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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Parole a capo
Stefano Tassinari: Due poesie

Qualche tempo fa, aprendo un numero de “Il cerchio di gesso”, che ho nella mia biblioteca, ho ritrovato due numeri della rivista di poesia “La tartana degli influssi”. Una specie di piccola matrioska letteraria. “Il cerchio di gesso” fu una rivista fondata a Bologna da alcuni intellettuali bolognesi come Gianni Scalia e Roberto Roversi e, tra il giugno del 1977 e il novembre del 1979 uscirono sei fascicoli. “La tartana degli influssi”, curata da Maurizio Maldini e Roberto Roversi, invece, è stata una rivista di poesia formata da un foglio unico piegato più volte. I numeri usciti sono stati 13. Torniamo a noi. Nel numero quattro di “La tartana degli influssi”  ci sono due poesie di Stefano Tassinari, operatore culturale poliedrico (scrittore, musicista, cooperatore, giornalista) di primo piano sia a Ferrara che a Bologna. Riportiamo [qui] una testimonianza significativa uscita su questo giornale mentre [qui] la pagina di Wu Ming 1. Ringrazio di cuore Maurizio Maldini  che ha dato la sua autorizzazione alla pubblicazione di questi testi di Tassinari.
(Pier Luigi Guerrini)

 

“Le città non sono solo scambi di merci: sono scambi di gesti, parole, emozioni, memorie, tempo, saperi.”
(Italo Calvino)

Turno di guardia

Il cerchio di luce-pila
si allarga
e inghiotte l’aspetto rinsecchito
della testimonianza di estraneità.
Gli occhi sollevano con la fantasia
l’ogìva di cemento sulla testa,
arcaica costruzione dissolvente di macerie corporee.
La rètina accecata distingue con fastidio
i contorni di legno sopraggiunto;
le mie scorie di astio
escono dalla bocca senza rumore,
e quando il tacco delle sue certezze stolte
sfrigola la neve della coazione a ripetere,
allora l’acqua comincia a sciogliersi
scendendo in un imbuto d’aria,
i muri vanno in avarìa
contagiando le sfuse percezioni
di un collo che resiste al cappio.
I piedi affondano con parsimonia
spegnendo il fumo dell’umiliazione;
poi il corpo torna a riverire obbligato
e la mente non concede assoluzioni.

Cervellesente

Rete perforata da incantesimi senza storia
precede l’altopiano del mio altare:
“Fate largo all’effetto di tomba!”;
stivali lucidi,
bagno schiuma che ottura i pori.
Le ali del palazzo si schiudono,
contenuto umano in viaggio
baratta giardini con polvere pirica.
Intimismo senza variazioni
è sepolto da ozio puntato nel vuoto…
il risveglio non ha la forza di alzarsi!
Poi, il rapido susseguirsi di gesti
avverte che l’incandescenza
sta arrivando su questa terra
popolata dalle pressioni impazzite.
Allontanate la coperta d’insetti
arrotolata sul mio corpo inerme!
Sul reticolato consunto,
affollato di misure d’ordine,
si spegne la traccia di ogni mia ricerca.

Stefano Tassinari (Ferrara, 24 dicembre 1955 – Bentivoglio, 8 maggio 2012) è stato uno scrittore, musicista, drammaturgo e sceneggiatore italiano. Ha pubblicato diversi romanzi e suoi racconti sono presenti in una decina di antologie, pubblicate in Italia e in alcuni Paesi stranieri.
Autore di testi teatrali, letture sceniche e di programmi radiofonici per Rai Radio 3, è stato ideatore e direttore artistico di varie rassegne letterarie, tra le quali La parola immaginata e Ritagli di tempo (ITC Teatro di San Lazzaro di Savena). È stato autore di documentari televisivi girati, oltre che in Italia, in Nicaragua, Spagna, Francia, Portogallo ed ex Jugoslavia.
Ha curato la messa in scena di decine di opere letterarie di scrittori italiani e stranieri, collaborando con attori e registi (tra gli altri: Leo Gullotta, Marco Baliani, Ottavia Piccolo, Silvano Piccardi, Antonio Catania, Matteo Belli, Ivano Marescotti, Laura Curino e Renato Carpentieri), musicisti (tra gli altri: Paolo Fresu, Riccardo Tesi, Mauro Pagani, Yo Yo Mundi, Têtes de Bois, Casa del vento, Mario Arcari, Armando Corsi, Antonello Salis, Daniele Sepe, Patrizio Fariselli, Jimmy Villotti, Paolo Damiani e Gianluigi Trovesi) e fotografi (tra gli altri: Mario Dondero, Giovanni Giovannetti, Tano D’Amico, Raffaella Cavalieri, Luca Gavagna e Dario Berveglieri).
Vicepresidente dell’Associazione Scrittori Bologna, ha scritto di letteratura su quotidiani e riviste. È stato direttore e fondatore di Letteraria (rivista semestrale di letteratura sociale), legata dapprima ai nuovi Editori Riuniti e poi dal 2010 a Edizioni Alegre. È stato prima militante di Avanguardia operaia, poi segretario della federazione ferrarese di Democrazia Proletaria, infine (dopo una parentesi nei Verdi Arcobaleno), è stato militante del Partito della Rifondazione Comunista, fondatore e animatore del circolo PRC “Víctor Jara” di Bologna. È scomparso nel 2012 all’età di 56 anni dopo una lotta contro una grave malattia durata otto anni. (da Wikipedia)

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

LO STESSO GIORNO
2 maggio 1940: rinviati i giochi Olimpici, ma li svolgeranno i prigionieri di guerra

2 maggio 1940:
vengono rinviati i giochi Olimpici, li svolgeranno i prigionieri di guerra

Tutti quanti conoscono le Olimpiadi dell’era moderna: l’evento sportivo quadriennale che racchiude i migliori campioni in quasi tutte le discipline praticate nei cinque continenti mondiali.
La competizione mondiale come la conosciamo noi si svolge per la prima volta nel 1896 nell’antica patria delle Olimpiadi, ad  Atene. Il neonato Comitato Olimpico Internazionale (CIO) radunò 241 atleti da tutto il mondo, il più grande evento sportivo mai organizzato nella storia.
Da subito un successo planetario, le Olimpiadi hanno sempre sfidato le avversità di un mondo in continua competizione, cercando di superare le avversità che nella storia hanno coinvolto i paesi di tutto il mondo.
Contrariamente alle speranze del barone De Coubertin, colui che presentò per la prima volta l’organizzazione dei giochi, in tre distinte occasioni i giochi non furono organizzati. Nel 1916 per la prima volta nella storia, a causa della prima guerra mondiale, i giochi Olimpici furono annullati. La stessa cosa avvenne a causa della seconda guerra mondiale nel 1940 e nel 1944.

Un anno dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, nel settembre 1940, la XII edizione dei Giochi Olimpici sarebbe dovuta andare in scena nella capitale Giapponese, a Tokyo.
Il Giappone era flagellato ormai da tre anni dalla seconda guerra sino-giapponese, il maggior conflitto mai scoppiato tra la Repubblica Cinese e l’Impero Giapponese. Il CIO non volle però rinunciare alla speranza di organizzare il maxi evento sportivo, convinti che potesse riunire le nazioni in un momento di altissima tensione. Fu così che nell’agosto del ’39 la sede della competizione fu spostata ad Helsinki, in Finlandia. Passano pochi mesi e nel settembre del ’39 scoppia ufficialmente la seconda guerra mondiale, coinvolgendo il suolo europeo nel grande conflitto.
I giochi non vengono annullati subito e il CIO continua ad incontrarsi in sedi neutrali e con permessi speciali per passare da un confine all’altro.
La guerra divaga in tutta Europa, sempre più nazioni vengono coinvolte e sempre più uomini vengono mandati al fronte a combattere. Tra guerra e devastazione questo stesso giorno, il 2 maggio 1940, gli ultimi rappresentanti del CIO si incontrano per l’ultima volta e decidono di sospendere l’imminente edizione dei giochi. In stessa sede si decide la sospensione a tempo indeterminato delle attività del Comitato Olimpico Internazionale, il quale si riunirà di nuovo solo nel 1946.

Mentre durante la guerra l’importanza dei giochi Olimpici passò in secondo piano, qualcosa di straordinario stava per succede. A pochi mesi dall’annullamento ufficiale della XII edizione, si celebrò un’edizione senza precedenti nella storia: nell’agosto 1940 si tennero i Giochi dei prigionieri di guerra internazionali.
Alcuni km fuori Norimberga, allo Stalag XIII-a, un campo di prigionia per prigionieri di guerra, detenuti belgi, francesi, britannici, norvegesi e polacchi si sfidarono in competizioni sportive clandestine.
Uno straccio rotto con cinque cerchi ad acquerello colorati sopra al posto del vessillo e l’inno olimpico suonato dall’armonica a bocca di Teodor Niewiadomski, una delle menti che organizzarono l’evento. Le gare che erano un insieme di spot, coraggio e furbizia, si tennero di nascosto dalle guardie. I detenuti si sfidarono in discipline come il lancio della pietra, il salto della rana ( una delle punizioni fisiche trasformate in sport) o addirittura in partite di pallavolo giocate in un campo disegnato per terra con gli indumenti degli stessi detenuti. Un parroco norvegese procurò palloni e alcuni attrezzi per le gare. Ai vincitori coppe ricavate dalle gavette, medaglie di cartone o un gagliardetto circondato da filo spinato. L’importante però non era vincere quei premi costruiti grossolanamente, quanto più avere un momento di libertà durante la spietata prigionia. Fu decisivo fare qualcosa per tenere occupata la mente, sentirsi per pochi istanti vivi e liberi.
Nel ’44 in molti campi di prigionia si replicò questa dinamica, persino con militari e carcerieri a competere con i detenuti durante le attività.

Sebbene negli annuali i Giochi Olimpici del ’40 e ’44 risultano non disputati, il museo dello sport di Varsavia in occasione dei Giochi del 2012 a Londra scrisse:
“No, furono disputate [le olimpiadi], in maniera precaria e al di fuori dei canoni classici, ma pur sempre tenute”

Cover: September 1964: A Japanese policeman checking the signs to be used during the opening parade at the Olympic Games in Tokyo. (Photo by Douglas Miller/Keystone Features/Getty Images) – licenza wikinedia commons

PRESTO DI MATTINA
San Giorgio

San Giorgio fuori le mura

San Giorgio “fuori” le mura. Non solo come avverbio geografico, ovvero per indicare il luogo in cui è stata edificata la chiesa a lui dedicata. Ma anche come preposizione storica, che allude a un valoroso defensor civitatis venuto da lontano – e precisamente dalla Cappadocia in Turchia – per approdare alle nostre terre contese da numerosi e bellicosi contendenti.

Terre che per conciliarsi necessitavano di un santo super partes; un immigrato che, arrivando dall’esterno, potremmo definire un santo neo-comunitario. Oltretutto è «un santo di punta»: il coraggio è quello di un guerriero, ma al tempo stesso il suo essere straniero lo rende sensibile e attento alla mediazione e all’integrazione delle pluralità diversificate e conflittuali, capace di conciliare i conflitti e tessitore di ciò che accomuna le parti.

Per questo fu scelto come alleato di questa chiesa e della città nella difesa delle proprie autonomie e libertà, compagno di viaggio nel processo identitario e unitario, difensore e custode, a presidio del diritto e dell’identità locali in formazione. Era un forestiero, ma è diventato cittadino a pieno diritto – civis optimo iure – in favore dei diritti e della dignità di coloro che lo hanno accolto e prediletto.

Giorgio [Qui] non è un proto-vescovo da cui si è originata la nostra chiesa, né un martire della chiesa locale, attorno al quale si raccoglie un’identità spirituale ecclesiale cittadina, perché egli è antecedente la nascita dell’una e dell’altra.

San Giorgio è un santo che precede, precursore e antecedente la chiesa locale e forse anche la stessa diocesi di Voghenza, attestata come sede vescovile a partire dal 330, da cui è nata quella di Ferrara. A metà del VII secolo la sede episcopale fu trasferita a nord dapprima a Ferrariola (Forum Alieni situato nell’attuale borgo San Giorgio, sorto sulla biforcazione del Po; di origine romana, l’abitato gravitava intorno all’attuale chiesa ove rimasero i vescovi per circa cinque secoli), quindi dal XII secolo a Ferrara.

San Giorgio è stato per la città e la chiesa locale come un innesto su in un albero selvatico, l’inserimento di un una preziosa gemma. Così come nell’olivastro viene innestato il germoglio di un ulivo buono, siamo stati uniti a lui per ferita martirale: la stessa che unì a Cristo il martirio di san Giorgio, avvenuto fuori le mura di Nicomedia, un’antica città dell’Anatolia. Così inseriti l’uno nell’altro per ferita il selvatico è divenuto albero fruttifero, di molteplici frutti oleosi.

Chi ha colto in profondità il senso di questo patrocinio ecclesiale non meno che civico è stato mons. Antonio Samaritani, storico pomposiano quanto cittadino. È una storia innovativa quella che si legge ne La Chiesa di Ferrara nella storia della città e del territorio, innovativa soprattutto come taglio, in quanto protesa a tenere insieme la comunità religiosa e la comunità civile in un fruttuoso intreccio.

«Una lettura ardua – ha ricordato Ranieri Varese – che, senza rinnegare la ‘storia’ in senso tradizionale, vuole fare emergere le ‘storie’, attraverso il recupero della memoria di avvenimenti e pensieri disparati e maggiormente collegati alla quotidianità del vivere; la loro somma, più di atti e azioni eclatanti, costruisce e caratterizza quel passato che vogliamo mantenere e del quale vogliamo dare consapevolezza» (Boll. Eccl. 2004, 3).

Attraverso la ricerca storica e la narrazione di microstorie, Samaritani riscopre così la vocazione “sinecistica” della nostra gente (sunoikismós da oikos=casa e sun=con). Vocazione unificatrice di pluralità molteplici e minoranze diversificate, chiamate ad abitare insieme.

Per stile sinecistico si intende l’unificazione di entità politiche precedentemente indipendenti in una città od organizzazione statale; uno stile “al plurale”, fatto di “scambio” dunque, “consortile”, capace di mediare tra realtà divere, che si colloca “tra” e si pone “in mezzo”.

Città, la nostra, avvezza a “modularsi” e, tuttavia, non priva di inquietudine – sottolinea Samaritani – perché coinvolta in uno «sforzo di libertà da uomini e cose», ma proprio per questo, attenta alle diversità, capace così di riconoscere ciò che giova al più e meglio vivere.

Ma seguiamolo tra le pagine del testo Radici della spiritualità ferrarese, (in Boll. Eccl. 2 1993); la sua bibliografia conta 419 titoli tra libri, saggi e articoli, catalogata e digitalizzata presso il Cedoc SFR [Qui]

«San Giorgio, certissimamente, è un santo che antecede la nostra diocesi. Non è un santo da nuclei cittadini, ma da nuclei bellicosi, castrensi. È un santo dei bizantini (e noi eravamo territorio bizantino, imperiale) è un santo anche degli aggressori, dei Longobardi, di cui Ferrara ha sempre temuto l’attacco, nonostante il primo freno del 568, quando essi si stabiliscono nella confinazione sul Panaro.

Il santo patrono costituisce l’identità civica di un complesso demico: laddove non c’è un santo patrono, non ci sarebbe una coscienza religiosa specifica, una coscienza civica specifica, e questo noi lo dobbiamo mettere in conto.

Siamo una diocesi, in qualche modo, acefala nata come castrum, il castrum Ferrariae (la zona tuttora presente tra via Mayr, Ripagrande e via XX Settembre, la zona tra via Casotto, via Belfiore, via Salinguerra). Questo castrum non è una civitas, è soltanto un momento di difesa del territorio, quindi non ha raggruppato una entità di popolazione tale da sprigionare, come coscienza religiosa, un suo santo patrono.

Fra i tre castra di Ferrara, della zona nostra, abbiamo il castrum di Argenta, che ha una titolazione a S. Giorgio (castrum documentato nel 515 nel Liber Pontificalis di Agnello di Ravenna [Qui]). Nel nostro territorio abbiamo poi la pieve di S. Maria in Padovetere (sono presenti il battistero in tracciato di fondamento, e il tracciato della chiesa stessa).

Il castrum di Comacchio ha la titolazione ad un altro santo castrense: S. Cassiano [Qui], un santo che non connota una spiritualità locale, ma trasferita da altrove. È singolare questa capacità di scelta ferrarese: questa gente, che non ha le punte polemiche del mondo bizantino, non ha la bellicosità longobarda, assume un santo che sia di mediazione, di adattamento.

Il carattere ferrarese in tutti i campi, ieri, oggi e forse domani, e anche nella tipica spiritualità, ha un timbro di sintesi, non di avanguardia. S. Giorgio è un santo di punta: va bene per la dominazione bizantina, ma va bene anche per la dominazione longobarda e le vicende che hanno fatto la nascita e la morte di Voghenza, e in qualche modo anche la nascita e l’affermazione tormentata di Ferrara, sono, appunto, vicende di scontro tra Romani e Bizantini e Longobardi», (ivi, 347-348).

Ferrara: da presidio militare a città umanistica

Un tormentato e difficile passaggio fatto di mediazioni, di integrazioni, di composizioni e di aggiustamenti in vista di una sempre maggiore unità. Da castrum a civitas: la trasformazione cioè di una polarità in contrapposizione, militarmente difensiva/offensiva, ad una comunità mediatrice, conglobante, conciliatrice e innovativa. Una duplice polarità attestata – così mi sembra – anche nell’iconografica ferrarese del patrono san Giorgio.

Una prima polarità guerresca: il san Giorgio del nuovo e dell’antico duomo, all’esterno, nella lunetta del protiro il primo, sulla facciata della chiesa extra urbana il secondo. Entrambi a cavallo; uno con la spada sguainata nell’impeto dell’assalto, l’altro tutt’uno con l’impennata del suo cavallo, brandendo la lancia come un pugnale, incombente sopra il drago.

Di contro, all’interno di entrambe le cattedrali, un san Giorgio pacato, in riposo, quale segno della seconda polarità pacificante. Un san Giorgio tutto interiore, contemplativo, quello del dipinto nell’abside dell’antico duomo, opera di Maurilio Scannavini.

In quello nuovo sta invece il san Giorgio bronzeo, rinascimentale, di Domenico de Paris [Qui]; quasi senza sforzo, come appoggiato alla lancia, trafigge il drago; elegante, composto, con la mano sul fianco, con il volto disteso, perfino tranquillo. Anche il san Giorgio del Maestro delle storie di Elena è elegante, pienamente umanistico, attendista, ma vigile; tiene la spada nel fodero e vi si appoggia con delicata attenzione. Dosso Dossi [Qui] lo ritrae invece con la spada e la lancia in disarmo, il drago accucciato ai suoi piedi, quieto, la posa prospettica e l’armatura, nella sua compattezza dinamica; viene da pensare al motto di Manuzio: festina lente.

Genius loci

Proprio la designazione da parte della chiesa locale di «vivente titolare», di patrono vivo e attivo anche nella realtà di oggi, aggiunge un nuovo tassello a quel mosaico in fieri che si vuole designare con l’espressione genio cristiano del luogo: la qualifica della nostra come Chiesa georgiana.

Così Samaritani: «L’unitarietà e l’unicità del patrono “castrense” di Ferrara, san Giorgio in Ferrara legittima, l’espressione di sempre di Chiesa Georgiana per Ferrara». Due cattedrali in successione per lo stesso patrono; ma con la nuova cattedrale, gli verrà affiancato un altro martire ma vescovo, san Maurelio [Qui], per un’ulteriore e più precisa sottolineatura dell’identità ecclesiale:

«I fautori della grande riscossa dell’identità ferrarese, saranno vescovi come Landolfo (1099–1139), il “fondatore” della nuova cattedrale, e promotore di numerosi sinodi, equilibratore delle nuove forze religiose emergenti. Non sono più i monaci, ma le vicinie, le corporazioni, le parrocchie cittadine, che nascono proprio in questo periodo, a far riemergere una sigla unitaria, che è il patrono S. Maurelio, ultimo vescovo di Voghenza, proto-vescovo di Ferrara.

La diocesi di Ferrara, quando nasce ha bisogno di recepire la sua estrazione georgiana, e così si può dire: nasce ferrea, castrense, però capisce che è troppo generico il patrocinio di S. Giorgio; ha bisogno del patrocinio specifico, di un santo contrassegnato dalla lotta spirituale, dalla difesa di un’ortodossia, insidiata da Ravenna come rappresentante dell’Oriente e in qualche modo tipica di una zona nella quale fu più forte il senso della romanità che non in Roma stessa. Ma questo santo patrono ha una vita dura ed una affermazione difficile» (ivi, 348).

Così è pure la nostra quotidiana lotta spirituale, dura e difficile, transito pasquale pure dall’incredulità al credere, dal disperare alla speranza dal disamore ad una provvidenza di amore: sempre e ancora una ferita martiriale. Una condizione che mi ricorda quella dell’oleoso ulivo di Virgilio, una promessa certa di fecondità e di pace: da ferita di vomere un carico di frutti.

Non serve al contrario coltura per gli ulivi,
non richiedono il falcetto ricurvo
e la costanza dei rastrelli,
una volta che abbiano attecchito ai campi
e resistito ai venti;
la terra, se viene aperta dal dente della marra,
fornisce da sé sufficiente umidità,
se poi viene arata dal vomere,
un carico di frutti.
Coltiva per questo l’ulivo
che nella sua fecondità
è simbolo di pace.

In copertina: San Giorgio e il drago di Paolo Uccello (da: wikipedia.org)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Il leader Dario Mejia Montalvo al Forum dell’Onu:
“Basta estrattivismo, che causa lo sterminio dei popoli nativi, l’espropriazione delle loro terre e la distruzione dei loro diritti”

da: Agenzia DiRE

Cambiare il paradigma attuale nella produzione dell’energia e mettere un freno all’attività estrattiva che spesso si svolge sulle terre dei popoli originari senza il loro consenso: sono due dei punti emersi alla sessione 2022 del Forum permanente delle Nazioni Unite sulle questioni native (Unpfii), che quest’anno inaugura anche il decennio che l’Onu ha dedicato alle lingue dei popoli originari, che durerà fino al 2032.
Il summit, il primo in presenza dopo tre anni, ha visto anche il passaggio di consegne fra la ormai ex presidente Anne Nuorgam, dirigente finlandese della comunità dei sami, e Dario Jose’ Mejia Montalvo, leader della Organizacion Nacional Indigena de Colombia (Onic), appartenente del popolo degli zenù.

Nel suo discorso, come si apprende dal portale dell’Unpfii, il nuovo presidente ha affermato che solo cambiando le fonti della produzione dell’energia si metterà fine “allo sterminio dei popoli nativi, all’espropriazione delle loro terre e alla distruzione dei loro diritti”.
Mejia Montalvo ha quindi esortato gli Stati membri dell’Onu a elaborare uno strumento giuridicamente vincolante per regolamentare le attività commerciali transnazionali con particolare attenzioni alle esigenze e ai diritti dei popoli originari. In questo senso, il presidente ha individuato nella Dichiarazione dei diritti dei popoli nativi dell’Onu e nella Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) le “stelle polari” da seguire.
Durante il vertice è stato ricordato che i nativi possiedono legalmente il 10% del territorio della terra pur gestendone circa il 50% e pur difendendo l’80% della biodiversità del pianeta.

