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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


DIARIO IN PUBBLICO
Riflessioni involontarie

 

Mi gingillo con tanti lavori cominciati e solo pochi conclusi: Bassani, Canova, Paola Masino, Elsa Morante, mentre l’occhio ansioso non abbandona le immagini e i commenti che la tv propaga ad ogni ora del giorno e della notte.

Dall’inconscio affiorano le terribili immagini che da bambino mi hanno accompagnato come ossessione e incubo, legate alla presa di coscienza che quello era – ed è – il mondo che mi toccava vivere. Unica salvezza: rifugiarsi nell’immaginario che diventa Storia, come ha scritto e insegnato la grandissima Elsa [Qui].

Nel mio percorso (orrida parola che rimanda al percorzo ogni giorno recitato nei mezzi di comunicazione) umano e culturale ho imparato che l’immaginario è ciò che di più reale vi sia e ci sia imposto. Un reale che s’impone e che non lascia via di scampo, come ha scritto ed esemplato il mio Cesarito, Cesare Pavese [Qui].

Allora la divaricazione tra vissuto quale fonte dell’immaginario e la realtà si fa precisa, dura, implacabile. L’esempio che spesso ho portato in anni giovanili al mio psicanalista è che qualunque avvenimento più o meno clamoroso si ritorceva – e tuttora si ritorce – in immagini familiari, in vissuto.

Allora, guardando la tragedia dell’Ucraina, involontariamente l’inconscio riporta alla memoria i passi cadenzati dei soldati tedeschi, che alla fine della seconda guerra mondiale si spostavano al Nord, mentre noi tremavamo nel ridicolo rifugio che ci ospitava, appoggiato al muro della Villa delle Statue.

O la sensazione del dolore fisico, che si propaga dalle innumerevoli immagini degli ospedali ucraini, che mi fa ancora dolere l’estirpazione di una ghiandola sotto la gola eseguita da un medico militare a Riccione, o nell’ospedale sant’Anna di Ferrara semi-assediato in tempo di guerra il terrore di mio fratello e mio, condotti mano nella mano all’operazione di ernia, eseguita bruscamente e duramente. Unica consolazione le camicie da notte mia e di mio fratello, di felpa bianca con cagnolini azzurri.

Sarebbe allora pericoloso rifugiarsi nell’immaginario? Certamente sì se non si compisse l’operazione rischiosa ma necessaria di far divenire l’immaginazione realtà, non rifiutando il vissuto, ma partendo da quello.

Ogni volta che un peloso attraversa la mia esistenza, specie le mie due Lille, ecco che il vissuto proietta nello specchio dell’immaginazione la Pupa grassa e ringhiosa, il mite Tavi e anche quelli che avrei voluto, ma che non mi è stato possibile avere.

Così l’immagine tremenda del ragazzo ucraino che porta in spalla per chilometri un grande cane dice in modo angoscioso e irreversibile come gran parte degli umani sia indegna di trattenere rapporti con gli altri ‘animali’ che popolano il pianeta.

E la frase che stupidamente pronunciamo come offesa e ingiuria: “Ti comporti come un animale”, andrebbe rovesciata in quella ancor più mostruosa e offensiva: “ti comporti come un uomo”.

Esempio totale e assoluto l’osceno Putin.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Lo Zar teme le libertà e l’Occidente gioca a Risiko:
il disarmo globale è l’unica realpolitik possibile

 

Non so dire quanto sia mortificante scrivere di una guerra comodamente seduto nel tepore della propria casa. E’ un esercizio quasi spudorato, perchè davanti ai nostri occhi non c’è un plastico con le basi missilistiche di latta, gli aerei e i soldatini con le divise dipinte, ma ci sono esseri umani come me, come te, come tua figlia, che dormono al freddo sotto i tubi arrugginiti di un capannone, mentre le loro case vengono bombardate da altri esseri umani – e questa è la tragedia supplementare, che non sono bestie quelli che fanno il male, perché le bestie non sono e non saranno mai così malvage da ammazzare i loro simili per una Patria, per una Nazione, per un Regno. Costruzioni mentali prettamente umane: noi non difendiamo un territorio pisciandoci attorno, noi distruggiamo l’umanità per trionfare vittoriosi, e soli.

L’unica arma è spegnere la tv (che crea inutile angoscia, oltre a riprodurre virtualmente la logica bellica, arruolando gli opinionisti tra le fila dei proputin o controputin) e leggere chi indaga e ragiona, cercando di spiegare le origini di tanto male.

Particolarmente inquietante è l’opinione di Fabio Mini, non un passante, bensì ex Generale di Corpo d’Armata dell’Esercito Italiano, già Capo di Stato Maggiore del Comando NATO del Sud Europa e pluridecorato comandante della missione internazionale in Kosovo. Pur avendo un curriculum atlantista inattaccabile, Mini attualmente non passa sui media mainstream nostrani, impegnati a costruire una narrazione antirussa che genera mostri culturali, tipo la cancellazione di Dostojevskji.

In una recente intervista (di cui potrete leggere ampio resoconto domani sul nostro giornale) l’ex generale afferma che la NATO non ha sottovalutato la reazione russa, ma viceversa ha fatto di tutto per sollecitarla, armando gli Stati confinanti con l’Ucraina, in particolare la Polonia, e influenzando pesantemente le dinamiche politiche in Ucraina in funzione antirussa.
Secondo lui, mandare armi in Ucraina non farebbe che rendere più sanguinoso e pericoloso il conflitto. Alla domanda su cosa dovrebbe fare l’Europa, la risposta è tranchant: “Negoziare, finirla con il pensiero unico e la propaganda, aiutare l’Ucraina a ritrovare la ragione e la Russia ad uscire dal tunnel della sindrome da accerchiamento non con le chiacchiere ma con atti concreti. E quando la crisi sarà superata, sperando di essere ancora vivi, Italia ed Europa dovranno impegnarsi seriamente a conquistare quella autonomia, dignità e indipendenza strategica che garantisca la sicurezza europea a prescindere dagli interessi altrui.”

Diverso, anche per estrazione accademica, è l’approccio analitico del criminologo Federico Varese, nostro concittadino che ha fatto ‘fortuna’ nel Regno Unito grazie al suo talento di studioso delle mafie, tra cui la mafia russa. Il suo punto di vista non è mai banale: come quando leggi le sfumature dell’animo umano descritte da un abile narratore, nel suo argomentare trovi quell’elemento obliquo capace di aprirti una prospettiva che non cogli nelle fredde, ciniche retrospettive storiche di molti altri esperti.

In questa sua intervista (qui), apparsa di recente su La Voce di New York, Federico ipotizza che l’elemento che ha mosso Vladimir Putin verso la sciagurata e criminale decisione di invadere l’Ucraina non sia da ricercare tanto o solo, come sostengono molti (tra i quali l’appena citato generale Mini), nella minaccia (percepita o reale) dell’accerchiamento ad opera di una NATO sempre più vicina, attraverso i Paesi ad essa progressivamente aderenti, ai confini russi. Questa ricostruzione, preferita dagli studiosi che colpevolizzano le mosse dell’alleanza difensiva occidentale, rendendole concausa della precipitazione degli eventi, si concentra sulle iniziative dei governi, dei potenti, dei vertici. Sono personalmente persuaso che questa ricostruzione contenga elementi di verità, ma essa guarda solo alle decisioni assunte da chi detiene le leve del potere, conferendo preminente importanza alla capacità di manipolare i popoli.
L’interpretazione di Federico Varese esamina le cause da una prospettiva diversa. Putin non era tanto preoccupato dell’adesione alla NATO di paesi limitrofi, quanto del fatto che in alcuni di questi paesi – segnatamente la Georgia e l’Ucraina – si fosse sviluppata una dinamica democratica, costellata di molte fragilità, battute d’arresto e pesanti contraddizioni, ma comunque espressione di istanze provenienti da una parte della popolazione; e che questo processo potesse scatenare un ‘effetto domino’, una saldatura tra questi moti e le istanze provenienti da una parte della popolazione russa.

Quando si parla di “processo democratico” in Ucraina, o in Georgia, non è probabilmente corretto leggerlo in astratto, con le nostre lenti di ‘democratici atlantici’. Se lo facciamo, concludiamo ben presto che in Ucraina non c’è una democrazia, ma c’è una guerra civile che dura da almeno otto anni; che non può essere definito democratico uno stato che vanta tra le file ufficiali del suo esercito il battaglione Azov, infestato da neonazisti. Le contraddizioni sono battute d’arresto (anche tragiche, anche sanguinose) dentro un faticoso percorso di affermazione della volontà popolare attraverso gli strumenti della democrazia rappresentativa, strumenti che non appartengono alla tradizione di un paese come l’Ucraina.

Eppure, se leggessimo certi eventi nostrani unendone i punti per ricavarne una (sinistra) trama, nemmeno l’Italia potrebbe essere considerata una nazione pienamente democratica: lo storico che ricostruisse i nostri anni post bellici fino alla caduta del muro di Berlino troverebbe Gladio, le stragi di Stato, la Loggia P2, le cellule neofasciste utilizzate come braccio stragista di una “strategia della tensione” orchestrata anche dai nostri servizi di intelligence. Quello storico faticherebbe a non ammettere che anche la nostra dinamica democratica sia stata gravemente condizionata dall’ ombrello della NATO. Per un lungo periodo l’Italia è stato un paese a sovranità limitata; l’analisi del contesto internazionale che portò Berlinguer, nel 1973, a partorire l’idea del “compromesso storico” è lì a dimostrarlo. E tuttavia, potremmo da questo tragico filotto di eventi trarre la conclusione assoluta che l’Italia non è uno stato democratico?

Ecco, riflettendo meglio, forse sono proprio le lenti che dovremmo indossare, da democratici mediterranei più che atlantici, che potrebbero aiutarci a leggere la guerra in Ucraina con quella acutezza laterale che ritrovo in Federico Varese. Se l’Italia, invece di Berlinguer e Moro (politici dotati di un altissimo senso della responsabilità) avesse avuto uno Zelensky (personaggio di tutt’altra statura), cosa sarebbe potuto accadere al nostro paese, già martoriato da decine di tragici attentati?

L’Italia aveva il più grande partito comunista d’Europa, ed è innegabile che attraverso questo veicolo le istanze delle classi subalterne stessero raggiungendo il livello più alto della rappresentanza. Da cosa era spaventato il potere atlantico? Dal fatto che il Patto di Varsavia potesse estendersi all’Italia o dal fatto che la classe subalterna potesse salire al potere attraverso il suo principale strumento di partecipazione democratica?
Nel 1976 Enrico Berlinguer azzerò ogni possibilità di equivoco, affermando che si sentiva più tranquillo sotto l’ombrello della Nato, ma aggiunse subito: “Di là, all’Est, forse, vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro. Ma di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà.”.

Anche lo storico Marcello Flores, in un articolo apparso sulla rivista Il Mulino (qui) afferma che il pericolo che avverte Putin non va letto con le lenti della Guerra Fredda: “Il «pericolo», tuttavia esiste, ma è un pericolo politico che Putin non può tollerare: quello di avere ai propri confini Stati che stanno – con fatica, lentezza e contraddizioni – camminando verso la democrazia e la libertà. Un pericolo di contagio democratico, questo è il motivo della faccia feroce che Putin da anni sta facendo sui suoi confini orientali, dietro la scusa della «minaccia» della Nato e dell’allargamento dell’Unione europea.”

Secondo Flores, Putin teme più di ogni altra cosa la democrazia, il libero dibattito, lo sviluppo di una opposizione interna, la libera informazione.
Lo dimostrano i fatti che elenca in successione: “Il rafforzamento della repressione in Cecenia, la guerra contro la Georgia per l’Ossezia del Sud nel 2008, la costruzione di una dittatura sempre più forte all’interno, segnata dalle uccisioni di Anna Politkovskaja nel 2006, di Boris Nemtsov nel 2015, dal tentativo di omicidio e dall’incarcerazione di Aleksej Naval’nyj nel 2020-21, dalla messa fuori legge di Memorial, non ha spinto a vedere nella strategia di Putin un mutamento profondo rispetto sia agli anni della Guerra fredda che al decennio dopo di essa..

Particolarmente inquietante sotto questo aspetto appare la “dichiarazione congiunta” Russia-Cina del febbraio scorso, in cui (scrive sempre Flores) si teorizza l’ “inizio di una «nuova era» in cui non è più determinante la “democrazia dell’occidente” ma ogni nazione possa scegliersi le «forme e metodi di attuazione alla democrazia che meglio si adattano al loro stato»”.
Se gli Stati Uniti possono essere accusati di avere esportato la “democrazia liberale” a suon di bombe o colpi di stato, Russia e Cina teorizzano ora una “democrazia non democratica”, su misura della nazione imperiale di turno (a tal proposito dovrebbe destare molta preoccupazione il destino di Taiwan).

L’originalità dell’analisi di Fabio Mini (oltre che dal fatto di provenire da un ex generale di primo piano nello scacchiere NATO) risiede nel sollevare il velo d’ipocrisia filoatlantica che imperversa sui principali media: se Putin è un criminale (e non da oggi), chi ha bombardato Belgrado per settanta giorni per ‘difendere’ il Kosovo autoproclamatosi indipendente (cioè la NATO) lo è stato altrettanto.
Mi limito ad un esempio geograficamente vicino per non allargare il campo alle innumerevoli guerre di “difesa” o “instaurazione forzosa” della democrazia combattute nel mondo dall’Alleanza Atlantica. Aggiungo che, mentre Ucraina e Russia condividono un vasto confine, la distanza tra Washington e Pristina è di circa settemila chilometri …

La peculiarità delle argomentazioni di Varese e Flores sta nella sottolineatura di quanto le spinte libertarie che provengono dal basso siano percepite come il massimo dei pericoli per una tirannide o un regime totalitario; che quindi l’aggregazione libera e democratica delle persone conta eccome, quando invece una narrazione cinica sembra attribuire valore, per le sorti del mondo, solo ai comportamenti delle elites economiche e militari. Che quindi il popolo non è solamente una massa indistinta di persone che possono essere manipolate, ma può essere ancora il motore dei cambiamenti.

Varese e Flores gettano una luce sul terrore del tiranno per le istanze di libertà.
Mini illumina con un faro di pragmatismo la situazione russo-ucraina, suggerendo una dose di sano realismo per evitare l’allargarsi del conflitto.

Un tempo si chiamava realpolitik. Non è azzardato affermare che l’avvento degli armamenti nucleari ha costituito una cesura tra la guerra novecentesca e la guerra del futuro. La guerra del futuro non solo non ha vincitori né vinti, soprattutto tra i popoli. Ma potrebbe non avere più il genere umano, per come lo conosciamo, a ricostruirne storicamente genesi e svolgimento, nelle generazioni a venire.

Mentre i ministri dell’Europa (nano politico-diplomatico) si fanno deliberare un aumento delle spese militari, non è paradossale affermare che il concetto di realpolitik adesso è traslato verso un’idea che cinquant’anni fa veniva tacciata di utopia e tuttora viene considerata da molti stupido idealismo: l’idea di un pianeta disarmato, che ha bandito l’ipotesi stessa della guerra. Che ha maturato il tabù della guerra. E’ questo il più elevato livello di realpolitik al quale l’umanità dovrebbe ormai guardare: se non per convinzione, per necessità.

“Il Coro di Babele” al Teatro Off
Storie di pendolari “migranti” per ridere e riflettere

“Non ero pronta ad assistere alla storia della mia vita!”. Il commento di una giovane spettatrice al termine della messa in scena de “Il Coro di Babele” al Teatro Ferrara Off riassume l’intensità di uno spettacolo che la settimana scorsa ha riempito la sala dell’associazione ferrarese, che è tra le più attente a intercettare le novità e capace di selezionare opere di ricerca che coniugano impegno, professionalità, ma anche un’estrema godibilità di visione.

La compagnia “Barbe à papa”

La compagnia “Barbe à papa” formata da cinque giovani attori di origine siciliana ha saputo tenere tutti inchiodati ad assistere a un condensato di storie, dove in parte ci possiamo ritrovare tutti, ma che sicuramente sono efficaci condensati di vita dei ragazzi di oggi. Nella scheda descrittiva si parla di “Cinque racconti di altrettanti migranti che viaggiano nei voli low cost”. I “migranti” non sono quelli dei barconi o delle fughe da terre insanguinate di cui parlano i giornali, ma i nostri figli, i nostri vicini di casa, i ragazzi che escono dalle scuole e dalle università italiane e cercano un approdo, un futuro, un traguardo di vita e di completezza professionale ed esistenziale da far sbocciare da qualche parte.

Ognuno dei racconti-sketch mette in luce alcuni aspetti diversi che caratterizzano la condizione di giovane migratore: la ricerca, la nostalgia, la curiosità, la voglia di rivalsa, il senso di trionfo e la memoria di chi va lontano e si guarda indietro riannodando le sue scelte agli episodi dell’infanzia e delle vicende familiari.

La scena del viaggio quotidiano (foto GioM)

Come spettatrice, mi ha particolarmente colpito la scena della metropolitana, che riassume in maniera meravigliosamente fotogenica gesti, pensieri e attitudini tipici di chi fa il pendolare. Così ciascuno può ritrovare il suo, dentro ai cinque diversi atteggiamenti rappresentati. Certo è che si assiste a un ritratto sociale reso con godibile enfasi caricaturale di quello in cui prima o poi ci si imbatte, se si viaggia con una certa continuità su treni, metropolitane o bus. C’è il passeggero che si immerge nel telefonino, chi ascolta la musica in cuffia, quello che si chiude dentro al suo cappotto e dietro ai suoi occhiali scuri approfittandone per estraniarsi e dormire, chi legge e – ovviamente – non può mancare quello o quella che sbircia e che magari legge le pagine del vicino nutrendosi dello spettacolo collettivo che ha intorno.

La compagnia Barbe à papa

Sul palco di volta in volta prendono la parola i cinque attori della compagnia. Federica D’Amore (maglietta rossa) coniuga un’abilità da ginnasta con il racconto esilarante e coinvolgente del legame che finisce per tessere con il venditore del fast food dove fa la sua colazione quotidiana. Il suo racconto viene reso così ancor più efficace e divertente, mentre fa con grande naturalezza la ruota e la spaccata, come gesti espressivi dell’intensità di cui si tingono questi incontri casuali.

Federica D’Amore in uno dei 5 episodi del Coro di Babele (foto GioM)

Brava e piena di pathos Chiara Buzzone (maglietta bianca) protagonista del primo di cinque episodi, molto espressiva e ammiccante l’interpretazione di Roberta Giordano (maglietta verde), efficace Totò Galati (maglietta blu) che interpreta la parte di chi ha un cedimento e viene preso dalla voglia di ritornare, grande capacità comunicativa per Claudio Zappalà (maglietta gialla) che oltre che interprete è anche ideatore dell’opera.

Chiara Buzzone in una delle scene iniziali dello spettacolo (foto GioM)

Calzante la scelta dell’immagine scenica, che con pochi tocchi riesce a creare un allestimento scenografico con l’utilizzo delle semplici magliette a colori sgargianti con cui si presenta ciascuno dei cinque protagonisti e che – al bisogno – vengono trasformate anche nel simbolo della patria d’origine, in forma di bandierone. Il tricolore viene composto come per magia, legando con maestria e prontezza d’uso le t-shirt bianco, rosso e verdi a una lunga pertica. Significativo anche il modo in cui i temi vengono affrontati, a partire da una ricerca del significato delle parole, basata su definizioni del vocabolario. Una modalità che suona tutt’altro che scolastica e più che mai vera e attuale, in un mondo dove siamo continuamente tentati di “googolare”, tuffandoci sul motore di ricerca del computer alla ricerca dei significati ultimi di qualsiasi cosa.

Barbe à papa in scena a Teatro Ferrara Off (foto GioM)

Ottimo debutto, insomma, per la stagione di prosa 2022 del Teatro Ferrara Off. E sicuramente un post-it da mettere in agenda per le prossime rappresentazioni che la compagnia Barbe à papa ha in serbo. Venerdì 6, sabato 7 e domenica 8 maggio 2022 – è stato infatti anticipato nella breve chiacchierata-riflessione di fine spettacolo – la compagnia tornerà sul palco di viale Alfonso I d’Este. La compagnia sarà di nuovo in scena a Ferrara per raccontare nuovi temi e nuovi episodi di una generazione affacciata sul mondo, che non dimentica di guardarsi indietro e di interpretare quello che siamo e che sogniamo con il dovuto distacco, carico di tenerezza e di ironia.

Per info sulla stagione del Teatro Ferrara Off: viale Alfonso I d’Este 13, Ferrara, sito web www.ferraraoff.it, tel. 333 628 2360, email info@ferraraoff.it

Lettera dei bambini ai signori che fanno la guerra

 

A scuola non possiamo fingere che i bambini ed i ragazzi non siano preoccupati per questa guerra: occorre ascoltarli, aiutarli a dialogare e a confrontarsi, insegnargli a litigare bene, raccogliere testimonianze, far riflettere, partecipare ad iniziative di solidarietà, tenerli stretti.

La guerra non si fermerà per questo ma forse si inizieranno a piantare i semi di una consapevolezza maggiore verso la complessità del nostro tempo, forse si riuscirà ad offrire qualche strumento per affrontare le incertezze e per ragionare sulla condizione umana. Forse si potrà far riflettere sull’assurdità di tutte le guerre. Forse, così facendo, si riuscirà a fare scuola. Forse, in questo modo, si potrà fare la pace. Forse…

A questo punto, non aggiungo altre parole a quelle scelte dai bambini e dalle bambine della classe seconda che sto frequentando per rivolgersi ai signori che fanno la guerra: come maestro io ho soltanto raccolto i loro pensieri, ho chiesto cosa pensano che serva per fare la guerra, cosa credono che occorra per fare la pace, ho proposto la creazione di un alfabeto e due di loro hanno inventato la filastrocca che chiude la lettera.
Comunque la pensiate, buona costruzione della pace.
Mauro Presini

Lettera dei bambini ai signori che fanno la guerra

Voi che fate la guerra, lo sapete che rischiate di far morire delle persone innocenti e vi potete fare del male.
Usate le parole invece di sparare.
Smettete di fare la guerra e fatevi dei nuovi amici così sarete più contenti.
È meglio non fare la guerra perché qualcuno che conoscete può morire.
Non ci piace quando muore qualcuno.
Non fate la guerra perché ogni giorno muoiono già tante persone per altri motivi ma con la guerra ne muoiono anche di più e poi ci sono anche dei feriti.
Non fate la guerra perché c’è anche il coronavirus.
Se tutti si mettessero a fare la guerra come voi, non esisterebbe più l’umanità.
Per fare la guerra servono: le armi, i cannoni, i fucili, le bombe, i carri armati, gli aerei, gli elicotteri, tanti soldati, un nemico ma anche la forza, il coraggio, l’odio, la rabbia e la cattiveria. Per fare la guerra servono soprattutto gli uomini.
Invece per fare la pace servono: la tranquillità, la bontà, la gentilezza, l’amicizia, la felicità, un cuore buono, l’amore, la gioia, l’accoglienza, la bellezza, i gesti gentili, le parole gentili, la fantasia, la gioia, la generosità, la giustizia, le carezze ma anche un amico che ti aiuta, giocare insieme, chiedersi scusa, parlarsi, litigare bene, non usare le armi, qualcuno che convince gli altri a non arrabbiarsi, stare insieme, scusarsi, usare le braccia per abbracciare ma non per imbracciare i fucili. Anche per fare la pace servono soprattutto gli uomini.

