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Carwyn James e Doro Quaglio:
Rovigo provincia del Galles nel rugby

Carwyn James e Doro Quaglio: Rovigo provincia del Galles nel rugby

Il rugby in Italia è molto sentito e praticato solo in alcune enclaves, circondate per il resto dalla ossessione nazionale per il gioco del calcio. Una di queste enclaves è la provincia di Rovigo. Il 24 giugno scorso, all’interno della Club House della società Frassinelle Rugby (il cui settore giovanile, che attira allievi da tutto il Polesine e da parte dell’Emilia, sta mietendo successi nelle manifestazioni di mezza Italia, e parliamo di un paese di 1.300 abitanti), l’ex giornalista della Gazzetta dello Sport ed ex rugbista Marco Pastonesi ha presentato il suo libro “Il leone e il corazziere”, dedicato a due figure carismatiche del rugby negli anni settanta: il gallese Carwyn James e il rodigino Isidoro Quaglio, detto Doro.

Introdotti dal Presidente del Frassinelle Rugby Raffaele Mora, Pastonesi e Angelo Morello, storico dirigente del Rovigo Rugby e amico di Carwyn James (del quale traduceva gli articoli dall’inglese: James scrisse di rugby per il Guardian e, in Italia, per il Carlino e il Gazzettino), hanno restituito in maniera palpabile l’atmosfera rugbistica polesana di quegli anni, in bilico tra pionierismo e professionismo.

Come è stato possibile che Carwyn James, rugbista ma soprattutto allenatore di grido, l’unico capace di battere con le sue selezioni gallesi – prima i British&Irish Lions, poi i Barbarians – i leggendari All Blacks in tournée in Europa, secondo molti addetti ai lavori “il miglior allenatore di rugby al mondo”, colui che declinò le avances della Federazione gallese perchè si rifiutava di farsi dare la formazione dal Comitato dei Selezionatori (i Big Five), abbia trascorso tre anni della sua carriera a Rovigo, con tutto il rispetto non esattamente il centro nevralgico del rugby mondiale?

Pastonesi prosaicamente lo dice: vicino a Rovigo c’erano Venezia, Padova. C’era l’arte. Per un letterato quale era James, venire in Italia voleva dire frequentare l’arte. Poi c’era anche il rugby, che però probabilmente non era stata la molla decisiva. Era qualcosa in più, il gancio che gli avrebbe permesso di vivere per qualche anno a stretto contatto con l’arte di cui il nostro paese abbonda. A Rovigo da coach (dove rimane dal 1977 al 1979) incrocia la strada della vita con Doro Quaglio (passato anche da Frassinelle), ancora giocatore, indigeno di ritorno dall’esperienza in Francia: una quercia coi baffi, una fisiognomica che incarna l’eroe classico del rugby.  Due tipi quasi opposti: intellettuale e delicato il primo, un gigante nodoso e ruvido il secondo. Entrambi dotati di un carisma superiore.

Mi resta impresso tra i tanti il racconto di un episodio: Carwyn James, che si tiene su a furia di gin tonic, a casa di Quaglio, che si tiene su a “ombre”. Stanno guardando in tv Francia – All Blacks. La Francia sta vincendo a pochi minuti dalla fine, e Carwyn consiglia prudenza, perchè negli ultimi minuti i neozelandesi possono ribaltare il risultato. Lo dice con una certa noncuranza, tanto è vero che poi se ne va in bagno (a scaricare i gin tonic, presumiamo) e torna a partita appena conclusa. Gli All Blacks hanno ribaltato il risultato negli ultimi minuti e hanno vinto la partita. “Visto, cosa ti avevo detto?” è la chiosa di James. Il resto lo racconta il libro.

 

 

 

 

DONNE E MOBILITA’
Sono le donne che portano i bambini a scuola

DONNE E MOBILITA’. Sono le donne che portano i bambini a scuola

Donne e uomini non usano gli stessi mezzi di trasporto, gli stessi orari di partenza, le stesse finalità di spostamento. Anzi, è proprio questo uno dei settori in cui le differenze tra i sessi sono molto evidenti.

È ormai chiaro come i diversi ruoli di genere ricoperti da uomini e donne nel sistema socioeconomico nazionale e sovranazionale si traducono in diversi bisogni e comportamenti anche per quanto riguarda la mobilità. Ma la situazione può cambiare? Quali sono le traiettorie che permettono di individuare piste di miglioramento?

Interessante è analizzare i dati dellEurobarometro, strumento di sondaggio ufficiale utilizzato dalla Commissione europea e da altre istituzioni e agenzie dell’UE, per monitorare regolarmente lo stato dell’opinione pubblica in Europa, anche su questo tema.

Secondo l’Eurobarometro le donne preferiscono camminare, utilizzare i mezzi pubblici urbani e i treni extraurbani, mentre gli uomini dell’UE scelgono più spesso mezzi di trasporto individuali, tra cui auto, biciclette, motorini e scooter.

Un concetto interessante, elaborato dagli studiosi, è quello di mobilità di cura che permette di individuare le differenze di genere nell’uso dei mezzi di trasporto dovuto alle attività di cura (accudimento di bambini e anziani), che fanno ancora capo prevalentemente alle donne.

I dati dell’Eurobarometro confermano le differenze di genere nel tipo di viaggi giornalieri effettuati. Gli uomini viaggiano più spesso per motivi personali, compreso il tempo libero, mentre le donne viaggiano più spesso per attività di assistenza.

Un secondo tema importante legato alla mobilità è il legame tra l’uso dei trasporti e la povertà. Dalla combinazione di queste due variabili è nato il tema della povertà dei trasporti.

Sempre l’Eurobarometro indica un aumento della quota di spesa per i servizi di trasporto a livello familiare nei paesi che sono stati maggiormente colpiti dalla crisi economica (ad esempio Grecia e Irlanda) e in paesi in cui sono stati compiuti maggiori sforzi per passare dalla mobilità privata a quella pubblica per ridurre le emissioni di CO2 (ad esempio la Svezia).

Inoltre, si evidenzia come le persone con un rischio più elevato di povertà ed esclusione sociale hanno anche un rischio più elevato di povertà nei trasporti, cioè non possiedono mezzi propri e non hanno le risorse economiche per accedere ai migliori trasporti pubblici (ad esempio sono costrette a viaggiare sempre su treni locali e non possono permettersi l’alta velocità).

Le donne in stato di povertà spesso subiscono un plurimo svantaggio dovuto alla compenetrazione tra genere e altre condizioni di vulnerabilità, tra cui quella legata all’uso dei trasporti.

Un terzo tema evidenziato dall’eurobarometro è la questione della sicurezza delle donne che utilizzano i mezzi di trasporto, compreso l’elevato rischio di molestie sessuali sui mezzi pubblici, nonché la scarsa attenzione alla fisiologia femminile nella progettazione dell’ergonomia dei veicoli e dei loro sistemi di sicurezza. L’attenzione ai bisogni delle donne è ancora limitata e ciò è dovuto alla scarsa presenza di donne come esperte nel settore dei trasporti.

Si registra inoltre una bassa presenza di donne occupate nel settore. I dati esistenti confermano la bassa presenza di donne nel settore dei trasporti negli Stati membri dell’UE. Questo fenomeno solleva problemi di efficienza del mercato del lavoro, in quanto segnala un’allocazione distorta e non ottimale delle risorse umane in tale mercato.

Ci sono diversi motivi per cui il settore dei trasporti non è attraente per le donne. In primo luogo, è percepito come un settore tipicamente maschile e quindi le donne temono forme di discriminazione.

Mancano:
– l’attenzione alle misure di conciliazione vita-lavoro e alla flessibilità dell’orario di lavoro;
attrezzature e servizi a misura di donna;
– attenzione ai temi della sicurezza delle donne;
formazione, apprendimento permanente e opportunità di carriera;
– miglioramento della qualità del lavoro (compresi i contratti di lavoro) a beneficio di tutti i lavoratori.

Un’altra questione importante è la competenza tecnica, poiché le donne sono tradizionalmente sottorappresentate nel gruppo di discipline STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) fondamentali per il settore. Anche gli stereotipi di genere e la loro influenza sulle scelte educative delle ragazze possono contribuire a limitare le loro opportunità di carriera.

Quello dei trasporti è quindi un settore in cui la discriminazione delle donne è particolarmente evidente. Cercando analizzare gli strumenti di programmazione che vengono attuati anche in Italia, quali ad esempio i fondi strutturali e lo stesso PNNR, si evince come la possibilità di utilizzare risorse per migliorare la situazione, esistono.

Per fare alcuni esempi:

– Il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) ha tra i suoi obiettivi lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto e l’innovazione per le piccole e medie imprese. Nell’attuazione del fondo si può quindi perseguire una particolare attenzione alla mobilità e all’occupazione femminile nel settore. Si può inoltre sviluppare un’attenzione specifica alle esigenze di mobilità delle donne e all’occupazione femminile, anche attraverso l’adozione di strumenti di pianificazione partecipativa (ad es. “Living Labs“).

– Il Fondo sociale europeo (FSE+) e ilFondo sociale per il clima sono strumenti che possono contribuire a porre rimedio alla povertà dei trasporti e quindi sostenere efficacemente l’inclusione sociale dei gruppi vulnerabili.

– Il Fondo di coesione può essere utilizzato per garantire l’uguaglianza attraverso investimenti nell’ambiente e nelle infrastrutture. Analogamente, il meccanismo per collegare l’Europa (CEF) con i trasporti può sostenere le infrastrutture di spostamento che facilitano l’inclusione femminile.

– il PNNR nella Missione 3 dispone di una serie di investimenti finalizzati allo sviluppo di una rete di infrastrutture di trasporto moderna, digitale, sostenibile e interconnessa, che può aumentare l’elettrificazione dei trasporti e la digitalizzazione, e migliorare la competitività complessiva del Paese, in particolare al Sud.

Lo spazio normativo per migliorare la situazione evidentemente esiste, ma va applicato rendendo gli interventi adatti e cogenti, efficaci ed efficienti. Per fare questo occorre che, chi lavora in ambito attuativo, sia attento ai bisogni delle donne, privo di pregiudizi e con una bassa interiorizzazione degli stereotipi di genere esistenti.

In caso contrario la situazione cambierà di poco e gli interventi finanziati saranno di nuovo a favore del mantenimento dello status quo (ad esempio aiutando solo le donne a lavorare da casa per accudire i bambini, oppure dando solo a loro sconti sui mezzi pubblici per recarsi all’ospedale a trovare i parenti ammalati).

I ruoli di genere sono costruzioni sociali che possono cambiare nel tempo e, cambiando i comportamenti, cambieranno anche le dinamiche della mobilità. Ci si augura che le differenze di genere nella mobilità non siano destinate a durare per sempre. In futuro, l’incremento di modalità di lavoro flessibili adottate durante l’epidemia da Covid-19 e poi istituzionalizzate, dovrebbero rendere la mobilità di uomini e donne più simile.

Una maggiore condivisione del lavoro domestico e di cura dovrebbe semplificare gli spostamenti delle donne. Infine, al di là dell’appartenenza di genere, fattori come l’età, la classe sociale, il livello di istruzione e l’area geografica di residenza, che attualmente esercitano un’influenza importante sulla mobilità delle persone, dovrebbero anch’essi attenuarsi in quanto variabili intervenienti in un processo in rapido mutamento.

Sempre relativamente alle differenze di genere nell’uso dei trasporti e al modo di mitigarle, Sheila Watson, durante la COP26 – Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, ha dichiarato:

Nel campo dei trasporti, tutto è settato sugli uomini. Se si continuano a ignorare i bisogni femminili l’effetto è che le donne continueranno a non usare le nuove forme di mobilità e si baseranno ancora sui vecchi mezzi inquinanti, che è quello che non vogliamo. I dati e i processi decisionali non prendono in dovuta considerazione i bisogni femminili, serve invece che si inizi a farlo, anche perché si tratta di un elemento decisivo nella lotta ai cambiamenti climatici.

Si tratta quindi di coinvolgere le donne nei processi decisionali relativi ai trasporti, per garantire che i loro bisogni vengano ascoltati, e che l’impatto sull’ambiente sia minimo. Un monitoraggio più attento delle questioni di genere nelle politiche dei trasporti dovrebbe essere attuato da tutte le istituzioni europee nell’ambito dei loro ruoli specifici in materia di progettazione, attuazione e valutazione di tali politiche.

Per leggere gli altri aricoli di Catina Balotta clicca sul nome dell’autrice

Gruppo e comunità (3) /
Prendere accordi

Prendere le decisioni in gruppo, un accordo da trovare

Se non lo hai già fatto, leggi prima Gruppo e comunità (1) e (2)

Arrivammo nella sala con qualche minuto di anticipo.

Avevamo dedicato la parte finale della riunione precedente al prendere insieme alcuni accordi.

Sembrava una banalità, ma alla domanda A che ora vorreste iniziare gli incontri rispetto all’orario di convocazione? Quanto siete disposti ad attendere eventuali ritardatari?

Il gruppo si divise in tre opzioni, che all’incirca suonavano così.

Prima opzione: Io inizierei puntuale come un’orologio svizzero: il tempo è prezioso e sempre pochissimo, per cui è una questione di rispetto arrivare in orario.

Seconda opzione: Il quarto d’ora accademico non si nega a nessuno, c’è traffico, non si può arrivare sempre di corsa, un minimo di tolleranza ci vuole. Stiamo un po’ rilassati, intanto chi c’è può fare due chiacchiere.

La terza frangia era tutta presa a cercare mediazioni: 5 minuti di tolleranza, 10 minuti di tolleranza, no dai facciamo 8 così è una via di mezzo tra 0 e 15 e non scontentiamo nessuno.

Come volete prendere le decisioni in questo gruppo?
Fu questa la domanda che Paola pose. I più la guardammo perplessi. Come si prendono le decisioni in un gruppo? A maggioranza, ovvio. Ci sono altri modi?

Effettivamente, bisogna riconoscere che prendere le decisioni a maggioranza, scontenta sempre qualcuno. Soprattutto se quel qualcuno finisce sovente in minoranza.
Se siamo già in difficoltà a prendere decisioni su questioni semplici, come l’orario di inizio di una riunione, quanto lo saremo di più su problemi complessi?

Allora come? All’unanimità? Pare estremamente difficile che un gruppo possa essere autenticamente unanime su tutte le questioni. Capita che l’unanimità la si raggiunga come tentativo di arrivare ad un compromesso, perdendo in trasparenza e sacrificando il proprio punto di vista per molteplici motivi. Se poi pensiamo che alla base della Vita c’è la biodiversità, risulta difficile pensare che la vita di un gruppo sano possa basarsi sulla omogeneità, sul pensarla  tutti allo stesso modo.

E allora come si fa?

Le questioni su cui si associano molti gruppi sono complesse o estremamente complesse. Tentare di far fronte ai grandi problemi planetari di oggi, ad esempio, è una questione complicatissima, che interpella l’analisi e la tenuta insieme di una moltitudine di variabili. Anche solo per questo motivo, il beneficio del dubbio dovrebbe sfiorare le coscienze e rendere chiunque prudente nel proprio porsi su un cammino di condivisione.
Il tema del COME SI PRENDONO LE DECISIONI risulta cruciale.

Non a caso, se si intervistano i gruppi, alla domanda Quali i problemi più grossi che hanno interessato la vostra vita associativa? La maggior parte nomina i problemi legati al prendere decisioni che spesso generano conflitti, divisioni, incomprensioni, malumori, zizzania nei corridoi, fino a sfociare non raramente con la fuori uscita di alcuni membri.

Bisognerebbe prendere atto che i sistemi decisionali che utilizziamo abitualmente ed in maniera inconsapevole, non sono adatti a gestire i problemi complessi.

Se per problemi semplici è possibile trovare relativamente rapide e semplici soluzioni, per i sistemi complessi è tutto molto complicato e spesso contro intuitivo.

Chi studia i sistemi complessi, sa che molta cura va dedicata al processo, al COME, prima che al COSA.

E invece la maggior parte dei gruppi si riunisce “sul cosa” e “il come” non lo vede come questione di cui occuparsi in maniera propedeutica.

I più non si pongono nemmeno il problema.

Pochi si stanno occupando seriamente di questo tema.

Tra questi, con tante e variegate esperienze incoraggianti, troviamo il movimento della Transizione, nato in Inghilterra nel 2006 nella città di Totnes dalle idee di Rob Hopkins ed ora diffuso in oltre 50 Paesi del mondo.

Questo approccio sistemico basato sul COME, comprende anche STRUMENTI E METODI che permettono di gestire processi decisionali complessi, come il metodo della SOCIOCRAZIA. Non stiamo parlando di un ricettario di tecniche che si possono imparare in quattro e quattr’otto, ma, come ogni cosa complessa, necessita di studio, esperienza, accompagnamento e tanta pazienza.

Alla base della sociocrazia vi sono alcuni assunti come Si procede in assenza di ragioni per non procedere. Si analizzano le proposte, si fanno emergere eventuali obiezioni. Le obiezioni sono lette come opportunità per comprendere rischi che il proprio personale osservatorio non ha valutato. Luci, in altre parole, su altri osservatori. Più obiezioni emergono, più si ha l’opportunità di valutare anticipatamente i rischi, che diventano stimoli per comprendere lo scenario entro cui ci si muove in maniera più ampia ed inclusiva. Non lo si fa per buonismo, ma perchè nella realtà delle cose, esiste una complessità di cui tenere conto se si vogliono efficacemente affrontare i problemi. Più il gruppo è eterogeneo, più è biodiverso, più dà la possibilità di cogliere molteplici sfaccettature.

Qualcosa del genere lo ricordano le Assemblee dei cittadini, che alcuni movimenti per il clima stanno proponendo: assemblee in cui a riunirsi sono cittadini sorteggiati in maniera stratificata, ovvero portatori di interesse differenti, provenienti da ambienti diversi, con formazioni diverse. Serve tempo per questi processi. Sono utili soprattutto per prendere grandi decisioni, non nell’ordinario.

Ma non basta mettere insieme biodiversità umana. Serve anche un approccio adatto e all’altezza per evitare di inciampare sempre nelle stesse cose che non funzionano.

Tornando al metodo sociocratico, è interessante l’impostazione di fondo basata sui custodi: funzioni presidiate e tra loro strettamente interconnesse, garanti di una concreta democraticità:
– un custode del tempo, capace, con garbo e decisione, di mantenere attenzione sui tempi, sulla sostenibilità dell’ordine del giorno, sul fatto che non emergano “ping pong” tra due o tre persone che finiscano per monopolizzare la discussione, privando gli altri dello spazio tempo necessario per ricevere cittadinanza;
– un custode della storia, che tiene traccia di quanto emerge in riunione, di chi fa che cosa e in che tempi, ovvero degli accordi presi e dei principali punti di discussione, assicurandosi anche di informare gli assenti, così che ognuno possa velocemente aggiornarsi su quanto accaduto in sua assenza (ottimi i diari di bordo su file condivisi e scritti in tempo reale);
– un custode del cuore, che presta particolare attenzione ed empatia al clima di gruppo, alle eventuali tensioni, al livello di energia o meno presente, che significa motivazione ad attivarsi e prima ancora a fare parte di quel processo;
– un custode del processo che, in maniera particolare, aiuta a tenere insieme i pezzi, coordinando e curando i collegamenti o “cerniere” tra funzioni, gruppi di lavoro, obiettivi ed azioni, ovvero la coerenza di TESTA-CUORE-MANI.

Soprattutto per chi ha nel cuore e nelle parole l’ALTERITA’, l’apertura al diverso, risulta urgente (e coerente) imparare a comunicare tra diversi punti di vista, producendo conoscenza condivisa, cooperazione, assumendo quanto emerge dal gruppo e procedendo via via con accordi che diventano la bussola che orienta verso una direzione comune. Parliamo spesso di comunità inclusive. Bene. Abbiamo continuamente ottime occasioni per sperimentarci in questa polifonia, con curiosità ed umiltà, ma prima ancora ci vuole il desiderio di farlo.

Sempre a proposito del COME, risulta interessante e proficuo, osservare la propria ed altrui comunicazione, inconsapevolmente improntata su una grammatica ed un linguaggio che poco favorisce l’accoglienza e l’inclusività. E anche su questo molto c’è da imparare, ad esempio dalla comunicazione non violenta.

Ma di questo tratteremo nella prossima puntata.

Per approfondire OLTRE QUESTA DEMOCRAZIA TEDxBologna a cura di Cristiano Bottone

Per certi versi /
Il mio cuore

Il mio cuore

Il mio cuore
È un mosaico
Di sentimenti
Vissuti
Mancati
Perduti
Immensi
Trattenuti
Violati
Gettati
Amati
Un mosaico
Di geografie
Assiali
Cibo
Strepiti
Silenzi
Vulcani
Di elenchi
Il mio cuore
È arcaico
Così solo
Tiene
Fresco
Il suo mosaico

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Diario in pubblico /
Un viaggio a Roma

Diario in pubblico. Un viaggio a Roma

Mi appresto a recarmi nei luoghi dove si celebrerà il bicentenario canoviano, Roma Accademia di San Luca, Napoli Museo di Capodimonte, Vicenza Teatro Olimpico, con la consapevolezza che l’autore veneto teoricamente viaggia accompagnato da un drappello ferrarese di cui non è male renderne conto: la direttrice del Museo di Bassano Barbara Guidi che vanta lunga e felice militanza ferrarese, il presidente della Fondazione Canova, Vittorio Sgarbi e il sottoscritto che nonostante tutto ancora s’inchina alla città estense. E non si dimentichi il realizzatore della mostra, Io, Canova genio europeo anch’esso ferrarese. Ultima, ma fondamentale, l’Edisai attuale casa editrice delle Lettere canoviane.

La spiegazione più ovvia sta nella imprescindibile connessione tra l’artista e il suo più importante sostenitore e divulgatore: Leopoldo Cicognara, le cui origini sono storicamente ferraresi. Partiamo dunque per recarci a Roma dove ho trovato alloggio presso l’Hotel Nazionale in Piazza Montecitorio e in cui da anni mi sono recato per le trasferte romane.

Richiesto poi dove volevo viaggiare e memore dei miei trasferimenti ferroviari che mi hanno occupato dall’adolescenza alla terza età, chiedo naturalmente una seconda classe. L’avessi mai fatto! Mi si presenta una situazione che dir surreale sarebbe pochissimo!

Ogni viaggiatore è munito di immense valigie, che ferocemente trascina con sé occupando ogni possibile millimetro libero con l’occhio fisso al dio moderno: il cellulare. Puzze non evitabili di piedi mal lavati, di ascelle infradicite dal sudore, di mestrui giovanili, di capelli sozzi e unti, mentre trionfalmente giovani donne ma anche vecchiette in polpa esibiscono tette e culi da brivido.

Due pallidissimi inglesi inodori mi stanno di lato e continuano con l’occhio fisso alla digitalizzazione di non so quale non segreto compito e, nel dirlo mi commuovo, dalla fila davanti alla nostra spunta la testa di un peloso di non nobili natali, che da un occhio azzurro chiede immediata carezza. Mi precipito ad accontentarlo mentre un soddisfatto colpo di coda sancisce l’avvenuto riconoscimento.

L’aria sempre più greve si fa ancor più ‘odorosa’ quando, preceduto da ululi sconnessi, s’avvicina il carrello delle vivande. Chiedo umilmente un succo di frutta e un panino che mi vien sbattuto sul tavolino con l’insofferenza di chi non ne può più. Bevo il succo e spezzetto l’ignobile panino per darlo in parte e di nascosto all’amico peloso. E non mi trattengo più per il desiderio sommo d’impartire almeno una lezioncina letterario-artistica ai due giovani pallidi.