Agenzia di stampa DiRE (licenza Wikimedia Commons)


L’Agenzia Dire nasce nel 1988 e si specializza, nei suoi primi anni di attività, sulle dinamiche politiche parlamentari. Durante i suoi 30 anni di lavoro matura un’esperienza a tutto campo che la porta ad affermarsi tra le principali agenzie di stampa italiane. Specializzata in politiche parlamentari e di governo, politiche regionali e locali, oltre che su esteri, welfare, sanità, ambiente, scuola e giovani. Con dieci sedi nel territorio nazionale, corrispondenze da tutte le regioni, pubblica oltre duemila notizie al giorno, sette giorni su sette, realizza 29 notiziari tematici multimediali, 5 Newsletter, 13 TG e Gr tematici.

Parole a capo
Anna Fresu: “Ponti di corda” e altre poesie

“Tutto quello che stiamo dicendo è diamo una possibilità alla pace.”
(John Lennon)
IL MARCHIO DI CAINO
Non so se fu
per colpa di Caino
però non credo
all’ineluttabilità
della violenza
intesa come marchio
a cancellare
la bontà dell’umano
la coscienza la ribellione
o il bisogno di pace
che sentiamo
come spazio d’amore
e d’armonia.
Un marchio che cancella
quella sorte comune
che ci fa tutti fratelli
nelle risa e nel pianto
nella lotta per il pane
il gioco l’allegria
nella nostalgia
di ciò che perderemo,
nella ricerca
del senso della vita.
Siamo mortali
-e questo lo sappiamo-
dunque perché non basta
il dolore di perdite e di assenze,
perché non ci aiutiamo e consoliamo
nel cammino già aspro della vita?
(in “Ponti di Corda”, Temperino rosso Edizioni, Brescia, 2018)
PONTI DI CORDA
Saranno da poeta
questi versi
un po’ sghembi
scritti a sera
con la testa
posata sul cuscino?
O sospiri
sfuggiti
al sonno
quand’è quasi
mattino?
O strascichi
di sogni
senza quasi memoria
solo un vago
ricordo
sulla pelle
un leggero tremore
in fondo al petto?
Saranno questi versi
sassolini
gettati in acqua
per farli schiarire?
Ponti di corda
fra quest’IO
e il SONO.
(in “Ponti di corda”, Temperino rosso Edizioni, Brescia, 2018)
CI SONO NEL MONDO POETI
Ci sono nel mondo poeti
che mai hanno letto
mai hanno scritto versi.
Poco sanno che sia
leggere o scrivere.
La mia lingua non parlano
ma danno il nome agli uccelli
e alle erbe del campo.
Con gli alberi conversano,
ringraziandoli per l’ombra,
ascoltandone le memorie.
Sanno il sentiero del vento
e il colore della pioggia,
il tempo della semina
e il tempo del raccolto.
Le orme delle fiere
riconoscono e vigilano.
Mai entrati in una chiesa,
pregano il Sole e la Terra.
Suonano pelli e legni
sanno canti di altre ere.
Di ogni corda conoscono i segreti.
I loro occhi nella danza guardano
la sabbia e non il cielo.
E quando infine terminano
il loro andare nei giorni,
a tutto dicono addio
senza amarezza né pena.
Perché sanno che saranno terra
luce foglie e semi
occhi di bimbo abbracci
acqua di fiume pantere.
E i versi che hanno scritto:
i loro passi nella vita,
orme di un tempo
che non conosce oblio.
(in “Ponti di Corda”, Temperino rosso Edizioni, Brescia, 2018)
ODE ALL’IMPERFEZIONE
Canto la ruga il neo la cicatrice
ogni traccia lasciata sulla carne
Canto il corpo che cambia
e la bellezza che mai non corrisponde
Canto il passo del tempo il suo fluire
le scintille disperse sulla via
la scia di ciò che fummo e il suo mutare
l’essere sempre altra il suo sfuggire
ai canoni alle leggi all’immanenza
Canto persino il dubbio l’incertezza
il pensiero che oscilla e che vacilla
che non riposa su conquiste passate
Canto l’eterno cercare indefinito
Canto l’errore il torto e il suo perdono
Canto ogni cedimento alla passione
all’ancora incompleta della nostra ragione
Canto lo sguardo che coglie e ricompone
in frammenti imperfetti l’armonia.
(in “Fluida”, Macabor editore, Francavilla Marittima, 2021)
GEOGRAFIA
Odio i confini
i muri le barriere
Non ha confini il cielo
muri il mare
Mi riconosco
solo d’acqua e d’aria
con radici sospese
all’universo.
Viandante fra il passato
ed il futuro
sostando a tratti
a cogliere il presente.
Son io e l’altro
Io vecchia, io bambina
Io la madre e la figlia
Io che leggo
e che scrivo
portando il mare
verso la montagna
mescolando le lingue
ed i colori
Io voce e orecchio
che parlo ed ascolto
Io riflesso io specchio
canto e suono
eco di ogni passante
che ho incontrato
Io polvere
Io la strada
Io l’esilio
Io la meta
e il ritorno
Io lama io gazzella
Io elicriso, olivastro
Io cactus io acacia
Io gabbiano io pesce
Io Wanfundla
e Treighino
io cicala e formica
Io fado e tango
marrabenta e anninia
Tessere
costruite e mescolate
nel gioco strano
di questa mia vita
chiusa e riaperta
dentro una valigia.
(in “Fluida”, Macabor editore, Francavilla Marittima, 2021)

Anna Fresu. Nata a la Maddalena, in Sardegna, si è laureata in Lettere e Filosofia presso l’Università La Sapienza a Roma. Ha seguito numerosi corsi di teatro, tra cui il Teatro Studio, partecipando alla creazione del teatro Spaziozero. È regista, autrice, attrice di teatro, traduttrice. Ha condotto  laboratori teatrali nelle scuole di ogni ordine e grado. È presidente dell’associazione culturale “Il Cerchio dell’Incontro” che promuove l’educazione alla pace. È stata presidente dell’associazione culturale Scritti d’Africa di cui cura attualmente la pagina Facebook.
Dal 1977 al 1988 ha vissuto in Mozambico dove ha insegnato e diretto la Scuola Nazionale di Teatro e creato e diretto, col regista e giornalista Mendes de Oliveira, il “Dipartimento di Cinema per l’infanzia e la gioventù” realizzando diversi film che hanno ottenuto riconoscimenti internazionali. Il suo lavoro in Mozambico è stato premiato al Festival del Cinema per la Pace nel 1991. Sempre nel 1991 ha curato con Joyce Lussu un’antologia di poesie del poeta mozambicano José Craveirinha (Voglio essere tamburo, Centro Internazionale della Grafica, Venezia).
Nel 1996 è tornata in Mozambico come collaboratrice RAI per una serie di servizi televisivi e ha realizzato un laboratorio teatrale con i “meninos da rua”, bambini-soldato e vittime della guerra.
Nel 2013, ha pubblicato il suo libro di racconti “Sguardi altrove”, Vertigo Edizioni. Sue poesie e racconti sono presenti in diverse antologie. Collabora con alcune riviste on line e blog.  In Argentina è stata docente di Lingua e Cultura Italiana presso la Società Dante Alighieri e l’Università di Mendoza e ha partecipato a congressi sulla letteratura italiana e  realizzato diversi spettacoli teatrali. Nel 2018 ha pubblicato il  libro di poesie “Ponti di corda“, Temperino rosso Edizioni  e ha curato l’antologia poetica “Molti nomi ha l’esilio“, Kanaga Edizioni. Nel 2020, pubblica per Macabor editore la raccolta di micro-racconti “Storie di un tempo breve, anzi brevissimo”, pubblicato nel 2021 da Acercandonosediciones con la traduzione in spagnolo dello scrittore argentino Daniel Fermani Gonzáles. Nel 2021 Macabor editore pubblica la sua silloge poetica “Fluida”.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti  [Qui]
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Donne vittime di guerra

Non c’è niente di più crudo e doloroso, nella storia delle donne, della violenza gratuita, efferata, indimenticabile, spesso inenarrabile, che esse hanno subìto nel corso di guerre e occupazioni in ogni epoca. Il corpo della donna è trincea, campo di battaglia, conquista, bottino, ricompensa e la violenza su di esso viene agita per colpire il nemico, fiaccare ogni resistenza. L’arma dello stupro è vecchia quanto la guerra, fatta dello stesso odio, della stessa brutalità, e riguarda donne di ogni fronte e appartenenza, un fenomeno presente nell’antichità e non certo esclusiva della storia contemporanea.
Nell’Antica Grecia era un comportamento ritenuto socialmente accettabile nelle regole di guerra e i guerrieri consideravano le donne bottino legittimo, utili come mogli, concubine, schiave o trofei del campo di battaglia.
I soldati romani esercitavano violenza sulle donne barbare, che non riconoscevano nemmeno umane, trattandole come oggetto da possedere, vendere al miglior offerente, esibire in pubblico. La rappresentazione di alcune scene di violenza rimangono scolpite sulla Colonna Aureliana a Roma, dove le donne delle popolazioni germaniche Marcomanni, Sarmati e Quadi vengono trascinate per i capelli, denudate e trucidate dai soldati armati di pugnale.

In tempi più vicini a noi, nel XX° secolo, le violenze sessuali sono diventate parte integrante delle strategie offensive e propagandistiche degli eserciti in guerra, a cominciare dalla I^ Guerra mondiale nell’avanzata dell’esercito austroungarico in Serbia e l’esercito tedesco in Belgio, accompagnata da stupri di massa.
Del secondo conflitto mondiale, ambientati in Italia, rimangono i racconti, le testimonianze, le tracce indelebili delle cosiddette “mongolate” e “marocchinate”.
Nel primo caso parliamo delle uccisioni e degli stupri sistematici su numerose donne di paesi e villaggi avvenuti sull’Appennino ligure-piemontese-emiliano e nell’Oltrepò pavese, nell’inverno 1944, quando i nazisti schierarono tra le file del loro esercito i denominati “mongoli”, costituiti da prigionieri calamucchi, uzbechi, georgiani, ucraini, arruolati dopo la caduta di Leningrado. Dolore, vergogna, paura hanno accompagnato le donne sopravvissute agli abusi, rendendo spesso faticosa la testimonianza e il ricordo. Il termine “marocchinate” conduce alla memoria scomoda degli abusi e delle violenze sulle donne del Basso Lazio e della Toscana meridionale, ma anche in Sicilia e Campania, nel maggio del 1944, da parte dei goumiers, i combattenti del V° Corpo d’Armata francese. “Zidouh ‘Lguddem! En avant!” era il grido di battaglia dei tabors, i reparti marocchini del Corps Expèditionnaire Français en Italie che raggelava il sangue tanto ai tedeschi quanto alle popolazioni civili di quelle zone sulla linea Gustav. Più di 60.000 le vittime degli abusi e della violenza al loro passaggio, ma le cifre rimangono ancora incomplete.

Lo stupro di guerra va ben oltre l’etichetta di “effetto collaterale” che si vorrebbe appioppargli, giustificandolo con le condizioni innaturali dei soldati: esso costituisce in realtà il massimo sfregio con cui marchiare il nemico attraverso la violenza assoluta sulla sua donna, portatrice di continuità vitale, di futuro per le nuove generazioni.
Diventa annientamento, umiliazione, contaminazione e violazione per dimostrare supremazia di un popolo su un altro, un crimine che non può essere legittimato per nessuna ragione al mondo. Solo di recente, dopo le atrocità in Bosnia e Ruanda, la comunità internazionale ha riconosciuto la peculiarità dello stupro di guerra da un punto di vista giuridico, dichiarando crimine contro l’umanità le violenze alle donne in contesti bellici.
In Ruanda, tra aprile e luglio 1991, centinaia di migliaia di donne tutsi furono sottoposte a ogni sorta di violenza, massacrate a colpi di machete e bastoni cosparsi di chiodi dagli squadroni della morte hutu. Nella ex Jugoslavia lo stupro etnico fu usato su larga scala sulle donne di etnia diversa come “pulizia etnica” vergognosa.
Il riconoscimento dei crimini e stato un percorso difficile, cominciato con il lavoro dei Tribunali Penali Internazionali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda, istituiti nei primi anni ’90, quando gli avvenimenti nei due Paesi scossero il mondo per particolare efferatezza delle indicibili violenze commesse negli stupri di massa perpetrati con premeditazione e con la finalità di annientamento delle donne e di un’intera parte della loro comunità.
Nell’aprile del 2019 il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha riconosciuto la violenza sulle donne in Paesi in conflitto come arma di guerra.

Cover: Friedensstatue, Giappone,1920 (wikimedia commons)

Moratoria sui brevetti dei vaccini:
impegniamo la Commissione Europea a discuterne!

Come tutti sappiamo, le conoscenze scientifiche attuali hanno permesso lo sviluppo di vaccini che hanno costituito una valida risposta contro la pandemia da SARS-COVID 19.
Tali vaccini non hanno però fermato la pandemia, sia perché essi non hanno – come tutti i vaccini – una copertura totale, ma solo parziale, della malattia ; sia perché la distribuzione del vaccino non è riuscita a diventare globale: a fronte di buone percentuali di vaccinazione negli Stati ricchi e sviluppati del mondo – ma anche paesi come Cuba – , nei paesi poveri del mondo la vaccinazione sembra destinata a poche elite, con il conseguente pericolo di nuovi focolai e della generazione di nuove varianti.

Ciò è dovuto al fatto che le case farmaceutiche produttrici determinano loro i costi e le distribuzioni , facendo valere i loro brevetti, seppur abbiano goduto di molti finanziamenti pubblici, grazie anche alla compiacenza neoliberista degli stati ricchi del Mondo.

La campagna NO PROFIT ON PANDEMIC vuole porre un argine a questo stato di cose, provando ad obbligare – con un milione di firme – la Commissione Europea a discutere su una Moratoria ai brevetti sui vaccini. La campagna chiede:

1) SALUTE PER TUTTE/I. Le ditte farmaceutiche non devono essere libere di decidere i costi ed i criteri di distribuzione dei vaccini;

2) TRASPARENZA ORA. I dati sui brevetti devono essere chiari e pubblici, al contrario di ciò che avviene adesso, dove tali dati non sono veramente accessibili nemmeno ai deputati europei;

3) DENARO PUBBLICO, CONTROLLO PUBBLICO. Non si può avere una gestione privata su tecnologie sanitarie ottenute con finanziamenti pubblici;

4) NESSUN PROFITTO SULLA PANEDEMIA. L’erogazione di fondi pubblici dovrebbe avere sempre la garanzia che i risultati di tali finanziamenti rimangano pubblici e non favoriscano i profitti stellari delle grandi multinazionali del farmaco (ad esempio Pfizer 37 miliardi nel 2021)

Firmate al sito NOPROFITONPANDEMIC.EU

 

Firme raccolte online al 27.04.2022:
252.688
obiettivo della campagna:
1.000.000
Fine del periodo di raccolta: 01/08/2022

Comitato Triestino campagna NOPROFITONPANDEMIC

Pacifismo e costituzionalismo globale*
Un intervento di Luigi Ferrajoli

 

La divisione, lo scontro, la guerra, è arrivata anche in Italia.
La cronaca delle manifestazioni e contro-manifestazioni dell’ultimo 25 aprile hanno reso evidente questa realtà. Preoccupante. Ogni giorno di più, la posizione pacifista (in cui ci riconosciamo) che antepone ad ogni opzione quella della trattativa, che si oppone all’escalation bellicista e quindi all’aumento delle spese militari e all’invio di armi in Ucraina, che critica gli atti recenti e presenti della Nato, è ricacciata nell’angolo, sempre più avversata – colpevolizzata, spesso sbeffeggiata – da un vastissimo fronte politico (dal Pd a Fratelli d’Italia) come dalla propaganda dei mezzi di comunicazione mainstream. Le ragioni e le voci che chiedono “la pace subito” – compresa quella di un vecchio papa – sembrano soffocate da un folle vento di guerra.
Le notizie di ieri: la posizione super interventista di Londra,  il nuovo invio di armi con capacità offensiva deciso dal governo Draghi, le risposte minacciose della Russia, sembrano allontanare sempre più le speranze di arrivare alla pace o anche solo a una tregua. Stiamo così scivolando verso un probabile allargamento del conflitto dai contorni imprevedibili. La guerra mondiale nucleare non è più un vago scenario fantascientifico, ma una possibilità concreta. Di cui parlano ormai apertamente i Capi di Stato, ad Est come ad Ovest.
Per questo, per opporre qualche sensato ragionamento alla follia della rincorsa alla guerra, ci sembra importante far conoscere ai lettori  di periscopio questo importante e autorevole intervento di Luigi Ferrajoli, uscito il 23.04.2022 su Questione giustizia online, la rivista ad accesso libero e quotidianamente aggiornata, promossa da Magistratura Democratica.
Tra i tanti lettori, come tra i redattori e i collaboratori di questo libero quotidiano, la tragedia della guerra in Ucraina viene vissuta, commentata e giudicata in modo non univoco. Vorremmo però che, per onorare il ruolo della stampa libera, ci accostassimo ad ogni articolo e riflessione con una mente libera, senza esibire certezze di seconda o terza mano, fuori dal condizionamento che ci impone la vulgata dominante. L’esibizione di muscoli e di incrollabili certezze non servono. Al contrario, abbiamo  bisogno di ascoltare, di capire, di interrogarci. Altrimenti non sarà possibile arrivare a una qualche ragionevole conclusione. Tantomeno alla pace.
(Francesco Monini)

di Luigi Ferrajoli
ex magistrato, professore emerito di Filosofia del diritto, Università di Roma Tre

Sommario:
1. Il dovere di trattare – 2. La necessità di coinvolgere nella trattativa i paesi della Nato. Il ruolo che dovrebbero svolgere gli organi dell’Onu, convocati in seduta permanente – 3. 3. Due visioni del futuro del mondo  – 4. Per una Costituzione della Terra

Nei 77 anni che ci separano da Hiroshima e Nagasaki, il pericolo di un conflitto nucleare non è mai stato così grave e incombente come quello corso durante la guerra criminale scatenata dalla Russia contro l’Ucraina. Per questo il comportamento delle potenze della Nato di fronte a questo pericolo è stato, fin dall’inizio, irresponsabile. Proprio il fatto che Putin, secondo il coro unanime dei media e di tutti i governanti occidentali, è un despota feroce, dovrebbe consigliare di prendere sul serio la sua minaccia, formulata fin dal 13 marzo, di una “reazione nemmeno immaginabile”. Giacché questo despota ha già mostrato ciò che è capace di fare, è fornito di armi nucleari come ha più volte voluto ricordare ed è quindi ben possibile, se crescerà la tensione, che ne faccia uso. La sola cosa seria da fare dovrebbe essere quindi l’impegno di tutti di porre fine alla guerra e di contribuire al ristabilimento della pace.

E’ questa, del resto, la regola valida in tutte le comunità civili per far fronte alle azioni criminali in atto. Quando un bandito minaccia di sparare e poi spara su una folla se non saranno accolte le sue richieste, il dovere di quanti hanno il potere di farlo – in questo caso la comunità internazionale – è quello di trattare, trattare, trattare la cessazione della strage. Poco importa se il bandito sia considerato un criminale, o un pazzo oppure un capo politico irresponsabile che non ha visto accogliere le sue giuste ragioni e rivendicazioni. La sola cosa che importa è la cessazione dell’aggressione e della strage degli innocenti. Tanto più perché, in questo caso, la continuazione della guerra può deflagrare in una guerra nucleare. Proprio i più accaniti critici di Putin non dovrebbero dimenticare, ripeto, che ci troviamo di fronte a un autocrate fornito di oltre seimila testate nucleari, e che l’insensatezza di questa guerra, anche dal punto di vista degli interessi della Russia, non consente di escludere ulteriori, apocalittiche, insensate avventure.

Trattare è ciò che chiedono milioni di manifestanti in tutto il mondo quando domandano di “cessare il fuoco”: per porre fine alla tragedia dei massacri, delle devastazioni e della fuga di milioni di sfollati ucraini. All’inizio di aprile, come ci informa l’Agenzia Onu per i rifugiati, erano 4 milioni i rifugiati ucraini nei paesi vicini e circa 7 milioni gli sfollati interni, in gran parte donne e bambini. Gli orrori, gli stupri e le stragi di civili commessi dall’esercito russo impongono con forza, per la loro atrocità, l’impegno di tutti perché si ponga fine, quanto prima possibile, a questa tragedia. Non importa che atrocità simili sono state commesse in tante altre guerre, talune delle quali scatenate dall’Occidente. Ciò che importa è che si avverta come intollerabili le violenze contro persone inermi, che si faccia di tutto per farle cessare e che esse valgano ad aprirci gli occhi sugli orrori inevitabilmente connessi a qualunque guerra.

Sono queste le condizioni di ogni pacifismo degno di questo nome: in primo luogo stare dalla parte degli aggrediti contro i loro aggressori; in secondo luogo sostenere le loro ragioni nella trattativa diretta a far cessare quanto prima l’aggressione e le sue nefandezze.

2. La necessità di coinvolgere nella trattativa i paesi della Nato. Il ruolo che dovrebbero svolgere gli organi dell’Onu, convocati in seduta permanente

Ma in che modo si sostengono le ragioni degli aggrediti nei negoziati di pace? Chi ha il potere e, aggiungerò, il dovere di offrire questo sostegno? C’è una grande ipocrisia alla base delle politiche dei governi europei e del dibattito pubblico sulla guerra. Tutti sanno, ma tutti fanno finta di non sapere che dietro questa guerra, della quale l’Ucraina è soltanto una vittima, il vero scontro è tra la Russia di Putin e i paesi della Nato. Sono perciò gli Stati Uniti e le potenze europee che dovrebbero trattare la pace, affiancando l’Ucraina nelle trattative anziché lasciarla a trattare da sola con il suo aggressore.

Sarebbe questo il vero atto di solidarietà dell’Occidente nei confronti del popolo ucraino. Il vero aiuto alla popolazione ucraina, bombardata e massacrata dal 23 febbraio, sarebbe la partecipazione alla trattativa, a fianco dell’Ucraina, dei paesi membri della Nato, a cominciare dagli Stati Uniti, dotati di ben altra forza e di ben maggiore capacità di pressione, onde ottenere, con il minimo costo per l’aggredito, l’immediata cessazione dell’aggressione. Una simile assunzione di responsabilità delle maggiori potenze – Stati Uniti ed Unione Europea – varrebbe non solo a porre fine alla guerra, ma anche a scongiurare il pericolo di un suo allargamento incontrollato.

Per questo la sede appropriata dei negoziati, come ho già avuto occasione di sostenere, dovrebbe essere non più soltanto la sconosciuta località della Bielorussia dove si incontrano, con sempre minori capacità di accordo, le delegazioni della Russia e dell’Ucraina, ma anche l’Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza dell’Onu. Per due ragioni. In primo luogo perché le Nazioni Unite sono l’organizzazione la cui finalità istituzionale, come dice l’articolo 1 del suo statuto, è mantenere la pace e conseguire con mezzi pacifici la soluzione delle controversie internazionali. In secondo luogo perché nel Consiglio di sicurezza siedono, come membri permanenti, tutti dotati di armamenti nucleari, esattamente le potenze che hanno la forza e il potere per trattare la pace: la Russia, la Cina e i principali membri della Nato, cioè gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia. La trattativa si svolgerebbe così sotto gli occhi dell’intera umanità, all’interno di un’istituzione che ha per ragione sociale il conseguimento della pace. Sappiamo bene che l’Onu è sempre più debole, al punto che ne è stata dichiarata l’inutilità. Ma questa è una ragione di più perché ritrovi, di fronte a questa guerra, la sua funzione istituzionale e la sua ragion d’essere.