Per imparare a fare la pace bisogna conoscere l’alfabetoVi regaliamo il nostro:
Abbracciarsi Bontà Curare Delicatezza Entusiasmo Felicità Gentilezza Help Innamorarsi Libertà Meraviglia Natale Omaggio Parlarsi Quiete Ragionare Serenità Tenerezza  Umorismo Vita Zelo.

L’alfabeto è fatto di parole ma se si riescono a mettere in pratica si può imparare a fare la pace.

Noi vi diciamo che la guerra è uno schifo mondiale. Fate la pace!

Ve lo diciamo anche con una filastrocca che abbiamo inventato:

La guerra fa star male
puoi finire sotto terra,
non c’è festa per Natale
se la pace non si afferra.
La pace fa star bene
puoi avere nuovi amici,
non ci sono più catene
se tutti quanti siam felici.

I bambini e le bambine della classe seconda della scuola primaria “Bruno Ciari” di Cocomaro di Cona

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi del maestro Mauro Presini e dei bambini della scuola primaria clicca sul nome dell’autore sotto il titolo.

GUERRA. GLI OCCHI SPENTI DEI BAMBINI

 

Io odio la guerra, mi fa paura, toglie a tutti dignità. La definizione “crimine di guerra” non so chi l’abbia inventata ma la trovo assurda, è la guerra in sé che è un crimine. Lo è sempre. Bombardare un ospedale è un “crimine di guerra”? Sicuramente sì. Mandare al massacro migliaia di giovanissimi soldati è un “crimine di guerra”? Altrettanto sì. È una definizione che eviterei di usare, sembra fatta apposta per sancire una separazione fra un orrore giustificato e uno da condannare.

L’orrore è orrore per tutti, come la morte è morte per tutti. Una persona giovane è una persona giovane, un bambino è un bambino, un morto è un morto, maschio o femmina, piccolo o grande, non so che differenza faccia. Non so perché e quando la dovrebbe fare. Non so a chi possa servire questa distinzione tanto fittizia quanto fasulla.

Tutto ciò che noi chiamiamo guerra è anche un “crimine di guerra”, inutile cercare percorsi definitori poggianti su premesse false. “Guerra” e “crimini di guerra” sono di fatto due sinonimi, due parole orribili e nefaste che hanno accompagnato la vita dell’essere umano da quando è comparso sulla terra e che testimoniano quanta cattiveria sia insita in questo homo sapiens che di sapiens ha solo la presunzione di definirsi tale.

Ogni volta che una persona viene uccisa, che una vita viene spezzata, che un bambino resta orfano, un giovane vedovo, un anziano solo come un cane, vedo la guerra. Il suono della parola guerra è orribile. Un sibilo violento e metallico che squarcia il cielo e impedisce alle nuvole di continuare ad essere bianche. Le fa diventare rosse di sangue e nere di odio in un batter d’ali. La guerra sa di bruciato, puzza di carne umana cotta, di sangue che riempie i canali di scolo e li trasforma in tombe. La guerra è una parola che porta con sé molta disperazione.
Non ci sono attenuanti per chi la fa, come non ci sono per tutti coloro che la potevano impedire e non l’hanno fatto.  La guerra si porta dietro un carico di terrore e sofferenza inaccettabili, interrompe la vita di chi muore e rovina quella di chi resta, per sempre.

Ogni volta la storia si ripete, ogni volta le armi sono più distruttive perché più precise e sofisticate. Individuano il ‘nemico’ e lo massacrano, non resta nulla, forse qualche brandello di una divisa che sembrava bella, che avrebbe potuto fare colpo su quella ragazza brava a scuola a cui pensavano tutti e che nel frattempo è morta anche lei dilaniata da una bomba, esplosa nella sua macchina, raggiunta da un proiettile vagante, morta in un sotterraneo mentre con la testa sotto il cuscino cercava di non sentire le sirene.
La guerra è questo, è la morte sulla terra. È la perdita di ogni speranza, è l’abdicazione dei nostri sentimenti più nobili alla brutalità e alla ferocia condensate dentro la vita come l’antimateria in un buco nero.

Tutto quel sangue rosso come il fuoco e viscido come un albume colorato è ciò che ci tiene in vita, la nostra linfa, il nostro nutrimento, il nostro giorno e la nostra notte. Senza sangue il cuore non pompa più, si ferma e si addormenta nel suo dolore. La morte di un cuore è la morte della persona che lo ospita. La morte di tanti cuori è una catastrofe umana. È la fine della nostra dignità.

Dopo la guerra non resterà pace a chi la guerra ha voluto, né a chi l’ha subita. La parola pace diventa una parola vuota perché non può più nutrirsi di buoni ricordi ma di orrore. Diventa un coccio pieno d’aria, una noce senza gheriglio.
Non si instaura la pace dopo la guerra, perché nessuno sa più cosa sia, né dove la si possa trovare. Si perde la bussola, la strada maestra verso la civiltà. L’odio per le vite spezzate e rubate al loro tempo non riesce a comprendere alcun tipo di pace se non attraverso un percorso catartico lungo, accidentato, non alla portata di tutti.
Resta il dolore. Un dolore che grida forte e che sovrasta tutto: i buoni pensieri, l’aria leggera, gli occhi trasparenti dei bambini.

Negli occhi trasparenti dei bambini non esiste la consapevolezza della guerra. Forse è proprio per questo che sono trasparenti. Negli occhi trasparenti dei bambini c’è la voglia di giocare, di crescere e di vivere.
La guerra li rende improvvisamente opachi, non brillano più. I bambini “in guerra” hanno gli stessi occhi opachi dei vecchi, la stessa malinconia, la stessa indifferenza. Non vedono più niente di bello, ciò che era bello non esiste più. Gli occhi dei bambini “in guerra” non vedono l’amore perché l’hanno perso, non vedono la pace e non vedono alcun perdono. Gli occhi dei bambini “in guerra” non vedono l’alba azzurra, le nuvole bianche, il sole che spunta da laggiù e scalda il cuore. Sono occhi abituati al rosso, al nero, al viola, alla morte e non brillano più.

Negli occhi trasparenti dei bambini ci sono tutte le nostre speranze e tutto il nostro futuro, senza quegli occhi possiamo morire tutti perché tanto non cambierà più niente, il sole non brillerà, l’erba non sarà più verde e il cuore non trionferà. Togliamo ai nostri bambini la vita e nessuno ce lo perdonerà, nemmeno noi riusciremo a perdonarcelo. Senza perdono non c’è pietà, non c’è speranza, si perde la strada della verità.

Interminabili frotte di uomini vanno verso l’ignoto, camminano abbracciati e persi su strade di cemento e ghiaccio. Vanno verso ciò che li salverà dalla guerra e in cambio regalerà loro la tristezza sulla terra. Senza patria, senza casa, senza speranza e senza un ritorno. Un passo dopo l’altro, un sospiro dopo l’altro, uno sguardo dopo l’altro, cento sguardi, mille sguardi, infiniti sguardi che sanno di dolore e dentro i quali si possono specchiare gli sguardi di tutti.

Mi chiedo se per tutta la gente che scappa e si muove raminga sulla faccia di questa brutta terra, che vista dall’altro sembra un’oasi azzurra e verde e vista da quaggiù sembra un mostro di cemento, potremo fare qualcosa, aprire le nostre case, dare a loro il pane. Ma questo basterà per togliere l’orrore dai loro occhi, il ricordo dell’odore del sangue e dei morti per strada?
Basterà per farci sentire migliori e non attanagliati dalla consapevolezza che la guerra è una sconfitta di tutti? Di questa povera umanità che arranca e arranca e arranca.

La Prima Guerra Mondiale è stata un tragico esperimento naturale: durante il conflitto la psichiatria moderna ha acquisito per la prima volta la consapevolezza che lo stress della guerra può arrivare a fare impazzire i soldati. Gli inglesi l’hanno chiamata shell shock , da noi era il vento degli obici: era la malattia nata sui campi di battaglia e nelle trincee della Prima Guerra Mondiale.
I soldati colpiti da questa sindrome allora misteriosa avevano una varietà incredibile di sintomi: palpitazioni, paralisi o tremori in tutto il corpo, incubi, insonnia; a volte smettevano di parlare. Alcuni sembravano perdere il senno per sempre, altri recuperavano dopo un periodo di riposo.[Vedi qui]

Una possibilità per dimenticare la guerra è la follia. Il rifugio in quei mondi inventati dove c’è spazio per fare ciò che si vuole, tornare a casa, riaprire la porta, guardare il vaso di fiori sul tavolo e pensare: “Questa primavera è proprio bella. Le violette hanno sparso profumo per tutta la stanza.”.
La follia permette di ritrovare l’amante morto sotto le bombe, di nuovo vivo, in una nuova dimensione dove esistere, navigare sopra una canoa di bambù e arrivare in un bel posto, sopra l’acqua e sotto il cielo come esige una vita sana, come promette l’aldilà.
La follia fa risuscitare i morti, li depone in un vaso di cristallo da cui escono di notte come spiriti famelici che danzano con chi li ama e per sempre li custodirà.
La follia permette di portare ogni mattina a scuola i bambini mentre loro sono sepolti, chiusi in una cassa, avvolti di terra e mangiati dai vermi.
La follia permette una nuova vita a chi vita non ha più.
Ho sempre avuto pietà per la follia, per chi non ha potuto stare tra noi perché lo starci era impossibile, perché la sofferenza era troppa, perché la solitudine uccide tutti, un po’ alla volta, un po’ al giorno, un po’ in tanti giorni e alla fine per sempre.

Non voglio abituarmi alla guerra e non voglio che nessuno si abitui.
Guadate l’orrore e indignatevi tutti i giorni, tutti i minuti della vostra vita, ogni attimo, ogni sospiro. Un bambino morto è la fine dell’infanzia, di tutte le infanzie possibili.

E ci ritroveremo come le star, a bere dell’whisky al Roxy Bar … (Vasco Rossi). Già, ci ritroveremo come delle vecchie star con gli occhi pieni di orrore, con le mani fasciate, i denti rotti, i capelli bruciati, gli occhi spenti e il dolore nel cuore. Questa è la guerra, questo è ciò che ci lascia. Penso che solo un folle possa affrontare tutto questo per il suo bene, per quello della sua famiglia, della sua nazione.
Non esistono beni che si nutrono di guerra, non esistono speranze per chi ammazza, per chi toglie la vita a chi è piccolo e a chi gliel’ha donata. Non c’è rimedio né pietà per chi fa la guerra, non cambia nulla che sia bianco, rosso o verde, povero o ricco, sano o folle, che abbia o non abbia delle giustificazioni, che creda di non avere alternative. Non c’è nessuna giustificazione possibile e senza giustificazione è difficile trovare la pietà.

Alice in wonderland
La meraviglia (e la solidarietà) in scena al Teatro Abbado

In una fredda serata di un 8 Marzo di tempi duri e difficili, i nostri, la cultura ha, ancora una volta, lasciato il segno e segnato il passo, trovando spazio, oltre che per la danza, l’allegria e la spensieratezza (di un tempo), anche per la solidarietà e la comprensione.

La compagnia ucraina di ballerini e acrobati del Circus-Theatre Elysium di Kiev si è esibita, al Teatro Comunale di Ferrara, in Alice in Wonderland, spettacolo che unisce danza, arti circensi, recitazione e ginnastica acrobatica tratto dall’omonimo romanzo di Lewis Carroll del 1865, in un luogo avvolto dai colori giallo e blu della bandiera ucraina, al suono dell’inno nazionale di questo martoriato paese.

Sold out, non c’era un solo piccolo spazio, l’emozione tanta. Un successo enorme di pubblico commosso e molto coinvolto. Il gruppo è in tournée italiana dallo scorso 8 febbraio e allo scoppio del conflitto si è trovata lontana da affetti e famiglia. Ma è rimasta qui. Il direttore della compagnia, Oleksandr Sakharov ha detto, infatti: “Siamo profondamente preoccupati, ma andiamo in scena perché il teatro, la musica, la danza e il circo sono potentissimi strumenti di pace e di fratellanza”. “L’Ucraina – aggiunge Sakharov – è una terra che vanta una lunga e prestigiosa tradizione nel campo della danza e siamo orgogliosi di poter mostrare all’Italia e al mondo, nel corso delle nostre tournée, il frutto di un lungo e faticoso lavoro fatto di passione, sacrifici e creatività. In questo momento così difficile, andiamo in scena affinché a tutti gli spettatori arrivi un messaggio non solo di bellezza e di gioia, ma anche di speranza“.

Prima di entrare nel fantastico mondo di Alice in Wonderland, la cantante e musicista Liubov Kardash si è esibita con la bandura, strumento popolare della tradizione ucraina, un incrocio fra un liuto e una cetra, dal numero variabile di corde che vengono pizzicate. Nata in Ucraina centrale nella città di Kirovograd (ora Kropyvnytskyi, che prende il nome dell’inventore del teatro drammatico ucraino), Kardash è molto legata a Ferrara: tra il 2007 e il 2009 ha studiato canto lirico al Conservatorio Frescobaldi con il libanese Garbis Boyajian. Successivamente ha lavorato in Ucraina come insegnante, cantante e attrice, ma allo scoppio della guerra nel Donbass del 2014, ha deciso di tornare in Italia, dove vive dal 2021.

Circus-Theatre Elysium, invece, è stato fondato nel 2012 come circo collettivo, un progetto artistico nato dall’ispirazione di Oleg Apelfed, che ha riunito un cast di professionisti di respiro internazionale dando vita a un circo moderno e unico, mostrandone per primo le potenzialità sceniche. Una squadra composta da oltre 50 persone, con sette performer solisti, 12 artisti circensi, 20 ballerini ai quali si aggiunge il team tecnico. Il progetto è portato avanti anche grazie a Maria Remneva, pluripremiata direttrice del Circo Nazionale dell’Ucraina con più di vent’anni di esperienza. Tutto è iniziato con “Fairytale Show”, uno spettacolo allora composto da pochi numeri, ma che in poco tempo ha avuto enorme successo, registrando il sold-out in Francia.

Ha così preso vita “Alice in Wonderland e le geometrie del sogno”, già applaudito in Ucraina, Russia, Bielorussia, Francia e Cina, uno show di arte circense appassionante, sofisticato ed elegante, che coinvolge oltre trenta atleti, acrobati e ballerini e intreccia varie discipline sul palco: la ginnastica acrobatica, la recitazione e la danza. L’atmosfera fiabesca delle avventure di Alice nel paese delle meraviglie è stata ricreata sul palco del Teatro Abbado grazie alle musiche e alle videoproiezioni con scenari onirici 3D proiettati su enormi schermi a LED.

Dopo Ferrara, l’Emilia-Romagna accoglie, dunque, questi artisti a braccia aperte, qui va in scena la solidarietà: altre due date (oltre a quelle dell’8 marzo di Ferrara e del 9 marzo al Teatro Duse di Bologna) si sono aggiunte, infatti, per la compagnia: il 30 marzo a Reggio Emilia (Teatro Valli) e il 2 aprile a Ravenna (Teatro Alighieri).

Dato il successo della serata, in segno di solidarietà, il Teatro Abbado sta pianificando di ospitare nuovamente lo spettacolo.

Per le immagini, ringraziamo l’ufficio stampa del Teatro Comunale di Ferrara

L’Occidente ha sbagliato: ha sempre badato all’economia, senza fare politica,
ma Putin e Kirill sono ormai fuori dalla Storia e hanno già perso la guerra.

 

Sono in tanti a chiedersi e a spiegare perché il presidente russo Vladimir Putin abbia deciso di invadere l’Ucraina. Gastone Breccia (L’Espresso 9/2022), per esempio, scrive che “Mosca è tornata a sentirsi  minacciata dall’Occidente. Non senza ragione: difficile non considerare aggressivo – continua – il ruolo militare di un’alleanza (leggi Nato) che tendeva ad ampliarsi fino alle sue frontiere, venendo meno alle assicurazioni offerte all’indomani del dissolvimento dell’Unione Sovietica”.
Una bulimia, è stato detto in casa Sant’Egidio, che ha pensato più a fare economia che politica. È mancata la politica.
“Negli ultimi decenni – rincara Marco Damilano (L’Espresso, stesso numero) – la politica è stata ridotta ad ancella dell’economia liberista, o è stata colonizzata dai nazionalismi di stampo ottocentesco”.
Un’aggiunta significativa, perché se, come spesso si sente dire, si ferma l’occhio solo sugli errori della sponda occidentale, innegabili, l’impressione è che si perda un resto della questione che non è poca cosa.
In entrambi i casi – continua l’ormai ex direttore del settimanale – la democrazia è stata messa nel mirino come pietra d’inciampo, perché democrazia è tensione, processo, cammino, mai approdo e meta raggiunta una volta per sempre. Tutto l’opposto della ricerca del mito fondativo e identitario di una storia concepita come immobile e, assediata dal cambiamento, tesa alla restaurazione di un ordine perduto o minacciato.
Un’idea della storia tremendamente funzionale a disegni di potere.
Quella che Putin ha chiamato, con le parole tipiche della propaganda, un’operazione militare speciale per smilitarizzare e denazificare il suolo ucraino (che detto a un ebreo come il presidente ucraino Zelenski è un’enormità), altro non è che una guerra di un paese aggressore verso uno Stato sovrano e democratico.
Come ha ricostruito Francesca Mannocchi ( “tosta” l’ha giustamente definita Enrico Mentana in una delle sue esemplari dirette tv pomeridiane sulla guerra), ha riconosciuto l’indipendenza delle due regioni separatiste dell’est dell’Ucraina, autoproclamate nel 2014 Repubbliche popolari di Donetsk e di Luhansk, nella regione del Donbass. Territori che si considerano Novorossiya, “Nuova Russia”, conquistati dall’impero zarista nel XVIII secolo.
In un conflitto sanguinoso che dal 2014 si trascina nel Donbass, con il bilancio di 14 mila vittime e con l’impiego da parte ucraina di formazioni filonaziste per contrastare la rivolta separatista, pesano le parole del presidente russo del suo discorso del 21 febbraio scorso: “l’Ucraina non è uno stato ma una colonia, storicamente parte della Russia”.
È la lingua nostalgica e ammirata di Novorossiya, la lingua del grande impero.
E infatti l’offensiva armata non si è fermata al capitolo Donbass, cui si è tentato di porre una soluzione con i barcollanti accordi di Minsk I e II e miseramente naufragati sulla diversa interpretazione circa la cronologia degli impegni: per Mosca prima le elezioni e poi il ritiro dei militari, per Kiev prima il ritiro degli occupanti e poi elezioni secondo la legge.
Le truppe inviate dal Cremlino hanno invaso l’Ucraina e il simbolo è l’assedio di Kiev, perché, come ha scritto Wlodek Goldkorn (sempre su L’Espresso), se Mosca è considerata in questa narrazione la “Terza Roma” (dopo la Città Eterna e Costantinopoli), Kiev è la Gerusalemme dei russi.
Lo sta ripetendo il filosofo Massimo Cacciari davanti a ogni telecamera.
È qui che spazio, luogo e tempo, fanno tutt’uno con il mito della Rus’, le cui radici affondano fino al lontano anno di grazia 988, quando il principe Vladimir (lo stesso nome di Putin) di Kiev (la Gerusalemme dove tutto ha inizio) si convertì al cristianesimo.
Ed è qui che si realizza un’ennesima sutura della restaurazione dello spazio vitale russo con un altro versante che, oltre a quello storico-mitico, aggiunge respiro morale e mistico: quello religioso.
Askanews (7 marzo) ha dato ampio resoconto del sermone pronunciato dal primate della Chiesa ortodossa russa, Kirill, in occasione dell’avvio – il 6 marzo scorso, “domenica del perdono” – della Quaresima, secondo il calendario ortodosso.
Kirill ha dato un significato “metafisico” alla guerra in atto, cioè la resistenza ai valori occidentali, la cui cartina tornasole è il “gay pride”, ossia il peccato condannato dalla Bibbia.
Secondo don Stefano Caprio, docente al Pontificio istituto orientale, è lo stesso patriarca ad avere suggerito a Putin una concezione della Russia come paese chiamato a difendere la vera fede, l’ortodossia nel mondo secolarizzato. Il contenuto ideale che a Putin mancava.
Nonostante i richiami della Conferenza delle chiese europee (Cec) e gli appelli lanciati dagli ortodossi ucraini fedeli al Patriarcato di Costantinopoli e quelli legati a Mosca, Kirill va avanti per la sua strada. A rischio di perdere consensi e il primato universale dell’ortodossia: su 15 Chiese autocefale, quella russa ha ora il 60/70 per cento dei fedeli e se dovesse perdere l’Ucraina il suo peso si ridurrebbe a meno della metà.
Le parole del patriarca Kirill fanno venire in mente quelle dell’oligarca russo Konstantin Malovev che, ai microfoni della trasmissione Report, disse che scopo della fondazione San Basilio il Grande è opporsi all’Internazionale dei Sodomiti.
Sostenitore di Novorossiya, ricorda ancora Damilano, nel 2013 era presente al congresso che incoronò Matteo Salvini segretario nazionale della Lega, il quale nel 2018 volò a Mosca insieme al suo uomo di fiducia Gianluca Savoini per cercare appoggi economici alle elezioni europee 2019 con il seguente programma: “La Nuova Italia costruirà la nuova Europa a fianco della Russia”.
Personaggi come Malovev si aggiungono a figure come Aleksandr Dugin, l’ideologo che parla italiano portato in giro per lo Stivale dallo stesso Salvini e ben noto negli ambienti sovranisti nostrani che gravitano attorno alla destra. Definito da Massimiliano Pananari (L’Espresso 10/2022) il “Rasputin di Putin”, l’ideologo della quarta via politica sostiene “un tradizionalismo imbevuto di richiami ai fascismi, mescolato col neobolscevismo”.
Se queste non sono traveggole, ce n’è abbastanza per leggere un disegno che ha cercato sponde anche fuori confine, e teste, più o meno vuote, sensibili ai richiami securitari di matrice nazionalista e sovranista, in un mondo che da oltre vent’anni passa da una paura all’altra (l’attentato del 2001 a New York, il terrorismo islamico, il crollo finanziario del 2008, la paura pandemica).
Fino a trovare singolari assonanze con l’ex presidente Usa, Donald Trump, che con il suo ex capo della strategia, Steve Bannon in giro a far proseliti, con la riproposizione su sponda atlantica dell’adagio “Dio lo vuole” e il fianco parimenti religioso prestato da un cristianesimo allevato da decenni a pane e tradizionalismo, ha rappresentato il parallelo tentativo di disarticolare l’Unione europea (vedi Brexit).
Per certi versi quel disegno su scala globale pare per il momento stoppato, ma non per Vladimir Putin. Con l’invasione dell’Ucraina, però, ha già perso in partenza, qualunque sarà il risultato.
In primo luogo perché quando questa strage sarà finita (si spera al più presto) non potrà essere lui a sedere al tavolo a negoziare, essendo il responsabile delle vittime che, come ha detto Gino Strada, è la sola verità della guerra, oltre ad avere causato una gigantesca emergenza umanitaria che già adesso si conta a milioni.
Vladimir Putin, inoltre, si è già messo da solo fuori dalla storia, nella quale pretende di avere il posto di uno zar (declinazione in russo del termine Cesare), imponendo con violenza la mistica di un disegno imperiale che si scarica sui corpi inermi di un popolo. Anche il suo.
In terzo luogo, ha di fatto compromesso in partenza lo spazio per la soluzione che, forse, per primo avrebbe voluto. Come potrà trovare posto nell’agenda dei futuri negoziati il tema della neutralità ucraina, se questo risultato fosse raggiunto grazie alle armi? Sarebbe un messaggio destabilizzante sulla scena internazionale, alla disperata e urgente ricerca di un nuovo ordine.
Infine, la stessa metafisica del disegno della Terza Roma contro l’Occidente corrotto, in realtà è una contraddizione in termini, perché ne ripercorre gli stessi cedimenti nella pretesa di possedere l’essenza del tempo e della storia.
Come ha scritto il filosofo Emanuele Severino, che ha letto in profondità il tramonto dell’Occidente, la dinamica dell’eterno consiste nell’errare, ossia ciò che in ogni essere umano è “il mio eterno essere Io del destino”.