Così nel mio spaventoso e balbettante english racconto pezzetti di storia fiorentina ai due malcapitati che alla fine, uno alla volta, si defilano chiudendosi nelle toilettes rigorosamente intasate. E, come una visione d’altri tempi, da un ammasso di capelli che la coprivano a mezzo il corpo, da calzoncini uterini, da gambone appesantite dalla cellulite, appaiono due straordinari occhi azzurri che mi guardano annoiati, mentre la mano a fatica afferra una bottiglia che reca la scritta della canadese University of Melbourne.

Non l’avesse mai fatto. Apro il viso a un satanico sorriso e trionfante annuncio che “anche io” ho insegnato in quello stesso luogo, dove vivono lontane e ricche cugine in una villa dove mi accolgono rovesciandomi nel piatto tante aragoste. Il disprezzo latente sul viso mi dice che non ho fatto colpo.

Improvvisamente appare una collega del Museo di Bassano che tiene in braccio una bambinetta di non più di due-tre anni. Allora tutto si chiarisce. La naiade disegna fiorellini e li passa alla bimba, io invito all’Accademia di san Luca la giovane studiosa e la mano piccola piccola della bimba si protende al muso del peloso, che doverosamente le elargisce una affettuosissima leccatina.

Sbarchiamo dunque a Termini e la folla invaligiata con stridor di ruote s’avventa alla fermata dei taxi. Qui scene fantozziane. Trascinando il malloppo ci si avventa sulle macchine, tra l’imperturbabile freddezza degli autisti che non aprono le portiere, poi finalmente alzo il ditino e si ferma la macchina. Il conduttore è in vena di parlare, mentre io lo avverto che, non solo devo andare in piazza Montecitorio, ma che mi occorre anche la ricevuta della corsa.

Al nome Canova mi guarda e ammette di averlo sentito nominare come un famoso pittore! La vena didattica si fa strada in me e dolcemente m’informo se per caso non avesse mai visto la statua di Paolina Borghese. Borbotta che dalle medie non mette piede a nessun museo, ma che avrebbe portato la moglie, a cui interessano “quelle cose”.

Così si giunge all’inizio della piazza Montecitorio, ma inflessibili poliziotti dicono di scendere e di far a piedi il percorso passando da dietro. Scendo e m’avvio. Purtroppo, non basta: ulteriori sbarramenti; così, dopo aver traversato i divoratori dei giolittiani gelati, mi si spalanca una viuzza, che di lato alfine mi porta all’ingresso dell’albergo.

Già le 16 e benché l’Accademia di san Luca fosse vicina, timidamente a piedi mi affaccio sulla fontana di Trevi. Orrore puro: mentre strani personaggi al suono di enormi altoparlanti ballano, strisciano per terra, urlano tra visioni orrende di pelli tatuate. E poi? Silentium.

L’Accademia si presenta silenziosa e muta. Arrivo alle 17.15. Breve visita alla mostra dei reperti canoviani dell’Accademia, poi si scende. Siamo in 15 e lentamente raggiungiamo lo spaventoso numero di 23……Tutti però ‘altolocati’. Lo streaming promette la visio integrale, ma né dal ministero, né dal Comune arriva segno.

Dove sono gli amici Franceschini e Gotor ad esempio. Bohhh…. ma un cattivo pensiero mi frulla per la testa: forse a qualche veglia funebre. E mentre invitato dall’amico Claudio Strinati ricostruisco come sia arrivato a studiare Canova dalle colline di Bellosguardo al Lungarno Corsini e mi affanno sulla credibilità dell’imprevedibile, mi arrivano severe censure sul mio discorzetto da parte di uno pseudo amico che non ha il coraggio di parlare pubblice, ma private mi manda severissimi rimproveri, giungendo perfino a parlare di odio… Mah!

Così in lieta compagnia, affidandosi a un canovian romano di pura razza quale Francesco Leoni, giungiamo a una trattoria che cancella ogni brutto ricordo di Roma sfasciata. Qui i più buoni fiori di zucca, qui calamari à gogò e dolci squisiti che mi ricordano la Roma d’antan. Poi il ritorno all’impenetrabile Hotel Nazionale guidati da una bellissima ragazza, la figlia di Paolo Mariuz, addetta alla vendita dei volumi.

Tutti poi partono presto la mattina seguente per Capodimonte ed io, in attesa del treno per Ferrara, ritorno all’amato caffè in Piazza del Pantheon. Qui la frenesia commerciale non ha più limiti. Ti fanno sedere con occhio esperto in tavolini nascosti (tanto sei solo); ti chiedono bruscamente cosa vuoi e al piccolo spuntino (cappuccino e succo di frutta) e alla richiesta di fattura ti rispondono sprezzantemente di attendere. E dopo una buona mezz’ora eccola la sospirata ricevuta.

Sfilano davanti al monumento comitive d’ogni razza e colore, salvo il nero. Sapienti madamine Turandot mettono in riga disciplinatissimi Ping Pang Pong, che guardano severi le colonne e doverosamente scattano improbabili foto e infine ancora via, ad aspettare in piedi il treno in ritardo, rimpiangendo di non avere comode prime classi.

L’arrivo a Ferrara porta con sé forse l’ultimo ricordo della città imperiale avvolta in lezzo e profumi.

Cover: Antonio Canova, Paolina Borghese come Venere vincitrice, 1804-1808, su licenza Wikimedia Commons.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Storie in pellicola / Marina Cicogna si racconta in “Ancora spero”

Dopo il documentario “Marina Cicogna – La vita e tutto il resto”, è uscito, a maggio, il libro “Ancora spero”, l’autobiografia di una grande ambasciatrice della cultura italiana, la produttrice Marina Cicogna. 

Lo scorso 6 maggio, alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, è stato presentato “Ancora spero”, autobiografia della produttrice e sceneggiatrice Marina Cicogna, scritta insieme alla giornalista e critica cinematografica Sara D’Ascenzo.

Un folle amore per il cinema, quello che ha fatto di lei una produttrice visionaria e leggendaria, prima produttrice del nostro sistema naturalmente patriarcale: il New York Times l’ha descritta come “la prima grande produttrice cinematografica italiana” e “una delle donne più potenti del cinema europeo”.

“Non ho mai prodotto un film per ragioni anche vagamente politiche, né mi interessava se il regista e i protagonisti fossero di sinistra o di destra. Mi premeva piuttosto che la trama e gli attori risultassero convincenti”.

Conosciuta al grande pubblico per l’Oscar come miglior film straniero a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, con Gian Maria Volontè, nel 1971 e la Palma d’Oro per La classe operaia va in Paradiso, sempre di Elio Petri, nel 1972, la contessa Cicogna Mozzoni Volpi di Misurata, aristocratica per lignaggio e stile, è, fin da giovane, aperta al mondo, libera, moderna e ribelle. Una vita senza confini, di nessun tipo.

Marina nasce a Roma, a Palazzo Volpi di Misurata, dal conte Cesare Cicogna Mozzoni e la contessa Annamaria Volpi di Misurata, appartenenti rispettivamente all’antico casato lombardo dei Cicogna Mozzoni e ai veneti Volpi di Misurata, in vario modo legati al cinema: il nonno era il conte Giuseppe Volpi, governatore della Tripolitania, presidente della Biennale di Venezia e, come tale, fondatore della Mostra del Cinema di Venezia (1932) tanto che da lui prende nome la Coppa Volpi; il padre co-produsse Ladri di biciclette nel 1948.

Il cinema lo conosce quindi da ragazza, sui set e nel jet set, e, prima di tutto, nel nucleo familiare: nel 1967 il fratello Ascanio (detto Bino) ottiene la maggioranza della Euro International Films, casa di distribuzione e produzione romana, rilevata dalla madre, e lei lo segue, sfidando le diffidenze di tutti, parenti inclusi, intuendo i grandi cambiamenti in atto: la contestazione giovanile, la rivoluzione dei costumi, la liberazione sessuale.

Marina Cicogna, Luchino Visconti, Federico Fellini, Marcello Mastroianni, foto Istituto Luce

Agli esordi, fa ottenere il miglior incasso della stagione 1967-1968 a Helga, un documentario della Germania Ovest sul percorso di una donna incinta e, sempre nel 1967, viene chiamata alla Mostra del Cinema di Venezia con ben tre film in concorso: Bella di giorno, di Luis Buñuel, cui va il Leone d’Oro, Lo straniero, di Luchino Visconti, Edipo re, di Pier Paolo Pasolini. Con quest’ultimo torna, nel 1968, con Teorema, imponendo Terence Stamp al posto di un ragazzo di vita desiderato dall’autore, e con Medea, nel 1969, asseconda poi Monica Vitti per il ruolo in Ragazza con la pistola che Mario Monicelli sta per girare con Claudia Cardinale.

La svolta, anche nella vita sentimentale, arriva nel 1969 con Metti, una sera a cena, di Giuseppe Patroni Griffi: Florinda Bolkan, per vent’anni sua compagna, e un immenso Ennio Morricone che regala al mondo un’indimenticabile bossa nova.

Mentre il fratello Bino si dedica alle grandi produzioni (C’era una volta il WestNell’anno del Signore), Marina sceglie lo spettacolo d’autore, sotto il segno di Gian Maria Volontè: con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto arriva all’Oscar, ma sottovaluta la situazione e non lo ritira (anzi, non ha mai visto la statuetta, racconta, spedita direttamente al regista Elio Petri); vince la Palma d’Oro con La classe operaia va in Paradiso, produce Fratello Sole, sorella Luna, di Franco Zeffirelli, domina gli incassi con Anonimo veneziano, di Enrico Maria Salerno, stupisce con Uomini contro di Francesco Rosi, punta su Lina Wertmuller per Mimì metallurgico ferito nell’onore vorrebbe con Giancarlo Giannini e Mariangela Melato.

E poi la tragica morte del fratello Bino, suicidatosi a Rio de Janeiro, da cui mai si riprenderà, e la crisi finanziaria della Euro, passa un breve periodo alla Paramount (che le rifiuta Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci e Il portiere di notte di Liliana Cavani) prima di cessare del tutto l’attività di produttrice e trasferirsi negli Stati Uniti.

Di ritorno in Italia, le viene offerta la presidenza di Italia Cinema (2002). È presidente onorario dell’Accademia Internazionale d’Arte di Ischia.

Grande appassionata di fotografia, negli anni della dolce vita ha immortalato personalmente amici celebri come Gianni Agnelli, Greta Garbo, Maria Callas e Onassis, Herbert von Karajan, Luchino Visconti, Federico Fellini, Audrey Hepburn, Brigitte Bardot, Henry Fonda, Charlie Chaplin, Jeanne Moreau, Silvana Mangano, Claudia Cardinale, Elizabeth Taylor, Ava Gardner, Yul Brynner, Ezra Pound e Louis Malle. Gran parte di queste istantanee è confluita nel libro Scritti e Scatti (2009), diventato anche un’apprezzata mostra fotografica.

Un secondo libro fotografico, La mia Libia (2012), raccoglie foto degli anni in parte vissuti a Tripoli tra il 1957 e il 1967, nella settecentesca casa di famiglia (Villa Volpi, oggi Museo islamico).

Nel 2019, esce, con Marsilio, il bellissimo Imitatio vitae, dettagli dei capitelli marciani che si animano e proiettano in storie remote e affascinanti, scelti con sguardo cinematografico da Marina, colpita da tanta bellezza e verità antiche.

Molti personaggi famosi raccontano le loro emozioni davanti a queste sculture, da Valentino a Vanessa Redgrave, da Valeria Golino a Liliana Cavani, da Marina Abramović a Jeremy Irons, da Pierfrancesco Favino a Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, per citarne alcuni.

 

Nel 2021, è protagonista del documentario Marina Cicogna – La vita e tutto il resto, di Andrea Bettinetti, distribuito da Luce Cinecittà, in cui ripercorre le tappe della propria vita, lontana dalla mondanità del passato e di fronte alla malattia. Un viaggio nel tempo che dall’infanzia al Lido di Venezia approda alle stanze di un collegio svizzero, dall’America degli anni Ottanta giunge alle atmosfere del Brasile, dalla New York degli esordi arriva agli eccessi delle notti a Los Angeles, dalle spiagge di Miami ritorna nella sua amata Roma.

Tra mondi in dissoluzione e altri in trasformazione, set turbolenti e dimore paradisiache, leggende e aneddoti si intrecciano a verità e tragedie, nel racconto di oltre ottant’anni di amicizie indissolubili da Valentino a Jeanne Moreau, da Franco Zeffirelli a Ljuba Rizzoli, da Giuseppe Patroni Griffi a Gian Maria Volonté, da Ennio Morricone a Elio Petri, di grandi e romantici flirt, da Farley Granger ad Alain Delon e Warren Beatty, e di legami duraturi, con Florinda Bolkan e l’attuale compagna, Benedetta.

Nominata Grande ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana nel 2012, il 10 maggio 2023, Marina Cicogna riceve il Premio alla carriera nel corso della 68ª edizione dei David di Donatello.

Una storia incredibile. Una vita per il cinema, da cinema.

Marina Cicogna, Ancora spero. Una storia di vita e di cinema, Marsilio Specchi, 2023, 272 p.

 

Foto in evidenza Corriere della Città

ACCORDI
Viaggio dentro Stay degli U2

È quasi l’alba, e stiamo camminando per le strade in cerca di un bar, di un minimarket o di un qualsiasi riparo dal nostro vagabondare. Sì, abbiamo la fame di chi ha fatto tardi, e anche il più rattrappito dei tramezzini confezionati ci sembra il giusto premio per aver attraversato indenni un’altra notte.

Eppure, lo sai, c’è ben poco da festeggiare: sei inerme di fronte alle tue fragilità, e quel confine tra l’essere vittima e carnefice non è mai stato così sottile. Parli di progetti, di nuove possibilità, ma in cuor tuo sai già che sono soltanto parole con cui riempirai il presente, e non il futuro.

Non sei veramente qui, non stai assaporando il momento. O perlomeno fai finta di assaporarlo, perché è così che si fa da queste parti: si indossa una maschera e si evita di scavare a fondo per paura, pigrizia o vergogna. Riempiamo tutto il riempibile per non fare i conti con il vuoto che ci attende.

Il tuo è un grido d’aiuto strozzato sul nascere. Io l’ho colto, e spero che non sia troppo tardi.

Vorrei poterti aiutare, ma non so come.
Resta con me. Non lasciarti andare.
Si sta facendo giorno, e ce n’è di strada da fare.

Vite di carta /
Come Bambini giocano i Grandi della Terra

Vite di carta. Come Bambini giocano i Grandi della Terra

Ho letto un racconto bellissimo, Certe case (vari stadi di dissoluzione) di Claire Vaye Watkins, giovane scrittrice californiana. L’ho letto pensandolo fino in fondo e intanto ho ripercorso un po’ rapsodicamente la narrativa che conosco su questo enorme tema, il tema della dissoluzione oggi.

Watkins racconta dal di dentro la storia di due sorelle e dei loro genitori fragili, il padre scomparso presto, la madre malata e incapace di vivere. Ogni casa è descritta attraverso i dettagli del disordine, della povertà.

Segni di degrado ovunque, mentre la voce narrante e la sorella crescono e non si sa come riescono a seguire un regolare percorso scolastico, fino al college e all’università. Soprattutto, si vogliono bene e amano la loro madre nel bene e nel male, anche quando la malattia di Lyme, non ancora diagnosticata, la fa soffrire e la spinge a comportarsi come una pazza.

racconti di due americhe antologia john freemanÈ questa l’America, oggi? Cerco più avanti nella stessa magnifica antologia curata da John Freeman, Racconti di due Americhe, un altro testo che dipinga il paese e trovo Felice dello scomparso Brad Watson.

Breve e intenso, il racconto smentisce il senso del titolo quando ci immette nella discriminazione razziale in Mississippi in una fase del Novecento non meglio precisata, forse alla metà del secolo o poco dopo, durante l’infanzia del narratore.

Anche lui ne parla da un punto interno alla vicenda, attraverso gli occhi del bambino incredulo che è stato. Incredulo davanti alla “donna nera” che lavorava in casa sua per uno stipendio irrisorio – forse Felice è il suo nome – e che dopo molti anni di servizio viene licenziata in seguito a un banale sospetto e senza diritto di difesa.

“Vivevamo in mondi distinti e separati, all’epoca. Cosa vera soprattutto per i neri da una parte e i bianchi della classe media e anche medio-bassa dall’altra. Ma che in realtà valeva per tutti i neri e tutti i bianchi”.

Non so se nella narrativa italiana ci sia una raccolta analoga di contributi così lucidi sul nostro presente. Conosco antologie assemblate sul tema della fuga, sulle ferite che la vita ci ha inferto. Mi sembrano ambiti più personali, individuali.

Mentre nei Racconti sono trentasei tra i più importanti narratori americani a tracciare il quadro della loro nazione, tra discriminazioni economiche, sociali, di genere e di razza. E con “la famelicità con cui la finanza depreda i più poveri”.

“L’America è spezzata. Non c’è bisogno di dati statistici per rendersene conto. Basta avere occhi e orecchie e ascoltare i racconti che si sentono in giro. Girando per le vie di una qualunque città americana è palese che il patto con i cittadini è stato infranto“.

Le parole che usa Freeman nella Introduzione sono uno schiaffo. Riportano a noi e al nostro paese, e a tutte le esperienze collettive che hanno marcato il nostro tessuto sociale negli ultimi decenni. Guidate spesso da una insufficiente visione politica, divisive.

amatissima toni morrison 1988Mi torna in mente il libro di Toni Morrison, che ho letto lo scorso mese di maggio, Amatissima.

Un libro fuori dell’ordinario, vincitore del Premio Pulitzer nel 1988, dove le protagoniste femminili sono donne di colore che ruotano attorno alla figura di Sethe, una ex schiava che alla metà dell’Ottocento acquista la  libertà con la fuga e nella propria casa ripercorre la vita tragica di prima e ne vive una nuova tra realismo e magia, tra la vita e la morte.

La sua storia di sopraffazione e di orrore si legge sulle cicatrici che ancora le disegnano il corpo e si fa paradigma per i sessanta milioni di africani morti nel periodo del commercio degli schiavi d’America.

La vita nuova ruota attorno a Beloved, la più amata tra i figli che ha dato al mondo Sethe, quella a cui ha tolto la vita per salvarla dalla condizione di schiava quand’era ancora molto piccola. Beloved viene dall’altrove con addosso un paio di scarpe nuove e un amore sconfinato da restituire a sua madre.

Passo in rassegna alcuni Tg ascoltati in questi giorni sul gigantismo, sugli incontri bilaterali o a numeri più alti che uniscono i Grandi della Terra per affrontare i problemi che affliggono il pianeta o parti di esso.

Se ascoltando il Tg vengo a sapere che Joe Biden ha concluso con “Dio salvi la regina” il discorso che ha  tenuto in questi giorni in Connecticut alla convention anti-armi. Se la diga fatta saltare a Kakhova, uno tsunami che ha allagato l’Ucraina, sembra non trovare un responsabile e dai Tg arrivano notizie di rimpalli tra i due paesi, quello di Putin e quello di Zelensky.

Se per analogia mi vengono in mente i bambini che giocano, credo di avere almeno un paio di motivi. Il primo è che i piccoli credono di fare cose molto serie, giocando. Il secondo, che sono del tutto prevedibili nel movente che li spinge a partecipare, cioè vincere.

L’analogia però finisce qui. Guardo questi ‘Grandi della Terra’ che giocano a fare i bambini e penso che non c’è innocenza nelle loro movenze. E c’è una prevedibilità nei comportamenti che la loro esperienza di vita rende inemendabile. 

Gioco a mia volta con le lettere: tolgo a Grandi la G maiuscola, come loro con totale mancanza di rispetto hanno tolto la T alla terra . Penso che lascerò la L alla Letteratura, verso la quale mantengo una speranza non ancora appassita.

Nota bibliografica:

  • Toni Morrison, Amatissima, Frassinelli, 1988 (traduzione di Giuseppe Natale)
  • Claire Vaye Watkins, Certe case (vari stadi di dissoluzione), in Racconti di due Americhe, a cura di John Freeman, Mondadori 2022 (traduzione di Federica Aceto)
  • Brad Watson, Felice, in Racconti di due Americhe, cit.

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Parole e figure / Il vecchio e il mare, un magnifico silent book

Isabella Labate e il suo omaggio a Il vecchio e il mare, di Ernest Hemingway, in un delicato silent book

La fortuna arriva in varie forme” – Ernest Hemingway

“Tutto era vecchio in lui, tranne gli occhi, che avevano lo stesso colore del mare”. Chi non ricorda questo passaggio del celebre romanzo di Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare? Per me, è stata una delle prime affascinanti e coinvolgenti letture, nelle elegantemente rilegate edizioni blu della B.U.R. che mamma mi aveva regalato.

Considerato dalla critica un capolavoro della letteratura, per il quale lo scrittore vinse il premio Pulitzer nel 1953 e il premio Nobel per la letteratura nel 1954, oggi Isabella Labate ne propone una versione senza parole, con Kite edizioni.

Un silent book in bianco e nero che propone immagini degne di un’opera d’arte che, con un linguaggio universale, non necessita di parole. La magia del racconto non si perde e nel silenzio delle tavole sembra di sentire il rumore dell’acqua e dei pesci che la solcano, e tra loro dell’immenso marlin dalle strisce viola, più lungo di un metro e mezzo rispetto alla barca del vecchio pescatore Santiago.

Siamo con e accanto a Santiago che, per ottantaquattro giorni non è riuscito a pescare nulla: eppure riesce a raccogliere le forze e a riprendere il mare per una nuova battuta di pesca che ha il sapore di un’iniziazione. Noi e Manolin, il giovane amico, conforto nei momenti di solitudine, che rappresenta il coraggio, la speranza e la fiducia. Un’avventura che coinvolge, nel mese di settembre.

Nella disperata caccia a quell’enorme marlin (alcuni critici lo hanno interpretato come il male oscuro, la depressione con cui Hemingway combatté per tutta la seconda parte della sua vita), che per due giorni e due notti trascina la sua barca nell’oceano, nella lotta quasi a mani nude contro gli squali che un pezzo alla volta gli strappano la preda, Santiago stabilisce, forse per la prima volta, una vera fratellanza con le forze incontenibili della natura che necessita di grande rispetto. E, soprattutto, trova dentro di sé il segno e la presenza del proprio coraggio e tenacia, la giustificazione di una vita.

Negli anni, Il vecchio e il mare è stato oggetto di varie trasposizioni cinematografiche, primo fra tutti quello con il grande Spencer Tracy, diretto da John Sturges nel 1958,

fino a quello, di animazione, diretto da Aleksandr Konstantinovič Petrov nel 1999 (Premio Oscar 2000 come miglior cortometraggio d’animazione).

Di Alfaveyron – video film, Copyrighted, wikipedia

Oggi, dopo aver sfogliato le pagine del libro silenzioso di Isabella, vi invitiamo anche a ritrovare le parole, ascoltando Pino Roveredo, che legge Il Vecchio e il Mare

Isabella Labate

È nata a Savona nel 1968 e ha studiato illustrazione a Genova con Emanuele Luzzati. Nel 1994 ha iniziato a pubblicare libri per ragazzi. Da allora ha lavorato con diverse case editrici italiane e straniere, ha esposto in Italia, in Giappone e a Taiwan, è stata selezionata alla Biennale di Bratislava nel 1995 e alla Mostra della Fiera del Libro di Bologna nel 2011, 2012 e 2013. Vive a Savona con il marito e due figli, davanti al mare, ma appena può scappa nei boschi. Si è aggiudicata il secondo posto del Concorso per Illustratori alla 43° edizione del Premio Letteratura Ragazzi di Cento (2022) con le tavole dell’albo Un tempo per ogni cosa (Kite Edizioni).