L’alternativa è l’escalation della guerra, con il rischio sempre maggiore della sua degenerazione in una guerra nucleare. Ma anche al di là di questa terrificante prospettiva, la continuazione di questa guerra, oltre a produrre altri massacri e devastazioni nella povera Ucraina, non potrà che far crescere e, per così dire, istituzionalizzare la logica bellica dell’amico/nemico. La decisione del nostro Parlamento di aumentare di oltre il 50% le spese militari, la terribile decisione tedesca di finanziare con 100 miliardi di euro il proprio riarmo, l’opzione di Biden per il rafforzamento militare della Nato anziché per il confronto diplomatico, il compiacimento generale per la compattezza dell’Occidente in armi raggiunta in questa logica di guerra, la crescita dell’odio verso il popolo russo e l’informazione urlata e settaria sono tutti segni e passi di una corsa folle verso la catastrofe. E’ il trionfo della demagogia e dell’irresponsabilità, il cui costo è pagato oggi dal popolo ucraino e domani, se la corsa non si fermerà, dall’intera umanità e in particolare dall’Europa.

Esiste insomma una responsabilità istituzionale dell’Onu e il dovere della comunità internazionale di fare tutto ciò che è possibile fare al fine di ottenere la pace. E ciò che l’Onu può fare, e perciò deve fare è non lasciare sola l’Ucraina al tavolo del negoziato, bensì offrire i suoi organi istituzionali, l’Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza, come i luoghi e i soggetti della trattativa, che ben potrebbero essere convocati in seduta pubblica e permanente fino a quando non riusciranno a porre termine alla guerra. Sarebbe un’iniziativa eccezionale, senza precedenti, dotata di un enorme valore politico e simbolico, che varrebbe a segnalare la gravità dei pericoli che incombono sull’umanità, a rilanciare il ruolo dell’Onu e a impegnare tutti gli Stati in una riflessione sul futuro del mondo e a prendere sul serio il principio della pace stabilito dallo Statuto dell’istituzione della quale sono membri.

3. Due visioni del futuro del mondo 

E’ precisamente il futuro del mondo nel dopo guerra che dovrebbe stare al centro del dibattito politico e di politiche estere responsabili. In caso di scampato pericolo nucleare, gli esiti possibili di questa guerra saranno infatti due, tra loro opposti: il riarmo o il disarmo, la corsa a maggiori armamenti, in attesa della prossima guerra e, di nuovo, del rischio nucleare, oppure un risveglio della ragione e la comune riflessione sul possibile ripetersi del pericolo atomico e perciò sulla necessità, nell’interesse di tutti, di un progressivo disarmo, fino alla denuclearizzazione dell’intero pianeta.

La prima ipotesi, purtroppo la più miope e la più probabile, si manifesta nell’aumento delle spese militari degli Stati occidentali e in una militarizzazione delle nostre democrazie: dal riarmo della Germania all’aumento delle spese militari fino al 2% del Pil deciso dall’Italia e dagli altri Stati europei. «Pazzi», li ha chiamati papa Francesco, dichiarando di essersi per loro «vergognato». E’ l’ipotesi espressa dalla gara di insulti nei confronti di Putin nella quale si cimentano i leader occidentali, a cominciare dal presidente Biden – «macellaio», «criminale di guerra», «quest’uomo non può restare al potere!» –, che hanno il solo effetto di minare, o quanto meno di rendere più difficili i negoziati o peggio, essendo rivolti a un autocrate irresponsabile, di provocarlo e di indurlo ad allargare il conflitto fino a farlo precipitare in una terza guerra mondiale. Sono invettive che segnalano un intento inquietante: la volontà che la guerra prosegua per ottenere la sconfitta della Russia, o quanto meno la sua umiliazione nel pantano di una guerra fallita, per consolidare la subordinazione dell’Europa alla politica di potenza degli Stati Uniti ed anche, magari, per raccattare qualche voto alle elezioni americane di mid-term. Questa guerra diventa così l’occasione, per gli Stati Uniti e per l’apparato politico-mediatico schieratosi a suo sostegno, per un rilancio eticamente connotato dello scontro di civiltà tra democrazie e autocrazie, tra mondo libero e mondo incivile, onde ottenere la vittoria sul Male, anche a costo di mettere a rischio la sicurezza del mondo dal possibile olocausto nucleare.

La seconda ipotesi è quella pacifista, qui prospettata, dell’impegno della comunità internazionale a fermare immediatamente la guerra a qualunque, ragionevole costo: dall’assicurazione che l’Ucraina non entrerà nella Nato all’autonomia delle piccole regioni separatiste dell’Ucraina orientale, russofone e russofile, sulla base di un voto popolare nell’esercizio del diritto dei popoli all’autodeterminazione; in forza del quale, dice l’articolo 1 di entrambi i Patti internazionali sui diritti umani del 16 dicembre 1966, «tutti i popoli… decidono liberamente del loro statuto politico». Dal clima di pace generato dalla trattativa potrebbe uscire non soltanto la fine dell’aggressione all’Ucraina, ma anche una seria riflessione sul pericolo, mai così grave, del conflitto nucleare che sta correndo il genere umano. Potrebbe uscirne la consapevolezza comune della necessità di una rifondazione, mediante l’introduzione di idonee garanzie in tema di limitazioni della sovranità degli Stati, del patto di convivenza pacifica stipulato con la creazione dell’Onu. Il pericolo nucleare che stiamo correndo potrebbe inoltre indurre i paesi che ancora non l’hanno fatto ad aderire al Trattato sul disarmo nucleare del 7 luglio 2017, già sottoscritto da ben 122 paesi, cioè da più dei due terzi dei membri dell’Onu. Potrebbe, soprattutto, convincere gli Stati Uniti ad annullare il loro ritiro, deciso il 2 agosto 2019 dal presidente Trump, dal trattato del 1987 sul disarmo nucleare e indurre tutti gli Stati dotati di tali armamenti a riprendere questo graduale processo fino al totale disarmo. Oggi, nel mondo, ci sono 13.440 testate nucleari (erano 69.940 prima del trattato sul disarmo del 1987), in possesso di nove paesi: 6.375 in Russia, 5.800 negli Stati Uniti, 320 in Cina, 290 in Francia, 215 nel Regno Unito, 160 in Pakistan, 150 in India, 90 in Israele e 40 nella Corea del Nord. E’ stato calcolato che bastano 50 di queste bombe per distruggere l’umanità. Questo significa che con questi armamenti il genere umano può essere cancellato dalla faccia della Terra per ben 270 volte.

Alla discussione su queste due ipotesi non sta portando nessun contributo il dibattito pubblico, che sta svolgendosi in un clima avvelenato da contrapposizioni radicali. Non è un dibattito basato sul dialogo, sul confronto razionale e sul rispetto delle opinioni altrui, ma uno scontro fondato sull’opposizione amico/nemico, sul sospetto della malafede degli interlocutori e sulla loro squalificazione morale, o come putiniani o come guerrafondai. Del tutto assenti sono l’atteggiamento problematico, l’incertezza, il dubbio, l’interesse per le idee diverse dalle nostre, la consapevolezza della complessità e dell’ambivalenza delle questioni, che sempre dovrebbero informare la discussione pubblica.

Le questioni sulle quali il dibattito politico è stato più acceso e tra sordi sono due: quella dell’invio di armi all’Ucraina e quella dell’aumento della spesa militare fino al 2% del pil. Sono questioni diverse, che l’alternativa fra le due ipotesi sopra illustrate consente forse di affrontare con lungimiranza. La prima è un dilemma morale tra la solidarietà giustamente dovuta al popolo ucraino, i cui esponenti hanno più volte richiesto l’invio delle armi, e il prolungamento che ne seguirebbe del conflitto e delle stragi. Trattandosi di un autentico dilemma morale, non hanno senso le accuse che si scambiano i sostenitori delle due opzioni. Ci sono validi argomenti a sostegno di entrambe.

A mio parere il maggiore argomento contro l’invio delle armi consiste, oltre che nel rischio che esso possa essere inteso come cobelligeranza in un conflitto destinato a durare e a produrre altri massacri, nella sua decisione insieme a quella di un aumento delle spese militari. Questa seconda decisione è chiaramente a sostegno della logica della guerra, se non altro perché tale aumento è già avvenuto, ininterrottamente, da oltre venti anni. Rispetto al 2019 l’aumento, nel 2020, è stato del 2,6% a livello globale e ben del 7,5% in Italia. La spesa complessiva nel mondo è giunta quasi a 2000 miliardi di dollari l’anno, dei quali il 39% (776 miliardi, contro i 252 della Cina e i 62 della Russia) spesi dai soli Stati Uniti che hanno riempito il pianeta di ben 800 basi militari. A cosa serve, domandiamoci, accumulare ulteriori, inutili armamenti, se non ad alimentare il clima di guerra e ovviamente a soddisfare gli interessi del complesso militar-industriale? Entrambe le opzioni, l’invio di armi alla resistenza ucraina e l’aumento delle spese militari risultano perciò accomunate da un’opzione militarista: dall’idea suicida delle armi come unica soluzione strategica delle controversie internazionali, in letterale contrasto con l’articolo 1 della Carta dell’Onu, con l’articolo 11 della Costituzione italiana e, più in generale, con i principi della pace e dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani nei diritti fondamentali. Un’uguaglianza, dobbiamo aggiungere, che continuiamo a sbandierare come un valore dell’Occidente aggredito e, insieme, a violare nei confronti dei quattro quinti dell’umanità.

4. Per una Costituzione della Terra

E’ su quest’ultimo punto che voglio soffermarmi. Non possiamo continuare a parlare decentemente di difesa della democrazia, dei principi di uguaglianza e dignità della persona e di universalismo dei diritti umani minacciati dalle autocrazie, fino a quando questi principi resteranno un privilegio dei nostri paesi – non più di un miliardo di persone su quasi otto miliardi di esseri umani – mentre per il resto del mondo non sono altro che vuota retorica. Non possiamo continuare a declamarli come i “valori dell’Occidente”, mentre quei principi, proclamati come universali da tutte le carte dei diritti, non sono garantiti a tutti gli esseri umani ma solo a una loro esigua minoranza. Giacché quei valori o sono universali, oppure non sono. Oggi le nostre democrazie sono in declino, sottoposte alla doppia minaccia dell’onnipotenza delle maggioranze politiche sradicate dalle loro basi sociali e dei poteri dei mercati globali. Ma, soprattutto, i diritti umani e i principi di uguaglianza e dignità delle persone, proclamati in tante carte costituzionali e internazionali, sono promesse non mantenute: attuate, oltre tutto malamente, in pochi paesi privilegiati e vistosamente e sistematicamente violate per il resto dell’umanità, anche a causa delle politiche di rapina, di sfruttamento e di esclusione praticate dal civile Occidente. La loro conclamata inviolabilità, come la loro indivisibilità e universalità altro non sono che parole, contraddette dalle loro violazioni sistematiche e dalla loro mancata attuazione, per mancanza di garanzie, in gran parte del mondo. In assenza di una sfera pubblica mondiale capace di garantirli, le disuguaglianze sono destinate a crescere, i poteri globali, sia politici che economici, non possono che svilupparsi in forme selvagge e distruttive, le violazioni massicce dei diritti umani non possono che dilagare e tutti i problemi globali non possono che aggravarsi.

C’è dunque una questione di fondo che questa guerra impone di affrontare. La guerra, e prima ancora la pandemia, hanno mostrato in tutta la loro drammaticità l’inadeguatezza delle istituzioni internazionali esistenti e soprattutto il pericolo rappresentato dal vuoto di garanzie nei confronti dei poteri selvaggi degli Stati sovrani e dei mercati globali. Le due tragedie – pandemia e guerra – sono per molti aspetti opposte. La pandemia, con i suoi 6 milioni di morti, ha mostrato l’interdipendenza e la comune fragilità dell’umanità, l’insensatezza dei confini e dei conflitti identitari e la disponibilità alla solidarietà delle pubbliche opinioni ed anche della politica. La guerra, con le sue migliaia di morti, le città devastate e più di 10 milioni di sfollati, sta generando, al contrario, odi tra popoli, logiche politiche dell’amico/nemico, lacerazioni tra nazionalità che non sarà facile rimarginare. Entrambe le tragedie sono tuttavia una drammatica conferma dell’insensatezza e della pericolosità dello stato attuale del mondo e segnalano la necessità e l’urgenza di una rifondazione dell’Onu basata su una Costituzione della Terra alla loro altezza. E’ questo il progetto del movimento “Costituente Terra” formatosi a Roma nell’assemblea del 21 febbraio 2020 e da me illustrato nel libro Per una Costituzione della Terra, pubblicato quest’anno da Feltrinelli.

Oltre alla guerra e alle pandemie, sono molte altre le sfide e i pericoli che minacciano il futuro dell’umanità e che solo un costituzionalismo globale può fronteggiare. Anzitutto l’emergenza ecologica, che la guerra sta aggravando e insieme rimuovendo dall’orizzonte della politica, ma che continua ad essere la minaccia forse più grave per il futuro dell’umanità. Per la prima volta nella storia il genere umano, a causa del riscaldamento climatico, rischia l’estinzione per la progressiva inabitabilità di parti crescenti del nostro pianeta. Da molti decenni la concentrazione nell’aria di anidride carbonica cresce in maniera progressiva: ogni anno, costantemente, viene immessa nell’atmosfera una quantità di CO2 maggiore di quella immessa l’anno precedente. E’ chiaro che fino a quando questo processo non sarà invertito, vorrà dire che stiamo andando verso la rovina.

C’è poi l’emergenza diritti. La globalizzazione, con il potere delle grandi imprese di dislocare le loro attività produttive nei paesi nei quali è possibile lo sfruttamento illimitato dei lavoratori, ha svalorizzato il lavoro a livello globale, cancellandone nei paesi avanzati le garanzie conquistate in un secolo di lotte e riducendo il lavoro, nei paesi poveri, a forme e a condizioni para-schiavistiche. A causa della miseria crescente, inoltre, muoiono ogni anno, nel mondo, otto milioni di persone per mancanza di alimentazione di base e altrettante per mancanza di cure mediche e di farmaci salva-vita, vittime del mercato, oltre che delle malattie, giacché i farmaci in grado di salvarli non sono disponibili nei loro paesi poveri, o perché brevettati e perciò troppo costosi, o perché non più prodotti per mancanza di domanda dato che riguardano malattie – infezioni respiratorie, tubercolosi, Aids, malaria – debellate e scomparse nei paesi ricchi. Di qui il dramma di decine di migliaia di migranti, ciascuno dei quali ha alle spalle una di queste tragedie. Di qui l’odio per l’Occidente, il discredito dei suoi valori politici, lo sviluppo della violenza, dei razzismi, dei fondamentalismi e dei terrorismi.

E’ chiaro che sfide globali di questa portata richiedono risposte globali: il progressivo disarmo, non soltanto nucleare, di tutti gli Stati e la messa al bando di tutte le armi come beni illeciti; il superamento degli eserciti nazionali auspicato più di due secoli fa da Kant e la realizzazione, a garanzia della pace e della sicurezza, del monopolio della forza in capo all’Onu e alle polizie locali; l’istituzione di un demanio planetario che sottragga i beni comuni e vitali – l’aria, l’acqua potabile, le grandi foreste e i grandi ghiacciai – alle appropriazioni private, alla mercificazione e alle devastazioni ad opera del mercato; l’introduzione di divieti, finalmente sanzionati, delle emissioni di gas serra e della produzione di rifiuti comunque velenosi; l’uguaglianza nei diritti e nella dignità di tutti gli esseri umani tramite la creazione di istituzioni globali di garanzia di tutti i diritti fondamentali, dai diritti di libertà ai diritti sociali alla salute, all’istruzione, all’alimentazione e alla sussistenza, come un servizio sanitario e un sistema scolastico mondiali con ospedali, farmaci, vaccini, scuole e università in tutto il mondo; l’unificazione del diritto del lavoro e la globalizzazione delle garanzie dei diritti dei lavoratori, in grado di assicurarne l’uguaglianza e la dignità contro l’odierno sfruttamento illimitato; l’istituzione di una Corte costituzionale sovrastatale, con il potere di invalidare tutte le fonti normative che violano diritti umani, e la trasformazione da volontaria in obbligatoria delle competenze della Corte di giustizia e della Corte penale internazionale; l’introduzione infine di un adeguato fisco globale progressivo in grado di finanziare le istituzioni globali di garanzia e di impedire le attuali concentrazioni illimitate della ricchezza.

Misure di questo genere, è evidente, possono essere imposte solo da una rifondazione della Carta dell’Onu ad opera di una Costituzione della Terra rigidamente sopraordinata alle fonti statali e ai mercati globali. Solo una Costituzione della Terra che introduca le funzioni e le istituzioni globali di garanzia dei diritti proclamati in tante carte e convenzioni può rendere credibili il principio di uguaglianza e l’universalismo dei diritti umani. Solo una Costituzione mondiale, che allarghi oltre gli Stati il paradigma del costituzionalismo rigido sperimentato nelle nostre democrazie può trasformare promesse ed impegni politici, come quelli presi in materia di ambiente dai G20 a Roma e poi a Glasgow, in limiti e in obblighi giuridici effettivamente vincolanti.

Non si tratta di un’utopia. Si tratta invece dell’unica risposta razionale e realistica allo stesso dilemma che fu affrontato quattro secoli fa da Thomas Hobbes: la generale insicurezza determinata dalla libertà selvaggia dei più forti, oppure il patto razionale di sopravvivenza e di convivenza pacifica basato sul divieto della guerra e sulla garanzia della vita. Con una differenza di fondo, che rende il dilemma odierno enormemente più drammatico: la società naturale dell’homo homini lupus ipotizzata da Hobbes è stata sostituita da una società di lupi non più naturali, ma artificiali – gli Stati e i mercati – dotati di una forza distruttiva incomparabilmente maggiore di qualunque armamento del passato. Diver­samente da tutti gli orrori del secolo scorso – perfino dalle guerre mondiali e dai totalitarismi – la ca­tastrofe ecologica e quella nucleare sono ir­reversibili: c’è infatti il pericolo, per la prima volta nella storia, che si acquisti la consapevolezza della necessità di cambiare strada quando sarà troppo tardi.

Neppure si tratta di un’invenzione, né di un mutamento dell’attuale paradigma costituzionale. Si tratta, al contrario, di un suo inveramento, cioè di un’attuazione del principio della pace e dell’universalismo dei diritti umani quali diritti di tutti già stabiliti nella Carta dell’Onu e in tante carte costituzionali e internazionali. La logica intrinseca del costituzionalismo, con i suoi principi di pace e di uguaglianza nei diritti umani, non è nazionale, ma universale. Gli Stati nazionali e le loro costituzioni sono d’altro canto impotenti di fronte alle sfide globali, le quali richiedono risposte e garanzie giuridiche a loro volta globali. E il patto di convivenza pacifica stipulato con la Carta dell’Onu e con le tante carte internazionali dei diritti è fallito per due ragioni: perché contraddetto dalla persistente sovranità degli Stati e dalle loro cittadinanze disuguali, e perché non sono state istituite le necessarie garanzie globali, senza le quali i diritti e i principi di giustizia pur solennemente proclamati si riducono a ingannevole ideologia.

A questa prospettiva viene contrapposta, in nome del realismo politico, l’idea del suo carattere utopistico e irrealizzabile. Io penso che dobbiamo distinguere due tipi opposti di realismo: il realismo volgare di chi naturalizza la realtà sociale e politica con la tesi “non ci sono alternative a quanto di fatto accade”, e il realismo razionalista, secondo il quale le alternative ci sono, dipende dalla politica adottarle e la vera utopia, l’ipotesi più irrealistica, è l’idea che la realtà possa rimanere a lungo come è: che potremo continuare a basare le nostre democrazie e i nostri spensierati tenori di vita sulla fame e la miseria del resto del mondo, sulla forza delle armi e sullo sviluppo ecologicamente insostenibile delle nostre economie. Tutto questo non può durare. E’ lo stesso preambolo alla Dichiarazione dei diritti del 1948 che stabilisce, realisticamente, un nesso di implicazione reciproca, quale solo una Costituzione della Terra e le sue istituzioni di garanzia possono assicurare, tra pace e diritti, tra sicurezza e uguaglianza e, dobbiamo aggiungere oggi, tra salvataggio della natura e salvataggio dell’umanità.

D’altro canto l’umanità forma già un unico popolo. Sessanta anni fa, ricordo, eravamo, sul pianeta, 2 miliardi di persone, ma quel che succedeva dall’altra parte del mondo non ci riguardava. Oggi la popolazione mondiale è arrivata a 8 miliardi, ma siamo tutti interconnessi, sottoposti al governo globale dell’economia ed esposti alle stesse emergenze e catastrofi planetarie. Siamo perciò un unico popolo, meticcio ed eterogeneo, ma unificato dagli stessi interessi alla sopravvivenza, alla salute, all’uguaglianza e alla pace, che solo la miopia dei poteri politici non è in grado di vedere e che anzi occulta con la difesa dei confini. La logica schmittiana dell’amico/nemico è una costruzione propagandistica a sostegno dei populismi e dei regimi autoritari che sta oggi contagiando, purtroppo, anche le nostre democrazie. Se i massimi governanti del pianeta, anziché impegnarsi sulla base di questa logica nelle loro miopi e miserabili politiche di potenza, fossero capaci di trarre lezioni dalla storia, questa terribile guerra in Ucraina sarebbe una fonte inesauribile di insegnamenti. Insegnerebbe – contro l’insensatezza delle guerre, delle armi, dei confini, dei nazionalismi e dei conflitti identitari – il valore razionale, nell’interesse di tutti, della pace universale e dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani in dignità e diritti e la necessità delle garanzie necessarie ad assicurarle.

[ * ] Il presente contributo costituisce anticipazione del fascicolo di Questione Giustizia trimestrale, di prossima pubblicazione, dedicato ai temi della guerra e della pace.

Storia e valori della rivista Questione Giustizia
La giustizia è molto più della giurisdizione e della magistratura. In una società moderna non ci può essere giustizia senza un potere autonomo che concorre a ristabilire equilibri là dove i governanti non danno risposte giuste e là dove non sono rispettati i diritti e i doveri esistenti. Ma nessun potere può bastare a questo scopo in una società ingiusta e all’interno di un sistema istituzionale squilibrato.
Da questa consapevolezza sono nate Quale Giustizia negli anni ‘70 e Questione Giustizia nel 1982: in una società di privilegi le leggi possono diventare fattore di ingiustizia sostanziale e la Costituzione stessa può essere piegata a interessi di una minoranza potente in danno della parte restante e più debole del Paese.
Il contrasto al formalismo giuridico si è accompagnato nella storia delle due Riviste alla volontà di ricercare sempre con serietà un approccio ai problemi che sia scientifico, critico, politicamente consapevole. Di qui lo studio dedicato all’evoluzione delle istituzioni, alle istanze sociali e di promozione dei diritti, al travaglio di chi lotta per la tutela di questi e alla giurisprudenza più attenta ai valori costituzionali. Di qui la critica alle politiche, alle prassi e alle decisioni ritenute non conformi ai valori fondanti la Repubblica. Promossa da Magistratura democratica, Questione Giustizia non è mai stata strumento di un progetto maturato altrove, con la convinzione che le idee non hanno padroni e vivono in coloro che le fanno proprie, le praticano, le fanno crescere. Partendo dalla certezza che la Costituzione vive nella e attraverso la sua applicazione quotidiana, la Rivista ha cercato di fare delle prassi giudiziarie, della giurisprudenza e dei percorsi istituzionali l’oggetto privilegiato di analisi. Al non negare la politicità del lavoro del magistrato la Rivista ha affiancato analisi e riflessioni che possano aiutare i magistrati a gestirla consapevolmente e aiutare la cultura giuridica a confrontarsi con quella caratteristica senza approcci pregiudiziali e senza timori errati.
Questo la Rivista ha cercato di fare nei 33 anni della propria vita e continuerà a fare con le nuove forme editoriali e con gli strumenti che la tecnologia mette oggi a disposizione. A partire dal 2013, alla rivista trimestrale si affianca Questione giustizia online, rivista ad accesso libero e quotidianamente aggiornata.

