“In Italia un quarto dei lavoratori totali ha una retribuzione individuale bassa, cioè, inferiore al 60% della mediana. Almeno un lavoratore su dieci si trova in situazione di povertà, cioè vive in un nucleo con reddito netto equivalente inferiore al 60% della mediana (11.500 euro in base ai valori del 2018).”
Ancora: “il fenomeno dei working poorè esploso dapprima negli Usa e ora sta interessando molti paesi europei, pur con significative eccezioni come la Svezia, dove i tassi di povertà al lavoro sono insignificanti e i Paesi Bassi, dove il tasso di working poor è in costante decrescita. “L’insorgere del fenomeno è imputabile a diverse cause, alcune legate all’evoluzione del mercato del lavoro, altre a cambiamenti istituzionali. Tra le prime rientrano i cambiamenti tecnologici della struttura produttiva che hanno favorito la domanda di lavoratori qualificati rispetto a quelli non qualificati,… la delocalizzazione del lavoro nei paesi in via di sviluppo che può avere comportato una riduzione dei salari dei lavoratori meno qualificati in Europa, i fenomeni migratori che possono aver ridotto il salario dei lavoratori nativi poco qualificati. Tra i cambiamenti istituzionali rientrano certamente le riforme di liberalizzazione del mercato del lavoro che hanno determinato il peggioramento della qualità delle posizioni lavorative ma anche l’indebolimento del potere contrattuale dei sindacati e il minor ricorso alla contrattazione centralizzata che possono aver avuto ripercussioni negative sui salari in genere, ma soprattutto sulla coda sinistra della distribuzione dei salari”.
Sono brani tratti da un articolo apparso su collettiva.it(leggi qui) che illustra bene la differenza tra la microeconomia e la macroeconomia. Sempre dal pezzo di colletiva.it, leggiamo: “Per avvicinarsi a una prima quantificazione dell’area dei lavoratori poveri, applicando uno dei riferimenti Istat (sotto la soglia dei 9 euro l’ora di retribuzione), il ricercatore del Censis, Andrea Toma, parla di 2,9 milioni di lavoratori; 35% nella classe 15-29 anni; 47,4% nella classe 30-49 anni; 79% operai, 53,3% uomini. Decisivo è il calcolo delle giornate lavorate durante l’anno. Tra gli operai ci sono 8,6 milioni di persone che lavorano per un totale di poco più di 200 giornate l’anno con una retribuzione media annua di 14.762 euro. Ci sono poi 629 mila apprendisti che lavorano 203 giorni l’anno per 11.709 euro. Nella sfera del lavoro povero, spiega ancora Andrea Toma, si possono inquadrare praticamente quasi tutti i lavoratori precari che devono essere sommati al lavoro irregolare (circa 3 milioni di persone), una parte dei lavoratori dei settori agricoli e della vasta area del lavoro domestico (921mila).”
Questa è microeconomia, nel senso che è l’economia vissuta nei panni e nella pelle delle persone che si trovano in questa situazione: hanno un lavoro, ma questo lavoro non permette loro di progettare nessun futuro, perchè è saltuario, precario, sottopagato, sotto ricatto.
Poi ci sono i grafici dei macroeconomisti
Questi due grafici sono stati esibiti (senza peraltro citarne la fonte) in un post di Luigi Marattin (attuale presidente della Commissione Finanze della Camera), che li ha commentati così:
“Il primo grafico mostra il totale degli occupati, che è ancora inferiore di 232.000 unità al livello del marzo 2020 (pre-Covid).
Il secondo grafico mostra invece i soli lavoratori dipendenti, il cui livello già a maggio 2021 aveva recuperato appieno il gap perso durante la pandemia, e che ora continua a salire. A conferma che le previsioni fosche derivanti dalla fine del blocco dei licenziamenti (unico paese al mondo a farlo) erano del tutto infondate.”
Non è che io me la prendo con Marattin. Me la prendo per come espone le sue idee, che spaccia sempre come evidenze scientifiche alle quali si abbeverano i suoi seguaci, mentre gli altri sono o populisti o sovranisti (quando usa un linguaggio istituzionale; quando si scatena per il godimento dei suoi fans, gli altri sono dei deficienti). Ma andiamo a leggere cosa scrive Istat nel bollettino flash sul primo trimestre del 2021, pubblicato l’11 giugno:
“Nel primo trimestre 2021, l’input di lavoro, misurato dalle ore lavorate, registra una diminuzione di -0,2% rispetto al trimestre precedente e di -0,1% rispetto al primo trimestre 2020; il Pil è aumentato dello 0,1 in termini congiunturali e diminuito dello 0,8 in termini tendenziali. Dal lato dell’offerta di lavoro, nel primo trimestre 2021 il numero di occupati diminuisce di 243 mila unità (-1,1%) rispetto al trimestre precedente, a seguito del calo dei dipendenti a tempo indeterminato (-1,1%) e degli indipendenti (-2,0%) non compensato dalla lieve crescita dei dipendenti a termine (+0,6%). Contestualmente, si registra un aumento del numero di disoccupati (+103 mila) e degli inattivi di 15-64 anni (+98 mila). I dati mensili provvisori di aprile 2021 – al netto della stagionalità – segnalano il proseguimento della crescita dell’occupazione (+20 mila, +0,1% in un mese) registrata nei due mesi precedenti (dopo il forte calo di gennaio), che si associa all’aumento del numero di disoccupati (+88 mila, +3,4%) e al calo degli inattivi di 15-64 anni (-138 mila, -1,0%).
E’ fantastico notare come un economista che si gloria sempre del fatto di saper leggere i dati reali e di non fare demagogia, pecchi contemporaneamente di approssimazione e demagogia. Basta infatti entrare dentro i numeri dei grafici per accorgersi che la realtà è molto diversa dalle magnifiche sorti e progressive che descrive il macroeconomista Marattin, partendo da un grafico (che spaccia per la Bibbia) senza misurarsi nemmeno per sbaglio con la disaggregazione dei dati di quel grafico.
Ma anche i prossimi dati (sempre Istat) sono interessanti, perchè mostrano le variazioni tendenziali 2021 su 2020:
-Occupati, meno 3,9%
-Occupati dipendenti, meno 3,2%
-Occupati a tempo indeterminato, meno 2,5%
-Occupati a tempo determinato, meno 7,3%
-Occupati indipendenti, meno 6%
-Tasso di occupazione 15-64 anni: meno 2,2%
-Disoccupati: più 10%
-Inattivi 15-64 anni: più 3,7%
-Monte ore lavorate: meno 0,2%
(Per consultare il bollettino Istat completo,(leggi qui)
Verrebbe da dire: ma di che diavolo parla Marattin? Di quello che accade realmente, o di quello che vorrebbe dimostrare stia succedendo, da quando la geniale operazione politicista di Italia Viva ha portato il salvifico Mario Draghi al premierato? Quelo, il santone mago delle previsioni creato da Corrado Guzzanti, risponderebbe “la seconda che hai detto”. Però fare gli scienziati dell’economia con un grafichetto, come direbbe Marattin, “da studente di economia del primo anno”, traendone conclusioni opposte alla realtà, è roba da lancio del libretto. (NB il brillante economista non è nuovo alle “bianche”: ha dovuto rettificare la verità rivelata secondo la quale i percettori di reddito dai 35 ai 55.000 euro pagano il 60% dell’Irpef, poichè quella fascia di reddito – dati Mef – paga in realtà il 21,6% dell’Irpef. Leggi QUI).
In una recente intervista a estense.com (qui), Marattin si fa latore di un messaggio “riformista e liberale” che declina in questo modo:
“Chi vuole redistribuire soprattutto opportunità, non solo reddito; chi vuole usare il sistema fiscale come strumento di crescita, non di mera redistribuzione; chi non ha paura di dire che nella scuola bisogna pagare di più gli insegnanti migliori, e non appiattire tutti sullo stesso livello; chi è convinto che per combattere le delocalizzazioni e i licenziamenti non occorra vietarli per legge, ma migliorare le condizioni di competitività del territori, far costare meno il lavoro”.
Traduzione dello storytelling di stampo renziano: soldi no, lavori sì, anche senza tutele (sei giovane, datti da fare); soldi dal fisco ne riceverai indietro in maniera piatta, non progressiva; pagare di più gli insegnanti “migliori” (io per esempio); per evitare di far spostare le aziende all’estero bisogna pagare meno i lavoratori (Renzi vorrebbe costassero come in Arabia Saudita).
Qui non ci sono seri (liberali, lui) contro cialtroni (sovranisti e populisti, resto del mondo). Qui c’è un rampante che gioca con i dati e le regole del lavoro, parlando (ogni tanto a sproposito) di aggregati come se si trovasse a un Risiko nel quale le “risorse umane” si spostano come le truppe di soldatini. Lo andasse a raccontare agli operai della GKN, o a quelli della Logista all’Interporto di Bologna, o a quelle/i della Whirlpool di Napoli. A Ferrara però non si candida più per andare in Parlamento, stranamente scegliendo un altro collegio. Non la viene più a raccontare ai risparmiatori di Carife, la storia farlocca degli azionisti “speculatori” (classica stupidaggine da macroeconomista superficiale), dopo che il “suo” governo (all’epoca lui era responsabile economico del PD) ha fatto un bellissimo esperimento di bail in anticipato, azzerando migliaia di risparmiatori della sua amata Ferrara. Il “liberalismo” nel campo dell’economia e del lavoro non è un concetto neutro. Anche Milton Friedman era un liberale in economia, e le sue teorie hanno fatto danni incalcolabili a livello sociale. La differenza tra chi parla di economia per insiemi ed aggregati e chi analizza cosa succede ad una singola impresa, ad un singolo mercato, ad un singolo lavoratore, è la differenza tra chi considera il lavoro come una pura merce e chi sa bene che dietro i numeri ci sono la carne e il sangue delle persone.
Waiting on a sunny day (Aspettando una giornata di sole)
Mi piace il blues ma sono più sincero se scrivo che mi piace ascoltare musica, senza bisogno di suddividerla in categorie, più comode per i critici che per gli appassionati.
Fra gli artisti che stimo e che mi piacciono di più, c’è Bruce Springsteen, che da solo vale molto, ma senza la sua E Street Band sarebbe come Ferrara senza il Castello Estense.
Negli anni, la puntina del mio giradischi ha letto, riletto e scavato ogni solco dei suoi LP fino ad estrarne chilogrammi di energia, quintali di potenza e tonnellate di vitalità.
Lo vidi per la prima volta in un concerto allo stadio di Torino nel 1988 e fu un’esperienza unica: una performance straordinaria, corroborante, addirittura terapeutica.
Mi piace talmente Springsteen che appena ho saputo del suo concerto a Ferrara ho comprato i biglietti nonostante il prezzo e nonostante la località scelta.
Mentre, fra i primi, compievo l’operazione online ricordavo tristemente a me stesso la differenza tra un passato in cui si contestavano gli artisti manifestando per i prezzi troppo alti dei loro concerti e questo presente in cui da un lato, senza ritegno, gli organizzatori chiedono cifre astronomiche per poter assistere ad uno spettacolo (più altre ingiustificabili per poter comprare il biglietto online) e, dall’altro, noi appassionati siamo disposti a pagare quelle cifre mantenendo le nostre lamentele nei confini di una cosiddetta normalità che comincia ad essere preoccupante.
I tempi son cambiati ed io non mi sarei mai aspettato un concerto del Boss a Ferrara ma soprattutto non me lo sarei mai aspettato in una zona così bella e delicata dal punto di vista naturalistico come il parco Bassani.
Ma lo stupore per l’arrivo del Boss a Ferrara è sicuramente inferiore a quello che ho provato per la zona scelta.
Non è logico che un evento così straordinario possa andare a rovinare un parco così straordinario, perché è evidente che 50 o 60 mila persone non possano fare del bene a quel parco.
In un certo senso, ho l’età per aver visto nascere e crescere il Parco Urbano intitolato a Giorgio Bassani.
Quando è nata mia figlia è stato bello ricevere una lettera dell’amministrazione comunale per comunicarci che avrebbero piantato un albero per ogni bambino e per ogni bambina nati a Ferrara.
Il Parco Bassani è diventato così bello anche per quella scelta metaforicamente bellissima: “Il futuro è nei nostri figli, nei nostri alberi, nel nostro verde e nella cura che vi dedichiamo”. C’è il finale di una filastrocca di Bruno Tognolini che riassume stupendamente quello che voglio dire: “Come sarà l’orizzonte che tracci dipende da come mi abbracci”.
Il Parco Bassani è diventato bello perché ha ricevuto cure amorevoli che hanno richiesto tempo ed attenzione.
Fare un concerto che porterà decine di migliaia di persona a Ferrara e al Parco Urbano vuol dire stuprare “il parco più bello della città” (quello sì che lo è, a dispetto di quello del grattacielo definito dall’amministrazione comunale il più bello ma che sicuramente non può reggere il confronto).
Fare il concerto di Springsteen al Parco Bassani vuol dire scegliere il ritorno di ‘immagine’ infischiandosene di violentare un ecosistema unico.
Fare un evento simile in un parco simile vuol dire che l’unico ambiente che gli organizzatori hanno a cuore è quello del portafoglio.
Del resto come non notare, anche in questi giorni, che il prezzo di una bottiglietta d’acqua durante i concerti del Ferrara Summer Festival in piazza Trento Trieste è di 3 e addirittura di 5 euro!!!
Il parco Urbano Giorgio Bassani è stato pensato per essere un grande spazio di rinaturalizzazione tra la città, la campagna e il Po; il concerto di Bruce Springsteen è stato pensato in quel posto per avere più visibilità ma senza preoccuparsi troppo dell’organizzazione: dove parcheggeranno le auto tutte quelle persone, come verrà riorganizzata la viabilità, sarà sufficiente la capacità ricettiva di Ferrara?
Leggo che l’amministrazione comunale rassicura dicendo che stanno preparando una task force; io quando si usano termini così roboanti e bellicistici penso ad un effetto finale inversamente proporzionale agli intenti. La task force non mi fa stare bene.
Leggo poi che l’amministrazione comunale rassicura dicendo che starebbero elaborando un progetto per la tutela della fauna selvatica che prevede lo spostamento della stessa. In pratica stanno pensando di spostare ogni singolo essere vivente. Non so voi, ma io credo che questa sia una battuta incredibile di una comicità straordinaria se non fosse demenziale. Nemmeno l’amministratore più ‘scalzacane’ avrebbe potuto concepirla. La ‘demenzialità politica’ di certi soggetti non mi fa stare bene.
Quando, una volta sceso a compromessi con me stesso, ho comprato quel biglietto per il concerto di Springsteen al Parco Urbano, dapprima ho provato a digerire quella cifra ma poi ho promesso a me stesso che, nel mio piccolo, mi sarei impegnato per proporre alternative più sostenibili affinché il concerto di Bruce Springsteen e della E Street band si possa svolgere sempre a Ferrara ma in un altro posto.
Ad esempio, ricordo all’amministrazione comunale attuale e agli organizzatori del concerto che l’area dell’aeroporto di Ferrara è uno spazio molto interessante e da tenere in considerazione perché ha tutte le caratteristiche per poter ospitare un grande evento.
Ricordo che quello spazio, nel 1985, ospitò una partecipatissima Festa Nazionale dell’Unità.
Ricordo i concerti di Paolo Conte, di Lucio Dalla, di Claudio Baglioni, di Ornella Vanoni, di Gino Paoli, di Katia Ricciarelli e degli Style Council.
Ricordo che al comizio finale del segretario Alessandro Natta c’erano migliaia e migliaia di persone venute da tutta Italia.
Quello è un posto che sarebbe da valutare come alternativa concreta.
C’è una frase, fra le mie preferite, di una canzone di Springsteen che riguarda la scuola e che dice: “We learned more from a three minute record than we ever learned in school”(“Abbiamo imparato di più da un disco di tre minuti di quanto abbiamo mai imparato a scuola”). Può significare che, se le istituzioni sono lontane, si impara anche e soprattutto dalle cose della vita.
Bruce Springsteen da solo vale molto ma, se al posto della E Street Band avesse un altra band, sarebbe come Ferrara con un Parco Urbano che i politici e gli affaristi pertUrbano con la loro presunzione che la politica sia tutto uno show.
Ben venga quindi un confronto costruttivo per cercare alternative sostenibili ma prima… “Sciò” allo show a tutti i costi perché quei costi ambientali, sociali ed economici poi li pagheremo noi cittadini.
Mi auguro che l’amministrazione e gli organizzatori riescano ad ‘imparare dalle cose della vita’ quindi dal passato, dall’esperienza. e non debbano fare le cose solo per dimostrare, a tutti i costi, di essere diversi dall’amministrazione precedente.
A noi cittadini basterebbe che dimostrassero, nei fatti, di avere a cuore la nostra città, di agire per il suo meglio e per un suo futuro sostenibile.
La scelta del Parco Urbano per il concerto di Bruce Springsteen e della E Street Band crea “Darkness on the edge of town” (Oscurità ai margini della città) noi invece stiamo “aspettando una giornata di sole” (Waiting on a sunny day).
Su questo quotidiano:
– per sapere qualcosa di più sul Parco Urbano Bassani leggi l’articolo di Gian Gaetano Pinnavaia [Qui]
– per leggere e firmare la petizione popolare SAVE THE PARK[Qui]
Il grillo parlante oggi si è svegliato di malumore. Non ha dormito, di nuovo. Non tanto per i pensieri legati alle vicissitudini lavorative, che, grazie al cielo, sembrano filare lisce, quanto per i consueti schiamazzi notturni e la solita musica assordante di chi non sa davvero cosa significhi regolare un volume a livello umano nelle ore notturne (né tantomeno conosce il significato della parola rispetto). Se poi un motorino s’incastra in una perfida buca (perfida perché ti inganna, si vede solo quando è ormai tardi…), ripartendo a tutto gas, il quadretto è completo. Dicono che ci vuole pazienza e tolleranza, ma il grillo parlante ormai le ha perse entrambe da tempo. Lui lascia pure vivere ma chi lascia vivere lui?
Se, in passato, l’assessore all’urbanistica di Roma, aveva altro a cui pensare (lo stadio della Roma di Tor di Valle, preoccupato dal vincolo culturale di un luogo avvolto da spazzatura e degrado, le torri stile Dubai che non si fanno più, incurante del rischio esondazione dell’area o della mancanza di piano trasporti per arrivarci), oggi i numeri del Covid non preoccupano più, così come non allarma la saturazione degli ospedali, con le loro lunghe code al caldo afoso sotto tettoie improvvisate e il loro scarso personale che fa turni impossibili a ritmi insostenibili.
Il teatro Valle non riapre, i cinema storici di quartiere chiudono (salvo qualche eccezione legata a grandi nomi o padrini illustri) e annaspano fra i topi, il Teatro Eliseo ha chiuso, pur con un ottimo cartellone e un tutto esaurito. Inerzie su inerzie oltre che totale noncuranza e disinteresse. Il cinema Sacher di Nanni Moretti, a Trastevere, sembra una vecchia sala di periferia, l’accesso è decadente e i graffiti sui muri non si contano più; il vecchio cinema Alcazar doveva rinascere dalle ceneri, come una vecchia e stanca fenice, ma ancora nulla. Un tempo questa città era la Hollywood sul Tevere, oggi tutto questo è in lontano e sfuocato ricordo, nonostante qualche sforzo di pochi che cadono nel vuoto cosmico.
