che non deve essere sovvertita, pena l’incapacità della dittatura di sopravvivere e prosperare. Questo andare contro la “visione dominante” può essere un rischio calcolato se per calcolo si intende l’accettazione di conseguenze estreme che comprendono anche la messa a repentaglio della propria vita. Fa inoltre impressione che tante di queste giornaliste siano donne che scelgono questa professione accettandone i rischi che riguardano sia l’incolumità professionale, sia una vita familiare e di relazione fortemente condizionata dal “dovere di cronaca”.

L’RSF (Reporters sans frontieres) ricorda che i giornalisti in carcere nel 2021 erano 488, di cui 60 donne, tutti detenuti illegalmente perché la detenzione arbitraria è vietata dal diritto internazionale. L’Art. 9 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo infatti recita «no one shall be subjected to arbitrary arrest, detention or exile» (nessuno può essere sottoposto ad arresto arbitrario, detenzione o esilio). Il documento è stato sottoscritto anche nel Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici.

In Birmania la giornalista Ma Zuzar si trova in isolamento nel carcere di Insein per aver raccontato le manifestazioni contro la giunta militare golpista che si è insediata l’1 Febbraio del 2021. L’1 febbraio di quest’anno i birmani, contrari all’attuale regime, hanno manifestato contro il colpo di stato con negozi chiusi, residenti chiusi in casa e proteste pacifiche. Allo sciopero ha aderito gran parte della popolazione, nonostante le minacce di conseguenze penali arrivate dalla giunta del generale Min Aung Hlaing. Ma purtroppo, lo stato di emergenza è stato esteso di altri sei mesi e le intenzioni del regime di mantenere il potere sono chiare, anche di fronte ad ulteriori sanzioni minacciate dalla comunità internazionale. [si veda: https://www.swissinfo.ch/ita/tutte-le-notizie-in-breve/un-anno-fa-il-golpe-in-birmania–piazza-sfida-la-giunta/47312442 ]

Katsiarina Andreyeva (foto Wikimedia Commons)

In Bielorussia il numero di giornaliste dietro le sbarre (17) è superiore a quello dei colleghi maschi (15). Tra le detenute ci sono Daria Tchoultsova e Katsiarina Andreyeva. Giovedì 18 febbraio 2021 le due reporter del canale indipendente polacco Belsat, sono state condannate a due anni di colonia penale per “organizzazione e preparazione di atti di grave violazione dell’ordine pubblico”. Le due giornaliste sono accusate di aver trasmesso in diretta una manifestazione non autorizzata: stavano infatti filmando una manifestazione in omaggio all’attivista dell’opposizione Raman Bandarenka, nella cosiddetta piazza dei “cambiamenti” a Minsk. L’attivista è morto in circostanze inspiegabili dopo il suo arresto il 12 novembre e le due reporter sono state incarcerate e condannate in maniera illegale. [si veda: https://rsf.org/fr/rsf-d%C3%A9nonce-la-volont%C3%A9-d-annihiler-tout-journalisme-ind%C3%A9pendant-au-belarus-apr%C3%A8s-la-condamnation ]

Sempre secondo RSF sono quattro le giornaliste in carcere in Vietnam, tra le quali Pham Doan Trang, una delle attiviste per i diritti umani più conosciuta in Vietnam. La sua principale attività era quella di promuovere la libertà di informazione in uno Stato a guida socialista che non tollera il dissenso. Oltre ad essere autrice di numerosi libri, Doan Trang è cofondatrice del blog “luật khoa tạp chí” (Giornale di diritto) dove si occupava del tema della difesa della dignità umana in ogni suo aspetto: dalle questioni di genere al cambiamento climatico. Proprio la visibilità di cui godeva, l’ha resa un soggetto sgradito al governo. L’accusa che si trova a fronteggiare oggi Pham Doan Trang fa riferimento all’articolo 117 del codice penale vietnamita pensato per punire coloro che “producono, immagazzinano e diffondono informazioni, materiali e prodotti che cercano di opporsi alla Repubblica federale del Vietnam”.

Tra le vicissitudini di giornaliste incarcerate, Amnesty International ricorda quella di Narges Mohamadi, giornalista iraniana che dopo aver scontato otto anni in carcere, è stata arrestata di nuovo nel novembre 2021. Narges Mohammadi è detenuta arbitrariamente nella prigione di Shahr-e Rey (nota anche come Gharchak) nella città di Varamin, provincia di Teheran. Le stanno deliberatamente negando assistenza sanitaria adeguata come rappresaglia per le sue campagne pubbliche, come quella contro l’uso dell’isolamento nelle carceri o quella per la ricerca delle responsabilità per le centinaia di omicidi illegali avvenuti durante le proteste del novembre 2019. Secondo quanto riportato da suo marito, il 23 giugno 2022 Narges Mohammadi è stata trasferita in ospedale, fuori dal carcere, dopo aver avvertito difficoltà respiratorie e battito cardiaco irregolare. Da quando è tornata in prigione dall’ospedale le sono stati negati alcuni farmaci specifici prescritti dal medico specialista. [si veda: https://www.amnesty.it/appelli/iran-nuova-condanna-per-narges-mohammadi/ ]  Una situazione di assoluto non rispetto dei diritti essenziali di qualsiasi essere umano che, purtroppo, non è così rara come si potrebbe pensare.

Ilaria Alpi (foto Wikimedia Commons)

Se ripercorriamo la storia più recente, troviamo i nomi di molte giornaliste morte per raccogliere e comunicare notizie. Solo per citarne alcune: Lea Schiavi, Graziella De Palo, Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli, Camille Lepage, Anja Niedringhaus, Regina Martinez Perez, Anna Politovskaya, Marie Colvin, Daphne Caruana Galizia, Dada Vujasinovic, Mursal Hakimi, Sadia, Shanaz, Lourdes Maldonado López, Neneng Montano, Mayada Ashraf, Leyla Yıldızhan (alias Deniz Firat), Naseeb Miloud Karfana, Rubylita Garcia, Elisabeth Blanche OlofioKim Wall. Ognuna di loro meriterebbe un posto nei libri di Storia. Alcune, per fortuna, lo hanno già.

Una delle questioni che dovrebbe fare riflettere e che ha a che vedere con tutte queste morti e con altre che purtroppo arriveranno, è la definizione di ciò che è “vero”. La verità, così come la corrente formalista della filosofia intende, è sinonimo di dimostrabilità. In questa accezione, la verità in quanto tale non può essere manipolata perché perde il suo attributo essenziale, la dimostrabilità.

Senza entrare in dissertazioni filosofiche, credo che il legame tra osservazione (attenzione intesa all’ottenimento di una visione completa e dettagliata o alla formulazione di un giudizio, motivata per lo più da ragioni tecniche o scientifiche o anche da una notevole capacità intuitiva), documentazione (il complesso delle attività e operazioni occorrenti per raccogliere e classificare materiale bibliografico, informativo, dimostrativo), interpretazione (il modo di scoprire e spiegare quanto in uno scritto o discorso è oscuro o oggetto di controversia, di attribuire un significato a ciò che si manifesta o è espresso in modo simbolico, attraverso segni convenzionali o noti a pochi) e diffusione (comunicazione di qualcosa a un numero sempre maggiore di persone, sinonimo di  divulgazione) sia l’ossatura necessaria alla costruzione di una verità dimostrabile.

Se ognuna di queste fasi è svolta con rigore e onestà intellettuale ci avviciniamo a ciò che comunemente possiamo intendere dimostrabile e quindi vero. In nome della “salvaguardia della verità” si annida la deprecabile motivazione ad imprigionare e uccidere, grazie alla dimostrabilità si vivifica una notizia e si dà nuova voce a chi la può dimostrare. Questo tema (solo accennato) non riguarda le singole persone arrestate e torturate, ma riguarda tutte quelle situazioni in cui si legittima, o si tenta di legittimare, la violenza come unico mezzo per continuare a garantire l’affidabilità di ciò che viene propagandato come vero.

Ogni volta che un evento non può essere dimostrato perde potere di comunicazione e cambiamento. Ciò che non è definibile non è legittimo, non esiste, così come smette di esistere colui o colei che ha provato a costruire la sua identità professionale secondo un processo di dimostrabilità delle notizie diffuse che, se non riuscito, viene azzerato, fatto a pezzi.

Ogni giornalista ha il diritto di dire ciò che pensa in qualunque territorio si trovi, in qualunque nazione viva, in qualunque regime politico scriva e in qualunque setting debba gestire relazioni.

Non è accettabile che tranquillità, benessere, decisione, ordine, possano, anche subdolamente, essere associati alla mancanza di notizie, o alla loro censura o all’affidamento del “newsmaking” ad una cerchia di comunicatori che appartiene alla stessa ideologia di chi comanda. Questo è pericoloso, irresponsabile, non democratico, demagogico e prova che il circuito del progresso ha bisogno di rinforzi.

Cover: Narges Mohammadi una donna da difendere almeno con una firma  AgoraVox

L’epoca dei Mondiali tristi

 

Debuttano oggi – tra i cartelloni malinconici del Black Friday e le cataste di panettoni industriali nei supermercati – i primi Mondiali di calcio giocati quando nell’emisfero nord del pianeta le giornate sono brevi e (speriamo) fredde.

L’aria, dunque, potrebbe pure farsi frizzante, ma non in quel modo specialissimo in cui lo diveniva quando, ogni quattro anni, tra le finestre aperte dell’estate rimbombavano le voci omologhe della giungla dei televisori, le urla strozzate dei quasi-gol, gli improvvisi silenzi delle reti avversarie.

Sulle prossime serate mondiali, invece, tutto tace e, personalmente, non ho ancora sentito, nemmeno prendendo il cappuccino al bar, una sola conversazione che le avesse come oggetto. I rigori invernali attutiscono quelli calcistici?

Certo, conta anche il fatto che l’Italia, per la seconda volta consecutiva, non si è qualificata per la competizione. Ma anche di questo si è smesso di parlare.

Ricordo ancora i primi Mondiali (allora Coppa Rimet) cui ho assistito consapevolmente. Erano quelli della famosa eliminazione dell’Italia ad opera della Corea del Nord, vissuta come un fallimento talmente abissale da divenire proverbiale. Il commissario tecnico Mondino Fabbri fu un buon allenatore, prima e dopo la Corea, ma il suo nome rimase a lungo patetico sinonimo di disfatta.

Qui, c’è un primo interrogativo perturbante: cosa differenzia Mondino Fabbri – e anche il buon Giampiero Ventura, il quale dopo l’eliminazione del 2018 contro la Svezia sostanzialmente non ha più lavorato – dal Mancio?
Perché a quest’ultimo – responsabile del peggiore dei tre fallimenti – non è stato richiesto a furor di popolo di uscire di scena come i suoi predecessori di sventure e, anzi, tanto la disfatta che la sua conferma nel ruolo di commissario tecnico sono state metabolizzate e digerite come se nulla fosse?

Il fatto è che Mancini – per geni, per storia, per relazioni, per reddito, per trucco e parrucco – appartiene con tutta evidenza a quel nuovo genere antropologico nato dall’evoluzione della società dello spettacolo (nel senso di Guy Debord) e dal culto secolarizzato del successo.