Vite di carta /
Il calamaro gigante e i sogni.

 

Nell’incipit del suo Il calamaro gigante, uscito presso Feltrinelli nel maggio del 2021, Fabio Genovesi sostiene che del mare non sappiamo nulla. Vediamo solo la superficie dell’acqua, così come dei calamari conosciamo i minuscoli esemplari che finiscono nei fritti misti dei pranzi domenicali al mare. La mia empatia di lettrice è dilagata mano a mano che sono andata avanti a prendere in carico, una dopo l’altra, 140 pagine incantate, dove i mostri marini insieme ai loro scopritori si alternano alla nonna dello scrittore con la sua vecchiezza saggia e visionaria, ai compagni di scuola, a conoscenti e compaesani.

Il mondo epico dei naviganti negli oceani e quello diseroicizzato e quotidiano della costa toscana, dove vive Genovesi, vanno a braccetto nello spazio e nel tempo, in base a quell’ottica certamente pascoliana di cambiare le gerarchie tra le cose del mondo che mi piace tanto. Un misto di straniamento e sapienza infantile che fa scintille di ogni episodio narrato.

Ma andiamo con ordine. Il capitolo iniziale, primo di undici, ci introduce al viaggio che l’autore vuole proporci: un viaggio alla scoperta delle profondità marine, in cui dobbiamo avere la mente aperta a cogliere tutte le meraviglie più incredibili degli abissi. In totale disponibilità, quella che fa dire “del mare non sappiamo nulla” e per questo dobbiamo essere pronti a deformare il quadro delle nostre conoscenze, a essere allontanati “da ogni nostro punto fermo, dai binari delle certezze solide ed eterne che abbiamo impiegato tanto tempo a inventarci”.

Lo scrittore ci guida durante il viaggio nella doppia veste di io narrante, che ricostruisce i tanti avvistamenti del calamaro gigante avvenuti negli oceani dal XVII secolo a oggi, e di io narrato, quando ricorda di avere disegnato come animale preferito proprio lui, il bestione degli abissi, e di avere sollevato le risa della sua classe alla scuola elementare. Nonché il lancio di matite, gomme e pennarelli.

Tutto il libro nei restanti dieci capitoli si espande alle vastità marine e alle capitali europee, dove le Società Scientifiche tendono a negare le scoperte del calamaro – detto anche Kraken  – e di altre creature inaspettate, mostrando una cecità accanita contro l’evidenza delle prove che i naviganti possono produrre dei tentacoli enormi del calamaro o di altre sue parti. Ciascun capitolo poi ritorna, come fa la risacca del mare, sulle coste toscane e fa un giro tra le conoscenze dell’autore per trovare conferme e analogie sulla condotta umana.

Gli uomini possono dividersi in due categorie: da una parte ci sono “quelli che nella vita non si fanno domande, vanno dritti senza guardare l’immenso intorno che c’è, e se devono disegnare il loro animale preferito scelgono il cane, il gatto o al massimo il criceto. E se tu disegni il calamaro gigante ridono e ti prendono in giro”.

In questa categoria possiamo includere perfino un membro dell’Accademia francese delle Scienze, che non crede alla scoperta fatta dalla nave Alecton nel 1861, il cui capitano Bouyer [Qui] durante la navigazione verso le coste della Guyana francese si è imbattuto in un “polpo gigante”, come dicono i giornali dell’epoca, e ha fatto un resoconto preciso dello strabiliante incontro. Questa la sentenza dell’illustre scienziato:  “Un essere del genere non può esistere”, perché sarebbe “una contraddizione delle grandi leggi di armonia ed equilibrio che regnano sovrane sulla natura vivente”. L’episodio ispirerà Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne [Qui] e altri libri, ma viene considerato alla stregua di una favola perché, conclude Genovesi, “quella Cosa gigantesca è inammissibile, è inaccettabile, quindi non c’è”.

Dalla parte opposta ci sono gli uomini che hanno passioni e sogni da inseguire, che non conoscono “la parola assassina ormai”, quella che “ora come allora serve a non partire, non fare, non provare mai a cambiare le cose intorno a noi”. Essi osano scavalcare i limiti della conoscenza per spostarli più in là e si avvicinano a conoscere il creato senza porsi barriere né limiti, avendo con sé l’arma della immaginazione. E credono alle storie.

Ah, le storie. Come le definisce bene Genovesi. Usa proprio il plurale, in quanto noi siamo le storie: “le nostre storie sono scritte in minuscolo ma addosso a noi, e senza di loro semplicemente non saremmo qui. Forse è per questo che da bimbi le amiamo tanto, perché siamo nati da poco ci ricordiamo ancora che sono loro ad averci portato al mondo. Poi cresciamo e non ci interessano più, le chiamiamo favole e smettiamo di ascoltarle, mentre ci roviniamo la vita dietro a favole diverse che si intitolano carriera, prestigio, reputazione, fama, potere…dritti e tristi fino all’ultimo giorno”.

La galleria degli uomini del secondo gruppo, quelli appassionati, per fortuna è lunga e comprende anche figure femminili, misconosciute ma fondamentali nella storia della scienza, come è il caso di Mary Anning [Qui], che nel XVII secolo fa scoperte straordinarie di fossili sulle coste inglesi e solo dopo che è morta riceve il riconoscimento ufficiale del proprio operato dalla Royal Society di Londra.

Tra il 1861 e il 1871 una sessantina di calamari giganti sono stati avvistati nei mari del mondo; dunque il Kraken esiste e le prove diventano inconfutabili. Che animale è il calamaro gigante? Un secolo e mezzo dopo il capitolo 9 ci dice che le conoscenze su di lui a oggi non sono complete: nonostante le innovazioni tecnologiche a supporto della ricerca non si è riusciti a catturarne uno da tenere in un acquario e neppure a studiarlo nel suo ambiente.

Del suo corpo enorme sappiamo che può raggiungere venti metri di lunghezza: la parte più corta è il mantello, contornato da una pinna trasparente utile agli spostamenti e con due enormi occhi che superano i trenta centimetri, adatti per fissare gli abissi. Sotto gli occhi comincia la parte più lunga, “otto lunghe braccia tentacolari, più altri due tentacoli che sono lunghi ancor di più. Schizzano lontano ad afferrare la preda con le ventose che li ricoprono, ognuna orlata da un anello tagliente e dentellato, e la portano alla bocca”. Questo è all’incirca quello che sappiamo, “mentre il resto è ancora un misto di teorie”: quanto tempo vive una creatura così, di cosa si ciba, come si riproduce, se sia un predatore aggressivo, o vive nei fondali a cibarsi tranquillamente di animali morti.

La morale della storia sul calamaro gigante? È sparsa in più capitoli, specie in quelli finali, ed è fatta di frasi sferzanti, quasi degli aforismi che abbracciano uomini, mostri e armonie universali. Tra i mostri finisce anche l’isola che “sembra impossibile ma esiste davvero” ed è di plastica, è enorme pure lei e si trova tra il Giappone e le Hawaii.

Prendiamo la parte seguente, il cui titolo potrebbe essere Il calamaro gigante e i sogni: “Tutti i giorni io ci penso…E in qualche modo quella realtà lontanissima e abissale mi fa vivere bene qua sulla terraferma. Perché magari sono alla stazione e il treno è in ritardo, o in macchina verso un posto che non trovo…Ed ecco che dal nulla scivolo di lato verso questo pensiero, questo sogno che però è verità, e cioè che intanto laggiù nel buio profondo del mare ci sono un capodoglio e un calamaro lunghi decine di metri e pesanti tonnellate, che combattono stretti e insieme danzano nell’abbraccio di tentacoli lunghissimi…Immagino queste due creature enormi che all’improvviso si bloccano, girano i loro grandi occhi da questa parte e mi trovano qui, seduto minuscolo su una roccia del fondale con l’espressione ansiosa. E dalle loro bocche piene di affanno e carne e battaglia, mi chiedono: ‘Oh, che ti succede?’ “

In questa danza universale, a cui prendono parte gli esseri viventi di ogni specie e di ogni dimensione, a partire dagli animali raffigurati come divinità danzanti nelle caverne di Lascaux, se siamo disposti a tuffarci in questa “smisurata meraviglia di cui non sappiamo e non sapremo mai nulla” senza sentirci superiori alla Natura, ma sue parti, allora abbiamo davanti un “orizzonte smisurato, dove niente ha più senso e quindi tutto può averne, tutto può esistere e succedere. Perché se esiste davvero il calamaro gigante, non c’è più un sogno che sia irrealizzabile, una battaglia inaffrontabile, un amore impossibile”.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

La Russia non è Putin:
immagini della repressione contro i pacifisti russi

 

Mentre l’esercito russo assedia Kiev e i cittadini ucraini si organizzano per una disperata difesa, i governi occidentali provano a mediare per arrivare almeno a una tregua. Intanto in tutto il mondo, e soprattutto in Europa, si susseguono le manifestazioni contro l’invasione voluta dallo zar Putin e per chiedere la pace subito.

Centinaia di migliaia di profughi ucraini (alla fine potrebbero essere 10 milioni) cercano di fuggire dall’inferno ucraino. Anche i corridoi umanitari non sono garantiti. L’artiglieria e l’aviazione Russa continuano a colpire.
E in Russia cosa succede? C’è il rischio che la solidarietà verso il popolo ucraino aggredito e la condanna di Vladimir Putin si trasformi in un sentimento antirusso senza distinzioni. Ma la Russia non è Putin: a Mosca, San Pietroburgo, in tante altre città, migliaia di persone (soprattutto giovani e giovanissimi) scendono in strada per chiedere la pace. sfidando a mani nude le famigerate forze speciali di polizia. Ad oggi sono oltre 10.000 le persone fermate e arrestate.

Alcuni amici russi in Italia – che ho visto scioccati e spaventati da quanto sta succedendo – sono in contatto costante con i manifestanti in patria. Sono loro che mi hanno fornito queste immagini inedite. Dalla Russia, infatti, alcuni giovani fotografi e giornalisti, riescono ad aggirare la censura sempre più stretta che Putin ha imposto ai media e social media, e postano tutti i giorni immagini e video sulle manifestazioni per la pace e sulla dura repressione poliziesca..

Le immagini non richiedono alcun commento. O solo uno: la pace non la vuole solo il popolo ucraino, i cittadini europei, l’opinione pubblica mondiale, ma anche lo stesso popolo russo è oggi sotto il tallone di ferro del dittatore Putin.

FORSE AL PACIFISMO SERVE CORAGGIO
Per non lasciare sola Kiev, fare come Marek Edelman a Sarajevo?

 

Ieri ero a Montesole per la manifestazione per la pace in Ucraina, tornando ho scritto questo testo.

E’ inutile girarci intorno. Checché ne dica Putin di invasione e, ogni giorno di più, di sterminio si tratta e gli ucraini, Zelenskyj e i difensori di Kiev si sentono soli a contrastare l’attacco russo e vivono noi europei impotenti, distanti ed inermi.

E non cambiano la situazione, per quanto necessari e utili, gli aiuti umanitari ai profughi.

Non lo fanno i pur sacrosanti sforzi diplomatici che ben poco servono di fronte ad un’aggressione così feroce e determinata.
Appaiono tardive, e in questa fase, forse addirittura controproducenti le proposte di ammettere l’Ucraina nella Comunità Europea.

E’ dubbia, sul piano concreto prima ancora che morale, la fornitura di armi agli ucraini che combattono perché rischia da un lato di innescare un conflitto di dimensioni mondiali e dall’altro solo di prolungare i tempi di una resistenza destinata a soccombere inevitabilmente, innalzando il tributo di sangue e di vite militari e civili.

La domanda è dunque: si può fare altro?
Si può evitare al pacifismo il rischio di passare come il rifugio delle anime belle e di chi non vuole sporcarsi le mani?
Perché è senz’altro giusto non nascondersi limiti e colpe della Nato ma limitarsi a manifestare al sicuro nelle città europee sotto la bandiera “né con Putin né con la Nato” non impedirà che al di la del confine si continui a morire di bombe e carri armati.

Per questo credo sia importante continuare ad interrogarci e a cercare ogni strada possibile per non far sentire soli ed abbandonati a se stessi Kiev e l’Ucraina. Di fronte a drammi di questa portata umana e politica strade facili evidentemente non ce ne sono ma nondimeno forse potrebbe esserci d’aiuto concentrarci a pensare non a come portare domani  l’Ucraina in Europa ma piuttosto a come l’Europa possa subito ed ora condividerne l’urto dell’invasione.

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Marek Edelman a Varsavia nel 2009, foto Mariusz_Kubik (Wikimedia Commons)

Su questa strada un suggerimento importante a me sembra possa venire al movimento pacifista dalle scelte di vita di Marek Edelman, prima eroico comandante del Bund e dei partigiani ebrei che nel 1943 guidò la rivolta del ghetto di Varsavia contro i nazisti, poi medico e leader di Solidarnosc, e infine negli anni ’90 del secolo scorso ormai più che settantenne capace di rompere l’isolamento di Sarajevo conducendo le colonne di aiuti umanitari in città.

Certo servirebbe coraggio, molto coraggio, buona logistica e molta organizzazione.
Ma cosa accadrebbe se domenica prossima entrasse a Kiev una colonna di aiuti non di militari ma di militanti per la pace
, senza armi ma con viveri, coperte, medici e medicine? E con i pacifisti i sindaci di alcune grandi città europee, parlamentari italiani e di Bruxelles, Emma Bonino e Angela Merckel. E che cosa accadrebbe se una volta arrivati tutti loro, Bonino e Merkel, sindaci e parlamentari compresi,  dicessero noi restiamo qui, accanto a Zelenskyj e a chi difende Kiev decisi a condividere senza armi ma fino in fondo l’assedio e la resistenza dei difensori della città?

Certo, sarebbe necessario essere disposti a rischiare un po’ la vita perché nessuno può evidentemente garantire oggi che la pazzia senile e l’autoritarismo sconfinato di Putin per questo si fermerebbero. Ma forse solo in questo modo Zelenskyj e con lui uomini, donne e bambini ucraini avrebbero qualche probabilità di più di sopravvivere. E solo così noi pacifisti italiani ed europei avremo la possibilità di lasciarli meno soli e di contribuire in modo davvero utile e forse decisivo alla loro resistenza contro l’invasore.

(Ferrara, 6 marzo 2022)

Cover: Sarajevo durante la guerra di Bosnia (Wikimedia Commons)

L’Europa si prepara alla guerra …
per affrontare il mondo dopo la guerra

 

A poco più di una settimana di guerra si potrebbe provare a tracciare un primo bilancio di quanto sta succedendo. Per farlo è necessario distinguere il piano tattico-militare da quello geopolitico perché gli andamenti sono parecchio diversi.

Sul piano tattico-militare  la Russia non sta andando male, anzi ha conquistato diversi obiettivi molto importanti e anche simbolici, come la diga che ha fatto saltare nei pressi di Kherson, costruita dagli Ucraini dopo l’annessione della Crimea con l’intento di assetarne gli abitanti. Scopo poco nobile dal punto di vista umanitario ma efficace dal punto di vista militare.

Ha conquistato poi l’Isola dei Serpenti per avere un controllo delle foci del Dnepr e per contrastare eventuali operazioni Nato nel Mar Nero. Sta procedendo alla conquista della linea di questo fiume che divide in due l’Ucraina e che vede la parte orientale storicamente più russofona, su questa linea ci sono importanti centrali nucleari come Zaporižžja dove ci sono sei reattori che generano 40-42 miliardi di kWh di elettricità, cioè parliamo della più grande centrale nucleare dell’Ucraina. Controllo quindi di acqua e elettricità con attenzione alla logistica.

In questo contesto è stata presa Kherson che, come spiega l’esperto militare Jack Watling del Royal United Services Institute, occupa una posizione strategica sul fiume Dnepr: “Quando i russi inizieranno a catturare le città chiave lungo il Dnepr, saranno in grado di impedire che i rifornimenti si spostino da ovest a est per rifornire le unità militari ucraine che stanno combattendo nelle aree operative delle forze congiunte intorno al Donbass. Cominceranno così a strangolare la logistica per gli ucraini”.

Anche la capitale Kiev è circondata e probabilmente sopravvive grazie al fatto che non vengono per ora utilizzate bombardamenti a tappeto. Quei bombardamenti che furono effettuati in Serbia vent’anni, fa oppure quelli visti in Libia o che vediamo ancora in Siria, che lasciano le città completamente sventrate e centinaia se non migliaia di morti sul terreno. In questi casi non vengono diffusi dati sulla distruzione di scuole, chiese e ospedali. Ci provò Julian Assange con gli esiti che conosciamo.

Da un punto di vista geopolitico la situazione è diversa.
Putin sta nettamente perdendo la sua guerra, talmente tanto che gli Stati Uniti stanno scomparendo dalla scena proprio perché gli europei stanno operando benissimo da soli nell’evidenziare tutte le atrocità russe e contrapponendole agli eroismi individuali e di gruppo degli ucraini. Si sta riuscendo persino a far passare come gesto umanitario la divulgazione di istruzioni per fabbricare molotov e l’insegnamento dell’uso delle armi a vecchiette e bambini, magari anche se operati da gruppi neonazisti.

Quindi gli USA non hanno più bisogno di infierire, a Biden che chiamava “killer” Putin si è sostituito Di Maio che lo ha definito un “animale”. Tutta l’Europa sta condannando senza remore l’invasione russa sostituendo l’iniziale ritrosia lanciando pacchetti di sanzioni economiche senza precedenti, una sacrosanta gara nell’ospitare i profughi ucraini, diffondendo fino al parossismo l’eroismo del suo presidente che è rimasto sul campo e continua ad incitare alla guerra i suoi, l’Europa e la Nato. Ad oggi il russo ritorna ad essere da una parte “mangiatore di bambini” con il corollario di stupri, bambini uccisi, civili indifesi bombardati e dall’altra titolare di un’armata sgangherata fatta di carri armati russi senza benzina e bambini-soldato mandati allo sbaraglio.

Nel mentre nel mondo vengono banditi libri e scrittori russi anche del passato, viene negata la partecipazione alle gare sportive non solo agli atleti normodotati ma anche a quelli che partecipano alle paraolimpiadi. Insomma il russo è una minaccia e quindi va isolato, tutti i russi senza distinzioni. Cosa potrebbe dire o fare ancora e di più Biden? Meglio lasciar fare e aspettare il dopo per intervenire nel riassetto post guerra o post “operazione speciale” come la chiama Putin.

Perché poi gli americani dovranno per forza intervenire perché è in atto un salto geopolitico importante, sotto certi aspetti impensabile solo pochi mesi fa, davvero senza precedenti. Quindi adesso osservano, specificano che non entreranno nel conflitto “armato” in nessun modo, e si ritirano ad osservare le mosse degli alleati.

La Germania, che aveva iniziato sconfessando gli Usa sull’eventuale chiusura del gasdotto Nord Stream 2, adesso ne ha determinato il definitivo blocco accettandone le gravi conseguenze economiche e, dopo aver approvato l’invio di armi ai combattenti, ha rotto gli indugi annunciando che porterà le sue spese militari a 100 miliardi nei prossimi anni. Pensate per un paragone che la Russia di miliardi ne spende “solo” 60 all’anno.

Anche il ministro Guerini ha detto di voler arrivare a 38 miliardi dai 25 attuali che già avevano scandalizzato i pacifisti. Ovviamente tutti gli indici azionari dei produttori di armi sono schizzati alle stelle e ringraziano, del resto dalle guerre ci si guadagna sempre.

Quindi la prima conseguenza di rilievo negli assetti europei è un riarmo generalizzato dopo l’accettazione della teoria che al fuoco si risponde con il fuoco e alle provocazioni con altrettante provocazioni. Nessuno aveva valutato possibile semplicemente dichiarare o aiutare a dichiarare la neutralità dell’Ucraina, cioè qualcosa tipo la Svizzera per esagerare o la Finlandia e la Svezia per rimanere più sul concreto.

Ma sarebbe logico chiedersi come la Francia reagirà a questo nuovo futuro con una Germania che si lascia dietro un settantennio di ritrosia nel riarmarsi? Certo spingendo per un esercito europeo che la vedesse magari ai posti di comando, un esercito di pace … ovviamente. E gli USA accetteranno una Germania o un’Europa indipendente dal punto di vista militare? Vedremo, per ora ci riarmiamo “grazie” ai russi e dopo aver elargito miliardi alle case farmaceutiche cominciamo a finanziare le aziende e le lobby delle armi.
Per fortuna almeno noi italiani siamo nelle mani del governo dei migliori e uno stratega provato e coerente come il nostro ministro degli esteri ci assicura scelte almeno a livello di quelle operate dal suo collega ministro della sanità durante la (sembra) passata pandemia.

Le storie di Costanza /
Marzo 1959 – Il collegio delle suore Morotee

 

Nel Marzo 1959 mia madre Anna e la sua compagna di classe Giuseppina si resero conto che mancavano pochi mesi alla maturità e decisero di dedicarsi alla scuola con maggiore assiduità.

Era loro abitudine andare a studiare dalle suore Morotee che gestivano un collegio per giovani donne in centro a Vergania. Il collegio rispondeva contemporaneamente alle esigenze di diverse categorie di ragazzine (ricche, benestanti e povere), con una marcata predilezione per le più ricche. Le figlie di ‘buona famiglia?, le predilette, vivevano sempre in collegio, avevano la divisa, spazi, arredi e personale dedicati esclusivamente a loro. Non uscivano mai, se non per recarsi a scuola accompagnate da suor Melina, la suora deputata a formare le future mogli degli ‘uomini di potere’ locali.
Oltre al collegio esclusivo, le suore Morotee gestivano un pensionato per le ragazze che si fermavano a Vergania durante la settimana e tornavano a casa tutti i sabati (le benestanti). Infine gestivano una mensa con doposcuola per le ragazze che viaggiavano (le povere).

