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Carestia: la battaglia del grano tra Europa e Nazioni Unite

 

da german-foreign-policy.com

L’UE sta bloccando gli sforzi delle Nazioni Unite per portare il grano ucraino sul mercato mondiale attraverso la Bielorussia. Intanto la Russia e la Turchia stanno aprendo la strada alle esportazioni di grano ucraino.

L’UE si oppone agli sforzi delle Nazioni Unite per scongiurare la crisi mondiale della fame, sia in termini di guerra che di sanzioni. Si tratta del piano di trasferire le enormi riserve di grano dell’Ucraina attraverso la Bielorussia nei porti dei paesi baltici e di spedirle da lì. Il piano, sostenuto dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, è considerato l’unica alternativa sensata al recente blocco del trasporto del grano attraverso il Mar Nero. Tuttavia, l’UE non è disposta a creare le condizioni per il successo del piano e a revocare le sanzioni contro le esportazioni bielorusse di fertilizzanti.

Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, è favorevole alla revoca di queste sanzioni per garantire l’approvvigionamento globale di fertilizzanti. In una mossa anche simbolicamente significativa, Bruxelles ha inasprito le sue sanzioni contro i produttori di fertilizzanti bielorussi venerdì. C’è d’altra parte il tentativo delle Nazioni Unite di avviare l’esportazione di grano ucraino attraverso il Mar Nero. La Russia e la Turchia prevedono le prime consegne ucraine da Odessa.

Il duplice approccio delle Nazioni Unite

La scorsa settimana le Nazioni Unite hanno compiuto progressi tangibili nel tentativo di evitare la crisi della fame a livello mondiale, una minaccia sia a causa della guerra in Ucraina che delle sanzioni occidentali. Il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha dichiarato che l’obiettivo è quello di “reintegrare la produzione alimentare ucraina” e “i prodotti alimentari e fertilizzanti prodotti dalla Russia e dalla Bielorussia” nei mercati mondiali.[1]

In effetti, entrambi sono necessari per garantire l’approvvigionamento alimentare globale. Prima della guerra l’Ucraina ha fornito circa il 10% delle esportazioni globali di frumento e orzo e circa il 16% delle esportazioni mondiali di mais; la Russia, a sua volta, è il principale esportatore di grano, mentre la Russia e la Bielorussia insieme hanno fornito circa il 40% delle esportazioni globali di sali di potassio necessari per la produzione di fertilizzanti. Senza fertilizzanti, il prossimo raccolto non sarà sufficiente per fornire abbastanza cibo al mondo. L’approccio seguito dalle Nazioni Unite dall’inizio della guerra in Ucraina di consentire le esportazioni ucraine oltre a quelle russe e bielorusse, ha le sue ragioni.

Soluzione in vista

Una soluzione si profila attualmente per l’esportazione di frumento dall’Ucraina, che tradizionalmente si svolge per oltre il 95% attraverso il Mar Nero. In questo momento ci sono diversi ostacoli. Da un lato, i porti ucraini sono occupati dalla Russia o bloccati dalla Marina russa. In secondo luogo, per prevenire gli attacchi russi dal mare, la marina ucraina ha minato le acque costiere. La scorsa settimana, dopo i colloqui a Mosca, la segretaria generale dell’UNCTAD Rebeca Grynspan e poi il coordinatore delle Nazioni Unite per gli aiuti d’emergenza Martin Griffiths hanno dichiarato che i colloqui sono stati “costruttivi” e sperano in una soluzione. È noto che il presidente russo Vladimir Putin ha accettato in linea di principio di porre fine al blocco dei porti. La Turchia, a sua volta, si assumerà il compito di rimuovere le mine navali ucraine e di condurre in sicurezza le navi cariche di grano attraverso il Mar Nero.[2]

Dopo intensi negoziati bilaterali alla fine di maggio, gli osservatori sperano in una svolta nei colloqui del ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu con il suo omologo russo Sergei Lavrov ad Ankara. Secondo quanto riportato dai media russi e turchi, un successo è imminente.

L’effetto di dispersione delle sanzioni

Tuttavia, non è ancora chiaro come garantire la seconda parte dell’approccio delle Nazioni Unite, cioè le esportazioni russe e bielorusse di cereali e fertilizzanti. Sia l’UE che gli Stati Uniti si nascondono dietro l’affermazione che non hanno introdotto sanzioni alla Russia per questi prodotti. Questo è vero, ma nasconde che, da un lato, le sanzioni transatlantiche contro i sali di potassio provenienti dalla Bielorussia persistono e, dall’altro, le esportazioni russe sono enormemente complicate da misure punitive che colpiscono i trasporti e il settore finanziario. Inoltre, il timore di un’ulteriore estensione delle misure di embargo dell’Occidente ha un impatto negativo su qualsiasi commercio. Questo effetto di dispersione delle sanzioni è ben noto dai precedenti regimi sanzionatori; non di rado ha persino impedito aiuti umanitari (ha riferito german-foreign-policy.com [3]).

Come riportato, Washington è ora pronta a contrastare l’effetto di dispersione delle sanzioni sulle esportazioni russe di cereali e sali di potassio. A tal fine, si potrebbe rilasciare alle aziende interessate una sorta di certificato di sicurezza, ha detto Linda Thomas-Greenfield, ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite.

Piano baltico bielorusso di Guterres

Gli sforzi delle Nazioni Unite sono attualmente sabotati soprattutto dall’Unione Europea. Ciò riguarda in particolare la possibilità di esportare le scorte di grano ucraino non solo attraverso il Mar Nero, ma anche via terra. È vero che la Germania sta attualmente lavorando per organizzare l’esportazione di cereali ucraini per ferrovia attraverso la Polonia e la Germania; il trasporto è pianificato, ad esempio, attraverso i porti tedeschi o italiani (ha riferito german-foreign-policy.com [5]).

Il fatto che i binari nell’ex Unione Sovietica hanno uno scartamento diverso da quelli dell’Europa occidentale, crea però notevoli problemi perché al confine ucraino-polacco le merci devono essere trasferite su altri treni. Ciò richiede così tanto tempo che, secondo gli esperti, solo una piccola parte delle scorte ucraine può essere spostata in tempo. Un’alternativa praticabile è il trasporto dei cereali attraverso la Bielorussia in uno dei porti del Baltico, in particolare a Klaipėda, in Lituania. In questo modo, due terzi delle oltre 20 milioni di tonnellate di cereali attualmente immagazzinate in Ucraina potrebbero essere resi disponibili. Il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres è favorevole.

“Categoricamente escluso”

Le sanzioni dell’UE contro la Bielorussia si oppongono al progetto. Minsk è disposta a organizzare il trasporto del grano attraverso il suo territorio, ma in cambio chiede che una parte delle sue esportazioni sanzionate venga riammessa attraverso porti come quello di Klaipėda. Ciò è abbastanza in linea con il piano delle Nazioni Unite di rendere nuovamente possibili le esportazioni di sali di potassio dalla Bielorussia per garantire l’approvvigionamento alimentare globale. Tuttavia, ora l’UE si oppone: “sia gli Stati membri che la Commissione escludono categoricamente la revoca o anche solo l’allentamento delle sanzioni contro la Bielorussia”, è stato riferito la scorsa settimana [6].

Negli ultimi tre mesi, Bruxelles ha cercato di attirare Minsk con offerte finanziarie per distogliere l’attenzione da Mosca; è “sorprendente” che, dopo le sanzioni del 9 marzo, l’UE abbia inizialmente imposto ulteriori sanzioni solo contro la Russia, ma non contro la Bielorussia. Tuttavia, il governo bielorusso non ha tenuto conto delle avances dell’UE e ha chiarito che i tentativi di creare un cuneo tra loro e la Russia sono destinati a fallire.

Le priorità dell’UE

L’UE ha quindi tratto le dovute conseguenze e venerdì ha imposto nuove sanzioni alla Bielorussia. Queste sono dirette concretamente contro la società Belaruskali, il più grande produttore di sali di potassio del paese, contro il capo della società, Ivan Golowaty, e contro la società di esportazione Belarusian Potash Co., che gestisce le esportazioni di Belaruskali verso i paesi stranieri. L’imposizione di sanzioni contro le aziende i cui prodotti Guterres cerca di rendere nuovamente disponibili per scongiurare una crisi globale della fame è un affronto diretto alle Nazioni Unite. Dimostra che per l’UE l’indebolimento degli Stati avversari è chiaramente prioritario rispetto alla prevenzione di una crisi della fame.

Per saperne di più: La carestia I e la La Carestia II.

NOTE:

[1] Sharon Marris: World hunger at ‘new high’, UN warns, with enough grain to feed millions stuck in Ukraine. sky.com 19/05/2022.

[2] William Mauldin, Jared Malsin, Evan Gershkovich: Black Sea Grain Talks Gain Steam as Russia, Turkey Eye Cooperation. wsj.com 01.06.2022.

[3] Vedere a questo proposito, la svolta dell’Iran verso est e la fame è fatta (II).

[4] William Mauldin, Jared Malsin, Evan Gershkovich: Black Sea Grain Talks Gain Steam as Russia, Turkey Eye Cooperation. wsj.com 01.06.2022.

[5] Vedere La carestia.

[6] Thomas Gutschker, Friedrich Schmidt, Reinhard Veser: Buhlen um Lukashenko. Frankfurter Allgemeine Zeitung 03.06.2022.

[7] Bielorussia: EU adopts new round of restrictive measures over internal repression. consilium.europa.eu 03.06.2022.

Traduzione dal tedesco di Filomena Santoro. Revisione di Thomas Schmid.

L’articolo originale può essere letto qui

GERMAN-FOREIGN-POLICY.com
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Caporetto non è in Italia. Lo sapevate?

Oggi infatti Caporetto è in Slovenia e si chiama Kobarid. Perché allora sono morti tanti soldati italiani a Caporetto? E’ scivoloso e ingannevole il discorso sui confini nazionali ed è bene tenerne conto anche quando si ragiona sui “confini dell’Ucraina” per cui si combatte una guerra terribile.
Avete studiato a scuola la “disfatta di Caporetto”?
Nel 1917 vi fu una delle più pesanti sconfitte italiane della prima guerra mondiale, con conseguente rovinosa ritirata.
Alla fine della guerra l’Italia tuttavia l’occupò nuovamente nel 1918. Il “censimento etnico” italiano del 1921 riportava che, tra i 6224 abitanti di allora, 98 erano italiani. 

Praticamente sono morti migliaia di soldati italiani (si pensi solo alla disfatta di Caporetto) per una località dove gli “italiani” erano meno del 2 per cento.

Ma D’Annunzio scriveva: “Dio segnò i confini dell’Italia”.

Dopo la seconda guerra mondiale il Dio di D’Annunzio si era già dimenticato dei “sacri confini”: Caporetto è oggi in Slovenia. E si chiama Kobarid.

Su un totale di 4472 abitanti, 4237 sono sloveni, 33 macedoni, 24 serbi, 23 serbo-croati, 18 croati, 10 albanesi e 9 bosniaci (1). Nessun italiano. Solo lo 0,2% conosce la lingua italiana.

E’ bene saperlo che i confini sono qualcosa di scivoloso e ingannevole, riflettiamoci quando si mandano oggi armi per difendere i “sacri confini” dell’Ucraina.

Le informazioni qui utilizzate sono tratte da https://it.wikipedia.org/wiki/Caporetto

Articolo pubblicato su peacelink

Pace: cosa possiamo imparare dai popoli indigeni?

 

di Markus Schombel
tratto da pressenza

Qualche tempo fa ho visto un video in cui una persona indigena rifletteva su questo tema. Diceva che spesso gli viene chiesto cosa possiamo fare per rispondere alle sfide di oggi. In risposta, riunì un gruppo di indigeni che deliberarono. La loro conclusione unanime è stata: “Chiedi al tuo cuore”. Chiedete al vostro cuore, da lì viene la risposta.

Oggi si potrebbe forse ancora distinguere tra indigeni adattati o civilizzati e indigeni originari o liberi. In realtà ci sono stati così tante migrazioni tra i popoli in passato che nessuno può dire chi sia sempre stato indigeno da qualche parte. I Gaudiya Vaishnava, ad esempio, affermano che gli Arya sono sempre stati di casa nei luoghi sacri dell’India. Secondo la storiografia occidentale, tempo fa in India vivevano i Dravidi che in un secondo momento furono soppiantati dagli Indo-Ariani provenienti dalla Persia, che si appropriarono della cultura vedica.

Dipende anche se lo guardiamo dall’esterno, fisicamente, o dal punto di vista della coscienza e dello stato d’animo. Anche a Tenerife, prima degli spagnoli, c’erano i Guanci, un popolo berbero. Nessuno sa perché siano arrivati lì o chi ci vivesse prima. In Sud America, i portoghesi e gli spagnoli si sono mescolati con gli Inca, i Maya e gli Aztechi.

Il vero punto è lo stato d’animo interiore e la connessione con la natura e l’assoluto. Finora la nostra civiltà ha seguito la strada della distruzione di tutto ciò che era indigeno, per poi lamentarsi di ciò che avremmo potuto imparare. È quello che è successo in America, in Africa e in Australia. Credo che ancora oggi si parli di pensiero postcoloniale. Stiamo ormai cercando luoghi vitali e risorse nello spazio mentre non abbiamo ancora rinunciato a questo pensiero coloniale e probabilmente continueremmo a comportarci allo stesso modo, sempre e ovunque. Così trascuriamo e distruggiamo l’essenziale, sognando già i corpi macchina.

Sarà quindi difficile trovare e interpellare dei popoli indigeni veramente originali e liberi. O sono popoli non contattati che si ammalano e muoiono al solo incontro con noi. Oppure hanno deciso così consapevolmente di opporsi alla nostra civiltà che si sono volontariamente ritirati o addirittura estinti. In Australia, ad esempio, si dice che ci fosse un popolo che viveva nudo sulle fredde e rocciose isole della Tasmania. Sono stati i primi a estinguersi con l’arrivo dei colonialisti. Ci sono storie di persone che hanno lasciato volontariamente la terra in pace nel momento giusto e quando le circostanze erano diventate troppo avverse.

La ricerca dell’indigeno è quindi la ricerca di noi stessi, del nostro essere e della nostra connessione, del nostro senso di ciò che sta succedendo. Tutti i cambiamenti iniziano con una scelta chiara: adattarsi, resistere o morire. Senza questa decisione non si può parlare di libertà e di pace. Ciò si riflette anche nella domanda di Socrate su cosa sia più importante: una lunga vita o una buona vita. Anche il Signor Schäuble (ex-presidente del Bundestag tedesco, N.d.T.) ha affrontato la questione chiedendo cosa sia la dignità umana: preservare ogni vita il più a lungo possibile o vivere e morire nel modo più autodeterminato possibile.

Se vogliamo migliorare qualcosa, è la consapevolezza di questo. Perdere la paura della morte, distruzione, sofferenza e miseria. Finché questo eserciterà un fascino troppo forte su di noi, continueremo a giocare con il fuoco e a bruciarci gravemente. Poi cerchiamo colpevoli e capri espiatori come Putin o i non vaccinati e ci sentiamo ancora nel giusto. Nella misura in cui rinunciamo a questo comportamento avverso e illogico, arriverà la pace.

(Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid. Revisione di Filomena Santoro)

In copertina: Foto di Oficina de plantas nativas Fulni-ô com Xumaya Xya

Le storie di Costanza /
Giugno 1959 – Foscolo e le fragole

 

E’ giugno e fa molto caldo. Il tasso di umidità è alle stelle e le mosche e le zanzare se lo godono. Alle mosche piace molto questa umidità che ristagna nell’aria e rende fosca l’alba.  Il cielo è opaco e, col suo torpore, rallenta il risveglio delle case e delle attività. E’ l’ambiente naturale degli insetti. Loro vivono qui da molto più tempo degli uomini.
Noi umani abbiamo potuto insediarci in queste terre dopo che furono bonificate (1200 d.c.) dai monaci Benedettini e trasformate in zone agricole molto fertili, anche se perennemente umide.

La scuola è quasi finita e io devo studiare per la maturità che inizierà fra due settimane. Ci aspettano sia lo scritto che l’orale di tutte le materie di quest’ultimo anno di superiori.  La commissione è composta da professori esterni alla scuola, nominati dal provveditorato. Della stessa commissione fa anche parte un professore della mia scuola, il “membro interno” che è il docente di latino. Un bravo professore anche se burbero e molto severo. Si chiama Silvio Buner.
Sa a memoria tutti gli orari dei traghetti che attraversano la Manica e tutti i nomi degli attori che animeranno i vari spettacoli in cartellone al teatro Vivarelli. Usa tutto questo suo sapere didascalico per far colpo sugli studenti e per spaventarli con la sua autorevolezza un po’ bacchettona. Buner è anche un tipo solitario, abita da solo, studia da solo e passeggia nei giardini di Vergania come se fosse un illuminista del ‘700.
Non ha moglie e non ha figli. Va a trovare una sua vecchia zia alla casa di riposo tutti i sabati e le porta un sacchetto di biscotti. Lo so, perché la mamma di una mia compagna di scuola lavora come infermiera in quella stessa casa di riposo e lo vede arrivare tutti i sabati alla stessa ora. Mi chiedo se non sappia a memoria tutti i nomi dei vecchi che vivono in quel posto, tutte le loro date di nascita. Lui è il nostro “protettore” agli esami, colui che deve lavorare perché i nostri voti siano buoni. Data la sua autorevolezza è una garanzia in questo senso, fatta eccezione per i ragazzi che lui considera “asini” perché invece di aiutarli, farà il contrario.

Una volta è arrivato a scuola con un segno sulla faccia che sembrava un morso. Ovviamente non ha detto a nessuno cosa gli fosse successo, ha raccontato all’insegnante di pedagogia di essere inciampato sulle scale. Il professore cammina dritto come un bastone e muove la testa come un periscopio, non ci sembra molto probabile che sia inciampato. Un mio compagno ha detto che deve aver litigato con una donna focosa, ovviamente abbiamo riso tutti e così facendo, abbiamo rischiato una punizione esemplare. Se ci avesse sentito ci avrebbe costretto a studiare a memoria tutto l’inferno di Dante, o qualcosa del genere. Cosa gli sia davvero successo è un mistero e intanto lui ha continuato a spiegare i verbi irregolari con quella macchia sulla faccia come se non fosse sua, come se avesse appicciato per sbaglio un pezzo di carta rossa sulla guancia. Un incidente colorato che non ha portato alcuna incrinatura nelle sue abituali modalità di comportarsi, che non ha scatenato nessun imbarazzo apparente.

Gli orali degli esami saranno divisi in due momenti di interrogazione: uno per le materie ad indirizzo letterario ed uno per quelle scientifiche. Praticamente due orali in successione che preoccupano un po’ tutti: il presidente della commissione perché deve controllare che proceda tutto per il meglio, gli insegnanti perché devono interrogare e giudicare, il membro interno che si sente in dovere di “difendere” il suo operato e quello dei suoi colleghi (trovando il modo di far parlare il più possibile i ragazzi in maniera coerente e colta), gli studenti che devono rispondere (almeno) sufficientemente, per non rischiare di buttare alle ortiche un intero anno di scuola.
E poi ci sono i genitori in apprensione, i nonni e gli zii tifosi, i fidanzati e le fidanzate esclusi temporaneamente dalla vita dei loro innamorati a causa di forza maggiore, i fratelli come il mio che vorrebbe giocare a scacchi ma devono aspettare. Il nostro cane Toti disturba mentre studio, ulula se ripeto ad alta voce e in maniera cantilenante il De Bello Gallico. Un cane a cui non piace il Latino è proprio il nostro, non ci sono dubbi.
Gli scritti inizieranno il 2 Luglio e sono italiano, latino, matematica e disegno. Penso che andrò ad assistere agli orali dei compagni di classe che saranno interrogati prima di me, così mi faccio un’idea di cosa chiedono i professori e di quali sono le loro preferenze. La lettera del cognome con cui iniziare la chiamata all’orale viene estratta a sorte. Ad esempio, se viene estratta la B i primi ad essere interrogati sono: Baroni, Berettini e Bollani mentre se viene estratta la G, io che mi chiamo Ghepardi sono la seconda, prima di me c’è solo Galimberti e per finire la “G” tocca a Gobbi. Gobbi è comunque contento, ne ha sicuramente almeno due prima di lui da ascoltare e correre ai ripari, per quel che potrà fare in un giorno. Se viene estratta la “I” io sono la penultima, se viene estratta la “F” sono la terza. Per me c’è una bella differenza tra l’estrazione della “I” e l’estrazione della “F”, un numero molto diverso di miei compagni da poter ascoltare.

Giuseppina si chiama di cognome Cavalcanti, quindi i nostri orali non saranno lo stesso giorno. Così io posso accompagnare lei quando è il suo turno e viceversa. Giusi ha assoldato sua nonna che deve pregare tutti i giorni perché esca la lettera “D”, così comincia gli orali D’Antoni e lei è l’ultima. Sua nonna non voleva pregare per una cosa del genere, ma quando ha visto sua nipote piangere si è impietosita ed è andata a comprare tante candeline quante sono i giorni che ci separano dagli orali. Se andiamo avanti così, esce davvero la “D” e io sono tra le prime. Ho provato a dire alla prozia Ciadin di pregare perchè uscisse la “I”, ma lei mi ha detto che non si prega per cose del genere, che la nonna di Giuseppina è matta e che, anche se dovesse uscire la “G”, me la caverei comunque benissimo. Così la situazione è impari, Giuseppina ha la nonna che prega per lei e io nessuno … mi hanno detto tutti che devo studiare e cercare di fare bella figura e che, se avrò studiato tanto, i Santi saranno contenti per me quanto lo saranno loro.

Umberto Del Re mi ha detto che a lui non importa che lettera esce, vuole solo cavarsela e prendersi il diploma, suo padre gli ha promesso che se è promosso gli compera il motorino e lui è molto affascinato da questa idea. Quel ragazzo mi piace molto. E’ bello, molto bravo in ginnastica e dipinge benissimo. Quando disegniamo alla lavagna, il professore lo mette sempre nella postazione migliore e, finita l’ora, cancella tutte le lavagne tranne la sua. Così i disegni di Umberto continuano a fare bella mostra di loro in un cimitero di lavagne nere. Gli altri professori, che ormai lo sanno, ogni tanto passano in aula di disegno a vedere cosa ha dipinto Del Re. Se lui disegna un tulipano, sembra un bel tulipano appena raccolto in un campo. Se io disegno un tulipano sembra un crisantemo o una margherita o un ranuncolo, non si capisce bene. In compenso Del Re non è bravissimo in matematica, credo che consideri quella materia noiosa, mentre io, in quella, sono particolarmente brava. Simili non siamo proprio, però a me piace lui perché ha gli occhi nocciola, è gentile, parla bene ed è, a modo suo, anche buffo. Mi ha detto che abita in un paese che si chiama Pontalba. Sono andata a vedere sulla cartina dove sia questo paese. E’ in provincia di Trescia a circa 40 km da qui. Non l’ho mai visto. Lo zio Erminio, che vende la stoffa e va in giro a fare i mercati, mi ha detto che lui va a Pontalba tutti i venerdì e che è un bel paese, pieno di vegetazione perché a Pontalba passa un fiume che si chiama Lungone.

Guardo il mio libro di Italiano aperto su “A Zacinto” di Foscolo. Questo autore sicuramente me lo chiederanno.
Né più mai toccherò le sacre sponde/ ove il mio corpo fanciulletto giacque/ Zacinto mia, che te specchi nell’onde/ del greco mar da cui vergine nacque/ Venere …”
Il componimento è dedicato all’isola del mar Ionio (Zacinto, più nota come Zante) dove Foscolo nacque, ed affronta il tema dell’esilio. Povero Foscolo che vita sofferta, l’esilio è una vera disgrazia.

Chiudo il libro e penso che berrò un bicchiere d’acqua poi andrò nell’orto a raccogliere qualche fragola, le lavo con l’acqua del pozzo e poi me le mangio. Le cose davvero belle della vita sono queste: l’acqua fresca, le fragole del mio orto, la mia mamma, mio fratello che vuole giocare a scacchi e non capisce che io devo studiare. Non posso certo dirgli che sono alle prese con un povero signor Foscolo che è finito in esilio e che ormai è morto da moltissimo tempo, non apprezzerebbe.

Chiudo il libro, è leggero, di carta quasi trasparente e un po’ ingiallita, l’ho comprato di seconda mano perché a casa mia non ci si può permettere di acquistare libri nuovi. Mi sorprendo a pensare che sia meglio così, che i componimenti di Foscolo stiano molto meglio in quel vecchio libro di carte usate e scurite dal tempo, piuttosto che in un anonimo libro nuovo con tanto di figure posticce e colorate in maniera discutibile. Anche i libri devono essere adatti a quello che ospitano. Un libro che racconta di vecchie storie è bellissimo usato, non ci sono stonature, tutto fluisce secondo un tempo già passato e immortalato così. I libri sono preziosi nella misura in cui è prezioso quello che contengono. I contenuti e la materia su cui si depositano formano un tutt’uno imprescindibile che arricchisce di senso ogni pagina, ogni momento di lettura. Quando qualcuno entra in quel mondo e in quella dimensione un po’ vecchia che sa un po’ di muffa, si regala una poesia eterna e senza arroganza. Senza artificio, così come è sempre stata.

Lascio il libro, mi avvio verso l’orto e le fragole. Chissà se a Umberto piacciono. Lui non è un libro e, per fortuna, non ha il fascino di ciò che è già stato e non tornerà.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore.

LO STESSO GIORNO
la corritrice olimpica Samia muore su un barcone a Lampedusa

20 giugno 2012
Giornata in memoria di Samia, la corritrice olimpica morta su un barcone a Lampedusa

Nella piccola cameretta condivisa con i fratelli, Samia aveva appeso il giornale sul quale apparve Mo Farah celebre mezzofondista britannico di origine somala.
Samia Yusuf Omar nasce nel 1991 a Mogadiscio, capitale della Somalia. Con la madre fruttivendola e orfana di padre, Samia e i fratelli cominciano a lavorare fin da piccola. Cresce nella Somalia martoriata dalla guerra civile, dal fondamentalismo, dal totale disinteresse della comunità internazionale e dalla dilagante povertà.

Samia non è come tutti gli altri ragazzi della sua età. Sin da piccola è dominata dalla passione e l’attitudine per la corsa. Vince tutte le gare per dilettanti somale, così inizia a partecipare a gare per professionisti, supportata dal centro olimpico somalo.

Il talento della giovane ragazza non ci mette molto ad emergere. Dopo aver dominato le competizioni Somale, si qualifica per i giochi olimpici di Pechino 2008.
Ha solo diciassette anni quando corre i 200 metri alle Olimpiadi, la più giovane in pista nella sua categoria. Con un tempo di 32”16 è ultima in assoluto in tutte le batterie, ma questo a Samia non interessa, l’importante è essere su quella pista.

Samia ha realizzato il suo sogno. Allenandosi tra scuola e lavoro, su piste sterrate e senza le classiche scarpe da corsa è riuscita ad arrivare alla massima competizione al mondo, tutto grazie la sua forza di volontà.
Il pubblico l’ha amata e sostenuta. Divenne, durante quei giochi olimpici, un esempio per tutto il mondo. Celebrata da tutti i giornali e le tv come la donna forte, capace di farcela da sola contro il mondo intero solo grazie alla propria forza.

Samia torna in patria fiera di se stessa, convinta che la volta successiva, a Londra, farà sicuramente meglio. La ragazza simbolo torna piena di speranza nella sua patria violentata prima colonialismo italiano, poi dalla feroce dittatura di Siad Barre e infine dal caos lasciato alla caduta di questo nel ’91.
Torna ad allenarsi per le strade squassate dai colpi di mortaio, con addosso abiti scuri e pesanti, che le coprono il volto, cosi che gli uomini appartenenti alle milizie al-Shabaab non si accorgano di lei.
Sono pochi in patria quelli che conoscono la sua identità di atleta olimpica, ancora meno quelli che hanno avuto il privilegio di vederla in tv.

Samia non si ferma, continua a correre per altri tre anni, sempre alla ricerca di un allenatore per Londra. Ma in Somalia è praticamente impossibile trovare qualcuno disposto a correre il rischio di venire condannato per aver preparato una donna ai giochi Olimpici.
Samia si appella con un tentativo disperato alla comunità internazionale. Quelle conoscenze fatte a Pechino tre anni prima le permettono di contattare giornali e televisioni senza farsi notare dal regime militare. Quelli stessi giornali che avevano amato la storia dell’eroina Somala, sembrano però essersi dimenticati completamente di lei, nessuno fa niente affinché la ragazza venga aiutata.

Per questo Samia decide di fare il grande passo: decide di lasciare il Mogadiscio e di raggiungere l’Europa.
Come tanti altri connazionali, come tanti uomini e donne africane, Samia sarà una clandestina una volta arrivata in Europa, e dovrà convivere con la dura accoglienza che l’aspetta. Non importa che lei abbia corso a Pechino alle Olimpiadi, non importa che sia la donna più veloce della Somalia, anche lei dovrà affrontare il deserto e il mare per cercare una vita dignitosa.
Samia attraversa Etiopia e Sudan su uno di quei camion stipati di persone, vede persone cadere e morire tra le dune del deserto. Arrivata in Libia ha dovuto subire le torture e le violenze di chi è prigioniero dei mercanti di uomini, attendendo il giorno in cui finalmente riuscirà a partire.

Riesce alla fine a salire su un barcone diretto verso le nostre coste, a Lampedusa. A largo della costa Italiana, la fatiscente imbarcazione comincia a cedere, tutte le persone ammassate lì sopra finiscono in mare, compresa Samia. Il 2 aprile 2012, a largo delle coste Italiane, Samia muore annegata insieme ad altri 10 uomini. 

Non capita spesso che tra chi cerca di attraversare il Mediterraneo ci sia un’atleta olimpica. Per questo la storia fu raccontata più volte, anche da televisioni e giornali locali. Su quel barcone Samia però non era l’unica a correre per sopravvivere. Mentre lei correva verso Londra, altri correvano verso familiari che li aspettavano, verso un lavoro, verso una vita diversa e più dignitosa, verso la speranza.
Tra le vie di Mogadiscio questo stesso giorno, il 20 giugno 2012, scesero donne e bambini, lavoratori e poveretti, per ricordare nella Giornata dei Rifugiati Samia, la corritrice olimpica. Pochi anni prima era il simbolo della forza delle donne, adesso invece è diventata un monito contro la propaganda occidentale che descrive i profughi che attraversano il mare come delinquenti e stupratori, come falsi bisognosi che rubare il lavoro agli italiani brava gente, e che sicuramente hanno tutti cattive intenzioni. 