Si tratta di una nuova forma di trascendenza infra-umana – quella delle nuove divinità del pantheon globale – alla quale l’uomo comune si è assuefatto nel corso degli ultimi decenni, percependola ormai come per lui intangibile e inarrivabile. Se mai, le si rivolge soltanto attraverso quella grancassa demotica dello spettacolo che sono i social, con l’effetto reale – qualunque cosa ne dica – di espandere l’alone divino.

Già questo produce sconforto. Perché fa del tifoso uno spettatore, un suddito dell’oligarchia dello spettacolo. Della sua passione, il principio energetico della subordinazione, ovvero qualcosa che suscita afflizione.

Anche per questo, parafrasando il titolo di un famoso saggio di Benasayag e Schmit di qualche anno fa, possiamo dire di essere ormai nell’epoca dei Mondiali tristi.

Anche per questo, ma non solo per questo. Torniamo, infatti, a quel che ci attende nel prossimo mese, alle “notti algide”, inseguendo un goal sotto il cielo di un inverno patriota.

Occorre premettere che il mondiale qatariota è, innanzitutto, una carneficina:
secondo The Guardian, i lavori di predisposizione delle diverse strutture necessarie sono costati la vita ad almeno 6500 lavoratori, forse più propriamente definibili schiavi (leggi qui).

Lavoro schiavistico in Qatar

Qui, però, non si tratta di tristezza, bensì di orrore. Un orrore che non di rado, sotto varie forme e con diverse gradazioni, si è coniugato ai Mondiali di calcio, senza mai riuscire a suscitare emozioni in grado di prevalere su quelle calcistiche (leggi qui).

Anche nelle occasioni più controverse, come Argentina 1978, i Mondiali hanno infatti sempre alimentato quell’atmosfera speciale, quell’euforia così inconfondibilmente coloniale che sappiamo nutrire noi, cinici bambinoni europei e affini.

L’organizzazione dei Mondiali è fin qui stata, ça va sans dire, profondamente eurocentrica, a cominciare proprio dal fatto che sono sempre stati giocati quando nell’emisfero boreale è estate, in modo che ce li potessimo godere quando la ruota dei pensieri dell’anno gira per noi più lievemente.

Nelle edizioni disputate in passato nel nostro continente, gli orari delle partite non sono stati certo stabiliti pensando al, pur appassionatissimo, pubblico sudamericano. All’opposto, chi non ricorda l’edizione 1994, giocata in una torrida estate statunitense, con alcune partite disputate alle 12, ora locale, in tempo per il giusto sollazzo pomeridiano di là dall’oceano?

Anche le edizioni apparentemente per noi più scomode, come Mexico ’70, erano strutturate in modo tale da darci un brivido particolare, che si espandeva in quel caso nel godimento un po’ sedizioso delle riunioni notturne, in una sorta di cospirazione di massa che esplose infine, per noi italiani, nella conquista delle piazze.

Ciò che, quindi, viene superato con i Mondiali del Qatar non è assolutamente l’eurocentrismo, e tantomeno il cinismo. Ciò che viene superato è la connessione al godimento, nella sua forma diffusa e popolare.

In questo modo, eurocentrismo e cinismo si amplificano, asservendosi alla pianificazione razionale dell’evento in vista della sua massima utilità per quell’oligarchia semi-divina di cui parlavamo prima.

Il cinismo si fa quasi ascetico coniugandosi a un utilitarismo esclusivo ed elitario, il godimento diviene accessorio e marginale, cosa alla quale il popolo si adegua ancora una volta con la massima naturalezza predisponendosi alla fruizione anonima dello spettacolo che sta andando in scena.

E così, ci hanno fottuto pure i Mondiali.

Per certi versi /
PECUNIA OLET

PECUNIA OLET

Saranno i mondiali
Dell’omofobia
Dicono
Si sa
E si manda giù

Tuttavia
Ma per ora
Sono anche
I mondiali
Della schiavitù
Sul lavoro
Delle migliaia
Di morti
Sul lavoro
Come se l’antico Egitto
Si fosse reso vivo
In quest’epoca
Assurda
Dove si muore
Come niente
Per costruire
Stadi faraonici
Mondi virtuali
In nome
Del dio pallone
Degli dèi del calcio
Si sa
Si manda giù
Nonostante tutto
Le vedremo in tv
E si manda giù
Che
Frotte di schiavi
Perdano ogni misura
Ogni dignità
Tutto
Per un soffio marcio
Di dollar
Pecunia olet!
Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio. Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

UN REDDITO DI BASE UNIVERSALE:
le vittime del cambiamento climatico vanno risarcite

di Juana Pérez Montero (pressenza)

Condividiamo la presentazione fatta al II Forum mondiale per l’acqua, la terra, il clima e la diversità, promosso dalla senatrice argentina Andrea Blandini e che ha avuto luogo il 1° novembre. Parla di chi sono i responsabili ultimi del cambiamento climatico, della povertà e delle carestie che lo accompagnano e di come la riparazione di questa ingiustizia, di questo debito storico, possa iniziare dalla concessione di un reddito di base universale, incondizionato, individuale e sufficiente a ogni essere umano, cioè a tutta l’umanità.

Andrea Blandini 

Il cambiamento climatico è indiscutibile, lo sperimentiamo ogni giorno… ma le grandi potenze e i loro governi servili continuano a muoversi ignorando la gravità della situazione. Non importa quali dichiarazioni facciano o come giustifichino le loro azioni, ciò che conta sono i fatti e questi parlano da soli.

Vedremo come finirà la COP27, che si sta svolgendo in Egitto in questi giorni.
Non ci aspettiamo molto se osserviamo i suoi sponsor, tra i quali ci sono i maggiori rappresentanti di coloro che continuano a “giocare” alla morte sotto forma di guerre e varie forme di violenza, i rappresentanti di coloro che hanno scelto ancora una volta di tornare a fonti energetiche inquinanti, alla difesa di alimenti dannosi per la salute umana e ambientale, le aziende le cui politiche di delocalizzazione stanno causando sempre più miseria. Le stesse imprese che difendono l’energia nucleare sotto forma di armi o centrali nucleari, con tutti i pericoli che questo comporta e l’inquinamento che si genera durante tutto il processo: dal momento in cui i minerali da utilizzare vengono estratti dalla terra fino al trattamento delle scorie nucleari.
Tra l’altro, sono le zone delle popolazioni indigene a essere più colpite dagli esperimenti nucleari ed è soprattutto l’Africa a essere usata come “cimitero” per le scorie radioattive, senza che le popolazioni ne siano consapevoli.

Non smetteremo di attirare l’attenzione sulle conseguenze di un incidente nucleare o dell’uso di armi nucleari sul cambiamento climatico. Oggi sappiamo che mai, dalla Seconda Guerra Mondiale, abbiamo corso un rischio così grave che accada una cosa del genere. Dobbiamo esserne consapevoli e prendere posizione.

Ma chi sono già le maggiori vittime del cambiamento climatico, anche in assenza di incidenti o di attacchi nucleari?

Le grandi maggioranze, coloro che stanno in basso, la base sociale di qualsiasi paese, e soprattutto il sud globale… Mentre gran parte delle popolazioni del nord hanno finora beneficiato degli abusi ai danni del sud, questi benefici stanno cessando, con una minoranza sempre più ricca che spinge e beneficia di questo disastro.

E che caratteristiche ha un tale disastro?

Ha molte facce, senza dubbio: carestia, povertà, migrazioni forzate… dolore, sofferenza e morte.

Ci concentreremo qui sulla povertà, sulla fame e sulla distribuzione della ricchezza. E lo faremo sulla base di rapporti di organizzazioni difficilmente sospettabili di essere “rivoluzionarie”. Tutte lanciano l’allarme sulla situazione che si è creata dopo la pandemia COVID, che si è notevolmente aggravata con la guerra in Ucraina.

Alcuni rapporti

Diamo un’occhiata ad alcuni report che forniscono dati più che rilevanti:

La FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) afferma nel suo rapporto 2022:

828 milioni di persone hanno sofferto la fame nel 2021: 46 milioni in più rispetto all’anno precedente e 150 milioni in più rispetto al 2019″.

Sottolinea che sono le donne e i bambini i più colpiti e lancia l’allarme per i prossimi anni e per gli obiettivi prefissati: “In prospettiva, si prevede che quasi 670 milioni di persone (l’8% della popolazione mondiale) continueranno a soffrire la fame nel 2030, anche tenendo conto di una ripresa economica globale. Questo dato è simile a quello del 2015, quando l’obiettivo di porre fine alla fame, all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione entro la fine del decennio era stato fissato come parte dellAgenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”.

Segnaliamo il rapporto della Banca Mondiale del settembre di quest’anno:

Per quasi 25 anni, il numero di persone che vivono in condizioni di estrema povertà è diminuito costantemente. Tuttavia, la tendenza si è interrotta nel 2020, quando la povertà è aumentata a causa delle perturbazioni provocate dalla crisi COVID-19 e dagli effetti dei conflitti e dei cambiamenti climatici.

I più colpiti sono stati: le donne, i giovani e i lavoratori a basso salario e irregolari. Le disuguaglianze sono aumentate sia all’interno dei Paesi che tra di essi.

E avverte… I governi possono spesso mitigare l’impatto dell’aumento dell’inflazione sulle famiglie povere attraverso politiche di protezione sociale. Tuttavia, a differenza dei precedenti periodi di elevata inflazione dei prezzi dei prodotti alimentari, le finanze pubbliche sono state messe a dura prova dalle varie misure fiscali adottate durante la crisi COVID-19.

Di certo la Banca Mondiale non spiega come la ricchezza che è “sparita” sia finita in poche mani né come opera nei Paesi le cui finanze pubbliche non sono in grado di dare risposte.

Passiamo ora ad alcuni dati del rapporto annuale 2022 di OXFAM, intitolato “Trarre profitto dalla sofferenza“.

Questa organizzazione ha calcolato che, nel 2022, 263 milioni di persone in più rispetto a quelle che già c’erano, passeranno a uno stato di povertà o, in altre parole, un milione di persone in più ogni 33 ore. Parallelamente, nei due anni della pandemia, sono apparsi 573 nuovi miliardari in tutto il mondo.

Lo studio rivela che, a livello globale, le aziende dei settori energetico, alimentare e farmaceutico stanno realizzando profitti record.

E precisa: l’anno scorso cinque delle principali compagnie energetiche del mondo (BP, Shell, Total Energies, Exxon e Chevron) hanno realizzato insieme 2.600 dollari di profitti al secondo.

Un altro dato rilevato da Oxfam e già sottolineato in modo più blando dalla Banca Mondialequasi il 60% dei Paesi a basso reddito è sull’orlo della bancarotta, non essendo in grado di far fronte al proprio debito pubblico.

Per concludere con i dati, ci sembra interessante richiamare l’analisi fatta dall’ONG Manos Unidas nel 2015, un’analisi che possiamo sottoscrivere oggi e i cui dati al momento attuale sono molto più allarmanti:

Più di 670 milioni di persone soffrono la fame nel mondo. È una cifra agghiacciante, destinata ad aumentare secondo tutti i rapporti. È agghiacciante soprattutto se si considera che abbiamo la capacità produttiva di sfamare 12 miliardi di persone (all’epoca eravamo circa 7,3 miliardi).