VITE DI CARTA /
Fabio Bacà: la benevolenza dell’universo

 

Ero rimasta al concetto di tyche, equivalente greca della fortuna dei Romani, nel suo volto ancipite di buona e di cattiva sorte, qualcosa di simile al caso, ma con la convinzione aggiuntiva che a determinare il corso degli eventi possiamo dare un contributo con la nostra forza di intrapresa dentro la vita. Machiavelli l’ha chiamata virtù e le ha assegnato il cinquanta per cento delle possibilità; personalmente credo che la percentuale sia fluttuante da persona a persona.

benevolenza cosmica fabio bacàOra però mi esce da un libro recente di Fabio Bacà, la sua opera prima dal titolo Benevolenza cosmica, la riflessione intrigante di Kurt O’Reilly, un ricco e giovane londinese la cui vita ha subito un deciso cambio di rotta.

Kurt si interroga sui “picchi statisticamente anomali di buona sorte” da cui si sente colpito, visto che da circa tre mesi a questa parte nulla gli va storto. Mi intrigano  le “tagliole semantiche” in cui cade, mentre cerca di capire cosa gli sta succedendo, mentre chiama in causa  parole come karma, come destino, o ancora cerca ragguagli nella statistica, nella quale è particolarmente esperto.

La narrazione in prima persona immette il lettore dentro la testa del protagonista e con questa inquadratura in soggettiva il libro procede in un viaggio strampalato fatto di incontri con terapeuti, amici e consulenti a vario titolo, a cui egli chiede aiuto.

Si dimentica perfino degli appuntamenti di lavoro, o li affronta distrattamente. Perde i contatti con la sua efficientissima segretaria, pensa poco alla moglie da cui vive separato pur occupando un piano della stessa casa.

Nella sua solitudine cerca le categorie idonee a rapportarsi con l’universo, proprio ora che la benevolenza cosmica lo ha abbracciato. Chi potrà rispondergli? Due interlocutori in particolare: una elegante psicologa dal nome fortemente simbolico, Lucia, che ha molto viaggiato, lavorando come modella e molto si è occupata di arte e letteratura. E il “vecchio professore di filosofia” che lo riceve nella propria casa.

La risposta di Lucia contiene un altro caso umano come il suo: “Parecchi anni fa, in un villaggio dell’India, ho conosciuto un uomo che mi disse di avere il suo stesso problema: da mesi la fortuna lo favoriva in maniera vergognosa. E non solo non riusciva a goderne, proprio come lei, ma si sentiva terribilmente in colpa.

Un senso di colpa che non era rivolto a un generico prossimo… bensì a un preciso individuo…legato karmicamente a lui in virtù di chissà quali precedenti incarnazioni. Qualcuno che doveva trovare a ogni costo, prima che gli opposti eccessi fossero fatali a entrambi”.

Kurt ottiene una traccia su cui camminare, dentro di sé e fuori nelle strade di Londra. Si mette alla ricerca del suo “antagonista spirituale”, colui o colei che è rimasto colpito da eventi negativi in modo speculare alle sue fortune. Per sanare la propria disperazione. Per ristabilire un equilibrio tra buona e cattiva sorte dentro le esistenze di entrambi.

Kurt dice di credere di più nel destino, “in quanto evoca un caos imperscrutabile da cui erompono accidentali premi o punizioni, esiti a cui la condotta degli esseri viventi non sarebbe direttamente collegata”.

Eppure le acque in cui nuota si intorbidano ora che inizia la ricerca dell’altro a cui lo lega un karma opposto. Il karma nel libro è definito come “la somma dei comportamenti di un essere umano e dei crediti (o debiti) spirituali che ne derivano, contabilizzati con scrupolo certosino da una presunta assise di divinità”. “Una specie di portfolio”, ho scritto in margine a queste righe. Un bel cambiamento nella bussola valoriale di Kurt.

Ora anche lui suppone che ci possano essere degli “ombrosi demiurghi, da qualche parte lassù”?

Ma c’è dell’altro. Mi intriga una riflessione che fa davanti al suo professore di filosofia, ci ritrovo l’epicentro del sisma speculativo che attraversa il libro. Il professor Lack lo ha ascoltato e ora riflette con lui sui doveri che comporta l’essere adulto, sulle responsabilità che conseguono alla fortuna che gli è capitata: la più grande sarebbe fare del bene al prossimo.

Mi pare funzionale alla storia questa idea della condivisione del bene che sgrava il protagonista dal peso troppo oneroso della benevolenza universale. Ma soprattutto mi colpiscono le parole che egli sceglie per spiegare al suo interlocutore quanto sia disumana la sua sfacciata fortuna: “Non voglio vivere una vita in cui mi sia proibito di accedere alle sensazioni limbiche di timore, angoscia, senso d’ignoto, vuoto, viltà, invidia, disprezzo, rancore e attrazione per il lato sbagliato delle cose…

E io non voglio essere qualcosa di diverso da un uomo. Non voglio svegliarmi ogni mattina con un sorriso idiota in faccia al pensiero di tutte le cose belle che accadranno, avendo la certezza che accadano. Non voglio la certezza, intendo: la speranza è già sufficiente”.

Qui sta il punto centrale della idea di umanità che conosco e qui avviene l’incontro con un altro libro, un libro che ognuno di noi conosce per avere al centro l’eroe per eccellenza della cultura occidentale, Ulisse.

Quando Calipso tenta di farlo restare con lei sull’isola di Ogigia a vivere la vita beata degli immortali, Ulisse sceglie di rimettersi in mare e di restare un mortale. Dal libro V dell’Odissea escono le parole suadenti della ninfa, che paventa per il suo amato le difficoltà del viaggio “sul mare scuro come vino” e lo vorrebbe accanto a custodire per sempre la dimora in cui si è fermato da sette lunghi anni.

Nel risponderle che sceglie di ritornare a Itaca a ritrovare la propria moglie e la casa, Ulisse rifiuta l’ultima seduzione della ninfa, rifiuta il nascondiglio nebbioso di Ogigia per affrontare il rischio della vita dei mortali. Per riappropriarsi del suo destino eroico di guerriero, di sposo, di padre, di re.

Anche per un personaggio contemporaneo come è Kurt, diseroicizzato e in conflitto con i paradossi del quotidiano, è il ritorno a casa la chiave risolutiva dei propri conflitti. Un ritorno alle persone che abitano la sua casa, con la sorpresa di avere dato inizio a un nuovo futuro.

Non dico altro, ma le mie parole lasciano intendere che Benevolenza cosmica ha un finale più che lieto. Questo non toglie spessore al viaggio che Kurt ha compiuto fuori e dentro se stesso per configurare la propria vita secondo una formula nuova.

Se Ulisse, molte pagine scritte prima di lui, ha dato inizio al prototipo dell’uomo moderno che sfugge alla determinazione divina, acquisisce consapevolezza di sé e trova margini di autodeterminazione  e di scelta, Kurt è sottoposto al potere disgregante della complessità e approda con la propria ricerca e col sacrificio di sé al ritrovamento di un equilibrio e del senso.

A stabilire un patto nuovo: una vita normale, “in balia delle mattane della statistica, del karma o del destino come chiunque altro”, ma non per sé. Per l’antagonista spirituale a cui scopre di avere dato vita, a cui riserva tutto l’amore di cui è capace.

Nel testo faccio riferimento a due testi:

  • Fabio Bacà, Benevolenza cosmica, Adelphi, 2019
  • Omero, Odissea – libro V, in Libri da leggere, Einaudi scuola, 2012, a cura di Eva Cantarella e con la traduzione dal testo greco di G.A.Privitera

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

LO STESSO GIORNO
Radio Alice riempie Bologna di Bella Ciao

25 aprile 1976: Bella Ciao di Radio Alice

fm 100.6 Mhz. La frequenza utilizzata da Radio Alice dal 9 Febbraio 1976 fino alla chiusura da parte della polizia del 12 marzo 1977.
Erano anni di fervore giovanile e di lotta studentesca. Residui dei movimenti giovanili ed operai del sessantotto sfociarono in quel ’77 in un nuovo movimento politico giovanile. Il movimento che contestava società e politica, partiti e sindacati, che metteva in discussione la stessa tipologia delle organizzazioni studentesche ebbe tra gli scenari favoriti Bologna, detta la ‘Rossa’.
Proprio a Bologna, città famosa per l’Università e l’attivismo politico, un gruppo di amici in maggioranza studenti del DAMS e vicini all’area di Autonomia Operaia fecero nascere Radio Alice.
A metà di via del Pratello, utilizzando un trasmettitore militare appartenente a un vecchio carro armato americano della seconda guerra mondiale, il 9 febbraio 1976 per la prima volta andò in onda la radio libera di Bologna.

Radio Alice si distinse tra le tante radio libere. Non era solamente una radio politica. All’interno del suo palinsesto radiofonico infatti, si alternavano letture di poesie, discussioni filosofiche, stralci di libri, dichiarazioni d’amore, commenti ai fatti del giorno, ricette, comunicazioni sindacali. I ragazzi la ascoltavano per strada e in casa, quella frequenza che non smetteva mai di trasmettere. La radio era sempre sintonizzata anche durante le manifestazioni e gli scontri, in quella città presidiata dai militari la voce dei giovani passava sulla frequenza 100.6 MHz.
Come  l’Alice del film Disney insegue il  Bianconiglio nella sua tana e finisce in un mondo illusorio fatto di viaggi, paradossi e nonsense, così la radio bolognese scopre che la realtà non ha una sola faccia, ma esiste un mondo diverso.
Nel portare avanti il proprio messaggio di rottura Radio Alice fece delle rivoluzioni anche in campo radiofonico, prima di tutte mandare in onda le chiamate:

«Abbiamo occupato la presidenza e vi parliamo con il telefono del preside, sentite come
urla… Voleva impedirci lo scrutinio aperto e incularci nel quadrimestre»

«Siamo operaie in sciopero di due ore, vogliamo che ci trasmettiate della musica e vogliamo
parlarvi delle 35 ore, che è ora che se ne parli nei contratti»

«Sporchi comunisti ve la faremo pagare cara questa radio, sappiamo chi siete» [e subito
dopo, altra telefonata] «Siamo del comitato antifascista dell’Ospedale Rizzoli, non
preoccupatevi e chiamateci se succede qualcosa, siamo qui giorno e notte»

Chiunque poteva chiamare e dire la propria opinione o lanciare il proprio messaggio, e anzi, più volte
durante le trasmissioni gli speaker invitavano a farlo. Oggi questa pratica non sembra niente di particolare, chiunque in radio invita gli ascoltatori a chiamare. Allora però non era così. Questa grande rivoluzione interpretava a pieno il senso della radio racchiuso in poche parole nello slogan:  «dare voce a chi non ha voce». Durante i momenti di cronaca cittadina il telefono il punto di riferimento per i “cronisti di strada”, i giovani che erano scesi in piazza e spiegavano in diretta cosa stava succedendo.

Come ogni anno in questo stesso giorno, il 25 aprile 1976, a Bologna come in tante città italiane si scese in piazza e manifestare in memoria della liberazione dal nazifascismo.
Il fervore e la rabbia erano dominanti però nei giovani. La rottura e il contrasto generazionale muoveva quei ragazzi, studenti e non. Cresciuti con le storie della resistenza partigiana si sentivano traditi e non rappresentati. Aspiravano a una nuova liberazione da quella gabbia sociale, credevano in un mondo solidale ed egualitario.
Quel 25 aprile migliaia di radio si sintonizzarono sul 100.6MHz. C’era chi aveva portato la propria radio per strada, in piazza, chi aveva aperto le finestre dell’appartamento e aveva puntato le casse verso i tetti rossi, erano persino dentro le università. Erano migliaia le radio sintonizzate e tutte a pieno volume. Così, quando Radio Alice fece partire Bella Ciao, in tutta Bologna riecheggiò quel canto popolare divenuto ormai simbolo della Resistenza. A far risuonare le parole di quel canto erano proprio loro, gli studenti e i giovani lavoratori che ogni giorno scendevano in piazza aspirando a un futuro migliore.

Purtroppo quella radio innovativa e libera ebbe una vita molto più breve di quanto si meritasse.
L’11 Marzo del ’77 nuovi scontri tra militanti e forze dell’ordine vanno in scena in diverse parti della città. Dopo numerose azioni da una parte e dall’altra verso le ore 13 il culmine: un colpo di pistola sparato dal Carabiniere Tramontani uccise Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua.
Il giorno seguente ai violenti scontri successivi all’assassinio le forze dell’ordine entrarono dentro Radio Alice, arrestarono tutti i presenti, e soffocarono quella voce di speranza che la radio rappresentava.

Ogni lunedì, per non perdere la memoria, seguite la rubrica di Filippo Mellara Lo stesso giorno. Tutte le precedenti uscite [Qui]

La metamorfosi dei Wilco,
vent’anni fa

Faccio un po’ fatica a fidarmi di quella storiella secondo cui diamo il meglio di noi in mezzo alle avversità. A ben guardare, gli ingredienti sono gli stessi di altri luoghi comuni o slogan motivazionali: bias cognitivo, retorica dal sapore confortante e un piccolo fondo di verità, il quale andrebbe soppesato e contestualizzato con molta cautela.

Tuttavia, uno degli album indie-rock a me più cari, nonché uno dei più apprezzati e influenti degli anni ‘10, è il frutto di innumerevoli avversità: dal licenziamento di due membri della band alla vicenda legale che ne allungò i tempi di uscita, passando per le emicranie del leader Jeff Tweedy. La band in questione sono i Wilco, l’album è invece il chiacchieratissimo Yankee Hotel Foxtrot, pubblicato esattamente vent’anni fa.

Le difficoltà del quintetto di Chicago sono ben visibili in un documentario diretto dal regista e fotografo Sam Jones [Qui], il cui l’utilizzo del bianco e nero aggiunge drammaticità all’estenuante battaglia legale con la casa discografica Reprise e al conseguente slittamento della data di uscita del disco. Tra l’altro, l’ex giornalista di Billboard Chris Morris ha definito quel documentario “uno dei migliori film sull’inevitabile scontro fra arte e mercato”.

Sta di fatto che Yankee Hotel Foxtrot è un album stralunato e difficilmente inquadrabile. Sin dai primi secondi di I Am Trying To Break Your Heart, l’intento di Jeff Tweedy è piuttosto chiaro: il già atipico country-folk dei Wilco viene destrutturato e spogliato di qualsiasi cliché, e ciò che ne resta si fonde a più riprese con il prog-rock, il gospel e un po’ di musica ambient.
Tra interferenze dissonanti e voci soffuse, il senso di smarrimento è dietro l’angolo, specialmente al primo ascolto: lo stesso smarrimento che devono aver provato i Wilco nel realizzare, e poi pubblicare, quei benedetti 52 minuti di musica.

Quindi, l’esperienza dei Wilco conferma che c’è bisogno di un ostacolo, di un antagonista o di un dramma per eccellere? Può darsi, ma non facciamoci prendere la mano. Nel caso di Yankee Hotel Foxtrot è andata più o meno così; d’altronde, in War On War è lo stesso Jeff Tweedy a ripetere, quasi come se fosse un mantra, le seguenti parole.

“You have to lose
You have to learn how to die
If you want to be alive”

PER CERTI VERSI
La dittatura, la liberazione e noi

LA DITTATURA, LA LIBERAZIONE E NOI

Mio babbo
Mi ha raccontato
Ancora
Del Fascismo
Mi fa vedere
Il suo atlante
Di geografia
Razzista
Povera Africa
Spartita
I bianchi…
Poi la guerra
L’ultima cartolina
Dello zio
Dalla Yugo
Lo zio in Russia
Morto assiderato
Poi le bombe
Il rifugio
Pippo
Un solo coniglio
Se no fame
Ma era un coniglio?
Il partigiano
Licurgo Fava
Trascinato
Per Medicina
Torturato
Fucilato
Davanti alla Chiesa
Medaglia d’oro
Grazie Licurgo
A te e a tutti
Quelli e quelle
Come te
Come voi…
Poi
La Liberazione
Suo nonno esce
Dal rifugio
I cecchini fascisti
Lo freddano
L’ultima vigliaccata…
Lo portano al cimitero
Con una carriola

Chi parla di dittatura
Oggi
L’ha solo letta
Non sa cosa sia
Me compreso
Abbia cura
Di certe parole
Premura
Ricordi
Che cosa è stato

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
[Qui]

Sventurata è la Terra che ha bisogno di eroi (altrui)

 

Dopo la tredicesima stazione della Via Crucis con la croce portata insieme, nel silenzio, da Irina e Albina, due infermiere amiche, una ucraina, una russa (quale fosse ucraina e quale russa non aveva e non ha la minima importanza); dopo questa spoglia e muta rappresentazione di cosa è il calvario dei nostri giorni, un ossimoro pensando all’impossibilità, resa possibile da Papa Bergoglio, di celebrare la Passione in modo muto e spoglio dentro una cornice urlante e gladiatoria (il Colosseo), dentro una Chiesa magniloquente e corrotta; dopo questo, non sarebbe decoroso scrivere di guerra.

Dopo questo, tutto il chiacchiericcio inane sulla guerra combattuta dai divani suonerebbe irritante, oltraggioso; blasfemo, aggettivo che fatico a pronunciare a causa della mia difficoltà nel riconoscere la religione, ma che per Papa Francesco mi lascio sfuggire dalle labbra senza pudore. Anche perché lui ha fatto un gesto spudorato: un gesto di pace, e la pace non esiste, esiste solo una tregua, come scriveva Primo Levi. Eppure, allo stesso tempo, in questi giorni è impossibile sfuggire alla terribile fascinazione della guerra, così come lo era sfuggire alla temibile fascinazione della pandemia. La cifra comune di queste due onnivore narrazioni è sicuramente la paura. Ormai la narrazione del mondo è un romanzo distopico scritto a più mani, alcune sapienti, altre penose.

Ho paura per la sofferenza del mondo, che nella mia mente non è un concetto astratto, ma molto concreto: il posto in cui vivo io e vivranno i miei discendenti. Ho paura che la situazione bellica sfugga di mano, che per errore o disperazione omicida si inneschi una situazione che comprometta il futuro delle prossime generazioni. Ho paura che l’incertezza di questo tempo si trasformi nella certezza di sofferenze e di sacrifici. Ho paura di lasciare un luogo peggiore di quello in cui sono nato, un luogo devastato, saccheggiato, avvelenato. Una natura ostile, resa tossica e vendicativa dalle nostre scelleratezze.

Un miracolo della creazione trasformato in un pessimo posto in cui vivere, talmente rovinato da non sapere più dove scappare. Ho paura dell’avverarsi della profezia di Albert Einstein, che la quarta guerra mondiale l’avremmo combattuta con le clave. All’ombra di questi fantasmi si nasconde la orribile sensazione di avere fallito come individuo che pretenderebbe di avere una coscienza sociale, oltre al livido sospetto di stare fallendo come specie umana.

Un’ altra grande paura è quella di essere chiamato ad eseguire degli ordini manifestamente criminosi. Non li eseguirei mai, di questo sono sicuro. Sarei però terrorizzato (e lo sono già) dal clima nel quale sarebbe piombato il mio spicchio di mondo per istigarmi a questo, e avrei certamente timore delle conseguenze della mia renitenza. Penso molto in questi giorni agli uomini ucraini e russi che nel loro paese sono accusati di tradimento perché si rifiutano di combattere, perché scappano o disertano. Mi riconosco nei loro sentimenti e nelle loro scelte. Questi uomini non hanno più paura di morire di quanta ne abbiano di uccidere. Ogni essere umano non accecato dal fanatismo dovrebbe seriamente fermarsi a riflettere su questa scelta.

Quando sento parlare di “eroica resistenza degli ucraini” da parte di qualche scribacchino o politico nostrano che pensa di essere in un gioco di ruolo, penso che Brecht avesse ragione: sventurata è la terra che ha bisogno di eroi. Quando poi ha bisogno di importarli, gli eroi, la tragedia si screzia con le sfumature della farsa.

Quando sento dire “sono loro che ce lo chiedono“, mi viene in mente una citazione dal fulminante “Estensione del dominio della lotta” di Michel Houellebecq: “su un muro della stazione Sèvres-Babylone ho visto uno strano graffito: Dio ha voluto ineguaglianze, non ingiustizie, c’era scritto. Mi sono chiesto chi potesse essere quella persona così bene informata sulle intenzioni di Dio“.

Ecco, io mi chiedo chi possa essere quella persona così bene informata sulle intenzioni di ogni ucraino. Combattere con le armi non è obbligatorio. Uccidere in guerra non è obbligatorio. Certo, può essere disposto da uno stato di legge marziale, ma la paura delle conseguenze non ci toglie il libero arbitrio.

Pensate se ogni chiamato in guerra in nome della Patria, sia dalla parte dell’aggressore sia dalla parte dell’aggredito, si rifiutasse di farla. Pensate se non ci fossero dita disposte a premere un grilletto, a spingere un bottone, a pilotare un aereo che deve sganciare una bomba sulla popolazione. Purtroppo la responsabilità di una tirannide, di una dittatura sanguinaria, di un’aggressione bellica non è solo del tiranno, ma di tutti coloro che eseguono i suoi ordini. E in nome di cosa? Di una nuova religione: la Nazione, la Patria. Proprio la religione laica in nome della quale Putin manda i suoi giovani a uccidere e morire in un paese fratello.

Ancora una volta: la mia nazione e la mia patria non sono un’astrazione. Sono le mie radici, i miei affetti, i miei legami, i miei interessi e le mie passioni. Io non muoio per loro, io vivo per loro. Se qualcuno li vuole spazzare via con la violenza, la mia opzione sarà sempre di portarli al sicuro da qualche parte, dove possano rimanere vitali o rinascere, magari in altre condizioni. Non sarà mai di mettermi a sparare, che significa ammazzare gente abbastanza “colpevole” da meritare la morte per mano mia, ammesso che io fossi mai capace di infliggerla.

In questa allucinata contabilità dei morti di guerra, sia i sostenitori dell’eroismo altrui sia i cosiddetti (con spregio) pacifisti tendono a ragionare per grandi numeri: io invece mi domando come si faccia a parlare, dalla poltrona di casa, di mille persone morte in più o in meno, quando ogni persona morta è la distruzione di una storia, di una memoria, di una famiglia, di una madre, di un padre, di un fratello, di un amico, di un amante, di un futuro.
Che cos’è la Patria se non questo? Che cos’è una Nazione se non questo insieme di storie irripetibili, uniche, preziose, fragili? E come facciamo a non comprendere che chi ammazza per un’ idea di nazione sta ammazzando tutto ciò di cui è fatta una nazione?

Non venitemi a parlare di resistenza dalle vostre poltrone. La Resistenza è un fenomeno storicamente determinato, legato alle vicende dell’invasione nazifascista dell’Italia. “Ora e sempre resistenza” è un motto che mi provoca irritazione. La resistenza, in termini psicologici, è un atteggiamento deleterio. Non è resistendo alle cose che ci accadono che usciamo da un problema, ma assumendole come un dato di realtà, e riposizionandoci rispetto ad esse. Riposizionarsi può essere su un’altura, come hanno fatto i partigiani, o in un altro paese, come fanno gli esuli. Se l’altura non è raggiungibile, meglio la fuga che farsi ammazzare.
Avreste preferito che Luis Sepulveda morisse in carcere? Il suo popolo e l’umanità sarebbero stati meglio con lui morto cinquant’anni fa? Io no. Quindi non venitemi a parlare di resistenza dalle vostre poltrone. Andate a combattere, o tacete.