«Noi sappiamo che siamo diverse dalle altre atlete. Ma non vogliamo dimostrarlo. Facciamo del nostro meglio per sembrare come loro. Sappiamo di essere ben lontane da quelle che gareggiano qui, lo capiamo benissimo. Ma più di ogni altra cosa vorremmo dimostrare la nostra dignità e quella del nostro paese.»
(Samia Yusuf Omar, 2008)

TERZO TEMPO
This is (black) England

Se dovessimo riassumere il significato della parola “nazione” in un’unica frase, potremmo dire che è il sentimento di appartenenza a un determinato contesto socio-culturale. Tuttavia, quell’ambiente in cui ci rispecchiamo non è rigido o immutabile, bensì fluido: si evolve col passare del tempo e delle generazioni, e il suo fascino non ha limiti territoriali.

Di conseguenza, l’aggettivo “nazionale” indica qualcosa che può unire, accogliere e – perché no – innovare. Una nazionale di calcio, ad esempio, fa tutto ciò senza necessariamente rispecchiare l’attualità sociale e politica del paese di appartenenza. È il caso della multietnica Inghilterra di Gareth Southgate, ben lontana dall’incarnare le linee guida degli ultimi governi, specialmente in materia d’immigrazione. A mettere in evidenza tale distanza ci ha pensato il Migration Museum di Londra con la campagna Football Moves People, avviata all’inizio di Euro 2020 e finalizzata a dimostrare, tramite il calcio, la progressiva mutevolezza dell’identità nazionale britannica.

Durante l’ultimo Europeo, infatti, campeggiavano lungo le strade della capitale alcune rivisitazioni dell’undici titolare di Southgate, cancellando i nomi di coloro che sono figli o nipoti di immigrati. Il risultato? Di quegli undici ne rimanevano tre o quattro, non di più. Anche i giocatori attualmente più rappresentativi e prolifici della Nazionale inglese non avrebbero fatto parte di quel gruppo: il padre di Kane è originario di Galway, in Irlanda, e si è trasferito a Londra molti anni fa; Sterling è figlio di genitori giamaicani, e assieme alla madre è emigrato a Londra all’età di cinque anni.

Non è una novità nel calcio europeo – basti pensare alla Francia del ’98 o al Belgio degli ultimi anni – ma nel caso dell’Inghilterra del 2021 il tema dell’immigrazione assume un significato più profondo, sia per ciò che è successo con Brexit che per l’attivismo di alcuni dei suoi protagonisti, tra cui spiccano il già citato Sterling e Marcus Rashford. A tal proposito, in un recente articolo su The Player’s Tribune Gareth Southgate dice che “è loro compito continuare a interagire con il pubblico su temi quali uguaglianza, inclusività e ingiustizia razziale, usando il potere delle loro voci per creare tavoli di discussione, aumentare la consapevolezza sociale ed educare”.

Sta di fatto che tra i 26 giocatori a disposizione dello stesso Southgate c’era una maggiore percentuale di non bianchi rispetto all’intero paese – dove, ad esempio, i neri sono il 3% della popolazione. Non è un caso, quindi, che l’adesione incondizionata dei calciatori inglesi al movimento Black Lives Matter abbia ricevuto qualche critica dal pubblico e da alcuni esponenti del governo britannico. Lo stesso governo che ha cercato a più riprese di trarre vantaggio dall’entusiasmo collettivo attorno alla Nazionale, non curandosi di un fatto piuttosto evidente: se l’attuale sistema di immigrazione fosse entrato in vigore trenta o quarant’anni fa, gran parte di quei giocatori non avrebbe indossato la maglia dell’Inghilterra.

Per certi versi
Ode al granoturco

ODI DIVERGENTI
1
Una spiga
È un prodigio
Di Armonia
Di luce
Economia
Fare tacere la fame
Altro prodigio
Anche la mosca
Che trasforma
La cacca in energia vitale
Lo scarabeo con lei
È un prodigio
Ma la mosca
Da vicino
È un mostro
E
Tortura
Non sempre
Sono anche belli
I prodigi
Della natura
Una spiga
È un prodigio
Di Armonia
Di luce
Economia
Fare tacere la fame
Altro prodigio
Anche la mosca
Che trasforma
La cacca in energia vitale
Lo scarabeo con lei
È un prodigio
Ma la mosca
Da vicino
È un mostro
E
Tortura
Non sempre
Sono anche belli
I prodigi
Della natura

PRESTO DI MATTINA
L’attesa

 

Il venire della parola come il travaglio di una grazia

«Una parola ha detto Dio, due ne ho udite: la forza appartiene a Dio, tua Signore è la grazia» (Sal 62,12). Forza creatrice della parola, da un lato, e il suo manifestarsi e attuarsi come dono di grazia, dall’altro, sono una sola cosa in Dio. In lui corrispondono infatti il dire e il fare, l’inizio e il suo compimento. Grazia e fedeltà nell’amore sono un’unica parola giunta a noi per mezzo del Figlio direbbe Giovanni.

Per noi l’unica parola è udita come fossero due: grazia e travaglio, chiamata e sequela, così è per noi il venire di questa Parola come pure delle nostre stesse parole: gratuità di un dono e travaglio del loro venire alla luce.

 

In quell’unica parola, due

Ne udiamo una prima, che dice: «Effonde il mio cuore liete parole. La mia lingua è stilo di scriba veloce. Sulle tue labbra è diffusa la grazia» (Sal 44, 2).

La seconda incalza: «Sappiamo che fino a ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando».

L’attesa del venire delle cose, l’attesa laboriosa di poter dare inizio, di principiare qualcosa, l’attesa stessa della parola che principia ogni scrittura, è attesa materna di gestazione, attesa fiduciosa davanti alla pagina bianca: attesa dell’aurora. Si sta in un travaglio che è dono e in una grazia che è imprevedibile seppur sperata; insperata giungerà preso o tardi: se tarda attendila fiducioso.

È come il sentire due note: una grave l’altra dolce. Due trombe, direbbe Agostino, che suonano in modo diverso, ma è un unico spirito che vi soffia dentro l’aria. Due parole: la grazia, della parola che verrà alla luce e il travaglio della lettura prima e della scrittura a seguire. L’attesa del venire delle cose come della parola è attesa del mutamento, di quell’ora che non si conosce ma che porta la gioia del nuovo.

È l’ora della grazia, del suo sorprenderti, direbbe Mazzolari: «Ci sono le ore di Dio: saperle attendere, vuol dire disporre i nostri cuori alla sua grazia. Il silenzio e la preghiera preparano le sue strade. Il soffrire non conta: conta il credere, lo sperare l’amare» (Pensieri dalle lettere, 173).

Le parole e le cose del mattino, quando accadono, sono intuite ma inesprimibili. Si potrebbero chiamare stato di grazia, qualcosa che giunge a te da altrove, come l’estro del poeta; qualcosa dentro te di incontenibile che preme.

L’etimologia della parola “estro” suggerisce qualcosa che ti punge, ti gonfia, ma persino che t’incinta e che spinge e trapassa come l’impeto al rompersi delle acque, quando viene alla luce una nuova vita, come l’oscuro e travagliato grembo della notte che non può più trattenere l’irresistibile venire dell’aurora.

La parola, come la vita, perché nasca e viva nella scrittura, necessita tempo, occorre inseguirne le tracce come un bracconiere; se sei ancora cieco di fronte al miracolo della parola nascente, devi continuare a cercarne le orme, come a tentoni nel divenire delle cose quotidiane, nelle relazioni non disattese né schivate, e all’improvviso, quando meno te l’aspetti, la scorgerai venirti incontro e ti metterai al suo sevizio come una levatrice prima e una nutrice poi, con la scrittura farai conoscere pure a lei un mondo nuovo.

 

“O homem cordial”

Può sembrare una banalità questo detto, ma quando un brasiliano dice “o homem cordial” (Sérgio Buarque de Holanda [Qui]) dice una cosa profondissima. La semplicità del comportamento, la capacità di accogliere, l’ospitalità, la generosità che dà tutto, e queste sono tutte virtù dei poveri in tutti i continenti.

Così desidero introdurre i testi poetici di Enzo Demarchi più di un amico fraterno, un vero fratello. Anche lui homem cordial, perché divenuto uomo della Parola di Dio nelle parole e nelle cose degli uomini, incarnata nei loro vissuti e storie.

Parola che sola «conosce tutta la gioia e tutto il dolore del Mondo, in attesa di una “Gloria” senza misura… Tutto è Voce Tua, Tuo Gesto, Tua Avventura. Il Mondo intiero è la continua Novità di Te nell’umiltà del tempo presente, in attesa della Gloria che sta per scoppiare. Tu mi dai una gioia sconfinata che vuole superare ogni argine del mio povero cuore; ma mi dai un dolore sconfinato, perché tutti e tutto essendo del Cristo, e vivendo Lui in me, ogni sofferenza dell’Uomo, ogni sofferenza della Terra è mia!».

Se le cose stanno così allora più delle mie le sue parole sapranno dire come da una parola se ne odano due, al pari della parola rivolta a noi da Dio sentita come travaglio e grazia.

 

L’inseguimento

Inseguimento, d’una parola che non c’è –
Attesa spasimante, assoluta – d’un eco, nel deserto –
E poi … un grido informe – mi fa soffrire:
la carne si scopre ai flagelli.
Che dolore per dire una parola! – Ricerca, affanno,
turbine – Vano protendersi, implorare, rincorrere –
Come un amante disperato – cerco parole nel buio dell’anima –
come nel crepuscolo mattinale, – dita misteriose
traggono miracolosamente – dal caos della notte – cose nuove.

Un volto d’uomo

Volto dell’uomo! – Fermati, apriti – Linee viventi,
segni dell’abisso! – Schiudete torrenti di comunione; – non
trattenete l’ondeggiare – che già vi preme, vi tende – come dighe
elastiche – Volto dell’uomo! – I tuoi occhi errano a volte, –
come naufraghi nell’oceano – A volte corrono per mano – come
fidanzati allegri. – O s’arrestano come bambini –
stupefatti da nuovi misteri.-

Momento di grazia: l’accorgersi dell’altro

Nei momenti di grazia, m’accorgo di come sono
cieco di fronte al miracolo della vita.
Ecco un uomo che lavora e si ricorda del
Lavoro di Dio nella sua creazione.
Ecco un uomo che progetta nella mente e
fatica col corpo e ringrazia il Verbo
che s’è fatto carne.
Ecco un uomo che ha sbagliato, ed ha
conservato il cuore buono, pieno di fiducia.
Ecco un uomo che sa chi è Dio, un uomo che crede
e si confessa umile e semplice come un bambino

Cose del mattino

O cose del mattino, io voglio stare con voi
e partecipare al vostro canto di lode.
Instancabili voi siete a risorgere
e il vostro aspetto è sempre antico e sempre nuovo.
Io passo come un pellegrino pieno di desiderio
che ha smarrito la via.
E voi continuate ad essere della terra
mentre già vi bagnate d’eterno.
Grande è il vostro mistero, cose del mattino!
Una mano invisibile, una grazia silenziosa
vi ha modellate nella notte
ed ora state commosse a ringraziare
quel lungo amore notturno
quell’abbraccio possente e tenero
che vi lascia per tutto il giorno
con incantato sguardo di sogno.
O cose del mattino,
dite al mio cuore la dolce avventura
la celeste origine, sussuratemi il vostro nome.
Una casa che luccica al sole – sotto la tenda azzurra
del cielo – è un miracolo grande – per la mia anima –
C’è un dono in quella casa immobile – nel cielo tranquillo –
c’è un dono che mani invisibili – offrono con infinito –
delicato pudore.- Perché quella casa – sgorga dai puri
abissi – della creazione – senza motivo. Così, per me!

La sua aspirazione: la Parola nella profondità del reale

«Ho questa ambizione: – diventare un uomo di poche parole, anche di più nessuna parola, se è necessario, perché tutta la mia vita appartenga alla Parola, ed io sia sempre, limpidamente, tranquillamente, profondamente l’espressione di chi vive in me (vorrei persino dare un consiglio a tutti i… predicatori: di non preparare più parole, ma di verificare la “profondità reale” della parola).– riconquistare lo sguardo dei fanciulli sulla creazione.
O Signore! Che io viva sempre di quegli istanti. Strani, pieni di dolore, ma segnati del Tuo Sigillo, della Tua Presenza! (Che è grazia)».

L’ora della grazia

Perché chiamar sentieri
Le scie del destino?
Chiunque cammini, avanza
Come Gesù, sul mare.
Amo Gesù, che ha detto:
Passeran cielo e terra, resterà la mia parola”.
Qual fu tale parola?
Amor? Perdono? Carità?
No: quella parola fu,
Quella parola: “Vegliate!
Poiché non conoscete l’ora
In cui vi si dovrà destare;
Ben vigili dormir dovete:
Vegliate dunque!”.

(Antonio Machado [Qui])
(I testi dal Quaderno XI, 1960, presso il Cedoc SFR)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

 

 

Parole a capo
Sara Ferraglia: “Telegiornale” e altre poesie

“La guerra non restaura diritti, ridefinisce poteri.”
(Hannah Arendt)

Telegiornale

Chiudi la porta, fallo tu soldato
Lì dentro tutto quello che ho lasciato
nel nulla svanirà oltre la soglia
e poi dovrò avvisare anche mia figlia,
lasciarle detto dove mi hai portato
Chiudi la porta, fallo tu soldato
Sul marciapiede c’è un fagotto rosso,
rosso di sangue, lei l’aveva addosso
È in tela di cotone, quadrettato
e giace nella strada abbandonato
accanto a lei, che è un corpo freddo e morto
Pietosamente le han coperto il volto
C’è questa disumana narrazione
che si ripete ad ogni nuova guerra
ed ha diverso peso l’emozione
quando non è la mia ma la tua terra
Misuri a fotogrammi l’empatia
guardando un viso in fotografia
Deciderà per te il telegiornale
per chi soffrire e quanto stare male?
Deciderà il racconto degli inviati
chi saranno i sommersi e chi i salvati?

Li ricordate i bambini di Kabul?

Li ricordate i bambini di Kabul?
Laggiù a Kabul i piedi dei bambini
indossano calzini per la corsa
Piedi veloci, piedi piccolini
mappati con la strada che han percorso
Laggiù a Kabul le mani dei bambini,
le dita chiuse a pugno strette e dure,
trattengono frammenti di destini
esplosi in onde nere di paura
E gli occhi dei bambini di Kabul
li ricordate ora che ne tace
ogni giornale? Non ne parlan più…
– Ormai sono lontani, son laggiù –
Ma c’era in ogni sguardo una domanda,
la fretta di raggiungere un futuro
sfuggito in volo dall’aeroporto,
voglia di un letto caldo e più sicuro
e il loro sguardo a noi era rivolto
Qualcuno li ricorda i bimbi di Kabul?