Il rapporto prosegue dicendo che: “La fame nel mondo è quindi un problema risolvibile. Ma i leader internazionali non riescono a trovare un accordo. Hanno in mano la chiave per sradicare la fame nel mondo, ma non la usano. Hanno la reale volontà di porre fine al problema della fame nel mondo?” È una domanda che ci poniamo anche noi.

E di seguito, leggiamo e condividiamo quanto dichiarato:

“Le cause della fame nel mondo sono molteplici, tra cui: il soffocante debito estero dei Paesi poveri; le relazioni commerciali inique tra Nord e Sud; il ruolo immorale delle grandi imprese, degli speculatori e delle banche e, naturalmente, la corruzione di alcuni leader africani, asiatici e latinoamericani.

Questo rapporto conferma ciò che pensiamo. È una minoranza del Nord globale la responsabile ultima del disastro economico e ambientale che stiamo vivendo e delle carestie che si stanno diffondendo soprattutto nel Sud globale, anche se la fame e la precarietà stanno colpendo le popolazioni di tutto il pianeta, mentre le misure di protezione sociale che alcuni governi hanno messo in atto sono messe in discussione, se non cambiano le proprie politiche.

È una minoranza del Nord globale la responsabile ultima di questo disastro. In altre parole, questa minoranza ha un debito storico – come abbiamo sottolineato – che è ora di sanare.

Riparazione storica

Ma come si può conseguire questa riparazione? Ricordiamo alcuni punti:

C’è ricchezza più che sufficiente a sfamare l’intera umanità. Una ricchezza che sta crescendo, tra l’altro… e che appartiene a tutti noi, poiché è stata generata dall’accumulo storico di tutte le generazioni che ci hanno preceduto e dal contributo di tutta l’umanità di oggi.

I grandi beneficiari di questa ricchezza, tra cui le grandi compagnie energetiche, le imprese di comunicazione, le industrie degli armamenti, le banche, il capitale finanziario internazionale… operano sulla base di un modello globale. I confini non esistono per loro, ma solo per i poveri… Se è possibile per loro, perché accettare che siano un impedimento per le maggioranze?

Un altro punto: in generale, tutte queste aziende non pagano tasse perché hanno la loro sede in paradisi fiscali o grazie a scappatoie legali… e, quando le pagano, lo fanno con aliquote molto basse, basate su sistemi fiscali che tassano i più poveri a vantaggio dei più ricchi.

Siamo immersi in una situazione che non ha via d’uscita se non optiamo per misure e politiche diverse da quelle che già conosciamo e che aggravano il disastro ogni giorno. Misure che saranno bollate come ingenue ma che noi consideriamo coraggiose, morali, urgenti e possibili, tra cui la rivendicazione del NO alle armi nucleari e del NO alle guerre. Misure che dobbiamo esigere dalla base sociale, poiché sembra che i governi da soli non le porteranno avanti.

Garantire la sussistenza attraverso un Reddito di Base

Una delle prime misure deve essere quella di assicurare che ogni essere umano, per il semplice e sacrosanto fatto di esserlo, abbia una sussistenza garantita.

E per garantire questa sussistenza, proponiamo l’implementazione di un Reddito di Base o Rendita di Base, secondo la denominazione di ciascun Paese.

Ricordiamoci di cosa si tratta, quando parliamo di Reddito di Base: stiamo parlando di un reddito che ogni persona riceverebbe dalla nascita, cioè sarebbe universale. Inoltre, sarebbe incondizionato, verrebbe dato a tutta la popolazione (anche se non tutti ne avranno un vantaggio economico). Anche i più ricchi lo riceverebbero, ma pagherebbero più tasse per poterlo attuare). Sarebbe individuale (a differenza degli assegni familiari) e sufficiente (cioè al di sopra della cosiddetta soglia di povertà).

Naturalmente, per il momento, l’importo sarebbe diverso a seconda del Paese ma, in futuro, noi della Rete Umanista per il Reddito di Base sosteniamo che dovrà livellarsi nella misura in cui avanzeremo verso l’eliminazione delle frontiere per le persone e in direzione della costruzione di una Nazione Umana Universale, come noi umanisti universalisti sosteniamo.

E come si può realizzare?

A livello statale, ci sono Paesi che possono attuarla, ma per un buon numero di Stati che oggi non ne hanno la capacità proponiamo che siano le Nazioni Unite ad assumersi il compito di attuare questa misura, ricevendo fondi dagli Stati e dalle grandi aziende e facendoli arrivare negli angoli più remoti del pianeta (ci sono esperienze di questo). Quale momento migliore per le Nazioni Unite per assumere un ruolo trascendentale a favore della vita!

Indicheremo solo alcune misure per rendere disponibili i fondi necessari per il Reddito di Base

A livello statale, cambiando il sistema fiscale, sostenendo un sistema progressivo con tasse specifiche sulle grandi fortune. I governi stanno resistendo alle pressioni delle stesse imprese che beneficiano della crisi attuale.

Il pagamento di prezzi equi e delle tasse da parte delle grandi aziende, che oggi saccheggiano le risorse naturali dell’intero pianeta, nei Paesi di origine dei materiali che saccheggiano, affinché le loro popolazioni possano avanzare.

Cancellazione del debito estero dei Paesi, che è fondamentalmente privato e quindi illegittimo.

Legislazione nazionale e internazionale per la tassazione delle operazioni di borsa.

L’introduzione di tasse sulle macchine, che ogni giorno sostituiscono sempre più lavoratori… Un elemento, tra l’altro, che può liberare gli esseri umani dalla “schiavitù” del lavoro.

Potremmo continuare… ma se queste misure venissero attuate e se a un’organizzazione come le Nazioni Unite venissero dati i poteri e i mezzi per attuarle, porremmo fine alla fame nel mondo in un baleno; le persone potrebbero anche iniziare a realizzare progetti economici e agricoli per contribuire a cambiare il corso degli eventi a livello climatico.

Amici, stiamo vivendo la fine di una civiltà che ci sta portando alla morte. Ribelliamoci, cerchiamo soluzioni globali che ci liberino.
Mettiamo intenzione, spingiamo, osiamo pretendere misure che siano alla base di una nuova civilizzazione, all’altezza dell’essere umano e che mettano al centro la Vita con la maiuscola.

(Traduzione dallo spagnolo di Matilde Mirabella. Revisione di Thomas Schmid)

L’Europa delle libertà che sacrifica il lavoro:
appunti per una Comunità delle Nazioni

 

Danilo Taino (il Corriere della Sera, 3.11.22) racconta di uno studio di Gòes e Bekkers pubblicato dal WTO (Organizzazione del Commercio Mondiale) secondo cui il nuovo mondo bipolare che si va formando in due aree geopolitiche (il primo attorno a Usa, il secondo attorno alla Cina), produrrà una riduzione del “benessere”, inteso come scambi commerciali, che potrebbe arrivare al 10%. Il disaccoppiamento è già in atto ed è probabile che, per esempio, alcuni beni cinesi (o russi, vedi il gas) non saranno più così a buon mercato come prima (e, viceversa per “loro”, molte tecnologie arriveranno per esempio in Russia, India, etc. dalla Cina e non dall’Occidente).
La conclusione di Taino (e del mainstream oggi) è che la globalizzazione è positiva, mentre il “muscolare ritorno degli Stati nazionali meno” e che quando si afferma una “politica di potenza, l’economia e il benessere sono vittime”.

La tesi (nota) è che la “libertà di mercato”, a cui Taino aggiunge “e la libertà in generale” (che invece nulla c’entra) producono benessere per l’umanità. Ora non c’è dubbio che siamo in presenza di un ritorno degli Stati nazionali, ma non è assolutamente detto che ciò sia negativo per il vero benessere delle persone e che una limitazione della globalizzazione significhi svantaggi nel benessere per tutti. Non è detto che un mondo meno consumista significhi meno sviluppo umano.

L’Europa è stata sognata dai suoi fondatori come un luogo dove potessero convivere in pace Stati che si erano combattuti per decenni e così prosperare. Ma più ancora del “libero mercato” era la pace il prerequisito. E’ anche vero il contrario e cioè che gli scambi commerciali favoriscono la pace, ma è anche vero che il “libero mercato” se non è equo e graduale, può portare alla guerra, al colonialismo, allo sfruttamento delle altrui risorse, distruggere economie, lavoro e natura.

L’Europa ha funzionato, per esempio, finché il libero mercato è stato esteso tra i Paesi fondatori che avevano più o meno lo stesso welfare e condizioni di lavoro e reddito non troppo dissimili (Italia, Francia, Germania, Benelux e gli altri ammessi nel 2001). Ciò ha consentito per la gradualità del processo che la nostra industria degli elettrodomestici (per esempio) distruggesse quella del Nord Europa che si spostava su tecnologie più avanzate.

Nel 2004 vengono però ammessi 10 paesi dell’Est Europa che hanno 100 milioni di lavoratrici e lavoratori la cui paga è un quarto o un quinto di quella dei paesi fondatori (dai 400 euro della Bulgaria ai 2.300 del Lussemburgo).
E poiché i Trattati europei hanno come primato quattro sacre libertà di movimento: di capitali, merci, servizi e persone, ma non la tutela del lavoro, com’è per esempio – e solennemente – nella nostra Costituzione al primo articolo (e il diritto europeo prevale su quello nazionale), è successo che imprese dell’Est venissero a produrre in Europa (o in Svezia) portandosi dietro le loro normative nazionali con effetti di dumping sociale e fiscale.

Ciò ha consentito a molte imprese dei paesi fondatori (specie Germania) di delocalizzare la produzione all’Est, di spostare la sede legale nei paradisi fiscali d’Europa (Olanda, Lussemburgo, Irlanda), creando diffuse perdite di lavoro e di reddito a milioni di lavoratori dei Paesi a welfare maturo.
Trent’ anni di globalizzazione hanno prodotto un impoverimento di massa che ha colpito anche le classi medie – tra chi lavora in Italia, un quarto è considerato povero. Questo aspetto, a mio avviso, è alla base dello spostamento elettorale verso destre “sociali” (che si preoccupano di tutelare lavoro e imprese nazionali, vedremo se a parole o realmente) in contrapposizione ad una sinistra che enfatizza l’Europa, ma lascia completamente scoperto il problema della svalutazione del lavoro che avviene introducendo una competizione al ribasso nelle condizioni di lavoro e nei welfare.

Non è un caso che nello Statuto della Banca Centrale Europea ci sia solo la difesa dell’inflazione ma non dell’occupazione (come politica monetaria) che è invece presente nella stessa Federal Reserve Usa e nella Bank of England. Moltissimi economisti di grande valore (Guido Carli, Federico Caffè –maestro di Draghi-, Claudio Napoleoni, Giorgio La Malfa nel suo libro su Keynes) hanno spiegato che il “libero mercato” funziona se si estende con gradualità e regolazioni per evitare di distruggere lavoro nelle economie più deboli (come nella boxe, dove è vietato che un peso piuma competa con un peso massimo), produzioni locali e welfare. E ciò spiega perché i giudici costituzionali italiani, tedeschi, cechi, portoghesi e, da ultimi, polacchi abbiano posto legittimamente “contrappesi” al primato del diritto europeo.

Alcuni giganteschi problemi, tra i quali lo “spiaggiamento del lavoro”, fanno si che il progetto europeo, basato sulle 4 sacre libertà di circolazione di capitali, merci, servizi e persone, che privilegia il “consumatore” (che però è anche un lavoratore), si trovi oggi di fronte ad un collasso di paradigma.