E poi le scuole aprono e chiudono quando credono, senza tenere contro delle esigenze dei genitori che lavorano. I riscaldamenti invernali sono un optional, ma per fortuna il clima è sempre mite…Ci pensa il microclima dell’autobus a fare il resto, dove poveri passeggeri aggrappati si passano, stretti come sardine, virus, nervosismi, tic e urti. D’altra parte, gli sbalzi fuori cabina sono la normalità, visti i necessari slalom fra macchine parcheggiate in doppia e terza fila. Se poi scendendo dal tram (perché quello su rotaie resta il più affidabile) non stai particolarmente attento a dove metti i piedi, ecco lì ad attenderti al varco, calma calma, silente, una bella cacca di cane, quella che nessuno raccoglie, tanto chi dice nulla, chi obietta, chi multa. Lo stesso warning che va dato ai bambini al parco, quei parchi immensi pieni di storia non curati e senza fiori, perché anche qui bisogna fare attenzione, la stessa da prestare se si attraversa per arrivare all’oasi di gioco, quando il semaforo rotto non garantisce il passaggio sicuro. D’altra parte, il semaforo a che serve, è ben coperto dai camioncini degli ambulanti che caricano e scaricano liberamente le merci per le loro bancarelle tutt’altro che abusive. Paccottiglia docet.
Se poi si decide di fare una passeggiata un po’ più lunga, i cassonetti della spazzatura non regolarmente svuotati o, se lo sono stati, i sacchetti lasciati di fianco a cestini poco capienti per quelle borse tristemente abbandonate, occhieggiano qua e là. Non parliamo di cassonetti di raccolta settimanale con sistema porta a porta per zone periferiche della città dove un solo condominio basta per riempirli in una giornata. Labirinti autorizzativi.
E intanto pullman giganteschi pieni di turisti attraversano bellamente le strade del centro storico (non li avevano interdetti?), con i loro tubi di scappamento che non perdonano, con gli autisti innervositi dal traffico romano e dai parcheggi in doppia-tripla fila. Con la loro sfacciatezza di parcheggiare dove credono, incuranti di quanto sta intorno.
Dai vetri delle carrozze della metropolitana non vedi più nulla, i graffiti hanno avuto la meglio. Molti sono orribili. Sono scarabocchi, come quelli informi che da bambini, incapaci ancora di disegnare, facevamo, con un pennarello blu-nero, su pezzi di carta o fogli volanti.
In tutto questo, oggi, a riscaldare il clima, nel vero senso della parola, arrivano gli incendi. Prima la discarica di Malagrotta e un tratto dell’Aurelia in cenere, poi la Pineta Sacchetti, il parco del Pineto e Montespaccato. Palazzi evacuati e metropolitana bloccata, inneschi multipli. Anche il Gianicolo è stato sfiorato. Ma non solo. L’incuria regna sovrana. Il manto erbose delle periferie non può essere tagliato, mancano soldi, personale e soprattutto pianificazione e visione. Tanto vale dargli fuoco. E poi ci sono i noti cinghiali. Il tutto mentre il Covid galoppa nuovamente al superamento dei 38 gradi e la guerra non fa più notizia.
Non è un lamento tanto per fare o per dire, tanto per denunciare o raccontare tutto quello che va male, ma un appello accorato, un allarme per tanta bellezza che non viene compresa, la città e i suoi cittadini chiedono aiuto, ascolto, rispetto, cura e attenzione. Dedizione. Quella dovuta alla Città Eterna, a un patrimonio di tutti unico al mondo. Non c’è più tempo.
E mentre la valle dei templi di Agrigento dimostra che lo splendore del paesaggio e gli interventi giusti esistono, qui si aspetta. Sempre. Un sogno metropolitano che non si realizza. Magari qualcuno un giorno si accorgerà di tanta bellezza. Spero.
I combattenti ucraini lottano per la loro e la nostra libertà!
Firmato: la Nato
I partigiani curdi non sono proprio partigiani, facciamo ciò che dice Erdogan.
Firmato: la Nato.
I partigiani palestinesi,
no quelli proprio no, quelli sono terroristi, non ci lasciano la libertà di espropriare le loro terre.
Firmato: la Nato.
Ma l’ONU esiste? In cosa consiste precisamente?
E l’imperialismo, che significato ha? Se io invado una nazione sovrana sono un imperialista, a seconda della parte da cui vedo sorgere il sole? C’è l’imperialismo russo e poi c’è chi esporta la democrazia, c’è chi abbatte i dittatori radendo al suolo delle nazioni, per mettere al potere altri dittatori. Poi ci sono i dittatori meno dittatori degli altri, un po’ come nella fattoria degli animali, in cui tutti sono uguali ma i maiali sono un po’ più uguali degli altri.
Io sinceramente non c’ho capito un cazzo. Ma poi più scrivo e meno ci capisco. E gli Armeni? Quelli non c’hanno nemmeno uno stato, come i palestinesi poi, sì ma gli armeni sono stati oggetto di genocidio. Ssssttt, non si può dire, poi è passato più di un secolo e i Turchi sono amici nostri. C’è pure il pericolo di islamizzazione del mondo, i talebani che tolgono ogni diritto alle donne. E’ vero: è una guerra di civiltà. Ma la Corte Suprema americana? Sì, però non è la stessa cosa. Scriiiitttt (rumore onomatopeico delle unghie sui vetri). Però ci sono popoli che sono guerrafondai, devi ammetterlo, i russi lo sono da sempre, perché gli arabi no? Attento, rilassati, fai passare un quarto d’ora e zac, un americano è morto sparato. Ma la colpa non è delle armi è di chi le usa, e quindi i guerrafondai? Gli Stati Uniti d’America nascono il quattro luglio 1776 e nei loro gloriosi 247 anni di vita, per ben 18 anni non hanno fatto nessuna, e sottolineo nessuna, guerra. Hai capito? Non tanto.
Allora te lo devo dire, tu sei un filo putiniano.
Chi, io? Guarda che a me lo zar fa schifo da sempre, un opportunista guerrafondaio, omofobo, illiberale, mafioso, colluso, capitalista della peggior specie, anticomunista, spietato, dittatore, amico dei potenti dell’occidente a cui si ispira e in cui si rivede. Molti altri lo hanno scoperto brutto e cattivo solo ora. Lo è sempre stato. Pure il popolo russo nell’ultimo secolo mi sembra molto peggiorato, ritrova la libertà per una notte per poi riperderla la notte dopo, senza nemmeno accorgersene. Io sto con i perseguitati che sono in galera, sto con i giornalisti uccisi, sto con chi non ha la libertà a causa delle proprie idee o del proprio genere, segregati in una prigione russa per cui nessuno si straccia le vesti in occidente, ma loro muoiono lo stesso. Non sto con chi acclama il dittatore allo stadio, così come da sempre odio chi acclamava il pelato affacciato su piazza Venezia.
I dittatori sono uguali ovunque, non ne esiste uno buono, l’unico posto adatto a loro è la galera. La libertà di stampa va tutelata, in ogni parte del mondo….
Ma Julian Assange? Appunto. E Jamal Kashoggi? Per dire. E tutti i giornalisti uccisi da mafia e terrorismo in Italia? E Ilaria Alpi? E Daphne Caruana Galizia? Anna Stepanovna Politkovskaja? No sono troppi, mille e mille ancora a tutte le latitudini, sotto tutti i governi, in dittatura e libertà, non è possibile contarli, ma hanno lo stesso valore, la stessa dignità.
Bandiere della propaganda sventolano a seconda del vento, con le loro immagini tumulate sopra.
E come sempre mi perdo tra le parole che scrivo, non ho una tesi e nemmeno un pensiero fine e ben strutturato, mi mancano le basi per essere un editorialista, sono un casinista, spero di non divenire un ‘semplificazionista’, mai vorrei essere un qualunquista e tantomeno un menefreghista.
Mi piacerebbe che esistesse un mondo dove davvero esistono gli uguali, sia nel bene che nel male, dove un crimine, un omicidio, una guerra, la privazione della libertà, fossero fonte di sdegno in eguale misura e sotto ogni parallelo e meridiano. Vorrei che l’Organizzazione delle Nazioni Unite esistesse davvero, senza nessun diritto di veto, un luogo dove i paesi democratici potessero occupare scranni più comodi, ma in cambio venissero sottoposti a periodici test Invalsi, per una democrazia certificata, non solo sbandierata e magari esportata a cavallo di una bomba.
Mi piacerebbe un mondo diverso, dove la diversità diventa fonte a cui abbeverarsi, dove esista una rappresentanza per ogni idea e dove le idee fossero diverse, contrastanti, fonte di lotta sociale e non di appiattimento e estinzione. Mi piacerebbe sognare nuovamente con una moltitudine, nella speranza di un avvenire migliore per i nostri figli, vorrei vedere persone in lotta contro i soprusi e le vorrei vedere vincere, ovunque.
Ma lo sappiamo cosa succede a chi vive sperando, come disse il sergente Lo Russo in Mediterraneo. Eppure il vero proverbio recita: “chi vive sperando, muore cantando”.
La sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti è l’ultimo tassello del disegno di una élite globalista che ha come obiettivo il controllo sui corpi di tutti e di tutte. Disegno già emerso con la conduzione e narrazione della pandemia nei governi occidentali; scrivono le Libere Femministe Genova in un loro comunicato. E non potrei essere più d’accordo. È da 10 anni che mi occupo di maternità surrogata, un business costruito sui corpi delle donne, narrato come estremo atto di libertà e amore, che farà delle donne le proprietarie definitive del proprio corpo.
L’atto di prestarsi come madre surrogata che significa consegnare, attraverso la firma su un contratto, la propria vita e il proprio corpo per i 9 mesi di gravidanza, a committenti privati e alle cliniche private che vendono tale pratica, racconta bene come le donne siano l’indice di misura dello spiegamento del potere del sistema patriarcale all’interno di governi che si definiscono progressisti e democratici. Non dovrebbe stupire dunque la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che mostra i muscoli machisti ribaltando una sentenza di 50 anni fa per tornare a dichiarare sfacciatamente quello che non hanno mai smesso di fare: legiferare sui corpi delle donne. L’obiettivo, da sempre, è di creare categorie umane sulle quali imporre più o meno restrizioni all’autodeterminazione del singolo individuo. Il sistema è sempre lo stesso: creare delle sottocategorie per le quali si giustificano restrizioni alle libertà personali da parte di quelle élite di potere che vogliono mantenere i loro privilegi. E queste sottocategorie sono sempre state costruite a partire da quella che andava controllata e dominata perché capace di dare la vita: quella delle donne.
Lo dice molto bene Adriana Guzman nel suo intendimento del patriarcato “Qual è l’uomo piò sfruttato, più oppresso, più discriminato? Un uomo che è contadino, che non sa leggere, che non sa scrivere in castigliano, che non è andato a scuola, un omosessuale potrei dire, un orfano, un disabile. Ci sono tanti strati di oppressioni sopra un uomo, una sopra l’altra, però al di sotto di queste c’è sempre una donna, che è disabile, che è contadina, che non è andata a scuola, e che ha in più l’oppressione di essere una donna. Dunque al di sotto dell’uomo più oppresso del mondo che si possa immaginare c’è una donna più oppressa. Questa donna condivide tutte le oppressioni dell’uomo, di classe, di razza, di genere però ha in più l’oppressione per il fatto di essere una donna, ha un’oppressione per il fatto di essere donna. Non esiste una oppressione per il fatto di essere un uomo. Se sei oppresso lo sei perché sei proletario, perché sei un contadino, perché sei disabile ma non perché sei un uomo. Noi altre siamo oppresse per il fatto che siamo proletarie, perché siamo contadine, perché siamo disabili perché non sappiamo leggere né scrivere però in più perché siamo donne…”
Ebbene quello che sta succedendo negli Stati Uniti non è altro che il proseguimento della politica neo liberale di questi ultimi due anni. Non è forse vero che con la pandemia la maggior parte degli stati occidentali liberal-democratici ha impiegato tutta la sua forza mediatica per ridurre e contrarre il diritto all’autodeterminazione dei singoli? In nome di un “bene comune” hanno decretato nelle alte sfere le categorie che mano a mano dovevano piegarsi al volere politico, rinunciando al loro libero esercizio di autodeterminarsi.
Va detto però che è l’uso della lingua e della parola non incarnata che crea confusione e permette una narrazione falsata di ciò che significa autodeterminazione. E la parola disincarnata è il fondamento della ideologia transumanista (oggi presente in posizione apicali) che fa dei corpi delle mere macchine perfettibili. Grazie all’intelligenza artificiale, si consolida, questa volta veramente, la morte di Dio e della coscienza umana nella quale Dio dimora.
Come ha detto bene Valeria Gheno “la lingua è un atto costante d’identità”. Ma per lingua dobbiamo intendere quella lingua madre che è parola incarnata, che nasce da un sapere ancestrale dei corpi e non è solo una lingua che plasma il pensiero astratto. Una lingua la cui parola ha la capacità razionale di legare i nostri pensieri alle nostre emozioni e alle nostre esperienze incarnate.
È dunque necessario dire in modo chiaro che l’aborto non è un diritto. Il diritto è all’autodeterminazione e le Donne hanno il dovere e la responsabilità di esercitarlo sempre e a maggior ragione durante una gravidanza. Nessuna corte suprema può restringerlo.
Durante una gravidanza appare evidente a tutti che autodeterminarsi significa accettare di assumersi la responsabilità di fare una scelta tra due diritti in conflitto: quello alla vita della donna e quello alla vita del feto. Ma non è forse vero che autodeterminarsi è sempre una scelta fra il conflitto della realizzazione del sé (diritto di autodeterminarsi) e il “bene comune” (diritto di una società giusta e solidale)? Dunque, sarebbe giusto porsi la domanda: è bene che un’autorità astratta (non poi così astratta ma sempre fatta dal consesso di uomini) e terza, prevalga sulla coscienza individuale come è successo in questi ultimi tempi? o se questo sia inaccettabile?
Per noi Donne è chiaro. Nessuno può scegliere per noi e sul nostro corpo, e così dovrebbe valere per tutti. Lo spazio della coscienza di cui il corpo è espressione incarnata è inviolabile e resta il principio cardine del diritto all’autodeterminazione anche se in corso c’è il rischio della vita per altri.
Non possiamo dirci usciti – ammesso che ne usciremo mai – da una strana distopia mondiale a base virale, che già si ricomincia a parlare di rischio inflazione. Per almeno trent’anni, in Italia (e in parte dell’Europa) l’inflazione ha strettamente intrecciato le sue vicende con quelle di uno strumento nato come sua terapia sintomatica. La vicenda della scala mobile(nascita, evoluzione e morte) è uno straordinario e drammatico archetipo della storia dei rapporti industriali in Italia: rapporti di forza, di potere. Rapporti di classe.
Credo che spiegare questo meccanismo come fanno gli ‘addetti ai lavori’ rischia, in questo caso, di rendere oscuro ciò che deve essere chiaro; di intorbidare acque che devono rimanere limpide, nella loro feroce evidenza. La storia dell’istituto raccontata da politici, giornalisti di parte (non è un’offesa), ed economisti la puoi leggere in moltissime ricostruzioni, diverse tra loro a seconda dell’orientamento politico, economico, o più banalmente del tasso di conformismo dell’autore.
Personalmente mi interessa parlarti come se tu fossi un bambino di sei anni. Anzi, ti mostro cosa sei.
Sei (ad esempio) un medio borghese, sui quarant’anni, cinico, fortunato ed individualista. Infatti vivi da solo nella casa che ti hanno lasciato i tuoi genitori. Prendi uno stipendio fisso, non disprezzabile per un single.Duemila euro al mese. Forse diventeranno duemila e cento tra cinque anni, quando un rinnovo contrattuale aggiornerà la tua paga base.
Per intanto, i duemila euro rimangono fissi. Con quei soldi, questo mese paghi le bollette. Trecento euro di luce, trecento di gas, duecento di acqua. Poi fai la spesa del mese: duecento euro. Ti restano mille euro. Un cinema, uno spettacolo a teatro, quattro pizze, una trattoria, un libro, un concerto, la benzina per la macchina, le sigarette, quattro biglietti del treno. Alla fine del mese, riesci persino a farti avanzare duecento euro. Se le tue abitudini non cambiano, se riesci a non mangiare troppo, a non esagerare con la cultura e col fumo, se tutte le variabili di questo andazzo rimangono fisse, in un anno riuscirai a mettere da parte duemilaquattrocento euro, e non stai calcolando la tredicesima, che sono quasi due stipendi in uno. Ci scappa anche una bella vacanza di una settimana. Sei un signore.
Due mesi dopo, prendi sempre duemila euro. Facciamo finta, per semplicità, che i tuoi consumi non aumentino, né diminuiscano. Consumi la stessa quantità di luce, di gas, di acqua, di spesa, di benzina, di cultura e di sigarette. Una sorta di Asperger del consumo (lo so, Franco Modigliani considererebbe tutto ciò astratto, ma invece non vi è nulla di più astratto della macroeconomia).
Però spendi trecentodieci euro di luce, trecentodieci di gas, duecentodieci di acqua, duecentoventi euro di spesa. Fai la stessa strada di sempre, eppure ti vanno via in carburante venti euro in più di due mesi fa. Alla fine del mese in tasca ti restano centotrenta euro. Cominci a riconsiderare la meta della vacanza: poco male.
Passa un altro bimestre, e rispetto al bimestre precedente le bollette aumentano di altri dieci euro, idem la benzina, idem la spesa. Hanno ritoccato anche il prezzo delle sigarette: che sia un messaggio per la tua salute? Che strano: hai sempre le medesime abitudini di consumo, e in tasca ti restano sempre meno soldi.
Alla fine dell’anno non ti resta più niente in tasca, dei tuoi duemila euro mensili. Anzi: vai a debito di cinquanta euro, e per fortuna che avevi messo da parte qualcosa prima. La vacanza l’hai fatta, ma avanti di questo passo una settimana sarà troppo costosa, e passerai ai week end mordi e fuggi.
In dodici mesi, i prezzi medi delle cose che acquisti o delle materie prime che consumi sono aumentati del venti per cento. Il tuo stipendio invece è rimasto uguale, e rimarrà invariato fino a quando un rinnovo contrattuale lo alzerà. Tra alcuni anni, e sicuramente non in maniera tale da compensare l’aumento dei prezzi. Quindi: in ritardo, e non abbastanza.
L’aumento dei prezzi è noto come inflazione. Adesso sembra assurdo fare un esempio di inflazione al 20% annuo, ma quarant’anni fa non era così. Ci sono stati anni in cui l’aumento dei prezzi si avvicinava proprio a questa percentuale. Quando questo fenomeno ha cominciato a mordere le caviglie degli italiani, gli italiani stessi erano molto più poveri di adesso e la cosiddetta scala mobile non esisteva.
Non credo che la Confindustria nel 1945 abbia firmato con la CGIL un accordo che prevedeva l’indicizzazione dei salari all’inflazione (allora con un meccanismo differenziato per età e genere) per far guadagnare di più i salariati. Lo ha fatto per tenere a livelli accettabili i consumi, per non impoverire le persone al punto che non riuscissero più ad acquistare i prodotti delle sue industrie.
Comunque la si pensi, è quindi impossibile invertire causa ed effetto: la scala mobile nasce come meccanismo di adeguamento dei salari all’aumento dei prezzi. Quindi la scala mobile è un effetto, o un rimedio, non la causa dell’aumento dei prezzi.
Ma l’illustre economista Franco Modigliani, a metà degli anni 70, comincia ad affermare che un meccanismo di adeguamento automatico dei salari all’incremento dei prezzi contribuisce esso stesso ad aumentarli. Il motivo sarebbe il seguente: se aumenta il denaro a disposizione dei consumatori ma non aumenta l’offerta di beni – in termini economici, cioè, non aumenta la produttività – la domanda di acquisto di beni (incentivata dall’aumento dei salari) supera l’offerta, e questo fa aumentare i prezzi.