Ognuno di questi tre gruppi aveva la sua suora responsabile (Melina, Giuditta e Dorotea) e i tre ‘mondi’ si incontravano raramente.
Mia madre e Giuseppina erano delle povere giornaliere, senza divisa, cappotto di vigogna grigio e cappello di feltro, poco considerate e molto libere.

Mio madre racconta che le ‘interne’, così venivano chiamate le ragazze che vivevano regolarmente in collegio, invidiavano molto le ‘giornaliere’ perché quest’ultime potevano andare in stazione a prendere il treno da sole e nel tragitto erano libere di fare ciò che volevano, compreso comprare il gelato e scambiare qualche battuta con i coetanei maschi.

Questa era la vera differenza che inaspriva gli animi e divideva il mondo tra bianco e nero, gettando una luce sinistra sulle viaggiatrici. Le povere “interne” non potevano decidere con chi parlare, sicuramente non erano libere di fare chiacchiere con maschi raminghi, curiosi e quasi sicuramente squattrinati.  Ogni tanto qualcuna scappava di notte dal collegio, calandosi con le lenzuola, rubando chiavi di scorta, oppure inventando qualche altro stratagemma tanto rocambolesco quanto pericoloso e mai scoperto perché ritenuto dalle suore inconcepibile, inaccettabile e quindi decisamente impossibile.

Quando il rigore impedisce di concepire eventi perché classificati impossibili, li si elimina dal mondo reale e questi, in quanto inaccettabili, spariscono dalle singole esistenze e da quella delle persone di cui si salva l’incolumità.
In alcuni casi riemergono come miti, archetipi, esempi nefasti di ciò che non succederà mai. In altri casi ancora non riemergono, vengono semplicemente rimossi e vanno ad affollare quell’incredibile mondo dell’inconscio nel quale si animano le nostre tendenze più sinistre ma anche alcuni dei nostri impulsi più nobili.

Con il gruppo delle collegiali ricche, mia madre e Giuseppina non si incontravano mai, mentre capitava che si incontrassero con le pensionate, che essendo libere il fine settimana, potevano intraprendere lo stesso cammino verso la stazione senza essere controllate da genitori, parenti, suore, insegnanti e malcapitati portieri.

La suora responsabile delle giornaliere si chiamava Dorotea. Suor Dorotea era piccola, di mezza età, robusta, occhi scuri. Amava molto raccontare l’origine del nome che le era stato assegnato quando aveva preso i voti perenni. Il nome Dorotea deriva dal tardo nome greco Δωροθεα (Dorothea), femminile di Δωροθεος (Dorotheos) e significa “dono di Dio”.
Quale nome migliore per una suora. In modo particolare quel nome le era stato assegnato per ricordare Santa Dorotea di Alessandria che si festeggia il sei di febbraio. Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica, VIII, 14) riferisce che Massimino Daia, trovandosi ad Alessandria d’Egitto, concepì un’insana passione per una nobile donna cristiana, ricca, educata e pura. Fece molti tentativi per conquistarla, ma la donna gli fece sapere che avrebbe preferito la morte piuttosto che concedersi a lui. Accecato dall’ira causato dalla sua passione non corrisposta, Massimino si vendicò condannandola all’esilio e confiscandole i beni.
Eusebio non ha tramandato il nome dell’eroica donna, ma Rufino, afferma che si chiamava Dorotea, che era una vergine consacrata a Dio e che, per sfuggire alle voglie di Massimino, si rifugiò in Arabia.

Suor Dorotea raccontava a tutti questa storia antica che sembrava piacerle molto. Contrariamente a molte sue consorelle era soddisfatta del nome che le era stato assegnato dall’Ordine monastico e non rimpiangeva il nome di battesimo che veniva tolto alle converse per sradicarle definitivamente dalle loro radici originarie e ripiantarle nella terra di santa Madre Chiesa, facendole rigermogliare consacrate, rigogliose e belle.
Si vociferava che il nome di battesimo di Dorotea fosse Bortolina. Non c’era alcuna prova di questa diceria, se non la convinzione di tutti che il nome originale fosse la vera causa della predilezione che questa suora nutriva per quello nuovo. Quando le viaggiatrici volevano ridere dicevano a bassa voce “arriva Bortolina”. Se la suora lo avesse saputo, si sarebbe sicuramente offesa; non si sapeva nemmeno se quello fosse davvero il suo nome da bambina, magari non si era mai chiamata così. Comunque sia, Dorotea-Bortolina era molto brava.

Nonostante le fossero state affidate le ragazze meno ‘importanti’, perché contribuivano miseramente all’arricchimento del collegio, si occupava di loro con assiduità e gentilezza e mia madre conserva un buon ricordo di quella suora sempre vestita di nero, con una grande croce d’argento appesa al collo, gli occhi intelligenti e il sorriso sulle labbra.
A volte mia madre regalava a suor Dorotea qualche spagnoletta nera (rocchetto di filo sottile) per aggiustare la sua veste. Le spagnolette provenivano dalla merceria della nonna Adelina ed erano molto gradite dalla suora che in cambio del filo, regalava a mia madre qualche immaginetta di Santi del paradiso, raccomandandole di darla alla nonna. La nonna Adelina conservava le immagini dei Santi e le divideva con la prozia Ciadin che, essendo una ‘suora in casa’, le apprezzava quanto lei.

Fu così che in uno dei bauli della nonna, molti anni dopo, ritrovai una scatola di Santini (le immaginette dei santi) degna di un collezionista famelico. Alcune decorate a mano su carta artigianale strappata ai bordi, altre su pergamena. Belle, uniche, una delle mie collezioni preferite.
‘Il mondo della carta’ è affascinante per la sua storia, per le modalità con cui è stata prodotta nel corso del tempo, per le materie prime impiegate … e, molto di più, per l’uso importante e a volte essenziale fatto di questo prezioso materiale nel corso dei secoli.
Grazie alla carta si sono potuti documentare avvenimenti che sono successi ai nostri antenati. Storie di gesta umane ed eroiche arrivate fino a noi, a volte in maniera lineare e a volte in maniera rocambolesca, se non miracolosa. La mia stessa vita sarebbe diversa senza la carta, la maneggio sempre.
Piace anche a mia nipote Rebecca che si è fatta regalare un kit per costruirla.

Siccome mia madre e Giuseppina erano libere di fare ciò che volevano, non sempre andavano dalle Morotee a fare i compiti. A volte invece di andare dalle suore, andavano in biblioteca. La biblioteca di Vergania aveva una bella sala studenti dove erano allineate enciclopedie, vocabolari, atlanti e libri di libera consultazione. Era frequentata da molti ragazzi delle scuole superiori che passavano là il pomeriggio a studiare. Così come dalle suore, anche nella sala studenti della biblioteca, c’era del personale a cui rivolgersi per compiti particolarmente difficili o per reperire libri non direttamente accessibili dalle mani dei ragazzi.

In quella grande sala si parlava a bassa voce e non si disturbavano gli altri, come in chiesa e in ospedale. A Vergania c’è ancora adesso quella biblioteca, sempre bella e frequentata. Quando ci passiamo davanti, mia madre si ferma sempre a guardare l’ingresso di quel posto. Il portone è di legno marrone scuro, ad arco, con dei grandi battenti d’ottone.
Si capisce guardandolo che è stato concepito per essere l’accesso di un edificio importante e non quello di un palazzo residenziale. Ricorda a mia madre la sua gioventù e, come tutte le cose che ci riportano a momenti sereni della nostra esistenza, ha meritato nel suo cuore un posto particolare. Adesso anch’io, quando passo davanti alla Biblioteca, mi fermo sempre a guardare il portone e penso a mia madre che ha ottant’anni e a scuola non va più da moltissimo tempo.

Come nei mesi precedenti, anche nel Marzo 1959, successero nel mondo molti avvenimenti che non influirono sulla vita che si svolgeva tra il negozio della nonna e la città.
Il 10 marzo la resistenza tibetana culminò in una grande sollevazione popolare repressa dal governo cinese. Il 14 marzo il Consiglio nazionale elegge Aldo Moro nuovo segretario politico della Democrazia Cristiana. Il 17 marzoTenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, fugge dal Tibet alla volta dell’India. IL 29 marzo: la Cina, dopo la rivolta nel Tibet, scioglie il governo tibetano ed insedia il Panche Lama.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore sotto il titolo. 

P.P.P. Ritratto del poeta da giovane

 

Pier Paolo si muove in bicicletta in un fazzoletto di Bassa friulana, da Casarsa a Versuta – dove ha affittato una stanza per farci uno studiolo che poi diventerà rifugio ancora più sicuro dalla guerra – in bicicletta a Valvasone, quando insegnerà alle medie, dal 1947 al 1949. In bicicletta spesso su strade bianche per qualche scampagnata, alle sagre paesane, al fiume, soprattutto al fiume, la riva destra del Tagliamento. Ha tra i 19 e i 28 anni. Abita a Casarsa della Delizia, casa e famiglia di mamma Susanna Colussi, nel tentativo di sfuggire ai bombardamenti di una guerra che «puzza di merda». L’infanzia e l’adolescenza erano state un frenetico peregrinare al seguito del padre, l’ufficiale di fanteria Carlo Alberto. Bologna, Parma, Conegliano, Belluno, Casarsa, Sacile, Idria. Un pezzo di ginnasio a Conegliano, un altro pezzo a Cremona, un altro a Scandiano (una quindicina di chilometri da Reggio Emilia). Poi un po’ di stabilità: liceo a Bologna e a Bologna l’università. Le estati a Casarsa prima del trasferimento definitivo nel 1941. A Reggio ha conosciuto il primo importante amico, Luciano Serra. Lo ritrova al Galvani di Bologna, e a Bologna le amicizie si allargano e acquistano nuovo spessore culturale: oltre a Luciano, Roberto Roversi, Francesco Leonetti, Achille Ardigò, Giovanna Bemporad, Fabio e Silvana Mauri (la loro madre è sorella di Valentino Bompiani).

Più provincia di così si muore. La sterminata e asfittica provincia italiana, quella da cui scappi o muori, quella che soffoca chi rimane, si salva chi fugge in tempo, prima di rimanerne intrappolato per sempre come in un film horror.

Pasolini infatti fugge. A Roma, nel gennaio 1950.

Invece no.

La sua storia sembra raccontare un’altra storia.

Perché nulla di provinciale c’è in Pasolini, e nella sua vita, mai. La provincia non lo sfiora nemmeno. Neanche si può dire la assuma come condizione oggettiva e la utilizzi per trasformare lo sguardo, il punto di vista, alla pari di altri intellettuali, scrittori, artisti. No, è come se qualcosa nel suo Dna lo rendesse totalmente impermeabile. Non un rifiuto, non un mutamento di prospettiva, ma una estraneità radicale e del tutto “naturale”. Senza conflitti, per una volta.

Pasolini scrive poesie in friulano, ma il friulano è una lingua, non un dialetto. Meno provinciale di così.

I magredi del Tagliamento sono la cosa più lontana che si possa immaginare dal Tevere e dalla marane delle periferie della capitale. Ma Pasolini non frequenterà il nuovo fiume e le borgate per continuità con i “campi del Friuli”. L’unica continuità sono i ragazzi – «una gioia da morirci dentro» – i ragazzi che lì vanno a giocare a pallone e a fare il bagno seminudi. Le periferie delle metropoli sono metropoli per eccellenza, la quintessenza delle metropoli, non campagna. La continuità è l’eros, non il paesaggio, non la povertà, non la classe sociale, non la lontananza da qualunque “centro”.

Anche le sagre paesane, le bevute, i balli Pasolini non li vive come divertimento e senso di appartenenza alla comunità. Lui guarda tutto, ancora giovanissimo, da antropologo, da sociologo, da linguista. Dal di fuori, da osservatore distaccato (ed è un atteggiamento culturale, non la percezione dolorosa della diversità sessuale).

Prima di diventare insegnante statale – Pasolini è “maestro dentro”, maestro con la “m” minuscola – organizza una scuola nella sua casa per i ragazzi che non possono più andare neanche a Conegliano in treno, con i bombardamenti che impazzano. Pochi anni prima Pasolini aveva fondato l’Academiuta di lenga furlana, ragazzi di quindici, diciassette anni, insieme al suo amico Cesare Bortotto, al cuginetto Nico Naldini e al grande amore della sua vita prima di Ninetto, Tonuti. In entrambe le “officine” si legge e si fa poesia, si scrive in friulano ma si studia anche greco e latino, lo sguardo è ai classici, ma anche alla contemporaneità e alla sperimentazione linguistica. Pasolini legge e fa leggere Cechov, Verga, l’antologia di Spoon River, Gide, Penna, Ungaretti, Montale, Cardarelli. Ovviamente è l’eros che diventa pedagogia, dalla notte dei tempi. Ma anche qui sembra di essere alla Biblioteca nazionale, non in una stanza sperduta in mezzo ai campi. Niente di dilettantesco, velleitario, periferico, marginale.

Qualcuno ogni tanto se ne esce con la scuola di Barbiana, stessa vocazione amoroso-pedagogica, un adulto che si dedica ad acculturare i ragazzi del popolo in un luogo sperduto. Ma è un abbaglio. A don Lorenzo Milani sta a cuore che i ragazzi imparino l’italiano al posto del dialetto, arrivino a conoscere mille parole come i padroni per non essere più servi. Pasolini è lontano anni luce da tutto questo. A lui interessano la letteratura e l’arte come assoluti, questione esistenziale non strumento anticlassista, il lavoro intellettuale come fedeltà a sé stessi e per questo “morale”. Senza contare che da Casarsa Pasolini ha rapporti con Gianfranco Contini, Vittorio Sereni, Enrico Falqui, Giorgio Caproni (che conosce personalmente), con Mondadori e Bompiani, pubblica i primi libri che riscuotono attenzione, fonda riviste, collabora con altre, scrive sulla Fiera Letteraria, è insomma già nel vivo del “dibattito culturale” dell’epoca con una sua voce precisa e forte.

E non ha nulla di strapaesano e provinciale e contadino – come il contesto geografico farebbe invece pensare – la tormentatissima vicenda familiare. Il conflitto drammatico con il padre, fascista, che va e viene da casa, tradisce la moglie, perde tutti i soldi, beve, viene fatto prigioniero in Africa, torna e viene diagnosticato anche clinicamente “paranoico”, con crisi sempre più violente e frequenti di urlante delirio accusatorio. («Ho smesso di amare mio padre a tre anni»). A fare da contraltare, quell’amore assoluto della madre per lui, prima del suo per lei, una «sconfinata intimità». Una madre a sua volta così estranea all’ambiente strapaesano: fa la maestra altrimenti in casa non si mangia, ma non è una donna che possa confondersi con le altre, arriverà a scrivere addirittura un “romanzo” sulla storia della propria famiglia a partire dalla campagna di Russia di Napoleone.

Infine, a nulla di provinciale può ricondursi la vicenda del fratello Guido, partigiano, ammazzato nella tragedia di Porzûs dai suoi stessi compagni, comunisti che accusano la sua brigata di tradimento. Se mai c’è stata tragedia-simbolo più drammatica di un pezzo della Resistenza italiana è questa.

L’unica cosa che sembra portarsi addosso un sapore di provincialismo è la ricaduta pubblica dell’omosessualità di Pasolini, il tentativo di ricatto subito da un prete, qualcosa di oscuro che comincia a trapelare, fino alla vicenda finale dello scandalo di Ramuscello, una masturbazione con tre ragazzi, che poi non riescono a tenere la bocca chiusa, si accusano a vicenda, le “voci” arrivano ai carabinieri, i primi di infiniti procedimenti giudiziari (adescatore, corruttore di minorenni, atti osceni in luogo pubblico…), la cacciata dall’insegnamento, la cacciata dal Pci «per indegnità morale e politica». Da questo, sì, non si può che fuggire: mettere in salvo la “mamma”, mettere in salvo se stesso. Ed ecco la fuga in treno in un’alba gelida di gennaio per chiedere rifugio allo zio Gino Colussi, via Porta Pinciana 34, Roma.

È curioso che quell’atmosfera così provinciale a proposito degli “scandali omosessuali” negli anni Cinquanta permeasse in realtà tutta la società italiana, senza differenze – se non di spazi e di occasioni – fra città e paesini.

«Io so. Ma non ho le prove». Sono forse le parole più famose di Pasolini. Gliele rubo, per dire che non ho le prove ma sento che nonostante l’umiliazione, la mancanza di soldi, di lavoro, di prospettive, Pasolini, scendendo alla stazione Termini, abbia pensato – o solo “sentito” – non di essere un esiliato, ma uno che torna ai luoghi che sono sempre stati suoi. Di più. Mi sembra di sentirlo sussurrare: non sono mai partito da qui.

In copertina: Pier Paolo Pasolini con sua mamma, Casarsa, 1971 – foto di Sandro Becchetti.

Si censura Dostoevskij … per l’Ucraina o per noi?

 

Il fatto è noto: l’Università Bocconi ha annullato un corso su Dostoevskij tenuto da Paolo Nori [qui] (peraltro gratuito) in omaggio all’Ucraina invasa da Putin.
Dopo l’incredulità del docente, l’università ha ritirato la sua decisione demenziale. Un piccolo segno, ma è noto che è proprio dai ‘piccoli segni’ che si coglie il futuro che ci aspetta (se non si reagisce). Confondere un autocrate come Putin con il suo popolo e la sua cultura (considerata patrimonio dell’umanità), è un ‘segno dei tempi’: ci si deve tutti accodare al pensiero unico di totale condanna di Putin (e fin qui va bene) senza discutere sulle nostre (europee, per non dire Usa) responsabilità.

Gli italiani hanno già vissuto durante il fascismo questi “piccoli passi” da pusillanimi che volentieri assecondano la vulgata dominante diventando più “prussiani del re di Prussia”, facendo cioè quei piccoli gesti che piacciono a quello che si reputa in quel momento “lo spirito dominante del tempo”. Discriminare, odiare, consigliare amichevolmente di non esporsi, un ammiccare complice, rigettare qualsiasi azione che possa comprometterti, una predisposizione millenaria al conformismo, il terrore di ogni complessità, soprattutto quella del pensiero, dividere tra buoni (noi) e cattivi (gli altri), soprattutto il rifugio della rassicurante appartenenza al nostro gruppo che ci scalda e protegge.

Colpire il pensare libero che è alla base della democrazia. Essere vissuti 75 anni in una democrazia non ci esenta da questi istinti e quindi se “soffia il vento contro la Russia di Putin” tutto ciò che è russo va demonizzato. La storia è colma di questi comportamenti opportunistici, com’è avvenuto durante il nazi-fascismo (e non solo). I partigiani che si rivoltarono furono solo il 3% della popolazione e nel ‘43 quando Mussolini era già stato destituito dal Gran Consiglio a Ferrara (per esempio) c’era una fila per andarsi a iscrivere al partito fascista che andava dalla sede (quasi alla fine di Viale Cavour) fino al Castello.

Fascisti diventati in molti casi comunisti, socialisti, democristiani, liberali nel dopoguerra ed è per questo che fu bruciato il Tribunale (conteneva compromettenti documenti). La condanna senza appello alla guerra e a Putin non ci deve esimere da un dialogo civile (da un libero pensiero) che ci faccia uscire da questa drammatica situazione in un mondo migliore (e più pacifico). Oggi le tifoserie sono dannose. La guerra non deve nasconderci che siamo dentro un capitalismo che crea crescenti disuguaglianze, disastri ambientali, che negli ultimi 20 anni ha impoverito il 90% di europei e americani e proprio di questo parla Dostoevskij che passò 4 anni in Siberia e 2 anni di servizio militare per aver contestato il regime zarista e in Delitto e Castigo insorge contro la pretesa dei sostenitori del liberalismo di rendere l’umanità calcolabile. Anche il Cristo scelse di non essere contato dal primo censimento dei Romani in Palestina, fuggendo in Egitto con la famiglia. Caifa nel condannare Gesù dirà “è meglio che muoia uno piuttosto che tutto il popolo”. Durante la pandemia e ora con la guerra (segnalo che in questo momento ci sono 30 guerre nel mondo) c’è chi vorrebbe creare un pensiero unico (senza se e senza ma), ma ciò significa minare l’individuo (e il suo libero pensare, amare, volere) che rappresenta l’essenza dell’umanità.

Il pensiero di Dostoevskij è molto critico coi meccanismi economici e il Raskolnikov di Delitto e castigo illustra come non credesse alla supposta razionalità dell’Homo economicus, su cui si basano le teorie dell’economia capitalista moderna (non tutte). Scrive Dostoevskij “L’uomo non persegue i propri interessi, ma i propri fantasmi”. Per questo motivo, ma forse anche per i tanti rovesci economici patiti, il grande scrittore russo “aborre il capitalismo, che ha osservato i danni che ha prodotto a Londra e che ora sta facendo a San Pietroburgo” la rivoluzione industriale nella quale Delitto e castigo è ambientato. Dostoevskij esprime nel romanzo il suo disprezzo per la borghesia del denaro tramite il personaggio dell’avvocato Lužin, ricco ma meschino e moralmente depravato, che offre una sua parodistica e interessata versione della “mano invisibile” di Adam Smith: “Non lavorando che per me stesso lavoro, di fatto, per tutti”. Anche la formalizzazione matematica dell’economia portata avanti da altri economisti classici anglosassoni, da David Ricardo in poi, era per Dostoevskij un’aberrazione.

Formalizzazioni che ancora oggi sono ben presenti nella cultura degli economisti neo liberisti che sono molto “efficienti” ma iniqui, direbbe Dostoevskij, per il quale “non c’è niente di più disumano della miseria delle grandi città moderne”. Il suo sguardo sulla povertà è vicino a quello di Charles Peguy (scrittore e saggista francese di poco posteriore a Dostoevskij, autore di Il denaro), che stabiliva una distinzione tra “l’inferno” della miseria e la povertà, la quale non solo preserva la dignità dell’uomo ma gli assicura anche (almeno fino a prima della rivoluzione industriale) una forma di “sicurezza”. “Nella povertà infatti si può conservare ancora la nobiltà dei sentimenti innati, mentre nell’indigenza nessuno potrebbe farlo”, afferma Dostoevskij. Ma è nella critica all’Homo economicus richiamata all’inizio che sta, forse, l’elemento di maggiore modernità di Dostoevskij. Ricordiamo infatti tre premi Nobel per l’economia, Herbert Simon (1978), Daniel Kahneman (2002) e Richard Thaler (2017), che hanno criticato, sulla base della psicologia comportamentale, quel modello di presunta razionalità nelle scelte economiche, spiegando come queste ultime siano viziate, sia nei consumatori che negli investitori, da pregiudizi cognitivi. Uno che ha scritto Il giocatore guardandosi in pratica allo specchio, non poteva non averlo capito.

Attaccare Dostoevskij non significa attaccare la Russia ma il nostro “sistema” che rende il 90% dei cittadini (europei e americani inclusi) sempre più poveri, mentre arricchisce in modo esponenziale una piccola fascia (sfruttando paradisi fiscali e riduzione delle imposte), che non genera lavoro (abbiamo lo stesso livello di occupati del 1960), dove un quarto dei giovani né studia né lavora, sempre più separati dalla Natura e dalle altre persone, più dipendenti dal digitale e dalle grandi multinazionali. Un “sistema” che mina le stesse democrazie (in grande ritirata nel mondo da 30 anni). Bisogna ritornare a pensare con la nostra testa, smettere di barattare libertà nostra (e degli altri) con consumismo e falso benessere, una nuova Europa federale, fondata su pace e autonomia (anche difensiva) dalla Nato e dagli Usa, diventare un polo mondiale di democrazia e di “buona vita” per tutti (non solo per i ricchi) attraente per i cittadini russi, cinesi, americani. Le dittature lavorano su odio e guerra perché sanno che dividono (divide et impera), la cultura e l’arte uniscono e sono il punto di partenza per la pace.