In gioco non c’è un “aggiustamento al margine” come molti onesti riformisti credono, ma la ricostruzione dei suoi pilastri fondamentali, tra cui la valutazione di un ulteriore allargamento all’Ucraina, Georgia, Moldavia e Paesi Balcani che porterebbe l’Europa da 27 a 36 Stati.
Una scelta che, a mio avviso, porterebbe alla dissoluzione dell’Europa che abbiamo conosciuto e che potrebbe portare a quel “divorzio consensuale” di cui ha parlato il premio Nobel J. Stiglitz. I riformisti federalisti pensano che con l’abolizione del voto unanime sia possibile procedere come “se nulla fosse”, togliendo gradualmente sovranità agli Stati nazionali per cederla a questa Europa.

Io credo invece che l’Europa del futuro si potrà fare solo come “comunità degli Stati nazionali” dove ha un ruolo ancora importante la singola Nazione (come recita la nostra Costituzione) e dove le 4 sacre libertà dovranno essere messe in discussione per essere equilibrate dalla protezione del lavoro e dei welfare nei singoli paesi.

Più che un’Europa Unita dovrà essere un’ Europa Comunità, dove l’integrazione crescente sarà sostenuta da una filosofia di “tolleranza costituzionale”, secondo la definizione di Joseph Weiler, poco sospettabile di simpatie sovraniste, in cui la “legittimazione delle decisioni politiche deriva non dal destino da realizzare ma dalle decisioni dei popoli”.

Una visione realista che potrebbe portare ad “un passo indietro” nell’allargamento, mantenendo una seconda “periferia” di Paesi con cui scambiare e dialogare, ma che punta a quella comunità coesa tra Stati fondatori che mai è avvenuta e che implica soprattutto una nostra indipendenza nel mondo e una maggioranza qualificata sulle materie più rilevanti: politica estera, difesa e tassazione.

Storie in pellicola /
Nik e Tesla, fratelli agli antipodi

Storie di fratelli, di vite che fanno i conti con paure e segreti, di rapporti familiari delicati e conflittuali, in cerca di equilibri affettivi difficili da ritrovare. Il fil rouge di Mio fratello, mia sorella, di Roberto Capucci, è la famiglia e le sue incomprensioni e malintesi, quegli ostacoli alla felicità che non dovrebbero mai esserci.

Alla morte del padre, un singolare patto successorio obbliga Tesla (Claudia Pandolfi) e suo fratello Nikola/Nik (Alessandro Preziosi) a una convivenza forzata: vivere sotto lo stesso tetto dopo non essersi visti per oltre vent’anni non sarà semplice. Tanto più se, fra quelle mura domestiche, vi sono anche due figli-nipoti, ciascuno con le proprie difficoltà: Sebastiano/Seba (Francesco Cavallo, vera rivelazione), un violoncellista di talento affetto da schizofrenia, al quale Tesla ha dedicato la vita e un’ossessiva e soffocante protezione, e Carolina (Ludovica Martino), con la quale ha un rapporto difficile e conflittuale.

Il film inizia con il funerale di Giulio Costa, stimato professore e luminare della fisica, pianto dai colleghi e dalla sua famiglia. La figlia Tesla è triste e attonita, quando all’improvviso in chiesa entra un uomo, con un paio di zaini e vestito come se arrivasse dalla spiaggia: è il fratello Nikola (i due fratelli hanno, in due, il nome dello scienziato Nikola Tesla), che da vent’anni ha mollato tutto per andare a fare kitesurf in Costa Rica.

Alessandro Preziosi, ©LUCIAIUORIO

Tesla, che è divorziata e manda avanti la famiglia da sola, non è entusiasta di vedere il fratello, ma il notaio spiega loro che l’ultima volontà del padre, che non ha lasciato soldi come invece si aspettavano tutti, è che i figli convivano per un anno nella casa in cui Tesla vive con Sebastiano e Carolina, che ne approfitta subito per trasferirsi da Emma (Caterina Murino), amica di famiglia, nonché pianista della scuola frequentata da Seba, con cui hanno in programma un concerto a due.

Caterina Murino, Francesco Cavallo ©LUCIAIUORIO

Inizia quindi la difficile convivenza tra fratello, sorella e il sensibile e delicato Seba, con i suoi disturbi e la sua ferma convinzione di trasferirsi su Marte per portarvi la musica.

Ludovica-Martino, Caterina Murino ©LUCIAIUORIO

La storia è commovente, coinvolgente ed empatica, con tanti ingredienti: dolore, storie di rapporti e relazioni familiari, diversità, disabilità mentale, disagio, sofferenza, incomprensione, conflitti, malintesi, senso di libertà, protezione, ossessione, accettazione, dipendenza reale e affettiva, senso di responsabilità, conflitti, amore. Molto bella anche la musica, quasi esclusivamente classica, dal potere quasi taumaturgico, in particolare Al chiaro di luna di Beethoven suonata da Nik e Seba, insieme.

Sarà un difficile, ma intenso e bellissimo, viaggio verso il perdono, l’accettazione di sé stessi e dei forti e indissolubili legami affettivi e familiari. Prende il cuore.

Mio fratello, mia sorella, di Roberto Capucci, con Alessandro Preziosi, Claudia Pandolfi, Ludovica Martino, Caterina Murino, Francesco Cavallo, Italia, 2021, 110 mn.

Di Covid non si muore più. Di tutto il resto si muore di più.
I costi sociali e sanitari della pandemia

 

L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha pubblicato il 4 novembre il nuovo report che fa il punto sulla Covid-19 in Italia. Sono ormai 23,8 milioni le persone che hanno avuto il virus e quindi sviluppato una immunità naturale e 176.322 i deceduti dal 2020. Oggi la nuova variante BA5 è ormai diffusa nel 93% dei casi, una variante che è completamente diversa dal suo ceppo originario.

La letalità della Covid è però crollata di 100 volte passando dal 19,6 di inizio pandemia a 0,2 per 100mila abitanti, un valore molto piccolo per destare una vera preoccupazione se si pensa che i decessi giornalieri in Italia per la Covid sono 13 (media dell’ultima settimana di ottobre), ma sono ben 164 in più (rispetto al pre-Covid) quelli dovuti ad altri fattori; che si traducono in un totale di 1.908 decessi giornalieri (media annua 2022 stimata sui primi 8 mesi) per tutte le cause. I 13 decessi medi giornalieri Covid colpiscono poi quasi sempre anziani che avevano già gravi patologie pregresse.

Le re-infezioni sono state 1,3 milioni dal 24 agosto 2021 al 2 novembre 2022, il 5,9% di chi si era già ammalato.

Una certa preoccupazione nasce dal fatto che, nonostante la mortalità da Covid sia diventata molto bassa, permane elevata la mortalità in eccesso (per tutte le cause): nei primi 8 mesi del 2022 è +9,5% rispetto al periodo pre-Covid (era salita a +15,7% nel 2020 e a +9,9% nel 2021). Ciò significa che l’Italia ha circa 60mila morti in più rispetto al periodo pre-Covid (per tutte le cause) e quindi la media giornaliera dei decessi è passata da un valore di 1.742 morti degli anni 2015-2019 a 1.908 nel 2022.
(Fonte: elaborazione dell’Autore su dati Eurostat)

Come mai la mortalità per tutte le cause non scende? L’ipotesi principale è che ci siano state molte operazioni rimandate per via dell’emergenza Covid e moltissimi accertamenti, anche preventivi, e terapie siano “saltate”. Potrebbe aggiungersi a ciò il fatto che la vaccinazione diffusa abbia indebolito il sistema immunitario per cui, anche a fronte di fattori predisponenti e concomitanti come il deterioramento del clima, delle relazioni sociali e del sistema di sanità pubblica, la domanda inquietante è: dobbiamo aspettarci nei prossimi anni tassi più elevati di mortalità di quanto sarebbe accaduto se non avessimo avuto la pandemia?

Una conferma di questa ipotesi viene dai dati ISS diffusi il 4 novembre, che mostrano come il booster (o richiamo) produca un aumento dei contagiati tra i vaccinati rispetto ai non vaccinati. Se da un lato il booster dà una maggiore protezione per la malattia grave e il decesso nei primi 6 mesi, dopo i 6 mesi non è più così, per cui si dovrebbe ricorrere ad un nuovo booster. Ma, a lungo andare, tutti questi richiami potrebbero indebolire il sistema immunitario rendendolo più fragile, non tanto per far fronte alla Covid ma a tutte le altre malattie.

Dall’inizio dell’epidemia sono stati diagnosticati 4.680.674 casi nella popolazione 0-19 anni che è di 10 milioni di bambini-adolescenti, di cui 23.964 ospedalizzati, 534 ricoverati in terapia intensiva e 75 deceduti (quasi tutti fragili e con altre patologie pregresse). Ciò mostra che quasi la metà sono risultati “positivi” (moltissimi asintomatici, cioè senza alcuna manifestazione patologica), e poi non c’è stata alcuna conseguenza reale: “tanto rumore per nulla”. Questo ha prodotto però un danno enorme in termini di mancato apprendimento, education e problemi psicologici e relazionali per 2 anni consecutivi, i cui effetti si trascineranno nei prossimi anni. Vien da dire (forse con il senno di poi): fortunati quei paesi che non hanno chiuso le scuole.

Il tasso di ospedalizzazione ≥12 anni, nel periodo 16/9/2022-16/10/2022, per i non vaccinati è pari a 70 ricoveri per 100mila ab. rispetto a 64 ricoveri dei vaccinati con ciclo completo (1,1 volte). Praticamente, ormai, non c’è più differenza. La stessa cosa vale per i decessi dei non vaccinati che sono 1,5 volte più alti dei vaccinati con ciclo completo. Minore è la percentuale di chi ha fatto il booster (effetto positivo che però scompare dopo pochi mesi, e non si calcolano le avversità da vaccino).

Il vantaggio che avevano i vaccinati sui non vaccinati si sta riducendo, al punto che coloro che si sono vaccinati con ciclo completo e dose booster si contagiano maggiormente dei non vaccinati e di coloro che si sono fermati alla seconda o terza dose. Al 2 novembre 2022, sono state somministrate complessivamente 141,9 milioni di dosi (47,3 milioni di prime dosi, 50 milioni di seconde/uniche dosi, 40,3 milioni di terze dosi e 4,3 milioni di quarte dosi). Solo infatti il 25% degli over 60 e fragili ha effettuato la quarta dose (booster) e mancano ancora all’appello 13 milioni su 19 milioni di cittadini. Pare quindi essersi esaurita la spinta a fare ulteriori dosi, ma è lo stesso report che ne spiega il motivo: chi si fa la quarta dose prende la Covid in maggior misura.
I cittadini non leggono certo i report dell’Istituto Superiore di Sanità – anche perché trovarli sul sito è una vera impresa – ma vedendo ciò che succede in giro si formano questa convinzione.