Interrogatorio

Sì maresciallo, ho sfondato la porta.
No, non è vero, non ho mano esperta.
Non ho rubato, non ho fatto danni,
(ho solo steso e asciugato i miei panni)
Sì, lo so bene. Non è casa mia.
(quella è un ricordo, è ormai fantasia)
Pioveva forte, la notte era scura.
Nella campagna una casa sicura…
Mi è apparsa vecchia, deserta e sola.
Come una nenia che ti consola
piangeva pioggia dalla grondaia.
Sì maresciallo, ho percorso l’aia
fino all’abbraccio con le sue mura.
La legge dice che è pena sicura,
che è violazione di proprietà.
Lei, maresciallo, che ha la mia età,
ha mai provato in un giorno soltanto
a perdere tutto, tranne il suo pianto?
Non sto chiedendo la sua compassione
ma di cercare dentro quel nome
che sta scrivendo sulla tastiera
l’uomo che sono. È la mia preghiera.

Sara Ferraglia  è stata finalista e vincitrice di numerosi premi nazionali fra cui: Premio speciale 28^ edizione Premio Ossi di seppia (SV), 2^ classificata Premio Giovanni Bertacchi ( TO ),  più volte vincitrice nelle varie edizione del Premio Giovanni Pascoli L’ora di Barga ( LU). Sue opere sono presenti in diverse antologie poetiche e sono raccolte nel blog Saràpoesia.blogspot.com
A Sara piace “la contaminazione” fra le diverse forme artistiche e le sue poesie sono state spesso affiancate a fotografie in mostre di grande successo. Molte sue poesie sono state inserite in vari spettacoli teatrali, il più recente dei quali, è “Le donne che conosco”, per la regia di Sabina Borelli e le musiche di Elisa Sandrini, composte sui testi stessi delle opere poetiche.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

VITE DI CARTA /
Nel guazzabuglio, i libri

 

Sperimento il caos miscellaneo che la vita mi presenta ogni giorno. Da un osservatorio con i suoi privilegi, quello di giornate più lente ora che sono in pensione, colgo le storie che vorticano all’intorno.

Una diversa dall’altra, le situazioni non solo mie, ma di parenti, amici, conoscenti. Senza parlare delle notizie che vengono da tv e internet. Voglio definirlo guazzabuglio, anche se mi veniva  bene chiamarlo minestrone davanti agli studenti, quando si facevano complessi i quadri culturali da studiare e c’era bisogno di un po’ di ironia prima di rimboccarsi le maniche.

Vediamo un po’. La sensazione più viva viene dall’ultima esperienza di ieri: la permanenza al pronto soccorso in tarda serata-notte. Ho alzato poche volte lo sguardo attorno, più che altro ho parlato fitto con mia nipote, sdraiata senza comodità sul suo lettino provvisorio, in attesa di essere visitata da qualcosa come dieci ore.

Però l’ho alzato. Sono anche andata in giro un paio di volte tra le salette di attesa, tra i lettini tutti uguali con sopra persone tutte diverse. Se la postura dice qualcosa, mi sono sembrate una più tramortita dell’altra; alcune con la fissità che prelude al sonno. Credo si stessero difendendo non tanto dal loro male, quanto dall’attesa imperscrutabile in cui erano piombati da ore.

Ho avuto una forte impressione di scollamento: non esisteva alcuna continuità tra gli astanti, il personale medico e infermieristico che appariva e scompariva e lo spazio, l’arredo, i monitor con l’elenco dei codici di accesso. P104 e colore azzurro, e sotto molte altre P con tre cifre a formare una lista asettica e non decifrabile ai non addetti.

A quale di questi codici poteva corrispondere la suora di media età, silenziosa e supina, che mi aveva guardato appena mentre le passavo accanto. O la signora seduta sul lettino, che consultava il contenuto della borsetta e l’immancabile display del cellulare. Ogni tanto, un frammento di contiguità. Quando un’infermiera usciva dal proprio ambulatorio per chiamare a gran voce un nome. Meglio ancora se si chinava su qualcuno per bisbigliare frasi meno formali, magari aggiungendo un sorriso.

Un altro quadro molto vivace che ho in testa è riferito alla festa della scorsa domenica: festa a casa di parenti, nel prato intorno alla bella casetta e sotto i gazebo approntati per l’occasione. Dei veri forni riempiti di tavole imbandite di ogni ben di Dio, per celebrare la prima comunione del rampollo di casa. Il caldo rappreso sotto i tendoni ha reso agli invitati un delizioso colorito, credo di essere diventata paonazza alla seconda deliziosa ora di conversazione e cibo.

Deliziosi anche i momenti di incontro con i parenti che vedo ogni qualche anno, momenti pieni di riassunti sui rispettivi vissuti. A colpi di tagli e colori di capelli profondamente mutati, ricoveri in ospedale e successive riabilitazioni, crescita incontrollata dei nipoti, diventati alti a dismisura nel giro di qualche mese. Eccetera. Sono tornata a casa dopo tre ore e mi sentivo ben pasciuta, in tutti i sensi.

Ancora. Le presentazioni di libri a cui ho preso parte negli ultimi giorni. I libri come il mondo che è tondo spaziano a trecentosessanta gradi per varietà di contenuti e di modi espressivi. Lo dicono a mo’ di esempio i due titoli che vado a riportare.

quando qui sarà tornato il mareIl primo è Quando qui sarà tornato il mare. Storie dal clima che ci attende ed è stato scritto a più mani durante un laboratorio su cambiamento climatico e scrittura collettiva condotto da Wu Ming 1 [Qui] nel basso ferrarese.

Il nome del collettivo, Moira Dal Sito, non è che l’anagramma di Mario Soldati, lo scrittore che frequentò a lungo la zona del delta del Po e al quale è intitolata la biblioteca comunale di Ostellato, dove si è tenuto il laboratorio nel biennio 2018-2019.

Ho ascoltato la presentazione del lavoro presso la Biblioteca Giardino, sere fa, divenendo consapevole della seguente previsione: l’Adriatico che si alza, che vuole spingersi nell’entroterra, potrebbe nei prossimi decenni arrivare a coprire di acqua la provincia di Ferrara, fino a pochi chilometri dalla città.

Come recita il risvolto di copertina, “lo scopo era immaginare il mondo sommerso di fine secolo e ambientarvi storie create con vari metodi. Ne è nata l’epopea di un mondo ancora e sempre in bilico, tra fatalismi e ritorni all’utopia, miti antichi e sogni di futuro”.

Il mondo in bilico, appunto. Come nelle sale e salette del pronto soccorso, ieri sera.

delitto sull'isola biancaIl secondo è un giallo ambientato sul Po, all’Isola Bianca di cui avevo solo sentito parlare prima di vederne le immagini durante l’incontro con l’autrice, la ferrarese Chiara Forlani. La quale, appassionatissima dei luoghi, ha parlato distesamente della nascita di questo romanzo, del misterioso delitto avvenuto sull’isola nel 1950 e della situazione storica in quegli anni a Ferrara. Delitto sull’isola bianca è il primo di una trilogia che la scrittrice ha già finito di scrivere, segno di una invidiabile energia narrativa.

 

 

quando le montagne cantanoAncora. I libri che sto leggendo e i libri da leggere. Sto leggendo Quando le montagne cantano di Phan Que Mai Nguyen, la saga di una famiglia che intreccia  la storia del Vietnam lungo tutto il Novecento ed è raccontata con rara sensibilità dalle due protagoniste femminili. Leggo questa storia e consulto la guida turistica del Vietnam, in attesa di partire per Ha Noi tra due settimane.

 

 

 

il nome del maleDevo leggere l’ultimo romanzo di un altro autore ferrarese, Alessandro Carlini. Di lui non ho ancora letto nulla, ma lo conoscerò anche di persona quando sarà ospite della Biblioteca comunale del mio paese per la presentazione di questo suo ultimo Il nome del male. Una nuova indagine del magistrato Aldo Marano.

 

 

 

Ora torno a ieri sera nelle sale e salette del pronto soccorso a Cona, dove un signore attempato dall’abbigliamento clownesco passava di stanza in stanza declamando versi e poi cantando ariette famose. Portava un cappello rosso natalizio e sopra una cuffia di lana bianca abbinati a pantaloni corti e a un cardigan dai colori sgargianti.

Una apparizione incongrua in tanto silenzio. Eppure costituiva lo scarto da tanta immobilità forzata, era il colpo d’ala di chi non soggiace alla situazione contingente e inventa alternative.

Come la lettura.

Avrei voluto avere con me un bel romanzo, o meglio ancora un racconto e tentare di fascinare l’uditorio con una storia che li mettesse a distanza da se stessi in un momento così incoerente. In un non-luogo così difficile da impattare.

Per costruire una prima corazza di emergenza: le parole altrui, le storie altrui che gira gira sono anche le nostre. Diamo loro la delega a rappresentare le vite e quando leggiamo calziamo le scarpe degli altri fingendo di non sapere che sono anche ai nostri piedi.

Nota bibliografica:

  • Moira Dal Sito, Quando qui sarà tornato il mare. Storie dal clima che ci attende, a cura di Wu Ming 1, Alegre, 2020
  • Chiara Forlani, Delitto sull’isola bianca. Le indagini del Foresto, Nua Edizioni, 2022
  • Nguyen Pan Que Mai, Quando le montagne cantano, Editrice Nord, 2020 (traduzione di Francesca Toticchi)
  • Alessandro Carlini, Il nome del male, Newton Compton Editori, 2022

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

August Landmesser rifiutava il saluto ad Hitler per amore della famiglia

13 giugno 1936
August Landmesser rifiutava il saluto ad Hitler per amore della moglie e delle figlie

August Landmesser, operaio navale ad Amburgo, padre e marito, antinazista ed unico tra centinaia e centinaia di persone a rifiutare il saluto ad Adolf Hitler.
Era questo stesso giorno, il 13 giugno del 1936, e il Fuhrer era arrivato all’arsenale di Amburgo per l’inaugurazione della nave Horst Wessel. Al suo passaggio furono centinaia le braccia che si alzarono al cielo: operai, impiegati, dirigenti e proprietari, tutti a salutare il Fuhrer. Tutti tranne Landmasser. Sguardo deciso e braccia incrociate. Un semplice gesto immortalato in una foto che rese celebre la storia dell’antinazismo di August per amore della famiglia.

Landmesser fu membro del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori dal 1931 al 1935. Come molti fu costretto a iscriversi al partito solo per riuscire a trovare un lavoro. Non condivise mai le idee che stavano alla base del terzo reich, ma le necessità soggettive lo spinsero a dover fare quel gesto di cui tanto si pentì.
Quando August si innamorò di Irma sapeva benissimo che era ebrea. Consapevole di star violando le neo-approvate Leggi di Norimberga – le leggi che postulavano la superiorità della razza ariana – nel 1935 il giovane operaio si sposò con Irma Eckler.
Il matrimonio non venne ovviamente riconosciuto dalle autorità di Amurgo e le due figlie, Ingrid (1935) e Irene (1937), non poterono adottare il cognome del padre proprio a causa delle leggi raziali. Pochi mesi dopo la nascita della secondogenita, August cercò di portare la famiglia in Danimarca. Quando però la famiglia arrivò il confine, la Gestapo li bloccò e invitò August ad abbandonare l’ebrea e le due figlie per non avere alcun tipo di problema.
August però l’amava davvero e non ebbe paura delle conseguenze, scelse di non abbandonare la propria famiglia.

Nel 1938 la Eckler fu arrestata dalla Gestapo e internata nel campo di concentramento di Fuhlsbüttel ad Amburgo. Spostata nei campi femminili di Oranienburg e Ravensbrück, fu assassinata il 28 aprile del 1942 nell’istituto sanitario di Bernburg dai medici nazisti a causa della presunta malattia mentale della quale soffriva. August venne inizialmente arrestato e incarcerato insieme alla moglie. Fu scarcerato il 19 gennaio 1941 e assegnato ai lavori forzati presso la società Püst, in un’azienda aeronautica e casa motociclistica tedesca.

Negli anni successivi cominciarono le sconfitte dell’esercito nazista al fronte. Nel 1944, proprio a causa della penuria di uomini alle armi, Landmesser, nonostante i precedenti penali, fu arruolato nella Wehrmacht e assegnato a un battaglione di disciplina, il 19º Battaglione penale di fanteria della famigerata Strafdivision 999. Dopo pochi mesi al fronte August venne prima dichiarato disperso in Croazia durante operazioni militari, e solo successivamente risultò morto in un scontro a fuoco, ma il corpo mai ritrovato.
Le bambine nel frattempo vennero divise: Ingrid fu affidata alla nonna paterna, mentre Irene fu condotta dapprima in un orfanotrofio poi assegnata a dei parenti.

Quella foto, scatta quel 13 giugno del ’36, divenne la foto di un pezzo di storia. August Landmesser come molti fu costretto a vendere i propri ideali per provare a sopravvivere, per aspirare ad avere una casa, una famiglia e una parvenza di dignità. Proprio in quei momenti neri della storia, in cui le difficoltà si fanno più concrete e reali, i gesti come quelli di Landmesser che si ribellò al regime per amore sono capaci di riscrivere la storia.

Ogni lunedì, per non perdere la memoria, seguite la rubrica di Filippo Mellara Lo stesso giorno. Tutte le precedenti uscite [Qui]

Un accendino come nuovo

 

In realtà è un’immagine che richiama un video. L’immagine è quella di un accendino con la fiamma viva; il video è quello di un profilo di Instagram di psicologia. Si è già trattato sulle pagine di questo giornale del bonus psicologia, e che dopo la pandemia molte persone hanno avuto bisogno di un sostegno che alleggerisse le paure accumulate. Ecco, il video inizia con un accendino che si spegne. Viene tuffato in un contenitore di vetro e sommerso di acqua: tristezza, solitudine, ansia, isolamento. Quando ne esce fuori tutte le difficoltà che lo hanno spento, non gli permettono più di accendersi. L’acqua è entrata a fondo nel suo meccanismo: l’anima, l’autostima, la volontà, il cuore… sommersi.

Poi la soluzione. Per accendere una persona basta che si attorni di persone che sappiano accenderla. E così la fiamma di un accendino si avvicina al gas di quello spento e lo ri-accende. Combustione spicciola per molti, filosofia sociale per altri. Non bisogna dimenticare che chi è in difficoltà viene spesso allontanato, come se non bastasse, ancora di più. Sempre più spesso si cancella una persona e non solo da un profilo facebook. Spento definitivamente l’essere umano; per ignoranza, paura. Poi la semplicità di un accendino spento che vuole (e sottolineo vuole) farsi accendere, basta che non si isoli troppo. Basta che la solitudine non diventi routine, camuffandola per riflessione. Ma a ognuno i suoi tempi. E comunque sappiate che le fiammelle sono ovunque, preziose, silenziose, devi saperle accogliere e custodire.

PRESTO DI MATTINA
Il battito in ogni cosa

Chi sei tu?

«Chi è lo Spirito santo?» Non mi pare questa la giusta domanda da porre a Pentecoste. Sa troppo di ‘catechismo’, di dogmatica, finendo per indurre a una risposta impersonale, magari impeccabile, ma da manuale di teologia, che non quieta l’attesa di chi interroga né riesce veramente a dischiudere il segreto nascosto nel nome. Fatalmente, chi la pone si fermerà a metà strada, senza arrivare al cuore e sentirne il battito. La strada è un’altra.

A Pentecoste, al compiersi della Pasqua e al venire dello Spirito, una più congegnale domanda potrebbe essere: «Chi sei?», senza dimenticare di ripetere con ardente desiderio: «Chi sei tu per me?».