Modigliani tuttavia non era un reazionario. Sosteneva chenon solo i salari, ma anche le tariffe dovessero essere calmierate, altrimenti il costo del calmiere per evitare l’inflazione sarebbe ricaduto tutto sulle spalle dei lavoratori. Inoltre sosteneva che doveva aumentare la produttività del lavoro. Perché non c’è solo un modo per tenere sotto controllo l’aumento dei prezzi (cioè bloccare i salari): ci sono l’ aumento delle dimensioni delle imprese, gli investimenti sulla tecnologia, la ricerca sull’organizzazione del lavoro e sui prodotti.
L’industria italiana si è mossa su questi tre versanti? No, o comunque lo ha fatto in maniera insufficiente.
Il risultato è che la battaglia persa sulla scala mobile (simboleggiata dalla sconfitta nel referendum del 1985) non è stata una sconfitta parziale, ma ha segnato la sconfitta nella complessiva guerra di classe, ovvero quella sulla distribuzione dei ricavi tra profitti e salari.
Se l‘inflazione sale, seppure non ai livelli del passato, ma i salari restano fermi e la produttività pure, il divario tra chi incassa reddito da capitale e chi incassa reddito da lavoro aumenta. Così è stato. L’Italia è, tra i Paesi dell’area Euro, quello in cui, negli ultimi trent’anni, i salari reali hanno perso maggiormente potere d’acquisto.
Come si fa a non legare questa dinamica all’inizio della cosiddetta ‘politica dei redditi’, della concertazione e della moderazione salariale, incarnata dall’accordo governo-sindacati del 1992?
Come si fa a non capire, almeno adesso, quello cheBruno Trentin capì allora, quando firmò l’accordo sotto il ricatto delle dimissioni del Governo (che avrebbe addossato la responsabilità della crisi istituzionale tutta sulla CGIL) e subito dopo si dimise da Segretario Generale, sapendo di non avere rispettato il mandato affidatogli?
Il tormento di un intellettuale come Trentin – un uomo della trattativa, il contrario del massimalista stile “tanto peggio tanto meglio” – rimane nella drammaticatestimonianza umana lasciata nei suoi Diari: “Mi sono trovato assediato: al di là delle intenzioni e del peso effettivo della minaccia di crisi di governo che Amato ha evocato, era certo che un fallimento del suo tentativo avrebbe avuto, a quel punto, degli effetti incalcolabili sulla situazione finanziaria del Paese e sul piano internazionale. La divisione fra i sindacati e nella Cgil avrebbe dato un colpo finale al potere contrattuale del sindacato come soggetto politico. Salvare la Cgil e le possibilità future di una iniziativa unitaria del sindacato; impedire che fosse imputata ad una parte della Cgil la responsabilità di un ulteriore aggravamento della crisi economica, per emarginarla sul piano politico mi imponevano di firmare l’accordo e di lasciare quindi libera la Cgil e i suoi organismi dirigenti di convalidare o meno quella decisione. … Dall’altra parte, ero ben cosciente che, ciò facendo, disattendevo il mandato ricevuto dalla Direzione della Cgil, quel mandato che avevo sollecitato con tanta insistenza, contrapponendomi alla tesi dei soliti rentiers della politica del sempre peggio, che invocava l’abbandono del negoziato. Non potevo annunciare alla Segreteria della Cgil la mia intenzione di firmare, senza preannunciare le mie dimissioni. Ciò che ho fatto.”
Quel momento è stato per l’Italia uno snodo decisivo. Un evento, nel senso più proprio del termine, in quanto ha condizionato i successivi trent’anni di rapporti industriali.
Ha spalancato la strada ad un liberismo economico privo di progettualità,basato esclusivamente sulla moderazione salariale. Tanto più paradossale se inserita dentro un modello di società che identificava il consumo come unico indice di emancipazione, anzi di identità sociale, con le tragiche conseguenze antropologiche di cui Pasolini parlava già vent’anni prima. Una Estensione del dominio della lotta, per citare letteralmente il titolo del primo romanzo di Michel Houellebecq, uscito non a caso nel 1994. Un libro sull’assenza di uno scopo per cui lottare.
Alcune cose non si buttano dopo l’uso, anzi si piantano!
Si possono allora realizzare oggetti di vario genere che hanno come caratteristica dei semi incorporati al loro interno e la biodegradabilità dei materiali con cui sono stati realizzati. È così che da alcuni oggetti di uso comune possono nascere i fiori. Sono idee regalo originali che possono aiutare chi non ha mai piantato un seme o coltivato una piantina a ritrovare un nuovo contatto con la natura. Abbiamo già parlato su questo giornale dei libri per bambini pensati appositamente per fare nascere nuovi alberi piantando la loro copertina. C’è tanto altro: matite, biglietti di auguri, partecipazioni, cartoline. Ecco alcuni esempi interessanti.
Sprout, la matita che si pianta
Se invece di buttare via le matite quando diventano troppo corte, una volta utilizzate e riutilizzate (salvo che ormai sono quasi fiori moda e le usano, forse, solo i cultori della scrittura a mano e del disegno), fosse possibile trasformarle in fiori, erbe o verdure? L’ecomatita Sprout, sviluppata da un gruppo di studenti del MIT, è fatta di cedro e utilizza la grafite e l’argilla al posto del piombo. Una capsula contente semi è montata all’estremità di ciascun esemplare, così, una volta che le matite diventano inutilizzabili, possono essere piantate nel terreno per dar vita a delle belle piante. Partita con finanziamenti ottenuti sulla piattaforma crowdfunding Kickstarter, da allora hanno fatto molta strada e oggi sono disponibili in oltre 20 varianti, con semi di menta, pomodori, peperoni, basilico e rosmarino. La capsula-seme è dotata di tre semi di uno stesso fiore, erbe o vegetali, per aumentarne le potenzialità: una volta bagnata, la capsula protettiva si dissolve per esporre i semi. La matita può essere tenuta nel terreno e usata come un’etichetta, poiché ha sul lato proprio il nome del seme che contiene. Un messaggero verde. Anche personalizzabili.
Contenitore take-away
Se il contenitore take-away dev’essere usa e getta, che almeno risulti completamente biodegradabile e a basso impatto ambientale. è il nuovo contenitore per alimenti biodegradabile al 100%, costituito da materiali naturali e riciclabili. Al di sotto del coperchio si trovano dei semi da cui nasceranno fiori colorati o piante per l’orto. Il contenitore per alimenti progettato da Michal Marko è stato pensato per essere piantato nel terreno, dove scomparirà senza lasciare traccia nel giro di breve tempo, arricchendolo di nuove sostanze nutritive naturali. “Eat Your Food, Grow A Plant, Save A Planet“, ecco l’insegnamento che questo contenitore vuole lanciare: un impegno a ridurre l’impatto ambientale delle azioni quotidiane, come quella di nutrirsi. Il messaggio correlato al prodotto è semplice: è possibile rendere più sostenibile l’opportunità di mangiare fuori casa ed è dunque necessario che le persone siano consapevoli dell’esistenza di materiali biodegradabili alternativi a ciò che non risulta nemmeno riciclabile. Consumato il proprio pasto, si potrà riempire la vaschetta con del terriccio e quindi piantare i semi che si trovano al suo interno. Dopo alcuni giorni, grazie alle cure dei semi e alle innaffiature, le piantine inizieranno a crescere. Quando saranno forti, le si potrà trasferire nel terreno, in giardino o nell’orto, scatola compresa. Ecco allora un nuovo dono vivo e verde per noi e per la Terra.
Partecipazioni: se mi ami, mi pianti!
Ilsuccesso della carta che germoglia. Depliant ma anche partecipazioni di nozze che si trasformeranno in fiori. Questi speciali biglietti d’invito – “Se mi ami mi pianti” – sono realizzati in carta riciclata e al loro interno hanno degli inserti e delle fascette in “carta semi”. Le potrete piantare in vaso e osservare la nascita dei fiori dopo alcune settimane.
Per chi voglia organizzare un matrimonio green, e non ha idee per le partecipazioni, magari da consegnare rigorosamente a mano, ecco un suggerimento originale, quello di una partecipazione che non resti un semplice biglietto da conservare nella scatola dei ricordi, magari in una ombrosa soffitta, ma che si trasformi in fiori. Questa carta può essere piantata direttamente in un vaso, per vedere spuntare fiori di campo dopo poche settimane.
Cartoline eco
Eco-Postcard, invece, è una cartolina ecologica brevettata che nasconde all’interno una cialda di torba con veri semi selezionati.
Un vero “cuore vivente” che, se inumidito quotidianamente, farà crescere una piantina fiorita direttamente sulla cartolina.
Per chi ancora ama scrivere cartoline da posti lontani e vicini, per chi deve “eco-comunicare” o non vuole mai smettere di sorprendere l’amico dal pollice verde anche una cartolina, ora, sa fare la sua parte in fatto di sostenibilità. E far crescere una piantina.
Da una melanzana a un girasole, da un finocchio a una campanella, su una Eco-Postcard, 100% ecologica, si può vedere sbocciare la natura se solo, ovvio, se ne ha amorevole cura. Un vero e proprio “cuore vivente”.
Eco-Postcard può essere completamente personalizzata nella grafica e nella scelta dei semi e nell’imbustamento singolo in scatola o in sacchetto e formati e sagome speciali. Inoltre, si può scegliere tra fiori (girasole, campanella ipomea e bella di notte) e verdure (zucchino romanesco, melanzana, finocchio selvatico melone e peperoncino ornamentale). Ogni piantina può veicolare un messaggio diverso. Provare per credere.
Quando si parla di “chimica” tra le persone, si traspone sul piano dei rapporti umani un concetto che è considerato (giustamente) centrale nella dinamica dell’attrazione. Quando si parla di industria chimica, ogni attrattività scompare in favore di una immagine plumbea, grigia e mortale. In poche parole, superficiale e stereotipata, come se l’industria chimica in Italia fosse una sola, immensa, mefitica acciaieria, un orribile Moloch che si nutre di vite umane, e che sporca l’immagine e l’aria di una Ferrara che sembra, per altri versi, all’alba di un rilancio turistico su scala europea (leggi qui). Anche in questo caso, stereotipi e superficialità la fanno da padroni, ma per una volta almeno possono aiutare.
Torniamo al Moloch. Alla fine, Eniha mantenuto la inquietante promessa che aveva fatto. Dal 9 maggio scorso il propilene prodotto a Marghera che attraverso la pipeline riforniva Ferrara, Mantova, Ravenna non arriva più, perché Eni ha deciso di chiudere l’impianto che produce la materia prima attraverso il processo chimico detto cracking. Volevamo parlarne con chi lavora al Petrolchimico senza avere attualmente un ruolo “istituzionale” nell’azienda o nel sindacato: una persona che conosce la realtà del Petrolchimico dall’interno, e che costituisce un riferimento sindacale pur se da “semplice” lavoratrice nella fabbrica.
Micol Giorgi lavora in Lyondell-Basell, in uno dei laboratori di controllo qualità che testa la resa dei catalizzatori, dei supporti e crea il polimero, cioè il prodotto finito. Detta in parole semplici, ricreano in laboratorio la polimerizzazione che poi verrà replicata su un impianto pilota o su un impianto industriale. Micol sa bene cosa succede quando l’approvvigionamento di materia prima (quella che normalmente arriva attraverso il tubo, o pipeline) cambia vettore, perché magari si verifica un guasto o c’è necessità di una manutenzione a Marghera. E’ successo anche di recente. Durante quel periodo il monomero arrivava attraverso ferrocisterne o navi, che non trasportano solo propilene: “le cisterne contengono inevitabilmente residui di impurità che “sporcano” la materia prima e la rendono di bassa qualità, nonostante la pulizia fatta dalle distillerie. Questo vuol dire scarsa qualità, sporcatura degli impianti, scarti elevatissimi. Ecco: Eni continua a dire che garantirà le forniture, ma se poi le forniture devono arrivare con questi mezzi gli impianti si sporcano, si bloccano e il prodotto “fuori resa” aumenta a dismisura. Se questa deve essere la fornitura alternativa da adesso in avanti, si tratta di una soluzione non sostenibile” conclude Micol.
La rigassificazione dell’etilene di cui parla Eni come altra possibile opzione, secondo Micol di fatto non esiste. “Ne hanno parlato, certo, ma da quanto mi è noto pare manchi addirittura il progetto della sua realizzazione”. A Lyondell-Basell Ferrara sono circa 850 i lavoratori diretti, a cui sommando altrettanti lavoratori dipendenti delle multinazionali chimiche tra cui Versalis, che fa parte del gruppo Eni, arriviamo a 1.700. Tenendo conto infine dell’importante presenza del personale operante nelle società in appalto, il petrolchimico costituisce la maggiore realtà industriale rimasta nella provincia.
Sono preoccupati anche i lavoratori di Yara, altra realtà sita dentro il petrolchimico (che tra l’altro produce il 60% dell’additivo al diesel AD Blue): “Yara fermò la produzione di urea perché ad un certo prezzo del gas naturale (metano) che costituisce al contempo per la società materia prima e fonte energetica, non le conveniva. Adesso ha ricominciato perché il prezzo è calato, ma questa è una spia del fatto che il problema, in prospettiva, diventa di costi: costi di insediamento, costi di approvvigionamento delle materie prime”.
E’ da un anno che i lavoratori chiedono al Ministero un incontro, ma, dice Micol, “non ci ha mai considerato nessuno. L’unico che si è mosso per avere un tavolo è l’assessore regionale alle attività produttive, Vincenzo Colla. Del resto fino a poco tempo fa la proprietà di Lyondell-Basell faceva discorsi rassicuranti: “Eni ci garantisce le forniture, quindi è tutto a posto”, ma le RSU glielo dicevano che non era così… poi facciamo lo sciopero (il 9 maggio scorso, NdA) e all’improvviso salta fuori la lettera del presidente del CdA di Basell Italia, inviata al Presidente del Consiglio Draghi e a Giorgetti (Ministro dello Sviluppo Economico) nella quale scrive che se Eni dopo la chiusura del cracking di Marghera non garantirà le forniture e la qualità delle stesse, Lyondell-Basell non potrà garantire la sua permanenza in Italia”.
Secondo Micol, c’è una strana atmosfera di omertà attorno alle vicende che riguardano Eni. “Il cane a sei zampe non si può toccare”, sintetizza. Quando, a furia di insistere, l’assessore regionale Vincenzo Colla ha ottenuto un tavolo al Ministero dello Sviluppo economico, la prima convocazione incredibilmente non prevedeva la presenza dei sindacati di settore. Poi i sindacati hanno organizzato un presidio davanti alla Prefettura di Ferrara: il Prefetto ha ascoltato, si è fatto in qualche modo portavoce delle richieste dei lavoratori e finalmente i sindacati nazionali sono stati ammessi. Micol è invece rimasta delusa, come molti lavoratori, dall’assenza delle istituzioni della città a fianco dei lavoratori, ma lo dice quasi sottovoce per non prestare il fianco a polemiche strumentali. La situazione è troppo delicata per indulgere a schermaglie “di bottega”: qui c’è bisogno del sostegno di tutti.
Gli atti in corso concretizzano scelte gravi, che rischiano di portare allo smantellamento del sistema della chimica in Italia. La chimica sembra non interessare più, “però intanto in Germania gli impianti continuano a farli” chiosa Micol. La transizione “ecologica” fatta in questo modo è come buttare il bambino assieme all’acqua sporca. Ed è incredibile che la comunità ferrarese, a partire dalle istituzioni di governo della città, sembri non rendersene conto. Ci sono duemila addetti direttamente coinvolti, che significano famiglie. Poi ci sono i lavoratori dell’indotto. E i lavoratori degli appalti, che saranno i primi a rimetterci, e contemporaneamente sono i più ricattabili: infatti molti di loro sono entrati in fabbrica anche il giorno dello sciopero. Micol lamenta anche un certo pregiudizio duro a morire: “molti ci percepiscono come l’Ilva di Taranto, ma basterebbe farsi un giro qui dentro per capire che le cose non stanno così. I sistemi di sicurezza non sono quelli di cinquant’anni fa. Qui si lavora per l’automotive, per il settore biomedicale, produzione che è stata di importanza vitale specialmente durante la crisi pandemica. Insomma: non produciamo cioccolata, ma non siamo degli inquinatori”.
Rassegna “I solisti del teatro” XXVIII Edizione ««17 luglio ore 21,30 Presso i Giardini della Filarmonica romana, Roma
In occasione del centenario della nascita di Pierpaolo Pasolini, uno spettacolo ricco di canzoni ironiche scritte dallo stesso Pasolini, Arbasino, Flaiano, Moravia per Laura Betti. E in scena, proprio Laura Betti, racconta un Pierpaolo inedito e diverso
Fatima Scialdone in “LAURA ALLO SPECCHIO” Dedicato a Laura Betti e Pier Paolo Pasolini
Overture di chitarra Fausto Mesolella Arrangiamenti Francesco Bancalari Al pianoforte Andrea Bianchi Alla Chitarra Michele Kraisky
“Laura allo specchio“, interpretato da Fatima Scialdone, è un monologo (in senso stretto all’inizio, poi monologo /dialogante) con musica e canzoni, che ci fa conoscere un Pierpaolo Pasolini raccontato in modo diverso proprio da lei, Laura Betti (grande attrice di cinema e teatro ) degli anni sessanta, in cui giovane vitale, prepotente, anticonformista riuscì ad imbastire un spettacolo tutto di canzoni, scritte e composte per lei , dal titolo “Giro a vuoto” : un ‘calderone’, con la complicità e regia di Filippo Crivelli, in cui coinvolse i più prestigiosi scrittori e musicisti dell’epoca, Moravia e Pasolini in testa, e Arbasino, Parise, Soldati, Mauri ,Flaiano e musicisti come Marinelli, Umiliani, Carpi, Nebbia.
Laura Betti è la prima One woman-show italiana, ha inventato una forma di cabaret fino allora da noi sconosciuta, anche se praticata da tempo in Francia. Ed è proprio a Parigi che debutta, e trionfa, contemporaneamente alle grandi artiste francesi Edith Piaf e Juliette Greco. Laura Betti ‘si parla addosso’, ne parla col suo “doppio nello specchio”, un novello Narciso che si ammira, si confessa, parla del suo presente e del suo passato.
Parla di Pierpaolo in modo diverso, con un sentimento che si svela man mano nei suoi racconti .. .Diventa “la sua moglie non carnale” … Sono invischiati in un rapporto complicatissimo: litigano come due coniugi, si riappacificano come innamorati, cementano la loro “amicizia” tra tempeste e schiarite, un legame che le procurerà frutti notevoli sul piano artistico e inaudite sofferenze in seguito. In un cauchemar premonitore Laura viene catapultata nell’oscura dimensione del sogno, “vive” la tragica fine di Pasolini col funerale a Campo dei fiori.
Nello spettacolo non c’è soluzione di continuità tra parola e canto (l testi originali da Giro a Vuoto, di Fortini, Moravia, Arbasino, Nebbia, Pasolini, ecc.) in un amalgama che coinvolge in modo accattivante, anche se il distacco ironico e talvolta comico, stempera malinconie, inquietudini e talora anche “l’annuncio di qualche disperazione”.
Un giornale – almeno questo giornale, così come lo pensiamo e componiamo ogni giorno – non si limita a dare le notizia, ma ci entra dentro; non sta sopra la società, ma è esso stesso parte della società. Davanti ai fatti, soprattutto a eventi o scelte irresponsabili, periscopio non può rimanere neutrale; non ha nessuna linea politica da sposare e promuovere, ma si schiera apertamente per difendere i diritti (delle persone, delle piante, degli animali) e la ragione. E’ il caso della assoluta necessità di tutelare il Parco Urbano Giorgio Bassani di Ferrara, un patrimonio inestimabile che la scelta irragionevole del sindaco Alan Fabbri mette concretamente e stupidamente a rischio. Esiste una location alternativa al Parco Urbano e migliore da un punto di vista logistico, e ci sono ancora 11 mesi prima dell’arrivo di Bruce Springsteeen. Il sindaco ha sbagliato, ci ripensi. Francesco Monini
Save the Park
Il parco urbano Giorgio Bassani di Ferrara è un ecosistema fragile. Non può essere sede di concerti rock da 60000 persone. Per questi eventi, molto belli e desiderabili per la nostra città, chiediamo sia trovata fin da ora un’altra cornice.