Se si guardano poi i dati della malattia grave (terapia intensiva e morti) si nota che la dose aggiuntiva booster ha un effetto positivo ma che diventa negativo dopo 6 mesi, al punto tale che insorge il sospetto che, come una minoranza di esperti sosteneva, una continua sollecitazione con dosi aggiuntive di vaccino possa portare ad un indebolimento del sistema immunitario naturale. E ciò spiegherebbe il persistere di un’alta mortalità in eccesso e il numero crescente di morti improvvise e complicazioni varie (miocardite, infarti, sterilità,…). Ma ci potrebbero essere altre cause. Saranno i prossimi mesi ed anni a dirci come stanno realmente le cose.

Parole a capo /
Miriam Bruni: “Conversazioni in camera oscura”

 

“Ciò che resta originario nell’operaio è ciò che non è verbale: per esempio la sua fisicità, la sua voce, il suo corpo. Il corpo: ecco una terra non ancora colonizzata dal potere.”
(Pier Paolo Pasolini)

 

Fossimo privi d’anima
ben poco in là finirebbe
il nostro inciampare
– afferrarci alle sporgenze
Ritrovare un appoggio
finalmente.
Ma noi sprofondiamo
ben più in alto del suono
che fa strada ai pipistrelli.
Le galassie conosciamo
che gli insonni telescopi
non arrivano a vedere.
E sappiamo che la terra
ci sostiene solo il corpo
        Ricordiamo
un amplissimo deserto
dove siamo festeggiati.
Vi si entra con la fede
o con l’amore.

*****

Quando una parte di noi
sprofonda nel buio – inascoltata,

quella che resta in superficie
è molto lesa – e spaventata;

del proprio istinto spodestata.
Ma forse è questa la morte

del seme / il freddo sepolcro,
forse è lì che marcisce persino

la coscienza del sole, del mondo,
e le fibre dell’io scolano in petto

un temporaneo terribile oblio.

*****

Il corpo interiore
si sfalda e slavina
se giunge all’orecchio
il tuo disamore.

Mi smonti le ore
di vento e di slancio.
Hai troppe paure.
Non voglio affondare:

alcuni minuti di morto
poi torno a nuotare:
è il largo che salva
chi vuole esplorare.

*****

Il Colle
della Guardia
è simile
al mio petto:
un solo seno
e un cielo
pieno di rondini
accoppiate in volo.

(poesia inedita)

*****

Il tempo vola
Dio non ha paura

Il mondo è preda
del denaro sporco

Paziente aspetto
il mio turno al sole

Come una foglia
Come quel fiore

Miriam Bruni (1979) è nata e cresciuta a Bologna, ha due figli e ama raccogliersi frequentemente passeggiando e fotografando la Natura. Insegna Lingua e Cultura Spagnole in un istituto di scuola superiore.
La passione e la pratica poetica la caratterizzano da sempre: scrivendo mette a fuoco le esperienze vissute, cercandone e restituendone l’essenza profonda e risonante. Tende alla massima concentrazione.
Sue poesie si possono trovare in numerose antologie, ma soprattutto in riviste e blog specializzati. Traduce poesie dallo spagnolo all’italiano e organizza incontri artistico-culturali in Valsamoggia.
Ha dato alle stampe sei libri: “Cristalli”, Booksprint 2011; “Coniugata con la vita. Al torchio e in visione”, Terra d’Ulivi 2014; “Credere nell’attesa”, Terra d’Ulivi, 2017; “Così”, Ed. Poetry, 2018; “Falesìa”, Ed.Folli, 2019; “Concentrati sul cromosoma celeste”, Controluna, 2022.
Entro l’anno usciranno altri due suoi lavori: “Guardarlo Ancora. Paesaggi e miraggi della passione amorosa” e “Cuanto cuesta vivir”.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopioPer leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Vite di carta /
La musica di una vita

Vite di carta. La musica di una vita

Dopo un bel po’ di anni da quando ci è stato consigliato ho letto il bel libro La musica di una vita di Andrei Makine, che è uscito in Francia nel 2001 e poi in Italia presso Einaudi nel 2003 con la traduzione esperta di Annamaria Ferrero. Meno male che la lettura, così come il paesaggio interiore che è dentro di noi, fanno a meno del tempo scandito dal calendario e ne adottano uno più libero, in cui tempi non contemporanei possono convivere.

Nell’anno scolastico 2009-2010 lo scrittore e giornalista Valerio Varesi viene al Liceo Ariosto, invitato dal nostro gruppo di lettura Galeotto fu il libro: il dialogo con lui riguarda il suo romanzo Il commissario Soneri e la mano di Dio, appena uscito presso Frassinelli e, come da noi richiesto, il libro che lui considera galeotto nella sua vita di lettore perché leggerlo lo ha segnato, è stato mallevadore di una passione che da lì in poi è esplosa, magari fino a farlo diventare scrittore. Il libro galeotto indicato da Varesi è La musica di una vita.

Gli studenti leggono entrambi i libri, alcuni allargano la lettura ad altre opere di Varesi e si preparano le domande da fargli durante l’incontro; ad ascoltarli ci sono alcune classi, qualcosa come cento altri studenti che hanno letto il libro del nostro ospite. Non ho lavorato io a questo incontro, non posso ritrovare i materiali preparatori e la lista delle domande. Maria, la mia amica straordinaria, che come me ha lavorato per anni al progetto e ha preso parte a questo gruppo, ha trovato le parole giuste per dire quanto i ragazzi siano stati efficaci nel condurre l’intervista: come ‘domandologi’ esperti hanno messo l’autore nella condizione di dare il meglio di sé.

Venendo ora a questo mese di novembre, mentre parliamo di cento altri libri e autori Maria mi nomina Makine e mi passa la sua copia del libro. Sono trascorsi dieci anni, sono l’ultimo anello di una catena di lettori, il gradimento che il libro ha avuto risulta per me tracciabile perché lo ha scelto uno scrittore che stimo, è piaciuto agli studenti e ora Maria mi dice che è molto intenso. Mi faccio delle aspettative importanti. Maria ha tra le altre anche una intensa passione per la musica e io mi aspetto che la musica pervada le pagine, a cominciare da ciò che promette il titolo. Invece no.

Ciò che si diffonde nel piccolo libro è la storia di Aleksej Berg, un giovane musicista sovietico che deve rinunciare alla sua arte per sfuggire alla persecuzione di Stalin; alla vigilia del suo primo concerto è costretto a fuggire da Mosca in Ucraina, ma il suo rifugio non lo salva dalla guerra. È costretto a entrare nell’esercito russo e si appropria del nome di un compagno ucciso per mettersi una volta di più al riparo dalle retate della polizia di Stalin. Con la nuova identità combatte i lunghi anni del secondo conflitto, lacerato dai tagli fatti alla sua vita di prima.

Sono le privazioni e le mutilazioni che subisce la sua identità a riempire le pagine. La sua vita, per lunghi anni privata della musica, ci viene raccontata dal narratore della storia, un uomo che recupera dal suo passato il ricordo dell’incontro col musicista avvenuto un quarto di secolo prima, attorno alla metà degli anni Settanta, in un faticoso viaggio in treno verso Mosca durante un inverno gelido: nella lunga attesa del treno alla stazione di una città imprecisata il compagno di viaggio suona al pianoforte una musica meravigliosa, quando il treno parte può iniziare il racconto della sua vita.

Il libro è costruito col discorso indiretto: Aleksej, il musicista, non prende la parola, il narratore senza nome assume il compito di riportare a noi le sue parole. La narrazione, così amplificata tra i ricordi di chi racconta e i ricordi di chi si racconta, finisce per dare spessore e attrattiva al libro: le mie attese sono soddisfatte da questa e da altre coordinate su cui si dipana la storia.

Prendiamo le pagine che descrivono i momenti della guerra, quando Aleksej sotto falso nome combatte nell’esercito russo contro i Tedeschi e impara che “in guerra la verità e la menzogna, la generosità o la durezza, l’intelligenza o l’ingenuità non erano così distinte come nella vita di prima”.

In marcia verso Mosca, dopo essere arrivato a combattere fino in Austria, Aleksej “in mezzo ai campi deserti e bianchi, in mezzo a tutta quella terra straziata dalla guerra, annusava l’aria, credendo di discernere come un breve alito di tepore. Percepiva che tutto ciò che gli restava della vita era concentrato in quel soffio tenuemente primaverile…e non nel suo corpo scheletrico che non sentiva nemmeno più le bruciature del vento”.

Parole così mi richiamano i momenti esiziali di ogni vita e mi ricordano le parole di Italo Calvino quando definisce i classici; non mi chiedo fino in fondo se questo libro lo sia, certo davanti a pagine così “ogni prima lettura è in realtà una rilettura”.

A guerra finita lo ritroviamo a Mosca, ora ha ventisette anni e conosce il grande amore, Stella, la figlia del generale Gavrilov, a cui egli continua a fare da autista. È un amore impossibile che lo vivifica e allo stesso tempo lo espone di nuovo al pericolo di essere scoperto come impostore perché porta un nome che non è il suo.

La musica lo tradisce: alla festa del suo fidanzamento Stella, che lo crede un principiante, lo invita a suonare una facile canzoncina al pianoforte e a quel punto Aleksej non potendo contenere la musica, che da anni è nascosta in lui, suona meravigliosamente, tra lo stupore generale.

Molti anni dopo, alla fine del viaggio in treno in compagnia del nostro narratore, egli confessa cosa gli è costato svelarsi: dieci anni in un campo di prigionia senza godere dell’amnistia concessa alla morte di Stalin, altri anni al confino nella Siberia orientale intervallati da alcuni viaggi clandestini a Mosca per ritrovare le proprie radici, un nuovo conseguente arresto e altri tre anni di prigionia scontati vicino al circolo polare in mezzo a un “inferno di neve”.

Proprio là ha appreso la morte dei suoi genitori, così a lungo cercati ma senza successo. Una vita così, direbbe il filosofo Aleksandr Zinoviev, rivela il carattere nazionale russo, è la vita dura che l’Homo sovieticus sopporta con stoica rassegnazione.

Arrivati nella immensa stazione ferroviaria di Mosca, proprio là “dove nulla di personale sembra potersi dire”, Aleksej confida di avere sempre seguito il destino di Stella, caduta in disgrazia nel periodo della destalinizzazione a causa del lavoro del marito e poi morta di cancro, lasciando un figlio di pochi anni. Confida di avere passato un po’ di soldi ogni mese per il mantenimento del bambino.

Ora egli non vuole lasciare il suo compagno di viaggio in balia della stazione, c’è una intera giornata di attesa prima della coincidenza che lo porterà a casa, presumibilmente a San Pietroburgo. Le ultime ore le trascorrono nella stessa stanza di hotel e infine a un concerto alla casa della cultura delle ferrovie.

Ecco che la musica conclude la storia con queste parole del narratore: “Mi volto verso Berg per porgergli il pieghevole del programma. Ma l’uomo sembra assente, le palpebre abbassate, il viso impassibile. Non è più là”.

L’ultima pagina rende più chiaro il senso della bella pagina iniziale, in cui il narratore sente suonare per la prima volta Aleksej alla stazione sconosciuta. E’ notte fonda, seguendo la musica egli ha lasciato la sala d’attesa intrisa di corpi dormienti e ha raggiunto al piano superiore lo sconosciuto pianista:

“un uomo, che vedo di profilo, è seduto davanti a un pianoforte a coda, una valigia dagli angoli nichelati accanto alla sedia…Una torcia elettrica, posata a sinistra della tastiera, gli illumina le mani. Le sue dita non hanno nulla a che vedere con le dita di un musicista. Grosse falangi ruvide, gibbose, coperte di rughe scure.