Solo quest’ultimo interrogativo rivela l’esperienza, come diceva Isacco il Siro (VII secolo) [Qui], senza accontentarsi di una risposta fors’anche erudita e ornata di bellezza, ma impersonale. Non è raro che si pongano domande prive di un contatto con la realtà. Ecco perché un interrogativo che suscita e proviene dall’esperienza è un tesoro in cui possiamo confidare.

In questa audace e ad un tempo confidente domanda: «Chi sei tu per me e chi sono io per te?» solo chi è amato e a sua volta ri-ama giungerà a conoscerne la risposta. Nel tu per tu della relazione, di una libertà che ad un tempo si fa accogliente e si affida all’altro, può venire alla luce la parola, il nome sempre conosciuto e nominato sempre in modo nuovo di colui che Riccardo di San Vittore [Qui] chiamava il «condilectus, amor debitus et donum», un amore condiviso che si riceve (debitus) e che si dona a sua volta oltre sé stesso.

«Con-dilectus» esprime la gratuità dell’accoglienza, il darsi di una comunione reciproca di un amore a due, quella del Padre e del Figlio. Lo Spirito è sì il luogo vivente del loro amore, dove entrambi dimorano; ma questo luogo è reso permanentemente aperto dallo Spirito santo.

È costui infatti amore in uscita, che non trattiene gelosamente ciò che riceve. È passione di amore che non resta passivo, ma diviene a sua volta azione di amore che permanentemente fluisce, sorgente che zampilla in ogni dove, anche dentro di noi: «l’acqua che io gli darò – dice Gesù alla samaritana riferendosi allo Spirito – diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14).

Il tutto a dimostrazione che la perfezione dell’amore non è esclusiva, ma inclusiva. Estasi di amore è lo Spirito, irruenza, dolcemente fluente, fuoco di amore, mite ardore di amore, che a Pentecoste mette sottosopra il cuore, e sparpaglia gli araldi del vangelo riunendo i linguaggi degli uomini, sino a renderli consonanti gli uni gli altri al loro messaggio, concordi come fratelli: «Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra» (Sal 103, 30).

Lo Spirito è così tanto libero amore da lasciare anche in dono la libertà di nominarlo in molti modi, in moltissime lingue. Tutti infatti lo conosceremo, dal più piccolo al più grande, nel modo in cui anche noi saremo da lui conosciuti.

Ad ispirarmi questi pensieri è stato un inno di Pentecoste scritto nella sua ultima esperienza di questa festa da Edith Stein [Qui], Teresa Benedetta della Croce carmelitana, prima di essere deporta ad Auschwitz. È Edith a domandarsi: «Chi sei?».

«Chi sei, dolce Luce/ che ricolmi il mio essere/ e rischiari/ l’oscurità del mio cuore. Inafferrabile, inconcepibile e incontenibile in un nome» e tuttavia «più vicino a me/ di me stessa/ e più intimo/ del mio stesso intimo. Eppur nessun ti tocca/ o ti comprende/ e d’ogni nome infrangi le catene. Mi conduci per mano/ come una madre/ e non mi abbandoni,/ altrimenti non saprei muovere/ più nemmeno un passo./ Tu sei lo spazio/ che circonda/ il mio essere/ e lo prende con sé».

 

Sussurri e battiti d’amore

«Ogni sussurro/ e battito d’amore,
ogni sussurro che acconsenta amore».
(G. Ungaretti [Qui])

Lo Spirito è il battito in ogni cosa, pietra o albero o sabbia o acqua che sia, in ogni vivente e in ogni parola soffio di vita. È «murmure tra gli ulivi saraceni». Un “murmure di mare” è la nostalgia di amore, che risveglia nel poeta il ricordo di lei, dell’amata, e in me – «come l’acqua delle fontane di san Pietro, murmure liturgico» – la «Dulcis Jesu memoria, vera cordis gaudia», affinché il Cristo continui ad essere anche per me dimora e cammino, e il suo vangelo sia giogo dolce e carico leggero.

Eco di Dio in ogni cosa è il suo Spirito: «Eco d’una voce chiusa nella mente/ che risale dal tempo; ed anche questo/ lamento assiduo di gabbiani: forse/ d’uccelli delle torri, che l’aprile/ sospinge verso la pianura. Già/ m’eri vicina tu con quella voce;/ ed io vorrei che pure a te venisse,/ ora, di me un’eco di memoria,/ come quel buio murmure di mare» (S. Quasimodo [Qui], Tutte le poesie, 101; 585; 141).

A Pentecoste lo Spirito santo sta proprio nel buio della notte come luce promessa. Come l’aurora, affioramento di luce, è già una promessa presente; già una preghiera esaudita: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre. Lo manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14, 16-26). Preghiera che continua a compiersi nel tempo: lo Spirito stesso prega con insistenza in noi, con gemiti inesprimibili» (Rm 8, 26).

Lo Spirito, come l’aurora, è il battito del germinare della luce, chiarore che crea un varco nell’oscurità, battito del riposo nella fatica, tocco di rugiada nella calura, conforto di prossimità nel pianto.

 

Sulla soglia della decisione

Paraclito/Ad-vocatus = colui che è chiamato a sé, che è in-vocato per sostenerti nell’ora della decisione, confortarti nell’ora della prova. Tutta la vita – cristiana diceva san Serafino di Sarov [Qui] – è con-seguire lo Spirito santo, divenirne discepoli. Da lui viene il dono del consiglio, del discernimento spirituale, come pure del discernimento comunitario che è esercizio di sinodalità. È lo Spirito che guida al pensiero di Cristo, che è generativo del con-senso della fede dei battezzati nella comunità cristiana: sinfonia dei differenti battiti dei credenti.

Paolo ricorda ai Corinti che: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio.

Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora, noi abbiamo ricevuto lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere? Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor 2, 9-16).

Pentecoste continua ad essere così il tempo della decisione. Lo Spirito santo ci attende sulla soglia, quella della decisione della libertà: abita in essa, per farci fazione, dalla parte del vangelo, consorti suoi. La soglia della decisione è anche il luogo dell’indecisione: luogo certamente comune dell’incredulità e della fede. È la soglia presso la quale egli ci attende.

È don Primo Mazzolari a dirci che lo Spirito ci fa essere «con la volontà e il cuore di fazione per il Regno del Padre. Troppa gente ha fretta di smobilitarci dai nostri ideali e dai nostri ricordi, per nuovamente intrupparci dietro interessi, che non sono neanche interessi: troppa gente ha premura di renderci gravosa la libertà così faticosamente guadagnata per disporci al baratto. Ancora una volta la nostra libertà cristiana per un piatto di lenticchie!» (Il Compagno Cristo, 42).

E in un’omelia, lo stesso Mazzolari ricorda le tentazioni del cristiano: «La Parola di Dio l’ho dentro di me, non la posso più rifiutare e adattare ai miei gusti, imborghesirla. Nel ‘lontano’ la ricerca è un istinto naturale; nel credente è istinto e grazia.

C’è poi il confronto continuo fra ciò che mi splende nella visione e nel desiderio e ciò che riesco a fissare. Penso in eternità e avanzo lentamente nel tempo. Ho ricevuto tanto e di tanto devo rispondere: anche davanti agli uomini. Sono creato testimonio davanti agli uomini. Dipende da me se Cristo sarà accolto o giudicato nella mia luce o nella mia tenebra. Sono di fazione per Lui fino all’ultimo respiro» (Domenica prima di Quaresima Mt c. IV, v. 1 –11).

L’espressione iniziale del capitolo 2 degli Atti degli Apostoli: «mentre il giorno di Pentecoste stava per compiersi», quello “stare per compiersi” esprime il venire a maturazione della decisione degli apostoli, intuito dello Spirito e sua grazia, che a Pentecoste li farà testimoni del vangelo.

La stessa locuzione la troviamo anche nel vangelo di Luca al cap. 9, che narra il momento in cui Gesù manifesta la sua decisione di andare a Gerusalemme annunciando così la sua prossima passione: «Mentre stavano per compiersi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, Gesù indurì la sua faccia e partì direttamente verso Gerusalemme».

È l’inizio del grande viaggio e lo Spirito, urge in lui e lo sospinge a salire con i suoi verso Gerusalemme, sapendo che là lo attenderà la croce; quella decisione lo porterà a raggiungere tutti e a dare compimento all’amore: «quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me», ad abbracciare tutti, anche i nemici e nel luogo del suo innalzamento, da quel legno pure lui dai chiodi trafitto, colpo su colpo battuti, battito di un cuore morente e dopo aver preso l’aceto, reclinando il capo, avrebbe alla fine reso su tutti lo Spirito.

Lo Spiritus Principalis o Pneuma hegemonikon è l’energia di amore sorgiva che il Padre ha dato al Figlio e che questi ha rimesso nelle sue mani e donato anche a noi. È colui che conosce l’ordito dell’amore, l’ordo amoris, perché ne è il principio, la tessitura che regge e intreccia l’insieme dei fili di ogni amore fino al loro compiersi. È principalis, che inizia sempre, regge e guida ogni cammino, attacco e arrivo ad ogni movimento, filo dopo filo, battito dopo battito in ogni cosa, in ogni vita che acconsenta amore.

Spiritu principali confirma me (Salmo 50 [51], 14)

Tu esci
come da ferita del legno,
lavacro battesimale.
Tu sgorghi
come da cuore trafitto,
acqua e sangue,
vita nascente
da compiuta morte,
sigillo di un amore risorto.
Goccia a goccia dapprima,
fiume che travolge poi,
inondazione feconda
per l’arida fede
e per gli Undici,
sementi disperse
dal battito della paura.
Tu, primo battito
di un cuore di Chiesa
su cui accordarci
sempre di nuovo
perché si sia
cuore indiviso.

 

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Cover: Roma, p.zza San Pietro, fontana lato nord – Foto Wikimedia Commons

 

 

 

Una gemma del passato
…un racconto

Una gemma del passato
Un racconto di Carlo Tassi

Bizzarra, carnale, gelosa, infedele, pazza. Questo era Sara.
Eppure l’amavo, l’amavo come non avevo amato nessun’altra. Senza sapere il perché.
L’inizio della vita. L’inizio dell’avventura. Le feste, le sere disperate, in riva al mare d’estate.
Camminare per le strade sconosciute del lido, la notte. La solitudine, in cerca di lei che se ne fotte. La voglia di fuggire e di morire. Poi ancora la voglia di riprovare. No, non può finire.
Ed eccola di nuovo davanti a me, sempre bella, sempre stronza, e piangeva. Esatto, piangeva di nuovo, ed ero fregato. Conoscevo il suo gioco, ma ero fregato. Sempre.
Quanto fossi debole non era un mistero per nessuno. Io e Sara, io lo zerbino e lei la regina. Schiavo del suo sesso e dei suoi capricci.

Ora la rivedo dietro il carrello della spesa, scomparsa una sera d’autunno e riapparsa dopo trent’anni di vita, mille volte sfiorata e mai incontrata.
Alta, magra, sciupata, bella come sempre, come non immaginavo più. Mi guarda e mi sorride col suo solito sorriso triste. Leggo il suo imbarazzo e lei legge il mio. Non saper cosa dire, il desiderio d’andar via e la voglia d’essere altrove, da soli, che lentamente sale. La voglia di lei, di riprendersi il tempo perduto. Pensieri scabrosi a stento repressi.
“Ciao che bello rivederti… come stai?”
“Bene grazie, e tu?”
“Non male… Ma che fai da queste parti? Credevo fossi andata ad abitare lontano…”
Parole forzate, sorrisi tirati. La magia dura un attimo, giusto il tempo di un sussulto nel petto, di un lampo d’eccitazione. Poi vince il disagio, il fastidio.
“Beh, allora ciao… vado che sono in ritardo…”
“Ciao, mi ha fatto piacere rivederti. Stammi bene…”
“Anche a me, ci si vede…”

Un ricordo. Era solo un ricordo prezioso, un’idea, una gemma che illuminava una traccia di passato.
Guai al mondo trasformarlo in materia. Quanta leggerezza perduta, un cristallo magico caduto in terra, infranto. E ora, nella testa solo i cocci del presente.
Ma si tratta d’aspettare, e Sara tornerà a splendere nel mio mondo di nostalgie… sempre che non la incontri di nuovo.

Me And Sarah Jane (Genesis, 1981)

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PER CERTI VERSI
Dipingere il dolore?

DIPINGERE IL DOLORE?

Qualcuno mi disse
Che le mie parole
Non vogliono
Dipingere il dolore
Che gli cambiano volto
Come alla tv
Il dolore
Forse non lo sanno
Non si può dipingere
Il dolore
È assoluto
Incolore
Illune
Non passa
Mai
Nemmeno
Dalle crune

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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PRESTO DI MATTINA
Padre Silvio

Il chicco di grano caduto in terra

Padre Silvio Turazzi, missionario ferrarese nativo di Stellata di Bondeno, ci ha lasciato giovedì 26 maggio, memoria di san Filippo Neri, il santo della semplicità e della gioia cristiana che, come lui, visse gioiosamente in mezzo ai poveri, ai piccoli, agli emarginati.

Quel giovedì era pure la solennità dell’Ascensione, che ricorre a rigore quaranta giorni esatti dopo la Pasqua. Canta l’inno del mattino: «È asceso il buon Pastore alla destra del Padre, veglia il piccolo gregge con Maria nel cenacolo. Scende il crisma profetico che consacra gli apostoli araldi del Vangelo».

Così dopo una vita in sedia a rotelle, ma pur sempre da araldo del vangelo, pure lui, rialzato dal suo Gesù, è asceso presso il Padre, non senza la promessa di restare tra noi con il suo spirito di “fratello universale”.

Sì, quella della spiritualità di Charles di Foucauld [Qui], fratello universale, fu una delle luci che ispirò il suo stile missionario. Fratel Charles era per lui «il missionario che ascoltava Dio, che parlava condividendo la vita dei poveri nello spirito di Gesù di Nazareth».

Per questo fu molto presente nella vita di padre Silvio, anche se sentiva importante – sono le sue parole − partecipare a tutta la vita della gente: «Con questa prospettiva mi sento di vivere ovunque. Qui capisco che i sacrifici sono tanti: insicurezza, malattia, disagi, incomprensioni sono di casa. Soltanto la fede, l’appoggio su Gesù rende possibile un discorso completo sull’uomo … siamo tutti così limitati!»

Negli ultimi giorni, come la stessa consapevolezza che ebbe Gesù della propria fine, padre Silvio era entrato nei suoi tre giorni santi, nella sua Pasqua, ricordando a coloro che gli erano vicini il senso del suo soffrire e del suo morire. Lo ha fatto pronunciando le stesse parole usate da Gesù prima della sua passione.

È Edda, missionaria saveriana, che lo accompagnò per una vita, a raccontarcelo: «Martedì era voluto uscire. E davanti a un campo di grano, aveva richiesto una spiga e tenendola tra le mani aveva sussurrato: “Se il seme di grano non cade per terra e non muore non porta frutto”». È questa sua vita eucaristica, come un seme gettato nella terra, la sua vivente eredità.

Padre Silvio era entrato nei missionari severiani di Parma nel 1967, già prete, dal Seminario di Ferrara, e dopo soli due anni, nel 1969, fu vittima di un incidente stradale che gli compromise l’uso delle gambe. Ciò non gli impedì di iniziare la sua missione tra i baraccati di Roma all’Acquedotto Felice e poi a Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, dal 1976 al 1994; quindi a Vicomero in una piccola fraternità missionaria vicino a Parma.