Infine. Non venitemi a dire che “per negoziare bisogna essere in due”. Se c’è una cosa che conosco, in tutte queste di cui ho parlato  – le altre non le conosco: le immagino o le percepisco, come tutti voi – è la trattativa. E’ diventato il mio mestiere. In un negoziato c’è sempre una parte più forte e una più debole. Se bastasse questo, non ci sarebbe mai alcuna trattativa. Una trattativa si fa concedendo qualcosa anche al bastardo (perché è un bastardo, solo che noi lo sapevamo, altri ci hanno fatto un sacco di affari) che se l’è presa con la forza.
Nel caso specifico potrebbe essere uno status di neutralità del paese, una autonomia amministrativa e linguistica di alcuni territori. Per caso qualcuno ha ricevuto un mandato dalla Nato o dal presidente ucraino per negoziare su queste basi? Se lo conoscete, presentatemelo. Diciamo piuttosto che per trattare bisogna che ci sia almeno uno che lo vuole realmente fare.

Io continuerò a fare un tifo sconfortato per Papa Bergoglio, purtroppo l’unico soggetto politico con la lucidità e l’autorità morale per orientare le sorti di questa guerra – no, forse solo per mostrarla nella sua nuda follia. Infatti improvvisamente sembra che il Vaticano non sia nemmeno più all’interno del territorio italiano, e lui sembra parlarci da una distanza lontanissima, altissima, siderale. Ed è solo.

PRESTO DI MATTINA
Don Primo Mazzolari, nel 63° anniversario della sua morte

La Pasqua, nostra ostinazione

Il 10 aprile è stato il 63° anniversario della morte di don Primo Mazzolari [Qui]: «Camminava avanti con un passo troppo lungo e spesso noi non gli si poteva tener dietro! E così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. È il destino dei profeti» (Paolo VI).

Così sono andato a rileggere un articolo del mio parroco, don Piero Tollini, su don Primo, suo parroco di elezione, ed ho pure riletto la lettera, in realtà poche righe, che gli scrisse quando fu ordinato sacerdote.

Eccole: «Egregio don Mazzolari, sabato nella Cattedrale di Ferrara sarà ordinato un sacerdote di 32 anni, venuto su ed entrato nel sacerdozio colle idee e col cuore di “Adesso”. Solo a lei, dopo che a Gesù, devo la volontà di vivere l’impegno sacerdotale come una pura testimonianza, sulla “via crucis del Povero”, della passione attiva – perciò redentiva – di X.to. Le sono stato vicino nell’amore per la povera gente dal giorno che sul treno di Suzzara ho sentito alcuni poveri di Bozzolo parlare del Parroco… Ho letto “Adesso” con cuore largo perché mi sembrava si puntasse all’essenziale nella applicazione del X.mo; poi dal suo silenzio ho imparato come si serve e si ama la Chiesa».

La risposta di don Primo non fu meno incisiva: «una prima Messa, la tua, mi restituisce la freschezza di un giorno tanto lontano ma sempre presente. C’è una perennità di offerta e di cuore nel nostro incontro, preparato segretamente da Colui, che ha avuto pietà di me e di te, consacrandoci al servizio dei poveri nella sua Chiesa. Non c’è nulla di amabile in questa divina realtà che congiunge il momento del Figlio di Dio e del Figlio dell’Uomo: eppure, questo soltanto è l’Amore come noi lo possiamo toccare. In questi giorni la fedeltà al Povero mi è sembrata più costosa dell’ordinario: stamane, però, l’abbraccio su tutte le resistenze, che mi hanno spaccato il cuore, è tornato sereno e larghissimo» [Qui]

Nel suo articolo don Piero racconta di come nacque la vocazione di don Mazzolari: «Sulla porta della “cascina” nonno e nipote guardano oltre il fossato, sullo stradello polveroso, il funerale che si snoda con inconsueta frettolosità; nessuno sembra pregare, il prete, pure lui frettoloso dietro la croce che il chierichetto porta come fosse l’asta di una bandiera, biascica i salmi in un inaccessibile soliloquio.

Nonno, perché vanno così in fretta? Perché c’è un solo prete e non canta? L’altro giorno erano tanti preti e cantavano e procedevano adagio, adagio. Quello, risponde il nonno, era il funerale della Contessa; oggi portano al camposanto il nonno di Tonino, il Boaro della Ca’ Rossa. Il piccolo Mazzolari è contrariato: “se la Contessa e il Boaro sono tutti e due nelle mani di Dio perché debbono avere un così diverso trattamento? “Io, nonno, quando sarò ‘arciprete’, andrò adagio anche al funerale dei bovari e farò venire anche tutti i curati e canteremo fi no al cimitero”.

Questa “cascina”, questa terra, questa … gente, queste situazioni, sono la matrice dell’inconsueto impegno pastorale di don Primo Mazzolari, il parroco più conosciuto in Lombardia, da molti contestato, da alcuni perfino ritenuto inopportuno, ma che Giovanni XXIII indicò come la voce dello Spirito Santo della Pianura Padana». (Voce di Ferrara, 5 (1979), 3)

 

L’ostinazione mite del Risorto

«Ogni cosa che muore – scrive don Primo – come ogni cosa che incomincia a vivere nella morte, è un aspetto della Pasqua. Le donne, sull’albeggiare quando nessun Discepolo vi pensa, s’avviano con gli aromi verso il sepolcro per “imbalsamare Gesù”, omaggio pietoso verso un perduto amore, ultima testimonianza di una fede che la morte aveva cambiato in ricordo.

A nessuna delle tre, mentre camminano verso il sepolcro, canta in cuore, sia pure celato, l’alleluja della grande speranza: nessuna osa guardare di là della tomba. La pietra non era per essere l’ostacolo alla vita, ma l’impedimento per l’ultima devozione alla morte. Nessuna voce Lo chiama dal di qua: nessun grido lo invocava: neanche la Maddalena, che pur non avrebbe dovuto dimenticare le certezze affermate dal Maestro sulla tomba di Lazzaro.

Tutti avevano bisogno di vita, e nessuno s’appellava al Vivente: tutti avevano bisogno ch’Egli fosse e nessuno osava credervi. La morte era più sigillata nei cuori che nel sepolcro di Lui. L’Alleluja è nato spontaneamente dall’infinita bontà del Signore, che, invece di guardare alla nostra mancata attesa, pose il suo sguardo pietoso sul nostro bisogno di vita, come sulla croce, “per amare fino alla fine” aveva guardato “coloro per i quali moriva, non quelli che lo facevano morire”» (La Pasqua, Vicenza, 1964, 51).

Per don Primo “la Pasqua è per tutti”, è un “impegno preso”, poiché “è la Pasqua la vita dell’uomo” e “nessuno e niente la può fermare”. Per questo è soprattutto invito a cambiare se stessi.

L’attualità del suo pensiero sta nel fatto che in esso urge l’invito a una nuova testimonianza. Vi si percepisce ancora vibrante la sua vita credente e sacerdotale, il vangelo del Regno reso al vivo nella sua persona, per dirla con Paolo. È sempre di nuovo, anche oggi, una questione di testimonianza: occorre far vivere la fede, prima di proclamarla, “Poiché la fede è vita – e quale vita! – una testimonianza convincente non può esserci data che dalla vita”.

Nella visita di papa Francesco a Bozzolo nel giugno del 2017 egli riprende tre immagini: Il fiume, La cascina e La pianura:

«Il fiume è una splendida immagine, che appartiene alla mia esperienza, e anche alla vostra. Don Primo ha svolto il suo ministero lungo i fiumi, simboli del primato e della potenza della grazia di Dio che scorre incessantemente verso il mondo. La sua parola, predicata o scritta, attingeva chiarezza di pensiero e forza persuasiva alla fonte della Parola del Dio vivo, nel Vangelo meditato e pregato, ritrovato nel Crocifisso e negli uomini, celebrato in gesti sacramentali mai ridotti a puro rito.

Don Mazzolari, parroco a Cicognara e a Bozzolo, non si è tenuto al riparo dal fiume della vita, dalla sofferenza della sua gente, che lo ha plasmato come pastore schietto ed esigente, anzitutto con sé stesso. Lungo il fiume imparava a ricevere ogni giorno il dono della verità e dell’amore, per farsene portatore forte e generoso…

La cascina. Al tempo di don Primo, era una “famiglia di famiglie”, che vivevano insieme in queste fertili campagne, anche soffrendo miserie e ingiustizie, in attesa di un cambiamento, che è poi sfociato nell’esodo verso le città.

La cascina, la casa, ci dicono l’idea di Chiesa che guidava don Mazzolari: “Per camminare bisogna uscire di casa e di Chiesa, se il popolo di Dio non ci viene più; e occuparsi e preoccuparsi anche di quei bisogni che, pur non essendo spirituali, sono bisogni umani e, come possono perdere l’uomo, lo possono anche salvare. Il cristiano si è staccato dall’uomo, e il nostro parlare non può essere capito se prima non lo introduciamo per questa via, che pare la più lontana ed è la più sicura. […] Per fare molto, bisogna amare molto”.

Così diceva il vostro parroco. La parrocchia è il luogo dove ogni uomo si sente atteso, un “focolare che non conosce assenze”.

Don Mazzolari è stato un parroco convinto che «i destini del mondo si maturano in periferia», e ha fatto della propria umanità uno strumento della misericordia di Dio, alla maniera del padre della parabola evangelica, così ben descritta nel libro La più bella avventura.

Il terzo scenario è quello della vostra grande pianura. Chi ha accolto il Discorso della montagna non teme di inoltrarsi, come viandante e testimone, nella pianura che si apre, senza rassicuranti confini. Gesù prepara a questo i suoi discepoli, conducendoli tra la folla, in mezzo ai poveri, rivelando che la vetta si raggiunge nella pianura, dove si incarna la misericordia di Dio (cfr. Omelia per il Concistoro, 19 novembre 2016).

Alla carità pastorale di don Primo si aprivano diversi orizzonti, nelle complesse situazioni che ha dovuto affrontare: le guerre, i totalitarismi, gli scontri fratricidi, la fatica della democrazia in gestazione, la miseria della sua gente».

 

“La pace nostra ostinazione”

Tra le parole tipicamente mazzolariane (poveri, lontani, umiltà, obbedienza, impegno, coscienza, carità, laici, vocazione) troviamo quella della pace. Egli così scriveva sul quindicinale Adesso negli anni Cinquanta: «Per la Pace, più che parteggiare, direi che bisogna “agonizzare”, poiché essa è un bene uno e indivisibile come la Carità. E se uno la vuole per sé, deve domandarla per tutti: per gli stessi che non la vogliono, anche per coloro che ne sono indegni». La pace nostra ostinazione era questo il titolo di una rubrica della stessa rivista, quasi un proclama e un programma.

Nel suo libro Tu non uccidere (Vicenza 1985, 25) si legge: «Il cristiano è un “uomo di pace“, non un “uomo in pace“: fare la pace è la sua vocazione. Ogni vocazione è un seme. Il seme può cadere lungo la strada, tra le spine, in luogo sassoso o in buon terreno. C’è in ognuno di noi, indipendentemente dalla nostra fruttuosità, una pace seminale, la quale può aprirsi un varco attraverso qualsiasi resistenza. E allora, anche se i miei piedi non si muovono verso la pace, sono uomo di pace: anche se pecco contro la pace, fino a quando non rifiuto il Vangelo di pace, la pace è in agonia dentro di me».

Credere alla pace è lo stesso che credere al Vangelo, sperare nella pace è lo stesso che sperare nella Pasqua, vivendo in se stessi la novità di vita del Risorto, comunicarne i suoi segni nella forma della testimonianza.

È questa la condizione per aprire la strada e per arrivare alla pace: «Noi cristiani abbiamo fretta di vedere i segni della Pasqua del Signore, e quasi gli muoviamo rimprovero di ogni indugio, che fa parte del mistero della Redenzione.

I non-cristiani hanno fretta di vedere i segni della nostra Pasqua, che aiutano a capire i segni della Pasqua del Signore. “Un sepolcro imbiancato, che di fuori appare lucente, ma dentro è pieno di marciume”, non è un “sepolcro glorioso”.

“Chi mette insieme pesanti fardelli per caricarli sulle spalle degli altri, senza smuoverli nemmeno con un dito”, è fuori della Pasqua.

“Chi fa le sue opere per richiamare l’attenzione della gente”, invitando stampa e televisione, non vede la Pasqua.

“Chi chiude il Regno dei Cieli in faccia agli uomini” per mancanza di misericordia, non sente la Pasqua.

“Chi giura per l’oro del Tempio e non per il Tempio” non ha ancora buttato via le “trenta monete d’argento”.

“Chi paga le piccole decime e trascura la giustizia, la misericordia e la fedeltà”, rinnega la Pasqua.

“Chi lava il piatto dall’esterno, mentre dentro è pieno di rapina e di intemperanza”, non fa posto alla Pasqua.

Oggi è Pasqua, anche se noi non siamo anime pasquali: il sepolcro si spalanca ugualmente, e l’alleluia della vita esulta perfino nell’aria e nei campi; ma chi sulle strade dell’Uomo, questa mattina, sa camminargli accanto e, lungo il cammino, risollevargli il cuore?

Una cristianità che s’incanta dietro memorie e che ripete, senza spasimo, gesti e parole divine, e a cui l’alleluia è soltanto un rito e non la trasfigurante irradiazione della fede e della gioia nella vita che vince il male e la morte, dell’uomo, come può comunicare “i segni della Pasqua?”». (La Pasqua, 64-65)

Mi è parsa pure una ostinazione santa anche quella di Bertolt Brecht [Qui], comunicata attraverso i versi di una sua poesia. Nel gesto sacramentale di prendersi cura di un raggelato albicocco il mattino di Pasqua, una pietà originata dal sentire del figlio; parole testimoni di una piccola pietà, il gesto di una piccola risurrezione ma ostinata e audace, l’inizio sorgivo per far argine ad un’altra ostinazione: quella insensata ed empia di chi vuole la guerra.

Così in quel gesto di pietà è da riconoscere il sacramento pasquale: «Il nostro sacramento pasquale scrive, don Mazzolari, è ancora una volta un atto di pietà, come se il Signore avesse bisogno di piccole pietà: i morti vogliono la pietà, il vivente vuole l’audacia. «Non vi spaventate. Gesù è risorto, non è qui», (ivi, 52).

La piccola pietà: la Pasqua dell’albicocco

Oggi, mattina di Pasqua,
un’improvvisa tempesta di neve è passata sull’isola.
Tra le siepi già verdi c’era la neve. Mio figlio
mi ha portato verso un piccolo albicocco lungo il muro di casa
strappandomi a un verso in cui puntavo il dito contro coloro
che stanno preparando una guerra che
può cancellare il continente, quest’isola, il mio popolo,
la mia famiglia e me stesso. In silenzio
abbiamo messo una tela di sacco
sopra l’albero che raggelava.

(Bertolt Brecht, Primavera 1938, Raccolta Steffin, cit. in M Petazzioni, La poesia degli alberi, Luca Sossella ed. Trento 2021, 132).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Giornata della Terra
Piccole storie di educ-amore ambientale

I libri per bambini mi piacciono da sempre. Ora che sono grande ancora di più. Se sono illustrati poi la tentazione è irresistibile… la mia libreria ormai ha uno spazio tutto suo, dedicato a racconti e ad albi illustrati colorati.

Sono tantissimi i volumetti che insegnano ai bimbi a scoprire a Natura, nella sua bellezza e nel suo mistero, nei suoi profumi e colori. Nel suo pieno rispetto. Amandola fin da piccini, prendendosene cura, capendola. Eccone alcuni. I primi dieci di una serie, direi.

Lorenzo Clerici, Tutino e l’albero, Minibombo, 2014Tutino è un piccolo esploratore che ama divertirsi all’aria aperta, giocando con un albero, tra rami e foglie, ma non esce mai di casa senza indossare una buffa tuta da animaletto. Ogni giorno si traveste in maniera diversa. Il costume da lupo è quello che ci vuole per arrampicarsi su un albero e giocare tra le foglie… per giocare tra i rami ci vogliono però alcune accortezze: fare attenzione a non spezzarli, non saltare troppo in alto e non arrampicarsi mai sui pini. Per travestirsi poi bisogna cercare in casa quanto serve! Non basta che attrezzarsi e provare ad essere l’animaletto prescelto.

John Yeoman, Quentin Blake, Il picnic acquatico dell’orso, Camelozampa, 2013

Libro apparso per la prima volta in Gran Bretagna nel 1969, un piccolo capolavoro. Qui l’orso ha organizzato, per il suo compleanno, un picnic sul lago per i suoi amici più cari, maiale, riccio, gallina e scoiattolo. La zattera porterà tutti a destinazione. Splende il sole, tutto procede a meraviglia, ma il “cra cra” rumoroso delle rane, che arriva da dietro le ninfee, li infastidisce. Anche le rane vorrebbero partecipare al picnic, ma l’orso e i suoi amici non gradiscono il fracasso e si allontanano verso un posto più tranquillo. Sfortuna vuole però che la loro zattera resti incagliata… E solo le rane li potrebbero aiutare! Le nuova amiche.

Marta Bassotti, Il mio piccolo orto biologico, 2016, Kite Edizioni

Insegnare ai bambini come realizzare un orto biologico: bastano un pezzetto di terra in un giardino, un po’ di pazienza e alcuni gesti essenziali. Questa piccola guida aiuta a fare i primi passi da giardiniere, dalla preparazione del compost alla semina passando per la disposizione nel giardino delle sementi. Si può imparare ad osservare un elemento molto importante per la buona crescita delle piante: la luna! E al momento giusto, pazienza e le attenzioni saranno ricompensate dalla gioia di sgranocchiare piccole e deliziose verdure!

Peter Carnavas, L’ultimo albero in città, Valentina Edizioni, 2011

Il piccolo Edoardo ci insegna la ricetta per salvare la Terra e colorare le città: piantare alberi! Edoardo gira per i quartieri della città in sella al suo triciclo, portando in giro il suo spicchio di verde personale e seminando la speranza di un mondo più bello e pulito. Poi la natura è contagiosa: se sei alla fermata dell’autobus e ti viene incontro un albero su tre ruote, non puoi fare a meno di sorridere e trasformarti in un guerrilla gardener. Allora tutti cominceranno a piantare alberi ovunque… Mentre i Grandi discutono, i Piccoli salvano il mondo.

Eliza Saroma-Stepniewska, Piccola guida per Ecoschiappe, Sinnos, 2015

Se avete problemi con la differenziata, lasciate aperto il rubinetto mentre vi lavate i denti, preferita la vasca alla doccia, vi spostate sempre in auto e accendete molte luci, allora siete delle Ecoschiappe. Questo libriccino simpatico stigmatizza i nostri ecopeccati, ma ci assolve con una fragorosa risata. Non si diventerò magari degli eco-eroi, ma il divertimento è assicurato, nello sfogliare, con i bimbi, questo eco-galateo della vita moderna.

Franca Cicirelli, Camilla e il mondo dei giardini, La Meridiana, 2010

A casa di Camilla nascono 2 pulcini, Budino e Uovosbattuto che, appena nato, ruba la rosa posata sui capelli di Camilla e fugge via. Ma dove? Il pulcino impazzisce per gli odori e i colori di piante e fiori e quindi vola di giardino in giardino. Passa dal romantico allo zen, al reale e al mediterraneo. Si scoprono allora le caratteristiche dei diversi giardini, in una sorta di una caccia al tesoro che coinvolge tutti i sensi. Un racconto per sviluppare un sentimento di responsabilità e amore verso la natura.

Maria Romana Teramo e Laura Proietti, Nonno Albero, Glifo edizioni, 2017

Nonno albero è scritto dalla palermitana Maria Romana Tetamo, classe 1983, e illustrato da Laura Proietti, classe 1994, anch’essa palermitana, diplomatasi alla Scuola del Fumetto di Palermo. Per entrambe si tratta del primo libro, esperimento ben riuscito.

Eccoci allora di fronte al piccolo Paride, che ha sempre abitato in città, in viaggio alla scoperta di un mondo nuovo, la prima volta che va in campagna a trovare la nonna. È talmente felice che la mattina si sveglia presto per correre a esplorare quel grande giardino che la nonna cura con amore e dedizione. La difficoltà ad alzarsi dal letto che solitamente contraddistingue i bambini qui non ha alcuno spazio.

In questo luogo tranquillo ci si accorge subito che i colori del cielo sono più luminosi di quelli della città e che anche l’aria ha un odore diverso. La natura è piena di colori e odori, piante, alberi e animali. C’è una vasca con grandi pesci abitata dalle galleggianti ninfee, si vedono le api e le formiche che in fila trotterellano verso il bordo del giardino, un grande albero che abbraccia Paride con i suoi forti rami e che conosce il suo nome.

Paride si ritrova presto immerso nell’orto della nonna, un luogo magico mai visto prima.  Qui impara che le carote non hanno la forma di un dischetto arancione, che sono fonte di vitamina A, che le patate non sono bastoncini fritti, e che gli alberi… gli alberi non parlano! Almeno in un giardino normale… ma quello della nonna riserva tante sorprese.

Spinto da una grande curiosità, Paride percorre un lungo sentiero fino a un’incredibile scoperta che gli farà amare per sempre la campagna. C’è un grande signor albero alla fine, chi mai sarà? Di chi incarnerà lo spirito che protegge casa e giardino?

Un pizzico di magia che vi invito a scoprire, un finale tenero, ingrediente essenziale per incuriosire e svelare gli intimi segreti della vita. Con grande delicatezza.

Marianne Dubuc, Le case gli animali, Orecchio acerbo, 2015

Vi è sempre piaciuto aspettare la posta, perché scrivere una lettera è regalare tempo? Siete mai stati invitati a casa da un coccodrillo? Avete mai visto quella di uno scoiattolo? Seguendo Topo Postino (il Facteur Souris originale) che consegna i suoi pacchi potrete visitare le buffe dimore di tanti animali! La storia segue il giro quotidiano di consegne del nostro topino postino che alle 9 in punto, il lunedì mattina, prende il suo piccolo carretto della posta e incomincia il suo lavoro. Il lunedì in questione si preannuncia molto impegnativo: il carretto è stracolmo di pacchetti, cestini, buste… La strada grigia che solca il prato lo guida alla sua prima tappa, fino al “signor Orso che aspetta una lettera della zia Paulette”, ai coniglietti, al signor Serpente, alla signora Talpa e al signor Verme.

Marianne Dubuc disegna i singoli fili d’erba e tratteggia le nervature degli alberi, un’artista che nasconde di tutto dietro ai cespugli e sotto ai letti e che ha una spiccata vocazione decorativa, che ama minuziosamente le tendine e le giostrine che si appendono sopra le culle, che usa righe, pallini e quadretti dappertutto, ma anche cuori e cappucci di lana…

Ci sono mille dettagli da scoprire in queste case tutte diverse e molto, molto personali. E alla fine del giro, l’ultimo pacchetto… per chi mai sarà?

Marc Martin, Una foresta, Salani editore, 2017

Marc Martin è un illustratore e graphic designer australiano e lavora con acquerelli, evidenziatori, trame tessili scannerizzate e computer grafica. Trae ispirazione da ciò che lo circonda: la natura, gli animali e la città in cui vive. La foresta è il suo primo libro illustrato e inizia con “c’era una volta una foresta”: il racconto di una foresta che viene distrutta dagli uomini avidi per fare posto a una città tentacolare e afosa. La mancanza di alberi renderà l’aria irrespirabile e pesante e finirà per distruggere la città con una tempesta. Al posto della città crescerà … una nuova foresta.

Un racconto commovente e senza tempo, una storia di rigenerazione e rinascita, di quelle belle e che servono davvero tanto.