Il 18 Maggio 2023 è previsto a Ferrara il concerto della star Internazionale Bruce Springsteen. Siamo favorevoli a che il concerto si tenga a Ferrara ma non condividiamo il luogo dove lo stesso concerto dovrebbe tenersi.
Il parco Urbano Giorgio Bassani è stato concepito e costruito, sin dalla sua progettazione, come un’opera di rinaturalizzazione di uno spazio cerniera tra l’area urbana, quella agricola e il fiume. In più di venti anni si è creato un equilibrio biologico unico e prezioso, un ecosistema complesso che ora, nel pieno della sua maturità, costituisce un unico grande organismo vivente. Nel Parco, tra alberi, laghetti e canali, trovano rifugio e protezione uccelli migratori e stanziali, animali selvatici e pesci di acqua dolce. Nelle immediate vicinanze insistono le sedi locali ed i rifugi della LIPU, della Lega del Cane, il Gattile comunale e il Canile Comunale.
Ad oggi è previsto l’arrivo di circa 50.000 spettatori, l’impatto negativo e di lunga durata che tutto ciò potrebbe avere sul Parco è quasi superfluo spiegarlo: Costruzione del palco, arrivo dei TIR dell’organizzazione; Viabilità cittadina e creazione di parcheggi per il pubblico; Creazione servizi logistici ed igienici; Impatto dei volumi sonori del concerto ; Danneggiamento indotto dal calpestio di 55.000 persone sul manto erboso del Parco e dunque sulla biodiversità; Morte dell’avifauna; Costi per il ripristino della zona dopo l’evento; Rischio di creare un precedente per l’uso del Parco per grandi eventi.
Eventi simili tenutisi sul litorale, nonostante le promesse di “impatto ambientale zero” , hanno avuto effetti deleteri e non reversibili sui fragili eco sistemi delle nostre coste già abbastanza vituperate negli anni. Abbiamo costituito un Comitato per aprire un confronto costruttivo con il Sindaco Alan Fabbri per poter valutare insieme un luogo alternativo dove tenere il concerto. Essendo Ferrara in un territorio di pianura e già molto antropizzato, siamo sicuri che trovare una sede più idonea sia possibile, i tempi ci sono. Vogliamo che la sostenibilità che tutti ultimamente si stanno appuntando sul petto questa volta sia effettiva, completa e dimostrabile, non solo una mossa di facciata. Siamo convinti che Ferrara possa esprimere capacità e risorse per creare un evento di queste dimensioni che diventi un vero modello di sostenibilità anche per il futuro.
Faremo arrivare il nostro grido di allarme anche al diretto interessato Sig. Bruce Springsteeen, da sempre persona sensibile alle tematiche ambientali e sociali.
Chiediamo a tutti quanti hanno a cuore la grande musica e l’ambiente in cui viviamo di firmare il nostro appello, per questo vi ringraziamo di cuore e vi preghiamo di condividere il nostro appello con tutti i vostri contatti.
Un’epidemia silenziosa sempre più vasta sta colpendo le nuove generazioni occidentali, un coacervo d’interessi di multinazionali del farmaco, narcos e reti di produzione delocalizzate in Cina sta invadendo da tempo la società occidentale, prima fra tutte la società statunitense, e subito a seguire quella europea.
Ben Westhoff, autore del libro-inchiesta Fentanyl Inc. ci parla di un oppiaceo sintetico sviluppato in Oriente, che attraverso il Messico e il Canada arriva nel cuore degli States, e dagli USA sbarca ora anche in Europa.
L’autore di questo libro inchiesta ci parla di novelli “Pablo Escobar” che provengono da Oriente e non risparmiano nessuno.
Fentanyl Inc.
Nel 2021 più di centomila cittadini americani sono morti per overdose, si stima che oltre il 72% di queste morti sia proprio a causa di questi nuovi oppioidi sintetici prodotti in Cina, fatti arrivare nello Stato messicano di Sinaloa e nel Canadà per poi da lì invadere strade, scuole e società statunitensi.
Fentanyl, il nome di questo potente stupefacente, un antidolorifico sintetizzato negli anni 50′.
Bassi costi, una dose si vende a meno di 5 dollari, facile da reperire online, per strada o in farmacia. Non in tutti i Paesi serve una ricetta medica, ma a parità di dose è tra 70 e 80 volte più potente della morfina, cinquanta più dell’eroina.
Dosi mortali a confronto: Eroina e fentanyl a confronto
Il fentanyl è la droga perfetta. Anche come sostanza da taglio per la cocaina o l’eroina. Chi consuma una sostanza, non sa più cosa realmente consumi. Inodore, insapore, pochissimi granelli di questa sostanza pura sono sufficienti a mandare una persona in overdose. Assumibile tramite pasticche ma in modo molto più infido senza neanche rendersene conto anche tramite sostanze liquide, o inalabile tramite aerosol.
La fascia di età più colpita è quella fra i 15 e i 39 anni. Tanti bei discorsi e altrettanti bei principi da parte di chi come me la piaga dell’eroina la vide coi suoi occhi attraversare la nostra società e falciare una generazione di giovani intera, lasciano il tempo che trovano, si dissolvono come nebbia al sole, mentre a terra, per le strade delle periferie urbane delle città dove questa nuova droga è arrivata, restano i morti.
Negli Stati Uniti, (la nazione attualmente più colpita) il trend dei danni lasciati da questa nuova droga è in crescita esponenziale, passando dai 21.000 decessi per overdose del 2016 ai 104.000 del 2021. Altro segno visibile della circolazione di questa droga, per le strade, specie nelle periferie più degradate dove prende campo, sono le migliaia di giovani inebetiti che a guardarli sotto effetto di questo potente stupefacente sembrano più morti viventi che persone.
Ci sono poi i derivati del fentanyl che combinati con altre sostanze arrivano ad essere fino a 10mila volte più potenti della morfina.
Negli USA, nel solo periodo di cinque anni, il tasso di decessi per overdose a livello nazionale è quintuplicato.
Il National Center for Health Statistics dei Centers for Disease Control and Prevention nella Città di New York registrò tra il 2000 e il 2012 una percentuale di decessi per overdose associato al fentanyl che arrivava al 2%, 10 anni dopo, nel 2020, la percentuale registrata di overdose da fentanyl rappresenta il 72% del totale.
Oggi, il fentanyl è il farmaco che più viene associato a un’overdose mortale.
“I nomi commerciali del fentanyl sono vari, commercializzati dalle stesse aziende multinazionali farmaceutiche, per strada, dove negli ultimi anni questo farmaco, inizialmente usato come anestetico generale nella terapia del dolore, ha cominciato a diffondersi chiamandosi Apache, China Girl, China Town, China White, Dance Fever, Goodfellas, Great Bear, He-Man, Poison, Toe Tag Dope, Tango & Cash o, semplicemente, White Girl: la dama bianca.
Con il suo libro, (Fentanyl, Inc: How Rogue Chemists Are Creating the Deadliest Wave of the Opioid Epidemic – Atlantic Monthly Press, ed. 2019), Ben Westhoff (giornalista investigativo che lavora sul campo) ha suscitato un terremoto perchè non si è limitato a denunciarne il consumo, ma ha indagato il network di produzione e commercio del fentanyl.
Intrecci tra Narcos, laboratori cinesi, multinazionali del farmaco, dark web, mercato legale e illegale diventano osmotici, si compenetrano a vicenda, gli interessi di un mercato seguono a ruota quelli dell’altro.
Ma come è stato possibile che un antidolorifico, un farmaco medico usato nella terapia del dolore per le neoplasie sia diventato una sostanza comune d’abuso quasi comune tra i cittadini americani.
A darci la risposta è proprio Westhoff, nel suo libro inchiesta. Il fentanyl venne sintetizzato nel 1959 da Paul Janssen, un chimico belga, fondatore della Janssen Pharmaceutica N.V. che dal 1961 fa parte della Johnson & Johnson e, nel 1985, della Xi’an-Janssen Pharmaceutical Co., Ltd., la prima azienda farmaceutica occidentale della Repubblica Popolare Cinese.
Confezione di Fentanyl prodotto dalla Janssen
La compagnia farmaceutica ha sviluppato molti derivati della morfina, ma il fentanyl era particolarmente redditizio per la Janssen Pharmaceutica. Il fentanyl, spiegava Janssen, “ha permesso per la prima volta di eseguire lunghe operazioni e, insieme ai suoi successori, preannunciò una rivoluzione nelle sale operatorie. Operazioni a cuore aperto come quelle praticate oggi, – sosteneva Janssen, – non sarebbero state possibili senza il fentanyl. Questo per spiegarne l’origine.
Insomma, come spesso accade, quel farmaco fu una svolta.
Diventò l’anestetico più usato al mondo, la Janssen Pharmaceutica fu acquistata dal colosso americano Johnson & Johnson nel 1961 e Paul Janssen continuò a lavorare per l’azienda, incaricata di sviluppare altri tipi di fentanyl.
In seguito, a partire dal 1964, il fentanyl venne posto sotto il controllo internazionale della convenzione unica sugli stupefacenti delle Nazioni Unite. Un po’ come avvenne per la morfina prima, e per l’eroina poi, (sostanze nate per scopi medicinali e militari che in seguito negli anni 70′ invasero le società occidentali falciando generazioni intere di giovani), anche il fentanyl a partire dal 2014 ha cominciato penetrare la società occidentale e a diventare così un grande problema, di natura umana e sociale.
La gente ha cominciato a morire di fentanyl. Estremamente difficile da dosare, può essere letale con quantità di soli due milligrammi, quantitativo appena visibile ad occhio umano e molto più piccola di una dose di eroina.
Nel 2021 negli USA ha rappresentato la prima causa di morte, molto più delle morti da incidente stradale e di quelle dichiarate per covid.
I trafficanti “tagliano” il fentanyl in altre droghe. Così, molte vittime di fentanyl pensano di prendere eroina, cocaina o pillole di altro genere, ma quando c’è troppo fentanyl nella miscela, la morte è quasi istantanea.
“Il fentanyl ha cambiato le regole del gioco”, sostiene un agente della Drug Enforcement Administration (DEA).
Ed è proprio così: il fentanyl ha cambiato completamente il panorama delle sostanze stupefacenti, la sostanza che inizialmente veniva usata come taglio è diventata dominante nel mercato delle droghe a livello mondiale.
A spiegarci perché il fentanyl viene principalmente prodotto in Cina è sempre Westhoff nel suo libro:
“Ho visitato i laboratori di cui tutti parlano, ma che nessuno è mai andato a vedere. Io ci sono stato e ho verificato che in fase iniziale queste aziende per produrre ed esportare fentanyl e altre sostanze, hanno ricevuto sostegno in forma di sussidi e sgravi fiscali da parte del Governo cinese.”
Westhoff nel suo libro inchiesta racconta come tramite una mail falsa a un presunto dealer è riuscito a entrare in contatto con una delle tante aziende produttrici, spiega come a partire da lì ha poi trovato tutta una serie di connessioni e collaborazioni che viaggiano su un doppio e ambiguo filo fra mercato legale ed illegale.
E’ vero che il fentanyl dopo molte pressioni al governo cinese è stato vietato, tranne che per uso medico, eppure come nel caso-Zhang, una società di Shanghai che esportava clandestinamente fentanyl e altre sostanze, il Governo cinese ha scelto di non perseguire.
Le ambiguità permangono, e il libro di West ne tratta a lungo, senza complottismi, arrivando a scrivere senza peli sulla lingua che “i novelli Pablo Escobar del mercato mondiale della droga arrivano direttamente da queste aziende produttrici cinesi.”
“La Cina – come descritto da Westhoff – ha grandi problemi con droghe come l’eroina, la metamina e la ketamina, ma non ha un problema di fentanyl. Almeno, non come lo abbiamo noi negli Stati Uniti, – scrive Westhoff – Il grande tema in Cina è che molte di queste sostanze, che sono vietate negli Stati Uniti, sono ancora legali. E così le aziende le possono produrre con il pieno sostegno del Governo, ma poi l’esportazione diventa qualcosa di simile al contrabbando. Ovviamente non tutto il fentanyl che gira per le strade americane viene dalla Cina ma dalla Cina arriva sul mercato nero una qualità di fentanyl in purezza, al 90%. Una sostanza estremamente pura ed estremamente conveniente. Arriva via posta, con dei corrieri, in Canada o in Messico e, da lì, entra negli USA. Ma il fentanyl non tagliato o ridotto in compresse arriva direttamente. Quindi c’è un sistema che passa le frontiere, dopo il taglio, e un sistema di transito diretto.”
Le rotte del Fentanyl
Le principali aziende produttrici di Fentanyl vengono indicate nel distretto di Wuhan, nome diventato molto noto al pubblico occidentale per altri e differenti motivi.
Secondo i metodi descritti da Westhoff nel suo libro, ad esempio il fentanyl prodotto tramite la Qinsheng Pharmaceutical Co. Ltd. e trasportato dalla Zheng Drug Trafficking Organization (DTO) arriva sulle strade del mercato statunitense. Queste società di produzione gestirebbero un’operazione internazionale di produzione e traffico di droga che contribuirebbero in modo diretto alla crisi di dipendenza da oppioidi, overdose e morte negli Stati Uniti.
Queste società stando al libro inchiesta di Westhoff tutti gli anni avrebbero spedito migliaia di pacchetti di oppiacei sintetici negli Stati Uniti, prendendo di mira i clienti attraverso la pubblicità online e le vendite web, utilizzando corrieri postali commerciali per contrabbandare i loro farmaci.
Partita di Fentanyl sequestrata negli Stati Uniti
“La Cina prevede pene molto severe in tema di stupefacenti e sostanze, ma non ha un vero problema con il fentanyl. Almeno, non ha un problema sociale, con i suoi cittadini. Non avendo un problema sociale con il fentanyl, la situazione è di fatto molto alleggerita. Noi parliamo di epidemia, loro no.” – racconta Ben Westhoff – Visitando le fabbriche di sostanze in Cina, sono stato colpito dalla quantità di droga prodotta e dal numero di persone che lavorano in queste aziende. Certo, c’è molta repressione in Cina sul tema delle droghe e molte persone sono in prigione per produzione e spaccio, ma sul fentanyl c’è uno scontro di problematiche. Perché in Cina rimane tendenzialmente un antidolorifico. Negli Usa invece oramai è ben altro.”
Secondo la DEA, la Drug Enforcement Administration americana: “il fentanyl sequestrato al confine con il Messico ha una purezza media di circa il 7%. Poi, però, c’è il dark web.
In passato, per ottenere droghe illecite, un acquirente doveva incontrare fisicamente un trafficante in un vicolo, oggi può anche starsene in casa e, con un po’ di competenza e qualche strumento, accedere ai negozi del dark web.” conclude il funzionario.
“Molte persone – spiega invece Westhoff in un capitolo del suo libro, – assumono fentanyl assieme ad altre droghe, spesso inconsapevolmente. Oppure comprano medicinali sui canali paralleli e quei medicinali sono “tagliati”. Questo ha cambiato tutto e ha creato un’epidemia di morti per overdose mai registrata prima.”
“C’è anche un’inconsapevolezza dal punto di vista medico. – Spiega Westhoff – Molte persone usano queste droghe senza sapere di usare una sostanza di tale potenza. “ – riferendosi direttamente al sistema sanitario. –
Westhoff parla di persone che si curano e si ritrovano dipendenti senza saperlo e senza riuscire a uscirne. Il caso di Prince ne è un esempio, pare usasse antidolorifici al fentanyl per il mal di schiena. “Anche in Europa sta diventando prassi, nonostante i sistemi di welfare siano diversi. Molte persone usano queste sostanze senza sapere che cosa usano. Altre comprano una cosa e si ritrovano a che fare con un’altra, pensano di usare eroina o cocaina o qualche pasticca oppure pensano di usare “semplicemente” un antidolorifico e si ritrovano a che fare con il fentanyl.” – Scrive Westhoff nel suo libro.
Westhoff in una intervista rilasciata l’anno scorso sul settimanale spagnolo, “Juanjo Villalba” racconta di una sua precedente visita in Spagna e Portogallo dove c’è un certo allarme sulla questione fentanyl.
“L’epidemia” pare stia dilagando anche in Europa. In certi Paesi come Regno Unito e Svezia è già arrivata. In Italia sta cominciando a prendere campo ora.
Svezia: incidenza delle morti per fentanyl. Fonte: Polizia svedese
Westhoff nel suo libro è dettagliato e preciso nello spiegare come i mercati si intreccino fra loro, la strada, il web, la Cina, le multinazionali del farmaco, e i canali della prescrizione medica affidati al sistema pubblico sanitario:
“Se guardiamo al consumo, via web è possibile acquistare fentanyl molto puro a prezzi davvero bassi. Ancora più bassi di quelli che si trovano in strada, dove lo spaccio è solitamente gestito dagli stessi che vendono coca, ero o metanfetamine. C’è poi il canale delle prescrizioni mediche, – dettaglia West nel suo libro – che sono ovviamente un’altra cosa. Ma quando la gente è in difficoltà e non può farsi prescrivere un farmaco e sta molto male cosa fa? Va sul web. Salvo che se capita di diventare dipendenti o se non ci si possono permettere certi antidolorifici, magari perché non si ha un’assicurazione e si vive in un Paese che non ha un sistema sanitario pubblico di modello europeo, si finisce sul web o per strada.”
Siamo davanti a un problema di dimensioni enormi. Per gli Stati Uniti, questo problema ha un’evidenza che supera centomila morti all’anno, senza contare altre centinaia di migliaia di persone che hanno sviluppato una forte dipendenza. Oltre alla morte per overdose, ci sono da contare anche i danni prodotti sulle persone, quelli provocati dal fentanyl sono ben peggiori di quelli che possono produrre eroina e cocaina, arrivando a ridurre una persona a una specie di zombie ambulante, il fenomeno è in forte crescita, sta assumendo proporzioni globali e va a colpire come già avvenuto in altra epoca con altre droghe, le generazioni più giovani.
Leggendo il libro di West mi è venuto spontaneo ripercorrere come in un parallelo, però a parti invertite, i fatti storici che oltre 150 anni fa che portarono alle “guerre dell’oppio”. Due conflitti combattuti tra il 1839 e il 1860 dalla sola Gran Bretagna il 1° conflitto, e da Gran Bretagna e Francia successivamente il 2° conflitto, contro l’allora impero cinese.
Oggetto della contesa imporre nell’impero celeste la liberalizzazione del commercio dell’oppio da parte occidentale.
La prima guerra dell’oppio segnò storicamente l’inizio del colonialismo europeo in Cina.
La vittoria occidentale trasformò di fatto la Cina in una colonia delle potenze europee, le quali si assicurarono consistenti privilegi e concessioni commerciali e territoriali su tutto il territorio dell’impero cinese, arrivando anche a stabilire dei protettorati britannici come ad esempio Taiwan e Hong-Kong in pieno territorio dell’impero cinese.
La Cina inizialmente utilizzava l’oppio come medicinale, in seguito accortasi che stava diventando una vera e propria piaga sociale ne proibì l’uso.