«La missione è un profondo atto di amicizia tra gli uomini»

«Portavo come un seme, una speranza oscura, il desiderio forte di incidere sul cammino del popolo per realizzare il bene comune. Mi sono ritrovato piccolo e bisognoso di imparare a leggere e capire esperienze e risposte alla vita diverse da quelle che avevo sempre incontrato. L’idea della missione mi ha provocato e sostenuto in questo incontro.

Poiché ci si riconosce in un destino comune, si prova il bisogno di comunicare le notizie che portano gioia e colmare i vuoti che gli egoismi hanno creato. È missione annunciare Gesù, Parola e impegno di Dio per la pienezza degli uomini; è missione riconoscere che la sua presenza va oltre il visibile e oltre i segni importanti e liberatori che egli stesso ci ha lasciato.

Quello che conta è il quotidiano rimettersi in cammino perché Lui, che è venuto a dichiarare la liberazione dei poveri, ci trovi impegnati a costruire, con il suo aiuto, la famiglia umana».

Quella di padre Silvio è stata così sempre di più una missione intesa e intenta a costruire la fraternità tra gli uomini: «Un altro aspetto dell’essere fratello è il legame con i fratelli sofferenti − che porta alla solidarietà. Una solidarietà che cura le ferite e si fa carico degli squilibri che la provocano; quella virtù che “è ferma e costante determinazione di lavorare per il bene comune, di donarsi per il bene del prossimo, pronti nel senso evangelico del termine a ‘perdersi’ per l’altro invece di sfruttarlo, a ‘servirlo’ anziché opprimerlo”» (Sollicitudo rei socialis, 38).

È la scelta dei poveri. È la fraternità che diventa coraggio e si fa giustizia che illumina la vita sociale sulla proiezione della proposta di Cristo. “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare…. Ogni volta che l’avete fatto a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt. 25,31-46).

Ne parlo come prospettiva. La mia esperienza è povera, con tanti silenzi e compromessi. Quando l’ho vissuta mi sono trovato nel Vangelo. Ricordo la risposta spontanea al direttore della prigione che aveva proibito l’entrata ai sacerdoti bianchi: “Direttore, il sangue mio e quello dei detenuti ha lo stesso colore; perché non posso vederli?”. Mi fissò, poi rispose: “Ingla (entra)”».

 

La fraternità planetaria, la sua ostinazione

Aperti e protesi verso una giustizia, una solidarietà, una cultura e comunità planetarie. Padre Silvio vedeva nell’unità del pianeta un segno dei tempi: «È tempo che l’economia, il diritto, la politica, la cultura, abbiano riferimento all’unico uomo: l’uomo cittadino del mondo.

L’umanità è cosciente dell’avventura globale della sua storia come dei suoi rischi, non altrettanto da dove attingere la forza per “crescere” in quella cultura dell’altro, chiunque e dovunque esso sia, che permetterà l’incontro, la collaborazione, la gestione comune della vita.

E’ in questo contesto che la missione, e in particolare le missioni nei vari Paesi del mondo, è chiamata ad essere segno e strumento della diaconia della Chiesa per l’unità del mondo. Noi nuovi discepoli dell’unico Maestro, lentamente impariamo ad accogliere questa nuova ricchezza del regno, la chiamata a essere e diventare figli del Padre e aprirci alla fraternità.

La vita mi ha insegnato che non c’è situazione in cui non possiamo aprirci “al di più”, alla bellezza del Regno. Se poveri impariamo ad essere capaci di vedere chi soffre, a diventare solidali con loro; ne potremo accettare passivamente che l’altro sia escluso, calpestato, privato della propria dignità. Ogni scelta, ogni relazione, perché sia umana, deve tendere alla fraternità, il frutto maturo della pace».

Così un corpo e una parola di fraternità si ostinano a procedere tra immobilità e silenzi ostili e peggio indifferenti: «Dammi l’acqua/ dammi la mano/ dammi la tua parola/ che siamo, nello stesso mondo» (Chandra Candiani [Qui]).

Come il respiro in salita, il battito del cuore in affanno, ostinati anche se le gambe non camminano e le parole sussurrate del vangelo cadono nel vuoto. Ostinazione è il carattere di chi fronteggia l’immobilità, la chiusura, il dolore, è pure lo stile di chi abita il vangelo e la vita della gente come fosse la sua scuola, la sua casa, la sua terra, il suo campo.

È l’ostinazione – aratro che solca i campi dell’umano, semina e li fa fiorire e fruttificare – un ostinato amore che va fino in fondo costi quel che costi. «Tutto è questione di fedeltà – scriveva don Primo Mazzolarie l’ostinazione è una fedeltà innamorata» (Pensieri dalle lettere, Vicenza 1978,170).

In queste parole ritrovo al vivo lo sguardo e i tratti del volto di padre Silvio, la sua fede ostinata e sorridente: “una fedeltà innamorata”.

 

«Sul Golgota il Regno di Dio non è finito»

«Il mio ritorno a Goma con Paolo ed Edda è stato come entrare in un profondo pozzo, in un tunnel buio: è ancora guerra, continuano le sparizioni di persone gli spari nella notte.

E tuttavia si percepisce in mezzo a queste realtà di morte che la gente sente il bisogno di vita. Ha fame, sete, chiede luce. Per questo Gesù ha inviato i discepoli. Quando ci uniamo nell’eucaristia gli occhi sono fissi su Gesù, non c’è altro maestro. Si annuncia l’attualità della sua persona in mezzo a noi. Noi come chiesa non viviamo appena di ricordi, ma ricordando il Gesù presente viviamo il presente e ci apriamo al futuro.

Resta la profonda angoscia delle immagini molto tristi della guerra e del dopoguerra, restano gli interrogativi del perché tanto male, anche se si sa che i motivi della guerra nella regione dei grandi laghi sono da individuarsi in una volontà di profitto, di accaparramento e sfruttamento di risorse economiche.

Ho imparato che è nella preghiera che vanno cercate se non le risposte immediate almeno una luce ed un senso che ti confermano nella certezza che sul Golgota il Regno di Dio non è finito, ma dal Golgota si è sparso nel mondo.

Nella sofferenza degli uomini il Regno di Dio non è finito. Questo pensiero mi ha illuminato ed è stato come una liberazione dall’oppressione dell’angoscia e degli interrogativi su tanto male che ancora continua.

A Goma ho visto i segni della guerra e della fame, però ho visto anche i segni di una chiesa viva. Abbiamo sentito fatti di morte, stragi e sparizioni e abbiamo sentito fatti di bontà e di donazione della vita. Tanti episodi in cui i cristiani accolgono e nascondono chi è ricercato.

Ed allora il Regno di Dio non è finito. C’è una storia di vita che continua a scorrere. È il Regno che continua, tanti hanno dato la vita per salvare quelli dell’altra tribù.

Anche i missionari che sono restati sono un segno che il Regno di Dio non si è fermato. Sono restati condividendo l’insicurezza della gente e questo restare è stato sentito come il restare stesso di Gesù.

Quando andiamo oltre le nostre paure e i limiti, quando si continua a perdonare, a credere e a condividere, anche quando le situazioni sembrano difficili, allora il Regno di Dio è presente e vivo. Un cristiano si riconoscere da come fa la “spesa” e da come è capace di accogliere la diversità, anche quando fa paura.

Tornando a casa si è rafforzata ancora di più l’idea di tenere viva la comunione con la chiesa d’Africa e chiederei anche a voi di fare altrettanto. L’eucaristia è condivisione, da essa dobbiamo trarre la forza per vivere vangelo con coerenza e continuità, perché è il vangelo che ci offre uno sguardo nuovo.

L’ascolto della missione ci porti a rinnovarci nella fede: la missione è quel dono che fa crescere la fede perché la si dona. La fede è la presenza del Signore, è lui che ci orienta, e ci apre gli occhi.

Ho celebrato la messa di Pentecoste nella cattedrale di Goma. Ho riascoltato i canti nelle diverse lingue: mushi, kinande, kinyarwanda, kiswahili, kirega. Abbiamo ascoltato esperienze di vangelo vivo, di amicizia fino a rischiare e a donare la vita per quelli dell’altra etnia.

Ci hanno raccontato la storia di due giovani (hutu e tutsi) rimasti insieme in prigione, decisi a uscire di prigione insieme, o a morire insieme. Davvero il Regno di Dio non è finito. È visibile tutte le volte che la gente sa aiutarsi, perdonarsi, condividere il poco che ha e conservare, nonostante tutto, il germe della speranza.

È accaduto sulla croce di Gesù, continua oggi nella Regione dei Grandi Laghi tra la gente semplice, nella vita di ogni giorno. È una dimensione della storia che non appare, ma è nel tessuto della vita che continua. Prego questa sera perché siamo uniti e si crei un legame con tutta la gente della terra. Per la città di Goma che è affamata io chiedo al Signore una pioggia di fagioli».

(Riflessione di p. Silvio alla veglia missionaria nel 1997, Archivio Cedoc SFR).

 

Essere una parola viva: «brace ostinatamente tesa al fuoco»

«Mi rimaneva poco della forza del mio corpo, ma avrei voluto ugualmente donare il massimo. Essere una parola viva di Dio per gli altri, in particolare per i poveri che avevo incontrato».

Sei tu parola
la mia nuda guerra,
notturna disciplina,
è tuo
lo scatto che sa
la sobrietà
della strada più lunga,
sei tu la risposta
alla pressione del cielo,
al batticuore del silenzio,
il rifugio esposto sei tu,
nell’esilio dell’anima
che non verdeggia,
non fa foresta,
tu sonaglio
in paesaggio di sola neve.
Che tu veda la mia fame
già mi sfama,
ti consegno la mia balbuzie
perché tu la dica
polvere d’ossa e semina.
Tu secchio e deriva,
tu impastata di silenzio
come acqua e frana,
parola che modella l’anima,
la istruisce
a irriducibile tenerezza,
tu brace ostinatamente tesa
al fuoco, fa’ di me memoria.
Di quale amore ho sete?
Ti amo
anche quando non so di amarti.
Parola di silenzio.
Veglia sulla mia mutezza
come il sole sull’uva
perché diventi vino
e voce.
(Chandra Candiani)

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DIARIO IN PUBBLICO
Il ‘Paglio’ e le corse

 

Certamente! Ho visto una parte del ‘Paglio’ (dizione ferrarese) e sono rimasto affascinato dalla corsa delle asine – salvando il genere fluido, in quanto non ho capito se fossero solo femmine o anche maschietti – e sicuramente non otterrò perdono dai fans della manifestazione per il mio totale dissenso all’uso che degli animali viene fatto.

Guardo con curiosità il servizio proposto da Telestense e dal bravo commentatore Nicola Franceschini. Nella corsa delle asine il primo personaggio che si nota è il lunghissimo fantino Tremendo – così si fa chiamare – le cui gambe, a guisa di fenicottero, penzolavano a lato della bestiola che affannata correva, correva, inseguita da altri assatanati in groppa a dolcissimi animali spronati da robuste pacche sul sedere.

Potrei accettare il Palio se fosse danza, corsa, sventolio di drappi e non puntasse principalmente su corse di quel genere. Certo la vista dei nobili cavalli trattenuti e giranti su sé stessi per oltre un’ora di false partenze poteva procurare ansia, ma poi prevaleva la fierezza e la nobiltà dell’animale.

Quindi ricordandomi con un brivido di rifiuto le volte che assieme all’amico Andrea Emiliani [Qui] fummo giudici di un Palio a Siena e ad Assisi, o anche di quello ferrarese ripropongo, sicuramente attirandomi la furia dei contradaioli, che va bene il ‘Paglio’, ma senza queste corse degli animali.

Li si facciano sfilare nella loro bellezza e si applauda a cortei, corse di putti e putte, si introducano canti e danze, ma attenzione a non sfruttare le doti indotte di questi animali.

Questa manifestazione, il Palio, come altre italiane, risale a origini relativamente recenti, che ripropongono il revival dell’antico in gran voga all’inizio del secolo scorso.

Sicuramente il Palio s’innesta nella grande categoria culturale dei ‘falsi’ d’epoca, che vanno dal rinnovamento delle città in stile neorinascimentale o neogotico, nel costume, perfino nel cibo che trova nelle bibbie culinarie del Rinascimento la perfezione.

Allora si sfili solennemente addobbati con improbabili e sontuosi mantelli d’epoca, si danzi, si ricrei un mondo e un tempo, ma gli animali non siano costretti a correre in quel modo. Bum! Così mi mangerò il credito dei miei 25 lettori.

D’altronde il tempo passa e la Ferrara del Palio si adorna di nuove luci e nuovi colori. Mi si racconta – ancora non l’ho vista – della nuova illuminazione del Castello, ottenuta attraverso l’uso di una sofisticata tecnica.

Ovviamente la Ferrara dei social si spacca in pro e in contro e autorevolissime voci si alzano per indignarsi o lodare. Ecco allora che nel film della vita salgono alla memoria ovviamente proustiana, naturalmente involontaria, i momenti scanditi dall’illuminazione del Castello, dal tempo in cui si era appena conclusa la Seconda guerra mondiale e dal buio ad incerte luci si intravvedevano le torri e il rosso del cotto.

Poi i violenti bagliori degli incendi, da me sempre deprecati nella stagione ‘napoletana’ dei botti e dei filamenti di lucei nel livido cielo padano, infine ora, le tecniche gelide del cambio di luce, mentre la costruzione rimane lì, indifferente e bellissima ai trucchi e alle mode.

Non mi si creda un laudator temporis acti e mi scuso di tradurre ‘un lodatore del tempo passato’, ma l’ossessione dei luoghi diventa per deformazione personale quella del tempo. Altre volte rievocando una mia mitologia personale ricordavo quanto alcuni luoghi evocano, termine non più in uso, stati d’animo e anche azioni: perfino l’amore o l’ostilità.

Città o luoghi appena visti o contemplati si rifanno all’unica vera realtà: quella dell’immaginazione e dell’arte.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

TERZO TEMPO
Le finali non si giocano, si vincono

Di indizi per fare una prova ne abbiamo a sufficienza, ben più di tre: il Real Madrid, in quella coppa lì, ha qualcosa che gli altri club non hanno. Non sto parlando di denaro, né di potere o di trofei in bacheca: mi riferisco a quel rapporto speciale con le gare più importanti di Champions League.

Le tre rimonte consecutive al Santiago Bernabeu e la finale di sabato sera si aggiungono a una lista di giocate o vittorie entusiasmanti già piuttosto cospicua – su due piedi, a me vengono in mente Redondo nel 2000, Zidane nel 2002, Sergio Ramos nel 2014 e Bale nel 2018. Per non parlare, poi, dei provvidenziali e metafisici gol di Benzema nell’ultima fase a eliminazione diretta, nonché alle parate di Courtois contro il Liverpool.

Insomma, non è un caso se già da qualche anno si parla di “mistica del Real Madrid”. D’altronde, se diamo un’occhiata alla definizione della parola “mistica” suggerita dalla Treccani, è difficile non essere d’accordo.