RUSSIA E UCRAINA: CYBER-GUERRA e SOLITA GUERRA

 

A fianco della guerra ‘fisica’ (dove si ammazzano persone e ammucchiano cadaveri) si sta combattendo tra Russia e Ucraina una guerra informatico-cibernetica. Si può parlare di guerra ibrida, anche se le azioni “su terra” sono ancora prevalenti e rischiano da sole di riuscire ad annientare un intero popolo. Da anni l’Ucraina subisce attacchi informatici russi. Uno, ad esempio, ha compromesso una solida infrastruttura quale è la rete elettrica. HermeticWiper è il nome del primo malware russo lanciato in questa guerra. Si tratta di un nuovo virus informatico distruttivo in grado di mettere in difficoltà reti di computer grazie alla sua funzionalità di compromissioni dei dati. Il software dannoso sa penetrare in un sistema informatico e iniziare in tempi rapidissimi a cancellare tutti i dati che appartengono a un’agenzia governativa, rendendoli irrecuperabili.
[https://www.cybersecurity360.it/nuove-minacce/hermeticwiper-attacca-lucraina-allarme-anche-in-italia-come-difendersi/ ]

Gli oppositori di Putin non sono stati a guardare e a fianco di Kiev si sono schierati diversi gruppi internazionali di Hackers.
Ma chi sono questi fantomatici hakers e come lavorano?

Hacker è un termine della lingua inglese che designa una persona che utilizza le proprie competenze informatiche per esplorare i dettagli di un sistema programmabile e sperimenta come estenderne l’utilizzo, come modificarlo, orientarlo o annientarlo.
Il nome deriva dalla forma sostantiva del verbo inglese “to hack” che significa tagliare, sfrondare, infrangere, ridurre, aprirsi un varco fra le righe dei codici che istruiscono i programmi software, fra le miriadi di informazioni che popolano il mondo apparentemente imperscrutabile della programmazione.
Non c’è niente di legale in tutto ciò, a meno che la legalità comprenda le azioni fatte ‘a fin di bene’. Ma una idea di ‘fin di bene’ non regolamentata ci porta verso l’anarchia più totale, non a caso molti gruppi di hackers si definiscono appunto anarchici e anche indipendenti, sovra-nazionali, apolitici, de-istituzionalizzati, delocalizzati. Il tema della legalità è sempre centrale in tutte le azioni umane, lo è anche in situazioni di guerra a cominciare dal fatto che quasi tutte le guerre non sono ‘legali’ nell’accezione più rigorosa del termine.

Alcuni gruppi hackers sono entrati a modo loro in guerra, cioè si sono schierati da una parte o dall’altra dello spaventoso conflitto che si sta svolgendo sui confini europei, cominciando a organizzare azioni che possono gravemente compromettere i sistemi (informatici) di protezione delle Nazioni.
Alcuni gruppi hanno anche compiuto azioni dimostrative e di disturbo che sono fondamentali per la compromissione di qualsiasi azione militare, anche di quelle ancora combattute con i carri-armati.

Questi gruppi sono diventati un nuovo esercito con caratteristiche completamente diverse dagli eserciti che abbiamo conosciuto fino ad ora e che nessuno saprebbe come ‘orientare’ in caso di necessità. Arriveremo al punto che nei combattimenti, così come nelle arene politiche, verranno chiamati in campo gruppi di hackers che avranno la possibilità di decidere autonomamente da che parte schierarsi (pro-guerra, contro-la-guerra, per-una-parte-in-guerra, astenuti).
L’impossibilità di escluderli, data la loro pericolosità, li renderà dei nuovi soggetti politici (se così li vorremo chiamare, altrimenti chiamiamoli soggetti-ibridi che fa lo stesso).

È attraverso le loro abilità  che potrebbe scoppiare un cyber-guerra dalle caratteristiche così diverse e imprevedibili da cambiare il mondo o, al contrario, da cristallizzarlo nell’illusione di una staticità tanto finta quanto auspicabile. In un mondo fermo, infatti, nessuno può più ammazzare nessuno.
I sistemi di protezione degli Stati potrebbero, in un futuro prossimo e credibile, essere annientati e la guerra diventerebbe una guerra per il potere fatta da gruppi sovra-nazionali, sovra-politici, sovra-democratici e che si ispirano a codici di auto-regolazione che essi stessi definiscono e difendono (“tutte le guerre sono per il potere, non si fanno guerre salvifiche, la guerra salvifica non esiste, la guerra è la negazione di qualsiasi salvezza”). Il mondo sta cambiando e insieme a lui la nostra possibilità di sopravvivere e di capire.

Ascoltando quel che dicono, a modo loro e spesso in maniera criptica, guardando quel che fanno, si direbbe che gli haker sono persone colte, con una abilità nell’uso degli strumenti informatici alta o altissima, con una idea di mondo e di giustizia che galoppa verso il confine del surreale.

Pensando a questi personaggi che usano maschere, nomi in codice, geo-localizzazioni false, indirizzi internet usa e getta, età finta e sesso ibrido mi viene sempre in mente un libro che ho letto alcuni anni fa e che molti conoscono; Uomini che odiano le donne (Män som hatar kvinnor). Un romanzo poliziesco dello scrittore e giornalista svedese Stieg Larsson [Qui].
La protagonista si chiama Lisbeth Salander ed è una hacker geniale, esperta di pirateria informatica, in grado di raccogliere informazioni da archivi pubblici, privati, bancari e giudiziari. Nell’ambiente è conosciuta col nickname Wasp. Possiede un’impressionante memoria fotografica che le permette di memorizzare in poco tempo enormi quantità di dati e di informazioni. Una ragazza strana che si interessa di matematica, algebra pura, fisica e logica e qualcuno sospetta che abbia la sindrome di Asperger.

E’ come se il confine tra realtà e finzione si fosse alterato, sembra diventato improvvisamente possibile il mondo dell’impossibile. Un ambiente surreale dove la guerra è tanto reale quanto de-politicizzata e de-localizzata.
Tutto questo convive con la guerra vera che si fa con i carri-armati e che sta devastando una nazione e tutta la sua popolazione.
I morti sono morti, il sangue scorre, le lacrime arroventano la terra. Tanti in Italia hanno colf e badanti ucraine, non fosse che per questo, la disperazione è in tutte le nostre case con una presenza e una forza dettata dalla prossimità, dalla visione diretta di visi sconvolti e sensi protesi a una ricerca continua di informazioni su chi è vivo e chi è morto. Tutto questo non può che stravolge la normale vita di una famiglia facendo sentire tutti in guerra, gradi e piccoli, giovani e vecchi, ucraini e europei, cinesi e americani.

Gli hacker possono utilizzare molte tecniche per sferrare i loro attacchi imprevedibili: la diffusione di malware, le campagne di e-mail e di phishing, le attività di sorveglianza fino alle botnet organizzate. [ https://softwarelab.org/it/hacking/ ]

Le cinque tecniche di hacking più comuni sono:

  1.  Keylogger. I keylogger sono strumenti basati su hardware o software che registrano i dati digitati sulla tastiera delle vittime con l’obiettivo di rubare le loro informazioni personali.
  2. WAP falso. Sempre più persone utilizzano il Wi-Fi pubblici per connettersi a Internet, con questa consapevolezza gli hacker hanno creato un software in grado di simulare un WAP (Wireless Access Point) falso. Le persone che utilizzano il Wi-Fi gratuito finiranno così per visualizzare una lista di nomi WAP solo apparentemente autentici (tipo: “Benetton WiFi 3” o “Aeroporto Malpensa WiFi” o “Punto Pizza WiFi”). Quando le vittime si collegano al Wi-Fi falso, gli hacker possono accedere al loro dispositivo e rubare tutto ciò che vi trovano. Stessa cosa può succedere a un civile russo che vuole comprare bombe, o a un ospedale ucraino dove serve ossigeno.
  3. Attacchi DDoS. Gli hacker possono utilizzare software dannosi per creare Botnet. Le Botnet sono reti di dispositivi connessi a Internet e controllati da remoto. Sfruttando le botnet, si possono scatenare attacchi DDoS (Distributed Denial of Service) verso siti web e reti informatiche. I dispositivi che costituiscono una botnet generano una quantità impressionante di traffico in entrata verso un sito web o una rete al fine di sovraccaricarne le risorse computazionali e limitarne l’accesso. Questo è ciò che si sta usando per cercare di aiutare l’esercito e i civili Ucraini in una guerra che non vuole nessuno e che tutti sono costretti a combattere per salvare loro stessi, le loro famiglie, la loro autonomia e il loro futuro. Mi viene in mente a questo proposito, una grande verità che ci ha lasciato in eredità la storia. Senza dignità si può cominciare una guerra ma non si può decidere di finirla. Senza una “via d’uscita” nessuno dittatore si fermerà, messo com’è, con le sue spalle al muro da chi lo circonda e dalle scelte scellerate già fatte (dalla scelleratezza non si torna indietro se non attraverso un disconoscimento parziale di ciò che è stato, è un permesso che va accordato a chi si trova suo malgrado nelle condizioni di dover cedere).
  4. Phishing. Il phishing è la forma più diffusa di pirateria informatica e consiste nell’inviare e-mail da indirizzi fasulli (solo apparentemente reali) con l’obiettivo di ingannare potenziali vittime e spingerle ad aprire link e allegati.
  5. Furto di cookie. I web browser utilizzano i cookie per memorizzare password, segnalibri e cronologia di navigazione per consentire una navigazione più veloce. Gli hacker potrebbero intercettare i dati e prendere il controllo della sessione di navigazione. In una sessione seguente, potrebbero accedere ai cookie, così come ai dati di accesso della vittima.

Il gruppo che usa sistemi di hackeraggio più citato in questi giorni è Anonymous [Vedi qui].
Anonymous è una libera associazione di attivisti e hackitivisti (gli attivisti che usano gli strumenti degli hacker per combattere le loro battaglie). E’ un movimento non istituzionalizzato e fondato sull’adesione a determinati obiettivi. L’atto costitutivo di Anonymous è la campagna contro la chiesa di Scientology del 2008. L’istituzione religiosa chiedeva la censura di un video e il collettivo, contrario a ogni tipo di censura, scagliò una serie di attacchi DDoS ai siti dell’organizzazione.

Proprio Anonimus in questi giorni è diventato il protagonista di alcune azioni di cyber-guerra contro i media russi. Attraverso twitter, Anonimus ha dichiarato la decisione del movimento di inaugurare una serie di attacchi contro la Russia e così, seppur per breve tempo, sono finiti offline i siti del Cremlino, del ministero della Difesa e della Duma. Sono state hackerate anche alcune tv russe, in cui sarebbero andate in onda canzoni tipiche dell’Ucraina. Il collettivo ha modificato anche i dati di navigazione dello yacht personale di Putin, cambiandone nome e rotte. Chissà cosa deciderà di fare domani.

Anonymous non è l’unico gruppo che si è schierato apertamente a sostegno dell’Ucraina. A fianco di Kiev ci sono anche Liberland, Pwn-Bär e Hack Team che sono riusciti a mettere on line i dati di un produttore di armi bielorusso. GhostSecurity, che in passato ha condotto diversi attacchi informatici contro l’Isis. Belarus Cyber-Partisan, che è riuscito a mettere fuori uso alcuni servizi e bloccare alcune tratte ferroviarie, in particolare quella che collega la capitale con Orsha, rallentando il trasferimento di truppe russe.

Può sembrare una guerra virtuale ma in realtà ha effetti molto concreti. La dimostrazione di come i carri-armati si confrontino con altri carri-armati ma anche con un sistema di cyber-guerra assolutamente imprevedibile,  nelle mani di persone che non sappiamo chi siano, se non per quello che loro raccontano di loro stessi.
Per quel che ne sappiamo noi, potrebbero anche essere dei nostri vicini di casa. Che maschere usano i militari della cyber-guerra? Non certo elmi anti-proiettile, ma maschere da buffoni con voci criptate. Sono a-partitici, a-politici, sovranazionali, anarchici … eppure il nostro futuro è anche nelle loro mani, lo sappiamo noi, quanto lo sanno loro.

VITE DI CARTA /
Sarti che chiedono il conto

 

È un mercoledì come tutti gli altri, ma il mercato nella piazza del mio paese non è quello di sempre. Meno gente e meno rumori. Cammino tra le bancarelle e non colgo subito che questa pacatezza è un segnale poco positivo.

Mi ci fa pensare la giovane donna che incontro e saluto: mi dice di essere a casa dal lavoro, perché la ditta presso la quale è impiegata ha sospeso l’attività.” Ah, il caro bollette è arrivato anche da voi”, dico, e non sono originale. Sono parole che registrano il problema del momento e sono sulla bocca di tutti.

Spiego il vuoto della piazza con il calo dei consumi, a cui la gente ricorre per difendersi e tentare di farcela. Stiamo uscendo a fatica da una pandemia e ci prende in pieno una crisi economica.

Meno male che riusciamo entrambe e sorriderci e puntare i nostri discorsi sul ricordo di suo padre che faceva il sarto. Infatti siamo davanti a una esposizione di maglie e abiti, che sprizzano aria di globalizzazione da ogni fibra, i venditori sono cinesi e nella loro sussurrata gentilezza ci propongono a basso prezzo i nuovi capi della primavera. Ripetuti con varietà di sfumature una bancarella dopo l’altra.

“Se ci fosse qui mio padre rimarrebbe strabiliato dalla dozzinalità di questi vestiti e faticherebbe a capire il cambiamento che ha avuto anche un piccolo mercato di paese come il nostro”. Credo anch’io che sia così.

Quando lui ha avuto la sua bottega qui a due passi fino agli anni Ottanta, i clienti, che venivano anche dai paesi intorno e dalla campagna, entravano per ordinare vestiti nuovi o per provare quelli in lavorazione. Tutti capi unici fatti su misura. Magari semplici o fatti con tessuti non troppo pregiati, ma sempre curati in ogni dettaglio.

Di solito la clientela cercava di stabilire subito all’atto dell’ordine la modalità di pagamento: chi chiedeva di pagare a rate, chi pagava una parte del dovuto in natura. Soprattutto i clienti del mercoledì, i campagnoli come dicevo, che venivano in paese con l’automobile per sbrigare le commissioni dell’intera settimana, portavano ortaggi e frutta. A volte uova. Una volta addirittura tre galline, che furono messe a razzolare all’ultimo piano di casa con qualche problema di convivenza poi risolto, facendole finire in pentola tutte assieme.

Ora si comprano capi fatti in serie, chissà in quali laboratori e in quali condizioni di lavoro. Costano poco e finisce che per senso del risparmio e per la loro praticità li comperiamo e li indossiamo. Nessun conto da contrattare, il prezzo è scritto sul cartellino e quello è.

la boutique del misteroUn solo sarto di mia conoscenza non aveva fretta di incassare ed è un sarto di carta, uscito dalla penna straordinaria di Dino Buzzati [Qui] ed è il protagonista di La giacca stregata, il primo racconto che ho letto molti anni fa di questo magico autore.

Prima di tutto vediamo come ci viene presentata questa stranezza: il narratore e protagonista si fa indicare un buon sarto e gli viene consigliato un certo Alfonso Corticella. Si reca a casa sua e fa la conoscenza di “un vecchietto coi capelli neri, però sicuramente tinti. Con mia sorpresa non fece il difficile. Anzi, pareva ansioso che diventassi suo cliente…Scegliemmo un pettinato grigio quindi egli prese le misure, e si offerse di venire, per la prova, a casa mia. Gli chiesi il prezzo. Non c’era fretta, lui rispose, ci saremmo sempre messi d’accordo”.

Che persona simpatica e particolare. Il conoscente che aveva consigliato il Corticella aveva detto di presumere che fosse caro, aggiungendo “lo presumo, ma giuro che non lo so. Quest’abito me l’ha fatto da tre anni e il conto non me l’ha ancora mandato”.

Il racconto va letto per intero, riassumerlo non rende bene il senso di onnipotenza e insieme il disagio del nostro protagonista, che trova grosse somme di denaro nella tasca destra della giacca e ogni volta scopre che nel mondo è accaduto “qualcosa di turpe e doloroso”.

La mente gli dice che non può esistere alcun collegamento, ma le somme ricavate da rapine o da omicidi sono ogni volta esattamente le stesse da lui estratte foglio per foglio dalla tasca.

Il finale del racconto, eccezionalmente, deve essere svelato ora:  perché ci richiama alla importanza che ha il fattore tempo in ciò che facciamo e alla tempestività, che dà valore all’agire umano.

Il protagonista, sopraffatto dai sensi di colpa, si libera dalla infernale attrazione dei “divini soldi” e si disfa della giacca stregata. La porta in un luogo isolato e la brucia, mentre una voce alle sue spalle sentenzia “Troppo tardi, Troppo tardi”.

Tornato a casa, non ritrova i tesori che ha accumulato, attingendo infinite banconote dalla tasca ed è costretto a rimettersi a lavorare per vivere.

Ci lascia così, calato in una vita quotidiana di stenti e con parole che ghiacciano: “E so che non è ancora finita. So che un giorno suonerà il campanello della porta, io andrò ad aprire e mi troverò di fronte, col suo abietto sorriso, a chiedere l’ultima resa dei conti, il sarto della malora”.

Mentre termino la stesura di questo testo la Russia ha invaso da più parti il territorio ucraino e di ora in ora l’aggressione armata sconvolge l’integrità del paese e le vite dei  suoi abitanti, butta in aria gli equilibri mondiali.

Come mi appare aleatoria la serie delle mie chiacchiere e dei richiami letterari. Vorrei poter incontrare di nuovo la mia conoscente e dirle “Hai visto? Scherzavamo sulla qualità dei capi che tuo padre cuciva nella sua bottega e intanto si faceva la Storia.

Una bella pagina da aggiungere al Suo dizionario già nutrito: arricchire la voce imperialismo. Poi andare alla –s e aggiungere righe a sopraffazione. E alla fine del dizionario, dove si trovano i neologismi, spiegare con maggiore dovizia democratura.

La pagina della lettera –p di pace al momento non è consultabile.”

In realtà, scherzando sui nostri vecchi, non eravamo tanto lontane dall’agire in nome della pace. Perché si agisce anche attraverso i buoni ricordi e con la trasmissione dei valori di pace e giustizia tra le generazioni. Col nostro equilibrio, con l’assennatezza. L’impegno che possiamo mettere.

Papa Francesco divulga che il due marzo prossimo digiunerà per la pace, mentre si moltiplicano le manifestazioni contro la guerra in Italia e negli altri paesi. Si accavallano le sanzioni economiche ai danni della Russia.

E noi, che siamo gente comune, portiamo cibo e beni di prima necessità da inviare il prima possibile agli ucraini nei punti di raccolta religiosi e laici che si stanno attivando. Lontani quanto basta da ogni tentazione di onnipotenza.

Nota bibliografica.

Ancora una volta attingo alla raccolta di racconti di seguito riportata, vera miniera di spunti utili a considerare con distacco e ironia, ma senza indulgenza, come è la natura umana:

  • Dino Buzzati, La boutique del mistero. Trentuno storie di magia quotidiana, Mondadori, 1968

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica di Mercoledì, clicca [Qui]

Arianna Di Romano: “Ho rubato centinaia di sguardi”
Ferrara, Palazzina Marfisa, fino al 12 giugno

Arianna Di Romano, foto di Andrea Forlani

Ho rubato centinaia di sguardi per renderli eterni negli spazi vuoti della memoria
Arianna Di Romano

Un giorno di una data palindroma, fuori il sole, fa un tepore straordinario per essere il 22 febbraio. La mia pausa dall’infinita ed ennesima giornata in smart working, quello da cui non stacchi mai, che alcuni dicono che fortuna e che fortuna è ma che bisogna saper gestire. Stacco, oggi basta, devo camminare e prendere aria. E poi ieri, incuriosita, ho prenotato questa mostra di fotografia che vi voglio presentare. Cappotto, tuta, scarpe da tennis e via. Da piazza Verdi, verso via delle Scienze, mi dirigo verso via dei Coramari, voglio passare per il parco Pareschi, ci sono tanti bambini che giocano qui, fidanzati che si abbracciano sulle panchine. Era tempo che non vedevo gesti di affetto e di avvicinamento. Tutti assediati dalla paura del contatto. Nelle orecchie le cuffiette con le note di uno dei miei pianisti preferiti Alexis Ffrench. Sono rilassata, finalmente. Arrivo a fine di corso della Giovecca, alla Palazzina Marfisa d’Este, dove sono diretta per vedere la mostra fotografica di Arianna Di Romano, Oltre lo sguardo.

La purezza. Popoli delle montagne, Laos, 2015

La ragazza alla reception che mi fa il biglietto e dalla quale acquisto il catalogo della mostra è molto gentile, altrettanto la hostess della sala, alla quale ahimè non ho chiesto il nome, ma con cui mi metto subito a commentare. Non posso fare a meno di parlare con chi passa le sue giornate nelle sale di museo, mai. È una mia abitudine un po’ birichina. L’allestimento è semplice ma molto indovinato. Una sala dei ritratti ospita ritratti, i soffitti affrescati e il mobilio scuro fanno da cornice. Le fotografie sono avvolgenti e parlano da sole, tutte rigorosamente in bianco e nero, salvo quattro a colori, almeno ne ho contate quattro. Ogni foto ha una sua anima profonda e unica, ci si fa un’idea, salvo poi rimanere stupiti dai titoli. È il racconto di frammenti di umanità raccolti in giro per il mondo, un invito allo spettatore a spingersi “oltre lo sguardo”, oltre l’illusoria, e spesso fuorviante, apparenza del dato reale, alla ricerca di una diversa, e autentica, bellezza. Il bianco e nero ha una forza prorompente, ogni ruga di viso viene esaltata, quasi a voler sottolineare quanto quell’essere profondamente scavate porti sofferenza o magari semplicemente un vissuto lungo e intenso. Quelle vene mi ricordano i rami degli alberi.

Torno indietro con la mente alla mia adolescenza, quando mamma tentava di imbrigliare e direzionare la mia creatività senza orientamento nelle lezioni di pittura del maestro Goberti nella chiesa sconsacrata di piazzetta San Nicolò. Quanta enfasi sul chiaroscuro, sull’importanza delle sfumature e dei contorni dei disegni a carboncino. Quanto sforzi per dare le giuste ombre, per enfatizzare le profondità e le dimensioni, per imprimere un tratto originale e distintivo. Dal buio alla luce, in un’armonia e armonizzazione fatte di reciprocità. Qui rivedo quel tentativo, molto meglio riuscito, di trovare la giusta dimensione, di comunicare la corretta angolatura.

