L’attenzione che mezzi di comunicazione e opinioni pubbliche stanno dedicando, in questo scorcio d’estate, ai Giochi Paralimpici estivi di Parigi è senza precedenti, a testimonianza del ruolo ormai rilevantissimo che la manifestazione ha assunto a livello internazionale.
E pensare che solo nel 1988, con le Olimpiadi di Seul, si affermò il principio di far disputare le Paralimpiadi nella medesima città delle Olimpiadi, e che, addirittura, solo dal 2001 Giochi Paralimpici e Olimpici sono abbinati, grazie ad un accordo tra il Comitato Olimpico Internazionale e il Comitato Paralimpico Internazionale, a garanzia che la città candidata ad ospitare le Olimpiadi organizzi anche i Giochi Paralimpici.
Questi ultimi costituiscono oggi, dunque, un appuntamento sportivo atteso e vissuto da una audience mondiale e rappresentano, anche grazie alla popolarità raggiunta dai tanti atleti, uno snodo fondamentale nel percorso di inclusione e riconoscimento di pari diritti per le persone con disabilità di tutto il mondo.
È un momento, come ha voluto ricordare il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in vista a Parigi, “che, in questo particolare periodo della storia, è di accresciuta importanza per sottolineare quanto sia rilevante far prevalere il versante della conoscenza, del dialogo e della collaborazione, non della contrapposizione o, addirittura, degli scontri o delle guerre”.
Sport e disabilità, dunque, come via all’integrazione, all’inclusione, al dialogo e al riconoscimento delle diversità come parte della condizione umana: la pratica sportiva come ulteriore tassello della quotidianità che tutte le persone, in particolar modo quelle con disabilità, devono poter vivere appieno e senza ostacoli o discriminazioni di sorta. Di qua, la valenza fortemente simbolica dei Giochi, che vogliono testimoniare, con la competizione fra atleti con disabilità di tutti i paesi del mondo, come la condizione di disabilità (fisica o intellettiva) non debba essere motivo di impedimento ad attraversare tutte le dimensioni della vita, in un continuum che deve includere la scuola, il lavoro, la salute, il tempo libero, la partecipazione alla vita sociale, politica ed economica del paese.
Molta strada, dunque, è stata fatta: basti ricordare come, scorrendo la storia della manifestazione, si sia passati dai 400 atleti partecipanti nel 1960 ai più di 4.000 di Parigi. Moltissima, tuttavia, ne resta.
In questo clima di festa, non può essere sottaciuta l’aspirazione – rectius, la necessità – che i Giochi Paralimpici vengano organizzati assieme alle Olimpiadi, estive e invernali, così da evitare, non troppo paradossalmente, di incorrere in un ennesimo inciampo di separazione e di mancata inclusione per le persone con disabilità. Olimpiadi tout court, insomma. Il Ministro con delega allo Sport, Andrea Abodi, ha dichiarato in un’intervista che “ci stiamo avvicinando al pieno superamento della distinzione e un giorno non lontano potremo ragionare anche sull’unificazione dei nostri due Comitati”, ovvero il Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) e il Comitato Italiano Paralimpico Italiano (CIP). Andiamo oltre, tuttavia: perché tenere ancora separati Giochi Olimpici e Paralimpici?
La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006, ratificata in Italia con legge n. 18 del 2009, individua una serie di obblighi generali a carico degli Stati firmatari, allo scopo di garantire e promuovere la piena realizzazione di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali per tutte le persone con disabilità, senza discriminazioni di alcun tipo sulla base della disabilità stessa.
L’obiettivo è contribuire a costruire società più giuste e inclusive per assicurare il pieno ed eguale godimento di diritti e opportunità per le persone con disabilità al pari di tutte le altre persone (“su base di uguaglianza con gli altri”, statuisce il Trattato). Tra i vari ambiti affrontati, la Convenzione ONU si occupa anche di attività ricreative, svaghi e sport (art. 30) e, al fine di consentire alle persone con disabilità di partecipare su base di uguaglianza con gli altri, prescrive che gli Stati Parti adottino, fra l’altro, misure adeguate a incoraggiare e promuovere la partecipazione più estesa possibile delle persone con disabilità alle attività sportive ordinarie a tutti i livelli, garantendo che le persone con disabilità abbiano la possibilità di organizzare, sviluppare e partecipare ad attività sportive e ricreative specifiche e incoraggiando, a tal fine, la messa a disposizione, su base di uguaglianza con gli altri, di adeguati mezzi di istruzione, formazione e risorse.
Se, dunque, lo sport altri non è che uno dei tanti, diversi ambiti della vita quotidiana per i quali non debba essere ammessa discriminazione alcuna per le persone con disabilità, che devono essere poste nelle medesime condizioni delle persone senza disabilità, è oltremodo difficile comprendere perché le Paralimpiadi debbano tenersi in un secondo momento rispetto ai Giochi “ordinari”, in una condizione di oggettiva minorità. Come ho avuto modo di sottolineare in occasione dei Giochi di Tokyo, non si tratta di negare l’oggettiva diversità di condizioni degli atleti, naturalmente: è in gioco, tuttavia, come recita l’articolo 3 della Convenzione, il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa. Se la disabilità, ricorda l’OMS, è una mera condizione della persona umana, e se è innegabile la necessità di assicurare che tutte le persone, con o senza disabilità, possano godere di pari dignità e pari diritti, la separazione temporale dei giochi mantiene, indubitabilmente, un retrogusto discriminatorio.
In linea di principio, infatti, nulla impedisce – al netto di non irrilevanti questioni di natura organizzativa – che le gare delle diverse specialità si susseguano con atleti senza e con disabilità, dimostrando, nei fatti, come lo sport unisca e non divida. È, tuttavia, evidente, inutile nasconderlo, che l’auspicata aggregazione delle prove olimpiche (che lascino per strada, una volta per tutte il suffisso “para”) possa rischiare di risolversi in un abbellimento di facciata. Come ha correttamente evidenziato Elisabetta Soglio sul Corriera della Sera: “Il problema è la vita quotidiana di chi si muove con una carrozzina o con le stampelle e del caregiver che accompagnano bambini o anziani con malattie invalidanti. Il problema sono poi le scale mobili rotte, i gradini per entrare in un ristorante, in un albergo o in una biblioteca, i parchi gioco dove i giochi non sono per tutti, le aule scolastiche con porte troppo strette e i bagni utilizzabili soltanto per chi si muove sulle sue gambe”.
Insomma, la vita reale delle tante, concretissime difficoltà che affrontano ogni giorno le persone con disabilità e le loro famiglie a fronte di quelle che possano essere interpretate come operazioni di maquillage culturale.
In copertina: Paralimpiadi, immagine da Skuola.net