La Compagnia delle Indie Orientali, istituita nel 1715 dalla Gran Bretagna, diede però fortissimo impulso al commercio dell’oppio proveniente dal Bengala in India, invadendo il mercato della Cina.
L’obiettivo britannico era di doppia natura, da una parte tramite questo export, ridurre il deficit della bilancia interna dei pagamenti commerciali dell’Impero britannico, dall’altra incoraggiare il consumo della droga tra gli appartenenti alla classe dei mandarini cinesi di modo da fiaccare, corrompere e infiltrare l’allora classe dirigenziale cinese, rendendola docile ai voleri e agli interessi britannici e occidentali.
Fumatori di oppio in Cina, in una stampa del 1858
La vendita dell’oppio per gli occidentali ebbe l’effetto sperato, per la Cina fu invece un vero e proprio disastro. Il consumo di oppio divenne una vera e propria piaga sociale, criminalità e corruzione aumentarono a dismisura, comportando anche la svalutazione del rame e l’aggravarsi della condizione dei contadini cinesi, i quali venivano pagati in rame per i loro prodotti, ma dovevano versare allo Stato le tasse in argento. In risposta a questi problemi, le autorità cinesi inasprirono i divieti sulla droga, confiscando e bruciando enormi quantità di oppio, ma ciò scatenò la violenta reazione delle compagnie commerciali britanniche e occidentali.
Le truppe inglesi attaccarono la Cina, dando inizio alla guerra, che si concluse con la vittoria britannica. I vincitori obbligarono i cinesi alla firma del trattato di Nanchino (29 agosto 1842). In base a questo trattato la Cina fu trasformata in una vera e propria colonia inglese: doveva risarcire una cospicua indennità per l’oppio confiscato e distrutto, aprire cinque porti al commercio inglese e cedere Hong Kong alla Gran Bretagna. Identici accordi furono conclusi con altre potenze occidentali.
Divenuta una vera e propria semi-colonia occidentale, la Cina si trovò ad affrontare contemporaneamente una gravissima crisi interna, che sfociò nella ribellione contadina nota come la rivolta dei Taiping, e in una estera, che portò ad nuova guerra contro i britannici, sostenuti questa volta anche dalla Francia. La seconda guerra dell’oppio si concluse nel 1860, con una nuova capitolazione della Cina, costretta ad aprire al commercio straniero anche le vie fluviali interne e a stabilire normali rapporti diplomatici con gli Stati occidentali.
Stampa di una battaglia della 1° guerra dell’oppio
L’imposizione ai cinesi del libero commercio di oppio ebbe conseguenze nefaste con effetti trascinati sino al XX secolo e contese territoriali presenti tuttora. La potenza britannica comprese la possibilità di fare lauti guadagni dal commercio della droga, e al tempo stesso poter fiaccare la società cinese per poterne avere un controllo maggiore.
Questo portò la Cina a diverse spaccature interne, vaste aree del commercio dell’oppio furono subappaltate dalle compagnie britanniche a varie bande criminali che realizzavano i loro profitti con il traffico dell’oppio, muovendo spesso guerra allo stesso governo cinese attraverso armi acquistate dai britannici.
La crisi socio-economica arrivò a favorire la frammentazione della società cinese, e in conseguenza la nascita e lo sviluppo di rivolte contro le autorità cinesi, in seguito anche contro quelle occidentali, sorte in odio alle politiche economiche e commerciali occidentali.
Il disastro sociale che si produsse in Cina fu di proporzioni enormi, trascinandosi fino alla seconda metà del secolo scorso, tutto ciò come conseguenza delle politiche colonialiste e di penetrazione commerciale britanniche. I disordini e le rivolte interne in Cina assunsero dimensioni tali che tra il 1898 e il 1901 si decise per un nuovo intervento militare dell’Occidente (USA, Francia, Gran Bretagna, Italia, Germania, Giappone e Russia) intervennero a sedare le sanguinose rivolte interne, facendo più morti e danno delle rivolte stesse. Meno di un decennio dopo in Cina ebbe inizio una lunga serie di rivolte e conflitti sociali che nel 1911 portarono alla prima rivoluzione cinese, l’imperatore destituito, e in atto un cambio radicale che segnava la fine di un impero millenario.
Luca Cellini
Redattore ed editorialista di Pressenza. Da sempre antimilitarista, è stato obbiettore e attivista nella LOC, nel Movimento Umanista, con Greenpeace, e nel Social forum. Durante la guerra della ex-Jugoslavia, col progetto “Mir sada” promosso dai “Beati i costruttori di Pace”, si reca in Bosnia nei gruppi d’interposizione nonviolenta che tentarono di fermare il conflitto in atto. Fondatore del comitato Valdarno sostenibile con cui furono promossi progetti alternativi per una gestione virtuosa del ciclo dei rifiuti, realizzando sul tema incontri di formazione pubblici e per gli studenti nelle scuole superiori. Padre di due figli, appassionato di scrittura, s’occupa di controinformazione, di diritti umani, d’economia e di ricerca nel settore energetico. Attualmente attivo come volontario in associazioni impegnate nella lotta contro la tratta e lo sfruttamento minorile.
La domanda è lecita e provocatoria insieme. E, come si intuisce, riguarda innanzitutto l’immigrazione.
C’è stata una grande onda emotiva, e un ammirevole spirito di accoglienza in tutta Europa, verso gli oltre cinque milioni di profughi dall’Ucraina, ‘ariani’, ebrei, europei, comunque bianchi. Oltre tre milioni nella sola Polonia. Quel paese che, assieme ad altri e alle orde razziste di altri paesi democratici ancora, si è sempre opposto al criterio della redistribuzione delle poche decine di migliaia, dei rifugiati dall’Africa ed altri paesi asiatici. Immigrati questi, che continuano a venire, e a morire, per colpa della ostilità ad accoglierli. E sono, in tutto, ancora poche migliaia. In Italia 23 mila da inizio anno, a fronte dei 90 mila di analoghi periodi degli anni scorsi. Gente di colore, invece, questa.
Come di colore sono i messicani, che premono e muoiono sui muri, alla frontiera americana. Sono spariti dagli schermi tutti questi emigranti di colore. Solo una arida e rapida contabilità, se ne fa al massimo, e soloquando muoiono a gruppi, come il mese scorso in Messico, in Spagna, nel mediterraneo. Sì perché i singoli che muoiono da… soli, non esistono proprio.
Intanto i numeri. Proprio il caso dell’Ucraina, dimostra che la capacità di accoglienza dell’Europa, è molto più grande di quanto vogliono farci credere. Sul milione della pista balcanica che la Germania rischiava di dover accogliere, è stato fatto un gran casino fino alla splendida, costosa, in tutti i sensi, e brillante soluzione con la Turchia di quel bandito di Erdogan.
Poi il dato politico. L’immigrazione, soprattutto quella di colore, non è solo un problema per tutti i governi. È una grana. E lo è soprattutto perché molta popolazione, è stata istigata alla paura e all’odio. Gli episodi recenti più gravi e dolorosi, sono accaduti uno alla frontiera degli Stati Uniti a guida democratica, e uno a Melilla nella Spagna del socialista Sanchez!
Non che noi, in Italia, si brilli per spirito di accoglienza, viste le difficoltà che sempre si frappongono ad ogni sbarco, anche se Salvini ha smesso di abbaiare. Quella propaganda ormai gli rende poco più.
E dire che davvero, come si ripete sempre più spesso, l’immigrazione è tutt’altro che una grana, ma una importante risorsa. Intanto culturale, per quella contaminazione e per quello scambio, fra costumi, storie, sistemi di vita e di pensiero che é davvero un arricchimento reciproco, sempre. Qui, però, si va in un terreno troppo raffinato, per gli ottusi buzzurri che si oppongono, addirittura, allo jus culturae.
Ma sono anche una grande risorsa economica, come dimostrano molti parametri economici come il lavoro e la produzione (senza gli immigrati, dice Zaia, il Veneto crollerebbe), o il fisco e la previdenza.
È così evidente che abbiamo bisogno di loro! Anche di meticciato, aggiungo, abbiamo bisogno. Se no faremo la fine di quella nobiltà che, senza ricambio di sangue proletario, ha finito per subire un impoverimento genetico. Se poi si aggiunge che, come popolazione autoctona, non facciamo figli e invecchiamo, tutto è chiaro meno che agli ottusi ideologici ostili.
Eppure occorre dire, che il grosso dei flussi migratori dovremo ancora vederlo. Il più, o il peggio per alcuni, ha da venire. Il clima, la desertificazione, la fame e le 60 guerre in corso, sono tutte cause destinate a generare flussi migratori sempre più grandi.
E non ci potrà essere differenza fra bianchi e di colore.
Chi non vede questo vive nell’iperuranio.
Se però a non vederlo sono masse di popolo incapaci di ragionare, è un fatto grave. Ma se sono politici spregiudicati e inetti, di cui quelle stesse masse sono vittime, il grande problema sociale, economico e soprattutto umano dell’immigrazione, da grande diventerà enorme, con effetti ancora assolutamente imprevedibili
In copertina: A girl holds her young sister in a camp during a bore hole handing over ceremony in Kismayo, Somalia, funded by AMISOM on 6 December, 2014. AMISOM Photo / Ramadan Mohamed- licenza Creative Commons
Non si può ricordare la scrittrice Elettra Testi morta in questi giorni di giugno 2022 senza nominare il suo molto amato Giacomo Leopardi:
“La morte non è male: perché libera l’uomo da tutti i mali, e insieme coi beni gli toglie i desiderii. La vecchiezza è male sommo: perché priva l’uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti; e porta seco tutti i dolori. Nondimeno gli uomini temono la morte, e desiderano la vecchiezza“ (Zibaldone di pensieri).
Negli ultimi anni della sua vita Elettra Testi ha avuto tante malattie ed ha sicuramente sopportato tanto dolore. Gli ultimi ricordi di lei sono tristi. Era triste vederla anziana, camminare lentamente, profondamente piegata dal peso degli anni, il volto segnato dal dolore. Ma nonostante la sua grande fragilità, Elettra non ha mai perso la sua sottile ironia e la gentilezza verso gli altri. Con gli anni, la sua voce si è abbassata, confusa, difficile da capire. Però Elettra continuava a parlare parlare con gli occhi. Fino all’ultimo è stata per tanti una maestra indimenticabile.
Passo dopo passo la sua generazione, lagenerazione della grande stagione avviata negli anni Sessanta, scende dal palco dellacultura urbana di Ferrara. Oggi su questo palco c’è un’altra generazione, forse più libera, più capace di parlare al mondo attraverso i nuovi media, ma spesso pcocltail per iù noiosa, più più dipendente dal mercato e dal consumo, meno creativa.
Per la movida di via Carlo Mayr, forse ‘Leopardi’ è solo il nome di un nuovo cocktail per un aperitivo serale. Anche Elettra amava la vita, era piena di sentimento, coltivava il buon gusto, ma li accompagnava sempre con l’amore per la cultura, la letteratura, la musica classica.
Chissà, ora che sta dall’altra parte, potrà incontrare finalmente Paolina Leopardi, su cui Elettra aveva scritto un libro bellissimo.
Il vertice NATO in Spagna ha raggiunto tutti gli obiettivi americani per l’attuazione del new order europeo. L’alleanza militare atlantica stava perdendo significato dopo la caduta del muro di Berlino e qualche Paese aveva avanzato l’idea di poterla sostituire con qualcosa di diverso, tipo una forza di intervento europea. Il pericolo di una simile evoluzione sarebbe stata la perdita di presenza e quindi di potere da parte di quelli che ci avevano salvato da Hitler e dal nazismo. Pericolo rientrato.
In Spagna si è riaffermata la missione difensiva della NATO grazie al rinvenimento di un nemico che la storia aveva già allontanato verso Est di qualche migliaio di chilometri. Si è creata una nuova cortina di ferro che include i confini finlandesi che, con la Svezia, vanno a rinforzare quella che qualche analista ha chiamato la “NATO Baltica”, con il conseguente accerchiamento di Kaliningrad, e ad aumentare le tensioni nei mari freddi del nord Europa.
In Polonia sarà inaugurata una nuova base militare permanente USA, la prima in un paese ex Patto di Varsavia, a sottolineare l’importanza crescente di questo Paese che sta prendendo la guida dell’Est contro l’invasore russo allontanando dalla prima linea Germania, Italia e Francia.
Svezia e Finlandia sono state invitate nella NATO grazie al fatto che Erdogan ha tolto il veto dopo aver ottenuto da loro, come lui stesso ha precisato, “quello che voleva”, cioè che i curdi siano definitivamente considerati terroristi e quindi uno stop alla tolleranza nei loro confronti da parte dei paesi nordici. Insomma, oppositori e dissidenti curdi saranno i primi a pagare a caro prezzo gli accordi per la nuova NATO. Ma la Turchia ha ottenuto anche altro, nuovi armamenti dagli USA come gli F16, di rientrare nel programma F35 e di poter anche liberamente comprare missili dalla Russia. Tutto questo fa di Erdogan un grande negoziatore, rafforza l’idea di una presenza nell’Alleanza Atlantica strumentale agli interessi nazionali e ne accresce l’importanza come potenza e interlocutore privilegiato degli USA, anche a discapito del ruolo che dovrebbe ricoprire l’Italia nel Mediterraneo e nei Balcani.
L’Italia non ha mai saputo ritagliarsi nessun ruolo oltre all’essere pronta ad intervenire a chiamata dove, come e quando le viene chiesto. Questo fa di noi esclusivamente un fedele gregario. Siamo il Paese che subisce più di tutti le pressioni delle sanzioni contro la Russia, ma invece di pretendere qualcosa in cambio o tutelare in primis i nostri interessi strategici ed economici, come hanno fatto la Turchia e l’Ungheria, oppure bilanciando meglio dichiarazioni di prassi e acquisti di gas seguendo l’esempio della Germania, accettiamo e mettiamo in atto pedissequamente; salvo poi andare in giro per il mondo cercando di rimediare altrove “il gas perduto” e chiedere interventi concertati dell’Europa unita.
Insomma, dei bravi scolaretti, decisamente poco furbi.
Se si guarda la nuova cartina europea si vede quanto siano diventati importanti, nell’ottica di difesa russa, i confini bielorusso e ucraino, ad oggi gli unici che la dividono da installazioni e basi americane o NATO. Con l’ingresso della Finlandia si concretizza quel senso di accerchiamento che ha sempre caratterizzato l’immaginario russo. Le grandi potenze nella storia, e l’impero romano insegna, avevano sempre degli stati cuscinetto che contribuivano a rendere i loro sonni più tranquilli. Oggi abbiamo creato dei blocchi pericolosamente confinanti con una trincea moderna fatta di battaglioni rotazionali e aerei in grado di trasportare armi nucleari tattiche per attacchi veloci ad alta intensità.
In ogni caso sembra che nessuno voglia fare davvero la guerra a Putin, stando alle dichiarazioni che si concentrano su difesa e deterrenza. Di conseguenza si capisce che l’intenzione è quella di approfittare della guerra in Ucraina, da molti vista come la conseguenza di una vera e propria provocazione da parte americana e inglese, per ottenere una serie di risultati strategici.
Gli Stati Uniti hanno un impero da difendere basato su una moneta che è moneta di riserva e che oramai è sostenuta più dalla potenza e presenza militare che dall’economia. Per mantenere lo statusquo per qualche altro decennio e allontanare nel tempo il declino (la storia degli ultimi 500 anni insegna che fu lo stesso per il fiorino e l’Olanda, poi per la sterlina e la Gran Bretagna) hanno bisogno di aumentare il controllo sulla colonia più importante, l’Europa. Quindi devono aumentare la presenza militare e ribadire l’influenza che cominciava ad essere messa in dubbio, e per farlo stanno utilizzando le ragioni e le paure dei paesi dell’Est. Per compattare un’alleanza militare serve trovare un nemico, una minaccia oppure rinvigorire un vecchio nemico che in questo caso è lì, pronto al bisogno e allo scopo. Nel nuovo concetto strategico della NATO si legge che la Russia è “la minaccia più significativa e diretta alla sicurezza dei suoi Paesi membri” e che la Cina è “una sfida sistemica”, non tanto sul piano militare, quanto su quello tecnologico.
Quindi la vera strategia prevede che la Russia debba indebolirsi consumandosi dietro a questa guerra per indebolire, di conseguenza, il potenziale asse sino-russo. Una volta sistemato questo fronte, si potrà tornare a occuparsi a pieno titolo della sola Cina, la vera sfida all’impero dominante. Zhongguo, “il paese di mezzo”, come la chiamano i cinesi.
Sono passati solo 10 mesi da quando scrivevo della non opportunità a ospitare al Parco Giorgio Bassaniil Comfort Festival (Bellezza, Musica e Cibo), patrocinato da Amministrazione e Teatro Comunale di Ferrara e che lì si è svolto il primo fine settimana di settembre, ma anche qualsiasi altro tipo di eventi di questo genere.
Nelle ultime settimane di questo caldo e secco giugno molte associazioni ambientaliste e animaliste ferraresi, assieme a tanti singoli cittadini, hanno dato vita al comitato Save The Park in seguito all’annuncio del concerto di Bruce Springsteen, tappa ferrarese del tour in programma per il 18 maggio del prossimo anno, prevista proprio al parco Bassani.
Il comitato si è dichiarato contrario all’utilizzo per il concerto della parte pubblica del parco Urbano, al fine di preservarne l’aspetto faunistico e paesaggistico e per gli aspetti logistici particolarmente problematici che ne deriverebbero. Gli aderenti al comitato propongono una scelta alternativa a quella iniziale, l’area a sud della città dove sorge l’Aereoclub Volovelistico Ferrarese.
E’ l’ambiente del Parco Giorgio Bassani a comportare aspetti problematici e a non essere, non solo a mio parere e come più volte argomentato, il luogo adatto a queste iniziative e a qualsiasi altro tipo di eventi come quelli organizzati negli ultimi anni.
Il Parco Urbano, si rammenta ancora una volta, nasce dall’idea, legata al Progetto Mura, di “sistemare a parco un’area comunale quale naturale sviluppo della grande Addizione Erculea che ha fatto della nostra la prima città moderna d’Europa”, e che Paolo Ravenna, allora presidente di Italia Nostra, nell’ottobre del 1978, nell’ambito del Symposium internazionale di architetti e urbanisti tenutosi a Ferrara, aveva battezzato come Addizione Verde. Si tratta di un’area di circa 13 Kmq posta tra le mura nord della città e il Po, in seguito sviluppata (in particolare da una serie di interventi tra il 1995 e il 2000) attraverso un progetto affidato all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia nell’ambito di una convenzione stipulata con il Comune di Ferrara[1]. Nel marzo del 1979 Giorgio Bassani plaudiva alla proposta che, all’epoca, poteva “apparire come una semplice, deliziosa utopia, di collegare il perimetro dell’antico Barco del Duca sino a contatto col Po“.
L’architetto Giulia Tettamanzi nella sua tesi di dottorato[2], scrive più recentemente che la pur saggia scelta di tutelare il territorio del Barco, non ha costituito una ragione sufficiente per assegnare al Parco Nord lo stesso successo culturale e sociale del Parco delle Mura, non evolvendo oltre la semplice tutela, subendo l’operazione di valorizzazione culturale e funzionale un rallentamento. Il nodo della questione – afferma Tettamanzi – rimane la difficoltà contingente di adattare in modo efficace” l’area in questione “ai modelli di vita attuali”, e se un qualche sviluppo vi è stato, certamente non con la stessa determinazione e chiarezza di obiettivi, né con gli stessi risultati ottenuti nel restauro delle mura. E’ mancata una politica di valorizzazione capace di proporre una funzione sostenibile per il territorio, che dalle mura al Po oggi alterna campi coltivati a terreni incolti, campi da golf a zone grossolanamente attrezzate a parco urbano, aree con aspetto di naturalità, a un depuratore, a un ex inceneritore e, si può aggiungere, un campeggio comunale attualmente in disuso.