Mi perdo nelle immagini delle sale, ancora ho letto poco sull’artista, lo farò a casa, catalogo in mano e consultazione della rete. Voglio prima vedere bene il suo lavoro, non lasciarmi influenzare da nulla di scritto, detto o letto. A ruota libera, come faccio sempre quando visito una mostra, soprattutto di fotografia. Se mi guida da qualche parte, perfetto, altrimenti chiudo lì, amici come prima. Ho solo letto che Arianna segue e aiuta gli ultimi della terra e che ha viaggiato molto. L’essere un garbato viandante che coglie le anime che incrocia sulla sua strada mi accomuna e avvicina a lei. Un buon inizio.

L’attesa. Transilvania, Romania, 2019

Questa brillante fotografa si è spostata con il suo obiettivo dai più remoti villaggi del Sud Est asiatico, della Romania e della Polonia, fino ai campi profughi e rom in Serbia e Bosnia, dai paesi della sua terra natale, la Sardegna, alle celle di un carcere siciliano. La sua sensibilità l’ha portata a focalizzarsi sulle vite “difficili” degli emarginati, degli indigenti, dei senzatetto, dei ragazzi di strada, dei gitani, dei detenuti, dei poveri, degli anziani rimasti soli. Spicchi di vita comunitaria, tradizioni antiche. Nuovi mondi da scoprire.

La fuga. Artisti circensi, 2018

Le foto più belle, a mio umile avviso, sono quelle della Sicilia, forse anche perché amo questa terra fatta di sole, sensazioni, colori e profumi intensi. Anche in bianco e nero si colgono i colori. La fragilità di alcuni personaggi ripresi in diversi momenti della vita quotidiana, fatta anche di confessioni e balli, è disarmante.

Mi soffermo su Dentro la storia (Sicilia 2016), quella signora mi ricorda le fotografie delle mie nonne (soprattutto per le mani rugose che reggono la foto nella foto), abbigliate a festa, con il bel cappottino a quadretti e l’elegante (e nuovo) rossetto rosso brillante, per la passeggiata domenicale con la famiglia, magari a braccetto di papà.

Dentro la storia, Sicilia, 2016

Le confessioni sulle scale di Gangi (Sicilia, 2019) mi fa pensare al saliscendi di chi sbaglia e torna indietro, per cadere e rialzarsi, inciampando, ma cercando sempre di (ri)salire, Quei dubbi (Pietraperzia, Sicilia, 2015) mi ricorda un simpatico Don Camillo d’altri tempi.

Confessioni Gangi, Sicilia, 2019
Quei dubbi. Pietraperzia, Sicilia, 2015

Il ricercato dei Murales Animati di Orgosolo (2021) se ne sta seduto sfacciatamente alla finestra, quasi a voler direi sono qui, è inutile che cercate, tanto mi fermo qui e non mi pento di certo di quello che ho già fatto. Che peraltro potete leggere chiaramente perché affisso a chiare lettere sul muro scalcinato (attentato al diritto allo studio, tentato inscatolamento di persone in un pullman, latitanza prolungata da tutte le assemblee studentesche…).

Murales Animati di Orgosolo, 2021

Il ballo di Un’antica danza a Villa Mazzone di Caltanissetta (2016) ci porta in una sala di ristoro di un pomeriggio tiepido e spensierato, un po’ di leggerezza dalla fosca pesantezza che sta attorno, una casa di riposo. La signora anziana, elegante, con il suo cappello, le scarpe dorate e i suoi gioielli più buoni, sorride più della suora, un po’ più seria e altera, ma si intravvede comunque una sorta di complicità serena che ci fa bene.

Un’antica danza a Villa Mazzone di Caltanissetta, 2016

La Cambogia, la Thailandia e il Myanmar sono molto presenti: gli occhi parlano, le mani, le rughe e le schiene ricurve pure. Ho ricordi intensi del mio breve viaggio in Myanmar, quando ancora si sperava un po’ di più; l’oro delle pagode di Yangon mi avvolge ancora l’anima.

Qui la mia anima accarezza quelle di Arianna e dei suoi ritratti. Mi sento un tutt’uno. Un mondo che si tocca, che si parla, che si lecca le ferite, vite che si sfiorano e si riconoscono. Parte di un tutto potente e meraviglioso, di un mondo che ha energia e voglia di vivere. Non di sopravvivere, almeno non più. Quello non basta più. Il dialogo qui è fatto di mani e occhi che si sfiorano. In quegli occhi di bambini e donne vedo le sofferenze che sono di ognuno di noi ma che ci fanno sperare, una volta inciampati, caduti e rialzati. Una delicata empatia.

Gli sguardi delle bambine e delle donne ci accompagnano ancora, come in Donne e songhtaew, l’affollato veicolo trasporto passeggeri (Bangkok, Thailandia, 2015).

Donne e songhtaew. Bangkok, Thailandia, 2015

Arrivata a oltre metà percorso, noto le tre foto a colori, esse chiudono la fila delle immagini della sala, così come un’ultima foto a colori, intitolata Nell’antica capitale (quartiere di Gion, Kyoto, 2015), chiuderà l’esposizione. La vita scorre su queste immagini, quella più vera, con la sua intensità e precarietà. Ma anche fatta di infinita bellezza.

Nell’antica capitale, quartiere di Gion, Kyoto 2015

La monaca di spalle (Angkor Wat, Cambogia, 2014) illumina la sala con il suo abito arancione, se non fosse per la didascalia penserei a un monaco dai capelli grigi, appoggiato a un bastone che regge la sua fatica data da un’intensa preghiera per un mondo che non comprende l’importanza dell’essere umano e della vita. Una preghiera che a noi pare cadere nel vuoto, soprattutto oggi, ma che la monaca sa essere importante. La guerra non è mai la soluzione. Quell’incedere zoppicante fa molta tenerezza ma allo stesso tempo emana una forza immensa. Appesi a una speranza, molti di noi, tutti. Ma senza mollare, mai.

La monaca. Angkor Wat, Cambogia, 2014

La scalinata riempita di fiori rossi e arancio dei Giardini della città imperiale Hué (Vietnam, 2016) ci transita nell’ultima sala. I colori dei fiori contrastano con quelli del cielo, ma non lasciano spazio alle nubi. Il marmo è vivo. I dragoni distesi osservano.

Giardini della città imperiale Hué, Vietnam, 2016

Fino al ritrovarci avvolti dalla precarietà degli ultimi del carcere di Caltagirone ne La speranza (2021), dove Arianna ha condiviso, con alcuni ragazzi, un percorso di avviamento alla fotografia. Resta sempre un barlume di speranza, per tutti.

La speranza. Casa circondariale di Caltagirone, 2021

Torno a casa, soddisfatta e, ammetto, un pò commossa. Ceno. Subito dopo mi siedo in poltrona. Ora posso cercare qualche informazione in più su Arianna Di Romano e sfogliarmi bene il catalogo. Faccio sempre così, mi piace mantenere questa abitudine rilassante.

Arianna è sarda ma siciliana di adozione (oggi vive nel piccolo e armonioso borgo di Gangi, sulle Madonie), le sue fotografie vengono paragonate a quelle di maestri come Elliott Erwitt e Robert Doisneau per poesia e composizione, Sebastião Salgado per il trattamento dell’immagine, Sergio Larrain e Dorothea Lange per l’attenzione agli ultimi.

“Fotografando, scavo nell’umanità dimenticata – ha spiegato Di Romano – che amo e di cui vorrei trasmettere la bellezza. Vivo le sensazioni che provano le persone che ritraggo, mi identifico in loro. Continuamente cerco me stessa nell’altro”. È una donna curiosa, sensibile, felice e impaziente. Veloce. La rassegnazione è la condizione umana che l’artista ha registrato più frequentemente, fissandola ma anche sfuggendole. Pochi i sorrisi, molto lo stupore nell’essere riconosciuti e considerati. Ma la vita corre, si muove, non aspetta.

C’è tecnica sicuramente, precisione e osservazione ma anche cuore e tanta magia. Oltre lo sguardo significa soprattutto andare aldilà di quello che gli hindu chiamano maya ossia l’illusoria e fuorviante apparenza del mondo fenomenico, per cogliere l’anima dei soggetti umani. In Malesia l’hanno denominata “ladra di anime”. Gli abitanti, in gran parte animisti, non volevano farsi ritrarre per timore che venisse rubata loro l’anima. “Quello che mi spinge a fotografare – dice – è proprio rubare uno sguardo profondo. I volti che incontro li rubo, perché appartengono a persone che non sono mai in posa, sono tutti sguardi che quasi sicuramente non incontrerò mai più. Spesso non riesco a comunicare con loro. Rubo quegli sguardi per dare loro una voce”. E noi, quella voce, l’abbiamo sentita, forte e chiara.

I colori della festa. Cagliari, Sardegna, 2018

Tutte le opere © Arianna Di Romano / Kingford

 

Arianna Di Romano – Oltre lo sguardo

Ferrara, Palazzina Marfisa d’Este, 20 febbraio / 12 giugno 2022

Da un’idea di Vittorio Sgarbi. Organizzata da Comune di Ferrara – Servizio Musei d’Arte e Fondazione Ferrara Arte, in collaborazione con Kingford.

Giorni e orari di apertura

9.30-13 / 15-18 | Chiuso il lunedì

Prenotazioni

https://prenotazionemusei.comune.fe.it

Ucraina: al confine del genere umano, dove la guerra non è tabù

 

Ukraina, ovvero: sul confine.

Il mondo è già pieno di virologi che si sono appena riconvertiti in esperti di relazioni internazionali. Quindi non c’è bisogno che io mi aggiunga alla lista come esperto riqualificato, per quanto lodevole possa essere l’intento di acquisire nuove competenze da spendere sul mercato delle cazzate. Mi limito sommessamente a qualche osservazione.

La NATO è una alleanza militare, fondata nel 1949. Essa fu fondata dagli Stati occidentali vincitori della seconda guerra mondiale come argine alle mire espansionistiche dell’altro vincitore della guerra contro il nazismo, il vincitore “orientale”: l’URSS. Simbolo di questa contrapposizione è Berlino, la città del Fuhrer, entrata nell’orbita dell’Unione Sovietica per la sua collocazione geografica, e sineddoche della Germania sconfitta e poi suddivisa tra i vincitori in Germania Ovest, sotto l’ombrello occidentale, e Germania Est, aderente al Patto di Varsavia, nato nel 1955 come alleanza militare uguale e contraria alla NATO. Sia l’una (Berlino) che l’altra (la Germania) furono letteralmente oggetto di spartizione territoriale tra vincitori occidentali e vincitori orientali (nota: nutro un’ammirazione sconfinata e inquieta per la Germania. Nessuna nazione sarebbe riuscita a ridiventare la locomotiva economica dell’Europa poco dopo che i vincitori si erano divisi le sue spoglie. Pensate solo a cosa saremmo diventati al suo posto. Pensiamo a cosa siamo in effetti diventati).

State tranquilli: chi parteggia per la NATO dirà che gli imperialisti, gli espansionisti sono i russi. Del resto, come dar loro torto quando lo Stato retto dallo Zar Putin, in tempo di “pace”, si riprende con l’esercito la Crimea e adesso bombarda l’Ucraina?

State tranquilli: chi parteggia per la Russia dirà che gli imperialisti, gli espansionisti sono gli yankee, spalleggiati dagli euroccidentali e dagli stati dell’est che hanno aderito alla NATO, per cui ormai la Russia è circondata. Del resto, secondo voi cosa farebbe Biden se Putin gli piazzasse dei missili Cruise in Messico? Vi siete scordati di Cuba, della Baia dei Porci, del Vietnam, del Cile?

Entrambi hanno le loro ragioni. L’unico dettaglio è che si tratta di ragioni costruite con la testa rivolta all’indietro, la direzione prevalente cui sembra guardare il genere umano, ed in particolare i suoi esponenti di vertice, gli uomini di potere. Personalmente, mi rifiuto di iniziare con l’escalation della realpolitik d’accatto, di cui tutti siamo capaci quando ci mettiamo a fare gli strateghi della domenica. Mi rifiuto di appuntare l’attenzione sul fatto che il Patto di Varsavia non esiste da più di trent’anni, mentre la NATO vive e lotta insieme a noi e continua a inglobare aderenti tra i paesi dell’ex cortina di ferro (e ripeto, la NATO è un’alleanza militare, non un cartello economico). Mi rifiuto di approfondire che, quindi, uno zar di stampo prebolscevico si possa sentire accerchiato e si senta autorizzato a bombardare un ricco paese confinante che rischia di ripresentargli interessi ed armamenti yankee sul muso, nel cortile di casa. Mi rifiuto di approfondirlo non perchè non meriti un approfondimento – anche le cose orribili non accadono per caso – ma perchè mi rifiuto di accettare che la soluzione sia il greve assalto putiniano.

Mi rifiuto altresì di pensare che Putin sia un pazzo, un malato di mente. Tecnicamente, non lo è. Eppure manifesta una patologia mentale collettiva, alimentata da una sorta di coazione a ripetere, che la psichiatria descrive come la tendenza a compiere atti psichici per un irresistibile bisogno interno, contro il quale nulla possono il ragionamento e la volontà.

Fare la guerra è un atto psicotico, eppure la specie umana non fa che ripeterlo. E’ inoltre un atto profondamente classista: la guerra la dichiarano i potenti, ma la pagano gli indifesi e i poveri, sia tra i “vincitori” sia tra i vinti.

Appunto invece l’attenzione sul fatto che l’umanità non riesca ad elaborare quello che Gino Strada definiva “il tabù della guerra”. Il tabù è un comportamento che ripugna talmente la coscienza comune da essere inammissibile alla stessa, al punto da non avere bisogno di una sanzione per essersi compiuto, perchè la sua inammissibilità è tale che non si compie. Come l’incesto, la necrofilia, la zooerastia. Un sacrilegio non religioso, ma ontologico. No. La guerra continua ad essere un’attività prediletta da molti esseri umani, che credono di realizzare attraverso di essa scopi abietti o nobili, ma il problema è la mancata elaborazione del fatto che il mezzo (la guerra) sia talmente inaccettabile da oscurare la nobiltà di qualunque fine.

Personalmente ho il tabù della guerra. Questo tabù mi impedirebbe di rispondere ad una chiamata alle armi del mio paese per andare a combattere in un paese straniero con lo scopo di ammazzare persone che non conosco e non mi hanno fatto niente. Diserterei, senza il minimo dubbio. Preferirei passare anni in carcere per diserzione che andare a combattere una guerra. Naturalmente, non sono ucraino: chi imbraccia un fucile per difendersi dall’aggressione di un nemico che ti vuole uccidere non sta combattendo una guerra, sta facendo una resistenza che, in un determinato contesto, non può che diventare armata. In tutti gli altri casi, un popolo di disertori è largamente preferibile ad una legione di volontari o coscritti addestrati ad ammazzare sconosciuti, che in una situazione diversa sarebbero chiamati killer, cecchini, sicari.

Invece l’umanità non riesce a sedimentare il tabù della guerra. Anzi, i potenti del mondo continuano a trastullarsi periodicamente con questo gigantesco incesto dell’uomo contro l’uomo, convinti di vincere qualcosa.

Illustrazione di copertina a cura di Carlo Tassi

Sole rosso sangue sull’altipiano (prima parte)
…un racconto

Sole rosso sangue sull’altipiano (prima parte)
Un racconto di Carlo Tassi

Manio ha dieci anni, sua sorella Naki sei.
Manio è andato al fiume con due taniche da riempire, serve l’acqua per bollire le patate e impastare la farina di sorgo per la sera. Sua nonna Keya è una brava cuoca e lo aspetta al villaggio.
Manio è sulla riva assieme alla sorellina, la rincorre lanciandole manciate di fango senza colpirla, Naki ride e scappa andando a ripararsi da suo nonno Coffie.
Coffie è il più anziano del villaggio e tutte le mattine accompagna i nipoti al fiume. Lui è considerato il più saggio di tutti e tutti al villaggio lo rispettano, ma dai nipoti si fa prendere in giro volentieri.

Il sole è grande: un cerchio rosso che riempie il cielo e scalda e regala un altro giorno di vita. Ma l’acqua è altrettanto importante, come la pioggia che riempie il fiume due volte l’anno. Il sole e l’acqua spesso si fanno la guerra, ma servono entrambi, servono alla vita.

Manio sogna un regalo: un pallone per giocare coi cugini Obie e Gali. Come quello che ha visto un giorno alla tv della scuola di Arawala. C’era una partita tra due squadre europee di cui non ricorda il nome, ma quei giocatori bianchi e neri con le maglie tutte colorate erano bravi, velocissimi con quel pallone tra i piedi.

All’improvviso due scoppi sordi, violenti, poi altri ancora, raffiche e poi urla lontane. Provengono dal villaggio che dal fiume dista circa mezzo miglio.
Coffie chiama a sé i nipoti, è allarmato, dice sottovoce che devono andare a ripararsi dietro quell’anfratto tra la riva e un grosso cespuglio di acacia, glielo indica. Poi si raccomanda con Manio di stare accanto a Naki, di proteggerla e di stare nascosti fino al suo ritorno.
Coffie dà un’ultima occhiata ai nipoti, il suo sguardo è un ammonimento a fare ciò che ha ordinato, ma c’è dell’altro: forse è uno sguardo d’addio.
Poi s’allontana camminando spedito verso il villaggio.

Manio si acquatta al terreno abbracciando sua sorella e guarda in alto il cielo azzurro dell’altipiano, immenso velo che sovrasta tutto fino all’orizzonte irraggiungibile delle montagne color porpora. Suo nonno gliele ha raccontate tante volte: montagne che nascondono altre montagne e altre ancora. Montagne mai viste ma immaginate, sognate. Quanto è grande il mondo…

Manio apre gli occhi, è buio ormai, si è addormentato mentre aspettava.
Si guarda attorno: sua sorella dorme e il nonno non è ancora tornato.
Si alza in piedi e vede che sopra il villaggio il cielo è insolitamente illuminato: un sole invisibile ha acceso la notte di rosso sangue. Bagliori ardenti si alzano dall’oasi del villaggio crepitando, come gli sbuffi ruggenti dei draghi delle favole.
Manio non ha paura del buio ma pensa che il nonno non volesse che restassero al fiume anche di notte. Decide di tornare al villaggio, sveglia la sorella, prende le due taniche piene d’acqua e si avvia. Naki, ancora mezza addormentata, lo segue in silenzio…

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Living Darfur (Mattafix, 2007)

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Sono capace di fare la pace?

 

Alla manifestazione di ieri a Ferrara “No War in Ucraina” indossavo questo cartello. Portavo la mia bandiera della pace e ne sostenevo una enorme, insieme ad altri e ad altre. Sono stato in silenzio ad ascoltare le parole dette da chi è intervenuto. Sono stato tentato di condividere i miei pensieri.
Non l’ho fatto ma provo a farlo qui.

Anche io ho paura della guerra ma ho paura soprattutto di chi è capace di dividere le guerre fra quelle vicine e quelle lontane.
Ho paura di chi pensa esistano guerre giuste o guerre sante.
Ho paura di chi individua “i cattivi” con grande facilità.
Ho paura di chi salva “i buoni” con molta superficialità.
Ho paura di chi dividerà i profughi tra quelli da accogliere perché hanno la pelle bianca e quelli da respingere perché hanno la pelle di un altro colore.
Ho paura dell’ipocrisia di chi non vuol vedere che il nostro Paese vende armi che uccidono in questo ed in altri conflitti.
Ho paura di chi si indigna di sabato pomeriggio ma al sabato sera gli è già passata.
Ho paura di chi insegna a scuola educazione civica ma poi non se la sente di affrontare in classe una discussione sui conflitti.
Ho paura di chi non si chiede da dove cominciano le guerre.
Ho paura di chi non si preoccupa dei semi di violenza che coltiviamo involontariamente.
Ho paura perché mi accorgo che per fare una guerra serve davvero poco mentre per fare la pace serve moltissimo tempo.
Ho paura ma penso che per fare la pace occorra partire da noi e dal nostro rispetto costante e quotidiano verso gli altri.
Ho paura ma credo sia ora di chiedersi cosa possiamo fare noi, nel nostro piccolo.

Non ho risposte valide per ognuno ma credo sia utile cominciare a lavorare su di noi.

Ad esempio, a scuola non possiamo chiamarci fuori e fingere che i bambini ed i ragazzi non siano preoccupati: occorre ascoltarli, aiutarli a dialogare e confrontarsi, insegnargli a litigare bene, raccogliere testimonianze, far riflettere, partecipare ad iniziative di solidarietà, tenerli stretti, …

La guerra non si fermerà per questo ma forse si inizieranno a piantare i semi di una consapevolezza maggiore verso la complessità del nostro tempo, forse si riuscirà ad offrire qualche strumento per affrontare le incertezze e per riflettere sulla condizione umana.
Forse si potrà far ragionare sull’assurdità di questa e di tutte le guerre.
Forse, in questo modo, si potrà fare la pace.
Forse, così facendo, si riuscirà a fare scuola.
Forse…

UNA PIAZZA DI “PACE”?

 

Spiace dover deludere la narrazione confortante e un po’ retorica della piazza gremita di persone manifestanti per la pace e contro la guerra, senza se e senza ma. Non è quello che ho visto e sentito.

In piazza a Ferrara, sabato 26 febbraio, tirava una brutta aria.

Dopo l’apertura del segretario della CGIL Cristiano Zagatti, che ha fatto un intervento articolato sulle implicazioni sia umane che politiche della situazione di guerra, ha preso la parola Daniele Lugli del Movimento Nonviolento, il quale è stato costretto a interrompere l’intervento per le continue grida di richiesta di alzare la voce dalle retroguardie della piazza, che non riusciva a sentire.

Ora, se è normale che, all’inizio di un discorso, si chieda di alzare la voce al microfono un paio di volte, non è normale continuare a urlare “Alza la voce! Non si sente! Più forte!” per tutta la durata dell’intervento, disturbandolo, sovrastandolo e infine scoraggiando l’oratore tanto da farlo sentire inadeguato e costringendolo ad interrompersi bruscamente a metà discorso per passare il microfono a qualcun altro. Con grande umiltà, come sempre, Daniele si è fatto da parte schermendosi ed offrendo la parola “a chi si fa capire meglio di me”.
Questa insistenza sguaiata e maleducata mi ha molto infastidita: queste persone non hanno mai partecipato a dei presidi organizzati in poche ore, a dei flash-mob chiamati sotto l’urgenza del momento? Non sanno che si porta in piazza al massimo un megafono o un microfono con una cassa e che non ci sono il palco e l’impianto di un concerto degli U2? Non capiscono che se ci si trova in una posizione laterale o distante sarà difficile sentire, ma che non ha senso voler prevaricare chi parla ed impedire a tutti quanti di ascoltare? E soprattutto: si rendono conto che stanno partecipando a una manifestazione per la PACE e che è importante esserci, e pazienza se non si riesce a vedere e sentire tutto?

Posso capire il dispiacere di non riuscire ad ascoltare bene, ma questo atteggiamento a mio avviso rivela l’autoreferenzialità, la smania di essere protagonisti, di esigere attenzione e riscuotere in maniera arrogante quello che si crede spetti di diritto. Malattie pervasive del nostro tempo.