“Un forte senso della totalità in cui il soggetto si realizza superando distinzioni, limitazioni e contrapposizioni; una forma di rapporto conoscitivo, non logico ma intuitivo; una presenza di momenti esemplari spesso accompagnati da fenomeni psicosomatici (estasi, raptus, ecc.) e uno stato finale sentito come liberazione da ogni limite empirico.”

Al fischio finale, l’espressione di gran parte dei giocatori del Real Madrid era un misto di allegria, stanchezza e soddisfazione per aver fatto il proprio lavoro, non di incredulità. Sì, perché quello è il loro lavoro: esaltarsi nei momenti decisivi e vincere. Basti pensare che sono passati più di quarant’anni dall’ultima volta che i blancos hanno perso una finale di Champions League; per non parlare poi dell’attuale record delle squadre spagnole: dal 2000 in avanti, in 17 finali europee, hanno sempre battuto il loro avversario.

Insomma, per quanto possa suonare un po’ retorico e posticcio, il concetto di club culture nel calcio può incidere eccome sull’attitudine e sulle sorti di una squadra. Il Real Madrid di Carlo Ancelotti lo ha dimostrato ancora una volta, e l’ha fatto con una continuità che ha dell’incredibile: dagli ottavi con il PSG alla finale con il Liverpool, rendendo ancor più leggendario il suo 14º successo in Champions League.

Parole a capo
Matteo Piergigli: Alcune poesie da “La densità del vuoto”

“La memoria si blocca. Ma è ancora lì tutta intera. Anche le cose più dimenticate si ripresentano, ma quando vogliono loro.”
(Elias Canetti)

L’odore d’un dopobarba
economico, sfiora la memoria.
Rivedo mio padre la mattina,
lo specchio, la schiuma, il rasoio.
L’immagine svanisce schiacciata
dal peso dei ricordi. Resta
solo un odore, di te.

*

Frugando tra i rifiuti nel giardino
riscopro brandelli di passato
avvolti in stracci intrisi d’olio.
Amori esausti, occhi prosciugati
da vite diventate inutili. Bocche
affamate da un gelo senza scampo.
Il compostaggio degli uomini
non finisce mai.

*

Una fotografia ingiallita.
Madre e figlio cullati
in un abbraccio. La donna
ninna serena l’incertezza.
Ora il figlio culla un ricordo
cementato dentro il cuore.
Solo l’amore non scade

*

Di randagi ulula la sera
cupo cielo di memorie
nel tempo che non torna
un monolocale di vita
– chiudo fuori il mondo
mi abbandono
in polvere finissima
d’una nuda metà

*

Osservo le crepe
dell’intonaco scrostato
e cerco il senso delle cose rotte
che il tempo ricompone

– la luce inonda la stanza
io e te coscia contro coscia
acqua che nell’acqua si confonde

Matteo Piergigli (1973) è nato a Chiaravalle (An). Nel 2015 pubblica Ritagli (Casa Editrice Kimerik), nel 2016 la raccolta Notos a cinque mani (Aletti Editore) e Ritagli 2 (Arduino Sacco Editore).
Nel 2016 e 2017 partecipa a due ritiri poetici della  Samuele Editore e Laboratori Poesia. Sempre nel 2017 viene inserito nell’antologia Laboratori di poesia – testi 2017 con altri otto autori (Samuele Editore). Nel 2019 pubblica La densità del vuoto (Samuele Editore).
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

VITE DI CARTA /
Piaghe e lustrini

dell'amore e di altri demoniDall’ultimo libro che ho letto insieme al gruppo poggese che fa capo alla Biblioteca Comunale, Dell’amore e di altri demoni di Gabriel Garcia Marquez [Qui], mi è rimasta impressa un’immagine. Sullo sfondo della storia narrata c’è il Settecento in Colombia ai tempi della Inquisizione spagnola, nonché dello schiavismo e di altre piaghe sociali come povertà, ignoranza e superstizione.

L’immagine che ho trattenuto è quella della protagonista, la bellissima Sierva Maria de Todos los Angeles, che viene ritenuta malata di rabbia in seguito al morso di un cane e poi vittima del demonio. Sul suo corpo, accanto alle collane luccicanti donatele nell’infanzia dagli schiavi negri a cui l’hanno lasciata i genitori, si aggiungono le piaghe inflitte dalle monache, alle quali il padre la affida nella adolescenza. Soprattutto la badessa la ritiene una creatura di Satana e non le risparmia alcun tipo di vessazione. Sul suo corpo martoriato dagli esorcismi continuano intanto a far bella mostra le inseparabili collane, fino all’ultimo istante di vita.

La coppia di parole che mi è rimasta in testa, “piaghe e lustrini”, riprende d’altra parte lo stesso ossimoro, celeberrimo, che Manzoni [Qui] usa quando definisce il Seicento in Italia come un secolo “superbo e cencioso” e lo mette come sfondo vivo del suo romanzo storico.

i promessi sposiCe ne dà prova nei capitoli iniziali dei Promessi sposi, nel momento in cui ci introduce insieme a Renzo in cerca di giustizia nello studio del dottor Azzeccagarbugli. Lo spazio è quello di uno “stanzone, su tre pareti del quale eran distribuiti i ritratti de’ dodici Cesari; la quarta, coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi”. L’avvocato, da parte sua, quando accoglie Renzo è “coperto d’una toga ormai consunta”, che usa come veste da camera, avvolto dal disfacimento di mobili e oggetti.

La prima descrizione d’interno del romanzo, con i segni di un illustre passato e le prove di una inesorabile decadenza, offre un quadro simbolico del secolo XVII nel Milanese, al tempo del Governatorato degli Spagnoli. Il quadro rimanda poi al tempo in cui Manzoni scrive, la prima metà del secolo XIX, quando il Regno Lombardo Veneto era sotto il dominio degli Austriaci, e fermiamoci qui, altrimenti rischiamo di allargare il pessimismo del nostro autore a tutta quanta la Storia.

Esco dalla letteratura per entrare nella vita quotidiana con altri ossimori che di questi tempi mi hanno colpita. Un incontro di mercoledì al mercato del mio paese.

Non ci siamo viste durante i mesi dell’inverno e ora i nostri discorsi cadono come pietre su disturbi e malattie. La mia interlocutrice non è nemmeno delle più impegnative, nel senso che si profonde in descrizioni meticolose e non trascura di impreziosire la sua esposizione con qualche termine medico. Tuttavia. Contrariamente a quanto mi succede in casi come questo, mi lascia parlare un po’. Dico a mia volta i disturbi che mi affliggono e sono riassuntiva il più possibile (“tienila corta” è l’imperativo categorico che mi ripeto ogni volta). Non solo: non punta nemmeno al rialzo, cercando di dimostrare che i suoi malanni sono peggiori dei miei. Un sacco di gente ci tiene a risultare vincitrice nella gravità delle malattie, deve essere la aspirazione a vincere comunque in qualcosa.

Ma riprendo a ricostruire l’incontro, manca la parte finale. Arrivata a nominare il cortisone che ha dovuto assumere per non ricordo più quanti giorni, la mia interlocutrice scosta le collane che porta al collo e allarga la scollatura del suo abito leggero, così che io possa vedere sotto i lustrini la pelle maculata da foruncoli di varie gradazioni di un robusto rosso violaceo. Le piaghe, appunto.

Speriamo di rivederci presto, e con questo auspicio che è puro suono, ci lasciamo.

Una telefonata alla parente lontana. È una delle tante intercorse tra noi nelle ultime settimane. Da queste conversazioni lei fa uscire il rapporto affettuoso e insieme tormentato col marito, compagno di vita da mezzo secolo che ora è preda di una fissazione tragicomica.

È malato solo lui, si sente perseguitato dalla sorte malevola e interrompe solo per una sera il quotidiano piagnisteo, quando la sua squadra del cuore porta finalmente a casa lo scudetto. Una vistosa bandiera rossonera sventola allora sul balcone di casa.

Poi la vela si abbassa e torna la bonaccia del lunedì. Conosco tutti i dettagli, perché lo sfogo che mi investe al telefono è di quelli seri, di quelli che intrattengono l’ascoltatore “lunghettamente anzi che no” (è sempre il Manzoni a prestarmi le parole: lo dice di Renzo che alla fine delle sue peripezie amava raccontare “la sua storia molto per minuto… (e tutto conduce a credere che il nostro anonimo l’avesse sentita da lui più di una volta)”.

Nello spazio di ogni giorno ci muoviamo tutti noi, marchiati dal medesimo stigma. Ognuno con la propria particolarissima reazione al contrasto insanabile che si porta addosso. Possono essere più o meno vistosi i lustrini, più o meno gravi le piaghe. Vengono dalla salute incerta, da dolori sentimentali, dalla incertezza del vivere e basta.

Rientro nella letteratura per raggiungere l’ossimoro estremo, quello di un uomo che porta nel proprio nome il dualismo tra l’essere vivo e l’essere morto. Racconta la sua storia il capolavoro di Pirandello [Qui], Il fu Mattia Pascal.

il fu mattia pascalStoria nota, in cui il protagonista per un caso fortuito ha potuto rinunciare alla sua vita matrimoniale tribolata per darsi un nome e una identità nuovi. Impossibilitato a condurre anche questa seconda vita lontano dalle convenzioni sociali, si ritrova a far visita alla propria tomba, dove giacciono i resti di uno sconosciuto col nome Mattia Pascal. E lui? Giunto alla sua terza identità, deve mettere il fu davanti al nome che portava al tempo della prima.

Perché rifarsi a un caso letterario dopo avere attinto dalle vicende reali di ogni giorno? Perché una storia simile a quella nata dalla fantasia di Pirandello si è verificata qualche anno dopo l’uscita del romanzo; fa fede l’articolo uscito sul Corriere della Sera del 27 marzo 1920, dal titolo L’omaggio di un vivo alla propria tomba, che racconta come Ambrogio Casati fosse stato dato per morto, mentre in realtà si trovava in carcere e come avesse appreso solo dopo la scarcerazione che la moglie era passata a nuove nozze. La somiglianza più straordinaria col romanzo è nel finale: come Mattia Pascal anche il Casati, portando dei fiori e un lumino votivo, ha fatto visita alla propria tomba.

Nota bibliografica:

  • Gabriel Garcia Marquez, Dell’amore e di altri demoni, Arnoldo Mondadori, 1994
  • Alessandro Manzoni, I promessi sposi, Principato, 1988 (prima edizione nel 1840 presso gli editori Guglielmini e Radaelli)

Nota editoriale:

  • Il fu Mattia Pascal esce in prima pubblicazione nel 1904; nella edizione del 1921 presso Bemporad è corredato dalla Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, in cui l’autore riporta l’articolo dal Corriere della Sera a cui ho fatto riferimento nel mio articolo

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

Sabbia nelle scarpe
…un racconto

Sabbia nelle scarpe
Un racconto di Carlo Tassi

Nel mio cammino quotidiano, imprigionato nel suo tracciato, mi distraggo e libero il pensiero.
Mi fermo e riparto di nuovo. Sono in ritardo ma non m’importa.
Prendo tempo, mi nascondo e guardo fuori: il mondo corre all’indietro mentre resto immobile e osservo.
Illusione, distrazione, evasione. Giocare a mosca cieca, poi capire dove andare.

Martina dove sei? Ti ho lasciata in giardino che giocavi al malato e l’infermiera. Genitori distratti e la voglia di vedere ciò che ancora non riuscivi a capire.
Adele dove sei? Sei passata come un treno. Solo uno sguardo è bastato per cuocermi a puntino. Un’estate a fuoco lento, a ribollire nel vederti ballare.
Roberta dove sei? Il mio premio: baciarti una sola volta alla festa del tuo compleanno e soltanto questo. Eppure quanto tempo i miei pensieri ti hanno scrutata.
Bella dove sei? Piccola regina di cuori. Viso di perla e chioma corvina. Sfuggente e misteriosa sempre, tranne una vigilia di ferragosto regalata per scommessa.
Claudia dove sei? Cinque anni tra inferno e paradiso. Sublime coi tuoi vent’anni la prima volta a far l’amore. Selvaggia, romantica, lunatica. Dannatamente esperta… forse troppo.

Voci, colori, odori, sapori. Idee, impressioni, le passate stagioni…

Come sabbia nelle scarpe.
Restano briciole, rimasugli di vita sbiadita.
Brillano dentro gli occhi e pungono i miei passi. Vivono ancora, nonostante tutto.
Schegge di felicità, amori acerbi, istanti perfetti, restituiti a pezzetti al mio girovagare.
Sabbia nelle scarpe, soltanto sabbia e niente più.

Sand In My Shoes (Dido, 2003)

Per leggere tutti gli articoli, i racconti e le vignette di Carlo Tassi su questo quotidiano clicca sul suo nome.
Per visitare il sito di Carlo Tassi clicca [Qui]

“L’educazione di Giulia”
Il primo romanzo di Vittorio Sandri

Vittorio Sandri è un ferrarese doc.. Come tanti ha trovato lavoro, casa e affetti all’estero. E come tanti (meglio dire Tutti) ha conservato per Ferrara un amore inestirpabile. E proprio nella città estense, Vittorio Sandri, collaboratore di questo giornale, presenta in pubblico la sua opera prima. Al Libraccio, lunedì 30 aprile, ore 18.00.

“L’educazione di Giulia” è un romanzo che scorre agevole alla lettura, ma che contiene due piste narrative sfalsate nel tempo.
Per seguire questi due sentieri (il presente di un uomo arrivato e il suo passato di ragazzo sulla linea d’ombra della maturità) l’autore si serve abilmente di alcune interessanti scelte lessicali, stilistiche e compositive. Il meccanismo funziona alla perfezione. Ai capitoli centrati sul professionista affermato (dirigente di banca, una bella casa, una bella moglie, due bei bambini) scritti in terza persona (in corsivo nel libro) e in cui il protagonista ci è presentato semplicemente come l’uomo, si alternano i capitoli del ricordo di trent’anni prima: e qui la narrazione è in presa diretta e in prima persona. Chi legge si trova così coinvolto in un tempo capovolto: Il passato del ragazzo diventa molto più presente, vivo, reale, contemporaneo del presente ufficiale e dichiarato dell’uomo maturo.
Su cosa riflette l’uomo arrivato, che nodo deve sciogliere del suo passato, che buco deve riempire? L’incontro “fatale” con Giulia, una storia iniziata e interrotta senza una ragionevole ragione, un quasi-amore che si è perso per strada e non ha avuto un compimento.
il romanzo lascia al lettore decidere se quel salto temporale si potrà chiudere, se i fili di quella antica storia potranno ricongiungersi. Non sappiamo cosa possa accadere nell’incontro dell’ex ragazzo Marco (ora uomo) con l’ex ragazza Giulia (ora donna). Vittorio Sandri non ce lo dice. Non gli interessa raccontarci una più o meno lieta fine. Scriva il lettore il finale, se ne sente il bisogno.
A noi, andando avanti nella lettura, è parso che “L’educazione di Giulia” non sia solo, o principalmente, la storia di un amore mancato e poi caparbiamente ricercato nel buco della memoria. Al centro del romanzo c’è qualcosa di più grande, una riflessione sul tempo che corre senza curarsi troppo di noi, sulla vita di ognuno (del protagonista, dell’autore, dei lettori) che “è andata in un certo modo ma poteva andare in tutt’altro modo”.
Perché ci è concesso vivere una e una sola vita, prendere una strada a non un’altra. E spesso, mentre viviamo, non ci accorgiamo di fare quella piccola o grande scelta che condizionerà il nostro futuro. Il nostro, però, non è un destino da perdenti. Al caso che sembra governare il mondo, Al tempo che fugge e non è disposto ad aspettarci, possiamo sempre opporre la memoria. Tenere in noi tutte le nostre vite, quella reale e le altre cento che potevamo vivere.