Il vecchio e il mare, di Isabella Labate, Kite Edizioni, 2023, 36 p., dai 15 anni

Il vecchio e il mare. Mostra personale di Isabella Labate

Da sabato 27 maggio a venerdì 30 giugno, il Museo Civico della Stampa di Mondovì ospita una nuova mostra di illustrazione organizzata da noau | officina culturale in collaborazione con Illustrada Associazione Culturale e il Festival Zerodiciannove di Savona, grazie al contributo di Fondazione CRC. Protagonisti i disegni originali realizzati da Isabella Labate per il silent book Il vecchio e il mare, Kite Edizioni, un omaggio all’omonimo celebre romanzo di Ernest Hemingway. La mostra, a ingresso libero, sarà visitabile durante gli orari di apertura del Museo Civico della Stampa.

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

LE VOCI DA DENTRO /
Chi toglie i peccati del mondo

Le voci da dentro. Chi toglie i peccati del mondo?
I detenuti attori al Teatro Comunale

La nostra Costituzione affida agli istituti penitenziari un obiettivo importante, alto e lungimirante; infatti l’articolo 27 recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Nello stesso comma ci sono due parole di grande spessore etico che oggi sembrano ai margini: “umanità” e “rieducazione”.
In sintesi, la Costituzione scommette sulle possibilità di cambiamento della persona, a condizione che venga trattata con umanità ed aiutata con una serie di attività rieducative.

Fra quelle che la Casa Circondariale di Ferrara propone ce ne sono davvero tante, probabilmente sconosciute ai più, gestite da istituzioni e realtà associative: dalla scuola all’università, dal teatro al cinema, dalla cura degli orti al riciclaggio di apparecchiature elettriche, dal calcio al rugby, dallo yoga alla pallavolo, dalla camminata veloce alla ginnastica dolce, dalla scrittura creativa al giornale.

Ognuna contribuisce, a suo modo, a quella rieducazione di cui la nostra comunità ha bisogno; in particolare il teatro, per le sue caratteristiche peculiari, aiuta a farla vivere direttamente.

Marco Luciano, attore e regista teatrale, esprime molto bene questo concetto in un’intervista concessa tempo fa a Telestense: “Molti di noi sono convinti che si entra in carcere per insegnare qualcosa ai detenuti. Bisogna essere coscienti del fatto che quando si entra in carcere per la maggiore si impara perché veniamo da un vissuto e da esperienze che non hanno quei codici.

Pertanto a noi interessa di più educare che non insegnare, perché educare viene da “ex ducere” cioè “tirar fuori” e Gramsci ci offre ottimi spunti per tirar fuori e mettere su uno stesso piano comunicativo chi sta scontando una pena e chi viene invece in carcere a tirar fuori l’anima di queste persone”.

Marco Luciano conduce il laboratorio teatrale nella Casa Circondariale di Ferrara e recentemente ha curato la regia dello spettacolo Agnus Dei, liberamente ispirato alle lettere dal carcere di Antonio Gramsci, che è stato presentato al pubblico del Teatro Comunale di Ferrara nella serata del 12 giugno scorso.

Lo spettacolo non aveva come obiettivo quello di narrare in maniera biografica la vita del politico e filosofo italiano, quanto piuttosto quello di indagare, attraverso quadri grotteschi e sarcastici, azioni poetiche e musica dal vivo, alcuni archetipi morali e sociali che la nostra società continua a propinare quando si parla di carcere e detenzione.

Dice Marco: “Agnus Dei… il titolo può sembrare un po’ ridondante, ma lo spettacolo vuole indagare alcuni stereotipi che ancora la nostra società alimenta quando si parla di carcere e da un altro punto di vista ci offre uno spunto per una riflessione diversa, cioè fa pensare che alcuni detenuti sono in carcere a scontare una pena e tanti altri sono fuori a non scontare le loro pene. Abbiamo individuato nella figura di Gramsci un paradigma di questo concetto”.

Marco Luciano è riuscito a portare al Teatro Comunale lo spettacolo Agnus Dei, ma la cosa più importante è che è riuscito a portare in scena, fuori dalle quattro mura della cella, diversi attori detenuti della Casa Circondariale di Ferrara che hanno seguito il laboratorio che viene proposto ormai dal 2005. È riuscito a creare un ponte, un’occasione per la società di incontrare le persone detenute andando oltre il reato, oltre la pena, oltre i pregiudizi.

Lo spettacolo Agnus Dei è stato emozionante, profondo, carico di significati e di stimoli.
Gli attori detenuti, molto emozionati, sono stati credibili e bravissimi nell’interpretare in maniera così intensa quei ruoli che sentivano particolarmente. Ci sono stati momenti di estrema delicatezza e di inaspettato divertimento, di giusta provocazione e di forte indignazione, di commosse individualità e di straripante coralità.

Il pubblico ha sentito l’atmosfera carica di passione che veniva trasmessa dal palco ed ha ricambiato con applausi sinceri, sentiti, calorosi e prolungati.
Gli attori hanno sentito il calore genuino del pubblico ed, emozionati, hanno restituito gli applausi.

È stato come se, con le nostre mani, si volessero sostenere insieme le arcate di un ponte fra persone libere e persone “ristrette”; un ponte di speranza da continuare a costruire perché la nostra società possa, malgrado la nebbia, attraversarlo alla ricerca di umanità.
Bravissimi tutti!

 


Si chiama Astrolabio il giornale della Casa Circondariale di Ferrara. Ed è un progetto editoriale che, da qualche anno, coinvolge una redazione interna di persone detenute insieme a persone ed enti che esprimono solidarietà verso la realtà dei detenuti. Il bimestrale realizza il suo primo numero nel 2009 e nasce dall’idea di creare un’opportunità di comunicazione tra l’interno e l’esterno del carcere. Uno strumento che dia voce ai reclusi e a chi opera nel e per il carcere, che raccolga storie, iniziative, dati statistici, offrendo un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali.

Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica.

In copertina e nel testo: Immagini dello spettacolo teatrale Agnus Dei, Teatro comunale di Ferrara, 12 giugno 2023

Nel mar Egeo affonda l’umanità

Nel Mar Egeo affonda l’umanità

Cosa si può provare su un barcone alla deriva?

Si parte dalla spiaggia di una costa imprecisata dell’Africa, magari dopo settimane di cammino, famiglie con bambini, giovani – certo che sì, i vecchi un viaggio del genere mica sono in grado di farlo. Pensa, dice il fedele contrito dal lutto dell’affabulatore, hanno pure il cellulare. Perché secondo voi chi intraprende un viaggio sulle spalle della morte manco quello dovrebbe avere? Poi, dice sempre il fedele listato a lutto, si portano pure i bambini, scappano invece di lottare. Lottare. Ma che ne sapete della loro vita, che ne sapete del mondo da cui scappano. Migranti economici, clandestini, rifugiati, quale sarebbe, per chiarezza, la distinzione? Chi scappa dalla fame non ha il diritto di vivere? Chi non ha mai avuto un documento di identità non è un essere degno di respirare la stessa aria di quelli che piangono un miliardario ottuagenario morto?

Le zecche, i sinistri, vogliono distruggere l’identità cristiana e occidentale dell’Europa, amano gli immigrati e odiano gli italiani … Ma che mondo è questo? Quali i suoi valori, quali le sue identità? Esseri umani, appesi allo stesso cielo, legati da millenni di evoluzione per poi venire classificati come indegni di vivere. Dove stanno tutte le divinità adorate dagli uomini dalla notte dei tempi, quando affonda una barca nel cimitero del mare Egeo o del Mediterraneo?

Non riesco ad immaginare la violenza dell’acqua, l’odore di escrementi e urina mescolati alla nafta grassa, la salsedine, l’odore del porto. Le prime falle, i sobbalzi, il vomito di persone affamate e assetate di speranza e voglia di vita. I bambini stanno sul fondo del barcone, nelle stive, pare il posto più sicuro, si vuole evitare che un’onda spazzi il ponte e li porti via.

Ma poi, il motore si ferma, le grida rimbalzano nel nulla verso la costa lontana.

Ma ci stiamo dirigendo verso la Grecia o verso l’Italia? Che importa, entrambe sono le culle della civiltà, ci sarà qualcuno che ci accoglierà.

Stai tranquillo bambino mio, il mondo non è così cattivo.

I giubbotti salva gente non ci sono per tutti, l’acqua sta entrando, si sente il rumore assordante dello scalpiccio del mondo sopra le nostre teste, l’assito della barca forse non regge, si aprono i chiodi. I secchi pieni di vomito e acqua non riescono a svuotare questo piccolo mondo di legno marcio. Ma il capitano quello col dente d’oro dice che è stato inviato il messaggio di S.O.S. Il messaggio è stato ripetuto venti volte, nell’etere ci sarà qualcuno in ascolto, ci avranno sentito.

Adesso arriveranno.

Ancora la signora bionda con le lacrime agli occhi, distrutta dalla morte del suo mentore, punta il dito contro i trafficanti di carne umana, quelli che guidano i barconi. Ma i trafficanti non sono in mare, sono a terra, nei palazzi, fanno affari con l’Europa, sono quelli che gestiscono i porti sicuri, in Libia, in Siria, gente che conta i soldi occidentali in uffici con l’aria condizionata.

Aiuto abbiamo l’acqua alle ginocchia, e sale, sale, sale. Ma i bambini sono vestiti di rosso, per essere più visibili, ci troveranno, ci salveranno.

Il mondo non può essere così cattivo.

Ora il barcone è inclinato da un lato, c’è gente a mare, gli uomini stanno a galla, per molto, le donne per poco i bambini per un istante.

Ma la stiva era più sicura, ora però è tutto nero, c’è l’acqua che brucia come il fuoco, non si respira, c’è l’acqua.

Acqua. Mare. Buio.

Ora è davvero il momento del lutto nazionale, dell’intero continente, del mondo, dell’umanità.

E invece sì. Il mondo è così cattivo. Addio

Per certi versi /
Il vecchio borgo

Il vecchio borgo

Pietre
Di fiume
pietre
Di case
Illune
Scolpite
Ondulate
Scale
Grandi ciliegi
E Cicale
Il vento soffia
Su queste braci
Del Trecento
Si accendono
Versatili
Rossi
Mattoni
mosaico
Ocra
Di variazioni
È tempo
Di coralli
Rupestri
Giù il fiume
Limpido
Immune
Il vecchio
Forno
In disuso
Tutto curato
Vecchio borgo
giardino
Presepe
Carioca
Silenzio abbagliante
Profuso
Pelle d’oca

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Immaginario /
Scegliere la serenità

Scegliere la serenità

Spesso sottovalutiamo la serenità. Mi sono sempre chiesta perché nei momenti di minore stabilità uno la ricerchi in maniera ossessiva, poi quando si è raggiunta o la vita ci mette il suo zampino o tu stesso non sai più cosa farne. La ricerca dell’equilibrio può diventare sfibrante, una dimensione quasi tragicomica del vivere. Non ci siamo più abituati, ora l’abitudine è scegliere. Scegliere canale, scegliere la pizza, scegliere la macchina, partner, casa, città, amici. Scegliere toglie serenità, cercare il top che non esiste, nelle cose e nelle persone. Il commercio delle anime, oltre che degli oggetti. Invece provare ad allenare la pazienza che manca o forse l’attesa che non è più contemplata. “Abbiamo tutto, abbiamo avuto tutto e subito!” così sentenziano i boomers, non che abbiano completamente torto. Non sappiamo più aspettare, costruire, aggiustare, allora cambiamo quel che abbiamo con qualcosa di nuovo, sperando che non si rompa. O partendo direttamente dalla consapevolezza che si romperà, prima o poi.

Inseguire le emozioni, qualcosa da fare e occuparci le giornate per non sentirsi vuoti. Poi in campeggio c’è quella coppia di anziani, insieme da una vita, seduti fuori al loro camper sul lago di Garda, a guardare tutto il pomeriggio due con la metà dei loro anni che montano a fatica una tenda. Eppure non vedi in loro nessuna smania di qualcosa di nuovo, di eccitante, di meraviglioso, sono lì seduti a guardarsi la scena al posto della tv. Tutto il giorno lì, riparati dal sole, senza neppure pensare di alzarsi per fare una passeggiata sul lungolago. Non so se sia una cosa dovuta al cambio generazionale, forse… anche.

Magari è diventato normale essere stimolati continuamente, come sotto l’effetto di una droga. Eppure si può scalare una montagna e poi sedersi sulla cima, rimanere lì a contemplare invece di pensare già alla strada del ritorno da fare, oppure sedersi in spiaggia ad osservare il mare e non pensare a niente, non fare niente, non cercare niente, una volta ogni tanto.

Cover: foto di Alessandro Giacobazzi

Alessandro Giacobazzi, classe 1972, ferrarese di adozione. La fotografia è il prolungamento del suo occhio per guardare quello che lo circonda, gli permette di lasciar parlare la parte più nascosta della sua personalità. Ha fatto sue due frasi di due grandi fotografi: “La macchina fotografica è uno strumento che insegna alla gente a vedere senza macchina fotografica” (Dorothea Lange) e “Non fotografare le cose come appaiono. Fotografale come le senti” (David Alan Harvey).

Presto di mattina /
Esili e dimore del cuore

Presto di mattina. Esili e dimore del cuore

La parola ha esili e dimore nel cuore dell’uomo

Dove mai può aggrapparsi la mattina
e descrivere il suo volo la speranza?
Per quali vie l’apprensione arriva
alla patria della pace e lì stramazza?

Sognano i sogni come unirsi al vento
e planare su una immota, quieta spiaggia.
La febbre si fa fuoco e non rallenta,
preme sul sangue finché non si sparge.

E la vita, la vita è questo aprirsi
verso l’altro, dolorosamente.
È bussare alle porte, fino a ferirsi.

È sapere che la morte rozzamente
verrà a cercarci. E a un tempo sentirsi
vivi per sempre, puntigliosamente.
(Osvaldo Pol)

Osvaldo Pol, gesuita argentino e poeta (1935-2016) si considerava in questo mondo uno straniero, in esilio, e forgiava le sue parole, di notte, dove la luce annida. Quando nel 1981 pubblicò una sua raccolta poetica dal titolo De destierros y moradas/Esili e dimore, papa Francesco, che allora insegnava letteratura nel liceo del collegio dei gesuiti, scrisse la prefazione:

«sono lieto di presentare questo libro di sonetti dove, in linguaggio poetico, si esprime la sapienza teologica, che è il frutto più apprezzato dalla Compagnia di Gesù nel suo impegno accademico. Può sembrare paradossale che un poeta parli, con linguaggio della terra, di esiliati dalla terra. Può sembrare paradossale ma non lo è, perché la parola poetica ha dimore di carne nel cuore dell’uomo e – al tempo stesso – sente il peso di ali che ancora non hanno spiccato il volo. Arduo dilemma, questo, che santa Teresa esprime poeticamente e misticamente: “Com’è duro quest’esilio!”» (La Civiltà Cattolica, 2021, Quaderno 4106, 189;191).

Per conoscere il cuore

La poesia come la letteratura fanno vedere legami anche là dove sembrano non esserci, rivelano una profondità nuova in una realtà apparentemente uniforme e senza spessore. Così per papa Begoglio l’esperienza creativa e l’immaginazione sono determinanti anche per la fede e la sua comunicazione: «Il romanzo, la letteratura legge il cuore dell’uomo, aiuta ad accogliere il desiderio, lo splendore e la miseria. Non è teoria. Aiuta a predicare, a conoscere il cuore» (Nei tuoi occhi è la mia parola. Omelie e discorsi di Buenos Aires 1999-2013, Rizzoli, Milano 2016, XX).,

Egli pensa pure che avere immaginazione aiuta a non irrigidirsi, rendendo capaci di libertà interiore, di misericordia e di dolcezza e in questo tempo di paradigmi rigidi, polarizzazioni contrapposte, crisi climatica ed economica, «abbiamo bisogno della genialità di un linguaggio nuovo, di storie e immagini potenti, di scrittori, poeti, artisti capaci di gridare al mondo il messaggio evangelico, di farci vedere Gesù.» (CivCat, Q4145, 2023).

Fame di un significato

Dal 25 al 27 maggio 2023 si è tenuto a Roma un convegno organizzato da La Civiltà Cattolica con la Georgetown University di Washington DC sul tema L’estetica globale dell’immaginazione cattolica, per riflettere su come la fede cattolica plasmi l’immaginazione e dia vita all’espressione artistica. Hanno partecipato oltre 40 poeti, narratori, sceneggiatori, arrivati a Roma da Canada, India, Irlanda, Italia, Kenya, Nigeria, Polonia, Regno Unito, Stati Uniti, Uganda. Tra loro anche il regista Martin Scorsese.

Quali sono i modi in cui la fede interroga la vita, esplora la condizione umana e risponde alla fame di significato? E in che modo gli artisti mettono in discussione l’eredità intellettuale, sociale o politica in cui questa fede è vissuta nel mondo contemporaneo? Come ispira l’orizzonte del cattolicesimo il lavoro creativo degli artisti?

Questo convegno è stato così l’occasione per papa Francesco di ritornare su temi a lui familiari per riaffermare come la letteratura e la poesia siano luoghi molto significativi oggi per interrogarci, lascar parlare Dio attraverso di essi e parlare di lui. Come a dire che anche la letteratura e l’arte sono “loci theologici/ luoghi della teologia insieme alla scrittura, alla tradizione, alla liturgia, al magistero, alla storia e alla ragione, fonti da cui attingere il sapere e la riflessione su Dio e il suo mistero in rapporto all’uomo.

Nel discorso rivolto ai convenuti il 27 maggio Francesco ha ricordato come la letteratura e la poesia, muovendo alla contemplazione, siano una “spina nel cuore” che apre al cammino. Per questo la fede non può fare a meno di esse per comprendersi ed esprimersi nella forma di un sapere e di una testimonianza:

«So che in questi giorni avete riflettuto su quali siano i modi attraverso i quali la fede interroga la vita contemporanea, cercando così di rispondere alla fame di significato. Questo “significato” non è riducibile a un concetto, no. È un significato totale che prende poesia, simbolo, sentimenti. Il vero significato non è quello del dizionario: quello è il significato della parola, e la parola è uno strumento di tutto quello che è dentro di noi».

Spina nel cuore per lo sguardo, l’ascolto, la voce, il grido

Una spina che non mortifica ma vivifica è l’esperienza artistica, perché ferendo essa libera la vita dai luoghi chiusi e sospinge verso spazi aperti. Lungi dall’anestetizzare, la letteratura e la poesia rendono sensibili all’umano e allo spirito dimorante in esso, generano partenze e ritorni, esili e dimore nel cuore:

«Ho amato molti poeti e scrittori nella mia vita, tra i quali ricordo soprattutto Dante, Dostoevskij e altri ancora. Le parole degli scrittori mi hanno aiutato a capire me stesso, il mondo, il mio popolo; ma anche ad approfondire il cuore umano, la mia personale vita di fede, e perfino il mio compito pastorale, anche ora in questo ministero. Dunque, la parola letteraria è come una spina nel cuore che muove alla contemplazione e ti mette in cammino. La poesia è aperta, ti butta da un’altra parte».

Nelle sue molteplici forme l’arte apre gli occhi. Così gli artisti e gli scrittori sono occhi che guardano e sognano, tanto che − citando Paul Claudel − Francesco afferma: «Il vostro è un “occhio che ascolta”. L’arte è un antidoto contro la mentalità del calcolo e dell’uniformità; è una sfida al nostro immaginario, al nostro modo di vedere e capire le cose.

E in questo senso lo stesso Vangelo è una sfida artistica, con una carica “rivoluzionaria” che voi siete chiamati a esprimere grazie al vostro genio con una parola che protesta, chiama, grida. Oggi la Chiesa ha bisogno della vostra genialità, perché ha bisogno di protestare, chiamare e gridare».

Sguardo, ascolto, voce e grido a far argine con l’ispirazione e l’inquietudine da essi generati all’indifferenza, alla rassegnazione, alla banalità, alla scontentezza dell’uniformità del pensiero e per risvegliare dal sonno malato e dall’addomesticamento delle ideologie.

Di questo è convinto il papa: «gli artisti sono la voce delle inquietudini umane. Tante volte le inquietudini sono sepolte nel fondo del cuore. Voi sapete bene che l’ispirazione artistica non è solo confortante, ma anche inquietante, perché presenta sia le realtà belle della vita sia quelle tragiche. L’arte è il terreno fertile nel quale si esprimono le «opposizioni polari» della realtà, le quali richiedono sempre un linguaggio creativo e non rigido, capace di veicolare messaggi e visioni potenti».

L’artista guarda, ascolta sogna e dà voce al grido di chi non ha voce; dà la parola al loro silenzio; dà spesso, cromatismo, figura simbolica all’invisibile, «profetizza, annuncia un modo diverso di vedere e capire le cose che sono sotto i nostri occhi. Infatti, la poesia non parla della realtà a partire da princìpi astratti, ma mettendosi in ascolto della realtà stessa: il lavoro, l’amore, la morte e tutte le piccole grandi cose che riempiono la vita. E, in questo senso, ci aiuta a “carpire la voce di Dio anche dalla voce del tempo”».

Un’esperienza debordante quella artistica

Un’esperienza debordante – ricorda papa Francesco – perché dà corpo, vita, immagine, scrittura e parola al sentire umano: quello inesprimibile, indicibile «delle tensioni dell’anima, della complessità delle decisioni, della contraddittorietà dell’esistenza.

Ci sono cose nella vita che, a volte, non riusciamo neanche a comprendere, o per le quali non troviamo le parole adeguate: questo è il vostro terreno fertile, il vostro campo di azione. E questo è anche il luogo dove spesso si fa esperienza di Dio. Un’esperienza che è sempre “debordante”: tu non puoi prenderla, la senti e va oltre; è sempre debordante, l’esperienza di Dio, come una vasca dove cade l’acqua di continuo e, dopo un po’, si riempie e l’acqua straripa, deborda».

Il suo invito agli artisti e agli scrittori è allora quello di «andare oltre i bordi chiusi e definiti, essere creativi, senza addomesticare le vostre inquietudini e quelle dell’umanità. Ho paura di questo processo di addomesticamento, perché toglie la creatività, toglie la poesia. Con la parola della poesia, raccogliere gli inquieti desideri che abitano il cuore dell’uomo, perché non si raffreddino e non si spengano.

Questa opera permette allo Spirito di agire, di creare armonia dentro le tensioni e le contraddizioni della vita umana, di tenere acceso il fuoco delle passioni buone e di contribuire alla crescita della bellezza in tutte le sue forme, quella bellezza che si esprime proprio attraverso la ricchezza delle arti… È un lavoro evangelico che ci aiuta a comprendere meglio anche Dio, come grande poeta dell’umanità. Vi criticheranno? Va bene, portate il peso della critica, cercando anche di imparare dalla critica. Ma comunque non smettete di essere originali, creativi. Non perdete lo stupore di essere vivi».