Io mi trovavo in una posizione privilegiata, esattamente di fronte al punto del microfono. Non mi ci è voluto molto per trovarmi lì: mi sono semplicemente spostata per raggiungere il centro della manifestazione per ascoltare. Questo di Daniele è stato solo l’inizio di una serie di avvenimenti sgradevoli e preoccupanti.

Dopo ha parlato una signora ucraina, un intervento molto toccante e angosciante: piangendo, ha raccontato di essere la madre di un ragazzo che è ora soldato al fronte, ed è straziata dal terrore che gli succeda qualcosa. C’era un clima di forte commozione umana quando ha preso la parola Stefania Soriani, segretaria di Rifondazione Comunista, che invece ha fatto un intervento molto politico e di netta condanna le responsabilità della Nato in questa e altre guerre e nella crescente militarizzazione del nostro continente, chiedendo l’uscita dell’Italia dalla Nato e lo scioglimento della stessa alleanza atlantica. Un contenuto, a mio avviso, condivisibile, ma forse non del tutto in sintonia, sempre  a mio avviso, in quel contesto dove era presente una numerosa comunità ucraina in grande tensione emotiva, composta soprattutto da donne molto preoccupate per la sorte delle loro famiglie là: forse questo era il momento di riunirsi semplicemente in una vicinanza umana alla popolazione civile ucraina, nel nome della solidarietà tra popoli e della richiesta di immediata cessazione delle azioni di guerra.

In ogni caso, Stefania è stata risoluta ma certamente non offensiva, tuttavia non ha potuto terminare il suo intervento perché è stata zittita da due diversi gruppi di persone: parte della comunità ucraina ha reagito molto duramente alle sue critiche alla Nato, perché è evidente che parte della comunità ucraina presente vorrebbe entrare nella Nato e vorrebbe combattere contro la Russia, e non solo per difesa. Si deve dire che non c’erano solo istanze pacifiste in piazza, che è spuntata una bandiera nera e rossa del partito nazionalista di estrema destra ucraino, che alcuni manifestanti ucraini, dopo aver cantato l’inno nazionale (che ci sta), hanno salutato con il braccio teso.

Non è un episodio limitato a Ferrara. Queste stesse cose stanno succedendo in altre piazze italiane (https://www.24emilia.com/reggio-alla-manifestazione-per-la-pace-in-ucraina-anche-una-bandiera-neonazista/) e non dovrebbero essere tollerate. Le modalità e i contenuti delle manifestazioni per la pace vanno dichiarate in maniera netta e chiara.

Soriani è stata contestata in modo violento e ingiustificabile anche da un gruppo di italiani che si trovava alla mia sinistra, che aveva cominciato prima borbottando piano dei commenti del tipo “E meno male che c’è la Nato. Meno male che abbiamo le basi qui così ci difendono”, per poi passare apertamente a gridare “Stai zitta! Basta! Vattene!”.
Massimiliano Diolaiti della CGIL ha provato a far ragionare queste persone, in maniera molto calma, dicendo loro che non era quella la modalità per manifestare il dissenso, e che anche loro potevano esprimere la loro opinione al microfono, ma in maniera civile.
Alla mia destra invece si trovava un gruppo di ragazze e ragazzi giovani, universitari iscritti a Ferrara (ho saputo poi). Da questo gruppetto è partita una ragazza che ha preso il microfono e ha detto a tutti i contestatori sguaiati ed aggressivi che si dovevano solo vergognare per aver reagito in quel modo contro una signora che stava cercando di analizzare la situazione ed esporre delle opinioni. Poi è tornata dai suoi amici ed è scoppiata in un pianto di emozione, rabbia, sdegno, dimostrando un profondo senso della giustizia. L’abbiamo tutti ringraziata, noi lì vicino, per il suo gesto coraggioso e pulito.

Ci sono stati altri interventi, più o meno apprezzati, più o meno compresi. Ci sono stati momenti di forte partecipazione emotiva. Fondamentali i richiami di Girolamo De Michele di Mediterranea Saving Humans nei confronti dei profughi che tutte le guerre creano, e verso i quali la commozione e la solidarietà durano il tempo delle flash-news, per poi tornare ad essere un problema da respingere; così come necessarie sono state le parole di Cristina Zanella di Udi Ferrara e Manuela Macario di Arcigay che hanno ricordato la presenza fondamentale e silenziosa del lavoro di cura che svolgono nella nostra società le donne dell’est, e come da questo valore della cura si debba ripartire per ricostruire le nostre relazioni quotidiane.

Alla fine alcune signore ucraine hanno intonato l’inno nazionale ed alcuni slogan: gloria all’Ucraina, gloria ai militari ucraini.

Resta la sensazione preoccupante che poche persone fossero in piazza per un pacifismo consapevole. Non si può venire a manifestare per la pace e zittire le persone. Restano comprensibili la rabbia, lo sgomento, anche il patriottismo della popolazione ucraina di fronte a un attacco ingiustificabile, ma non si può pensare che la pace sia la vittoria militare sulla parte avversa. Non si può pensare che la pace sia garantita dall’aumento di basi ed armamenti militari.

Non si può ridurre ogni dibattito, ogni lancio di notizie, ogni piazza ad una bieca e sterile tifoseria.

PER CERTI VERSI
Cangatta

CANGATTA

Si svuota
La domenica
Già vuota
Di suoni
Ascolto il fiato
Del mio cane
A ritmo dei passi
È giovane
Vorrebbe
Saltare addosso
Alle macchine
Mi spaventa
E mi fa ridere
È un cucciolo
Vederlo giocare
Con la micia
È l’essenza del gioco
E del mistero
Di due pianeti
Lontani
Che nuotano
Nelle ciambelle
Di altri universi
Poi la gatta
Entra col topo
Come fosse un gomitolo
E lui il cane
Arriva serio
E lo mangia
Lei guarda me
Con occhi interrogativi
Tra l’umano
E il cartone animato
Come se dicesse
Ma davvero
Non ha capito
Che fosse un gioco?

I pianeti ora
Sono tornati
Nei loro mondi
Anche se per poco

Post poesia :

Come potremmo essere noi umani
Se volessimo davvero
Abitare la terra

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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Manitas : la sapienza del Sapere delle Mani contro il Pensiero Unico

 

Quando esce un libro è sempre una gioia. È un piccolo tesoro di parole e di idee che volano nell’aria se, come nel caso del libro di cui voglio parlarvi, risuonano nei cuori e aprono le menti.
È il caso del romanzo Manitas dell’amico Gianni Vacchelli che è uscito il 3 febbraio e al quale voglio dedicare qualche pensiero.

Manitas  porta con se un contenuto unico e speciale. È la storia di una bambina, Angelica, che sviluppa pensiero grazie all’intelligenza delle sue mani, un’intelligenza che oggi noi abbiamo delegato alla tecnologia. Le nostre mani si sono fuse con la  tecnologia fino a non conoscere più dove finisce il corpo e inizia l’artificio.
Ci hanno convinto che siamo corpi imperfetti e necessitiamo di protesi artificiali per potere vivere.
Ma questa bambina, non del tutto ancora assoggettata a questa cultura, intuisce, capisce ed elabora pensiero seguendo le sue di mani e quelle della nonna. Sarà proprio l’eredità che riceve dalla nonna che la spingerà a non disperdere la conoscenza delle mani. È un’eredità che risuona in tutti noi, perché è passata per millenni attraverso le generazioni, e ci ha sempre indicato che oltre all’intelligenza logica, astratta della mente c’è un’intelligenza del cuore che passa attraverso gli arti e gli organi del nostro corpo.

Un corpo intelligente, capace di produrre reazioni biochimiche, reazioni complesse che vanno a integrarsi a quell’intelligenza razionale, così esaltata dal nostro mondo occidentale, fino ad acquisire un potere capace di cancellare tutti gli altri.
Ebbene, questo libro acquista un ‘importanza rilevante proprio in questo momento storico perché siamo difronte a uno scontro epocale. Da un lato uno sguardo sul mondo che parla solo dell’imperfezione dei nostri corpi, della necessità di incrementarne artificiosamente l’efficienza dei corpi, come fossero macchine. Dall’altro chi sa che l’essere vivente è molto più di una macchina, che il nostro essere è molto complesso e che la tecnologia non arriva neanche a copiare un decimo della competenza  e della complessità di cui è capace ogni corpo vivente.
Dove per corpo si intende corpo fisico e spirituale come due entità non separate e separabili.

Tutta questa altissima riflessione si snoda con semplicità attraverso le vicende, le fatiche, le scoperte, anche scomode e dolorose, che Angelica si trova a vivere. Angelica, nella contemporanea Milano, vive e cresce attraverso una esperienza mistica.  Le radici terrene,  radici profonde conficcate nella terra, nella terra madre sono il terreno sul quale cresce l’albero della conoscenza dando forma a panorami sempre diversi grazie all’unicità di ogni essere umano.

Vale la pena leggerlo questo romanzo.
Non è un caso se è uscito in questi tempi estremi, tempi in cui sembra primeggiare l’ideale delle identità fluide, digitali, dove l’incarnazione sembra un ostacolo alla realizzazione dei propri sogni. Mentre l’incarnazione, se non è pensata e vissuta come pura materia, ma come un mondo più complesso di energia sottile, può aprire a un futuro nuovo e di salvezza.

Ho amato moltissimo la sapienza del sapere delle mani, punto di partenza del viaggio di Angelica.
Noi donne l’abbiamo ancora molto radicata, mentre a mio avviso, gli uomini, a parte quei pochi che ancora curano la terra, sembra l’abbiano persa. Anzi forse sarebbe giusto dire che gli uomini tendono a volersene liberare proprio per diventare immortali, perché il sapere delle mani e del ventre di Angelica è un sapere che si misura costantemente con la finitezza (che a me viene di chiamare finitudine, come a dire che c’è una fine che poi apre a un altro cominciare) e con la misura del tempo.

Il fare è sempre legato al tempo, l’essere invece no. La tesi del libro è davvero interessante, che condivido. Siamo a un bivio ed è un bivio antropologico. Con un salto quasi quantico, alla fine del libro il bivio antropologico si palesa, e saranno le parole di Angelica a renderlo evidente.
Io spero sceglieremo di vivere nel mondo di Angelica, dicendo un secco no a un mondo in cui il fine è  cancellare il sapere dei corpi, sapere ancestrale che ci mette in dialogo con l’universo e con il tutto.

Lo  stile del romanzo è molto poetico e ha una forza teatrale. Le parole sono tutte molto dense, a tratti forse troppo, nel senso proprio mistico del termine, il che lo rende un piccolo gioiello.
Certo, la domanda di quanti saranno pronti a vivere questa esperienza forte, resta, perché già i lettori sono pochi e ancor meno quelli che sono disposti a farsi avvolgere da un mondo misterico. E’ comunque una bella scommessa, vale la pena portarla in giro per aprire crepe nel pensiero unico granitico che oggi, senza che ce ne accorgiamo, governa il mondo degli umani dove sembra che “dio sia morto”.

PRESTO DI MATTINA
Segui le orme

 

«Segui le orme del gregge», si legge nel Cantico dei cantici. Che altrove aggiunge: «Se non lo sai, o bella tra le belle,/ cammina sulle orme degli armenti;/ avvia le tue caprette,/ avviale alle dimore dei pastori»: come a dire ancora: «Fatti pastorella, e tu pure, tenendo dietro ai pastori, troverai il tuo amato là, dove si raccolgono i pastori sul meriggio».

Insegnamenti quanto mai attuali in questo tempo per le comunità cristiane, chiamate al pari dell’amata del Cantico a mettersi sulle tracce del gregge in cerca dell’Amato. E con lo stesso slancio: più del vino inebriante il suo amore, il desiderio dei suoi baci più del miele alla bocca; un ardente desiderio che ci conduce fuori da noi stessi, alla ricerca delle sue orme.

Sta per iniziare – mercoledì prossimo – il tempo della Quaresima, tempo di mettere i piedi in movimento nell’amore e nella pazienza di Cristo, calcando le sue orme. Una guida che ci precede nel cammino attraendoci.

A noi è chiesto di essere protesi così come ci invita l’incipit dell’inno liturgico della preghiera mattutina: «Protesi alla gioia pasquale,/ sulle orme di Cristo Signore,/ seguiamo l’austero cammino/ della santa Quaresima».

Sì, ancora una volta, una chiesa in uscita! Perché Lui è sempre in uscita, come viene descritto dalla Lettera agli Ebrei, ove si tratteggia una sequela desiderante e amorosa verso l’Amato: «Gesù per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città. Usciamo dunque anche noi dall’accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio, perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura», (13, 12-13).

Non è un itinerario solo penitenziale, quello della Quaresima, ma un seguire, salendo, l’amore; l’esperienza di ciò che ci manca porta alla ricerca di Qualcuno: la presenza dell’Assente, la Parola viva del Silente, lo sguardo del Vivente, il volto dell’Amato che, dopo la Pasqua, precede ancora e sempre oltre i discepoli nella Galilea nelle genti che è l’umanità di oggi.

Ardisco dire allora che la Quaresima è un cammino verso l’intimità di amicizia e di amore con il Risorto, con la sua umanità trasfigurata e di nuovo nascosta nell’umanità dei fratelli e delle sorelle; un cammino mistico che porta all’indicibile e trasformante incontro, che riunisce la vita degli amici del Nazareno, gli uomini e le donne delle beatitudini come unisce nel Cantico l’Amato all’Amata: «l’amata nell’amato trasformata» (Giovanni della Croce [Qui]).

Ecco perché ai miei occhi è apparsa la possibilità di declinare e vivere il senso di questa Quaresima, cogliendola nella corrispondenza con il testo poetico de Il Cantico dei cantici. Nella sua narrazione ho intravisto una efficace e coraggiosa immagine di ciò che ci attende lungo il cammino e del senso di ogni peregrinazione della fede.

Ho pensato che, se a Pasqua si dovrà intonare il canto nuovo della risurrezione, quale guida più coinvolgente e attraente potrà essere la strada in compagnia del Cantico dei cantici?

Scrive Agostino a commento del salmo 149: «Tutti coloro che in Cristo vengono rinnovati e cominciano ad essere partecipi della vita eterna, cantano il cantico nuovo. E questo è un cantico di pace, un cantico d’amore… Quando canti l’Alleluia, devi porgere il pane all’affamato, vestire il nudo, ospitare il pellegrino… Così esalti Dio con la voce, così canti il cantico nuovo, così dici l’Alleluia col cuore, con la bocca, con la vita». Il canto nuovo è il canto dell’amore perduto e ritrovato, l’Alleluia pasquale.

Si canta dice Agostino quando l’amore vuole manifestarsi, cantare è di chi ama: “cantare amantis est”.

È una sfida che si dovrà affrontare lungo il cammino. Ancora l’inno liturgico ci ricorda: «La legge e i profeti annunziarono/ dei quaranta giorni il mistero;/ Gesù consacrò nel deserto/questo tempo di grazia. Sia parca e frugale la mensa,/ sia sobria la lingua ed il cuore;/ fratelli, è tempo di ascoltare/ la voce dello Spirito».

Origene[Qui], commentando il versetto 3 del salmo 23 del buon Pastore in cui si legge «Mi ha fatto ritornare, mi conduce per sentieri di giustizia per amore del suo nome», così scrive: «Il Cristo cammina in testa, come fa il pastore; traccia il sentiero perché le pecore non abbiano che da mettere i piedi nelle sue orme; più tardi, egli inviterà gli amici alla sua mensa. La giustizia è l’abitudine a compiere azioni giuste» (Il salterio della Tradizione, Gribaudi, Torino 1983, 112).

Nel commentario del poeta e mistico spagnolo Luis de León[Qui] le orme sono le parole dell’amato che dialogano con quelle dell’amata: «“Dimmi; o amore dell’anima mia,/ dove vai a pascolare il gregge,/ dove lo fai riposare al meriggio/ perché io non sia come vagabonda/ dietro i greggi dei tuoi compagni”. Fin qui ha parlato l’amata.

Ora parla l’amato e risponde: “Se non lo sai o bellissima tra le donne, segui le orme del gregge e mena a pascolare le tue caprette presso le dimore dei pastori. Non può sopportare un cuore generoso, che chi lo ama soffra molto per lui o per causa sua. Perciò, avendo l’amato capito che l’amata lo desidera e vuole parlargli, le dice di seguire le orme del gregge e lo troverà… L’amata non ignora se stessa, conosce di essere scura e abbronzata dal sole. Ciò che avverte è l’assenza del suo sposo; ciò che desidera è sapere di lui, perciò lo prega di dirglielo».

Le orme del gregge sono la promessa di amore dell’amato, l’ultima sua parola, inizio del sentiero che la porterà all’incontro. La promessa è così parola simile all’orma, tra le tante parole che si scambiano è l’ultima che l’amato le affida come l’orma, dice Luis de León.

L’orma è l’ultima parte del piede capace di segnare il cammino: per questo seguire le orme equivale a lasciarsi guidare dalla promessa d’amore. «Orma in ebraico “hacab”, che è l’ultima parte del piede, il calcagno, e, usando la causa per l’effetto, è come dire: “l’orma che si lascia con il piede e con il calcagno”.

Dire che segua l’orma si può intendere in due modi: che l’amata segua l’amato o che segua l’orma lasciata dal gregge che è già passato; che vada dietro agli stessi capretti, seguendo le tracce che, per amore o per istinto naturale, li guidano verso le madri; esse la congiungeranno al suo amato.

Perché dobbiamo intendere che, come si suole fare, i capretti erano chiusi in casa, mentre l’amato portava le madri al pascolo e nei campi. E aggiunge: mena a pascolare le tue caprette presso le dimore dei pastori, che è come dire: ti porteranno dove le porta l’amore e dove hanno il loro pascolo, che è il luogo dove io sto con gli altri pastori», (Commento al Cantico dei cantici, Roma 2003, 52-53).

Il senso spirituale si può intendere anche in altro modo. La via per trovare Dio e la virtù non è quella che ognuno vuole immaginare e tracciare per conto proprio, ma è già indicata da coloro che ci hanno preceduti nel cammino della fede. La sequela Christi si fa camminando insieme agli uomini e alle donne delle beatitudini, calcando sentieri di giustizia.

Non solo orme, allora, ma anche baci.

Questi introducono l’inizio del cantico e li ritroviamo alla fine come le due polarità attraverso cui principia, si distende e culmina tutta la narrazione della storia drammatica di questo amore: che se è forte come la morte perché ad entrambi non ci si può sottrarre, è tuttavia assai più indomabile della morte: «Un rogo sono i suoi impeti/ d’incoercibili fiamme: non vale/ il mare a sopirne gli ardori,/ né a travolgerlo i fiumi» (traduzione poetica di Agostino Venanzio Reali).

«Mi baci coi baci della sua bocca! Perché buoni sono i tuoi amori, più del vino» (Ct 1,1). Letteralmente sarebbe: «mi baci con qualsiasi bacio», anche fatto di parole e di silenzi, di sguardi o di nascondimenti; tutto può essere un bacio d’amore, l’incontro come l’attesa, purché diventino la trama di una storia in cui una volta si cerca e un’altra si è cercati, ovvero si cerca e si trova insieme.

Il disvelarsi di una presenza, di una bellezza interiore, che rende belli anche fuori in modo sorprendente: «Chi è costei che sorge come l’aurora,/ bella come la luna, fulgida come il sole,/ terribile come schiere a vessilli spiegati?» (Ct 5,10).

L’aspirazione più grande: «Come vorrei che tu fossi mio fratello,/ allattato al seno di mia madre!/ Incontrandoti per strada ti potrei baciare/ senza che altri mi disprezzi./ Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre;/ tu mi inizieresti all’arte dell’amore./ Ti farei bere vino aromatico/ e succo del mio melograno./ La sua sinistra è sotto il mio capo/ e la sua destra mi abbraccia», (Ct 8,1).

A questo proposito ci ha ricordato Gianfranco Ravasi[Qui] nel suo commentario al Cantico, che nella lirica amorosa egizia e mesopotamica, è costante l’uso degli epiteti «fratello-sorella» riferito agli innamorati. Ma lo steso si registra nel linguaggio amoroso dell’antico Vicino Oriente, ove l’amato veniva chiamato “fratello”; come in Ct 4,9.10.12; 5,1 e l’amata era interpellata anche come “sorella, sorella mia”.

Spigolando nelle interpretazioni ebraiche del Cantico si legge: «Nell’ascolto della Parola, il popolo di Dio consegue la più dolce intimità con il suo Signore, riconosce il proprio carisma e pone la sua delizia: “Il Signore… ha parlato con noi faccia a faccia, come chi bacia qualcuno, per la grandezza del suo amore, con cui ama noi più che le settanta nazioni”.

Israele, dunque, “ama camminare dietro la Legge buona”; è la Parola, infatti, la “fonte d’acque vive”, che lo disseta e che scorre perenne “come… le acque del grande fiume che scaturisce dall’Eden”; è la Parola il cibo che lo nutre, la guida che lo conduce, lai dolcezza che lo inebria, la medicina che lo guarisce», (Cantico dei Cantici, Targum e antiche interpretazioni ebraiche, Roma 1987, 69).

Ma è Bernardo di Chiaravalle[Qui], che nei suoi sermoni dà un’interpretazione spirituale suggestiva nel paragonare le tappe e il progresso del cammino spirituale attraverso la simbologia di tre baci. Il bacio dei piedi, quello della mano ed infine il bacio della bocca.

Il primo si riferisce al cammino penitenziale, il secondo alla grazia dell’amicizia del discepolo con il maestro: intreccio di umanità, il terzo è quello dell’intimità e unione mistica, esperienza che avviene dal dono dello Spirito.

Il bacio dunque come segno di riconciliazione, come segno umanissimo di pace tra fratelli poi: bacio santo tra cristiani che ne istituisce la fratellanza. E infine, come “sigillo sul cuore come sigillo sul braccio” (Ct 8,6), il bacio dell’effusione dello Spirito che introduce nel cammino contemplativo e porta all’unione mistica:

«La sua sinistra è sotto il mio capo/ e la sua destra mi abbraccia», (Ct 2, 6) senza tuttavia chiudere nell’intimismo perché risuona la voce dell’amato, che invia ai fratelli e alle sorelle per narrare con il canto anche a loro la prossimità di un amore: «Alzati, amica mia,/ mia bella, e vieni!/ Perché, ecco, l’inverno è passato,/ è cessata la pioggia, se n’è andata;/ i fiori sono apparsi nei campi,/ il tempo del canto è tornato» (Ct 2, 11-12).

Bernardo scrive «Il bacio, tutti lo sappiamo, è segno di pace. Se dunque, togliamo di mezzo l’ostacolo e l’ingiustizia e ci sarà la pace. Pertanto, quando facciamo penitenza, per ottenere la riconciliazione con Dio, dopo aver cancellato il peccato che ci separa da lui, il perdono che ci viene accordato, come altro potrei chiamarlo se non un bacio di pace? Ma noi non dobbiamo posarlo in nessun’altra parte se non ai piedi del Salvatore, poiché colmo d’umiltà e verecondia deve essere l’atto che ripara la superbia della trasgressione.

Ma quando, per vivere una vita più pura ed essere più degni di intrattenerci con Dio, ci vien fatto dono dell’ancor maggiore grazia di una certa piacevole familiarità con Lui, allora leviamo il capo dalla polvere con fiducia ancor più grande, per baciare, come si usa, la mano di colui che ci ha fatto del bene, il benefattore».