In un articolo del 2003[3]Stefano Lolli, oltre a descrivere questa situazione, ricordava come Bassani definisse la prospettiva di collegare le mura Nord e il Po una risposta morale ed estetica della città, e come chiedesse a Ferrara, alle sue associazioni culturali e alle istituzioni, non tanto coraggio, ma soprattutto idee chiare. Mentre si stava definendo il Progetto Mura, scrive Lolli, dal 1986 iniziò a prendere corpo la sistemazione a parco dell’area comunale di cento ettari che rappresentava il primo nucleo dell’Addizione Verde […] che è l’area ad uso pubblico limitrofa al Parco delle Mura e che oggi vede una destinazione e un utilizzo probabilmente non previsti nei progetti originari. In questa fascia sono insediate diverse “funzioni”: gli orti, il campo da golf (ampliato in questi ultimi anni verso nord), gli impianti natatori, anche questi di recente ricostruiti e ingranditi, il centro per il tiro con l’arco, il Centro Sportivo dell’Università, il campeggio, come detto oggi in stato di abbandono. Funzioni, afferma Tettamanzi, per le quali è mancato un progetto coordinatore che, soprattutto, proponesse chiari indirizzi quale luogo di interfaccia tra la città murata e la campagna coltivata2, e che ha portato, per quasi vent’anni, a un uso del Parco non compatibile rispetto alle finalità con cui era stato ideato, e che è “area di particolare interesse paesaggistico e ambientale”, come recita il Piano Paesistico Regionale.
Molte le considerazioni e le riflessioni che si potrebbero fare, ma non è l’obiettivo di questo scritto. Solo qualche riga può essere utile per citare le proposte più rilevanti rispetto al progetto originario che non sono state realizzate. In primo luogo la rinaturalizzazione dell’ex-discarica nei pressi della motorizzazione civile e relativa trasformazione a parco pubblico, poi la messa a dimora di alberi e vegetazione arbustiva molto più numerosa di quella attuale necessaria in quanto elemento capace di “contribuire ad abbattere i livelli di inquinamento dell’aria che incombono su Ferrara”, ma anche “la piantumazione di alberi da frutto al fine di dare all’area una valenza di orto o giardino, in sintonia con le radici storiche del Parco”, l’acquisizione, a nord dell’attuale spazio pubblico, tra via Canapa e via Gramicia, della fascia di terreno e dei fabbricati presenti, conosciuti come possessione Sant’Antonio, che avrebbe dovuto diventare, in seguito ad opportuna ristrutturazione, il Centro Servizi del Parco (con punto informazioni, ristorante agrituristico, noleggio biciclette, ecc.), dotato di personale (un direttore e due operatori) con funzioni di manutenzione e custodia, supportati da volontari quali guardie ecologiche e membri di associazioni ambientaliste e naturalistiche per la gestione delle strutture e delle attività tra cui la riconversione del terreno ad agricoltura biologica e rimboschimento. Infine la realizzazione, in diversi punti, di torrette di avvistamento della fauna e di osservazione del Parco. Un vero e proprio progetto orientato alla fruizione naturalistica del Parco!
Per finire credo che la costituzione di questo comitato sia una occasione importante per affrontare, assieme ad altre simili iniziative che hanno preso corpo più o meno di recente in varie parti del paese, la questione dell’impatto ambientale e sociale dei grandi eventi e del rapporto di questi con gli spazi naturali. Tema sempre più di attualità anche in relazione ai problemi sempre più stringenti e drammatici che tutti siamo chiamati ad affrontare e che sempre più interesseranno le vite nostre e delle generazioni future.
“Tra le cose che la società moderna ha danneggiato c’è sicuramente il pensiero. Sfortunatamente, una delle idee più danneggiate è quella di Natura. Come siamo arrivati a considerare quella che chiamiamo “Natura” come un semplice oggetto che sta lì da qualche parte? Dobbiamo per forza affidarci a teorie nuove e aggiornate, che poi ripropongono lo stesso concetto, solo in una versione più sofisticata e alla moda? Quando capisci che tutto è interconnesso, non puoi più aggrapparti all’idea di Natura intesa come oggetto solido e unitario: smette di essere una semplice presenza che se ne sta lì, fuori di te.”
Timothy Morton, Ecologia Oscura – Logica della coesistenza futura, LUISS University Press, Roma, 2021
[1] “Ferrara, Progetto per un parco”, Cluva Università, 1982.
[2] Giulia Tettamanzi, “Il Parco Nord a Ferrara. Un progetto aperto”, Quaderni della Ri-Vista. Ricerche per la progettazione del paesaggio, Firenze, University Press, n. 4, vol. 1, 2007.
[3] Stefano Lolli, “Il Parco Bassani”, in “Ferrara, Voci di una città”, n. 19, 2003.
Esco di casa, finalmente parto, prendo un treno dopo mesi di clausura forzata. Siamo ancora tutti mascherati, qualche colpo di tosse o soffiatura di naso che ancora insospettiscono e fanno girare istintivamente dall’altra parte. Mi accomodo, ho cercato, come sempre, una carrozza poco frequentata e un posto isolato, a costo immancabilmente più elevato, ma serve a poco, tutto pieno. Pieno di esseri umani vocianti e trafelati, carichi come somari, con tutto il rispetto per i somari, con valigie di una grandezza esasperata e spropositata. Mi domando sempre cosa mai si porteranno, e perché, forse stanno via mesi. Sarà che, da anni ormai, viaggio con bagagli leggeri, memore di tempi passati dove quei fardelli pesanti erano divenuti un incubo, pesi fatti di cose inutili e che sistematicamente restavano inutilizzate e chiuse nelle valigie.
Viaggiare leggeri credo che sia il lusso maggiore che ci si possa permettere, la fortuna è di chi ha la capacità di essere selettivo e indovinarci.
Dicevo, mi siedo e mi guardo intorno. Stesso spettacolo delle metropolitane, dei bus, dei parchi, dei giardini e, ahimè, spesso anche dei musei. Tutti chini sull’oggetto del desiderio, su quel telefonino attira-persona, o come lo chiamo io su quell’odioso e antipatico device, che ormai è una vera barriera a ogni scambio umano fatto di attenzione e ascolto. Nessun libro in vista. Rarissimi esemplari di bipedi ormai li sfogliano. Giornali tanto meno. Solo schermi. Non parliamo di bambini e ragazzini. Idem.
Tutti connessi, a mostrare quello che si mangia e si beve, a quanto si è felici e glamour, a come è bello il mare o la montagna, quella mania di presenza che ci allontana dal vero presente. Succede anche al ristorante, quegli schermi illuminati campeggiano sui tavoli, sempre a sbirciare, anche quando si parla, non esiste più un dialogo che non sia interrotto da un bip di WhatsApp, di un sms o di un e-mail urgente che necessita attenzione immediata, perché senza di noi il mondo non si salva o non va avanti. Tutti indispensabili. Diritto alla disconnessione? Siamo noi a non volerlo, a non esserne capaci.
Li odio, ammetto, li odio terribilmente, odio i telefonini e coloro che vi stanno sempre incollati. Appiccicati come la carta moschicida. Con lo sguardo perso e fisso di chi non vede quanto succede accanto.
È una presenza che diventa assenza, disattenzione verso colui che ti sta parlando che non viene puntualmente ascoltato, lo si capisce dalle risposte vaghe che si ricevono. A volte non sono da meno, e, allora, mi fermo.
Se avete visto il documentario su Netflix The Social Dilemma (se non lo avete fatto, ve lo consiglio) concorderete sul tipo di allarme e di controllo sulla e della nostra attenzione e delle sue motivazioni spesso commerciali, ma ciascuno di noi dovrebbe essere capace di fermarsi. Il cervello lo abbiamo, serve anche a quello, a farlo funzionare.
Basta onnipresenza, sempre e continua, alziamo gli occhi. Sempre di più leggo di persone che si prendono una pausa dai social network, non è semplice soprattutto per chi li utilizza per lavoro, ma va fatto. Bravi.
Stacchiamo gli occhi dal basso di uno schermo, guardiamo negli occhi la persona che ci sta di fronte, rivolgiamo lo sguardo al cielo per vederne le nubi o fuori da un finestrino del treno per cogliere la bellezza di alberi e prati.
Guardiamo intensamente il colore del mare e dei fiori, non importa se non li fotografiamo con un apparecchio di ultima generazione, la memoria farà il suo lavoro, quelle sensazioni resteranno per sempre nostre. Fermarsi a fotografare spesso fa perdere l’attimo, un attimo che si può fermare solo nella nostra mente. Perché la memoria e le sue sensazioni sono la sola vera ricchezza di ogni essere umano. Una sensazione che con gli anni si trasforma in un ricordo che diventa sempre più emozionante. Non è il posto che fa la differenza ma quel sentire che negli anni muta e spesso rincuora e conforta.
Guardiamoci intorno, allora, alziamo quella benedetta testa,cerchiamo i colori che nessuno schermo può darci, accarezziamo il nostro cane per sentirlo più vicino, allunghiamo la mano per sfiorare il capo di un genitore, di un nipote o di un nostro caro. Quella mano che è sempre sulla tastiera sia utilizzata per sfiorare, accarezzare, disegnare, dipingere, suonare, coltivare un orto, raccogliere un fiore, cucinare una verdura, ricamare, unirsi in preghiera per un salutare mudra di yoga.
Disconnettiamoci dalla finzione e ricolleghiamoci alla realtà. Su gli occhi, allora, via dagli schermi, sguardo dritto al cielo! Non è poi così difficile.
Sono rimasta folgorata per la prima volta dalla scrittura di Elettra Testi quando ho letto i suoi resoconti, brillanti ironici e ariosi, sul settimanale “Ferrara e Ferrara”. Erano gli ultimi mesi degli anni Novanta e io, che ero una cultrice della prosa brillante e appuntita con quello sguardo sempre un po’ inaspettato e personale di Natalia Aspesi e Alberto Arbasino, ho ritrovato nella scrittura di Elettra Testi ciò che più amo: lo sguardo personale e originale, la capacità di filtrare il mondo e la realtà che ci circonda con quell’autoironia e attenzione che rendono esemplari e degni di nota e di gustoso ascolto e lettura anche i dettagli apparentemente più piccoli dell’esistenza.
Ho pensato che una prosa del genere avrebbe meritato e coinvolto una platea molto più ampia di quella a cui era rivolta. Poi quello stile è stato per me uno dei primi stimoli a sperimentare una scrittura diversa da quella imperante fino ad allora nei quotidiani dove ho imparato il mestiere, che sembrava dovesse essere sempre un tutt’uno con il distacco e una forma di oggettività che lascia l’autore invisibile, dietro le quinte dei fatti e degli accadimenti.
Elettra, per me, è stata un punto di riferimento e uno stimolo a uscire dall’anonimato, a raccontare il mondo anche attraverso il filtro dell’esperienza e delle sensazioni personali. Un incoraggiamento che non ho mai avuto l’occasione di rivelarle e che non è da meno di quello di Gian Pietro Testa, suo compagno di una vita e mio caro e prezioso maestro della scuola di giornalismo.
Di lei ricordo sempre anche quell’attenzione solidale, femminile ed emancipata, ma attenta e sensibile. “Lavorare è importante”, ci teneva a ricordarmi quando, da neo mamma, la incontravo passeggiando con la carrozzina per le strade di Ferrara. Ci ho pensato spesso, alle sue indicazioni, domandandomi come avrei potuto continuare a conciliare la mia vita e il mio mestiere, che in quel momento era legato alla redazione della Gazzetta di Mantova, quasi cugina ferrarese, ma separata da un tratto lungo e faticoso di strada e di orari lavorativi proibitivi. “Il lavoro consente di fare le proprie scelte con libertà, senza quello non avrei potuto seguire la passione e vivere la vita che ho”, mi diceva.
Grazie per il sostegno e la condivisione determinante, così come per un’indicazione di stile che ha anticipato in maniera intelligente e acuta il tempo dei blogger e della comunicazione social.
Ad Elettra verrà dato l’addio sabato 2 luglio 2022, con partenza alle 15.15 dalla camera mortuaria e il trasferimento successivo in Certosa. Io non ci sarò, ahimè. In quello stesso giorno a poche ore di distanza sarò a Torino per la laurea del bambino che allora scarrozzavo tra via Carlo Mayr e via Scienze e che mi ha permesso di incontrarla poi sempre più spesso in questa sua città dove lei ha lasciato il segno. Il mio abbraccio si allungherà, enorme e stretto, a lei, a Gian Pietro e ad Enrico Testa, formidabile famiglia scrivente e pensante fuori da ogni conformismo.
Post scriptum La grande scrittrice Elettra collaborava a questo quotidiano fin dalla sua fondazione, era impossibile non volerle bene e non esserle amico. Al suo compagno di vita Gian Pietro, (per noi di ferraraitalia e per ogni giornalista ferrarese con “la schiena dritta”) un punto di riferimento, un maestro di ironia e irriverenza e un papà affettuoso e accudente, a suo figlio Enrico Testa, va il nostro cordoglio e la nostra vicinanza. Francesco Monini e la redazione di ferraraitalia /periscopio
“La disgrazia è una pianta dal legno resistente; a ficcarne un germoglio nella terra non c’è bisogno di occuparsene, cresce da sola, frondeggia, ne son piene le strade. Nel cortile dei poveri, poi, la disgrazia nasce in quantità, ma il popolino che abbia razza e coraggio sufficienti a far fronte a tanta disgrazia continua a vivere lo stesso.” Teresa Batista, una mulatta bellissima e appassionata, è una di quelle creature che con la disgrazia ci è nata e per lei la pianta è fiorita molto presto. Ha sempre vissuto con il peso del suo fardello senza dare mai importanza alla disgrazia. Per lei contava l’allegria, “pianta capricciosa, difficile da coltivare, che fa poca ombra, che dura poco e che richiede terreno concimato, né secco né umido, né esposto ai venti.”
Le era difficile piangere, testarda come un mulo, audace, temprata dalla vita fin da bambina, “cuore di burro” solo per chi amava totalmente. Questo è il ritratto di Teresa nelle pagine di “Teresa Batista Cansada de Guerra”, “Teresa Batista stanca di guerra”, il memorabile romanzo dello scrittore brasiliano Jorge Amado (1912-2001), pubblicato nel 1972. Orfana di entrambi i genitori, ancora ragazzina tredicenne era stata venduta dalla zia al temibile Capitano Justiniano Duarte da Rosa, diventandone la sua schiava sessuale. Dopo numerosi tentativi di ribellione e fuga da quella vita insostenibile pervasa da una costante paura, Teresa si innamorò del giovane Daniel, sfidando le ire del Capitano che finì con l’uccidere. Salvata dalla prigione dal fazendero Emiliano Guendes, passò a un nuovo capitolo della sua vita diventando la mantenuta del suo salvatore, il quale la istruisce e le offre l’occasione di riconsiderare la vita in un’ottica diversa.
L’epilogo di questo legame tra i due coincide con la morte dell’uomo e Teresa, alla ricerca del filo conduttore della propria esistenza lasciata fino allora in balìa degli eventi, decide di seguire il medico Oto Espinheira nel sertão, la zona del nord est del Brasile dove le condizioni climatiche proibitive alternano siccità a inondazioni improvvise. Ma la guerra di Teresa Batista non è ancora terminata e la “disgrazia” questa volta ha il volto del vaiolo. Un’epidemia rapida e devastante: “Fosse, casse da morto, pianto e lutto. Più tardi i tempi si restringono; non c’è più spazio per il pianto e la preghiera.” E in quei giorni di vaiolo nero, uno strano e sparuto battaglione di prostitute di quei luoghi, capeggiate da Teresa, si sparpagliarono per la città di Buquim e le campagne circostanti a somministrare il vaccino, lavare gli indumenti degli appestati e gli ammalati con il permanganato, scavarono fosse e seppellirono la gente. Soccorsero i contagiati cacciati dalle fazendas, in cerca di un lazzaretto, che morivano spesso in cammino.
Finita l’epidemia, Teresa Batista decide di esibirsi come sambista in un cabaret di Salvador de Bahia e in seguito diventa prostituta per “non essere costretta a simulare affetto al protettore di turno”.
La sua vita però non è destinata a concludersi in un bordello e l’occasione per darle una nuova traiettoria arriva con l’ordine della corrotta Amministrazione locale di traslocare le case di tolleranza dal centro alle periferie, in fatiscenti e malsane costruzioni di proprietà di un politico ingordo di guadagno e consenso popolare. ”Tutto il meretricio deve sloggiare dal centro e andare a installarsi nella Città Bassa ai piedi della montagna.” imponeva l’ordinanza. “Chi godrà delle buone grazie della polizia avrà facilitazioni e vantaggi, ma guai a quelli che fanno parte della lista nera!”
La donna non esita ad organizzare uno sciopero tra le prostitute, che ha il sapore di una vera e propria rivolta, e sui giornali compaiono titoli come: VIOLENTO CONFLITTO NEL MERETRICIO; IL TRASLOCO DELLA “ZONA” SI INIZIA A LEGNATE; I CAMION DELLA POLIZIA FANNO IL TRASLOCO DELLE PROSTITUTE A RUA DO BACALHAU, con tanto di fotografie. Un provvidenziale incendio di vaste proporzioni, di origini sconosciute (!), che divora nelle fiamme i vecchi casoni designati dalla polizia come nuova residenza delle prostitute cacciate da rua Barroquinha, riporta tutta la vicenda a ragionevoli soluzioni. E mentre Teresa Batista, una volta ritrovata un’apparente normalità, incontra inaspettatamente il suo primo e vero amore, Januario Gereba, sparito nel nulla e creduto morto, tutto sembra rientrare in una nuova e più giusta dimensione, un nuovo inizio, perché la guerra di Teresa Batista è definitivamente conclusa.
Chissà quante altre donne, Anna, Caterina, Nunzia, Irene, Giorgia, Piera, Olga… stanno combattendo la loro guerra, armata, personale, familiare, sociale, e sono stanche di guerra. Le loro storie magari non avranno i colori di eterno carnevale che Jorge Amado riserva alle donne del suo libro, come in una ballata travolgente, condita di elementi fantastici e realistici mescolati insieme, ma saranno sicuramente storie degne di una rispettosa attenzione, storie che meritano un epilogo che rende giustizia e colloca tutte le tessere al loro posto, lontano dalla guerra.
La vita è come un paesaggio. Ci vivi in mezzo ma puoi descriverla solo da una certa distanza.
(Charles Lindbergh)
La gente strana
La gente strana
scavalca i cancelli senza aprirli
non si porta via niente
dai sentieri che percorre
dice una parola inaspettata
rompendo l’acqua dello stagno
gente che fa notte
per guardare la luna
ballare un tango
ricordare un amore
gente di percorsi impervi
di difficili scelte
di viaggi al confine del mondo
scalate nei cuori e nelle abitudini
segreti condivisi doni senza ragione
gente che si specchia nell’altro
che tende la mano senza pretese
che si pone domande libera arcobaleni
gente che conosce il mondo
eppure sogna imprevedibili futuri
gente che possiede il canto le storie
che legge in biblioteche senza fine
che parla con gli sconosciuti
gli scomparsi i vinti gli dei
gente strana che quando muore
lascia il suo profumo nel mondo.
I luoghi
Non so in che modo
si lascino i luoghi
di colpo come li lascia
il vento o lentamente
scivolando in un’altra veglia
un brivido sulla soglia dell’oblio
o un graffio permanente nell’anima
ma la mappa di tutti si annida
in angoli sconosciuti
che un giorno faranno male
o in fonti che mi disseteranno,
saranno deserti di dune blu
mari profetici e città di specchio
rive ponti strade di continenti
affacciati sulle traversate
che ho osato
e saranno volti e voci
indistinte metafore
del mio ostinato cercare.