Una sfida e una responsabilità

L’immaginazione artistica al servizio della fede implica, soprattutto nel nostro tempo, una sfida e una responsabilità: di «non “spiegare” il mistero di Cristo, che in realtà è inesauribile; ma farcelo toccare, farcelo sentire immediatamente vicino, consegnarcelo come realtà viva, e farci cogliere la bellezza della sua promessa.

Perché la sua promessa aiuta la nostra immaginazione: ci aiuta a immaginare in modo nuovo la nostra vita, la nostra storia e il futuro dell’umanità!… La vostra opera ci aiuta a vedere Gesù, a guarire la nostra immaginazione da tutto ciò che ne oscura il volto o, ancor peggio, da tutto ciò che vuole addomesticarlo. Addomesticare il volto di Cristo, quasi per tentare di definirlo e di chiuderlo nei nostri schemi, significa distruggere la sua immagine. Il Signore ci sorprende sempre, Cristo è sempre più grande».

Affiora qui lo stesso orientamento prospettico, l’ispirazione spirituale e pastorale di papa Francesco in questi suoi primi 10 anni di pontificato: non spiegare, ma avere occhi che guardano, immaginano, sognano; mani e cuore per fare della realtà della vita la nostra responsabilità e la nostra ostinazione a continuare ad immaginare il nuovo nascosto nel vecchio, il futuro nel presente, nell’Evangelo la gioia.

Una poesia che brucia tra le mani

Gli alunni del liceo dei gesuiti a Santa Fe in Argentina, al tempo in cui Bergoglio insegnava letteratura, gli chiedevano di leggere autori moderni, preferendoli ai classici, inducendo così il futuro papa ad aggiungere a quelle letture anche la pratica della scrittura creativa.

Tra i poeti moderni prescelti per quell’esperienza didattica, e non solo, un ruolo centrale venne assegnato a Federico Gracía Lorca, la cui poesia gli “bruciava tra le mani”. L’espressione è di Carlo Bo, ispanista, francesista e critico letterario, nell’introduzione a tutte le opere da lui tradotte in due volumi per l’editrice Guanda (Poesie, Parma 1964).

Da dove originava un tale fuoco? «La poesia che gli bruciava nelle mani gli veniva sempre dalla realtà, dall’altro, non la considerava sua, limitandosi a considerare patrimonio personale la sua forza di adesione e di partecipazione, il suo “bruciare”». Per Gracía Lorca l’atto del guardare si intreccia in lui con quello del “prendere e fare”. Un dire facendo: è questa reciprocità relazionale uno dei tratti più peculiari del poeta andaluso, in grado per questo di allargare il mondo poetico radicandolo nel reale.

Scrive ancora Carlo Bo: «Da una parte uno spirito che si prepara a ricevere, dall’altra un mondo che già trasmette e verso cui il poeta si protende, con l’ambizione di raccogliere tutto, tutto quello che si può guardare e sentire», (ivi, XIV). Il suo è uno sguardo immediato alla realtà che diviene poi prospettico, uno sguardo allungato senza rinunciare all’uno o all’altro ma tenendoli insieme.

Interrogato su ciò che per lui fosse poesia disse: «Guardare, guardare …», non dando tuttavia una definizione, ma rimandando ad una pratica ad un esercizio poetico in atto. Come a dire, commenta ancora Carlo Bo che «il poeta per prima cosa deve fare: lasciamo agli altri – ai critici e ai professori – il compito della definizione. C’era, dunque, in partenza una grande volontà di fare e possiamo anche aggiungere: un senso della strada, assai più preciso di quel che non risulti a prima vista» (ivi, XIII).

Una conversione all’umanità sofferente

C’è pure in Gracía Lorca – ricorda sempre Carlo Bo – una dimensione “patetica”, di condivisione sofferente, ma “senza drammaticità”. Una sofferenza che si compì al termine della sua vita, quando venne ucciso dai falangisti, seguaci di Francisco Franco nella guerra civile spagnola.

Gracía Lorca così ricordava in un’intervista questa sua prossimità alla sofferenza d’altri: «“Gli ebrei, i siriani, e i negri. Soprattutto i negri! Con la loro tristezza sono diventati l’asse spirituale dell’America. Il negro che è così vicino alla natura umana pura e all’altra natura. Il negro che tira fuori musica perfino dalle tasche! Fuori dell’arte negra, non resta negli Stati Uniti che meccanica e automatismo”.

E come spiegare questa conversione all’umanità sofferente? Perché si è accesa, e in modo cosi aperto e sconvolgente, la sua partecipazione?» gli domanda l’intervistatore. Risponde: “Credo che l’essere nato a Granada mi porta alla comprensione simpatica dei perseguitati. Del gitano, del negro, dell’ebreo … del moro che tutti noi portiamo dentro. Granada sa di mistero. Di cosa che non può essere e però è. Che non esiste ma conta. O conta proprio perché non esiste, perde il corpo e conserva il profumo”.» (ivi, XXVII-XXVIII)

Guardare, guardare: Garcia Lorca desiderava «che tutti potessero guardare e che non ci fosse privilegio per una parte degli uomini, che per tutti ci fosse la possibilità di mettere in equilibrio il giglio e il fango» (ivi, XXXIV).

Il Canto del miele

Sia Ezechiele nelle sue visioni profetiche che Giovanni nell’Apocalisse sono invitati a nutrirsi di un piccolo libro. È il simbolo della vocazione profetica, della Parola di Dio che si incarna nella vita del profeta: «Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele» (Ez 2,8-9; 3,1-3). Ma la Parola non è solo da ingerire. Essa va digerita, assimilata tramite una ruminazione difficile e dolorosa.

L’immagine di Ezechiele viene ripresa in Apocalisse 10,10: «Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza».

Non solo dolcezza dunque, ma anche inquietudine genera la Parola di Dio. Dolce e amaro è il Verso/Verbo incarnato, perché messaggero di salvezza e, al contempo, di giudizio che mette allo scoperto cosa si ha nel cuore. La parola di Cristo consola e contesta insieme, libera e apre contese dentro e fuori di ciascuno. Una lotta per la luce che genera pervasiva inquietudine, un sofferto e stridente contrasto con ciò che oscura dentro di noi l’autenticità della vita e con ciò che fronteggia fuori di noi: l’ostile e violento incalzare di coloro che non amano la luce.

Così è pure della parola poetica: dolce e amara, patetica e gioiosa, luminosa e oscura, generativa in noi di forti emozioni, di sentimenti sofferti e di dolci risvegli, perché come il sole del mattino è il miele, lo canta la parola: grazia d’estate, frescura autunnale, foglia appassita e frumento. Impresa d’amore e suo canto è il miele che tesse l’infinito nel finito, epopea di un dire amando.

L’umiltà della parola primigenia è seminata così nel verso primitivo del poeta, profezia di un futuro sereno, di quiete dopo la tempesta.

È questo Il canto del miele

Il miele è la parola di Cristo,
l’oro fuso del suo amore.
La perfezione del nettare,
la mummia [balsamo] della luce del paradiso.
L’arnia è una stella casta,
pozzo d’ambra che alimenta il ritmo
delle api. Seno delle campagne
vibrante d’aromi e di ronzii.
Il miele è l’epopea dell’amore,
la materialità dell’infinito.
Anima e sangue dolente dei fiori
condensata attraverso un altro spirito.
(Cosi il miele dell’uomo è la poesia
che sgorga dal suo cuore dolente,
da un favo con la cera del ricordo
formato dall’ape più segreta).
Il miele è la bucolica lontana
del pastore, la zampogna e l’olivo,
fratello del latte e delle ghiande,
regine supreme del secolo d’oro.
Il miele è come il sole del mattino,
ha tutta la grazia dell’estate
e l’antica frescura dell’autunno.
È la foglia appassita ed è il frumento.
O divino liquore dell’umiltà,
sereno come un verso primitivo.
(ivi, 57).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Storie in pellicola / Francesco, “che silenzio c’è stasera”…

A 68 anni, dopo lunga malattia, ci lascia Francesco Nuti. “La creatività è l’arma segreta per affrontare le difficoltà della vita”, diceva. 

Nel giorno del clamore, quello della morte di Silvio Berlusconi, se ne è andato, in grande silenzio, Francesco Nuti. In silenzio, sommessamente, quel silenzio che lo avvolgeva da anni, dopo la depressione, l’incidente che lo aveva costretto su una sedia a rotelle, la solitudine. Senza voce. Nessun applauso, lontani i tempi del successo che fu.

Un genio triste che ci lascia, ma con lui tanti sono i ricordi. Per me sono immediatamente due: I Giancattivi, con Alessandro Benvenuti e Athina Cenci con i quali, nel 1981, esordisce con Ad ovest di Paperino e Caruso Pascoski (di padre polacco), del 1988. Quel “dammi un bacino” che faceva tanto ridere mamma, allora come ora. Quante volte, all’epoca, rivedevamo quel VHS e oggi, ancora, il DVD. Una delle scene più belle…

Erano gli anni 80, Nuti spopolava al botteghino, piaceva, tanti i film dalla comicità originale: basti ricordare Madonna che silenzio c’è stasera (1982) o Io, Chiara e lo Scuro (1983), con Giuliana De Sio, film ambientato nel mondo dei giocatori di biliardo per cui vince il David di Donatello e il Nastro d’argento come migliore attore protagonista.

Seguono tanti altri successi: Son contento (1983), Casablanca, Casablanca (1985), per il quale riceve il secondo David di Donatello come migliore attore protagonista (candidato anche come miglior regista esordiente), Tutta colpa del paradiso (1985, per cui è candidato al David di Donatello come migliore attore protagonista), Stregati (1986), Caruso Pascoski (di padre polacco) (1988), Willy Signori e vengo da lontano (1989) e Donne con le gonne (1991). Quest’ultima, nella stagione 1991/92, batte ogni record d’incassi, segnando il momento di maggior successo nella carriera di Nuti che di quel film fu sceneggiatore, regista e attore protagonista al fianco di Carole Bouquet.

Nello stesso periodo si dedica anche alla musica. Nel 1988 partecipa al Festival di Sanremo con Sarà per te, poi incisa anche da Mina,

e, con Mietta, duetta Lasciamoci respirare, composta da Biagio Antonacci, nel 1992.

Seguono OcchioPinocchio (1994), Il signor Quindicipalle (1998), Io amo Andrea, con Francesca Neri (2000) e Caruso, zero in condotta (2001), che ottengono, però, tiepidi consensi. Nulla è come prima. Inizia il declino inesorabile.

Poi il silenzio. Depressione e malattia chiudono una carriera riconosciuta, nel 2019, con il Premio Internazionale Vincenzo Crocitti, ritirato dalla figlia Ginevra.

Un documentario a lui dedicato dal titolo Francesco Nuti… e vengo da lontano viene presentato al Festival Internazionale del Film di Roma 2010.

Il 29 settembre 2011 esce, con Rizzoli, Sono un bravo ragazzo – Andata, caduta e ritorno, biografia a cura del fratello Giovanni.

L’11 maggio 2014, partecipa a una festa organizzata per il suo 59º compleanno dagli amici di sempre, Leonardo Pieraccioni, Carlo Conti, Giorgio Panariello e Marco Masini al Mandela Forum di Firenze, alla quale partecipano circa 7.000 persone. Perché Francesco non era poi solo, molto lo amavano, tanto.

Di Francesco ricordiamo il sorriso buffo, quelle fossette che intenerivano, gli occhi buoni, quell’accento toscano che sapeva di magia di altri tempi, la sagacia e l’intelligenza di un artista talentuoso, giocoso, originale e sincero. Trasparente.

Fra tutti i ricordi, a noi piace e commuove particolarmente quello personalissimo del critico cinematografico Giovanni Bogani su The Hollywood Reporter: la telefonata il giorno di Natale, l’intervista in elicottero, la struggente solitudine. Un delicato ritratto.

Addio Francesco, sorridi con gli angeli.

A Nuti saranno dedicati gli spazi di Manifatture Digitali Cinema di Prato

IL CONCERTO
Vasco Brondi nove anni dopo sotto le stelle di Ferrara

Sono arrivata con un pochino di ansia, a questo concerto che torna sui passi del debutto musicale di Vasco Brondi e che ha aperto la rassegna di “Ferrara sotto le stelle”, lunedì 12 e martedì 13 giugno 2023. Come se stessi andando a un appuntamento. È l’appuntamento con qualcuno che ha segnato un pezzettino della mia come di altre vite, che ha fatto da colonna sonora a un tratto di storia, a qualche passaggio determinante, che ha tracciato una linea di collegamento tra la precarietà timida e incerta di quegli anni e un approdo al presente, dove persino l’inattesa fallibilità e la mancanza prendono un peso e un colore diversi. Un po’ come in “Chakra“, dove “qualcuno gli ha detto che gli ha detto” che adesso senza di lui sì che riesce a stare.

Pubblico (foto Luca Pasqualini)

Il cortile del Castello, a nove anni di distanza, mi sembra più piccolo. Non mi è chiaro se ci sia stato un restringimento dell’area per il concerto o se è successo come coi posti dove si è stati da bambini e che dopo, da adulti, ci si accorge che non erano poi mica così grandi. Mi guardo intorno e non vedo più il pubblico di allora, mio figlio liceale è volato via da qui, in nord-Europa, e anche l’altra gente è diversa.

Brondi in scena (foto Luca Pasqualini)

Non so se siano quegli stessi universitari ventenni che, da quel luglio 2014 ad oggi, sono cresciuti e si sono accasati; o se sono altri, dei loro parenti maggiori che più tardi hanno scoperto, conosciuto e ascoltato questa musica, questi testi.

Pubblico al concerto (foto GioM)

Fatto sta che ho l’impressione che ci siano meno persone, ma più grandi, fisicamente più voluminose, che occupano di più lo stesso spazio, illuminato dalle loro sigarette elettroniche e dai loro telefonini registra-storie meno disperate, con meno acne e più corrugata tranquillità.

Riprese dei fan (foto Luca Pasqualini)

Nell’aria ci sono ancora disfattismo e pessimismo, le metafore sferzanti di Vasco Brondi e quei suoni duri, cupi, punk. Ma, in molti tratti, gli stessi brani prendono una connotazione diversa, meno amara e più soddisfatta, è un amaro fondente che si lecca un po’ i baffi e lascia più sazi che amareggiati. La sfumatura è diversa, è la tonalità di uno che ha trovato la sua strada in un sentiero aspro, che si è rivelato però rinfrescante e così pieno di ossigeno. Una pista dove riescono a trovare una collocazione armonica anche i vecchi struggimenti, perché chi li canta ha le scarpe giuste ai piedi e con queste da trekking non scivola più.

Vasco Brondi con gli scarponcini al concerto di Ferrara (foto Luca Pasqualini)

Il concerto ripropone quella visione impervia e controcorrente, che ora Vasco inserisce in uno spazio che sa accoglierla. Una posizione da dove si può scherzare su quello che non c’era o che c’è ma è poco perfetto, come il ballare scoordinato, condiviso e naïf – e per questo bellissimo e condivisibilissimo – che rievoca un po’ quello che innesca Nanni Moretti alla fine del suo film. Il ballo che chiude con poetica, semplice e aggraziata solarità “Il sol dell’avvenire” e che piano piano anche sui ciottoli del Castello Estense contagia tutti e diventa un’armonica danza collettiva, che riavvolge tanti fili e recupera i volti e i personaggi di un’intera biografia, da Giorgio Canali in super forma al suo fianco, fino a quel Manu che Vasco cita spesso.

Giorgio Canali (foto Luca Pasqualini)

Un’occasione per affermare – per Vasco Brondi come per Nanni Moretti – quanto valgano e quanto siano condivisibili i propri gusti, che non sono né trendy né luccicanti o per tutti; roba di nicchia, fatta di materiali fragili e preziosi (perché fragili) e che però riescono ad arrivare al cuore. Forse perché i cuori – dentro – sono tutti fragili. Niente a che fare con un Marco-Mengoni-prendi-tutto, salvo che non sia quello – struggente da graffiarti il cuore – che con un inedito di Sergio Endrigo chiude la versione cinematografica di “Colibrì”.

Vasco a Ferrara (foto Luca Pasqualini)

Per andare al concerto, mi rendo conto che ai piedi ho messo anch’io le calze e le scarpe tecniche comprate per la montagna, come se avessi dovuto affrontare un cammino o una traversata. È la traversata di questi anni, da quando tutto o tanto era ancora da costruire, fino adesso che magari le cose si infrangono pure e si perdono lo stesso, ma il nucleo, dentro, ha un’altra solidità, con un tetto sulla testa e una seggiola da cui osservare il mondo e condividerlo.

Cortile del castello (foto Luca Pasqualini)

È la differenza tra ciò che era e ciò che è. E musica, suoni e luogo riattivano la memoria di questa consapevolezza. Riesco proprio a sentirli, la sensazione e il sapore di quella vulnerabilità. E mi accorgo che, come nelle vecchie e grezze canzoni delle Luci della centrale elettrica, la fragilità era comunque emozionante, come quando sei in cima al dirupo e tutto è vertiginoso e possibile: sia superare il burrone sia infrangersi di sotto.

Vasco col pubblico (© Luca Pasqualini)

Mi sembra più grande, maturo e posato questo pubblico intorno a me, arrivato a qualche approdo, o anche solo a qualche impiego stabilizzante. Vasco Brondi e gli organizzatori dell’evento ne devono essere consapevoli, perché tra i gadget del merchandising è stato inserito addirittura un minuscolo body da bebè, dedicato forse a quelle “ragazze che – in “Chitarra nera” – vogliono figli/che vogliono figlie/che ci vorrebbero normali”.

Merchandising (foto GioM)

Il senso del messaggio complessivo è in quella canzone che mi aveva tanto toccato ed emozionato nell’album “Costellazioni”, e che viene offerta con i bis di quelle “Ragazze che stanno bene“, perché hanno capito che “Forse si trattava di accettare la vita come una festa/ Come ha visto in certi posti dell’Africa./ Forse si tratta di affrontare quello che verrà/Come una bellissima odissea di cui nessuno si ricorderà. Forse si trattava di dimenticare tutto come in un dopoguerra/E di mettersi a ballare fuori dai bar/Come ha visto in certi posti della Ex-Jugoslavia. /Forse si tratta di fabbricare quello che verrà/ Con materiali fragili e preziosi/ Senza sapere come si fa”.

Giorgio Canali (foto LP)
Sul palco con Brondi (foto LP)

La rassegna “Ferrara sotto le stelle” è realizzata grazie ad Arci Ferrara e Ales&Co, Comune di Ferrara e Regione Emilia-Romagna. Tutto il programma sul sito web www.ferrarasottolestelle.it/lineup-2023.

Parole a capo
“ricordi d’infanzia” e altre poesie di Sonia Caporossi

“La poesia inizia là dove finisce l’ovvietà.”
(Wislawa Szymborska)

 

Da Taccuino dell’urlo (Marco Saya Edizioni, 2020)

XV.

nell’assenza
{indesiderata, inerte}
sparge bruciore di :: fumo :: sui pianali del pensiero

quanto di lei gli rimane nel {sogno}
di un’indecenza pagana
nel suo rituale che lo condanna all’attesa
è l’essere scabro delle mani chiuse a pugno

che dentro, nel palmo, nel centro di tutto
concentrano il suo nome-odore-lignaggio
nell’ignobiltà ostentata del peso pericardico
che grava su quel petto illuso di visioni

come se la vedesse a un orizzonte di senso perduto
sorridente, estatica
chiamare il suo nome nel vuoto.

*
ω.

alla fine lui resta in silenzio
nell’abbraccio addormentato
rimando scabro di un lembo di pelle
rabberciato {lungo i bordi} nella fame di poesia

alla fine rinuncia all’amore
si prende in carico l’infarto
l’assassinio autoindotto del cuore
in questa quieta decisione

tanto lo sa che ritornerà
il desiderio del suo {fuoco greco}
perché l’amore non serve poi a tanto
::

per scrivere necessita una rabbiosa solitudine
e un istinto meno che umano, e stanco
di ripensarsi interi
dopo la distruzione.

 

Da Taccuino della madre (Edizioni Progetto Cultura, 2021)

ricordi d’infanzia

gli altri bambini scendevano a giocare sulla spiaggia
i pomeriggi risuonavano di grida e tonfi di pallone

quante facce li osservavano da queste bianche mura
ecco il cobalto vagare nel vago ricordo del mare

nuvole d’ebano e cenere sulle loro mani sporche
sulla rotondità perfetta e nuda della terra

rimanevo in casa a guardarli senza invidia
dallo spiraglio australe della finestra spalancata

non ci si può aspettare altro che uno sguardo passeggero
non c’è rimasto altro che un fotogramma sbiadito

non anelavo certo al calore della sabbia
non all’asprezza infetta delle ginocchia sbucciate

desideravo alle mie spalle soltanto le carezze
che priva d’interesse mia madre non mi dava

*

veglia

dormo sulla branda tra le pareti bianche
mia madre sta morendo da sola insieme a me

tagli trasversali su cortecce di bambù
lungo le venature molli della carne

la sapida chirurgia della ferita infetta
infiamma lattiginosa le caverne del mio cuore

si sparge come sangue sulla coperta bianca
come speranze vuote, trafitte nell’assenza

le luci brulicano nell’infrarosso del cielo
invadono l’orizzonte nell’olio lunare di un pianto

io mi terrifico inerme di questo assorto silenzio
non tollero la visione dello squarcio antiestetico a lato

annullo le certezze con cui ci si infonde coraggio
in un prolasso fluente di pus e falsità

“ti voglio bene, mamma, ti voglio bene, è vero…”
ma lei già non mi sente, non è più lì con me

per questo io ora so bene che per ricominciare
bisogna talvolta usare la bieca parola fine

 

Da Taccuino della cura (Terra d’Ulivi Edizioni 2021)

«ricordamelo tu, se proprio vuoi, chi sono
la nudità dell’essere invoca l’apparire
il vuoto dello specchio mi assiste incuriosito
mentre distillo in pianto le mie perplessità
cos’è la {nostalgia}, necrosi di un istante
pellicola di sangue ormai rappreso
membrana che si stacca rilassata tra le dita
dal cavo delle mani, dal morso dei {ricordi}
che cosa è la sostanza di un riconoscimento
e quanto può far {male} nel male fatto a un altro
per quanto ci risulti scartandone il pacchetto
ricordamelo tu che cos’è un dono
e nonostante il sole che circoscrive il volto
sebbene il suo calore ci riconosca vivi
rimane solo il {gelo} che di umano non ha nulla
e il taglio del cordone nella culla
l’attesa che rimargini {ferite} troppo antiche
nella clausura asfittica di un atrio d’ospedale»

φ

respirare il folle abbaglio dei colori
di un {tramonto} dentro una livida siccità
le luci si rivoltano nell’amplesso di un {istante}
stanche nuvole nel cielo come botti affastellate
si dipingono un dettaglio e poi sgretolano via
la farina intemperante di una vita ritrovata
dentatura marzapane di un {demiurgo} addormentato

 

Inedito

A Maria Laura

Avvolta mentre dormi nel sudario del mio abbraccio
Sei la pelle che non sfioro
La bocca che non bacio
La testa che non tocco
(se il mio sfiorarti solo ti facesse trasalire…)
ma nella compulsione inaspettata
che indulge alle carezze sulle spalle
la tua pelle impalpabile di miele
mi abbarbica all’attesa del risveglio:
e quando tu spalanchi figurale
nell’oro senza prezzo dei tuoi occhi
la voglia di baciarmi con il sale
che brilla lungo i bordi delle labbra
sei la resurrezione di ogni senso
che subito nel corpo incalza e preme
sei la Sandgirl che getta via la sabbia
e si licenzia dal suo pio mestiere:
conduci nell’onirico il mio giorno
sei la diuturna estasi del sogno.