Anna Walker, Florette, Clarion books, 2018 (in inglese)

Quando la famiglia di Mae trasloca in una nuova e accogliente casa, la piccola desidera portare con sé il proprio giardino. Le mancherebbero troppo gli alberi di melo fioriti, l’arrampicarsi su di essi, l’andare a caccia di farfalle nell’erba folta e verde. Ma non c’è spazio o una stanza per un giardino in città. Oppure c’è? La storia di Mae illustrata dall’australiana Anna Walker con acquerelli più degni di un grande artista – ispirata a una foresta scoperta da Anna da una finestra parigina durante una vacanza con la famiglia – è una pura celebrazione dell’amicizia, dell’adattamento ai cambiamenti e della magia del mondo naturale. Provare (leggere) per credere.

Giornata della Terra:
Intervista a Gaia

Gaia: “si uccisero da soli, io non feci null’altro che spargere il vento, non fu colpa mia”

Intervistatore: “eppure parevano esseri intelligenti”

Gaia: “no, non era così. Si fidavano dei loro padroni, applaudivano e tifavano senza pensiero. Le loro menti ragionavano in un circuito binario, non capirono mai che era il sistema che li stava uccidendo. Democrazie e dittature correvano insieme verso l’autodistruzione.”

Intervistatore: “e lei, non fece nulla per evitare il disastro”

Gaia: “guardi che io ho miliardi di anni, quei piccoli esseri senza testa, mi camminano in capo da pochi secondi, confronto alla mia vita. Sono sempre stati loro a dipendere da me, non viceversa. Loro appena usciti dalla caverne hanno iniziato a sfruttarmi, poi a succhiare ogni mio frutto, poi a inquinare, e volevano sempre di più. Si uccidevano fra loro, per fare grandi alcuni. Più si sviluppavano e più cercavano divinità altre da me. Pensi che ai loro albori ero la loro madre e il loro padre assieme. Poi hanno pensato di non aver e più bisogno di me.”

Intervistatore: “ma ci furono tra quegli esseri elementi di spicco?”

Gaia: “si ogni tanto ne nasceva uno, ma spesso veniva deriso, o criticato e spesso ucciso. Non ebbero mai la capacità di vivere senza un padrone, senza confini, senza frontiere. Ingrassavano l’animale più crudele e col petto in fuori andavano a prendere i fendenti per lui. Esseri incredibilmente stupidi, invece di unirsi tra loro, morivano per i loro capi.”

Intervistatore: “ma poi come finì?”

Gaia: “come era naturale che finisse. Producevano, consumavano, combattevano, si uccidevano, mi uccidevano. Quando tutto fu in mano a pochi, non ne ebbero ancora abbastanza. Bombe, guerre, fumi, inquinamento. Fino a che uno o più, di loro, spinsero un bottone. Perché volevano avere, avere, avere. E io non feci altro che far soffiare il vento. Le nubi portarono i loro veleni ovunque. Io attivai le stagioni, le maree, la siccità e poi gli uragani, il caldo torrido, il freddo glaciale. Quello che ho sempre fatto nei mie milioni di anni di vita. Questa volta non servì neppure un aiuto dall’esterno. Nessun meteorite mise fine a quello strazio. Ci pensarono da soli. Piccoli esseri stupidi.”

Intervistatore: “e ora che succede?”

Gaia: “io vivo bene, assieme ai miei insetti, qualche animale robusto, qualche pesce. E pensi che ne esistono ancora di quegli esseri, vivono nudi o vestiti di stracci nelle caverne, sono deformi, pochi e senza ricordo. Vivono nella loro immensa stupidità. E forse un giorno si evolveranno di nuovo, per poi ritornare ad essere le bestie stupide che sono sempre state. Produci, consuma e muori. Questo è il loro circolo vitale, adorano feticci, baciano i piedi ai potenti. No, speriamo che questa volta non si evolvano di nuovo.”

Intervistatore: “Grazie signora.”

Gaia: “di nulla caro. Io sono sempre qua. Loro no.”

Oltre la porta chiusa
…un racconto

Oltre la porta chiusa
Un racconto di Carlo Tassi

Attraente mostruosità il desiderio e la paura di sapere.
Oltre la porta chiusa, una luce sconosciuta o soltanto il buio.
Il buio che ci segue, che ci accompagna, che ci aspetta. Eternamente presente eppure inaccessibile.
Del resto cos’è mai la luce se non una piacevole menzogna?
Una bugia data in pasto agli occhi, interpreti speranzosi di messaggi illusori… i colori.
Vibrazioni elettromagnetiche. Particelle invisibili. Energia in eterna ebollizione.
Sotto la pelle, dentro i nostri sogni, negli spazi infinitamente piccoli e negli sconfinati spazi aperti.

Non c’è mai stata ragione di vedere l’incomprensibile quando lo si può immaginare.
Forse l’unico rifugio è la follia… la sola, vera arma della mente.

Ho varcato la porta.
Sono ore che cammino nel buio. Davanti a me il fascio della torcia rivela un percorso ad ostacoli tra ammassi di rottami e rifiuti maleodoranti. È necessario avanzare con cautela. Il silenzio è rotto dall’eco dei miei passi e da un costante rumore di gocce che cadono un po’ dappertutto.
È bastato un attimo di distrazione e quasi cado inciampando contro qualcosa. Punto la torcia in basso e vedo un mucchio di stracci sudici: è un uomo!
È rannicchiato lungo la parete del tunnel, con le spalle e la testa coperte da un cartone, e pare stia dormendo. L’urto del mio piede lo sveglia e con uno scatto si leva a sedere appoggiando la schiena al muro.
È a questo punto che la luce della mia torcia gli illumina il volto, o meglio, quel poco che ne rimane…
Lo vedo e non posso far altro che distogliere subito lo sguardo. È orribile!
Un indicibile terrore comincia a impossessarsi di tutti i miei sensi. Avevo già provato qualcosa di simile in passato, ma stavolta è più intenso, straziante. Per poter restare lucido devo attingere agli ultimi barlumi di ragione che ancora conservo, solo così posso impedirmi di fuggire in preda alla pazzia.
Il volto, dal mento in su, è ridotto ad uno squarcio dal quale si distinguono chiaramente rimasugli di cervello, brandelli di pelle e ossa frantumate. Occhi, naso e bocca sono spariti. Sul mento vedo, in un groviglio sfilacciato di carne e nervi sanguinolenti, la lingua e, attorno ad essa, i pochi denti rimasti della mandibola.
Ai lati di questo scempio restano un paio d’orecchi penzolanti e qualche ciuffo di capelli intriso di sangue raggrumato a testimoniare che un tempo questa era stata la faccia di un uomo.
Quest’uomo che non riesco a guardare s’inginocchia e m’afferra un braccio con entrambe le mani, come per implorare. D’istinto tento di liberarmi. Poi sento un suono angosciante provenire dalla sua gola e vedo chiaramente la lingua vibrare in quell’assurda cornice di carne straziata. Questo poveretto senza più la faccia cerca di parlarmi e, nel farlo, posso avvertirne lo sforzo indicibile e doloroso.
Ma la visione grottesca del suo volto maciullato, se pure orribile, è nulla paragonata al suono gorgogliante e metallico delle corde vocali immerse nel sangue.
Eppure, il terrore che mi ha sconvolto fin da subito si trasforma in pietà. E di fronte a tanto dolore mi pervade un senso di vuoto assoluto, disumano, che mi fa sentire impotente, del tutto inadeguato, incapace di reagire.

Avevo fatto il mio primo incontro, oltre la porta chiusa.

Adagio in Sol minore (Remo Giazotto, 1958)

Per leggere tutti gli articoli, i racconti e le vignette di Carlo Tassi su questo quotidiano clicca sul suo nome.
Per visitare il sito di Carlo Tassi clicca [Qui]

L’ALTRO VOLTO DELLA GUERRA:
lettera di un italiano dall’Ucraina dimenticata

Europe for Peace

(Foto di Elaborazione Europe for Peace)

Abbiamo ricevuto come Europa per la Pace questa lettera da un italiano che vive in Ucraina e volentieri la pubblichiamo. E’ ricca di dettagli e informazioni sulla vita quotidiana nelle zone non colpite direttamente dalla guerra ed emergono realtà sconcertanti. L’autore ha chiesto di rimanere anonimo perché teme per la sua vita.

L’operazione speciale russa in terra Ucraina ha un sapore diverso in questa zona produttiva nel centro del paese. I contadini delle vastissime aree produttive centrali dell’Ucraina, così come i lavoratori delle imponenti nuove costruzioni nei sobborghi della città di Vinnytsia, vedono la guerra da lontano, quasi non li toccasse, sui siti internet o in TV sull’unico canale governativo ammesso dal governo Zelensky.

Dall’inizio dell’invasione russa sul territorio ucraino, il 24 Febbraio scorso, coloro che vivono e lavorano a ovest dell’importante fiume Dnipro, sono stati solo sfiorati dalle armi della guerra in corso. Dai missili sovietici sono stati colpiti esclusivamente basi militari, siti per l’energia, raffinerie, aeroporti usati dai militari, e caserme dedicate a soldati non solo ucraini. Non si sono viste le distruzioni tragiche di Kharkiv, Luhansk e Mariupol. Quasi fosse un altro paese.

Sarà anche per questo motivo che moltissime famiglie si sono riversate in questa zona, venendo dal sud, dall’est e da Kiev. Alcune hanno preso in affitto qualunque abitazione disponibile in questa vasta area, fosse anche una casa semi distrutta in un paesino sperduto sulla mappa dei campi di grano ucraini. Non tutti coloro che sfuggono dalla guerra vanno oltre confine, in Europa. Sono centinaia di migliaia quelli che hanno scelto la parte centrale del paese quale rifugio sicuro.

Non sapevano però queste famiglie che, mentre i loro connazionali fuggiti in Europa avrebbero trovato aiuti e sostegno morale sincero, la loro sorte era di poco o nessun interesse né agli amici europei, ma anche meno al proprio governo di Kiev.

Di fatto, le famiglie nelle zone rurali a ovest del fiume Dnipro sono state dimenticate da tutti.

Ne fanno spesa e soffrono soprattutto anziani, giovani e malati.

Mentre gas, acqua, elettricità (ed internet) non mancano se non sporadicamente, tutto il resto è quasi impossibile da trovare. Nelle grandi città i generi alimentari scarseggiano, pur non mancando. Ma nelle piccole città, nei paesini e nelle frazioni contadine di questa vasta area manca praticamente tutto. Non fosse per la presenza di contadini e della loro produzione (limitata) di alcuni beni alimentari, alcune zone dell’Ucraina centrale sarebbero rimaste senza cibo. Molti negozi hanno chiuso già un mese fa. Altri restano aperti solo per mezza giornata o per dare sostegno morale agli anziani che vengono quotidianamente a chiedere aiuto.

Aiuti dal governo, zero.

A tutto ciò si aggiunge l’assenza di carburanti ad uso civile. In alcune zone manca completamente, impedendo così l’uso dei trattori, e danni immensi ai piccoli contadini e produttori di grano. In piccole città quali Teplik, Haisyn, Shepetivka e altre, il carburante viene razionato e alle pompe di benzina la fila di auto in attesa inizia al cantar del gallo, e anche prima. Quasi tutte le pompe di benzina di questa area chiudono alle 12 per mancanza di prodotto, ed alcune, specialmente quelle in piccoli paesini, aprono tre volte a settimana. I mezzi pubblici sono limitati a pochi bus al giorno. In piccoli paesini che erano collegati prima della guerra, ora sono del tutto isolati. Molte strade sono impercorribili per l’assenza totale di manutenzione.

Aiuti dal governo, zero.

La sanità è allo stremo. Le farmacie, pur aperte, non hanno molto da offrire. Molte hanno scaffali vuoti, specialmente per prodotti dedicati alla maternità o per gli anziani. Gli ospedali sono allo stremo, e molti hanno chiuso interi reparti per mancanza di medicine e personale competente (senza carburante molti non possono prendere i mezzi di trasporto a lavoro). Le future mamme non sanno dove andare a partorire, poiché molti ospedali hanno delegato tutto ad un unico edificio in Vinnytsia. In caso di emergenze, non ci sono speranze per chi si trova lontano dalla città principale in zona. Alle madri partorienti il consiglio è di prepararsi ad un parto in casa fai da te.

Aiuti dal governo, zero.

Non stupisce quindi che in questa zona molto vasta e rurale, la maggioranza dei cittadini è fortemente contraria alle scelte politiche del governo ucraino. Quasi la totalità delle persone che parlano a porte chiuse ed in privato di quanto sta accadendo incolpa le scelte del presidente Zelensky ed il suo governo filoamericano per non aver evitato la guerra e negoziato con Putin prima della escalation militare. Potrei affermare che tutti sanno o comprendono che questo conflitto è in atto per colpa di scelte politiche fatte oltre oceano e dalla NATO.

Soprattutto fra famiglie che sono fuggite dall’est del paese, e che hanno perso tutto, esiste un astio fortissimo nei confronti di Zelensky e della NATO. Talvolta, ma sempre più spesso, sembra quasi siano filorusse, pur non essendo tali.

Per la mancanza di carburanti e per problemi di materie prime, per tante famiglie non c’è lavoro. Molti uffici sono chiusi. Impossibile trovare notai e avvocati. Le fabbriche hanno chiuso. Se, quindi, per i contadini il problema del cibo viene risolto con gli animali a disposizione, per le famiglie delle piccole città e villaggi rurali la fame è alle porte. Si avvicina la fine dei generi alimentari ogni settimana che passa.

Aiuti dal governo, zero.

I ragazzi in età scolastica sono a casa da fine Febbraio. Le scuole sono chiuse. Sono le famiglie a prendersi il carico dei figli che restano tutto il giorno in casa. Se è vero che esistono corsi online organizzati da molte scuole, è altresì vero che la maggioranza delle famiglie non ha un collegamento internet adatto. È noto che classi di 20 studenti a scuola vengono ora organizzate su piattaforme internet dove però si collegano in appena 5. Gli altri assenti per vari motivi, fra cui l’impossibilità tecnica al collegamento, dovranno vedersela con il futuro.

La presenza dei giovani a casa obbliga alcune famiglie a dedicare loro il tempo che potrebbero dedicare al lavoro saltuario.

Aiuti dal governo, zero.

Quando i militari hanno chiesto di precettare tutti gli uomini di età superiore ai 18 anni, la maggioranza delle famiglie, soprattutto rurali, si è ribellata. A metà marzo i militari sono entrati in forze nelle case per il precetto. Ci sono state anche lotte e qualche ferito. Si è saputo anche di alcuni morti. Molti uomini non intendevano andare a lottare per una guerra che veniva loro imposta su basi errate.

In alcuni paesini, gli uomini e ragazzi giovani, avvisati dell’arrivo dei militari che precettavano, sono fuggiti nei boschi per qualche giorno. I contadini si sono rifiutati lasciare le loro terre ed hanno risolto proponendo una specie di guardia locale notturna, respingendo così le richieste di precettazione.

Altri paesini non sono stati così fortunati. Alcuni paesini a nord hanno subito la visita di paramilitari che non hanno sentito scuse e con la forza hanno portato via i figli maggiorenni, non senza molestie e violenza inaccettabile.

Siccome poi questo paese stupendo è vittima di una corruzione endemica quasi indistruttibile (però è pronta ad entrare nella UE), spesso le famiglie hanno trovato chi, sotto ricompensa in denaro, ha tralasciato l’obbligo di precettazione militare in ufficio.

In molti maledicono per la morte del figlio o marito ad est o a nord, il governo ucraino. Quando in TV appare il presidente, parole che qui non si possono trascrivere vengono a lui indirizzate. C’è da essere anche pragmatici: la morte del marito o figlio per una famiglia vuol dire la fine di un introito finanziario in famiglia.

Aiuti dal governo, zero.

Vi sono poi racconti che destano ilarità. Come, per esempio, quello degli uomini precettati nei pressi di Haisyn, alcuni anche volontari, e trasportati di notte nelle caserme locali. Dopo una buona dormita in caserma, la metà è stata spedita a casa perché mancavano fucili e armi a sufficienza. L’altra metà è rimasta per istruzioni e allenamento. Di quest’ultima, pochissimi hanno resistito al test, mentre la maggioranza è rientrata in serata a casa perché “inutile allo scopo militare”. Si dice che avessero bevuto la vodka locale più del dovuto.

Ma ci sono racconti strazianti per quanto concerne gli anziani. C’è un numero sempre crescente di anziani deceduti in casa perché privi di assistenza sociale e medica in questo periodo. Sono spenti i numeri di assistenza e soccorso in questa zona. Risulta quasi impossibile chiamare una autoambulanza in zone fuori città (sempre per la mancanza di carburanti e personale). Vi sono casi crescenti di anziani affamati che stanziano davanti alle proprie abitazioni chiedendo aiuto o cibo.

Aiuti dal governo, zero.

Quindi, anche se la guerra in corso sembra un lontano avvenimento visto sui media, la popolazione ucraina ad ovest del fiume Dnipro ne soffre le conseguenze e molte famiglie sono in sofferenza, in fame e povertà. Molti paesini, molti contadini, tante famiglie, sono allo stremo.

E mentre uno si aspetterebbe che i miliardi di dollari americani o i miliardi di euro stanziati dalla UE, servissero anche alle famiglie che di fatto vivono ancora in Ucraina, la realtà è che di questi soldi, queste famiglie, questi lavoratori, questi contadini, queste farmacie, queste scuole, questi ospedali, ne hanno visto i numeri in televisione.

Aiuti dal governo, zero.

La beffa in tutto ciò è che il governo ed i militari, chiedono incessantemente aiuti finanziari a tutti ed in tutti i modi, anche violenti. Sulle bollette del gas ed elettricità. Quando si paga il gestore internet online. Quando si fa un prelievo bancomat. Quando ci si collega ad internet. E, purtroppo, passando di casa in casa di messi della caserma locale, che spesso poi segnalano all’ufficio locale chi ha donato fondi per i militari e chi non lo ha fatto. Il resto è noto.

Il governo di Kiev non ha aiutato affatto gli abitanti rimasti in Ucraina. Non ha alzato un dito in loro aiuto, nonostante le presunte dotazioni economiche dei paesi alleati.

Quanto sopra, se non altro, dimostra quanta ipocrisia vi sia non solo in Europa, ma anche in questo paese martoriato e mal governato, non in nome di una pace e di una politica estera atta alla pace, ma in nome di forze politiche, economiche e militari estere (per nominarne due, gli Stati Uniti d’America e la NATO).

Questa cronaca è stata fatta da chi si trova in questi luoghi, vivendo di persona avvenimenti e fatti, e verificando quanto raccontato a mezzo collegamenti personali e conoscenze in uffici menzionati.

Europe for Peace
L’idea di realizzare questa campagna è nata a Lisbona nel Forum umanista del novembre 2006, durante i lavori di un tavolo sul tema della pace. Partecipavano diverse organizzazioni e le differenti opinioni convergevano con molta chiarezza su un punto: la violenza nel mondo, la ripresa del riarmo nucleare, il pericolo di una carastrofe atomica e quindi la necessità di cambiare con urgenza la direzione degli avvenimenti. Ci risuonavano nella mente le parole di Gandhi, di M. L. King e di Silo sulla importanza della fede nella vita e della grande forza che è la non-violenza. Ci siamo ispirati a questi esempi. La dichiarazione è stata presentata ufficialmente a Praga il 22 febbraio 2007 durante una conferenza organizzata dal Movimento Umanista. La dichiarazione è il frutto del lavoro di piu’ persone e organizzazioni e cerca di sintetizzare le opinioni comuni e concentrarsi sul tema degli armamenti nucleari. Questa campagna è aperta a tutti e tutti possono dare il proprio contributo per svilupparla.

In copertina: foto di elaborazione Europe for Peace.

Poesie-canzoni contro la guerra

 

Le canzoni attraversano le nostre vite. Tutte. Che siano poesie cantate o musiche che accompagnano qualche bel verso, resta argomento di conversazione, tema irrisolto, ma forse irrilevante. Molto spesso le ascoltiamo senza prestare troppa attenzione al testo che sta abbracciato alla musica. Le usiamo come sottofondo alle attività più disparate, le canticchiamo sotto la doccia, le associamo a momenti particolari delle nostre vite, ritrovandoci come tanti Marcel ad inzuppare emozioni al semplice dispiegarsi di qualche nota o verso.

Chiunque sappia strimpellare una chitarra ha sicuramente provato a comporre una canzone, così come quasi tutti – le eccezioni esistono in ogni ambito – hanno prima o poi affidato a qualche verso “poetico” il bisogno di esprimere sensazioni, riflessioni, impressioni.

“ poi se la gente sa
E la gente lo sa che sai suonare
Suonare ti tocca
Per tutta la vita
E ti piace lasciarti ascoltare”.

Versi indimenticabili del Suonatore Jones, alias De Andrè, da cui vorrei partire per parlare di canzoni. Un pretesto per affrontare, con leggerezza, ma anche la necessaria profondità, tutto ciò che ci accade attorno, che forse diventerà storia, ma che sicuramente è la vita che ci scorre accanto e che ci propone in continuazione argomenti su cui riflettere, meditare, discutere.

Partire da una canzone per arrivare chissà dove, anche a me stesso. Prendetelo come programma di una rubrica aperiodica e anarchica. Almeno questa è l’intenzione. Se non sarò all’altezza, certamente non sarà colpa delle canzoni.

Per iniziare ho pensato a Leonard Cohen, prima poeta e poi cantante-autore. C’è la difficoltà della lingua: le traduzioni sono sempre qualcos’altro. Ma possiamo provare ad avvicinarci, con l’umiltà dei dilettanti e la passione degli amanti.

Il brano che ho scelto per parlare di guerra, è “Anthem”, che possiamo tradurre con “Inno”.

La parola però è imparentata con antiphon (antifona) e questo la riporta al suo alveo originale di composizione musicale vocale usata per accompagnare testi di natura religiosa. Aggiungiamo che l’album The Future a cui appartiene, è l’ultimo pubblicato dal nostro nel 1992, prima di un lungo ed importante ritiro dalla scena musicale.
Cohen infatti di lì a poco salì in montagna per ritirarsi in un monastero buddista, nei pressi di Los Angeles. Come raccontò “Roshi, il suo maestro zen, l’aveva cambiato: «Cucinavo per lui, ero il suo attendente. Lui non parla bene inglese, la conversazione era elementare, nessuna grande idea, nessun concetto complesso. Gli portavo la cena, lui diceva: “Questo ristorante buono”. Sono suo amico da trent’anni, nel 1993 pensai che fosse il momento di passare un po’ di tempo con lui. Sono andato nel suo monastero…” (Piero Negri,  da La Stampa del 12 novembre 2016).
Per inciso, quando ritornò alla musica e allo show-business, nei primi anni duemila, scoprì che la sua agente e per un certo periodo anche compagna, mentre lui se ne stava a meditare, lo aveva messo quasi sul lastrico, sottraendogli indebitamente parecchi soldi.

Parlare di guerra è imbarazzante, lontano dal fronte e dalla sua carneficina. Ho a suo tempo fatto obiezione di coscienza, ma l’ho fatta forse come tanti, senza dover veramente mettere alla prova la forza e la profondità della mia decisione. Ricordo che quando, poco più che diciottenne, presentai la domanda e fui chiamato in caserma per il colloquio di rito con i carabinieri che dovevano presentare la loro relazione ‘conoscitiva’ sulla mia persona e quindi sull’attendibilità della mia richiesta, ero parecchio teso. Sicuramente si trattava del primo caso per l’Arma nel mio paese, Comacchio.  In sala di attesa, ad aumentare la mia ansia per quel colloquio, mi ritrovai con un signore, probabilmente un habituè della caserma, che si lamentava perché era stato convocato per l’ennesimo controllo.