Giochiamo con l’assenza
Giochiamo con l’assenza
i volti che non ci sono più
le voci ormai solo musica
d’alberi e conchiglie
le passeggiate sul lungotevere
all’ora delle ombre lunghe
sotto le arcate dei ponti
i teatri coi vecchi palcoscenici
dove cercare il senso
il nostro letto disfatto la mattina
che ancora gemeva di abbracci
tutti i bambini che mi fecero
maestra e madre forse dimentichi
forse inferociti oggi dalla vita
i libri che ho perso nell’oblio
i versi che non ho scritto
giochiamo con le profezie non avverate
i destini stravolti
le terre che non conosco
le lingue che non parlo
accantoniamo le presenze
che ci hanno illuso d’essere
giochiamo con l’assenza
questo stupore della mancanza e dell’ignoto
su cui si accende a tratti
la nostra fiaccola segreta.
I versi per te
I versi per te li impasto
con la farina del corpo
con l’acqua del sorriso,
vi metto l’olio dei miei umori
la dolcezza delle labbra
e il sale di ciò che conosco,
per questo guizzano nell’oceano
giocando con le sirene provocano
il serpente nell’Eden e tessono
reti di luna spirali di conchiglie
per catturarvi quel bacio mai dato
quel sospiro di sesso inquieto
che ancora non abitiamo.
E anche le mie parole come le tue
non vestono solo inchiostro
metafore e a volte rime segrete,
sofferte nell’eco
di una detestabile lontananza
sono un frullare d’ali che danza
trasparenze un vento d’isole e vele
una donna bruna sul respiro del mare
per ricamarti di lusinghe il cuore.
Una palla di terra e acqua
Ho retto secoli di devastazioni terremoti
guerre prigionie la violenza efferata
dei crudeli degli stolti dei deboli
galoppo di cavalli imbizzarriti
carri armati ciechi aerei uccelli di morte
ho retto la rottura degli specchi
delle promesse dei patti
i piatti spezzati della bilancia
la giustizia rinchiusa in un bordello
la dignità mandata in fondo a un pozzo
la bellezza esiliata nelle terre del sogno
la storia triturata in un delirio di notizie fasulle
ho sopportato una scuola vascello fantasma
per bambini senza padri
per padri senza responsabilità
tante grida tanti perché
cui non si vuole rispondere
ho sofferto famiglie senza bussola
alla deriva in un gioco senza limiti
ho sostituito la maschera al volto
imbottito il corpo di veleni
lo spirito di ottuse obiezioni
ho perso per strada gli scopi le intenzioni
l’empatia soffocando tra spire la ragione
ho perso gli uomini inabili spettatori del disastro.
Sono solo una palla di terra acqua
e fuoco segreto nelle viscere
che gira senza senso nel cielo.
Grazia Fresu Nata a La Maddalena, Sardegna, dottore in Lettere e Filosofia all’ Università “La Sapienza” di Roma, specializzata in Storia del teatro e dello spettacolo. A Roma ha lavorato per molti anni come docente e ha sviluppato la sua attività di drammaturga, regista e attrice e dal 1998, inviata dal Ministero degli Affari esteri, si è trasferita in Argentina, prima a Buenos Aires e attualmente a Mendoza, dove insegna lingua, cultura e letteratura italiana nel Profesorado de lengua y cultura italiana, Facoltà di Lettere e Filosofia, della Università Nazionale di Cuyo. È poetessa, con quattro raccolte poetiche edite: “Canto diSheherazade”, Ed. Il giornale dei poeti, ROMA 1996, presentato alla Fiera del libro di Torino del 1997; “Dal mio cuore al miotempo” che ha vinto in Italia nel 2009 il primo premio nazionale “L’Autore”, pubblicato nel 2010 dalla casa editrice Maremmi- Firenze Libri; “Come ti canto, vita?”, Ed. Bastogi, Roma 2013; “L’amore addosso”, Ed. Bastogi, Roma 2016. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo “Canto degli speroni rossi”, Ed. Edigrafema. Ha realizzato molti eventi di narrazione e messo in scena i suoi testi teatrali con la sua e altrui regia. Collabora con la rivista online “L’Ideale” curando la rubrica di cultura e società “Sguardi d’altrove”, con il magazine “Cinque colonne” nella Terza Pagina con articoli di letteratura, arte, società e con “La Macchina sognante”. La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]
Una settimana fa si è svolto il secondo turno delle elezioni per l’ Assemblea legislativa in Francia. Giustamente si è detto che quell’esito elettorale segnala alcuni punti di forte novità nel panorama politico francese: 1 Macron perde la maggioranza assoluta e non potrà più governare da solo. 2 Viene avanti una forte affermazione della NUPES (Nuova Unione popolare, ecologica e sociale) guidata da Melenchon. 3 C’è una affermazione significativa della destra estrema di Le Pen.
Non tutti questi elementi possono, però, essere messi sullo stesso piano. A me pare che lanovità digran lunga più rilevante, dal punto di vista politico, sia la forte crescita della NUPES di Melenchon. Avanzo questo ragionamento anche perché, in modo che a me pare per nulla disinteressato, i nostri grandi media mainstream hanno presentato la vicenda elettorale francese come caratterizzata, in primo luogo, dalla sconfitta di Macron e, ancor più, dalla forte avanzata della destra.
Il raggruppamento elettorale di Macron Ensemble! ottiene il 38,6% dei voti e 245 seggi, ben al di sotto della maggioranza assoluta pari a 289 seggi, e, soprattutto, ne perde quasi un terzo rispetto a quelli che aveva nel 2017. Macron paga giustamente l’elitarismo sia delle sue politiche sia della sua immagine.
Il Rassemblement Nationaldi Marine Le Pen fa un grande balzo nei seggi assegnati (dagli 8 parlamentari del 2017 agli 89 di oggi), ma molto meno in termini percentuali (che continua a rimanere il dato più importante), passando dall’ 8,7% del 2017 al 17,3% di oggi. Un risultato che è il prodotto di due elementi: il sistema elettorale francese a doppio turno e l’inedito smottamento di voti centristi, dagli elettori di Macron a quelli degli eredi del gollismo di Les Republicaines, verso l’estrema destra.
Ilsistema elettorale franceseper le elezioni legislative funziona in termini tali che al secondo turno, quello che decide sull’elezione dei candidati ( a meno che al primo turno uno di essi superi il 50% dei voti), sono presenti quelli che al primo turno hanno superato le soglia del 12,5% e sostanzialmente si risolve in un pronunciamento tra il primo e secondo arrivato al primo turno. Ora, in questa tornata elettorale, per la prima volta, si è verificato che in numerosi collegi elettorali – circa 61- gli sfidanti erano rappresentanti di NUPES e della destra di Le Pen e, secondo quando ricostruito da Le Monde, solo “16 [candidati macronisti] hanno chiaramente fatto appello a votare per il loro ex-rivale di sinistra, e altri 16 a non votare il Rassemblement National”, mentre la maggioranza ha rifiutato di dare alcuna consegna ai propri elettori. Quello che è venuto meno, in buona sostanza, è stato il “fronte repubblicano” che ha funzionato fino al 2017, in base al quale, comunque, esisteva un argine e non si verificava un travaso di voti tra tutte le forze politiche centriste e di sinistra e l’estrema destra.
Anche alla luce di questa lettura, diventa evidente che il vero vincitore di questa tornata elettorale in Francia, è la NUPES di Melenchon.
Essa conquista 131 seggi rispetto ai meno dei 60 che le varie forze che hanno dato vita alla coalizione avevano nel 2017 e, soprattutto, in termini percentuali, triplica i propri consensi, passando da poco più del 10% di 5 anni fa al 31,6% di oggi. Soprattutto, ciò che emerge, senza sottovalutare le difficoltà incontrate e che si ripresenteranno nel dar vita ad una vera e propria alleanza coesa, è che attorno a NUPES si è coagulato un reale blocco sociale nuovo, composto dai settori sociali più deboli, dalla classe operaia al nuovo lavoro povero e precario, e da un ceto intellettuale, soprattutto giovanile e urbano, che fa sì che NUPES si afferma sia nelle banlieue che nei centri urbani importanti, nella classe lavoratrice così come nelle nuove forme del lavoro intellettuale.
Probabilmente questo è ciò che più spaventa l’establishment nostrano e d’Oltralpe, che, per questa ragione, preferiscono costruire una narrazione per cui lo scontro si gioca tra europeisti e modernizzatori contro il populismo antieuropeo e retrogrado della destra (salvo poi cedergli voti) oppure provando a dipingere il nuovo corso della sinistra francese come una variante di questo stesso populismo. Il punto è che, invece, una sinistra che si pone obiettivi radicali di redistribuzione del reddito, lotta alla precarietà, riduzione dell’orario di lavoro, rilancio del ruolo pubblico e dello Stato sociale, a partire dalle pensioni, prefigurazione di un modello produttivo che incorpori una giusta transizione ecologica (vedi [qui] il programma di NUPES) viene percepito dalle classi economiche dominanti e dalla politica che le sostiene come una reale minaccia alla prosecuzione alle politiche neoliberiste che, in varie forme, hanno costruito negli ultimi decenni. Da qui la necessità di ridimensionare chi si fa portatore di tali istanze, ma anche la non confessata ammissione che è in campo un’opzione alternativa potenzialmente forte e capace di mettere in discussione quelle politiche.
Questa considerazione mi aiuta anche a tornare alle vicende nostrane. Infatti, anche nel nostro Paese, diventa sempre più evidente che l’intreccio tra ricorso alla guerra e le sue conseguenze, crisi economica e sociale, crisi energetica-ecologica e sanitaria (che non è finita) assume sempre più l’aspetto di una crisi sistemica, che penso emergerà con ancora più forza nei prossimi mesi e può, almeno potenzialmente, indebolire, se non mettere in seria difficoltà, l’impianto fondato sul mix di centralità del mercato e neoautoritarismo del governo Draghi.
Una possibile avvisaglia di questo l’abbiamo vista in quest’ultimo periodo di tempo nelle vicende del ddl concorrenza. Esso ha concluso il proprio iter di discussione al Senato e ora passa alla Camera dei Deputati: in questo passaggio, quel provvedimento, intriso di un’impostazione di forte privatizzazione di tutti i fondamentali servizi pubblici e di ritrazione del ruolo del pubblico, ha mantenuto le sue caratteristiche di fondo, ma almeno è stato bloccato per quanto riguarda l’intenzione di ostacolare la gestione pubblica dei servizi pubblici locali, dal servizio idrico a quello dei rifiuti e altri ancora.
Infatti, l’art.6, quello che sanciva appunto tale scelta, è uscito riformulato dalla discussione in Senato e ora non prevede più le norme regressive che imponevano che, se un Ente locale voleva affermare la gestione pubblica di tali servizi, doveva passare attraverso la definizione di una relazione anticipata che giustificava la bontà di quella scelta rispetto al mancato ricorso al mercato e trasmetterla all’ Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, suggerendo, ovviamente, a quest’ultima di intervenire. Si è arrivati a quest’esito, ancora parziale e su cui occorrerà ancora vigilare, perché, nella voluta indifferenza dei grandi media, in realtà si è messo in campo un’efficace e importante iniziativa, promossa da numerose realtà e movimenti sociali, a partire dal Forum Italiano dei Movimenti per l’acqua.
Essa si è alimentata di vari ingredienti, che, messi insieme, hanno prodotto quel risultato: una mobilitazione sociale diffusa, con giornate di manifestazioni territoriali e nazionali, il coinvolgimento degli Enti locali territoriali (sono stati più di 60 i Consigli comunali e regionali che hanno approvato ordini del giorno per lo stralcio o la modifica dell’art.6, tra cui quelli di Torino, Milano, Bologna, Roma, Napoli e molti altri ancora), un’interlocuzione importante con le forze politiche più sensibili ai temi avanzati, dai gruppi parlamentari di LEU a quelli di ManifestA e Alternativa, da Sinistra Italiana e Rifondazione Comunista al M5S, almeno in parte, che hanno fatto breccia anche in una certa “debolezza” del governo Draghi, interessato, alla fine, a presentare più un risultato di immagine che di sostanza all’UE.
Senza adesso menare trionfalismi, né illudersi che quanto prodotto sia una ricetta valida per tutte le battaglie da compiere, rimane il fatto che il governo ha dovuto fare marcia indietro su una questione di una certa rilevanza. In ogni caso, come recita il proverbio, “se una rondine non fa primavera”, cerchiamo, però, di lavorare perché effettivamente ci sia un cambio di stagione.
Cover: 2013, Jean-Luc Melenchon a Tolosa, giugno 2013 (Wikimedia Commons)
Partendo dalla sua storia personale, Nicoletta Cosentino ha costruito percorsi di riscatto, di giustizia e di affermazione per tantissime donne. Sono le Cuoche Combattenti del suo progetto di cucina sociale, lanciato grazie al sostegno della rete antiviolenza e del microcredito di Banca Etica.
Palermo – Un piccolo laboratorio profumato in piazza Generale Antonio Cascino a Palermo dal quale escono profumi dolci, anche se dentro ci lavorano donne molto determinate a riprendere in mano la propria vita. Cuoche combattenti è il progetto di imprenditoria sociale nato grazie a Nicoletta Cosentino e al suo percorso al centro antiviolenza Le Onde Onlus, avvenuto dopo la sua separazione con il marito.
L’obiettivo del suo progetto è quello di favorire l’emancipazione economica delle donne vittime di violenza di genere. L’impresa sociale si muove nel concreto dando a queste la possibilità di allontanarsi da ambienti malsani e di porsi in un’ottica lavorativa attraverso il recupero, la produzione, la commercializzazione di ricette popolari tradizionali. Dal suo laboratorio artigianale nascono conserve e prodotti da forno, su tutti c’è l’etichetta antiviolenza e cioè dei messaggi che possano arrivare alle mani e al cuore di donne che stanno subendo violenza domestica.
«L’idea che avevo era realizzare qualcosa di forte, che arrivasse in casa di tante donne con un messaggio che le colpisse perché percepissero che sono vittime – spiega Nicoletta Cosentino –, poiché molte purtroppo non se ne accorgono. Io adesso so che voglio combattere la violenza sulle donne».
«Dopo la separazione io stessa ho fatto un percorso su me stessa che mi ha reso consapevole di quello che ho vissuto e di quello che vivono tante altre donne. Sempre grazie al Centro Le Onde Onlus ho svolto un tirocinio formativo in un laboratorio dolciario, dove ho riscoperto la mia passione per la cucina e mi sono innamorata del mestiere della produzione».
Nicoletta aveva voglia di proseguire quel cammino sulle proprie gambe e così ha cominciato la ricerca di finanziamenti che l’aiutassero nella fase di start up. Partecipa a un corso sull’imprenditorialità dove le insegnano a stilare un business plan e a tenere la contabilità, poi grazie a Banca Etica riesce ad accedere a un finanziamento di microcredito e da qui spicca il volo verso la libertà e l’autonomia, aiutando e accogliendo donne in tirocinio formativo che come lei hanno fatto un percorso al centro antiviolenza.
«A settembre 2017 ho cominciato la prima produzione a casa mia, da sola», continua Nicoletta. «La salsa di pomodoro pensavo di farla solo per casa mia e invece si è magicamente trasformata nella salsa di Cuoche combattenti. Nel 2019 ho aperto il laboratorio. L’etichetta antiviolenza è rivolta alle donne per smascherare gli abusi e rinsaldare l’autostima. Sono diversi i messaggi, tra i miei preferiti c’è “chi ti ama, ama anche i tuoi difetti” perché credo sia profondamente vero. Poi amo molto il nostro motto che è “mai più paura, mai più in silenzio, non siamo vittime ma combattenti”».
«Di solito purtroppo quando si parla di violenza domestica si pensa alla violenza fisica e alle botte, invece spesso è invisibile, ti rende fortemente insicura, senza autostima; avviene quando l’altro non fa altro che denigrarti, non necessariamente con insulti verbalmente violenti ma in modo subdolo con una sottile ironia che minimizza il tuo valore, la tua intelligenza e il tuo impegno».
“Volevo realizzare qualcosa di forte,
che arrivasse in casa di tante donne con un messaggio
che le colpisse perché percepissero che sono vittime.”
Questo lentamente sgretola l’autostima delle donne: «Entrati in questo circolo poi c’è la violenza economica, perché si porta la donna a non lavorare più, e poi c’è l’isolamento da parte dell’abusante, che ti allontana dai familiari e dagli amici. Quando sei dentro queste dinamiche non è facile percepirlo».
«Esistono diversi tipi e diversi gradi di violenza – aggiunge –, io avevo difficoltà a separarmi ma non mi vedevo come vittima perché ho avuto sempre un carattere forte. Quello che consiglio sempre alle donne vittime di violenza è senz’altro di denunciare sì, ma di farlo con il supporto di un centro antiviolenza, perché così si denuncia nel modo giusto».
Le denunce fatte di impulso infatti spesso vengono ritirare, invece il centro antiviolenza ti aiuta ad avere un piano, a pensare e capire. «Quando ho messo piede al centro antiviolenza ho raccontato la mia vita e, per la prima volta, mi sono percepita come vittima; da lì ho cominciato a combattere».
Italia che Cambia “Italia che Cambia” è una testata giornalistica. Vogliamo creare strumenti che mettano insieme tutti gli attori silenziosi di quell’Italia che esiste ma che attualmente è invisibile dall’esterno, perché ignorata dai mass media. Vogliamo raccontare e rappresentare quei milioni di cittadini fino ad oggi esclusi dai circuiti informativi, offrendogli allo stesso tempo una serie di servizi fondamentali alla valorizzazione e alla messa in rete delle loro azioni. www.italiachecambia.org
Se amate il mare, se avete ancora un sogno da spendere, se credete che la fantasia aiuti a vivere nella realtà… se vi piacciono le storie, sempre a patto che l’autore sia bravo a raccontarle… se nel fuoco di questa estate di guerra cercate la pace, un po’ di acqua, un vento nuovo che gonfi le vele… ecco un incontro che non potete assolutamente perdervi !
La Biblioteca Popolare Giardino vi invita alla presentazione di un libro affascinante
«Le Isole Dei Sogni Impossibili» dello scrittore e giornalista venezianoRiccardo Bottazzo dialogherà con l’autoreSergio Levrino
Vi aspettiamo Venerdì 1 luglio 2022 ore 21.00
Presso la Sala Polivalente di Vle.Cavour 189 (piano terra del Grattacielo) Ferrara
L’isola che c’è, quella che c’è stata, quella che non c’è più, quella che ci sarebbe: tante sono le isole che si intrecciano in questo libro.
.“Molto spesso sono giochi che sfuggono di mano, alcune volte tentativi di rendere concrete le utopie (libertarie, pacifiste o egualitarie), altre volte approdi di uomini in fuga da demoni antichi che, non di rado, riescono a raggiungerli. Sta di fatto che quasi tutte le storie di isole conquistate terminano con una sconfitta, eroica o farsesca. Del resto, come scrive Riccardo Bottazzo, “l’isola è immersa dal mare e nel mare, prima o poi, tornerà a inabissarsi”. Ma poiché “l’acqua non divide ma unisce le isole”… questa unione marina è alla base di quello che lui ha fatto in Le isole dei sogni impossibili (Il Frangente, 2022), una raccolta ricchissima di storie di circa cinquanta isole, grandi e piccole, immaginarie e reali, abitate o abbandonate, che hanno come comune denominatore il tentativo umano di dominarle per crearci un nuovo mondo” Tratto da: Joshua Evangelista, “Le isole dei sogni impossibili”, pubblicato da Frontiere News del 22.06.