Sonia Caporossi (Tivoli, 1973) è musicista, poetessa, prosatrice, critica letteraria e saggista. Ha pubblicato numerosi libri. Tra gli ultimi ricordiamo il saggio critico Le nostre (de)posizioni. Pesi e contrappesi nella poesia contemporanea emiliano-romagnola, con E. Campi, Bonanno, Acireale 2020; la curatela su G. Leopardi, L’infinita solitudine. Antologia ragionata delle poesie, Marco Saya 2020; la raccolta di monologhi filosofici Opus Metamorphicum, A&B Editrice 2021; la trilogia poetica Taccuino dell’urlo, Marco Saya 2020, finalista al Premio Montano 2020; Taccuino della madre, Progetto Cultura 2021; Taccuino della cura, Terra d’Ulivi 2021. Dirige per Marco Saya Edizioni la collana di classici italiani e stranieri La Costante Di Fidia. Collabora con Poesia Del Nostro Tempo, Versante Ripido, Bibbia d’Asfalto e col festival Bologna In Lettere. Ha diretto per molti anni Critica Impura e Poesia Ultracontemporanea. Il suo blog personale è disartrofonie. Vive e lavora a Cesena.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Per leggere il Bando e partecipare al Premio Internazionale Senza Premi “Le nostre parole per l’Alluvione” [Vedi qui]

Cover: Carlo_Erba,: Le_trottole_del_sobborgo,_che_vanno,_1915.

Bologna, 17 giugno. La marcia dei 10mila stivali di fango.

Una marcia popolare per portare alla sede della Regione Emilia-Romagna il fango spalato da migliaia di volontarie e volontari. Sono le migliaia di giovani e meno giovani che, in queste settimane, hanno risposto con solidarietà e rabbia alla catastrofe. Organizzata dalle volontarie e dai volontari che in queste settimane si sono auto-organizzate per dare una mano nelle zone alluvionate, l’iniziativa, a un mese dall’evento metoreologico che ha colpito i territori della Romagna e del Bolognese, si terrà sabato 17 giugno a Bologna.

 

Foto di gruppo di volontari spalatori di fango nelle zone colpite dall’alluvione in Romagna e nel Bolognese.

La manifestazione – a cui parteciperanno collettivi e associazioni da tutta la regione, e realtà come Fridays for Future Italia e il Collettivo di Fabbrica GKN, partirà alle 16 da Piazza XX Settembre. Il corteo sfilerà fino alla sede della Regione Emilia-Romagna, dove sarà consegnato il fango spalato in queste settimane.

La montagna di fango raccolto, da recapitare di persona alla sede della regione Emilia-Romagna

Perché L’alluvione  “non è un evento improvviso, è crisi climatica; è la volontà politica di investire per decenni sul costruire un territorio per il profitto e non per la vita bella e sicura di chi lo vive”. Ci sono delle responsabilità chiare sulle spalle di chi, negli ultimi decenni, pur conoscendo i rapporti scientifici sul cambiamento climatico e sul consumo di suolo, ha continuato a investire sulle fonti fossili e ad asfaltare il territorio, autorizzando costruzioni anche in aree ad alto rischio alluvionale.

Il primo ad erssere messo accusa è il governatore Stefano Bonaccini, le sue scelte (e le sue promesse mancate). I 10mila stivali citano l’ormai tristemente famosa legge urbanistica regionale 24/2017, presentata come legge che avrebbe fermato il consumo di suolo, ma che in realtà non ha raggiunto l’obiettivo. Per gli organizzatori della marcia popolare, in particolare, non si dovrà ricostruire tutto come prima e i profitti non dovranno più essere anteposti alla cura e alla sicurezza del territorio.

In particolare la manifestazione chiederà lo stop immediato a due progetti che insistono in Emilia-Romagna. Da un lato lo stop al rigassificatore di Ravenna, simbolo delle fonti fossili climalteranti, responsabili del surriscaldamento globale, dall’altro lo stop al Passante di Mezzo, emblema del consumo di suolo (che produrrà la cementificazione di ulteriori 40 ettari) che, sottolinea Palma, «consentirà l’allargamento di tutte le autostrade della nostra regione.
Per dimostrare che la lezione dell’alluvione è stata imparata, dunque, per i 10mila stivali bisogna cominciare dall’abbandono di queste due grandi opere per invertire la rotta.

Per leggere il Bando e partecipare al Premio Internazionale Senza Premi “Le nostre parole per l’Alluvione” [Vedi qui]

In Copertina: Foto del manifesto della manifestazione del 17 giugno a Bologna

Parole e figure / Zlatan e lo zio, storia di piccola gelosia

Dalla premiatissima autrice svedese Pija Lindenbaum un albo fresco e spassoso che parla di zii e di gelosia.

Ella è rimasta dalla nonna mentre i suoi genitori sono in vacanza, partiti per Sharm. Dalla nonna ci sono anche gli zii che sono un po’ noiosi, lavorano in ufficio e vanno matti per il pasticcio di carne, non come lo zio Tommy: lui sì che è divertente e interessante! Lui viaggia sempre, è perennemente in giro per il mondo, è curioso, vispo, originale e stravagante, e, altro che banale pasticcio di carne, lui adora il sushi.

Quando suonano alla porta e compare lo zio Tommy, tutto cambia. Pure il regalo tanto atteso (ne arrivano sempre tanti con lui) eccolo lì: con lo zio c’è anche un bel serpente morto in un barattolo di vetro, per l’orrore della nonna. Ella e lo zio insieme fanno un sacco di cose divertenti e se lei vuole le tinge i capelli ogni giorno di un colore diverso. A volte vanno in un posto ad ascoltare la musica, oppure all’opera. Spesso restano a casa a far finta di essere morti o saltellano a piedi uniti senza guardare la gente che passa. Insomma, lo zio che tutti i bambini vorrebbero avere.

Ma stavolta lo zio non è solo… con lui c’è Steve, che arriva da Trellenborg, un inaspettato intruso che sta sempre in mezzo ai piedi. Ha l’aria di essere un tipo davvero barboso. Inutile chiedergli se ha altro da fare o se non se ne debba tornare a casa sua. Lui resta e chiacchiera. Inutile pure versargli lo zucchero sulle scarpe o inzuppargli d’acqua il rotolo di carta igienica. Lui resta, imperterrito, anzi propone pure di andare in piscina tutti insieme.

La piccola Zlatan, come lo zio la chiama perché a Ella piace tantissimo il calcio, non lo sopporta perché sta rovinando tutto, e mette il muso. Promette di non mangiare e di non stare più con Tommy. Ma sabato Tommy arriva con la roba per la piscina. Finché si torna a casa e nel cortile… Forse anche Steve nasconde qualcosa di interessante?

Zlatan e il suo super zio, edito da Iperborea, è un divertente albo illustrato che parla di zii e di gelosia. La piccola protagonista si ritrova a dover dividere le attenzioni del suo zio preferito con qualcun altro e la cosa non le sembra per niente divertente ma, dopo un po’ di capricci e di dispetti, una passione da condividere li unirà.

Pija Lindenbaum, Zlatan e il suo super zio, traduzione di Giusi Barbiani, Iperborea-I Miniborei, maggio 2023, 40 p.

 

 Pija Lindenbaum (1955) è una delle autrici svedesi di libri illustrati più celebri della sua generazione. Le sue opere sono particolarmente apprezzate anche all’estero, sono state tradotte in molte lingue e hanno ricevuto numerosi premi: l’Augustpris, l’Astrid Lindgren Award e il Deutsche Jugendliteraturpreis. Nel 1993 è stata nominata anche illustratrice dell’anno alla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna. Zlatan e il suo super zio è uno dei suoi più grandi successi e nel 2022 il regista svedese Christian Lo ne ha realizzato una trasposizione cinematografica.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

“Nascoste nella Tela”: incontro con l’autore Paolo Zamboni,16 giugno, ore 21, Sala polivalente del Grattacielo

 

Biblioteca Popolare Giardino

Venerdì 16 giugno 2023 – ore 21:00 
Sala Polivalente viale Cavour, 189 – Ferrara 

Il Gruppo di lettura “due pagine prima di dormire
in collaborazione con la Biblioteca Popolare Giardino

Presenta il libro di Paolo Zamboni

Nascoste nella tela
tra arte e medicina, un’indagine sui segreti delle opere più famose
(Mondadori, 2021)

Un libro illustrato in cui l’arte viene raccontata da un punto di vista totalmente inedito e dunque sorprendente, ricco di dettagli e curiosità sui grandi artisti e la loro epoca.

Paolo Zamboni è un grande amante dell’arte. Nei suoi momenti di evasione, tra libri, viaggi e mostre, si è però reso conto che non può fare a meno di rimanere medico anche davanti alle più straordinarie immagini dipinte dai massimi artisti di ogni epoca. È così che ha cominciato a notare i segni clinici delle malattie raffigurate, forse inconsapevolmente, in alcune delle più note opere d’arte. Se analizziamo con attenzione questi dipinti, infatti, scopriamo per esempio che il Bacchino malato di Caravaggio soffriva del morbo di Addison, una malattia che sarebbe stata descritta solo più di due secoli dopo; che sulla mano della Gioconda c’è una cisti tendinea; che il monaco nella cappella Brancacci ritratto da Masaccio o da Filippino Lippi ha un melanoma sul volto e la causa della morte prematura di Battista Sforza potrebbe celarsi in quell’arterite temporale a cellule giganti che Piero della Francesca ha così ben rappresentato nel famosissimo dittico dei duchi di Urbino conservato agli Uffizi di Firenze. L’autore riporta ogni opera al suo contesto storico, per dirci qualcosa di più sull’artista e i personaggi raffigurati. In una vera e propria indagine, a partire dagli indizi visivi e dalle fonti in nostro possesso, risaliamo per esempio alla causa delle difficoltà respiratorie di Rodolfo II d’Asburgo, tipiche dei minatori ma impensabili come conseguenze della vita a corte: l’imperatore, infatti, si dedicava all’alchimia, in minuscoli laboratori senza ricambio d’aria, nel tentativo di trasformare le polveri in oro. Con attento spirito d’osservazione possiamo poi individuare una serie di encefali «nascosti» in alcuni dipinti sacri: scopriamo così che durante il Rinascimento il papa aveva concesso la possibilità di eseguire studi anatomici sui cadaveri, ma non di esporne i dettagli pubblicamente, inducendo alcuni pittori, che collaboravano con i medici nella riproduzione dei segreti del corpo umano, a nascondere una rappresentazione del cervello nelle loro opere, come ha fatto il Bastianino nel Giudizio Universale della cattedrale di Ferrara. Un libro illustrato in cui l’arte viene raccontata da un punto di vista totalmente inedito e dunque sorprendente, ricco di dettagli e curiosità sui grandi artisti e la loro epoca.

Paolo Zamboni  è un medico italiano, docente presso l’Università degli Studi di Ferrara. Si è laureato in Medicina e Chirurgia nel luglio 1982 e si è specializzato in Chirurgia Generale nel giugno 1987 e successivamente in Chirurgia Vascolare nel luglio 1992. Ha indirizzato la sua attività di ricerca verso lo studio dell’emodinamica venosa con particolare interesse all’ambito neurovascolare.

www.bibliopopgiardino.it – info@bibliopopgiardino.it

La nanotecnologia come ingegneria dell’anima. Conversazione con Silvia Guerini.

Silvia Guerini, ecologista radicale di Resistenze al Nanomondo redattrice del giornale L’Urlo della Terra e tra le fondatrici insieme alla collaboratrice di Iglesia Viva Roberta Trucco e Cristiana Pivetti di FINAARGIT: Rete femminista internazionale contro ogni riproduzione artificiale, ideologia gender e transumanesimo.

Impegnata nello sviluppo di pensiero critico sui tempi presenti, da più di vent’anni porta avanti percorsi di analisi e di opposizione alle tecno-scienze e al transumanesimo, senza il timore di affrontare questioni scomode e impopolari. Autrice di svariati articoli e saggi contro la riproduzione artificiale dell’umano, la società cibernetica e transumanista. [Vedi anche “Silvia Guerini: dal corpo neutro al cyborg postumano”, su Periscopio del 20.01.23]

Quando hai sentito la chiamata all’attivismo politico, cosa significa per te dirsi anarchica e come siete arrivati a individuare nelle tecnoscienze e nel transumanesimo il vero obiettivo della cancellazione del senso ontologico di essere umano?

Il mio impegno politico inizia all’età di 17 anni con le campagne contro la vivisezione, lo sfruttamento animale e la devastazione della Terra, contro la predazione degli organi, la psichiatria e più in generale contro la medicalizzazione dei corpi.

Ero parte attiva di una campagna che portò alla chiusura del più grande allevamento di cani beagles destinati alla vivisezione in Italia. La questione della sperimentazione animale l’affrontavamo da un punto di vista etico e politico, inserendola in una più ampia critica a un sistema di mercificazione, predazione, smembramento di corpi, un sistema mortifero e iatrogeno come insegnava Ivan Illich.

Davamo voce alle battaglie dei contadini e contadine che resistevano all’avanzata delle multinazionali biotecnologiche come Monsanto, alle comunità Mapuche che si opponevano all’esproprio delle loro terre e che venivano uccisi dai sicari dei Benetton in Argentina e Cile.

Queste situazioni rappresentavano il vero volto di quelle multinazionali e rappresentavano che la posta in gioco è la nostra sopravvivenza e la sopravvivenza del pianeta. Portavamo la difesa del selvatico e degli ecosistemi come breccia per resistere all’avanzata del mondo macchina che produce in serie animali come corpi da smembrare, che uniforma le menti e dove il naturale scompare per far posto all’artificiale come unica dimensione.

Sono sempre stata contro ogni omologazione e pensiero unico, controtendenza anche all’interno dei contesti radicali e anarchici. Le nostre battaglie erano considerate marginali se non addirittura reazionarie, ma sono state proprio le nostre riflessioni e analisi ecologiste radicali che ci hanno dotato di quegli strumenti per comprendere le evoluzioni del potere nel lungo periodo, dello Stato e soprattutto per comprendere cosa rappresentavano gli sviluppi delle tecno-scienze (biotecnologie, nanotecnologie, neuroscienze, informatica) e la loro convergenza che diventava Sistema, le trasformazioni che ne derivavano e che non potevano essere interpretate con le solite chiavi di lettura.

Siamo così riusciti a comprendere che l’ingegneria genetica andava di pari passo con l’ingegneria sociale, dove il vivente viene snaturato della sua stessa essenza e dove questo “umano nuovo” deve essere il miglior custode della propria gabbia trasparente.

Ci sono eventi della tua vita che vuoi raccontare che ti hanno messo sulla strada di una interpretazione della realtà in modo ostinato e contrario a come ci veniva raccontata?

Per l’inizio del mio percorso, oltre alle letture dei molteplici giornali, riviste, libri che un tempo circolavano nei movimenti di base, di fondamentale importanza furono i filmati autoprodotti, che mostravano una realtà di cui la maggior parte delle persone non vuol esserne consapevole perché  lontana dal proprio sguardo e dal proprio ristretto recinto. Prenderne consapevolezza porterebbe a sconquassare la propria quotidianità e a mettersi difronte a un qualcosa a cui non ci si può sottrarre.

Alcuni filmati denunciavano le devastazioni in Amazzonia per la costruzione di dighe, per le monocolture intensive di soia ogm, per l’estrazione di materie rare, mostravano le popolazioni rese cavie dalle multinazionali farmaceutiche per le loro sperimentazioni e le irreversibili conseguenze come l’infertilità di numerose campagne vaccinali nei paesi del “Sud del mondo”.

Altri filmati, realizzati anche da animalisti che lavoravano sotto copertura, mostravano scene quotidiane di tortura degli animali rinchiusi negli stabulari dei laboratori, con indifferenza o con derisione da parte dei loro aguzzini. Questa era la realtà della vivisezione, a cui io non riuscivo e non volevo sottrarmi.

Guardare il momento della liberazione di Britches da parte dall’Animal Liberation Front – composto da individui che avevano messo a rischio la loro libertà per liberare una piccola femmina di macaco sottoposta ad atroci esperimenti di deprivazione sensoriale alla quale le erano stati cuciti gli occhi – mi fece smuovere un moto interiore di rivolta.

Ancora prima di una riflessione critica nel profondo sentii che c’era qualcosa di più importante della propria libertà e anche della propria vita, che l’unica cosa possibile era reagire a tutto questo, semplicemente, negli anni a venire non potevo più concepire di poter vivere in un altro modo se non portando avanti un percorso di lotta.

Con Costantino, il tuo compagno, avete fondato Resistenze al nanomondo? Quando, quali le motivazioni? A chi vi siete ispirati?

Sono più di vent’anni ormai che seguiamo gli sviluppi delle tecno-scienze e le loro conseguenze sulla società e sull’intero vivente cercando di capire le profonde trasformazioni attorno a noi. Da una decina d’anni utilizziamo il nome Resistenze al nanomondo, deciso nel periodo in cui portavamo avanti una forte campagna contro gli sviluppi delle nanotecnologie, allora ancora poco note, se non addirittura sconosciute ai più, doveva ancora arrivare la consegna del Nobel per la scoperta del Grafene.

Il nostro lavoro di analisi e critica sul mondo tecno-scientifico risale però a molti anni prima e si intreccia al pensiero ecologista, vera nostra scuola di formazione, su cui siamo partiti per sviluppare le nostre riflessioni e analisi.

Nella nostra ricerca abbiamo attraversato varie correnti di critica antisistema come l’ecologia profonda, il primitivismo, l’antispecismo, l’anarchismo verde e tante altre: il nostro pensiero critico e libero necessitava di andare ancora oltre, mettendo insieme quelle connessioni e visioni d’insieme che in pochi facevano.

Abbiamo sempre cercato di andare all’origine, pensiamo ad esempio al nucleare: è sufficiente soffermarsi solo sull’aspetto radioattivo delle scorie, o su come questa tecnologia sia calata dall’alto? Per il primo aspetto potranno propinarci una “soluzione” per lo stoccaggio delle scorie e per il secondo aspetto potranno far diventare il nucleare una “partecipazione”: bisogna imparare a convivere con le nocività e a cogestire le “soglie” di contaminazione.

Così anche per gli OGM e le nanotecnologie, per noi il problema centrale non è la loro tossicità, anche se le conseguenze ecologiche e sanitarie sono enormi e irreversibili e vanno certamente denunciate, queste non sono il punto centrale. Bisogna considerare la complessità di una nocività radioattiva, cancerogena, tossica, ecologica, sociale che diventa sistemica: un contesto in cui non c’è uscita dal paradigma tecno-scientifico.

La nostra critica è sempre stata a monte: è questo tecno-mondo che respingiamo per un’altra visione di mondo e di essere umano. Nelle prime mobilitazioni in Italia contro gli OGM, come Mobiltebio a Genova nel 1999, noi criticavamo l’aspetto prudente dei cosiddetti NO Global, perchè il progetto di ingegnerizzare i corpi tutti era evidente e andava denunciato subito per quello che era senza esitazioni di sorta.

Non abbiamo mai avuto il timore di dire cose ritenute scomode e impopolari, differenziandoci sempre dai professionisti del pensiero che lo hanno solamente imbrigliato e dai contesti di sinistra che – a parte rare eccezioni – sono stati responsabili della distruzione dei valori necessari per resistere alla disgregazione e alla cancellazione che avanza.

Una sinistra che, dietro ad un percorso apparentemente liberatorio ed emancipatorio, distrugge ogni valore, tacciandolo come reazionario e come un abominio essenzialista. La fluidità, per questi contesti, da estetica è stata portata a filosofia di vita.

Allo sviluppo di pensiero critico abbiamo sempre pensato che fosse non solo necessario, ma fondamentale, costruire situazioni di resistenza verso il tecno-mondo. Non basta essere dei lucidi pensatori quando le chimere transgeniche si diffondono in natura sostituendo questa per sempre. Dobbiamo impedire tutto ciò.

Nei primi anni del 2000 insieme ad altri avevamo fondato la Coalizione contro ogni nocività, iniziando una mobilitazione contro gli OGM in totale solitudine: gli ambientalisti trovavano certi contenuti troppo radicali, gli anarchici troppo parziali e la sinistra li ignorava, o li additava come ambigui, per una supposta mancanza di analisi di classe, ambienti polverosi fermi ad analisi ottocentesche che individuano ancora la borghesia, anche se nel mentre siamo arrivati ai bambini in provetta e alla cibernetica.

Il nostro maggior riferimento in quel periodo era la Confederation Parisienne, successivamente i suoi fuoriusciti e la lucida analisi di Pièces et Main d’Oeuvre.
Insieme a una più ampia redazione realizzavamo un giornale che si chiamava Terra Selvaggia e il suo seguito è il giornale che portiamo avanti adesso: L’Urlo della Terra, perché ormai quello che si sente è un grido di un pianeta morente.

A Bergamo, dove viviamo, abbiamo uno spazio di documentazione che teniamo vivo con continue iniziative e  dibattiti sui tempi presenti e con alcune persone che abbiamo conosciuto nelle piazze contro il Green Pass e i sieri genici abbiamo dato vita all’Assemblea popolare Resistere al Transumanesimo. Siamo profondamente convinti che un movimento di critica all’esistente potrà essere tale solamente partendo da una critica a questi sieri genici e al nuovo paradigma cibernetico, rimettendo al centro l’indisponibilità e l’inviolabilità dei corpi e del vivente.

Puoi illustrarmi i passaggi più significativi a livello tecnoscientifico che mostrano la direzione implicita assunta dal transumanesimo e come questi hanno impattato sulla realtà e la stanno modificando?

Per comprendere la direzione dello sviluppo delle tecno-scienze e dell’ideologia transumanista è sufficiente ascoltare ciò che hanno affermato e continuano ad affermare gli stessi tecnoscienziati eugenisti e transumanisti e quell’elite di potere che rappresentano e di cui fanno parte, è sufficiente ascoltare ciò che esce dalle stanze di Davos.

Il termine transumanesimo fu coniato nel 1957 da Julian Huxley, futuro direttore dell’UNESCO, che nel documento del 1946, UNESCO: scopi e filosofia dell’organizzazione, illustrava i fini eugenetici dell’organizzazione.
Fin dall’origine lo scopo era “un’organizzazione cosciente e sistematica” del mondo e di ogni fenomeno – per usare le stesse parole di Julian Huxley – al fine di dirigerli modificandone la loro evoluzione.

Questo lo possiamo comprendere anche se analizziamo il paradigma cibernetico originatosi durante la seconda guerra mondiale in campo militare per analizzare gli eventi in tempo reale allo scopo di prevedere ed indirizzare il corso degli stessi. Lo stesso essere umano viene ridotto a una somma di informazioni, a un programma che si può decifrare e quindi modificare come una macchina.

Se ricordiamo la macchina di Hollerith del 1888 a schede perforate che permetteva la codifica delle caratteristiche degli individui per un’immediata e veloce registrazione e catalogazione di dati, usata per i censimenti degli Stati Uniti e servita per razionalizzare i campi di sterminio dei nazisti, ricordiamo anche le parole del suo inventore, che fondò l’azienda che poi prese il nome di IBM: “L’effettiva giustificazione per la raccolta di grandi quantità di dati sta nella capacità di trarre conclusioni […] e garantire una stima sicura degli avvenimenti presenti e futuri”.