Queste dita si spostano sulla tastiera senza appoggiarvisi, segnano delle pause, si accalorano, accelerano la loro corsa silenziosa, si precipitano in una fuga febbrile, si sente il tocco delle unghie sul legno dei tasti.

All’apice di quel muto frastuono, una mano, non dominandosi più, si abbatte sulla tastiera, in un’esplosione di note. Vedo che l’uomo, divertito forse da questo cedimento, interrompe le sue scale inudibili e si lascia andare a qualche risatina soffocata, da vecchio monello. Alza perfino una mano e se la mette sulla bocca per trattenere quella specie di tossicchiare…Di colpo, capisco che piange”.

Il saggio di Calvino a cui faccio riferimento nel testo dà il titolo alla raccolta:

  • Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, 1991

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

 

UNO ‘22 RACCONTA UFO ‘78
Wu Ming (Unidentified Narrative Objects) alla Resistenza

 

La particolarità assoluta dei romanzi collettivi e solisti dei Wu Ming, l’aspetto che ammiro e mi colpisce prevalentemente, è di essere, come gli stessi autori li definiscono, Unidentified Narrative Objects, oggetti narrativi non-identificati, vale a dire “fiction e non fiction, prosa e poesia, diario e inchiesta, letteratura e scienza, mitologia e pochade”, come si legge a pagina 42 del loro ottimo saggio New Italian Epic pubblicato nel 2009.

Risulta evidente il riferimento agli Unidentified Flying Objects che ora compaiono espressamente fin dal titolo del nuovo libro collettivo, uscito ad agosto del 2022. Ed ecco che mi è venuta voglia di citarli insieme, fin dal titolo, questi oggetti non identificati: quello narrativo del 2022 racconta quelli volanti del 1978 (e dintorni).

I modi, i tempi, gli obiettivi, i percorsi, il reale e l’immaginato, il fatto e rifatto ce li raccontano, sollecitati dalle stimolanti domande di Marco Belli, nel Centro Sociale La Resistenza Ferrara, la sera del 5 novembre 2022, Wu Ming 1 e Wu Ming 2, accompagnati dalle letture di Marco Manfredi. L’incontro è il primo di una rassegna ricca ed articolata che vedrà alternarsi, nei due luoghi organizzatori – La Pazienza Arti e Libri e La Resistenza Ferrara – i due ideatori (Marco Belli e Michele Ronchi Stefanati) che dialogheranno con i diversi autori invitati.

Per tentare di sintetizzare la complicata trama di UFO 78 chiedo aiuto alla quarta di copertina del volume:

1978. Aldo Moro è rapito e ucciso. Sulle città piomba lo stato d’emergenza. «La droga» sfonda ogni argine. Tre papi in Vaticano. Le ultime grandi riforme sociali. Mentre accade tutto questo, di notte e di giorno sempre più italiani vedono dischi volanti. È un fenomeno di massa, la «Grande ondata». Duemila avvistamenti nei cieli del Belpaese, decine di «incontri ravvicinati» con viaggiatori intergalattici. Alieni e velivoli spaziali imperversano nella cultura pop. Milena Cravero, giovane antropologa, studia gli appassionati di Ufo in una Torino cupa e militarizzata. Martin Zanka, scrittore di successo, ha raccontato storie di antichi cosmonauti, ma è stanco del proprio personaggio, ed è stanco di Roma. Suo figlio Vincenzo, ex eroinomane, vive a Thanur, una comune in Lunigiana, alle pendici di un monte misterioso. Il Quarzerone, con le sue tre cime. Luogo di miti e leggende, fenomeni inspiegabili, casi di cronaca mai risolti. L’ultimo, quello di Jacopo e Margherita, due scout svaniti nei boschi e mai ritrovati. Intorno alla loro scomparsa, un vortice di storie e personaggi.

Mappa eventi 1978 riportati dai media (Collettivo Wu Ming)

Il primo dato importante e significativo su cui Marco Belli sollecita stasera gli autori a dire la loro riguarda la lunga gestazione dell’opera, che, come illustra Wu Ming 1, è stata “pensata” nel 2006 sotto forma di improvvisazione collettiva (che intitolarono Mater Materia) insieme allo scrittore Giuseppe Genna, in riferimento alle produzioni di ‘archeologia spaziale’ di Peter Kolosimo e sulla spinta di una sorta di ‘corto circuito’ con l’Affaire Moro e altre vicende, prevalentemente del nostro paese, del 1978, che rappresenta la fine degli anni Settanta, ma non apre ancora gli Ottanta, i quali cominceranno effettivamente dopo la vittoria degli azzurri ai mondiali di calcio dell’82. Una sorta di stagione di mezzo, quindi, si delinea tra il 78 e l’82, una fase di crepuscolo che è proprio quella che a Wu Ming interessava. 

In quella improvvisazione  immaginarono uno scrittore liberamente ispirato a Kolosimo e un convegno sugli Ufo programmato a Roma nei giorni dal 16 al 19 marzo.
Il convegno saltò dopo l’agguato di via Fani. Che avrebbero fatto tutti quegli ufologi in una capitale precipitata nel caos? Quegli spunti rimasero nel cassetto fino al 2014, quando, col permesso di Genna, per conto loro i Wu Ming  si lanciarono in un nuovo brainstorming.
Ma da una costola del progetto nacque prima un altro romanzo: Proletkult.

Nel 2018 ripresero i lavori. Nel gennaio 2019 iniziarono la stesura, ma nel 2020 “calò come un maglio, schiacciando tutto, l’emergenza Covid.  Quel che accadde nei due anni seguenti influenzò il libro, lo riconnotò, lo trasformò” (ho preso queste ultime frasi da “Traccia per un video che abbiamo deciso di non realizzare”, stilata da Wu Ming per gli Autoracconti d’Autore di Letteratitudine).

Il panorama complessivo viene integrato da Wu Ming 2 in risposta alla domanda su titolo e copertina:
“Nel 1978 nasce Atlas Ufo Robot, esce Incontri ravvicinati del terzo tipo, all’interno dell’Affaire Moro si può individuare uno stranissimo gioco di parole tra Fani (il nome della via dove lo statista fu rapito e gli uomini della sua scorta uccisi) e il possibile acronimo FANI con cui tradurre la formula usata negli Stati Uniti per indicare gli UFO (Unidentified Aerial Phaenomena = Fenomeni Aerei Non Identificati).
Inoltre si comincia a parlare con insistenza, anche a proposito della passione per gli extraterrestri e le antiche civiltà aliene che popolavano i libri di Kolosimo,  di ‘riflusso’, inteso come allontanamento dall’impegno politico e sociale e interesse verso questioni apparentemente più futili, fantastiche, immaginarie, private; i Wu Ming con questo libro cercano di affrontare l’analisi del fenomeno, perché sono dell’idea che guardare il cielo, interessarsi ad oggetti non identificati, soprattutto in un momento in cui tutti sulla terra ti vogliono identificare e ti chiedono i documenti, non sia soltanto una fuga in una dimensione irrazionale, futile della vita ma sia qualcosa che, al contrario, può nutrire proprio un ritorno alla realtà con nuove armi; quindi non gli UFO come un diversivo o una fuga ma come un modo per procurarsi energie nuove, ‘armi’ nuove e tenere bene i piedi per terra.”.

È il momento di assaggiare la scrittura di UFO 78.
Marco Manfredi
legge dal Primo Movimento del volume:

  1. Roma, mercoledì 1° marzo .

Rumori di acque ruscellanti, fuochi fatui di sintetizzatori, echi lontani di tempi perduti. In den Gärten Pharaos, del gruppo tedesco Popol Vuh. Scelta musicale perfetta. L’occhio della telecamera percorre un corridoio e perlustra scaffali carichi di reperti e cimeli, statuette manufatte chissà dove e chissà quando: dee della fertilità, bestie sacre, demoni minacciosi o imperscrutabili. Tra quei corpi stilizzati, di tanto in tanto, spunta un modellino di piramide tolteca, o di vascello spaziale, dal piglio razionalista  o, all’opposto, baroccheggiante. Nel 1978 la tivù pubblica italiana produceva già programmi a colori, compresa questa puntata di Odeon. Ma nelle case troneggiavano ancora apparecchi in bianco e nero, e le tinte sgargianti di quell’appartamento si potevano solo immaginare: i muri verde cinabro, le mensole verniciate di giallo, i riflessi bronzei dei soprammobili. La telecamera si avvicina a una soglia priva di porta, sovrastata da un grande dipinto. Lo sguardo indugia su architetture in rovina o incompiute, sospese in una notte luminosa. Pochissimi avranno riconosciuto Le temple foudroyé di Savinio. Non l’originale, bensì una copia acquistata a Porta Portese per poche lire….

Una domanda successiva si concentra sulla struttura narrativa, sull’articolazione dei piani temporali e sulle modalità di gestione dei numerosi personaggi: in effetti, afferma Wu Ming 1, si è molto lavorato sulla struttura, per la quale si è scelta una modalità per così dire musicale: c’è un preludio che si riferisce a fatti avvenuti il 26 agosto 1976 e culminati con la scomparsa dei due giovani scout Jacopo e Margherita; già qui troviamo un primo salto temporale, all’oggi in cui intuiamo che il soggetto a cui appartiene la voce narrante (che è ‘altra’ rispetto ai Wu Ming autori) ha ricercato notizie e condotto un’inchiesta su quello e altri fatti posteriori, narrati nei successivi quattro movimenti, tre dedicati ai mesi dal marzo al maggio del 1978 e il quarto al periodo dal 25 maggio 1978 al 25 maggio 2022.

Mi sembra utile, qui, riportare quanto delineato nell’ultimo capoverso del preludio, che mi pare rappresentare, più che la voce narrante, proprio quella autorale dei Wu Ming:
Questa è la storia delle vite che si incrociarono allora, alle pendici della montagna. E se di una vita non si possono conoscere tutte le pieghe, le luci e le ombre, si può almeno provare a raccontarla, usando documenti, interviste, libri e giornali d’epoca, consapevoli dell’incolmabile distanza tra i giorni vissuti e le pagine scritte. Del resto, la sfida del narrare è raggiungere la verità affrontando l’inevitabile, si trattasse anche di lupi mannari e dischi volanti.”.

Mappa semifantastica della Lunigiana per il volume UFO 78 (foto di Maria Calabrese)

Una storia così articolata e complessa ha bisogno di una mappa, osserva acutamente Marco Belli rivolgendosi a Wu Ming 2, che annuisce e mostra la bozza di mappa che loro stessi hanno tracciato e più volte rielaborato, della Lunigiana, luogo reale posto tra Liguria e Toscana, dove hanno collocato l’inventata Comune Thanur in cui vive Vincenzo Zanka figlio di Martin e l’inventato ma possibile e verosimile monte Quarzerone, che fa da magnete, fa confluire le varie storie in una sola storia; un luogo dell’Appennino, un’area marginale, ma una di quelle aree interne che sono la cartina al tornasole, lo specchio dell’intero Paese.

Spesso l’approccio dei Wu Ming è quello di andare a cercare lo sguardo obliquo insieme agli avvenimenti dei margini. Non soltanto perché posizionandosi dai margini si vede meglio il centro o lo si vede da una prospettiva diversa, ma perché in realtà loro sono convinti che i margini sono un centro focale in cui accadono cose che poi magari da lì riverberano verso il centro e che comunque hanno importanza di per sé.