In testa mi frullavano i consigli che gli amici e alla Loc di Bologna mi avevano dato in quei mesi. “Se ti chiedono come ti comporteresti di fronte a malviventi che stanno malmenando un tuo familiare, devi rispondere che ci parleresti, ma mai useresti armi per difenderli!”.
Non ero molto convinto di quella risposta, un po’ stereotipata, ma, mi era stato detto “non puoi metterti a discutere con i Carabinieri. Alla fine conta solo quello che dici e non puoi contraddirti!”.  Il colloquio fu però molto meno pregante e il carabiniere con cui parlai si limitò a chiedermi conferma delle cose scritte nella domanda di obiezione, ripetendomi che era fatica sprecata, sicuramente mi sbagliavo, non esisteva una legge come quella da me invocata: “Vedrai che farai il militare! Non c’è niente di male.”, mi disse bonariamente.

Ho ripensato anche a queste cose davanti alla tragedia della guerra in Ucraina. Così come alla tremenda confusione che mi aveva accompagnato quasi vent’anni dopo, davanti alla carneficina nella ex-Jugoslavia. Ho ripensato alle parole di Alex Langer in occasione dei bombardamenti della Nato e mi sono ricordato di quando poco prima della sua decisione di togliersi la vita, l’ho intervistato, alla Sala Estense, ai margini di un incontro pubblico su questi temi. Alex era visibilmente stanco e provato dal suo incessante viaggiare da una parte all’altra dell’Europa, instancabile tessitore di ponti tra le persone.
Forse abbiamo dimenticato il suo attualissimo j’accuse del 1995: “L’Europa muore o rinasce a Sarajevo”, quando si recò a Cannes a manifestare davanti ai Capi di stato e di governo, per la Bosnia Herzegovina. “Basta con la neutralità tra aggrediti ed aggressori, apriamo le porte dell’Unione europea alla Bosnia, bisogna arrivare ad un punto di svolta!”.

La storia ovviamente non si ripete. In questo caso l’Europa non sembra neutrale, ma forse lo è stata prima, quando con l’annessione della Crimea nel 2014, la guerra tra Ucraina e Russia, anche se per interposta persona, è iniziata.
Anche in questo caso le parole di Alex sembrano profetiche:
Penso che nella convivenza tra diversi noi sia molto importante che ognuno di questi noi non si senta in pericolo, cioè non si senta minacciato. Quando ci si sente minacciati è vicina la tentazione della violenza… Quindi credo che oggi uno dei grandi compiti di chiunque abbia voglia di un futuro amico sia proprio quello di diventare in qualche modo, nel suo piccolo, pontiere, costruttore di ponti del dialogo, della comunicazione interculturale o interetnica” (dall’intervento al Convegno giovanile di Assisi, Natale 1994).

Purtroppo la violenza è scoppiata ed ora è tremendamente difficile porvi rimedio.  Ma forse, come scrive Leonard Cohen “c’è uno spiraglio in ogni cosa” e dobbiamo assolutamente trovarla.

ANTHEM

The birds they sang                        Gli uccelli cantavano
at the break of day                          all’alba
Start again                                       ricominciamo
I heard them say                              li ho sentiti dire
Don’t dwell on what                        non soffermiamoci su ciò che
has passed away                              è passato
or what is yet to be.                         o che deve ancora essere.

Ah the wars they will                      Ah le guerre saranno
be fought again                                combattute ancora
The holy dove                                 la santa colomba
She will be caught again                 verrà ancora catturata
bought and sold                               comprata e venduta
and bought again                             e comprata di nuovo
the dove is never free.                     la colomba non sarà mai libera

Ring the bells that still can ring       Suonano le campane che ancora possono suonare
Forget your perfect offering            dimentica la tua offerta perfetta
There is a crack in everything         c’è uno spiraglio in ogni cosa
That’s how the light gets in.             ecco da dove la luce arriva

We asked for signs                           Chiediamo segni
the signs were sent:                           segni sono stati mandati:
the birth betrayed                              la nascita tradita
the marriage spent                             il matrimonio consumato
Yeah the widowhood                        sì la vedovanza
of every government                     di ogni governo
signs for all to see.                            segni che possiamo vedere tutti

I can’t run no more                            Non posso correre di più
with that lawless crowd                     con quella folla senza legge
while the killers in high places          mentre gli assassini nelle alte sfere
say their prayers out loud.                 recitano le loro preghiere a voce alta
But they’ve summoned, they’ve summoned up          ma hanno evocato, hanno convocato
a thundercloud                                                            una nube tempestosa
and they’re going to hear from me.                             e stanno per sentirmi

Ring the bells that still can ring …

You can add up the parts                 Potete sommare tutte le parti
but you won’t have the sum             ma non arriverete ad avere la somma
You can strike up the march,          potete iniziare a marciare
there is no drum                               non c’è nessun tamburo
Every heart, every heart                   ogni cuore, ogni cuore
to love will come                             arriverà all’amore
but like a refugee.                            ma come un esule

Ring the bells that still can ring…

(La traduzione è del sottoscritto, sostanzialmente un dilettante)

Cover: Leonard Cohen in concerto – foto Wikimedia Commons

La Biblioteca Popolare Giardino va alla Vulandra!
Dal 23 al 25 aprile al Parco Bassani di Ferrara

La Biblioteca Popolare Giardino va alla Vulandra

In occasione de La Vulandra la nostra biblioteca si trasferisce tre giorni al parco Bassani
tra gli aquiloni della più che trentennale manifestazione internazionale.

Saremo presenti con una scelta dei nostri libri
che potrete fermarvi a curiosare, leggere ed anche prendere a prestito.
Tutto il giorno dalle 10 alle 19, nei tre giorni 23-24-25 aprile.

Inoltre sempre presso il nostro stand potrete partecipare a:
Sabato 23 Aprile 
Ore 16 Laboratorio “Insieme con i Colori” a cura di Miriam Cariani per bambini/ragazzi
Ore 18 Language cafe’ di italiano a cura di Maria Alberta Gaiani

Domenica 24
Ore 16 Laboratorio creativo di costruzione oggetti con materiale di recupero
a cura di Paolo Pasini per bambini

Lunedì 25
Ore 16 Language Cafe’ di inglese a cura di Caterina Selvatici

Veniteci a trovare!!! 

www.bibliopopgiardino.it
info@bibliopopgiardino.it
https://www.facebook.com/bibliopopgiardino/

PRESTO DI MATTINA
Il suo dono

Suo dono è la Pasqua

È nella notte che è risorto
È dalla mia notte che è risorto
Pesavo, dormivo su di lui, io sono la pietra
Dal sepolcro per sempre rotolata via

Occhi, lingue, volti
Che annunciano nei secoli
Io sono fino alla fine dei tempi
L’asse del cielo, la ruota del vento
L’albero della vita le cui radici
Fanno di tutti i corpi un corpo solo.
Basta un papavero
Spinto fuori dalla tomba
Per farmi uscire
E per celebrare
Il Risorto che mi fa dono
Di uno scorcio d’alba e fra i denti un fiore
Il dono di vivere nella gloria
Dell’eterno quotidiano

(Pierre Emmanuel, Évangéliaire, Ed. du Seuil, Paris 1961, 213; 230)

Il dono annuncia il passare da se stessi all’altro, valicando la propria solitudine. Ma dice pure il darsi e il riceversi nella gratuità dell’amore, al modo della Pasqua − “transitus Domini” − il suo passare da noi al Padre suo, dal suo amore per noi all’agape di Dio, varcando la soglia invalicabile del sepolcro, oltre l’orizzonte chiuso della nostre morti.

Suo dono a Pasqua è il vangelo quadriforme, che pure transita da una persona all’altra, da allora fino ad oggi. Sono occhi, lingue e volti che annunciano lungo tutti i secoli “il rosso e delicato papavero che ha spezzato la pietra, l’asse del cielo, la ruota del vento, l’albero della vita, il dono di uno scorcio d’alba presto di mattina”.

Insieme, appassionatamente essi, sparpagliati tra la gente, trasmettono quello che a loro volta hanno ricevuto fin dal mattino di Pasqua: un passa parola, passo dopo passo che attraversa la vita di ciascuno rendendola un testimone.

La narrazione di questa traditio degli apostoli la troviamo in una lettera di Paolo ai Corinti: «Vi faccio poi presente, fratelli, il lieto annuncio che abbiamo annunciato a voi e che voi avete ricevuto e nel quale state (saldi) e per mezzo del quale siete anche salvati. Trasmisi infatti a voi che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è stato risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa quindi ai Dodici» (1Cor 1, 1-8).

E più avanti Paolo lo afferma del dono del corpo e del suo sangue del Cristo, della sua presenza significata e attuata nella condivisione del pane e del calice, sua vita data per tutti. Da quella notte in cui veniva consegnato non ha mai più smesso di consegnarsi nel vangelo e nell’eucaristia sacramento del suo amore:

«Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso (tradidi vobis) : il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito (tradebatur), prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me. Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga”», (1Cor 11, 23-26).

Suo dono a Pasqua: la tomba aperta, la libertà dello Spirito, una creazione nuova.

A Pasqua viene generato uno spazio di libertà: la tomba vuota è così luogo sorgivo del dono dello Spirito del Risorto; scaturigine di una libertà amante, che nemmeno la morte ha potuto trattenere dal donarsi ai suoi discepoli, mostrandosi risorto e vivo in mezzo a loro.

È sempre Paolo che scrive: «Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore», (2Cor 3, 17-18). Il dono e la libertà dello Spirito rigenerano e ricreano la qualità dei legami tra Gesù e i suoi, tale da permettere il reciproco riconoscimento.

Dicono gli esegeti che nel racconto pasquale del vangelo di Marco abbiamo forse due tradizioni inizialmente distinte tra loro: la tradizione del sepolcro aperto e quella delle apparizioni/manifestazioni del risorto; apparizioni di riconoscimento e apparizioni di invio missionario.

Manifestazioni per esprimere le quali è usato il verbo ‘vedere’: fu visto o si fece vedere. Il riferimento non è però a una visione che viene da loro, ma da lui: l’iniziativa è sempre del Risorto. Così coloro che avevano conosciuto quaggiù Gesù di Nazareth, durante tutto il suo ministero, attestano che egli è proprio lo stesso, sebbene divenuto altro, e che è lui, con tutto il suo messaggio, la sua persona indimenticabile e i suoi segni, ad essere stato risvegliato dai morti.

E ancora vorrei sottolineare come la descrizione e le immagini aurorali, con cui si apre il racconto nel vangelo di Marco, fanno pensare ad una nuova creazione iniziata con la risurrezione di Gesù: «Di buon mattino, (le donne) il primo giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levar del sole», (16,2).

Come pure le ultime parole ci mettono sotto gli occhi la nuova comunità dei discepoli in uscita missionaria: «Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (16,20). Si noti la reciprocità del dono: quasi un ospitarsi l’uno nello spazio aperto dell’altro. Il Cristo e il suo vangelo nei discepoli; i discepoli e il loro buon annuncio nel Cristo.

Si trasmette solo ciò che si vive. Così è pure del dono del vangelo. L’annuncio chiede la testimonianza della vita. Scrive Roberto Repole [Qui]:

«La testimonianza viene qui affidata ai cristiani nei quotidiani e affatto normali contatti con le persone con cui convivono nei diversi ambienti della vita. È qui ed è così che può essere reso disponibile il dono, anche nel suo debito dell’annuncio: il quale avviene solo dal di dentro di questa testimonianza.

Se ciò che si deve donare nell’annuncio è lo spazio che si è aperto in Cristo (con la Pasqua), questo non verrà “detto” se non laddove ci siano dei cristiani che si fanno essi stessi spazio ospitale per altri uomini: l’annuncio non può avvenire senza questa testimonianza; e viceversa.

Ciò che si tratta di annunciare non può essere trasmesso se non con una vita che attragga per la capacità di essere realmente ospitale nei confronti dell’altro, per una presenza che gli fa spazio e gli consente di essere, per uno spendersi per l’altro che sia un ascoltarlo profondamente, per un offrire che mostri di vivere, al pari del destinatario dell’annuncio e dunque nella sua compagnia, nel costante bisogno del dono divino per essere…

Tale ridondanza del dono risulterà reale a misura che si realizzi nella stessa forma: nella gratuità e nel disinteresse, ma anche nella speranza che il destinatario possa, nella sua libertà, corrispondere al dono offerto e nella disponibilità della Chiesa a lasciarsi trasformare dal donatario» (La chiesa e il suo dono, Brescia 2019, 343; 7).

Il dono del Figlio

Il suo dono a Pasqua è proprio lui stesso, il Figlio amato, dato per noi, consegnatoci unitamente alla sua missione di prossimità e intercessione. Suoi doni trasmessi non solo alla cerchia dei discepoli, alla sua chiesa, ma a tutti quelli che stanno transitando un valico di prossimità e intercessione verso una umanità sofferente, e così facendo divengono collaboratori di quella incorporazione misteriosa al corpo stesso del Cristo cosmico e universale.

È Gesù stesso che ricorda a Nicodemo di essere dono del Padre: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare (daret) il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,16-17).

Il verbo greco usato è didomi’, nel latinodo/datum/dare’. Il biblista Léon-Dufour [Qui]  afferma che «con questo verbo viene messo in rilievo propriamente l’aspetto di “dono”, un dono in cui si ricapitola tutta intera la missione del Figlio nel mondo. Di fatto nel versetto seguente, il verbo parallelo ‘inviare’ non allude direttamente alla sua passione, ma piuttosto a tutta l’opera del Figlio nel suo insieme. Secondo l’angolazione giovannea, e anche qui, Gesù è eminentemente il Rivelatore del Padre, è Colui la cui parola risveglia l’uomo alla comunicazione divina» (Lettura dell’evangelo secondo Giovanni. I, San Paolo, Milano 1990, 412).

Occorre infine rilevare che questo dono che è “il Figlio dato” non separa i cristiani dagli altri uomini. Basterebbe leggere la Lettera a Diogneto [Qui] per cogliere questo legame strutturale dei cristiani con l’umanità tutta; un legame che li rende membra, secondo il concilio, gli uni degli altri nel cammino spirituale di incorporazione al Cristo di tutta l’umanità [Qui].

Così nel dono del Figlio si dà il dono della testimonianza dei cristiani: Leggiamo nel documento Ad gentes 11 del Concilio:

«È necessario che la Chiesa sia presente in questi raggruppamenti umani attraverso i suoi figli, che vivono in mezzo ad essi o ad essi sono inviati. Tutti i cristiani infatti, dovunque vivano, sono tenuti a manifestare con l’esempio della loro vita e con la testimonianza della loro parola l’uomo nuovo, di cui sono stati rivestiti nel battesimo, e la forza dello Spirito Santo, da cui sono stati rinvigoriti nella cresima; sicché gli altri, vedendone le buone opere, glorifichino Dio Padre (cfr. Mt 5,16) e comprendano più pienamente il significato genuino della vita umana e l’universale legame di solidarietà degli uomini tra loro.

Ma perché essi possano dare utilmente questa testimonianza, debbono stringere rapporti di stima e di amore con questi uomini, riconoscersi come “membra” di quel gruppo umano in mezzo a cui vivono, e prender parte, attraverso il complesso delle relazioni e degli affari dell’umana esistenza, alla vita culturale e sociale.

Così debbono conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che vi si trovano nascosti; debbono seguire attentamente la trasformazione profonda che si verifica in mezzo ai popoli, e sforzarsi perché gli uomini di oggi, troppo presi da interessi scientifici e tecnologici, non perdano il contatto con le realtà divine, ma anzi si aprano ed intensamente anelino a quella verità e carità rivelata da Dio.

Come Cristo stesso penetrò nel cuore degli uomini per portarli attraverso un contatto veramente umano alla luce divina, così i suoi discepoli, animati intimamente dallo Spirito di Cristo, debbono conoscere gli uomini in mezzo ai quali vivono ed improntare le relazioni con essi ad un dialogo sincero e comprensivo, affinché questi apprendano quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli; ed insieme devono tentare di illuminare queste ricchezze alla luce del Vangelo, di liberarle e di ricondurle sotto l’autorità di Dio salvatore».

Quel Figlio dato − Parola che dice la misura di se stesso e nostra, chi egli sia e chi siamo noi, ed il comune destino di vita-morte-vita che ci lega per sempre − proprio lui a Pasqua ci chiede di fare ancor più nostre, carne e sangue nostro, le incredibili sue parole, quelle del Padre nostro e delle Beatitudini, affinché in lui, sovrabbondanza e smisuratezza del dono, nella sua Parola ci sia dato vedere, come le donne il mattino di Pasqua, il suo volto (“Verbe visage” direbbe Pierre Emanuel).

Volto del Verbo
La misura vera dell’uomo è Cristo
Ugualmente la vera misura del Cristo è l’uomo.
Dalla battaglia nasce la proporzione
Due abissi si sondano, due abissi si donano
L’uno all’altro forma e sostanza, uomo e Dio.
Giacobbe non può donare che la sua miseria
Incommensurabile a lui – degno di Dio
Dio dona il suo Spirito fermento di Dio
Che rende Giacobbe commensurabile alla sua miseria
Giacobbe è ferito all’anca
il Cristo inchiodato alla croce
Ciascuno innestato all’altro per ferita.
Parola di Dio e linguaggio di uomo
Parola umana nella Parola di Dio
Il combattimento è buona notizia
Proferita, contestata e raccolta.
Ogni vocabolo reso chiaro nella stessa carne
Sofferto, odiato e adorato
Volto del Cristo unica somiglianza
Che non finisco mai di decifrare
Sulle tue labbra la nostra tutta santa identità.

(Pierre Emmanuel “Verbe Visage”, in Jacob ed du Seuil, Paris 1970, 163.)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui] 

Irina e Albina dietro alla croce di Francesco
e una misera politica bacchetta il papa

 

La croce di Gesù porta scandalo. Per chi crede e per chi non crede. Uno scandalo è il sacrificio degli innocenti. È straordinariamente toccante e lungimirante il fatto che Papa Francesco abbia assegnato la meditazione sulla morte di Gesù, tredicesima stazione della Via Crucis del Venerdì Santo, a due donne, Albina, russa, e Irina, ucraina.

Due donne la cui amicizia non è un infingimento, non nasce come cortesia alla fantasia di un papà cattolico per guadagnare le prime pagine dei giornali, ma preesiste alla guerra e tutt’ora le unisce. Due operatrici sanitarie nello stesso Centro di cure palliative, quello gestito dalla Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma. Due donne, perciò, quotidianamente a contatto con la sofferenza umana del corpo e dello spirito. Due donne che condividono i gesti della cura e che reciprocamente si prendono cura l’una dell’altra resistendo eroicamente alla logica schiacciante della guerra che le vorrebbe nemiche.
Due donne che conservano la loro umanità e si riconoscono per ciò che sono; sì una russa e un’ucraina, ma anche infinite altre cose: un’infermiera e una studentessa, due figlie, forse due sorelle, forse due innamorate, e magari due persone che amano cantare, o cucinare, e che qualche volta si raccontano i loro sogni.

Sorprendente e scandaloso mi pare piuttosto che figure politiche abbiano l’ardire di mettere in discussione la scelta di Papa Francesco, fino a chiedere di ritirarla. Con quale diritto? Se giustamente teniamo alla laicità degli stati e ci sentiamo disturbati dalle intromissioni religiose sulle scelte politiche, lo stesso fastidio viviamo adesso, quando esponenti politici pretendono di dettare a una figura spirituale ciò che deve e non deve fare nelle sue celebrazioni. Soprattutto ora che la pretesa è di santificare una parte condannando l’altra alla dannazione e assorbendo nell’una e nell’altra tutto ciò che a ciascuna appartiene.
Il terreno del sacro è cosa altra, e non è il solo (davvero dovremmo disfarci di Cechov o di Dostoevskij per colpa di Putin?).

Fin dal momento in cui ha consacrato a Maria entrambi i Paesi, Francesco ha voluto indicare la strada opposta. Oggi, con questa Via Crucis, torna a farlo. La sua scelta non parifica l’aggressore e l’aggredito. Semmai riconosce pari dignità a tutte le vittime, che non sono da una parte sola. Potrei dire che non è un caso abbia scelto proprio due donne per fare questo: diversa è l’esperienza delle donne nella sofferenza e della cura, diversa è anche – per la massima parte – l’esperienza della guerra, e ciò che le donne evocano in chi guarda. C’erano, non a caso, due donne ai piedi della croce di Gesù.

Volendo parlare un linguaggio più terreno, Papa Francesco ha voluto riconoscere il valore dell’affetto tra Irina e Albina. È uno scandalo per il quale ringraziarlo: le mani delle vittime non sono insanguinate. Le donne russe che vedono i loro figli o i loro mariti costretti a partire per una guerra che non hanno scelto sono vittime quanto le donne ucraine, costrette a separarsi dai loro figli o dai loro mariti, che combattono, per mettersi al riparo con i bambini. Le loro mani non sono macchiate di sangue. Non portano la responsabilità di un attacco voluto da altri.

Se solo osiamo uscire dalla logica della guerra che semplifica e riduce la realtà allo scontro tra un “noi” e un “loro”, ci accorgiamo delle tante sofferenze che si stanno consumando in questo tempo. Soffrono i bambini russi in Italia se i compagni li additano come rappresentanti del loro paese aggressore. È vittima della guerra ogni amicizia e solidarietà interrotta anche nelle nostre città, tra le persone, le famiglie, le comunità russe e ucraine. Omettere la cura di questi legami per non tradire una qualche purezza della vittima non solo è falso ma è porre le basi per nuove violenze, nuove rivendicazioni.
Il bambino russo confuso con un aggressore che in nulla lo rappresenta o gli assomiglia è un bambino che, lasciato a se stesso, cercherà domani un riscatto, e nulla dice che lo farà nel modo più rispettoso di sé e degli altri.

Torniamo però al presente. Non è vero che i gesti di riconciliazione debbano attendere la fine delle ostilità, una fine assegnata a un tempo imprecisato nel quale qualcuno che ha iniziato l’orrore deciderà di concluderlo o sarà costretto a farlo, sulla base di convenienze che poco riguardano le persone comuni. È vero semmai che i facitori di pace possono iniziare subito, possono iniziare sempre. Così in Israele e Palestina dove da decenni associazioni miste collaborano per ridurre la violenza dell’occupazione e della guerra. Allo stesso modo in Russia e Ucraina occorre costruire la pace oggi.

Il sangue risparmiato è prezioso più del sangue versato. Non parla le parole della retorica ma quelle della vita. E mentre le diplomazie, gli eserciti, gli strateghi, i decisori politici non sanno farlo, è molto bene che incomincino dinanzi al mondo due donne, Irina e Albina, che ogni giorno condividono i gesti della cura per la sofferenza umana. Nulla vi è di più sacro, mentre altrove la vita umana si straccia.

Questo articolo è uscito ieri, 14 aprile, con altro titolo sul periodico Azione Nonviolenta 

In copertina: Pie donne al sepolcro, .XV Sec, Giuliano di Amadeo (Amadei, Giuliano). monaco camaldolese, pittore e miniatore.

OUT OF TIME. RIPARTIRE DALLA NATURA
Cinque artiste internazionali alla biennale donna di Ferrara.


 

Ogni cosa che puoi immaginare, la natura l’ha già creata.
(Albert Einstein)

La XIX edizione della Biennale Donna, sorprende nuovamente. Perché sorpresa, estro, creatività, originalità, sensibilità e meraviglia sono, ancora una volta, donna. Dal 27 marzo al 29 maggio il Padiglione d’Arte Contemporanea di Ferrara ospita la mostra OUT OF TIME. Ripartire dalla natura, a cura di Silvia Cirelli e Catalina Golban, una collettiva che presenta opere di cinque artiste internazionali: Mónica De Miranda (Portogallo, 1976), Christina Kubisch (Germania, 1948), Diana Lelonek (Polonia, 1988), Ragna Róbertsdóttir (Islanda, 1945) e Anaïs Tondeur (Francia, 1985).