L’ossessione per la calcolabilità effettiva di ogni fenomeno al fine di ottenere una conoscenza e una previsione totale e assoluta su ogni dimensione del vivente rende obsoleta la libertà. Scompare l’irriducibile e l’inaccessibile per lasciare spazio solo alla manipolazione. Dagli esperimenti sul condizionamento operante di Skinner, condotti su topi e piccioni negli anni ‘50, l’ingegneria del comportamento umano si è oggi intersecata con gli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale al fine di rendere le dinamiche sociali e le condotte delle persone calcolabili, prevedibili, condizionabili, indirizzabili. L’essere umano si dissolve in una serie di dati.

Il controllo della riproduzione umana, il depopolamento, il controllo e gestione dei popoli, sono da sempre le ossessioni e gli scopi che hanno unito i potenti di sempre. Se pensiamo al club in Inghilterra dei coniugi Webb della Fabian Society riuniva eugenisti, tecnocrati e transumanisti, sia socialisti riformatori, sia conservatori di destra, accomunati dalla stessa visione di mondo.

Oggi i transumanisti forniscono consulenze a settori della difesa, della sicurezza, della biomedicina, a tutti quei settori di punta a livello di sviluppo e di ricerca, di fatto dirigono le scelte strategiche e la direzione da dare a ricerche e governi. In questo orizzonte vanno inseriti anche i programmi per la salute ideati e portati avanti da ricchissimi filantropi come la Fondazione Gates. Fondazione in grado di sommergere di soldi l’OMS e quindi di dettarne la direzione. Ci troviamo davanti a veri e propri padroni universali in grado di dettare l’agenda mondiale.

Quando ci riferiamo a tutto il comparto farmaceutico-bionanotecnologico-digitale possiamo essere certi che il loro scopo non è meramente il profitto – considerando anche che queste multinazionali e la grande finanza muovono cifre in grado di superare il PIL di interi paesi – ma proprio portare a termine un’ideologia transumanista che rappresenta una precisa visione di mondo e di essere umano. Una visione di mondo in cui i corpi e gli elementi naturali non costituiscono più un fondamento indisponibile, ma divengono disponibili e quindi mercificabili, scomponibili, manipolabili e riprogettabili.

Craig Venter, fondatore della Celera Genomics, dopo aver sequenziato il genoma umano, intraprese il Progetto Genoma minimo. Perché un’azienda avrebbe dovuto spendere tempo e soldi per dedicarsi a organismi così semplici quando le altre erano già in corsa per sequenziare genomi di rane, topi e scimpanzé? L’obiettivo di Venter, già dall’inizio del Progetto Genoma, non era soltanto di leggere i geni o di modificarne il DNA, ma di riprogettarli attraverso la biologia sintetica.

Una visione di mondo in cui l’umano sarà considerato come l’errore, per un infinito adattamento a un mondo macchina, per un inseguimento che non avrà mai fine, di un ideale di perfettibilità.

L’ideologia transumanista – superamento dei limiti, continua ottimizzazione e implementazione dell’umano, riprogettazione e artificializzazione del vivente – non è una mera speculazione astratta, ma si è già concretizzata in smart city, chimere transgeniche, ogm di nuova generazione, impianti cerebrali, microchip sotto pelle, nanomedicina, Procreazione Medicalmente Assistita (PMA), editing genetico, sieri genici a mRNA, terapie geniche…

La PMA rappresenta il cavallo di Troia del transumanesimo, perché aperta la strada alla possibilità della riproduzione artificiale, la logica conseguenza è proprio quella della continua “ottimizzazione”. Fin dall’inizio dello sviluppo delle tecnologie di fecondazione assistita lo scopo era la modificazione genetica dell’umano, l’eugenetica non è una deriva nefasta, ma proprio il motore di tali ricerche.

Robert Edward, che aveva fatto nascere Louise Brown – la prima “bambina in provetta” al mondo – riteneva che quando fosse stato possibile modificare geneticamente la specie umana sarebbe stato legittimo farlo.
Non dobbiamo però aspettare la modificazione genetica dell’umano per capire come già stanno creando le condizioni di accettazione sociale, facendo leva sulle problematiche legate alla salute.

Il post-umano sarà un umano biomedicalizzato in un’infinita e spasmodica autoprestazione, autoimplementazione e autoottimizzazione. Dai meno noti programmi di sterilizzazione forzata per disabili, pazienti psichiatrici, ciechi, sordi, carcerati, senza tetto, lebbrosi, sifilitici, tubercolotici messi in atto dal 1905 fino al 1972, grazie anche ai finanziamenti della Fondazione Rockefeller e di altri filantropi in più di ventisette stati degli Stati Uniti d’America, dai programmi eugenetici svizzeri e svedesi messi in atto fino agli anni ‘70, l’eugenetica ha fatto molta strada mutando linguaggio, ma rimanendo immutata nei suoi fini ultimi.

Un momento significativo è stato negli anni ’70 in cui le prime biotecnologie del DNA ricombinante crearono forti preoccupazioni, tanto che un gruppo di scienziati riuniti ad Asilomar dichiararono una breve moratoria, che rappresentava solo l’attesa di una maggiore accettazione sociale.

In quel periodo nacque uno dei primi dibattiti seri sulle biotecnologie, che venne però ben presto incanalato e recuperato dagli scienziati che, attraverso la loro retorica, iniziarono a spingere con forza per una biotecnologia medica che si prometteva miracolosa per l’essere umano.

Ancora una volta nel discorso pubblico costruito intorno a delle ricerche controverse avrebbe fatto la differenza “l’uso che sarebbe stato fatto con quella tecnologia”: gli scienziati si proponevano di sviluppare solo gli sviluppi “buoni” della ricerca genetica imbrigliando quelli “negativi”.

Ma per quanto riguarda le tecnologie di ingegneria genetica e per le nanotecnologie si tratta sempre di disastri annunciati, che servono a velocizzare e a normalizzare altri passaggi. Così, come gli scienziati atomici che osservavano i risultati dei loro test sugli abitanti degli atolli di Bikini non avevano sotto gli occhi “effetti collaterali”, ma il manifestarsi stesso della ricerca nucleare, i ricercatori che sviluppano l’editing genetico con il CRISPR/Cas9 non hanno sotto gli occhi la scomparsa di frammenti di DNA e modificazioni genetiche trasmissibili come “effetti indesiderati”, ma la possibilità stessa di intervenire sull’evoluzione degli esseri viventi.

Da Asilomar siamo arrivati ai tempi di oggi: in Cina sono nate due bambine modificate geneticamente. Il Nuffield Council on Bioethics, nel documento Genome editing and human reproduction: social and ethicalissues, ha dichiarato che è ammissibile modificare geneticamente il DNA di un embrione (modificazioni genetiche ereditarie) per influenzare le caratteristiche di una persona futura. Sono stati sviluppati embrioni di topo sintetici, embrioni umani da cellule staminali. Grazie all’emergenza decretata è stato possibile diffondere su larga scala sieri genici a mRNA, come primo precedente di un’immensa sperimentazione di massa.

Una delle maggiori motivazioni che spingeva a mobilitarsi durante la minaccia nucleare in Europa era l’aspetto della durata delle scorie radioattive di oltre 300 anni. Un’ipoteca verso anche le generazioni successive: un futuro di lento avvelenamento. Le chimere genetiche e le nano-biotecnologie non tornano più indietro dal laboratorio che le ha prodotte, sono processi irreversibili. Con il nucleare sapevamo che la vera soluzione alle scorie non era trovargli un rifugio sicuro, ma non produrle, che i cosiddetti impianti civili avrebbero portato alle armi atomiche.

Questi processi e queste ricerche non sono neutrali, non solo in ciò che si prefiggono, che arrivino o meno al risultato, ma già a monte, nella loro idea di riprogettazione e artificializzazione del vivente. Nelle scienze della vita il disastro non avviene solo se l’esperimento raggiunge i risultati prefissati, il disastro è implicito nella direzione della ricerca e oggi l’esperimento non è più solo dentro le mura dei laboratori: il laboratorio è il mondo intero e i corpi stessi diventano dei laboratori viventi.

Per quando riguarda la seconda parte della tua domanda, il processo tecnologico non produce solo strumenti, ma la stessa realtà attraverso la nostra stessa percezione. È un processo che destruttura e ristruttura la realtà e l’intero vivente in chiave cibernetica, artificiale e sintetica e nel mentre cambia gli stessi paradigmi di pensiero su come si vede il mondo, i propri corpi, la propria interiorità.

Ad esempio solo un mondo percepito a scala nanotecnologica fa realizzare strumenti in grado di spostare atomi: un microscopio a effetto tunnel non è un semplice strumento, ma costruisce un mondo in cui la materia è pensata, misurata e quindi modificata a livello nanotecnologico.

Nell’ordine cibernetico gli algoritmi ci riveleranno quella che sarà considerata la verità delle cose e degli eventi, azzerando la nostra capacità di confrontarci con il reale, una verità sistematica e tirannica perché la verità algoritmica non potrà essere messa in discussione. Nell’era della mera contingenza evapora la solidità e la durata della verità.

Quelle verità fattuali, che Hannah Arendt considerava ostinate, cedono il passo allo svuotamento di senso e di significato. La crisi della verità porta alla disgregazione della comunità. La verità possiede la solidità dell’essere. Per Byung-Chul Han l’epoca della verità è finita, disintegrata in polvere di informazioni. Ma la verità dei nostri corpi riemergerà sempre, dobbiamo però solo chiederci se ci sarà qualcuno ancora in grado di percepirla e di combattere per essa.

Il sistema tecno-scientifico si fonda su un potere con delle caratteristiche diverse dal potere disciplinare della società industriale e con delle evoluzioni del potere biopolitico della società post-industriale. È un potere “dolce” che si dissolve fino a non diventare più percepibile in ciò che diventa abitudine e nuova normalità. Per stabilizzarsi il potere ha bisogno di un’adesione volontaria e desiderante e il potere che si esercita tramite l’abitudine è più efficace e duraturo di quello che agisce tramite l’oppressione, perché genera un unico orizzonte di senso al di fuori del quale nient’altro sarà nemmeno immaginabile.

Il nuovo potere dolce non ha un volto di coercizione o di imposizione, ma della libera scelta, creando un contesto in cui le persone saranno costantemente avvolte da algoritmi che risponderanno ai loro bisogni, desideri, necessità e timori, guidandole nella via programmata.

L’Intelligenza Artificiale, lungi dall’essere un’intelligenza – considerato che non è per niente paragonabile all’intelligenza di un essere vivente – è una metodologia di razionalità da cui diventerà quasi impossibile sottrarsi. Chi meglio di un algoritmo che conosce tutte le nostre abitudini potrà guidarci nelle nostre scelte? Si instillerà purtroppo il pensiero che i sistemi potranno in ogni momento analizzare una situazione e calcolare l’azione migliore da compiere. I dispositivi accompagnano le persone nel quotidiano con una prossimità sussurrata, in cui le macchine si prendono cura di loro.

Il “tu puoi” esercita un potere maggiore del “tu devi”: non costrizioni, ma bisogni interiori sprigionati dallo stesso individuo. Sappiamo già bene come l’autosfruttamento e l’autoimprenditoria di sè – che si celano per esempio dietro a pseudo istanze emancipatorie a favore dell’utero in affitto ridenominato “gestazione per altri” – sono più efficaci, perché sono mascherati dall’idea di libertà e autodeterminazione.

La nuova forma di potere è più subdola, non si impadronisce direttamente dell’individuo, ma fa in modo di costruire attorno a lui un’architettura in cui può agire autonomamente, ottenendo così che l’individuo riproduca dentro sè un aspetto del dominio, interiorizzandolo, desiderandolo e rivendicandolo come la sua libertà. In questo senso libertà e sottomissione coincidono.

In questo modo la visione di mondo transumanista penetra, si amalgama e si incorpora con le trame dell’esistenza e sarà la nuova normalità che poi la sprigionerà e che ne diventerà portatrice.

Gli sviluppi tecnoscientifici hanno trasformato il potere in una gestione totale della vita, che diventerà sempre più tecno-medicale, con una manipolazione di ogni aspetto delle nostre vite, dalla nascita alla morte, dalla diagnosi prenatale alla medicina rigenerativa, dicendoci come bisogna venire al mondo e a quando bisogna morire, come quando si è considerati ormai un peso per le spese sanitarie in una logica di ottimizzazione delle risorse e in una logica eugenetica che definisce quale vita abbia più valore di vivere.

I corpi sono il nuovo terreno di colonizzazione e di conquista, sono il nuovo terreno di battaglia. Con i sieri genici a mRNA e con la possibilità di modificare geneticamente gli embrioni questi sviluppi tecno-scientifici sono penetrati nei corpi. Cellule e corpi terranno memoria della mutagenesi e dell’artificiosità, una memoria incarnata che precederà il simbolico, una memoria incarnata che permeerà lo spirito. L’umano modificato dal suo interno sarà un umano denaturato.

Possiamo dire che la vita, la nascita, la morte, i corpi tutti sono ormai immessi sul mercato? Se si mi puoi fare degli esempi?

Nel biomercato totale tutto è in vendita e tutto si può acquistare. È possibile la compra-vendita di un bambino nella pratica dell’utero in affitto attraverso un catalogo in cui scegliere anche alcune caratteristiche ed è possibile rispedirlo al mittente se non corrisponde alle proprie aspettative.
L’essere donna, da condizione corporea, diventa un sentire soggettivo e un qualcosa che si può comprare nel biomercato dei desideri e nell’industria dell’ “identità di genere”.

Anche le relazioni vengono consumate compulsivamente e spasmodicamente come merci. Nel nuovo ordine sentimentale, retto dalla logica del consumo usa e getta, l’amore diventa merce ed evapora perdendo così ciò che caratterizza quel che non si può consumare e che dura nel tempo. Tutto deve essere instabile, precario, mutevole, fluido, anche le relazioni.

È stata proprio la cancellazione del senso del sacro che ha aperto non solo alla mercificazione del vivente, ma ad imbrigliare la vita riducendola al regno della quantità. Oggi siamo oltre a una mercificazione totale di ogni dimensione, con il nucleare si è varcata una soglia, con l’ingegneria genetica e la biologia sintetica si è varcata un’altra soglia, ora siamo nell’era della riprogettabilità dell’essere umano e della sintetizzazione dei processi che regolano la vita.

Non si tratta solo di mercato, in generale i processi tecno-scientifici vengono analizzati principalmente attraverso la lente del profitto e del piano economico, facendo così sfuggire la comprensione di un più profondo piano di assoggettamento. Pensiamo alla Rivoluzione Verde diffusa negli anni ’60 dalle Nazioni Unite, grazie a lobby potenti come la Fondazione Rockfeller, che si proponeva di “migliorare” e rendere più produttivo il “Sud del mondo”, imponendo pesticidi, macchine, “semi miracolo” prodotti in occidente e pensiamo alla successiva Rivoluzione biotecnologica e ai suoi semi terminator sterili di Monsanto.

Sarebbe un errore ridurre queste colonizzazioni ad una ricerca di nuovi mercati: lo scopo non era meramente il profitto, ma imporre un certo modo di sviluppo, un certo modo di concepire il rapporto con la Terra e imporre prima il paradigma a monocoltura intensiva e poi biotecnologico, distruggendo biodiversità, antichi saperi e comunità.

La Rivoluzione Verde si è trasferita dalle campagne alla società intera e ai corpi: oggi è il tempo della rete 5G e degli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale, della carne sintetica, delle cavallette nel piatto e dei nuovi OGM sviluppati con editing genetico (Tecniche di evoluzione assistita – TEA), dei sieri genici a DNA ricombinante e a mRNA nanotecnologici, della selezione embrionale e del CRISP/Cas 9.

Dalla monocultura dei campi arriviamo a quella umana, dalla pannocchia di mais OGM arriviamo alla modificazione della linea germinale umana. Dai semi OGM arriviamo ai corpi tutti modificati geneticamente e resi sterili per generalizzare pratiche eugenetiche di selezione embrionale e la riproduzione artificiale delle future generazioni. Il laboratorio sperimentale, prima zootecnico e poi biotecnologico, sta continuando a estendersi all’umano.

La storia della zootecnia dovrebbe averci insegnato che tutto quello che viene sperimentato sugli altri animali, prima o poi, passerà all’umano, essendo il fine ultimo di questi processi. Oggi, come abbiamo visto in questi ultimi anni, siamo in pieno processo zootecnico, condannati a un’esistenza da allevamento. Se concediamo al sistema tecno-scientifico i nostri corpi, la nostra identità, le future generazioni i padroni universali avranno preso tutto e dopo cosa avranno ancora da prendere?

Dai tuoi scritti ho sempre rilevato un profondo rispetto e senso di sacralità nei confronti del concetto di madre. Perché a livello simbolico “ la madre archetipale” è  per te l’ultimo baluardo a difesa dell’essere umano? Come il transumanesimo e le tecnoscienze la stanno annientando?

Dobbiamo rimettere al centro il rapporto madre-figlia/o, la donna con il suo potere di generare è la fondatrice di ogni comunità. A prescindere che una donna possa essere madre o voglia essere madre, tutti e tutte siamo figli. Come pensare di costruire una comunità altra se i figli e le figlie nasceranno da un incubatrice artificiale?

Lo sviluppo delle tecno-scienze per chiudere il cerchio di gestione della vita necessita di impossessarsi della dimensione della nascita e della procreazione. L’ambiente laboratorio trasforma il processo della nascita in un’operazione tecnica: l’embrione diventa un “prodotto” da selezionare, da migliorare, da scartare, da modificare. L’ambiente laboratorio e la riproduzione artificiale trasformano il come veniamo al mondo.

Significativo che, fin dagli albori, l’ectogenesi fu ritenuta “un’importante opportunità di ingegneria sociale”, dalle parole del ricercatore genetista e biologo  J.B.S. Haldaine, che coniò questo termine negli anni ‘20 per indicare lo sviluppo di un nuovo essere fuori dal corpo materno.

Prima della realizzazione dell’utero artificiale le persone interiorizzeranno che sarà preferibile consegnare ai tecnici in camice bianco la dimensione della procreazione, quegli stessi tecnici che decreteranno poi quale sarà il “miglior interesse del minore”, creando un contesto nel quale la famiglia sarà considerata inidonea nel prendersi cura e nell’educazione dei propri figli. Famiglia oggi, dai progressisti di sinistra, considerata retrograda nella sua volontà di essere corpo unico con i propri figli e quindi da riformulare e rimodellare dai riprogrammatori della nuova umanità sintetica.

Stiamo inoltre assistendo a un’evaporazione del significato di madre: se tutte possono essere madri, nessuna lo è più. Oggi abbiamo una “madre d’intenzione”,  un “progetto parentale”, una “dichiarazione d’intenti”, previsti ad esempio nella nuova legge di bioetica francese e la neo lingua prevede “genitore 1” e “genitore 2”.

L’essere umano cessa così di avere una storia, una provenienza, riducendosi all’assemblaggio eugenetico di ovulo e sperma per un desiderio di un figlio a tutti i costi, ma questo desiderio non si può trasformare in un diritto per nessuno.

Noi non abbiamo un corpo, noi siamo un corpo, un corpo sessuato e denso di significati. Quell’assenza di limiti rivendicata nel Sessantotto e quelle “macchine desideranti” di Deleze, Guattari & company hanno gettato le basi per la decostruzione post-moderna di valori, radici e punti fermi necessari per resistere alla dissoluzione transumana, hanno separato la donna dalla dimensione della procreazione, aprendo la strada alla sua espropriazione e artificializzazione.

E infine ti chiederei; c’è un legame tra maternità surrogata, editing genetico, utero artificiale, sieri genici e rete 5G? se si puoi tracciarmi il filo rosso che li unisce e perché oggi siamo a un bivio epocale?

Il filo è la medesima visione di mondo e di essere umano e di vivente sottesa a tutti questi passaggi. Oggi come non mai è essenziale unire i vari passaggi e comprendere il disegno d’insieme.
Siamo a un bivio epocale, in gioco c’è il senso stesso di umanità, cosa renderà non nelle prossime generazioni ma nel breve futuro l’umano ancora tale. Due opposte visioni di mondo si scontrano e in questo scontro non possiamo ne arretrare ne cedere nulla.

Durante la Germania nazista erroneamente si crede che vi fu poca o addirittura nessuna resistenza, qualcosa invece ci fu, di molto piccolo, ma molto significativo non solo per quel paese, basti pensare alla storia dei giovani della Rosa Bianca, ghigliottinati dal regime mentre spargevano semi di libertà, dando l’esempio e la vera speranza. Oggi di fronte a tutto questo dobbiamo, perlomeno, trovare una misura del coraggio che hanno mostrato i giovani della Rosa Bianca se l’umanità vorrà sopravvivere.

L’Agenda di oggi è “l’ingegneria dell’anima” nella sua massima espressione con le tecno-scienze che ci spingono giù dal precipizio con l’obiettivo finale della completa estirpazione, lacerazione e soggiogazione dello spirito più profondo dell’essere umano, per costituire un’umanità artificiale. Dalla presa dei corpi arriviamo alla presa dello spirito per il definitivo assedio dell’essere umano.

“Gli studenti di Monaco che nel Febbraio del 1943 proclamarono per mezzo di volantini la verità sulla tirannia ed incitavano al sabotaggio dell’industria bellica, non erano degli uomini politici. Essi erano dei giovani cristiani pieni di vita… Combattevano contro un fuoco gigantesco a mani nude, con la loro fede, con il loro povero apparecchio da ciclostile contro l’onnipotenza dello Stato. Non poteva finir bene, ed il loro tempo fu breve. Anche se fossero stati soli nella resistenza tedesca, i fratelli Scholl ed i loro amici, da soli essi sarebbero bastati per salvare una parte della dignità degli uomini che parlano il tedesco” (Thomas Mann).

L’intervista a Silvia Guerini è stata pubblicata in “Iglesia Viva”, n°293, gennaio-marzo 2023, www.iviva.org

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Teatro Comunale di Ferrara, la Nuova Stagione di Prosa raddoppia; ecco i grandi protagonisti.

Nuova Stagione di Prosa, la proposta raddoppia: 24 spettacoli in cartellone con i grandi volti del teatro. Moni Ovadia: “prendiamoci del tempo per andare a teatro, il tempo è un regalo prezioso”.

E’ stata presentata, al ridotto del Teatro Comunale Claudio Abbado, la nuova stagione 2023-2024, che si apre in autunno, alla presenza, fra gli altri, dell’assessore alla Cultura Marco Gulinelli, del direttore artistico Marcello Corvino, del direttore del Teatro Moni Ovadia, di Massimo Lopez, Tullio Solenghi e di Mattea Fo, presidente della Fondazione Dario Fo e Franca Rame, e nipote dei due indimenticati attori e drammaturghi.

Teatro Comunale di Ferrara, foto Marco Caselli Nirmal

Corvino ha sottolineato l’incremento di fatturato del teatro rispetto al 2019 (pre-covid) e di come la programmazione sia passata dai 12 titoli del 2019 ai 24 della stagione in arrivo, un raddoppio, un bel sorpasso. Anche in lavoratori del Teatro sono aumentati: dalla stabilizzazione di contratti a tempo determinato a nuove assunzioni ed aumenti dei livelli contrattuali. Uno sforzo importante per un teatro aperto tutti in giorni e che per qualità artistica quest’anno è salito al secondo posto dei teatri di tradizione in Italia. Tanto anche il sold out degli ultimi mesi. “Il teatro è la piazza della comunità, il luogo dove ci si deve conoscere e scambiare anche le difficoltà del momento” dice Moni Ovadia. “Per questo abbiamo previsto molti incontri fra gli attori e il pubblico, per educare al teatro anche le nuove generazioni, educarli all’amore delle arti sceniche teatrali, portandole anche nelle scuole, come si sta facendo. Ferrara ama il suo teatro. Prendiamoci del tempo per andare a teatro, il tempo è un regalo prezioso. Il teatro è l’unico luogo dove si può dire la verità, fondamentale in una vera società democratica, guardando agli artisti senza schieramenti. Lo si è fatto anche sotto le bombe, permette di sopravvivere nelle condizioni peggiori”, conclude Ovadia.