Il pubblico della Resistenza (foto Maria Calabrese)

L’incontro alla Resistenza è arrivato al termine, ma le curiosità di un pubblico numerosissimo (oltre un centinaio di persone e moltissimi giovani) diventano domande che si sposteranno al chiuso, nella sala bar, perché il freddo si è fatto intenso. E a me rimane la voglia, sollecitata dall’ultima schermata che leggo sul monitor che proietta il file della “colonna sonora di UFO 78” che Wu Ming 1 non riesce ad illustrarci, che mi vado subito a cercare nel blog GIAP della Wu Ming Foundation e che mi riprometto di ascoltare.

Intanto mi viene incontro l’intervista di Loredana Lipperini ai due autori nella trasmissione Fahrenheit del 3 novembre scorso, al termine della quale si parla proprio della centralità della musica in questo testo. Wu Ming 1 riconosce che la musica fa proprio parte del tessuto, dell’intreccio del romanzo e ricorda che il ’78 rappresentò l’inizio di una stagione di mezzo anche per la musica: cominciavano in quegli anni ad arrivare in Italia Punk e New Wave e al tempo stesso c’era ancora l’onda lunga della musica progressiva degli anni Settanta.

Loro si concentrano su quella che era stata una musica rock progressiva molto particolare; e va citato un personaggio cruciale, sotto questo aspetto, di UFO 78, che è Jimmy Fruzzetti, ufofilo che gestisce un negozio di dischi ad Aulla e che è “colui grazie al quale c’è tutta quella musica in UFO 78”. Una playlist di 24 brani compare nel citato Blog GIAP della Wu Ming Foundation, ed è reperibile su Spotify e Youtube.

Libri e siti citati nell’articolo:
WU MING, UFO 78, Torino, Einaudi Stile Libero Big, 2022
WU MING, New Italian Epic, Torino, Einaudi Stile Libero, 2009

https://www.wumingfoundation.com/giap/
https://www.letteratitudine.it/
fahrenheit qui

Cover: un momento di lettura alla presentazione del volume UFO ’78 al Circolo LA RESISTENZA di Ferrara (foto di Maria Calabrese)

Elon Musk, il nuovo yankee cinese

 

Uno dei fenomeni nuovi è l’arrivo sulla scena politica (non solo quella economica più che nota) delle grandi corporations trans-nazionali, di cui ha parlato nel post del 14 novembre Simone Oggionni [Vedi qui].

Per esempio Elon Musk, attualmente il più ricco al mondo (200-230 miliardi di patrimonio personale), con le vendite della sua Tesla in Cina (diventata la prima compagnia di auto straniera) ha fatto tali profitti da comprarsi Twitter per 44 miliardi.
A Musk i suoi 534mila follower non bastano, meglio un potente social per influenzare il mondo come fa anche Jeff Bezos di Amazon con il Wall Street Journal. I ricchi si mettono in proprio e contano ormai più dei primi ministri anche perché i politici cambiano con le elezioni (a parte gli autocrati) e i ricchi no.

In Cina Tesla ha venduto solo nel 3° trimestre 2022 83 mila auto, un quarto del totale mondiale (344mila), meno del colosso cinese nazionale BYD ma più delle altre case che vendono auto elettriche (cinesi incluse).
A Shangai dal prossimo mese produrrà col nuovo stabilimento Tesla un milione di auto all’anno (Model 3 e Model Y) sia per il mercato locale cinese che Europa ed Australia.

I Cinesi acquisteranno nel 2023 6 milioni di auto elettriche e Tesla è in pole position. Musk ha stretti rapporti col vice di Xi Jinping (che resterà almeno per altri 5 anni), Li Qiang (che viene dato per prossimo premier).
Li Qiang ha favorito la nascita della prima fabbrica Tesla nell’area speciale di Lingang e ha garantito quella assistenza durante la pandemia che non ha avuto Apple (migrata in Vietnam). Tesla è l’unica azienda a cui i cinesi concedono di non avere una joint-venture con altri cinesi o lo Stato e una riduzione delle imposte sui profitti (15% anziché 25%).

Come mai la Cina è così prodiga nei confronti del miliardario sudafricano? Le multinazionali sono diventate dei moderni ‘Stati’ che possono influire su molte cose (inclusa la geopolitica) ma hanno però un punto debole: non hanno eserciti. In attesa che questo avvenga, in un mondo in via di de-globalizzazione, chi può, fa affari coi cinesi.

Musk, in una intervista al Financial Times, ha ricambiato le gentilezze ricevute dallo stato cimese, dichiarando che Taiwan dovrebbe diventare una “zona amministrativa speciale”, facendo un grande favore alla Cina, la cui politica (con Taiwan) èuno Stato due sistemi”, strategia che prelude ad una sua annessione ben prima del 2050.

Elon Musk ha dato un aiuto fondamentale all’Ucraina mettendo a disposizione il suo sistema satellitare Starlink/Space X a banda larga dopo la distruzione delle infrastrutture da parte dei Russi.
Ai primi di ottobre aveva però chiesto agli Usa di pagarlo, proponendo anche un piano di pace per nulla peregrino: riconoscimento della Crimea russa e garanzia di rifornimento idrico, neutralità militare dell’Ucraina (dunque fuori dalla Nato) e un nuovo referendum per le province russofone del Donbass.

Per Musk questo sarà l’accordo: “Si tratta solo di capire quanti morti servono ancora prima di realizzarlo”. Musk sa bene che il potere tecno-finanziario gli dà la possibilità di muoversi come uno Stato potente.
Certamente più potente dell’Europa, del tutto ammutolita e allineata all’atlantismo Usa.

Musk intrattiene, come già detto, buoni rapporti con la Cina, che gli ha chiesto di non vendere nel suo territorio i kit per collegarsi al suo sistema satellitare Starlink/Space X.
Ovviamente la Cina non ha bisogno di chiedere “per favore” a Musk di non venderli in Cina: le basta un qualsiasi provvedimento amministrativo (non osservando da 22 anni alcuna regola che pure le aveva imposto il WTO per entrare a farne parte). Quindi vuol dire che si riferisce non tanto alla Cina ma a Taiwan, che dipende per il suo internet da 15 cavi sottomarini e che ha fatto un investimento di 25 milioni di dollari per connettersi via spazio in caso di danneggiamento.

Del resto, avendo già l’Occidente regalato lo spazio alle multinazionali di Musk e Bezos (in concorrenza tra loro), non resta che da temere il dragone cinese che potrebbe da un momento all’altro porre il veto ai satelliti dei due miliardari.

Da qui l’importanza di investire in social e giornali e nella geopolitica e “tenersi buona” la Cina. Anche Amazon è (non a caso) un grande investitore cinese (nel porto Nigbo farà una enorme piattaforma per importare prodotti da Germania e UK). Così fanno anche altre multinazionali come Starbucks che ha inaugurato la 6millesima caffetteria in Cina (ne aprirà altre 3mila entro il 2025).

Le multinazionali vanno dove fiutano l’odore dei soldi e il mercato cinese è, potenzialmente, di 1,4 miliardi di consumatori.
Non stupisce quindi che, nel momento in cui materie prime ed energia diventano essenziali per il loro sviluppo, esse guardino a chi le possiede (Cina) con crescente interesse. Una evoluzione paradossale perché erano state 20 anni fa incoraggiate proprio dagli Americani (e dai Dem in particolare) a crescere in un mondo globale. Ora però la Cina si è ‘messa in proprio’: diventa sempre più competitor degli Usa e cerca di sedurre le multinazionali made in Usa con favori nel proprio mercato e materie prime oggi essenziali a questi giganti.

Se non si costruisce un modello di sviluppo alternativo a quello degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale guidata dai colossi privati e dai mercati, basato sul primato del lavoro, dell’occupazione e dell’umano sulle macchine, sulla difesa della Natura  e non sulla sua distruzione per la ricerca di una crescita infinita, correremo a perdifiato verso impoverimento e crescente caos.

Solo una Europa indipendente da Usa e Cina potrebbe dare corpo a questo processo. Purtroppo in questo vuoto di iniziativa i grandi ricchi fanno i loro interessi e si sostituiscono all’Europa.

Cover: Elon Musk,  foto ZoomViewer su licenza Wikimedia Commons

Parole e Figure /
Mumin, dei troll super speciali

I Mumin sono una famiglia di troll davvero molto speciali, simili a buffi e amichevoli piccoli ippopotami bianchi dalla coda sbarazzina.

Sono simpatiche creature nate nel 1946 dalla fantasia della finlandese Tove Jansson (1914-2001), figlia di padre scultore (Viktor Jansson) e di madre illustratrice (Signe Hammarsten-Jansson) e cresciuta tra una vivace casa-atelier di Helsinki e un solitario isolotto dell’arcipelago finlandese, Pellinge.

Tove Jansson (1956), foto Reino Loppinen

Il mondo di arte e fantasia di cui è circondata fin dall’infanzia l’accompagna durante la sua vita, nutrendo la sua vocazione di pittrice, vignettista e scrittrice per bambini e adulti e ispirandole la serie dei Mumin che le è valso, tra gli altri, nel 1966, il Premio Andersen, il più importante riconoscimento internazionale dell’editoria per bambini e ragazzi.

Tove Jansson appartiene alla minoranza di lingua svedese ed è considerata “monumento nazionale” in Finlandia, dove nel 1994 le celebrazioni per il suo ottantesimo compleanno sono durate un intero anno. Nota in tutto il mondo per i suoi libri per l’infanzia, a partire dagli anni Settanta ha iniziato a rivolgersi con lo stesso spirito, ironico e sottile, umano e poetico, anche agli adulti con una decina di libri, di cui cinque pubblicati in Italia, pur continuando a coltivare il filone dei libri per l’infanzia.

Tove Jansson nel 1956, foto Reino Loppinen

In Italia, le strisce dei Mumin, che l’hanno resa celebre, sono tornate grazie alla casa editrice Iperborea, specializzata in letteratura nordica, che, nel 2017, ha pubblicato Mumin e le follie invernali, un primo libro che raccoglie alcune delle storiche strisce della scrittrice (la saga era stata pubblicata, per la prima volta in Italia, in singole strisce sulla rivista Linus e in parte da Black Velvet). Ora, con una nuova collana, Iperborea ripubblica l’intera serie delle strisce, per la prima volta a colori, riproposti comesingole storie, nel formato classico Iperborea usato per il lungo (20×10 cm).

L’idea dei Mumin arrivò all’artista dopo una lite con i fratelli Olov, futuro fotografo, e Lars, futuro scrittore e fumettista: per sfogarsi Jansson si chiuse in bagno e si mise a disegnare un piccolo furente troll che chiamò Snork. Dopo qualche anno, Snork comparve accanto alla sigla con cui firmava le sue vignette; nel 1945 cambiò nome in Mumin e divenne il protagonista del suo primo romanzo per bambini, Mumin e la grande onda.