Ed infine il bacio per eccellenza, cioè di quello della bocca: «altro non è se non l’infusione dello Spirito Santo. Infatti, se si considera il Padre colui che bacia e il Figlio colui che viene baciato, non sarà fuori luogo ravvisare nel bacio lo Spirito Santo, il quale è la pace inalterabile del Padre e del Figlio, il loro saldo legame, il loro amore inseparabile e la loro indivisibile unità. Abbi fiducia, chiunque tu sia, abbi fiducia e non esitare» (Sermone sul Cantico dei Cantici, Casale Monferrato 1999, 74+)

È così che io immagino il cammino della Quaresima proteso alla gioia pasquale: nel segno dei tre baci della riconciliazione, della dolce amicizia con l’umanità di Cristo e del dono dello Spirito del Risorto, perché è «solamente l’amore che tiene perfettamente uniti» (Col 3,14).

Ho cercato se tutto questo poteva dirsi in poesia ed ho trovato, per grazia, orma e bacio.

Una traccia
Quando tu cammini di buon passo,
loro sono lì a migliaia a seguire la tua traccia:
la coorte degli uomini,
gli occhi sulla nuca, le reni, le caviglie, di colui che
precede.
Migra, la nostra specie, fino alla Terra del Fuoco,
fino al piede sulla luna,
e lascia solo una traccia.

Un lieve umido bacio
Le graminacee accarezzano le dita le dita dei
camminatori dell’alba,
danno del tu alle loro caviglie con un lieve umido
bacio.
Esse benedicono i migranti poi l’alba dei tempi.

(Jean-Pierre Sonnet)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

TERZO TEMPO
Il derby di Siviglia si è fatto grande

Se dovessimo stabilire qual è il derby calcistico più caldo e passionale di Spagna, la scelta ricadrebbe probabilmente su quello di Siviglia: non per via del clima subtropicale, bensì per l’impareggiabile esaltazione collettiva che si porta appresso, e che col passare degli anni ha fatto sì che il dualismo Siviglia-Betis diventasse uno dei temi più chiacchierati del calcio iberico. Gli spagnoli lo chiamano el gran derbi, e viene vissuto alla stregua di un’intensa finale di coppa, perlomeno nel capoluogo andaluso. D’altronde, basti pensare che il 10% della popolazione di Siviglia ha un abbonamento stagionale ai due stadi del derby, cioè il Sánchez Pizjuán e il Benito Villamarín, i quali distano appena 3,7 chilometri l’uno dall’altro.

Così vicini, eppure così lontani: da un lato, Siviglia e Betis hanno in comune un passato tutt’altro che dominante in Liga – entrambe le squadre hanno vinto il massimo campionato spagnolo una sola volta, e per giunta negli anni ’30 e ’40 – dall’altro, l’estrazione sociale delle due tifoserie è apparentemente agli antipodi, e si basa sull’antica contrapposizione fra proletariato (Betis) e nobiltà (Siviglia). Una contrapposizione, questa, che al giorno d’oggi non è più supportata dai fatti.

A proposito di attualità, el gran derbi che si giocherà domenica 27 febbraio (ore 16:15) al Sánchez Pizjuán sarà probabilmente il più importante degli ultimi anni, nonché il più visto di sempre. Sarà anche, e soprattutto, il primo derby di Siviglia con le due squadre così in alto in classifica: il Siviglia di Lopetegui è secondo con 51 punti, il Betis di Pellegrini è terzo a cinque punti di distanza. L’undici di Lopetegui ha la miglior difesa del torneo e, nonostante i numerosi infortuni, può contare su una rosa ben costruita e su un equilibrio tattico consolidato. Il Betis, invece, è il secondo miglior attacco del campionato, e al momento è una delle squadre più imprevedibili del calcio europeo. Insomma, persino sotto quest’aspetto Siviglia e Betis non potrebbero essere più differenti.

Infine, il bilancio dei due precedenti nell’attuale stagione è di una vittoria a testa. Più che il risultato, però, è ciò che è successo sul campo a far parlare di sé: grandi giocate, espulsioni, polemiche e persino un’asta lanciata sul prato del Benito Villamarín da un tifoso del Betis. L’asta ha colpito il centrocampista del Siviglia Joan Jordán [Qui], causando la sospensione e il rinvio dell’incontro, conclusosi il giorno successivo all’incidente senza più tifosi sugli spalti. Tutto ciò ha inasprito ulteriormente la polarizzazione calcistica della città andalusa, il cui derby, tuttavia, sta per scrivere una delle sue pagine più attese.

Cover: foto di LaLiga

VICTOR STOICHITA: DIMENTICARE / TORNARE.
Biografia di un giovane talentuoso vissuto Oltrecortina.

 

Victor Stoichita

Da sempre leggo Victor Stoichita, ben prima che venissero pubblicati dal Saggiatore i suoi Breve storia dell’ombra, L’invenzione del quadro, Effetto Sherlock… Lo sanno bene alla libreria Tschann del Boulevard du Montparnasse che mi ha procurato i suoi libri di storia dell’arte in francese nelle edizioni del ginevrino Droz, del parigino Hazan
Non poteva quindi sfuggirmi nel 2014 un libro, Oublier Bucarest, che parlava di lui, della storia di una straordinaria giovinezza trascorsa in un paese oltre cortina, né era possibile evitare oggi la tentazione di rileggere quel libro nell’edizione italiana appena uscita per i tipi del romano Bordeaux.

A colpirmi, di primo acchito – né poteva essere diversamente – è il mutamento del titolo, che mentre continua a sottolineare il genere autobiografico (un récituna storia), accentuato dall’aggiunta di un elenco dei personaggi di cui si precisa il rapporto strettissimo con l’autore, ristabilisce un legame (Ritorno a Bucarest) con un paese che l’edizione francese di Actes Sud pareva in qualche modo mostrare interrotto (oublierdimenticare). O meglio, segnato da una necessità di distacco, difficile ma necessaria per riuscire a crescere e a scegliere una vita diversa altrove.

Giacché poi solo di Bucarest e della Romania queste pagine parlano, raccontando la storia di un’infanzia, di un’adolescenza, di una prima giovinezza passate nella capitale dell’antico Regno o sulle rive del Mar Nero in una famiglia dalla straordinaria cultura letteraria e musicale nella quale i più ‘normali’ sono ex-professori di liceo, mentre gli altri insegnano (o insegnavano) nelle università, sono medici e ricercatori di fama, avvocati, scrittori, deputati, principi, pour cause incorsi nelle persecuzioni del regime o incarcerati con motivazioni incomprensibili.
Una famiglia nella quale si conosce il latino e si parlano tutte le lingue (il rumeno, ovviamente, ma anche il francese, il tedesco, l’inglese, alle quali il nostro protagonista aggiungerà precocemente lo spagnolo e l’italiano), si suonano pianoforte e violino, si conosce la storia, muovendosi poi nel mondo esterno con la spensieratezza del carattere o dell’età e la prudenza necessaria per sopravvivere. C’è pure, da parte di una zia Margot, amica di Marthe Bibesco, una visita all’atelier di Brancusi e un incontro mancato di poco con Proust, a causa del ben noto timore del grande Marcel per i profumi delle signore.

È un ambiente, quello di cui Stoichita ci parla, nel quale si respira l’aria delle grandi capitali europee (soprattutto Parigi), con la raffinatezza e l’intelligenza conseguenti (persino nella convinzione che solo una linea sottile separa il puro e l’impuro), nonostante che gli interni nei quali si svolge l’azione siano prevalentemente quelli di un appartamento di stato dove in spazi ridotti (e perfino, in casi estremi, materassi condivisi) sono costretti a vivere più nuclei parentali dell’aristocrazia decaduta e della medio-alta borghesia a cui sono stati confiscati e nazionalizzati i beni con l’accusa di essere “nemici del popolo”.
A cui soprattutto, come a quanti non obbediscono alla logica del potere e della delazione, continua a essere preclusa la possibilità di libere scelte e il diritto di coltivare abilità e vocazioni. Eppure tutti, a diversi livelli, vivono nelle difficoltà con dignità ed equilibrio e con la convinzione che nulla si ottiene senza disciplina.
Colpisce la capacità in particolare dei giovani (Victor, Adrian, il fratello con l’orecchio assoluto costretto a rinunciare alla musica) di ritagliare momenti di vivacità e spensieratezza nella grigia vita di un paese dell’Est (popolato verso la metà degli anni Sessanta anche dai ‘fantasmi’ dei sopravvissuti dei Gulag) dove perfino gli atlanti sono stati normalizzati dal comunismo imperante. Un mondo nel quale la lettura dei classici e dei romanzi di cappa e spada, combinata a una buona dose di fantasia, può alimentare miti di eroismo e riscossa, di ribellione e di fuga, ma anche di colpa e rimorso: si pensi a Victor ragazzino (pungash, birbante, monello) che scappa di casa per seguire gli zingari, che scambia con un compagno un topolino con delle lamelle di chewing gum o grida all’aria “Viva Lagardère”.

Anzi, gli impedimenti (basti ricordare la “nota sociale” che sottraeva punti nelle votazioni ai giovani provenienti da famiglie borghesi rendendo loro difficile la prosecuzione degli studi) fungono da propellente, motivano l’accresciuto impegno, la ricerca di libri introvabili sulle bancarelle, il reperimento di trattati vietati fotocopiati di straforo; abituano (per salvare quanto non rientra nell’etica del realismo socialista) a sfumare i fatti della storia e della cultura, ovvero a predisporsi a esibire una seconda verità in caso di necessità, per salvare il possibile della sapienza del passato. Spingono insomma a imparare per sapere sempre di più, del pubblico e del privato. Anche della musica canticchiata nelle carceri da un nonno visto per troppo poco tempo, o dei testi del grande rinascimento inglese e della filosofia insegnati in prigione ai compagni di cella da un grande studioso.

Il libro comincia come un film, o una fotografia in bianco e nero (per altro a contrasti netti, in bianco e nero, sono i rapporti possibili marcati sulla scacchiera del Potere) che ricorda quella di Una famiglia di Ettore Scola. Ma d’altronde dall’autobiografia di Stoichita un regista talentuoso riuscirebbe sicuramente a trarre un bel film.
Tutto inizia nel 1956, con una ‘festa’ che accompagna l’anno della destalinizzazione sancita dal XX Congresso del partito comunista sovietico e la rivoluzione ungherese (con relativa illusione di mutamenti), e si chiude nel 1968, quando i carri armati sovietici, entrando a Praga, uccidono ogni residua speranza di libertà e indipendenza nei paesi che il patto di Varsavia collocava a forza nell’orbita d’influenza sovietica.
Prima e dopo questi avvenimenti che hanno segnato la storia, si ripetono per i nostri personaggi i riti dei paesi a libertà limitata: l’attenzione a non suscitare invidie e gelosie, l’abitudine a nascondere i sentimenti, l’ansia per la difficoltà di ottenere un passaporto (sempre a rischio, e per cervellotiche ragioni, di revoca) e il dover risolvere il dilemma, che si fa imperativo alla fine del liceo, tra fuggire (ovvero passare in un altro paese) e restare (ovvero fermarsi in un paese per cui si è avuto un qualche visto a termine). Che poi, come ben si capisce, è dilemma solo nominale se in ogni caso, una volta presa la decisione, il risultato è sempre quello del non ritorno.

Insomma fuggire-partire-restare strappandosi dalla famiglia, dagli amici, da una terra amata, imponendosi di dimenticare tutto quello che si potrà davvero frequentare di nuovo (in primis il proprio passato) solo a distanza di decenni, e in qualche modo da lontano, attraverso la scrittura. Ritornando così a una Bucarest perduta, abbandonata, per non dover passare le estati a lavorare nei campi o a fare il muratore (secondo l’imposizione del regime), e per poter dare un futuro al sogno di decostruire le immagini e le segrete geometrie alla maniera di Barthes e Foucault, per tentare di diventare archeologo sottomarino, o meglio (stando a quello che poi è successo) di studiare l’iconologia e il significato delle arti visive alla maniera di Panovsky, di vedere e guardare anche grazie all’ausilio della filosofia e delle poetiche quel che è nascosto, divenendo uno dei più grandi storici e critici d’arte che abbiamo oggi in Europa.

“Esiliato all’estremità del mondo languivo”, così Ovidio, letto in solitudine mentre il desiderio della lontananza si mescola all’angoscia della lontananza, la speranza della partenza alla paura della partenza, la forza della conoscenza al timore per la debolezza della conoscenza, e si fa sempre più acuta la consapevolezza che solo la volontà e la cultura possono aiutare a tentare quanto sembra impossibile. Irraggiungibile come un salto in lunghezza di più di cinque metri dopo mesi fuori allenamento che permette di superare un concorso; o il resistere al potere carismatico della folla grazie a quanto si è imparato dai libri di Max Weber e Norbert Elias.

Se il tremore nello scoprirsi tra i dieci ammessi alla facoltà sperata, i 100 lei deposti ai piedi della statua di Sant’Antonio, un colloquio con la madre protetto dallo scorrere dell’acqua in una stanza chiusa per evitare la possibilità delle microspie, il rischio di finire sotto un tram pensando a una borsa di studio e a un passaporto forse finalmente ottenuti, un oggetto misterioso che appare e scompare sul fondo del Mar Nero ripescato in apnea durante una plongé, la soluzione di un quesito difficile che arriva dalla memoria fotografica delle pagine di un libro dimenticato, il misterioso vaticinio di una zingara…, appartengono a una storia personale che affascina e colpisce per l’indubbia eccezionalità, le pagine conclusive del libro che raccontano come un regime in crisi (quello di Ceausescu nel ’68) possa cercare la propria legittimazione dalla folla proponendosi come capace di risolvere la crisi e di difendere un popolo dinanzi a un pericolo estremo ci insegnano come sia stato e sia sempre importante saper riflettere sugli avvenimenti politici evitando facili isterismi, guardando con sospetto soluzioni che orientano la ‘massa ondeggiante’ alla legittimazione di un capo.

No War!

Dal 30 luglio 2020 al 30 luglio 2021 il nostro Pianeta ha vissuto quasi 100.000 situazioni di conflitto, tra sommosse, scontri armati, proteste, violenze contro civili, attentati. Per l’Italia, l’ACLED ha registrato 184 scontri totali, ma nessuna vittima. Ben diversa la situazione in altri Paesi, come il Myanmar, dove oltre 3.200 situazioni di conflitto hanno causato quasi 3.500 morti dopo il colpo di stato della giunta militare, o il Messico, dove la violenza è di casa e nell’ultimo anno ha causato oltre 8.000 morti” (Fonte: Focus Storia Qui).

La situazione in Ucraina è molto difficile se non drammatica, la guerra è alle porte, anzi è iniziata, e la popolazione spaventata e pronta alla difesa armata. Il discorso di lunedì sera di Putin era prevedibile visto che aveva già definito l’Ucraina “Colonia dell’Occidente” e affermato che in realtà i suoi governi sono solo governi-fantoccio. Con quel discorso il presidente russo ha riconosciuto le regioni separatiste di Dontesk e Lugansk, che sono aree cuscinetto tra Ucraina e Russia.

In passato Putin aveva già inviato soldati nel Donbass in “missione di peacekeeping” e impresso una inevitabile accelerata all’escalation della crisi ucraina. Nel Donbass il conflitto fra ucraini e filorussi è aperto senza sconti (sono già morti due soldati di Kiev).

I mercati azionari sono crollati, mentre l’Occidente spera di indurre la Russia a maggior cautela, giocando la carta delle sanzioni. Intanto l’Ucraina è pronta alla “resistenza”, i carrarmati russi si stanno spostando per circondarla e la NATO sta inviando le sue truppe nelle basi militari dei paesi confinanti.

La crisi tra Russia e Ucraina non è scoppiata all’improvviso, ma è il risultato di un contrasto che dura da otto anni, da quando nel 2014, dopo la Rivoluzione di Euromaidan, culminata con la cacciata dell’allora presidente Janukovyč, Mosca ha invaso la penisola di Crimea e sostenuto i movimenti separatisti nella regione del Donbass, in Ucraina orientale.

Un clichè già visto, una escalation di soprusi e violenza già visto, la guerra con tutto il suo orrore già vista. Eppure siamo ancora lì, tutti attoniti di fronte a un conflitto armato che sembra inevitabile quanto incomprensibile, che sembra decisa all’ultimo momento in maniera verticistica e, di fatto, non voluta da nessuno. Sicuramente non voluta dalla gente di quei territori che non riesce nemmeno più a dormire di notte.

Sta aumentando in maniera esponenziale la vendita di psicofarmaci, che aiutano a riposare, a non cadere vittima di disturbi nervosi, che diminuiscono drasticamente la possibilità di sopravvivenza in quelle terre di nessuno, dove i potenti della terra giocano con i loro arsenali mortali.

Nella Seconda Guerra Mondiale sono morti in Russia 8.000.000 di militari e 17.000.000 di civili, per un totale di 25.000.000 di persone. È morto quasi il 15% della popolazione totale, che era di 168.500.000 individui (Fonte: Wikipedia Qui).

Sono cifre esorbitanti che fanno pensare alla atrocità della morte per scontri armati, al fatto che la guerra non risparmia nessuno, che la deprivazione e la paura che da essa si genera riguarda tutti e che il numero di civili morti è sempre altissimo. Bambini dilaniati dalle bombe, la cui sepoltura nella terra non potrà dar pace a nessuno. Né a chi quella guerra l’ha voluta, né a chi l’ha solo subita.

La spesa militare mondiale è raddoppiata dal 2000 ed è in aumento in quasi tutti i paesi del mondo, ci si sta avvicinando ai duemila miliardi di dollari l’anno. I governi si sentono obbligati ad aumentare le proprie spese militari perché altri governi, percepiti come avversari, aumentano le loro.

Questo “tenersi testa” causa una continua corsa agli armamenti, con un costo immenso. Nello scenario peggiore, è un percorso che porta a conflitti devastanti.
Nello scenario migliore, è un colossale spreco di risorse.

Secondo il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), l’istituto che stila la classifica di tutti i paesi in base agli investimenti fatti nel campo della Difesa, nel 2020 la spesa militare nel mondo è aumentata del 2,6%, arrivando a 1.981 miliardi di dollari. In Italia la spesa per le armi ha superato i 25 miliardi di euro l’anno.

Faccio fatica a farmi un’idea di quanti siano tutti quei soldi, se non provando a paragonarli a qualcosa di simile e mi viene in mente Microsoft. La “capitalizzazione di mercato” di Microsoft è vicina al traguardo di 2.000 miliardi di dollari, mentre Amazon è sulla buona strada per diventare tra un anno la prossima azienda a raggiungere l’obiettivo dei duemila miliardi di dollari di capitalizzazione.

Secondo L’International Institute for Sustainable Development (IISD), che è un premiato think-tank indipendente che lavora per creare un mondo in cui le persone e il pianeta prosperino, con 12,5 miliardi di dollari l’anno (un terzo di quello che si spende ogni anno per le armi), sparirebbe il problema della fame nel mondo.

La corsa agli armamenti fa paura, il nostro pianeta è pieno all’inverosimile di armi fatte apposta per uccidere. Quando le armi per uccidere sono così tante, qualcuno sicuramente le userà. La nostra povera terra è popolata da mostri di metallo, che noi chiamiamo comunemente “carri-armati”, pronti ad invadere territori etichettati come nemici e a distruggere tutto quello che trovano sul loro cammino: vegetazione, animali, acqua e aria, persone e futuro di tutti.

L’unica strategia possibile per uscire da tutto ciò è lo stop della corsa agli armamenti, è un accordo fra tutti i potenti per diminuire la produzione e l’uso delle armi, a favore di coltivazioni, allevamenti e relazioni sostenibili, a favore dell’uso verde e pacifico di tutte le risorse, compresi i cervelli umani che usati bene possono fare tanto bene e, usati mali possono fare tanto male.

Credo che a questo proposito non si possa che citare Don Milani e la sua disputa con i cappellani militari. Si può riassumere il suo pensiero riportando una delle sue frasi più celebri:

Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.”
(Tratto dalla Lettera ai cappellani militari – L’obbedienza non è più una virtù)

Se i potenti della terra vogliono continuare a produrre armi, devono anche trovare il modo di venderle, e per trovare il modo di vendere così tante armi tutti i mezzi possibili devono essere legittimati.

Le armi servono per la difesa? La difesa che uccide è una difesa che verrà uccisa. Se spari l’unica cosa che ti puoi aspettare è che qualcuno sparerà a te. Se offendi qualcuno lui ti offenderà, se abbandoni una persona l’avrai persa per sempre … la catena deve essere spezzata, e per fare questo bisogna partire dai comportamenti quotidiani, dalla capacità che abbiamo tutti di essere altruisti e comprensivi oppure egoisti e indifferenti.

Ogni giorno della nostra vita è così, ogni momento della nostra vita è così. In tutto questo c’entra l’educazione alla pace e al rispetto, un senso di comunità allargata e tollerante come strada primaria verso la crescita, come tramite per il confronto.

Per continuare a vendere armi bisogna trovare il modo di fare la guerra (guerre piccole tra ragazzini, guerre grandi tra generazioni, guerre enormi tra Stati), altrimenti non si riescono a mantenere gli standard di produzione e vendita attuali.

Mi chiedo quanta consapevolezza ci sia sul fatto che, fino a quando si continuerà a produrre armi, si continuerà a fare la guerra, si troverà sempre il modo di innescarne di nuove, sempre più aggressive e pericolose per intere popolazioni se non per l’intero pianeta.

Attualmente la Russia è il paese con la maggiore dotazione di carri-armati militari: 15.398. Questo si spiega col fatto che la Russia, uno dei più grandi paesi al mondo, ha oltre 12.000 miglia di confine da proteggere, tutto su terra.

La forza MBT del paese è attualmente in stato di guerra, i T-90 avanzati, i T-54, i T-64 e i T-72 sono in servizio. Il nuovo MBT della Armata Universal Combat Platform ha una torretta di cannoni telecomandata. (Qui). Con questa dotazione, la Russia ha enormi potenzialità di invasione via terra.

Con vicini come il Messico e il Canada, gli Stati Uniti non sono preoccupati della minaccia di una possibile invasione di terra. Non è utile e nemmeno pratico, per un Paese come gli USA, mantenere una MBT grande come quella della Russia, mentre è più strategico allargare e continuare a potenziale la forza aerea.

Ciò non significa che gli USA non siano ben equipaggiati con veicoli militari, gestiscono infatti ancora migliaia di carri armati in tutto il mondo. Con 8.850 mezzi a disposizione, gli Stati Uniti hanno un terzo della MBT del mondo. Il paese è dotato del pauroso M1-Abrams e di molte sue varianti. Il carro armato più recente è l’M1A3-Abrams, che può rivaleggiare con l’ MBT più avanzata al mondo, quella della Corea del Sud, nota per i suoi K2-Black-Panther.

Solo pensando ai Black Panther mi vien da piangere e credo ci siano tutti i motivi per essere da una parte molto preoccupati e dall’altra consapevoli di quanto sia necessaria una inversione di rotta e una strategia di disarmo, che possa salvare il mondo.