Vittorio Sandri, L’educazione di Giulia, Ferrara, Faust Edizioni, 2022

PER CERTI VERSI
C’era una volta l’autostop

C’ERA UNA VOLTA L’AUTOSTOP

C’era una volta
L’autostop
Perdevo la corriera
Oddio la scuola
Autostop
Non sapevamo
Come andare
Al mare
Che fare quindi
Autostop
Una volta
Persino
Autostrada
Autostop
Si parlava
Veniva fuori la vita
Di chi guidava
Di tutti
Autostop
Era tardi
Giù dai monti
Senza treni
Né bus
Ma era normale
Allora autostop
Era molto importante
Avere una amica
Diventava più facile
Coi camionisti
Autostop

Fino a quando
Si tolse l’auto
Rimase lo stop

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

Nati con la camicia

Una storia, quella dei due giovani, Emiliano e Francesco, che attinge alle radici di quel lontano 31 dicembre 1950, il giorno della loro nascita.
Lo scrittore trentino Roberto Corradini ne scrive le vicende nel suo recente romanzo “Nati con la camicia”, collocandole e rendendole vive in molti avvenimenti che hanno caratterizzato gli anni ’50, ’60,’70 e via via, fino ad arrivare alla nostra epoca.
Ci si ritrova a leggere pagine piene di un’Italia che cambia, una società che sperimenta, gioisce e soffre di trasformazioni che la segneranno profondamente e anche i nomi non sono scelti a caso: dalla casa di ringhiera in Via della Pace, dove i protagonisti nascono e muovono i primi passi, che ricorda una guerra devastante appena lasciata alle spalle, si passa a Via del Progresso, il nuovo condominio in cui traslocheranno nell’adolescenza.
I due ragazzi crescono e percorrono insieme un tratto di vita, accompagnati dalle loro famiglie, gli amici, i personaggi caratteristici che compaiono e scompaiono entrando ed uscendo dalle pagine del romanzo, scandendo il tempo che passa e con esso lo scorrere della storia del nostro Paese.
I ricordi affiorano e portano alla luce stili di vita, abitudini, consuetudini ed eventi che hanno lasciato il segno: semplici esperienze di vita familiare e sociale che descrivono i rapporti interpersonali, le feste, i luoghi di aggregazione, i divertimenti, la scuola, la ricostruzione, l’economia che decollava dopo gli eventi bellici.
Ma anche i grandi avvenimenti che hanno segnato un’epoca nuova: i primi viaggi nello spazio, le trasmissioni popolari in televisione, i miti del cinema e della musica come Marylin Monroe ed Elvis Presley prima, Brigitte Bardot e i gruppi rock poi, l’elezione di papa Giovanni XXIII e la riforma della liturgia nel mondo cattolico, la legge Merlin del 1958 che chiudeva definitivamente le case di tolleranza.

Un romanzo che non sconosce rallentamenti o pause, che snocciola rapidamente eventi incisivi destinati a modificare la realtà italiana. Arriva il boom economico, gli elettrodomestici agevolano la vita e diventano lo status di un’Italia che corre, il ciclismo con Bartali e Coppi, il calcio e gli stadi pieni, la Fiat 1100, le vacanze di massa, i cambiamenti culturali, il benessere diffuso e il PIL che cresce, anche se, come sottolinea Francesco, “il PIL misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”.
Non manca nemmeno la narrazione degli avvicendamenti politici, le sfide dei grandi partiti, l’instabilità, l’eversione, le relazioni internazionali e la guerra del Vietnam. I due amici fraterni si dividono e imboccano strade diverse: è la vita. Ci sono i viaggi nel mondo, l’Africa, le professioni da seguire, le famiglie da far crescere, ma ci si lascia e poi ci si ritrova, è il destino dei grandi legami.

Le storie di Emiliano e Francesco diventano lo scenario più ampio che ci permette di camminare attraverso il tempo senza sterili e piagnucolose nostalgie da ‘a m’arcord’ ma con un sorriso di tenerezza, perché noi lettori possiamo permetterci la libertà di amare quel passato da spettatori ormai lontani.

L’ape furibonda
in ricordo di Alda Merini

 

In ricordo di una grande poetessa, Alda Merini. E del suo amore per la Natura e il mondo.

Sono una piccola ape furibonda. Mi piace cambiare di colore. Mi piace di cambiare di misura.

Perché amo gli animali?

Perché amo gli animali?

Perché io sono uno di loro.

Perché io sono la cifra indecifrabile dell’erba,

il panico del cervo che scappa,

sono il tuo oceano grande

e sono il più piccolo degli insetti.

E conosco tutte le tue creature:

sono perfette

in questo amore che corre sulla terra

per arrivare a te.

Mare e Terra

Mare

che io domino col pensiero

mi hai nascosto mille bugie

e tante verità

un giorno d’aprile

è esplosa un’onda

che avrei voluto baciare

come un animale

fugge davanti al fuoco

io sono fuggito da te.

Ho lasciato il mare per la terra

e la terra per il mare,

ho lasciato il mare per la terra

e la terra per il mare

e ho sbagliato tutto

perché non esistono

né ombre né luci

ma solo il nostro breve pensiero

ma solo il nostro bisogno d’amore.

Sono nata il ventuno a primavera

Sono nata il ventuno a primavera

ma non sapevo che nascere folle,

aprire le zolle

potesse scatenar tempesta.

Così Proserpina lieve

vede piovere sulle erbe,

sui grossi frumenti gentili

e piange sempre la sera.

Forse è la sua preghiera.

Album: Una piccola ape furibonda – Giovanni Nuti canta Alda Merini

Sito ufficiale

Foto in evidenza: Marco Trovò

DIARIO IN PUBBLICO
Volgarità, nel tuo nome tutto è possibile

 

Un famoso cantante, sempre con cappello calzato, gorgheggia ormai in ogni spazio televisivo la sua canzone che invoca la felicità. Nella mia proustiana memoria involontaria si fissa un ritornello disperato, che il sonno scandisce e restituisce al mattino sulla musica della canzone: “Volgarità, volgarità per favore stammi lontano…”.

Poi, mentre la giornata passa laboriosamente, tra la preparazione all’intervento che ho tenuto in apertura al grande convegno canoviano a Bassano nel bicentenario della morte dello scultore, e la faticosa prosecuzione di un saggio su Marcel Proust [Qui], le incursioni sulle opere di scrittori/ci contemporanei, apro la tv e nuoto fin quasi allo sfinimento nel mare assurdo della volgarità tra vestiti incredibili, personaggi assurdi e, ancor più grave, tra petulanti ‘osservatori’, sempre quelli, che dopo i consigli pandemici, ci affogano di terrificanti note sulla guerra e sulle ‘ragioni’ della guerra.

Inquietante lo sguardo vuoto di un ‘professore’ dai capelli rossastri, che annuncia la necessità di sottostare alle pretese russe. Tra semi-nascosti – o esibiti – scarabocchi incisi sulla pelle i cosiddetti ‘esperti’ pontificano, mentre un simpatico conduttore esibisce una camicia viola in spregio alle antiche superstizioni su quel colore.

Gorgheggia, avvolta nei suoi pezzi unici, una bella – un tempo – conduttrice [Qui] di un programma nel segno e nel nome di un famoso film felliniano. Nello stesso canale un’altra conduttrice dalla voce roca si sbraccia a contenere l’infinito eloquio di commentatori sulla via del declino soprattutto mentale, mentre altri, indispettiti dell’attesa, abbandonano la postazione con un singolare coup de theatre.

Allora chiedo rifugio ad un programma semi-didattico [Qui] che porta nell’immaginario al trionfo sanguinario della ghigliottina. Invano! La mia deplorevole insipienza sportiva rende inutile ogni tentativo di conquistare anche se virtualmente l’agognato premio.

Rimane la risorsa ormai quasi esaurita dei film, ma nella rivisitazione si scoprono momenti dimenticati, oppure che si pongono in modo diverso nel percorso della vita.

Tra il caldo che avanza e la banalità delle proposte culturali ferraresi, unico rifugio ovviamente la libreria dove, avvolto nel manto regale dei libri, spando da gran signore il danè per rimpolpare i filoni dell’acqua sapienziale, che rifluiranno nel corso segreto del fiume della memoria.

Ma la curiosità non si spegne e allora sorrido alle volgarità in ‘Ferara’, sottolineate da un bravo giornalista dallo spirito molto indipendente e mi rifiuto di commentare quei cortei falso-rinascimentali che invadono le vie della città. Essere un vecchio petulante a volte ha i suoi vantaggi.

Fra poco mi toccherà l’ultimo atto. Il recupero dei volumi dove ho studiato nel tempo universitario e le collane, un tempo considerate imbarazzanti dalla mia isterica volontà di perfezione, della grigia BUR, che ora appare invece strumento importante di conoscenza.

E ancora qui, pensando al destino della mia faticosamente conquistata cultura, perché non accendere un bel fuoco sull’aia e bruciare note, quaderni, libri di quel tempo? Ma non sarebbe un atto di stampo nazistico e la vetta della volgarità?

Per ora c’è ancora un breve tempo per pensarci.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

GLI SPARI SOPRA
Berlinguer è mio

Secondo il National Geographic il luogo ove si crea il vento è sito precisamente davanti al mio box ufficio, precisamente nel lembo nord dell’accantieramento tra il furgone della mensa e il container Morteo del refettorio. In estate il mio loculo ha la porta spalancata sul piazzale, la finestrella dietro la mia testa aperta e il clima acceso oltre la porta del mio collega, lo so che Draghi mi annovera tra i motivi della guerra in Ucraina, ma la nostra è un ricerca continua del benessere termico. Chiaro, nulla ho da lamentarmi rispetto ai colleghi che si ustionano tra le lamiere ed i grigliati d’impianto. Ma l’origine del vento è tre metri oltre la mia scrivania. Piccoli e simpatici twister arrovellano polvere e sabbia e me la sbattono in faccia ad ogni piè sospinto, iconici piumini dei pioppi svolazzano come farfalle cavolaie verso di me, la tastiera è insabbiata come un giocatore di beach volley, il cicchettìo dei piedi sembra una pasta allo scoglio con le vongole non lavate. Sulla plastica opaca della scrivania, assieme a carte sedimentate, penne rotte, calendario da tavolo arrotolato a causa degli sbalzi termici, un filtro polivalente per semi maschera scaduto, due bottigliette d’acqua aperte, un marsupio da nerds, il telefono cinese in carica, un paio di occhiali antinfortunistici scuri graffiati, il mouse traccia linee sulla sabbia come quando da piccoli si faceva la pista per le biglie coi ciclisti dentro.

Mi va la polvere in un occhio, ma è il phon che soffia a sei spanne da me, sull’asfalto rovente; svolazzano i fogli appesi con nastro da pacchi ai pannelli sandwich del bunker.

Attenzione prova poli acustici! Gracchiano gli altoparlanti del sistema Matra, utili solo quando le emergenze sono simulate. Oltre le mura della fabbrica, una vibrofinitrice suona il clacson ritmicamente ogni trenta secondi per far muovere il camion che contiene l’asfalto triturato, mentre un gradevole aroma di catrame salvifica l’aria.

Tra un piano per uno spazio confinato e un altro, un consiglio per occhiali bifocali antinfortunistici e un preventivo per guanti in gomma, penso a Berlinguer. Fra qualche giorno saranno cento anni dalla nascita e trentotto dalla sua morte, su quel maledetto palco, sforzandosi di terminare un discorso, premonitore, moderno, … andate casa per casa. A fare che? A parlare con le persone, con il nostro popolo, con il nostro mondo. Quello stesso mondo che oramai è estinto, evaporato, che non ha lasciato né eredità e tantomeno eredi. La deriva delle tue idee Enrico non ha lasciato nessun limo, dopo la tua scomparsa, repentina, ingiusta, che ci ha colto impreparati, non è nato nulla, ma è morto tutto.

Si riempiono la bocca di te, tutti, ti citano, raccontano della tua modernità, altri addirittura pensano che il tuo riformismo (positivo) sia stato troppo titubante. Ma cosa vogliono da noi? Perché non smettono di ciarlare, interpretare, togliere e aggiungere al tuo pensiero? Che ne sanno di te, che ne sanno di noi? Dice si, ci sono pure quelli che ti hanno conosciuto, che ti hanno amato e ora sono lontani da te anni luce, ora sarebbero tuoi avversari politici, ma si nascondono dietro allo scorrere del tempo. Dicono orgogliosi che non ci sono più le ideologie, che il mondo non è più diviso in blocchi, che non esistono sistemi antitetici e alternativi, esiste solo la democrazia e la dittatura.

Appunto.

Il mondo ora ha un solo padrone e tanti nemici, il capitalismo è percolato ovunque, in Russia, in Cina, dappertutto. L’imperialismo crea guerre, invade, stermina, bombarda, distrugge, nessuna traccia della tua terza via. Come possono parlare di te senza rendersi conto che ora, loro, sono contro di te.

Tutti.

I partiti sono agglomerati di potere fine a se stesso, lo dicesti tu e questo sono, la corruzione, la politica come mestiere da professionisti dell’accordo sotto banco, pure questo si è avverato nelle tue visioni di quaranta anni fa. Con che faccia continuamente ti portano ad esempio, loro che si vergognano di ciò che erano, loro che non sono coerenti con i propri ideali di gioventù.

La polvere soffia dentro al grigiume del box, una foglia di pioppo fuori zona mi sfarfalla sfacciata in ufficio. Ma la mia mente è lontana da qui, pensa a piazzale San Giovanni e a quei milioni di persone in lacrime e col pugno chiuso. Quanti di loro saranno ancora al mondo? Quanti non si vergogneranno di ciò che erano? Quanti saranno ottusamente ancora come allora?

Credo pochi. La volontà dei padroni di estinguere la sinistra, la loro rappresentanza, è oramai compiuta da anni, ma fra pochi giorni tutti ti celebreranno. Nessuna differenza di celebrazione fra ex compagni, ex fascisti, ex democristiani, ex socialisti, ex di ex. Secoli indietro rispetto al tuo pensiero, ma convinti di essere i tuoi eredi, addirittura ti annoverano quale fondatore morale di partiti e movimenti che tu riterresti a giusta ragione antitetici al tuo pensiero.

Quanto sono noioso.

“Noi siamo comunisti, lei lo dimentica. Lo siamo con originalità e peculiarità, distinguendoci da tutti gli altri partiti comunisti: ma comunisti siamo, comunisti restiamo. Siamo nati e viviamo per combattere il capitalismo, cancellarlo.” Queste parole non saranno lo slogan delle celebrazioni, queste non saranno citate dai democristiani-liberisti che rappresentano l’italico stivale, al limite, se qualche vetero (come me) le riporterà alla luce, un coro uniforme e monosillabico ricorderà che Berlinguer è morto nel 1984, il mondo è cambiato, il mondo è andato avanti.

No cari miei, il mondo è tornato indietro, fatevene una ragione e smettetela di celebrare la vostra antitesi.

Berlinguer è mio. E di pochi altri.