L’autore
Riccardo Bottazzo è nato a Venezia, dove si ostina a risiedere, è giornalista professionista. La sua formazione scientifica lo ha portato a occuparsi di tematiche ambientali e a viaggiare in tutto il mondo per raccontare su quotidiani italiani e stranieri le battaglie, per lo più sconosciute, in difesa della propria terra da parte di popoli come i Waorani dell’Amazzonia equadoregna, gli Himba della Namibia e i Mapuche della Patagonia. Ha scritto reportage dalle zone di guerra, dall’Iraq, dalla Palestina, dalla valle della Bekaa, tra il Libano e la Siria. È stato osservatore ONU nelle prime elezioni libere dopo la guerra civile a El Salvador. Viaggiare per lui è uscire di casa e raccogliere storie, anche quelle che non tutti vogliono raccontare e che tanti preferiscono non ascoltare. Ma la sua grande passione rimane il mare e per vederlo sorridere basta infilarlo in una barca o portarlo su un’isola. È velista e istruttore subacqueo federale e ha svolto diverse ricerche archeologiche nella laguna.
Il Libro Riccardo Bottazzo, Le isole dei sogni impossibili, illustrazioni di Roberto Bottazzo, Verona, Il Frangente, 2022. Il libro è disponibile in tutte le librerie d’Italia o acquistabile sulle librerie on line e sul sito dell’editore ll Frangente. Naturalmente – questo è il consiglio della Biblioteca Popolare Giardino – la cosa migliore è comprarlo direttamente la sera della presentazione con la firma autografa dell’autore.
Cover: disegno a colori di Roberto Bottazzo realizzato per illustrare il volume.
Due azioni in una (il detto popolare direbbe “prendere due piccioni con una fava”), leggere e piantare semi, due azioni che fanno crescere ed evolvere, insieme, a braccetto, come due amici di sempre. Le iniziative si moltiplicano, ma una, in particolare, ha fatto partire l’onda. Quelle onde benefiche salutari e che tanto ci servono, quelle ondate di idee fresche. Quando si parla di alberi, boschi, semi, piante, fiori, foglie e foreste (e orti e giardini), poi la mia immaginazione, curiosità ed entusiasmo volano, non hanno più freni. Sono verde di animo.
Il racconto riguarda un vero e proprio viaggio nella giungla ecuadoriana. Avventuroso e avvolgente, coinvolgente. Una di quelle avventure che tutti vorremo vivere. Questa casa editrice innovativa sostiene che tutto ciò che leggiamo fa parte della nostra biblioteca mentale e di ciò che siamo come persone. I libri che leggiamo si radicano in noi e ci trasformano, ci fanno crescere e cambiare. Il libro allora diventa come un albero che viene piantato e che si sviluppa insieme a noi. In particolare, questo libro speciale è stato progettato per incoraggiare i bambini alla lettura e al rispetto dell’ambiente. Le copie di questo libro, innocente e simpatico, sono state realizzate con carta riciclata e inchiostri biodegradabili. Nella bella e accattivante copertina sono stati inseriti dei semi di alberi che potranno dare origine a nuove piante quando i libri verranno piantati. Crescono gli alberi come crescono i bambini. Una bella e ricca, oltre che originale, analogia.
Gli autori sono Anne Decis, illustratrice francese classe 1969 (grande anno, il mese di luglio in cui Anne è nata poi…), eGusti, illustratore-viaggiatore argentino classe 1963, che si sono occupati delle immagini e del racconto. Due anime curiose e creative.
Tra i semi nella copertina del libro vi sono quelli di jacaranda, un albero fiorito, dalle foglie pinnate, tipico delle regioni tropicali e subtropicali del Centro-Sud America, Sud Africa e dei Caraibi, che può raggiungere anche i 30 metri di altezza.
“Un giorno mio papà mi ha raccontato di essere stato in una foresta che è la madre di tutte le foreste…”, la storia è narrata da Théo e parla di un vero viaggio nella foresta amazzonica. Un pretesto per parlare della distruzione ambientale, della diversità culturale e del rispetto verso tutti gli esseri viventi. Le illustrazioni, insieme alle foto autentiche e alla scrittura realizzata a mano, contribuiscono a ricreare il diario di un bambino che vive in città, pieno di fatti interessanti, avventure ed emozioni.
Come piantare la carta che può dar vita a bellissimi fiori? Basta stenderla in un vaso o in un giardino sul terriccio, coprirla con circa 3 centimetri di terra, darle ogni giorno un po’ di acqua e dopo circa una settimana germineranno le prime piante. Il momento migliore per piantare all’aperto è da marzo a novembre. All’interno la carta può essere piantata in vaso tutto l’anno.
Da 53 anni, nel giorno più lungo dell’anno, compio la tradizionale ri-scoperta delle scarpe di nozze e le spolvero, le lucido perché emblema fisico di una lunga felicità.
Sono di un marchio famoso conosciuto in tutto il mondo e che aveva sede proprio qui a Ferrara. Noi ragazzi sapevamo che nel momento che si calzavano quelle scarpe s’entrava nella maturità. A maggior ragione erano state scelte per far parte del mio vestito ‘nuziale’.
Sfogliando l’album delle foto scattate in quel giorno da un bravissimo artista mio amico che indugiava sul velo di mia moglie, sulle mises delle amiche, sui volti noti e sui parenti, le scarpe mai venivano inquadrate, ma si presero la loro pesante vendetta.
Il tempo minacciava acqua a catinelle e freddo intenso. Fu necessario prenotare perciò in due posti: un giardino in un palazzo storico del centro o il salone di un albergo.
Vinse il sole e, dopo il rito religioso, ci si avviò a gruppi, poiché c’erano quasi 300 persone nel giardino dove, tra chiacchere, brindisi e discorsetti falsamente semplici degli amici intellettuali, si procedette al taglio della torta e infine alla distribuzione dei confetti.
Così raggiante di felicità chi scrive queste note s’avvia baldanzoso al centro della pista ed ecco hop-là! la capricciosa calzatura si prende la sua vendetta ed io rovinosamente crollo a terra, ma con un ultimo, eroico tentativo sollevo il cesto dei confetti sopra la testa, salvandolo da una distribuzione non conveniente delle dolci mandorle.
Scoppia un lungo applauso ed io, ormai novello Cyrano de Bergerac, “al fin della licenza io tocco”, cioè ricomincio a dispensar confetti.
Appena a casa, mentre ci si rivestiva per partire, scaglio al grido di ‘maledette!’ le scarpe in un angolo e mi rifugio in quelle bicolori, che lo zio generale mi aveva regalato come segno di massima eleganza.
E cominciarono 53 anni (+7 di fidanzamento) di amore, amicizia, rispetto, connivenza e, se posso usare una parola terribilmente pericolosa, di felicità con la mia Doda.
Ieri sotto la canicola, alla ricerca delle rose rosse di rito pensavo, attraverso l’uso della proustiana memoria involontaria, quale tremendo e affascinante strumento sia quello del ricordo, arma a doppio taglio, che solo la ‘direzione’ che il protagonista deve e può dare – la massima tra i doni che come sapevano gli antichi e il mio adorato Cesare Pavese – t’avvicina al destino degli dèi.
Così rispolvero le scarpe, allungo una carezza alla vestaglia di seta, che ancora posseggo e uso, riguardo la cravatta, ovviamente fiorentina, e ripongo con cura il fazzoletto di seta grigia appartenuto a una ava di mia moglie e che abbiamo prestato ai nipoti quando si sono sposati.
Ritorno poi alle letture consuete: Goliarda Sapienza [Qui], di cui sto elaborando un saggetto, il librone di Umberto Eco [Qui] sugli scritti sull’arte, i saggi di de Fallois su Proust.
Poi mi rilasso a leggere articoli profondi e briosi di Francesco Merlo [Qui] ( straordinario e veritiero il racconto della spaccatura tra i 5s) della ‘unica’ Natalia Aspesi [Qui] e dall’iconico MS (Michele Serra [Qui]).
E poi chi si perde le demenziali cantate dei canzonettisti di moda sulle tv generaliste e oltre?
Dichiaro poi pubblicamente – anche se questo giudizio nella mia ahimè città conta nulla o poco – che sono contrario all’uso del parco Bassani al concertone del boss dei boss della musica leggera. Ovviamente per le mie sbagliate o meno scelte ambientaliste.
Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubricaDiario in pubblicoclicca[Qui]
Questo è il commento diffuso da Tarah Demant, di Amnesty International Usa, alla notizia che la Corte Suprema ha annullato la sentenza Roe v. Wade:
“Oggi è un giorno triste nella storia degli Usa. La Corte Suprema ha annullato il diritto di abortire. Milioni di persone che resteranno incinte non potranno prendere decisioni profondamente personali riguardanti il loro corpo, il loro futuro e il benessere dei loro familiari”.
“Le persone saranno costrette a partorire o a cercare di abortire in modo insicuro. Ecco il risultato di decenni di campagne per controllare il corpo delle donne e delle ragazze. Ed ecco aprirsi la strada per una criminalizzazione senza precedenti, a livello di leggi statali, dell’aborto”.
“A prescindere da quanto possa dire la Corte Suprema, l’aborto resta un diritto umano e gli stati idi ogni parte del mondo sono obbligati a rispettarlo. Una vasta maggioranza degli americani e delle americane la pensa allo stesso modo e dissente dalla sentenza”.
Della voce (e non solo) si fa spesso un uso sguaiato, come se il pensiero, la riflessione non dovessero precederla e accompagnarla. Ecco dunque che vale riflettere con una velocissima scheda sul modo nel quale voce e vocalità appaiono e si manifestano nel nostro più grande autore moderno, nato e scomparso nella seconda metà di un lontano mese di giugno.
Chi si stupisse perché la parola voce appare nelle migliaia di pagine dello Zibaldone soprattutto nel senso di rimando lessicografico, voce da dizionario per studiare l’etimologia delle parole e ricostruirne il senso, mostrerebbe di non conoscere la complessa figura di Leopardi. Che era capace di unire la passione per il sapere, il rigore della ricerca filologica, a una dispiegata vocazione al canto.
Sarà nella sua opera poetica che dovremo muoverci per trovare un’altra voce che niente ha a che fare con un lemma: una voce che corrisponde all’intonazione, al timbro proprio ad esseri amati e scomparsi, o che modula nella notte canti che nel silenzio diventano subito di malinconia e abbandono.
Dalla voce collettiva che nella canzone All’Italia consentiva di serbare memoria dei caduti alle Termopili, da quella della libertà che risuona in Sopra ilmonumento di Dante, da quella antica degli avi dell’Angelo Mai, si arriva presto alle voci “care al cuore” del Primo amore (più tardi di Consalvo), soprattutto alle voci di Silvia, di Nerina.
Non poter vedere gli occhi, non potere udire la voce che una volta risuonava nelle stanze di Recanati (dunque del mondo): è così che Leopardi parla dell’interruzione dei rapporti e dell’esperienza del morire. La voce del tempo (quella che ridesta il finito nell’Infinito) porta via la vita, e con quella ogni possibilità di dar senso al cosmo.
E dunque il poeta non potrà che levare alta la voce (così anche nelle Operette morali, nel Dialogo della Natura e di un Islandese) per accusare l’arcana forza generatrice e chiederle ragione dell’assurdità e crudeltà dell’esistenza.
Sarà una voce, la sua, che, nata dal “dolor mio nel sentire”, sarà capace di distinguere il canto delle erbe nel mattino, di riconoscere le voci (Leopardi nello Zibaldone aveva riflettuto sugli organi della fonazione e sulle tonalità), distaccandole dal silenzio assordante, dall’indifferenza opposta dalla Natura. E così la sua voce, ora vibrata, ora sommessa, ma sempre ferma e decisa, continua ripetere, mai stanca di denunciare.
Mentre l’altra voce, il suono della poesia, offre parole, ritmo, perfino paradossale e solidale consolazione, in liriche che trovano senso e ragione nel vagheggiamento del perduto e in un’ininterrotta invettiva.
Per altro la voce della sua poesia non doveva discostarsi troppo dalla voce reale, se ci arrischiamo a stabilire un rapporto tra la vocalità che emerge dai versi e il suono vivo percepito da chi ebbe modo di ascoltarlo.
Racconta De Sanctis, che lo aveva incontrato alla scuola di Basilio Puoti, che Leopardi “parlava gentile e modesto”. L’amico Ranieri ricorda che la sua voce, quando era ormai prossimo alla morte, era “fioca”, eppure pronta a disputar “dolcemente”. Il fatto è che Leopardi aveva cercato, attraverso una voce diventata poesia, la durata di un io che solo nella scrittura della voce poteva trovare modo di continuare ad esistere. Un grido di protesta e pietà, una voce che, giunta fino a noi, dopo l’invettiva, prima del suo scioglimento, ancora rompe il silenzio (l’assenza di voce) dimostrando che è possibile la fusione di bellezza e verità.
Vado in Vietnam tra pochi giorni e mi porto un viatico piccolo piccolo fatto soprattutto di parole. Parto con la decisione a rinunciare alle mie amate abitudini per due settimane, a sovvertire orari e attività. A non incominciare la giornata con l’adorato caffelatte.
E in cambio? Avrò la conoscenza di un altro luogo di questo pianeta, almeno in qualche sua parte. Parto armata di curiosità e di un po’ di parole.
Oggi navigando in Internet ho guardato l’alfabeto della lingua vietnamita, in attesa di sentire i suoni dei parlanti una volta arrivata a Hue, la città a cui è diretto il nostro gruppetto di sei amici. Il nostro è un viaggio a scopo benefico, andiamo alla inaugurazione della nuova ala di un orfanatrofio gestito dalle suore cattoliche dell’Ordine della Santa Croce in quella bella e antica città.
Ho anche ripreso in mano il manuale di linguistica generale su cui ho studiato all’Università, il famigerato manuale di linguistica teorica di John Lyons [Qui], per scoprire che la lingua vietnamita più ancora di quella cinese è una lingua agglutinante, vale a dire che le sue parole sono per lo più invariabili. Dovrò scoprire quale relazione intrattengono con le cose.
Per ora ho scoperto che il sistema di scrittura è basato sulla lingua latina e che vi sono segni aggiuntivi per dare i toni di ogni parola o per creare suoni in più. Allora non posso vantarmi di conoscere nemmeno quelle tre o quattro parole apprese finora perché potrei pronunciarle malamente: sono il nome di donna Huong, che significa ‘Rosa’; la strada in cui alloggeremo di passaggio ad Hanoi, la celebre Hang Gai o strada della seta; alcune belle località del Vietnam centrale tra cui Hoi An, dove la –o reca sotto e sopra i segni diacritici di cui parlavo prima: come si pronuncerà?
Come d’abitudine prima di ogni viaggio ho consultato una guida turistica e ora mi ballano nella mente immagini e nomi che aspettano di diventare esperienza. Pronuncio a voce alta le località che interessano il nostro itinerario, ma sono di nuovo incerta, forse non ho emesso i fonemi giusti.
Tuttavia mi fido della Letteratura come fonte di conoscenza e nel dirlo faccio contenta Michela Murgia, che anni fa al Festivaletteratura a Mantova ha bene argomentato questo suo invito rivolto al pubblico e in me ha trovato una porta aperta.
Mi fido delle storie raccontate nei libri e ritengo di avere cominciato a entrare nell’universo della storia vietnamita con la lettura di Quando le montagne cantano, l’opera prima della giornalista e poetessa Nguyen Phan Que Mai [Qui], uscita in Italia nel 2021, che ricostruisce la storia del Novecento vietnamita attraverso le vicende di una famiglia e delle sue figure femminili.
Ero al liceo nei primi anni Settanta durante la guerra per antonomasia, la guerra del Vietnam, che tanti reportage e articoli e film hanno raccontato dal punto di vista degli USA e un po’ meno da quello vietnamita. Cosa che fa questo bel romanzo, in cui la nonna Dieu Lan e la nipote Huong affrontano con forza interiore guerre e verità una più difficile dell’altra sui destini individuali e sulla storia del loro paese.
Ho rispolverato anche un vecchio manuale di Geografia che risale all’inizio della mia carriera alle scuole medie e ci ho ritrovato delle comode schede dedicate alla cultura religiosa del paese e un approfondimento sul periodo coloniale francese, durato dalla fine dell’Ottocento al 1954.
Ma voglio ritornare al nome Rosa, cioè Huong, che fa da filo conduttore in questa carrellata di pensieri. Deve essere un nome di donna abbastanza diffuso pure in Vietnam, difatti porta questo nome anche la guida che nei primi giorni di luglio ci farà visitare la Cittadella di Hue e ci accompagnerà verso sud a Danang e dintorni.
E siccome non c’è il due senza il tre, Rosa è il nome di una delle due protagoniste del libro scritto a quattro mani da Pif [Qui] e da Marco Lillo[Qui] che è uscito nel maggio 2021. Ho appena finito di leggerlo e l’ho appoggiato sui due volumi vietnamiti, la guida turistica Mondadori e il romanzo in cui le montagne cantano. Alla fine, pur nella loro diversità, li lega strettamente uno all’altro un nome odoroso di donna.
Le sorelle Savina e Maria Rosa Pilliu sono, come recita il sottotitolo, Due donne sole contro la mafia e sono le protagoniste di Io posso, uscito presso Feltrinelli, che racconta la storia trentennale della loro resistenza ai soprusi subiti dalla mafia.
Due sorelle coraggiose che a Palermo negli anni novanta del secolo scorso hanno subito un grave danno alla loro casa a causa della costruzione abusiva di un vicino palazzo di nove piani e che fino ad ora non hanno ancora ricevuto un equo indennizzo dalla giustizia italiana. Di più: quello stesso stato che non le ha mai riconosciute come vittime di mafia ha di recente chiesto loro il pagamento delle tasse sulla somma loro dovuta come risarcimento, che però non è mai arrivato.
“Se Kafka conoscesse questa storia direbbe che è troppo”, è il commento di Pif.
Aggiunge Marco Lillo: “Nel palazzo tirato su a danno della casa delle Pilliu hanno abitato i pezzi grossi della vecchia e della nuova mafia, per esempio c’è stato Giovanni Brusca, colui che ha schiacciato il telecomando nell’attentato di Capaci”.
E loro intanto, le due sorelle, imperterrite a dire no in tutti questi anni: non vendiamo la nostra proprietà al costruttore colluso con la mafia, non lasciamo il nostro negozio né la nostra città.
Anche di un libro-inchiesta come questo, il cui taglio giornalistico nulla toglie al racconto dei fatti e sa essere venato di ironia e di anche di emotività, mi fido.E mi piace che il ricavato delle vendite sia destinato a coprire quei 22 mila e 842 euro di tasse che gravano sulle sorelle.
La motivazione è spiegata molto bene dai due autori nella penultima pagina del libro: “In fondo abbiamo pensato che lo Stato non è solo la prefettura che ha detto no alla loro richiesta di risarcimento. Non è solo quel giudice amministrativo che ha dato ragione a Pietro Lo Sicco nel 1995. Non è nemmeno quell’assessore che ha concesso la licenza a un costruttore sapendo che non ne aveva diritto. Lo Stato alla fine siamo noi. Noi che scriviamo questo libro e voi che lo state leggendo”.
Nota bibliografica:
Nguyen Pan Que Mai, Quando le montagne cantano, Editrice Nord, 2020 (traduzione di Francesca Toticchi)
Pif, Marco Lillo, Io posso.Due donne sole contro la mafia, Feltrinelli, 2021
John Lyons, Introduzione alla linguistica teorica, Laterza, 1975
AAVV, Il nuovo libro Garzanti della geografia, vol.3, 1980
Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di carta, clicca [Qui]
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