Sono 24 gli spettacoli in cartellone che, per la nuova stagione di Prosa del Teatro Comunale “Claudio Abbado”, tra ottobre 2023 e maggio 2024, porteranno a Ferrara i volti più noti del teatro, tra i più amati dal pubblico: Chiara Francini, Vinicio Capossela, Massimo Lopez e Tullio Solenghi, Simone Cristicchi, Alessandro Haber, Andrea Pennacchi, Oblivion, Monica Guerritore, Giacomo Poretti, Gabriele Lavia, Geppi Cucciari, Federico Buffa, Moni Ovadia, Neri Marcorè, Claudio Bisio, Nuzzo-Di Biase, Umberto Orsini e molti altri.

La nuova stagione si apre con una tripla dedica a Franca Rame, a 10 anni dalla sua scomparsa, e a Dario Fo. Tre saranno infatti gli spettacoli dedicati a una delle coppie più belle e importanti del Novecento italiano. Il 6 ottobre (alle 11) inaugura la stagione Jacopo Fo con “Com’è essere figlio di Dario Fo e Franca Rame”. Nato per essere un libro, poi diventato uno spettacolo, raccoglie racconti e ricordi che cercano di rispondere alla domanda che in assoluto è stata fatta più volte allo scrittore, attore e regista nel corso della sua vita.

Com’è esser figlio di Dario Fo e Franca Rame, foto Ranzani 2022

Dal 6 all’8 ottobre Chiara Francini e Alessandro Federico portano in scena “Coppia aperta, quasi spalancata”, indimenticabile favola tragicomica di Dario Fo e Franca Rame che racconta cosa vuol dire stare in coppia, e le differenze tra psicologia maschile e femminile.

Chiara Francini e Alessandro Federico, Coppia aperta, quasi spalancata

Il 7 e 8 ottobre, Ferrara ospita “Mistero Buffo, parti femminili”, sempre scritto dai due grandi artisti del teatro italiano. In scena un’attrice di grazia e spessore come Lucia Vasini, considerata, a ragione, una delle eredi naturali della storia teatrale di comicità, narrazione e impegno civile. Per questo omaggio a Franca Rame, messo in scena la prima volta in occasione dei 50 anni di Misero Buffo nel 2019, Jacopo Fo ha scritto ad hoc i prologhi che presentano il racconto della Nascita di Eva e lo storico monologo di Maria alla croce.

Lucia Vasini, Mistero Buffo, parti femminili

La tre giorni ferrarese fa parte della rassegna di eventi Un anno per Franca Rame” promossa dalla Fondazione Dario Fo e Franca Rame per i 10 anni dalla scomparsa di Franca che ricorre il 29 maggio 2023.

Il 10 ottobre Vinicio Capossela porta al Teatro Abbado “Con i tasti che ci abbiamo”, che, come anticipa il cantautore, andrà nell’essenzialità della musica”. Con lui ci sarà una formazione di musicisti e musiciste, per un repertorio a scaletta libera incentrato sul perno di tredici canzoni.

Dal 10 al 12 novembre il Teatro Comunale accoglie il debutto di “Dove eravamo rimasti”, il nuovo, attesissimo show di Tullio Solenghi e Massimo Lopez, scritto in collaborazione con Giorgio Cappozzo e con la partecipazione della Jazz Company diretta dal M° Gabriele Comeglio. Prodotto da International Music & Arts. Lo spettacolo sarà ospitato in prima nazionale proprio a Ferrara.

Dall’8 al 10 dicembre Simone Cristicchi èFranciscus. Il folle che parlava agli uccelli”. Scritto con Simona Orlando, tra riflessioni, testimonianze personali e canzoni inedite, Simone Cristicchi racconta il “Santo di tutti”: il labile confine tra follia e santità, la ricerca della perfetta letizia, la spiritualità universale, l’utopia necessaria di una nuova umanità che riesca a vivere in armonia con il creato.

Simone Cristicchi, foto Giorgio Amendola

Dal 15 al 17 dicembre Alessandro Haber è protagonista de “La coscienza di Zeno” romanzo di Italo Svevo ironico e di affascinante complessità e attualità, per la regia di Paolo Valerio. Il capolavoro della letteratura del Novecento celebra nel 2023 i cent’anni dalla pubblicazione.

Il 20 dicembre Andrea Pennacchi porta a Ferrara il suo “Pojana”, un demone, piccolo, non privo di saggezza, che usa la verità per i suoi fini e trova divertenti cose che non lo sono, e che è dentro ognuno di noi.

Il 27 dicembre è il momento di “TUTTORIAL”, la guida contromano alla contemporaneità proposto dagli Oblivion che, con il virtuosismo dei loro arrangiamenti e gli effetti sonori più avveniristici, incantati dal richiamo suadente del Metaverso, si proiettano nello spazio-tempo con questo nuovo spettacolo: dalle tendenze musicali del momento alle serie TV più blasonate fino alla satira di costume, alla politica e all’attualità, sarà un viaggio nelle follie e nelle stranezze legate alla civiltà digitale dove ritrovare a sorpresa anche grandi miti del passato in un imprevisto ritorno al futuro.

TUTTORIAL, foto Laila Pozzo

Dal 5 al 7 gennaio Monica Guerritore, che ha anche curato regia e adattamento, propone “Ginger e Fred”, capolavoro trasognante di Federico Fellini magistralmente interpretato al cinema da Giulietta Masina e Marcello Mastroianni. A trasporlo sul palcoscenico ci saranno Monica Guerritore e Claudio Casadio, che restituiranno al pubblico la riflessione dolce e malinconica di «due fantasmi che vengono dal buio e nel buio se ne vanno…».

Dal 12 al 14 gennaio Giacomo Poretti (di Aldo Giovanni e Giacomo) e Daniela Cristofori sono in scena con “Funeral Home”. Due anziani, un uomo e una donna, sono seduti nel salotto di una casa funeraria. Sono lì perché il loro migliore amico se ne è andato. Lui vorrebbe essere in qualsiasi luogo tranne che in quello e non sopporta l’idea di dover parlare della morte, mentre lei tratta la cosa come un buon argomento di conversazione.

Dal 19 al 21 gennaio è tempo de Il cacciatore di nazisti” con Remo Girone, per la regia e la drammaturgia di Giorgio Gallione. A cavallo tra un avvincente thriller di spionaggio e l’indagine storica, rivissuta con umana partecipazione e un tocco di caustico umorismo ebraico, racconta l’avventurosa vita di Simon Wiesenthal, che dopo essere sopravvissuto a cinque diversi campi di sterminio dedica il resto della sua esistenza a dare la caccia ai responsabili dell’Olocausto.

Remo Girone, Il cacciatore di nazisti

Dal 2 al 4 febbraio arriva “Un curioso accidente” di Carlo Goldoni. Gabriele Lavia torna al Teatro Abbado con la divertente commedia degli equivoci scritta nel 1760 e rapidamente diventata una delle più tradotte in lingua straniera.

Gabriele Lavia, Un curioso accidente, foto Filippo Milani

Il 9 e 10 febbraio la regista Andrée Ruth Shammah torna a Ferrara con lo spettacolo La Maria Brasca” di Giovanni Testori, autore di personaggi femminili indimenticabili. Con quest’opera Testori grida al mondo la potenza della passione, l’amore per la vita vissuta fuori da ogni costrizione, convenzione, compromesso. In scena Marina Rocco, Mariella Valentini, Luca Sandri e Filippo Lai.

 Il 20 febbraio va in scena “Orlando Furioso”, scritto e diretto da Roberto Mercadini, affabulatore, autore, attore, scrittore, divulgatore, “poeta parlante”. L’opera di Ludovico Ariosto è per Mercadini «un libro torrenziale, labirintico, cangiante, per certi versi, si potrebbe dire, impossibile da raccontare, ossia impossibile da intrappolare in una narrazione teatrale. Eppure, la sfida mi attraeva in modo irresistibile».

Il 24 e 25 febbraio Geppi Cucciari è “Perfetta”. L’attrice si confronta con l’ultimo monologo teatrale scritto da Mattia Torre, tra i drammaturghi più influenti e attivi nella scena televisiva e teatrale italiana, recentemente scomparso, nel quale si racconta un mese della vita di una donna, scandito dalle quattro fasi del ciclo femminile. “Perfetta” è un monologo nel quale trovano spazio sferzate di comicità e satira di costume, ma anche riflessioni più amare e profonde, in un delicato tentativo di consapevolezza e di empowerment femminile di cui sembra esserci un grande bisogno nel nostro tempo.

Il 29 febbraio arriva La milonga del fùtbol”, intreccio di storie potenti, intrise di romanticismo e italianità, raccontate dalla voce di Federico Buffa. Da Renato Cesarini, funambolo del gol, che scoprì Omar Sivori, talentuoso e irriverente che incantava l’Argentina degli anni ’50 nel pieno del boom economico, a Diego Armando Maradona, el pibe de oro, il più grande di sempre.

La milonga del fùtbol

Dall’1 al 3 marzo è in cartellone un altro grande classico della letteratura, “Cyrano de Bergerac” di Edmond Rostand con l’adattamento e regia di Arturo Cirillo. Tutto parte da uno spettacolo visto a Napoli da ragazzino, con le musiche di Modugno. Cirillo riporta in scena la vicenda di Cyrano, trentacinque anni dopo, «accentuandone – come racconta Cirillo – più il lato poetico e visionario e meno quello di uomo di spada ed eroe della retorica, con delle rielaborazioni di quelle musiche, ma anche con elaborazioni di altre musiche, da Édith Piaf a Fiorenzo Carpi».

Dall’8 al 10 marzo è in scena Assassinio nella cattedrale” di Thomas Stearns Eliot. Rappresentato nel 1935, ritrae l’uccisione dell’Arcivescovo Thomas Becket avvenuta dopo un alterco coi cavalieri reali nella Cattedrale di Canterbury nel 1170, durante il regno di Enrico II d’Inghilterra. L’autore si basò in gran parte sugli scritti di Edward Grim, un monaco testimone oculare dell’evento. Regia di Guglielmo Ferro con Moni Ovadia, Marianella Bargilli e cast in via di definizione.

Moni Ovadia, Assassinio nella cattedrale

Dal 15 al 17 marzo arriva “Amore” di Pippo Delbono, un viaggio musicale e lirico attraverso una geografia esterna – oltre al Portogallo, l’Angola, Capo Verde – e una interna, quella delle corde dell’anima che vibrano al minimo colpo della vita.

Dal 12 al 14 aprile è in scena “La buona novella” di Fabrizio De André con Neri Marcorè (drammaturgia e regia di Giorgio Gallione). Il progetto teatrale su La Buona Novella (primo concept-album dell’autore genovese che dà voce a molti personaggi) unisce prosa e musica, ed è pensato come una sorta di Sacra Rappresentazione contemporanea che alterna e intreccia le canzoni del cantautore con i brani narrativi tratti dai Vangeli apocrifi cui lo stesso autore si è ispirato.

Dal 26 al 28 aprile Claudio Bisio racconta La mia vita raccontata male” di Francesco Piccolo. Un po’ romanzo di formazione, un po’ biografia divertita e pensosa, un po’ catalogo degli inciampi e dell’allegria del vivere, lo spettacolo ci segnala che se è vero che ci mettiamo una vita intera a diventare noi stessi, quando guardiamo all’indietro la strada è ben segnalata da una scia di scelte, intuizioni, attimi, folgorazioni e sbagli, spesso tragicomici o paradossali.

Claudio Bisio, La mia vita raccontata male, foto Marina Alessi

Il 3 e 4 maggio è unDelirio a due” con il duo Nuzzo-Di Biase. Piccolo capolavoro del Teatro dell’Assurdo, irresistibile scherzo teatrale tipico del miglior Ionesco, in questa commedia domina il paradosso e il grottesco e la perenne, futile, incessante lite tra Lui e Lei, ridicole marionette umane imprigionate nella ragnatela di un ménage familiare annoiato e ripetitivo. La cornice comica e beffarda e il funambolismo verbale fanno trasparire una società che affoga nella tragedia quotidiana e nella sconcertante gratuità dei comportamenti, e dove il linguaggio, invece di essere strumento di comunicazione, è un ostacolo che allontana e divide.

 Dal 10 al 12 maggio Umberto Orsini torna al Teatro Comunale con Le memorie di Ivan Karamazov”. Nella ricchezza d’un linguaggio penetrante quanto immediato e dell’avvicendarsi degli stati psicologici d’un personaggio “amletico” e imprendibile, Orsini è il grande protagonista di un inedito viaggio nell’umana coscienza che non teme di affrontare tabù antichi e moderni (la morte del padre, l’esasperato vitalismo, l’incontro con il diavolo…). Ivan Karamazov precipita nel suo personale “sottosuolo” dal quale egli compone delle allucinate eppure lucidissime memorie, quarant’anni dopo le vicende del romanzo di Dostoevskij.

Umberto Orsini, le memorie di Ivan Karamazov, foto Fabrizio Sansoni

 

INCONTRI CON LA COMPAGNIA
Sono previsti gli incontri con la compagnia, alle ore 18 del sabato in cui è programma lo spettacolo, per i seguenti titoli: “Coppia aperta, quasi spalancata” con Chiara Francini e Alessandro Federico e “Mistero Buffo, parti femminili” con Lucia Vasini (7 ottobre), “Dove eravamo rimasti” con Massimo Lopez e Tullio Solenghi (11 novembre), “Franciscus” con Simone Cristicchi (9 dicembre), “La coscienza di Zeno” di Alessandro Haber (16 dicembre), “Ginger e Fred” con Monica Guerritore e Claudio Casadio (6 gennaio), “Funeral Home” con Giacomo Poretti e Daniela Cristofori (13 gennaio), “Un curioso accidente” con Gabriele Lavia e Federica Di Martino (3 febbraio), “La Maria Brasca” (10 febbraio), “Perfetta” con Geppi Cucciari (24 febbraio),  “Cyrano De Bergerac con Arturo Cirillo (2 marzo), “Assassinio nella Cattedrale” con Moni Ovadia e Marianella Bargilli (9 marzo), “Amore” con la Compagnia Pippo Delbono (16 marzo), “La Buona Novella” con Neri Marcorè (13 aprile), “La mia vita raccontata male” con Claudio Bisio (27 aprile), “Delirio a due” con Nuzzo e Di Biase (4 maggio) e “Le memorie di Ivan Karamazov” con Umberto Orsini (11 maggio).

 

CAMPAGNA ABBONAMENTI E VENDITE BIGLIETTI
La campagna abbonamenti, con un turno unico di 14 spettacoli, sarà in vendita dal 5 giugno, mentre dai prossimi giorni sarà disponibile l’opzione del carnet di 8 spettacoli (per gli ex abbonati, dal 9 al 17 giugno, per i nuovi dal 20 giugno). Dal 12 settembre, invece, saranno in vendita i biglietti di tutti gli spettacoli, compresi gli 8 spettacoli inseriti nella “Stagione Extra” e nella “Stagione fuori abbonamento”.

LA BIGLIETTERIA: ORARI DI APERTURA E RECAPITI

La Biglietteria in Corso Martiri della Libertà 21 è aperta lunedì, martedì, mercoledì, venerdì e sabato (ore 10-13 e 16-19), giovedì mattina (ore 10-13) e domenica (ore 10-13 e 15-17). Nei giorni di programmazione è aperta fino a inizio spettacolo.

Per informazioni e vendite: biglietteria@teatrocomunaleferrara.it, 0532.202675

Politica: tutti cercano il “Centro” e nessuno lo trova; forse perché da 30 anni non c’è più.

Il “Centro” (politico) manca perché… non c’è più.

“Le crisi politica e il centro che manca”. Così Luigi Viviani, stimato amico e già ex sottosegretario nel Governo Prodi, titola un suo post, richiamando l’analisi di Pietro Craveri (“Dalla democrazia incompiuta alla postdemocrazia”) che individua nella mancanza di un partito di centro uno dei problemi della crisi italiana.

Laspirazione a un nuovo partito nuovo di centro, riformista e moderato, si scontra con quanto avvenuto negli ultimi 30 anni (non solo in Italia) per via di una iper-globalizzazione guidata dai mercati e dalla finanza iper-liberista.
In questo nuovo quadro, la politica (come regolatore) ha contato sempre meno, e si è prodotta una gigantesca disuguaglianza tra paesi e all’interno dei singoli paesi occidentali, causando una “rottura” con quanto avvenuto nei primi 50 anni del secondo dopoguerra (fino al 1991).

Quel passato, ormai lontano, appena citato, fu un periodo “glorioso”. Vide la ricostruzione dei paesi europei (vincitori e vinti) basata su una straordinaria spinta morale, economica e sociale all’insegna dell’uguaglianza, della giustizia e di un welfare universale che portò ad un miglioramento senza precedenti ceti deboli e operai e una estensione della classe media.
Il limite fu la distruzione del mondo contadino (e dei suoi valori), non rendendosi conto dei danni sopravenienti da coltivazioni e allevamenti intensivi, dall’abbandono delle terre alte e dell’inquinamento urbano.

Da 30 anni, abbandonata quella spinta morale e l’orizzonte egualitario (sostituito con quello della “modernità”), assistiamo ad un impoverimento non solo delle classi più deboli e di chi lavora, ma ad un forte ridimensionamento della classe media. Gli unici a guadagnarci sono una ristretta élite ricca (un fenomeno tipico di tutto l’Occidente, Stati Uniti inclusi).
Testimone fedele è la nostra Banca d’Italia (da sempre liberista) che ci informa che dei 4,1mila miliardi di patrimonio (tra conti bancari, azioni e fondi – case escluse-) degli italiani al 2022, metà di questa gigantesca ricchezza (2mila miliardi) è nelle mani del 3% più ricco e il restante 17% più ricco ha altri 1,2mila miliardi.
Ciò che rimane è pochissimo sia per quella che fu la “classe media”, per non parlare di quel 30% di italiani più poveri che non possiede nulla.

Quindi, solo un 20% di connazionali sta bene (o molto bene) come soldi (possiede una bella casa e ha da 200mila a un milione di euro in banca tra depositi e azioni). Per non parlare dei ricchi sempre più ricchi. Ma la classe media è quasi scomparsa e gli altri vivono una fase di impoverimento che sembra non finire.
Stessa cosa se si analizzano i redditi: il 30% delle famiglie italiane più povere non arriva a 13mila euro all’anno, il 60% non va oltre i 30mila euro (e stiamo parlando non di individui ma di famiglie), un altro 19% ha tra 30 e 45mila euro, che è difficile definire “classe media” con l’inflazione di oggi. Il 12,8% ha tra 45 e 69mila euro (una classe media alquanto impoverita) e infine solo l’8% delle famiglie guadagna oltre 70mila euro (la fonte dei dati è l’indagine sulle famiglie della Banca d’Italia, 2022).

Difficile in queste condizioni che si formi un partito di Centro.

Ma al di là dei soldi, i ceti deboli e gli operai hanno visto cambiare in modo enorme la loro vita in quanto è scomparso quel ricco tessuto di relazioni e comunità che un tempo rendeva “piena” la vita. Semmai sono i ricchi oggi che hanno una ricca rete di relazioni.
Non possiamo poi non notare che l’occupazione italiana non cresce da 20 anni (anzi il monte ore lavorato è in calo di 4 miliardi), il welfare è in declino, i poveri assoluti triplicati negli ultimi 15 anni, cresce il lavoro precario e povero, metà dei 15enni non impara a scuola più nulla, la sanità pubblica è allo sfacelo, l’inquinamento alle stelle e la Natura porta ogni mese i “nodi al pettine” (alluvioni, siccità o altre calamità).

E’ quindi evidente che ci sia una crisi di un modello di sviluppo occidentale (liberista e deregolato) che i mass media difendono “con le unghie e coi denti” ma che fa paura. Per la prima volta nella storia umana pensiamo che potremmo estinguerci.

Questa crescente distruzione della Natura e la “polarizzazione” sociale, porta (a mio avviso) i cittadini a premiare quei partiti (tipo Meloni) che hanno posizioni radicali e fuori dal governo da decenni. Così è stato anche per la parabola di Matteo Renzi o del movimento 5S premiati per la novità e radicalità.

A riscuotere il prossimo “bottino” elettorale potrebbe così essere non un partito di centro, ma chi offre soluzioni radicali in tempi tempestosi, pur nel solco (ci auguriamo) della democrazia. Viceversa finiremo in post-democrazia come dice Craveri (o meglio post-liberale), visto che l’esangue democrazia liberale non dà quel che aveva promesso.

Credo sia questa la ragione che limita l’espansione del PD (non la sua segretaria) e per cui alle regionali del febbraio 2023 l’astensione ha raggiunto il 60% (in alcuni quartieri di Roma l’80%). Gli elettori sono radicalizzati, o talmente sfiduciati da non essere più elettori.

Tutti cercano un “centro” e nessuno lo trova, forse perché da 30 anni non c’è più.

Cover: Donde està el centro politico? -Ilustracion Credo Chile (tratto da Tal Cual)

“Ferrara sotto le stelle”: ritorno di fiamma per Vasco Brondi nel cortile del Castello Estense

Ritorno nello spazio del Cortile del castello estense per la storica e gloriosa rassegna “Ferrara Sotto le Stelle”, che celebra la sua ventisettesima edizione anche con un cartellone internazionale e con un sentitissimo ritorno di fiamma. La rassegna sarà aperta il 12 e 13 giugno dal cantautore ferrarese Vasco Brondi, che festeggia così i 15 anni dalla pubblicazione del primo album “Canzoni da spiaggia deturpata” e dopo diversi anni di assenza dalla sua città.

Vasco Brondi all'epoca del primo album “Canzoni da spiaggia deturpata”
Vasco Brondi all’epoca del primo album “Canzoni da spiaggia deturpata”

Già sold out dopo pochi giorni dalla programmazione, Vasco Brondi torna nel cuore della città che lo ha visto crescere e poi diventare uno dei grandi protagonisti della scena musicale indipendente italiana per riaccendere Le Luci della Centrale Elettrica proprio sotto il cielo dove sono nate, perché è questo il nome d’arte e del progetto con cui Brondi ha debuttato e acquisito la notorietà.
Vincitore della Targa Tenco come miglior opera prima, “Canzoni da spiaggia deturpata” è un album epocale e per molti anche generazionale. Musica e testi che hanno cambiato un po’ le regole del gioco, con quella velatura di poesia e malinconia di un punk riscoperto e rilanciato in chiave tutta personale da uno che se lo era ascoltato con una differita di almeno vent’anni.

“Ferrara Sotto le Stelle” si conferma così uno dei punti di riferimento di maggior tenuta nazionali – con programmi che hanno annoverato come ospiti grandi protagonisti della musica internazionale, tra i quali anche Bob Dylan e Lou Reed – ma sempre capace di rinnovarsi offrendo una proposta musicale varia, polimorfa e mai banale. Una rassegna di qualità che intercetta la migliore musica in circolazione per portarla a un pubblico sempre più ampio e vario.