Ma come è fatta questa famiglia di Mumin? Sono personaggi avventurosi, eccentrici, simpatici, comici, poetici, ospitali e aperti al mondo. Circondati da altri curiose figure, a metà tra uomini e animali, troviamo papà e mamma Mumin e il piccolo Mumin con la sua fidanzata Grugnina, la vanitosa. Nella stretta cerchia di amici ci sono il giramondo Tabacco, il pasticcione Sniff, il cugino Ombra, la dolce Mimla e la sorellina Mi, l’intrigante Puzzolo, il filosofo Spinello e i lontani parenti Fungarelli.

Particolarmente delicato Mumin s’innamora, l’ultimo uscito con Iperborea ad agosto scorso, dove, in una valle allagata colpita da un terribile diluvio, Mumin, partito a salvare gente, porta a casa la diva capricciosa Miss La Guna, la stella del circo travolto dall’acqua, della quale si innamora perdutamente. Ma tra i capricci della Miss e l’arrivo del suo acrobata Emeraldo, l’ingenuo spasimante dovrà fare i conti con la differenza fra poesia romantica e realtà e soprattutto con Grugnina che si allea con Mimla e la sorellina per dargli una lezione. Verso il lieto fine, in un mondo tutto a sé.

Se poi volete vedere il museo dedicato ai Mumin, sappiate che a Tampere si può.

Museo dei Mumin, Tampere, Finlandia

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Le storie di Costanza /
Novembre 1959 – Gemma e Gianin

Gemma

Tra Carolina e Mina Viscioli c’era Gemma. Una signorina molto miope che, per poterci vedere almeno un po’, era costretta a portare occhiali dalla montatura robusta e dalle lenti spesse e curve. Due fondi di bottiglia le deformavano gli occhi e li facevano sembrare più bovini di quello che già erano.

Nonostante gli occhiali, ci vedeva molto poco. Gli interventi chirurgici che permettono ai miopi di recuperare quasi interamente la vista, fattibili ai nostri giorni e rimborsabili dal sistema sanitario nazionale, non erano ancora stati sperimentati e i miopi, fino agli anni ’90, dovettero accontentarsi dei “lentoni”.

Gemma amava molto i colori rosso e oro-luccicante, con cui venivano smaltati i bottoni e tinte alcune rifiniture di passamaneria, perché erano i colori che riusciva a mettere a fuoco con maggiore precisione e che trasmettevano le immagini più nitide ai suoi occhi malati.

La nonna Adelina, che faceva la sarta, le aveva confezionato più volte abiti luccicanti in cui, almeno uno dei fili della composita trama della stoffa, era color oro, oppure, con minor soddisfazione della cliente, argento o rame.

Sempre per questa sua predilezione cromatica, nell’ultimo decennio della sua vita, Gemma aveva preso l’abitudine di legarsi al collo un cordino luccicante, con cui era stata sigillata la carta di un panettone natalizio, senza cedere minimamente alle pressioni di tutti i suoi parenti e amici affinché se lo togliesse dal collo almeno ai funerali.

Come un soprano

A Messa, con quel cordino al collo, cantava sempre nel banco di prima fila con un tono di voce altissimo e gracchiante. Una volta chiesi alla nonna Adelina perché la signorina cantasse a quel modo e lei mi rispose: “Perché è una soprano!”.  Non so se lo pensasse davvero o se non sapesse cos’altro dirmi. Sta di fatto che la risposta mi fece molto ridere e che la nonna fece finta di non sentire.

Nonostante Adelina non avesse studiato musica, aveva un fratello che suonava il violino e doveva esserle venuto il dubbio che i gorgheggi di Gemma non fossero proprio ortodossi. Ma, serbando nel suo cuore il dubbio, non mi disse mai nulla e continuò ad etichettare la signorina come un soprano.

Credo che altre persone del paese condividessero la stessa strategia e che questo abbia rinforzato la propensione di Gemma a cantare sempre così, migliorando, ogni anno che passava, il numero e la complessità dei gorgheggi.

Io e mia cugina Ines ridiamo ancora adesso quando ci raccontiamo di quei concerti, ma forse non lo dovremmo fare, un po’ per pietà e un po’ perché, a modo suo e con una certa originalità, la signorina era una fuoriclasse autodidatta.

La nonna Adelina aveva ragione a soprassedere. Gemma credette per tutta la sua vita di essere una brava soprano e fu meglio così.

Far di conto

A parte gli occhi, non era affatto brutta. Corporatura minuta e proporzionata, aveva dei capelli castani che portava raccolti sulla nuca, utilizzando forcine rigorosamente rosse. Era intelligente ed era lei che si occupava della gestione amministrativa della macelleria.

Nel 1959 non esistevano fatture, commercialisti, registratori di cassa e calcolatrici elettroniche. Esistevano i libri contabili che venivano compilati a mano con la matita copiativa e conservati in cassaforte.

Gemma era velocissima a fare i conti e non sbagliava mai. Un po’ per una propensione innata e un po’ per l’esercizio continuo, sapeva fare addizioni, sottrazioni e divisioni con diversi decimali, senza sbagliare mai nemmeno una virgola.

Mia madre ricorda la fortuna di averla avuta come prima insegnante di calcolo e racconta che, grazie a questi insegnamenti, in prima elementare sapeva già fare conti complicati, senza sbagliare mai nulla. Probabilmente questo rinforzò la sua autostima, al punto che imparò matematica molto velocemente e si meritò voti altissimi fino alla fine della sua carriera scolastica.

Anche se vi erano acquisti da fare o il mercato di Casalrossano dove andare a contrattare, era sempre Gemma la candidata migliore e le sue sorelle le cedevano volentieri il bastone del comando, confidando sul suo acume e sulla sua esperienza. Lei ne approfittava e così Carolina era relegata a fare i lavori più pesanti che sporcavano le mani, mentre Mina faceva un’altra professione.

Gianin, l’amore proibito… non troppo

Come Carolina, la più anziana delle tre sorelle, nemmeno Gemma era sposata. Un po’ uno scandalo per quegli anni. Aveva una relazione con un macellaio loro dipendente i cui figli la chiamavano zia, tanto erano abituati a vederla.

Gianin, il suo innamorato, aveva una famiglia, ma la posizione di Gemma e la garanzia di stipendio e carne fresca aveva fatto sì che si creasse un ‘ménage sui generis’, accettato da tutti.

Mia madre si ricorda di alcuni viaggi seduta sul biroccio in mezzo a Gemma e Gianin. Con la scusa di portare la piccola Anna a fare un giretto in pasticceria a Casalrossano, un giretto ‘allo scoperto’ lo potevano fare anche loro.

Andavano a Casalrossano, si sedevano nella pasticceria sotto i portici e ordinavano il rosolio e i bignè. Oppure acquistavano cubetti di torta sbrisolona, dolce tipico padano fatto con farina di mais, zucchero, strutto, burro, ricoperto di mandorle.

Un dolce semplice e povero di origini contadine ma gustoso e croccante, lo si fa ancora adesso e ne esistono diverse varianti, a seconda della zona lombarda nella quale ci si trova. A mia madre non è mai piaciuto particolarmente, ma piaceva a Gianin e quindi facevano una volta a testa. Una volta i bignè e una volta la sbrisolona.

A mia madre la pasticceria Saltafos piaceva molto e si divertiva in quelle gite domenicali a cui era abituata e che considerava normali. Molto tempo dopo realizzò, senza offendersi e senza cambiare la bellezza del ricordo, che la sua presenza era stata un po’ strumentale.

Serviva ai due innamorati come scusa per la gita, ma non era solo questo. Anna era bella e intelligente e loro avevano imparato ad apprezzare la sua predilezione per i bignè e la sua capacità di fare i conti della macelleria con acume e precisione.

Come una famiglia

Quando Gemma comprava stoffa luccicante per i suoi abiti ne comprava sempre due metri in più, in modo che Adelina potesse confezionare due vestiti: uno per lei e uno per la bambina. Così quando andavano al Saltafos, le due appartenenti al ‘gentil sesso’ erano vestite allo stesso modo e questo aumentava l’impressione di Gemma di avere una vera famiglia.

In quelle occasioni la sua soddisfazione raggiungeva l’apice e lei si pavoneggiava con la bambina per mano e il suo innamorato segreto al fianco. I sentimenti in gioco erano buoni e l’opportunismo c’entrava, tutto sommato, poco.

Il rapporto era stabile da anni e la quotidianità tranquilla. Gemma, Gianin e Anna non erano una famiglia in senso stretto, però si volevano bene e ciascuno di loro era molto affezionato agli altri due e sempre pronto per quei viaggi domenicali a Casalrossano.

Credo che quella meno contenta fosse la moglie di Gianin, ma non ne sono troppo sicura. Non ho mai saputo, di scenate, rivendicazioni e amarezze di alcun tipo. Semplicemente, a un certo punto, si era creato quel ménage e tutti si erano adeguati. Gemma faceva sempre tanti regali ai figli di Gianin, che le volevano molto bene.

Carolina e Mina sapevano delle vicende sentimentali di Gemma, ma non se ne preoccupavano. Ognuna delle tre signorine aveva una vita sentimentale autonoma, che non interferiva con la vita delle altre due e la gestione della casa e della macelleria veniva tenuta separata dai vari innamoramenti. I sentimenti personali non venivano discussi e nemmeno criticati, ognuna delle tre aveva dei motivi per non farlo.

Gemma dirigeva bene il negozio e cantava da soprano. Qualità apprezzate in tutta Cremantello. Era una persona stimata e a nessuno importava molto delle sue gite al Saltafos. Che facesse i conti e avesse sempre buona carne, a buon prezzo, era l’aspettativa di quasi tutti i Cremantellesi. A tale aspettativa lei sapeva rispondere con molta efficienza.

Gianin era piccolo e magro. Squartava vacche con abilità e impacchettava interiora senza lasciarne scivolare dall’incartamento nemmeno un brandello. Nel 1959, l’unica carta che si usava era porosa e color giallo sbiadito, comunemente chiamata ‘carta da macelleria’.

I pacchi con la carne acquistata venivano tenuti insieme grazie a un modo particolare di piegare l’involucro rovesciando i bordi e premendo vigorosamente tale rovescio verso il basso.

Un inverno Gianin si ammalò di tubercolosi e Gemma diventò triste. Con gli occhi sempre pieni di lacrime, smise definitivamente di vederci e prese a camminare rasenti i muri, con le mani in avanti per verificare col tatto se ci fossero ostacoli sul suo cammino.

Giuseppe e Albino, i figli di Gianin, andavano tutti i giorni ad aggiornare Gemma sulla salute del padre e in cambio si portavano a casa dei bei pezzi di carne, con cui fare il brodo per il povero ammalato.

Poi arrivò il peggio. Gianin fu mandato a curarsi in sanatorio e la macelleria dovette continuare l’attività senza di lui.

Fu un brutto periodo e mia madre cominciò ad andare tutti i pomeriggi, dopo scuola, ad aggiornare i libri contabili, perché Gemma non ce la faceva più e Carolina e Mina non erano capaci. Imparò così molto giovane come si gestisce un negozio e si innamorò di quel lavoro commerciale, per sempre.

Gianin dopo un po’ guarì e tornò dal sanatorio. Riprese le sue attività normali e ricominciò a fare il macellaio a tempo pieno, il padre a tempo pieno e il marito e l’amante part-time. Mia madre dice che non era né bello né particolarmente brillante, ma gli occhi di una bambina non vedono tutto ed è meglio così.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore o sulla sua rubrica Le storie di Costanza.