La rassegna è realizzata grazie al Comune di Ferrara, alla Regione Emilia-Romagna, ad Arci Ferrara e ad Ales&Co.

Presentazione di “Ferrara sotto le stelle” 2023

Il cartellone prevede le anteprime di giugno, con il ritorno di Vasco Brondi nella sua Ferrara in un doppio live sold out (12 e 13 giugno) in cui riaccende Le Luci della Centrale Elettrica e che lunedì 12 giugno avrà in apertura la cantautrice altoatesina Anna Carol.

L’appuntamento successivo è con il concerto del raffinato cantautore statunitense Kevin Morby (mercoledì 14 giugno), anticipato dal live del multi strumentista americano Macie Stewart. La rassegna espande poi i propri confini, coinvolgendo anche altri luoghi vicini e confermando la propria sensibilità verso tematiche sociali e ambientali con il concerto gratuito di Giovanni Truppi ad Argenta, in provincia di Ferrara, martedì 20 giugno in occasione della Giornata Internazionale del Rifugiato promossa da Cidas, Fsls.

Locandina della rassegna

“Ferrara Sotto le Stelle” proseguirà da giovedì 7 a sabato 9 settembre 2023 nel Cortile del Castello Estense di Ferrara. La location nel cuore della città, ospiterà i concerti di Fatoumata Diawara (cantautrice e attrice originaria del Mali in programma per 7 settembre), il musicista danese Trentemøller  (8 settembre), e Arab Strap (indie rock band scozzese 9 settembre). Tre artisti che, incorniciati in una location prestigiosa ed esclusiva, evidenziano quella vocazione internazionale che da sempre caratterizza l’anima del festival e che quest’anno ritrova grande vigore, senza mai dimenticare di volgere lo sguardo a talenti e suoni nostrani: i live di Trentemøller e Arab Strap saranno infatti aperti rispettivamente dal duo Bono/Burattini e Daniela Pes.

Fatoumata Diawara (foto Alun Be)
Bono-Burattini
Trentemøller (foto Alise Blandini)

Il festival torna dunque ad abitare il luogo dove è nato e rinnova il suo impegno nel fondere sound, generi e generazioni diversi in uno schieramento che raccoglie alcuni degli artisti più interessanti del panorama internazionale e nazionale, mescolando varie sfumature sonore, dal cantautorato all’elettronica, dal rock alla world music. Un mix tra passato e presente capace di guardare al futuro in tutte le sue sfumature, incluse quelle green – grazie alla certificazione ISO20121 che da anni il Festival persegue.

“Ferrara Sotto le Stelle” si propone poi – è stato sottolineato nella presentazione pubblica – di essere sempre più diffuso nel tempo e nello spazio e stringere e rafforzare legami con il territorio che abita. Si rinnova in quest’ottica la collaborazione con Internazionale a Ferrara per il concerto di anteprima della nuova edizione del festival di giornalismo: il 28 settembre il Teatro Comunale della città ospiterà il live degli ultimi grandi eretici del rock britannico, i Kula Shaker.

Nella foto di apertura un’immagine di Vasco Brondi contenuta nell’album “Canzoni da spiaggia deturpata” per l’etichetta discografica indipendente di Pordenone La Tempesta dischi, Pordenone © LTD-019/2008

Le storie di Costanza /
Giugno 2062 – L’anima e il gelato

Le storie di Costanza. Giugno 2062 – L’anima e il gelato

Sto camminando con Cosmo-111 lungo le sponde del Lungone e arrivo a Portici, un vecchio cascinale molto diroccato e fatiscente appena fuori da Pontalba. La vecchia costruzione di cemento e mattoni sta per implodere definitivamente in un mucchio di detriti laterizi e i resti delle imposte penzolano come vecchi panni appesi a fili arrugginiti.

Il tetto è sfondato e da sopra la casa si può vedere l’interno con i pavimenti di mattonelle blu e le pareti verdi. Le mura esterne sono un po’ bianche e un po’ rosse, a seconda dello strato di pittura che è rimasto. Lo strato più esterno è rosso, una volta eroso quello, quello sottostante è bianco.

In alcuni punti del muro non c’è più né pittura rossa né bianca e si vedono i mattoni nudi, color biscotto. Anche la consistenza dei mattoni sembra quella dei biscotti, un po’ alla volta verranno sbriciolati dal sole e di Portici non resterà più nulla.

Dalle finestre del pianterreno occhieggiano i rovi e, con la bella stagione, in mezzo ai rovi maturano le more. Se si allunga la mano all’interno di quella costruzione diroccata, cercando di non forarsi rovinosamente con le spine, si possono raccogliere more e lamponi dolci, freschi e maturi.

Di fronte alla costruzione, c’è un piccolo porto che consente di passare da una sponda all’altra del Lungone. È stato costruito dai nostri trisavoli quando ancora non c’erano le automobili e la viabilità via fiume era molto più utile di adesso. Sulla sponda dove sono io ora, siamo in provincia di Trescia e sull’altra sponda in quella di Vergania.

Il porto si chiama Porto Filippo perché vicino alla banchina c’è una statua in gesso di San Filippo Neri. La statua è alta circa un metro, di gesso smaltato e posta su un piedistallo che permette agli occhi di San Filippo di guardare in faccia i passanti. Spesso chi passa dal porto si ferma a dire una preghiera o, più semplicemente, ad ammirare la statua. San Filippo sorride a tutti in maniera magnanima e non fa differenze.

Questo Santo, vissuto a metà del 1500 a Roma, radunò attorno a sé un gruppo di ragazzi di strada, avvicinandoli alle celebrazioni liturgiche e facendoli divertire, cantando e giocando con loro, in quello che sarebbe divenuto anni dopo l’oratorio, istituzione cattolica tutt’ora presente e funzionante.

L’importanza dell’oratorio fu sostenuta da papa Gregorio XIII che, nel 1575, lo riconobbe come istituzione della sua chiesa. Bella scelta quella di chiamare la zona Porto Filippo, i nostri trisavoli erano intelligenti. San Filippo Neri sorride anche ai robot-111 come sorride a me, è una magnanimità senza confini.

Mentre mi giro a Portici e sto per imboccare la strada in senso inverso per tornare indietro, vedo il “signore dei polli” che si avvicina. Il “signore dei polli” è un signore che incontro sempre quando vado in giro da quelle parti. Lo chiamo il “signore dei polli” perché una volta l’ho visto raccogliere del radicchio selvatico, gli ho chiesto per chi lo raccogliesse e lui mi ha risposto “per i miei polli”.

Così ho cominciato a chiamarlo il signore dei polli perché era l’unica informazione che avevo a disposizione per identificarlo e tale è restato. Vedendolo spesso ho poi sapute che non alleva solo polli ma anche conigli e che, quando era piccolo, amava fare il bagno nel fiume. Inoltre, ora so che a scuola era bravo e che è amico di Myrumo, il pescatore che parla del Lungone come se fosse un suo parente.

Anche il mio mezzano lo chiama il signore dei polli, anzi lo chiama quasi sempre “al sagnara dal palla”. Una volta Cosmo-111 è ruzzolato giù da un argine ed è quasi finito in acqua, il signore dei polli, svelto come un gatto l’ha agguantato e tirato su. Così facendo, mi ha risparmiato una bella preoccupazione.

I circuiti meccatronici non devono bagnarsi se non si vuole che i robot si ammalino, anche gravemente. Non a caso gli arti inferiori di Maya-111 sono lunghi e i circuiti sono posizionati nella parte alta del suo corpo. Maya-111 è il robot-111 guardiano di villa Cenaroli e i suoi proprietari, Bianca e Lugo, sono amici dei miei figli, Axilla e Gianblu.

Tutti gli abitanti di villa Cenaroli sono nostri conoscenti. Bianca è la nipote di Guido, uno degli amici della zia Costanza che è vissuto a Pontalba fino a quando ci ha lasciato e Ludo è il figlio della contessa Malù, anch’essa amica della zia.

Villa Cenaroli è poco lontana da Porto Filippo e quando uno va a piedi fino al porto, passa davanti ai cancelli del parco della villa. I cancelli sono di ferro battuto e tra un tondino di ferro e l’altro si vedono tratti del parco, sezioni di statue e pezzi di stagno e di anatre.

Si vede anche Maya-111 che indefessa raccoglie rami ed erba, pota piante e cespugli, irriga fiori. Cosmo-111 e Maya-111 si conoscono e quando passiamo da là, quasi sempre si salutano. Di solito prima che noi avvistiamo Maya è lei che avvista noi, anche perché davanti ai cancelli ci sono potenti telecamere che registrano tutti i movimenti nelle vicinanze.

Mentre noi percorriamo lo sterrato che da Porto Filippo passa davanti a villa Cenaroli per poi risalire verso il centro di Pontalba, lei ci vede e comincia, da dentro il parco, a camminare verso di noi. Così, quando noi siamo in prossimità dei cancelli, è lì anche lei. In mezzo a noi, ci sono i tondini di ferro che, inesorabilmente, ci dividono.

A meno che sia domenica. Di domenica i cancelli della villa vengono aperti e la gente piò entrare a visitare il parco e a comprare il gelato nel chioschetto che Ludo e Bianca gestiscono. Anche oggi, salutiamo San Filippo e poi ci avviamo verso lo sterrato, superiamo il “signore dei polli” e ci avviciniamo al parco della villa. Quando arriviamo in prossimità del cancello sentiamo la voce metallica di quel meraviglioso robot che è Maya-111.

– Ciao Valeria e ciao Cosmo-111 – dice Maya,
– Ciao -, ripetiamo in coro io e Cosmo-111,
– Come va oggi? – ci chiede, sempre molto gentile,
Bene – le rispondiamo noi.

Con la mia voce che fa da guida, Cosmo-111 non sbaglia le vocali e i suoni delle nostre voci escono all’unisono e molto sincronizzati.

Tra le sbarre di ferro del cancello, si vede Ludo che sta potando un rampicante di rose. Quando ci vede si avvicina anche lui.
Ciao ragazzi – dice e poi comincia a chiacchierare, come suo solito. Scopriamo così che qualche giorno prima alcuni magnifici germani reali sono morti e che Ludo è preoccupato.

Il germano reale è il capostipite della maggior parte delle razze d’anatra che vivono nella nostra zona, ad eccezione di quelle derivate dall’anatra muta o muschiata. Maschi e femmine sono molto simili nella forma, ma differiscono nel colore del piumaggio. Il maschio ha un piumaggio molto colorato e compie nel corso di un anno due mute delle piume.

Durante il periodo nuziale la sua livrea è facilmente riconoscibile: il capo e la parte superiore del collo sono di color verde iridescente, uno stretto collare bianco a metà del collo separa la verde testa dal petto e dalla parte superiore del dorso che sono di un colore bruno-porporino, i fianchi e il ventre sono argentati, le ali sono bianco-grigie. Un’anatra magnifica davvero.

Cosa è successo ai germani reali del parco? Hanno preso qualche malattia oppure beccato qualche esca avvelenata? Non si sa, Ludo ci sembra molto dispiaciuto ed è così che Cosmo-111 decide di consolarlo.

– Non devi prendertela Ludo, ciò che è morto non è vivo e ciò che non è vivo non esiste più
Esiste nel ricordo – dice Ludo,
– Cancella i ricordi, fai reset e ricomincia –
Reset? ma io sono una persona, reset lo possono fare solo i robot.

Cosmo sembra perplesso ma poi si illumina.
– Compra dei germani-x, fino a quando sono in garanzia non spendi niente e sono bellissimi –
– Non sono come quelli vivi – dice Ludo.
Cosmo sembra essersi offeso, ha colto una differenza tra macchine ed esseri viventi che sa essere fondamentale.
Ma io chi sono? io che penso e ricordo, eppure non sono vivo. Chi sono? – ci chiede Cosmo-111.

Io e Ludo ci guardiamo in silenzio. Ogni tanto il mio robot mi chiede tutto questo e, ogni tanto, mi sorprendo a pensare che non so cosa rispondergli. Ma lui chi è? cosa davvero ha imparato? cosa ricorda? cosa prova?

Si potrebbe sostenere che gli uomini hanno un’anima e Cosmo-111 non ce l’ha. Ma cos’è l’anima e come spiegarlo ad un robot? Eppure, esiste una dimensione spirituale negli esseri umani c’è e nei robot non c’è.

È quello strano sentire che ti permette di sapere come sta un tuo caro a centinaia di chilometri di distanza senza bisogno di telefonargli, che ti permette di cogliere l’umore di chi ti sta vicino senza bisogno di aprire bocca, che ti fa sentire vivo e che ti fa pensare che dentro di te c’è qualcosa che continuerà a vivere per sempre. Un circuito di autogenesi eterno.

Cosmo mi ha sentito parlare a volte dell’anima, ma non sa cos’è.
Così una volta mi ha detto: Credo che l’anima sia un gelato. Una cosa che piace a tutti, un gusto di quelli speciali che si trovano solo a volte nelle gelaterie artigianali, nei giardini di villa Cenaroli”.
– Un gelato? – gli chiedo io.
Si un gelato, una cosa sublime.

A volte la semplicità dei robot è stupefacente, così come il paradosso che permette loro di associare l’anima ad un gelato.
C’è poco da fare, i robot non sono umani, sono macchine interessanti, performanti e a volte molto efficienti, ma non potranno mai sostituire l’uomo, né tantomeno potranno provare quello che prova lui. Ad un essere umano non verrebbe mai in mente di paragonare l’anima ad un gelato.

Senza aggiungere altro saluto con la mano Ludo e, con Cosmo-111, riprendo il mio cammino verso casa ripensando ai germani reali e alla loro brutta fine.

 N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere gli altri articoli di Le storie di Costanza la rubrica di Costanza Del Re clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Per certi versi /
Mi raccomando la vita

Mi raccomando la vita

Mi raccomando
La vita
La schiena
Dritta
La vita
Mi raccomando
Non lasciarla
Passare
Così semplicemente
Alla dogana
Senza documenti
Se è lei
Ha un biglietto
C’è scritto
Amore
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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Presentazione dell’opuscolo: UNA CASERMA PARTECIPATA.
Scarica il PDF della pubblicazione

La pubblicazione UNA CASERMA PARTECIPATA raccoglie le prime proposte e idee dei cittadini in merito  alla riqualificazione dell’ex caserma Pozzuolo del Friuli. raccolte tra i cittadini a partire dallo scorso mese di marzo.

12 GIUGNO 2023 ORE 18
Centro Documentazione Donna
Via Terranuova 12/b
Presentazione della pubblicazione:
“UNA CASERMA PARTECIPATA”.

 

Il titolo di questo libro sottolinea la volontà dei cittadini di partecipare all’elaborazione di un nuovo progetto che tenga conto dei bisogni e delle proposte nate dal “basso”.
Di rigenerazione urbana si parla moltissimo in questi tempi. Spesso senza una idea chiara di cosa significhi.
Il Forum Ferrara Partecipata è nato con lo scopo di attivare un percorso di cittadinanza attiva finalizzato alla costruzione di un’altra idea di futuro della città, a partire dall’opposizione al progetto denominato Fé.ris, fatto passare come rigenerazione dell’area della ex Caserma “Pozzuolo del Friuli” tra le Vie Cisterna del Follo e Scandiana.
Il titolo di questo opuscolo sottolinea la volontà dei cittadini di partecipare all’elaborazione di un nuovo progetto che tenga conto dei bisogni e delle proposte nate dal “basso”, per riqualificare questa importante area urbana, dismessa dal 1992 e ora di proprietà pubblica, di Cassa Depositi e Prestiti che intende alienare l’immobile, in accordo con il Comune di Ferrara.

Scarica il PDF della pubblicazione

Cover: Ex caserma Pozzuolo del friuli, il grande spazio della Sala Cavallerizza – dal sito del Comune di Ferrara

La civile Europa trova l’accordo sui migranti: lo chiamano “principio di connessione”… significa deportazioni fuori dai suoi confini in campi di detenzione.

La civile Europa trova l’accordo: deportazioni fuori dai suoi confini in campi di detenzione. Lo chiamano “principio di connessione”.
La chiamano “connessione”. Si tratta del diritto di uno stato europeo di deportare e far internare in un campo di detenzione, una persona alla quale venga rifiutata la richiesta di asilo, anche in un paese terzo diverso da quello di provenienza purchè “sufficientemente” sicuro, secondo gli “standard” di rispetto dei diritti umani.

E’ l’ultima trovata dell’Europa democratica e civile contro i rifugiati e i migranti, donne uomini e bambini che abbiano la sventura di pensare che qualcuno, qui nella culla della democrazia, di fronte al loro bisogno di sopravvivere, li accolga.
La “connessione” è in discussione in queste ore al vertice dei Ministri degli Interni in Lussemburgo, dove raggiungere un accordo su come affrontare il tema dei migranti, è più difficile che sulla guerra. La possibilità di deportare le persone che non hanno commesso alcun reato e di farle internare in campi di concentramento appositamente creati all’ esterno dei confini UE, è l’ultima frontiera, è il caso di dirlo, della torsione dei principi e delle convenzioni internazionali, in favore delle politiche securitarie e di respingimento che caratterizzano gli stati membri quando hanno a che fare con i migranti.

Sbaglia dunque chi chiede a Giorgia Meloni di “abbandonare Orban”, in nome della natura “liberale” dei suoi competitor elettorali in Europa: il sovranismo straccione e crudele sembra aver sostituito da un pezzo i principi liberali e democratici in Europa, e questo al di là degli estremisti di destra. Sono gli “estremisti di centro” ad averne assorbito i miasmi, spingendosi fino a teorizzare aberrazioni come le deportazioni e gli internamenti democratici.

La “connessione”, che sarà introdotta dalla UE nel nuovo “patto sulle migrazioni”, viene utilizzata per ovviare al problema dei mancati rimpatri.
E’ noto come questo sia un tema spinoso, anche e soprattutto per il governo italiano che deve presentare al suo elettorato, qualche cosa in cambio dell’aumento, e non dell’azzeramento promesso in campagna elettorale, degli sbarchi di migranti.

Il “qualcosa” è una dose aumentata di cattiveria e durezza nei confronti di chi arriva vivo, dopo aver superato l’orrore dei lager finanziati da Italia e Unione Europea in Libia e la roulette russa del viaggio per mare o per terra.
Dopo la strage di Cutro, che non fu una tragica fatalità ma il risultato di scelte compiute dalle autorità italiane, la risposta è stata una accelerazione non delle politiche di accoglienza, ma di quelle di detenzione: “Un CPR ( centro per il rimpatrio ) in ogni regione”, tuonava la Meloni, mentre i corpi dei bambini stavano ancora tornando a riva, annegati e abbandonati.

Ma i rimpatri, la dose omeopatica di veleno da usare per riequilibrare i “troppi salvati” dalla Guardia Costiera e dalle navi del soccorso civile, non sono facili da fare: ci vogliono accordi bilaterali con i paesi di provenienza delle persone, che quasi mai collaborano.
Uno degli argomenti principali di discussione dei continui incontri con trafficanti e dittatori che avvengono a Roma, a Tunisi e a Tripoli, è proprio questo: quanti soldi volete per riprenderveli? O per impedirgli di scappare? Più la dittatura di riferimento è solida, e meglio è garantito il successo della “missione diplomatica”.

Un caso da manuale è quello del Sultano Erdogan, pagato 6 miliardi di euro per trattenere, in condizioni spaventose, i profughi siriani in fuga dalla guerra. Una suora francescana che assiste come può gli esseri umani detenuti nel campo profughi di Smirne, con gli occhi abbassati dalla vergogna e dal dolore, un giorno raccontava di come “le bambine si prostituiscano per procurare i soldi alla famiglia necessari per una barca”.
Nel caso del “modello Erdogan”, storica fu la visita nel 2020, di Ursula Von Der Layen, alla frontiera greco turca mentre i profughi a migliaia si erano ammassati per chiedere aiuto, bloccati da fili spinati ed esercito. “Siete lo scudo d’Europa” dichiarò, complimentandosi con le autorità greche che salvavano l’Unione dalla massa di poveri e disperati che voleva entrare.

Il dittatore tunisino Saied, perché questo di fatto è il suo status dopo lo scioglimento d’autorità degli organi costituzionali e istituzionali post primavera araba, forse avrà un futuro grazie ai soldi elargiti dall’Italia in cambio di trattenimenti, affondamenti e rimpatri.
Il governo Meloni, tramite il Commissario Speciale Valente, ha annunciato che Lampedusa diventerà proprio un CPR per tunisini da rimpatriare. Sembrava troppo forse concentrarsi su accoglienza e primo soccorso, cosa sempre mancata sull’isola che da mille anni è approdo per ogni navigante del mediterraneo, a causa dell’impostazione “hotspot”, più campo di detenzione che luogo in cui dare il primo aiuto a chi, uomo donna o bambino che sia, giunge per mare.

La “connessione”, la deportazione fuori dai confini in altri stati, è anche l’idea del premier britannico Sunak: il Rwanda offre ottime condizioni di trattenimento per rifugiati da deportare dal Regno Unito. La ministra degli Interni inglese, dopo le polemiche suscitate dalla decisione di dare vita alle deportazioni, si è persino fatta riprendere mentre “constatava l’ottima sistemazione che avranno i respinti nel paese africano”. Una scenetta che se non fosse per l’orrore, sembrava uno spot di un villaggio turistico.

Il Parlamento Europeo ha duramente attaccato la decisione del governo inglese. Ma oggi la stessa ricetta, con parole diverse, è in discussione in Lussemburgo. Quello che la Brexit divide, la guerra contro i migranti unisce.

La narrazione ufficiale prevede che il trattamento di “connessione”, alias deportazione, sia riservato a “coloro che non hanno titolo per risiedere all’interno dei confini dell’Unione”.
Ma questa premessa va letta insieme ad un altro punto, al quale l’italia tiene molto: maggiore flessibilità sulla qualificazione di “paese terzo sicuro”. Che tradotto significa che quei paesi che non hanno sottoscritto la Convenzione di Ginevra, oppure presentano caratteristiche finora considerate “incompatibili” con il rispetto dei diritti umani, saranno valutati con meno rigidità, con più tolleranza.
Si abbassa l’asticella delle garanzie per le persone, si riduce il numero di coloro che avranno diritto di asilo rispetto al luogo da dove fuggono. Anche se il diritto di asilo, quello che Hannah Arendt chiamava “il diritto ad avere diritti”, è un diritto soggettivo e perfetto, in questi anni la sua effettiva applicazione ha dovuto sempre fare i conti con automatismi e standard, ad esempio quello spesso insuperabile del “paese terzo sicuro”.

La “connessione” prevede la possibilità di deportare i migranti ai quali è stata rifiutata la protezione internazionale, in un paese diverso da quello di origine ove esista una “connessione” precedente: ad esempio, se uno scappa dalla Libia, dopo esserci stato imprigionato per un certo tempo, potrebbe essere deportato lì da suolo europeo.
Naturalmente per ora i requisiti richiesti sono un certo grado di “sicurezza” per la persona, che la Libia non può offrire nemmeno per finta. Ma intanto si apre la strada: il sistema Minniti, l’impossibile zona Sar libica, la cosiddetta “guardia costiera” fatta da miliziani e trafficanti, sono la dimostrazione che quando il potere fa la guerra, e questa è una guerra contro esseri umani in movimento, gode di un preciso “diritto di mentire”. Come in tutte le guerre”.

Nota: Questo articolo è già stato pubblicato oggi, 9 giugno 2023, sul quotidiano l’Unità