Monica De Miranda
Christina Kubisch
Diana Lelonek
Ragna Robertsdottir
Anaïs Tondeur

Mi ci sono avvicinata con curiosità e umiltà, quasi con un poco di timore reverenziale, visto il tema complesso che sapevo di andare a incontrare. La mostra, infatti, illustra la necessità di ripensare le strutture radicate in una società impazzita che non sta più al passo con l’Uomo, di riorganizzare le pratiche consolidate in ambito sociale ed economico e mostrare i legami con il dibattito ecologico in corso. Un dibattito complesso e che mette di fronte a tante responsabilità condivise. Il risultato è davvero brillante.

La diversa consapevolezza rispetto all’ambiente naturale che ci circonda che si è sviluppata negli ultimi anni (considerando anche i giovani dei Fridays for Future, ma non solo) e che oggi, soprattutto dopo il terribile tempo di pandemia, si va rafforzando, chiama tutti ad una riflessione più acuta sulla consapevolezza che il modello finora seguito non regge più. Lo sviluppo a tutti i costi e il mantra della crescita continua non sono più sostenibili. Il modello di sviluppo finora perseguito è obsoleto e non regge più.

Come se non bastasse, la guerra in corso sta mostrando anche la debolezza di un sistema energetico fallibile e in fallimento. Chi parla della necessità dell’essere disposti a un qualche sacrificio ci porta a confrontarci anche con questo crescente bisogno di rinunce.

Non vorrei divagare troppo, ma vi invito, in proposito, a leggere La fine del mondo storto di Mauro Corona, uscito nel 2010. Incredibilmente attuale. Un giorno il mondo si sveglia e scopre che sono finiti il petrolio, il carbone e l’energia elettrica. È pieno inverno, soffia un vento ghiacciato e il freddo è insopportabile. Gli uomini si guardano l’un l’altro. E ora come faranno? Come sopravviveranno e chi ce la farà? La stagione gelida che non perdona avanza e non ci sono termosifoni a scaldare, il cibo scarseggia, non c’è nemmeno più luce a illuminare le notti. Le città sono diventate un deserto silenzioso, senza traffico e senza rumori. Tutto tace (e non era forse così anche in pandemia?). Rapidamente, gli uomini capiscono che se vogliono arrivare alla fine di quell’inverno di fame e paura, devono guardare indietro, tornare alla sapienza dei nonni che ancora erano in grado di fare le cose con le mani e, soprattutto, ascoltavano la natura per cogliere i suoi insegnamenti. Resi uguali dalla difficoltà estrema, gli uomini si incammineranno verso la possibilità di un futuro più giusto e pacifico, che arriverà insieme alla tanto attesa primavera. Ma il destino del mondo è incerto, consegnato nelle mani incaute dell’uomo… Cosa di più attuale???

Dicevamo, quindi, anche partendo dalle incredibili, illuminate e profetiche pagine di Corona, che la nostra terribile epoca antropocentrica ha bisogno di essere ripensata tramite nuovi paradigmi, che potrebbero (e dovrebbero) prefigurare un modo altro di essere nel mondo. L’antropocene, termine coniato, nel 2000, per l’era geologica attuale dal chimico olandese premio Nobel Paul Crutzen (mentre la data-simbolo del suo inizio il 16 luglio 1945 è frutto di una ricerca compiuta da un gruppo internazionale di studiosi), oggetto di un omonimo film del 2018 molto duro ma reale, si presenta ormai chiaramente come questa era terribile e inquieta in ci viviamo dalla quale, in qualche modo, bisogna tornare indietro.

Lo sguardo con cui siamo abituati a vedere il mondo è assolutamente antropocentrico, una realtà nella quale gli esseri umani sono la (sola) misura di tutte le cose. Tutto ciò che non è umano è un contorno, un decoro, una bella cartolina, una compagnia, una proprietà. I mondi vegetale e animale sono solo un bel panorama. Mentre noi, in realtà, siamo quella Natura e il pianeta non ci appartiene, anzi, ne siamo ospiti spesso maleducati e irrispettosi. I disastri urbani sono stati presentati come simbolo di modernità, così come lo sono state alcune scoperte che ci avrebbero semplificato la vita quotidiana (basti pensare alla banale plastica e al miracolo dell’usa e getta di quando eravamo ragazzini). L’Uomo ha sempre avuto bisogno del controllo, quello dell’identità, della perfezione, della bellezza, della purezza, della perfezione dell’abilità, della felicità, del potere. Oggi che lo sta perdendo mostra sempre di più la sua fragilità e solo il recupero del suo essere natura lo potrà salvare.

Ragna Robertsdottir, Saltscape 15. September 2018

È quindi inevitabile che l’arte affronti il mondo di oggi con le sue questioni ecologiche più pressanti. Le riflessioni che ne derivano da ambiti differenti confluiscono, attraverso diversi linguaggi artistici (installazioni, fotografie e video), in una mostra che esplora il rapporto tra l’essere umano e l’ambiente, ed esamina le interazioni tra essi. Ponendo anche l’attenzione sulle modalità di appropriazione dell’ambiente come conseguenza drammatica dello sfruttamento delle risorse naturali. Un ulteriore monito al doversi saper fermare in tempo. Un grido.

Monica De Miranda, Untitled (da serie Arquipelago), 2014

Le cinque artiste in mostra indagano gli scambi e la possibile alleanza tra tutti gli esseri viventi ospitati da questo pianeta. Diverse sono le prospettive che richiamano l’attenzione sui modi in cui la natura è stata stravolta nella ricerca dell’egemonia da parte dell’essere umano, mettendone in luce le ripercussioni sull’ambiente e sul tessuto sociale.

Secondo il filosofo Emanuele Coccia, “il mondo non è un luogo ma è lo stato di immersione di ogni cosa in ogni altra cosa, la mescolanza che rovescia istantaneamente la relazione di inerenza topologica”. Il mondo, che lui identifica con la stessa natura, è dunque mescolanza. Tutto è in tutto, diceva Anassagora. Una mescolanza che chiede co-abitazione, co-operazione, co-creazione, co-narrazione, compenetrazione. E la natura è proprio la mescolanza di ogni cosa, ogni essere ha senso non nella sua identità e separatezza ma nella sua partecipazione alla mescolanza. Il percorso che ci accingiamo a fare oggi al PAC porta a questa conclusione.

La mostra si apre con l’islandese Ragna Róbertsdóttir, artista dal lavoro minimalista, che sorprende per l’impiego di componenti dall’evidente potenza materica. Lava, vetro, pomice, ossidiana, rocce vulcaniche, sale, o conchiglie caratterizzano una personale impronta espressiva che sfocia in un legame viscerale con il mondo naturale. Dentro la terra, da essa si sprigiona potenza, la materia che diventa solida, la forza della natura che modella, scolpisce, permea, avvolge e (s)travolge. Alcuni dei suoi lavori, dal 1984 al 2017, sono raccolti anche in una bella (e suggerita) pubblicazione. In un’originale intervista del 2018 per l’Icelandc Art Center, l’artista, che vive tra Arnarfjörður e Berlino, sottolinea come il suo metodo sia un interessante mix fra l’intenzione e il caso: non ha mai il controllo dei risultati del suo lavoro.

Ragna Robertsdottir, Saltscape

Oltre ad alcune delle sue opere più significative, come la serie in bianco e nero Saltscape, realizzata con sale marino e sale di lava nero, o View, dove domina la lava rossa del vulcano Seyðishólar (sempre un dipinto monocromo ma, a una visione più attenta, si scoprono il caos e l’ordine di cui è capace la natura), la Biennale Donna ospita anche un’altra grande installazione della lava scura che, guardata da lontano assomiglia a un dipinto minimalista, monocromo e austero: tanti puntini neri. Avvicinandosi, invece che pittura, ci si trova di fronte a migliaia di granelli provenienti dal vulcano islandese Heika: su uno strato di colla, l’artista getta a mani nude i residui di lava, alcuni dei quali si attaccano alla superficie, mentre altri cadono a terra. Questi ultimi vengono recuperati e riposizionati con minuziosa attenzione, in un equilibrio casualità/intento che filtra tutto il processo creativo, evidenziando quanto la natura stessa ceda spesso alla fatalità. Qui vedo la forza.

Ragna-Robertsdottir Lava Landscape 2022
Ragna Robertsdottir, View, 2019

Di differente sintesi poetica e di diversa narrativa è invece l’approccio della francese Anaïs Tondeur, la cui ricerca si concentra su una pratica artistica di derivazione scientifica, frutto di studi realizzati con la collaborazione di geologi, oceanografi, fisici e antropologi (fra essi, Germain Meulemans). Le due installazioni multidisciplinari presentate in mostra (A memory of ocean e Petrichor) sono, infatti, la traduzione visiva di indagini scientifiche rispettivamente dedicate alle tracce del petricore, l’inconfondibile odore della pioggia sul suolo asciutto, e all’analisi dei cicli oceanici, di vitale importanza per una maggiore comprensione dei cambiamenti climatici terrestri.

Petrichor, View of the installation, Domaine Départemental de Chamarande, France, Copyright Anaïs Tondeur & Germain Meulemans, 2017

In particolare, il neologismo petricore – composto dal greco petra, pietra, e ichor, termine usato da Omero per definire il sangue degli dèi – fu coniato negli anni Sessanta da due scienziati australiani. L’indagine di Tondeur rileva l’intreccio di interazioni invisibili tra l’acqua piovana, l’attività dei batteri del suolo, il sole che li riscalda e le condizioni atmosferiche che intrappolano l’ozono. Attraverso un’installazione quasi onirica, lo spettatore è invitato a soffermarsi sulle potenzialità del suolo e la sua interrelazione con altri elementi, micro e macro organismi.

Per l’Oceano, invece, l’artista si affida alla comunità oceanografica internazionale per avere una raccolta di campioni e dare sostanza a una storia liquida: grazie a vari laboratori nel mondo e al fisico Jean-Marc Chomaz, ha raccolto da ogni oceano campioni d’acqua a diverse profondità, dalla superficie fino a 8000 metri. La collezione narra così il viaggio secolare, attraverso la memoria delle acque e delle correnti oceaniche, della circolazione termoalina. Collega tutte le acque del pianeta in circa 1500 anni, con un anello di correnti che distribuisce il calore globalmente. Gli attuali cambiamenti climatici concorrono a ridurre il volume dell’acqua che precipita verso l’abisso, rallentando di conseguenza la circolazione termoalina con potenziali gravi conseguenze sulle temperature mondiali.

A memory of the ocean View of the Installation

Qui vedo l’odore intenso della natura, la bufera (del clima) e l’interconnessione della(e) vita (e).

La Biennale prosegue poi con il mondo visionario di Mónica De Miranda, poliedrica artista portoghese di origini angolane, che vive tra Lisbona e Luanda, la cui eredità culturale ha fortemente influenzato il suo percorso artistico, portandola all’esplorazione dell’evoluzione ambientale da un punto di vista antropologico. Confrontandosi con le ferite di un colonialismo violento, l’artista si sofferma sulle convergenze fra stratificazione sociale e cambiamento dell’ecosistema, proponendo “geografie emozionali” – come lei stessa le definisce – cioè narrazioni urbane che seguono intimi processi identitari.

Monica De Miranda, All that burns melts into air, still da video

L’installazione Under water raffigura un prezioso ecosistema, un angolo di rara biodiversità che viene però completamente estrapolato dal proprio contesto naturale per essere posizionato in un luogo inconsueto e ad esso estraneo. La flora autoctona e l’insolito acquario suggeriscono una vulnerabile precarietà, uno smarrimento, un allontanamento dal proprio sicuro habitat. Uno sradicamento di questo munito ecosistema che si riflette nello strappo sociale e culturale subito dai colonizzati della fotografia riflessa nello specchio accanto, costretti a risanare un trauma perpetrato per secoli e nei secoli.

Monica De Miranda, Under Water, 2020

All that burns melts into air (2020) è stupefacente, vi invito a visionare anche un estratto del video ad esso dedicato. Qui, fra le ferite di un colonialismo violento, vedo la città serrata e fortemente urbanizzata che prevarica e soffoca la natura.

Monica De Miranda, All that burns melts into air, 2020

La prevaricazione dell’uomo sulla natura torna baricentrica anche nel percorso creativo della polacca Diana Lelonek, la più giovane (classe 1988), laureata al dipartimento di Fotografia della Facoltà di Comunicazione Multimediale della University of Art in Poznan. Avevamo sentito parlare dell’artista, in occasione di una mostra, Diana Lelonek: Buona fortuna, organizzata a Roma presso il Pastificio Cerere nel 2020. Diana crea progetti interdisciplinari basati su una ricerca ispirata alle scienze naturali e all’eco-attivismo, che sollevano la questione dell’impatto umano sulla natura e la fine dell’antropocentrismo come epoca geologica in cui l’ecosistema terrestre è fortemente condizionato dagli effetti dell’azione dell’uomo. L’artista, offrendo una visione critica sui processi di sovrapproduzione, focalizza la sua parabola espressiva sulla possibilità di soluzioni alternative di convivenza e coesione fra mondo naturale e mondo umano. Tale approccio empatico detta le basi di un’interdipendenza fra specie e l’accettazione di uno scenario trasversale di chiara rottura rispetto a quello attuale. Nell’opera Ministry of the Environment overgrown by Central European mixed forest, realizzata per una campagna pubblicitaria del collettivo Sputnik Photos, denuncia la grave politica di disboscamento dell’ultimo polmone vergine d’Europa, la foresta di Bialowieza, portata avanti nel 2016 dal governo polacco. Allo stesso tempo, filtra il messaggio con poesia sublime, in bilico fra triste presago e consapevole allarme. In questa foto, la vegetazione selvaggia riconquista i propri spazi, la lontana presenza di cerbiatti che scrutano l’osservatore, quasi a volergli intimare di andarsene. L’impronta umana è devastante.

Diana Lelonek, Ministry of the Environment overgrown by Central European mixed forest, 2017

Qui vedo l’Umano che supera l’Umano e la natura che, tentando di recuperare il proprio spazio, chiama aiuto.

Chiude il percorso espositivo il lavoro di Christina Kubisch, una delle più incisive figure della sound art tedesca. Attingendo a un’estetica inedita, la compositrice (ma non solo, ha, infatti, studiato pittura, musica – flauto e composizione – e musica elettronica ad Amburgo) è riuscita nell’intento di proiettare “paesaggi acustici” attraverso l’esplorazione del potere del suono. Le sue polifoniche installazioni sonore indagano il cosiddetto inquinamento acustico silenzioso, esperienza sensoriale fondamentale per poter comprendere lo stato di saturazione elettromagnetica diffusa intorno a noi.

Christina Kubisch_Cloud, 2019

Il respiro del mare è un’opera costituita da due forme identiche, simili a labirinti realizzati con cavi elettrici al cui interno scorre un suono preregistrato. Una struttura contiene il suono perpetuo del mare, l’altra il respiro dell’artista. Spostandosi da un labirinto all’altro, grazie a piccoli altoparlanti realizzati ad hoc, il visitatore cattura e sente le onde elettromagnetiche che viaggiano attraverso il cavo, mentre lo spostamento nello spazio da una forma all’altra gli consente di mescolare i suoni dando vita, appunto, al respiro del mare.

Christina Kubisch, Il respiro del mare, 1981

Qui vedo il suono prorompente della natura che respinge il chiasso umano, che satura.

Noi, voi, loro, tutti insieme. Ci sarebbe da raccontare ancora per ore… Il percorso che potrete fare, se solo lo volete veramente, è unico, davvero. Siete incuriositi, almeno un po’?

Non ci salveremo se non ricuciremo tutti i fili di questa tela lacerata che siamo diventati – Rossana Rossanda

 

OUT OF TIME. Ripartire dalla natura

27 marzo – 29 maggio 2022, Padiglione d’Arte Contemporanea, Corso Porta Mare 5, Ferrara

A cura di Silvia Cirelli e Catalina Golban. Organizzatori: UDI – Unione Donne in Italia e Servizio Musei d’Arte – Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea in collaborazione con la Fondazione Ferrara Arte, con il sostegno della Regione Emilia-Romagna

Orari di apertura: 10.00 – 18.00, chiuso il lunedì. Aperto anche 18 e 25 aprile, 1° maggio

Crediti fotografici: Monica De Miranda: © l’artista e Sabrina Amrani, Madrid; Christina Kubisch: ph. Nikolas Brade, © Christina Kubisch; Diana Lelonek: ph. Yulia Krivich / Szum Magazine; Ragna Robertsdottir: © Jóhanna Ólafsdóttir; Anaïs Tondeur: ph. Patricio Retamal

 

L’ultimissima guerra
un racconto quasi vero

 

“In conclusione (pausa) signori delegati (pausa prolungata) e amici carissimi (pausa infinita) devo confessarvi che abbiamo finito tutte le nostre cartucce”. Il rappresentante USA nonché Segretario del Super Consiglio di Sicurezza si lasciò sprofondare (non senza enfasi) nella sua ampia poltrona di finta vera pelle. Ci pensasse la Cina, con tutta la vomitosa retorica del suo fottuto Impero della Terra di Mezzo e i suoi due miliardi di musi gialli a trovare una soluzione. Ma Il delegato del Partito Paleocomunista Cinese, per la prima volta nella storia, non trovò di meglio che accodarsi allo scoramento statunitense. “Sarebbe a dire?” – ruggì il presidente onorario MacNamara, spalancando le sue orbite color ghiaccio secco. “Sarebbe a dire – rispose il cinese con un placido sorriso confuciano – che anche noi abbiamo finito munizioni.”.
Nel linguaggio figurato del Super Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la gloriosa quanto fallimentare organizzazione che aveva appena celebrato in pompa magna i suoi primi cento anni di vita, le cartucce, ovvero le munizioni, alludevano alle sterminate risorse militari a disposizione dell’Alleanza Planetaria e alle geniali trovate diplomatiche degli strateghi militari. Anche queste ultime, come le ormai obsolete armi convenzionali e i nuovissimi droni micronucleari, stavano infatti dimostrando la loro totale inefficacia a fronteggiare l’emergenza.

A turno presero la parola gli altri membri del Consiglio, ma solo per rispettare la ritualità assembleare, perché né la Grande Santissima Russia, né l’Unione Sudamericana, né l’Impero delle Indie, né il Califfato Santo Riunito avevano uno straccio di soluzione da proporre. Mancava all’appello solo la Federazione Europea degli Stati Disuniti, la vecchia e saggia Europa. Erano però più di vent’anni che gli Stati Federati d’Europa non riuscivano a mettersi d’accordo su un nome condiviso per rappresentarli nel Consiglio di Sicurezza.

Fu ancora il vecchio Arthur Benjamin W. McNamara a reagire. Aveva fatto il generale per tutta una vita e in pensione da tre lustri, ma vivaddio, da generale non ci si dimette mai. “Facciamo entrare gli esperti”, ordinò McNamara, ed esibendo uno dei suoi celebri sorrisi rassicuranti, continuò: “vorrei ricordare a tutti i colleghi delegati due fatti incontrovertibili. Prima di tutto non ci dimentichiamo mai che noi siamo i buoni e loro i cattivi; e in più abbiamo un grande vantaggio dalla nostra parte, perché noi…” – qui la voce del vecchio generale infranse la barriera del suono minacciando l’integrità della grande vetrata della Sala Ovale – “noi, carissimi amici… NOI SIAMO VIVI! “.

Intanto nel campo avverso fervevano i preparativi per la battaglia. A dire il vero, fervevano anche troppo. Nello sconfinato salone del quartier generale regnava una sovrana baraonda. In piedi, o appoggiati con le mani o con i gomiti a un lungo tavolo malfermo, a voce altissima e difficilmente intellegibile, si confrontavano una trentina di uomini e una cinquina di donne. Erano gli alti ufficiali dell’esercito di liberazione, regolarmente eletti con l’antico e resuscitato metodo dei soviet.

Nel punto mediano della lunga frattina di noce – per intenderci, nella classica posizione del Nazareno nel Cenacolo di Leonardo – si scorgeva un po’ a fatica il comandante in capo. Vista la bassa statura, la trasandatezza dell’abito, la barba di una settimana e il viso a chiazze tipico dell’epatico, non si può dire che la sua figura dominasse la scena. Il generale di tutti i generali – riconoscibile solo per una benda rossa al braccio destro – non sembrava né Spartaco né un suo lontano parente, ma come non riconoscere al “Piccolo Corso” le qualità del grande stratega. Napoleone aveva già parlato, brevemente – ché lui era uomo del fare, non delle inutili chiacchiere – e ora continuava a guardarsi intorno, unico a bocca serrata in quel tripudio inestricabile di voci. Sorrideva, forse sogghignava, sicuro di potersi finalmente prendere una definitiva rivincita sulla battaglia più nota dei libri di storia. Si scosse infine dal suo allucinato mutismo e prese a confabulare con chi gli stava più vicino, il secondo e il terzo ufficiale, gli unici a cui concedeva una qualche stima, il giovane Alessandro di Macedonia che lo affiancava a sinistra e lo spelacchiato Caio Giulio alla sua destra.

Era un problema di alta strategia? Bisognava indovinare la tattica vincente? O si trattava solo di azzeccare al minuto secondo l’ora X?
Per qualsiasi commentatore esterno alla congrega, anche se ferrato in storia militare, sarebbe stato difficile dare un giudizio.  L’unico dato evidente era che il Comitato Trapassati Riuniti sembrava lontanissimo dal trovare un accordo. In compenso la sala traboccava ottimismo. Le parole con cui il Generale Giap aveva concluso il suo intervento, “Abbiamo dalla nostra un vantaggio incolmabile: NOI SIAMO MORTI!”, erano state salutate dal pubblico con una ola da stadio.

I morti, com’è noto, anche se presi a cannonate, non possono morire due volte. E c’era un ulteriore vantaggio, lo aveva ricordato il delegato Pitagora di Samo, sventolando un papiro zeppo di cifre davanti all’uditorio: “Non solo siamo morti, e tutti in buona salute, ma siamo anche molti di più di loro”. “E quanti siamo?”, aveva gridato uno sfacciato dal fondo della sala. E Pitagora: “Ho fatto e rifatto i conti; abbiamo superato quattro volte il numero dei nemici viventi. Volete sapere il numero preciso?”. Sicuro che lo volevano sapere. Gli ottomila delegati presenti (tutti regolarmente eletti e tutti regolarmente morti) aspettavano da anni, da secoli o qualcosa in più, quel numero liberatorio, che Pitagora scandì sillaba per sillaba e numero per numero: 99miliardi730milioni322milanovecentotrantatrèUn bel numerone, non c’è che dire. Un numero che cresceva inesorabilmente di minuto in minuto. E i nemici, voglio dire, i vivi? Quelli avevano smesso di crescere da almeno vent’anni.

Queste le forze in campo come si presentavano alla vigilia della Grande Battaglia. Come andò a finire è scritto su tutti i libri, tanto da rendere superflua una cronaca dettagliata degli eventi. Basterà riportare qualche scarna notizia e qualche cifra. Fu una guerra lampo, durò una sola notte. I vivi morirono tutti, come i Trecento delle Termopili, compreso il valoroso MacNamara, decisissimo a vendere cara la pelle. Ma la pelle gliela fecero eccome, a lui e a tutti gli altri. Nessun morto invece tra le file dei morti.

L’arma letale? La escogitò il solito Odisseo: non c’era bisogno di incrociare le spade, sarebbe bastata un po’ di messa in scena. E far leva sulla paura. Paura dei fantasmi, paura del buio, paura dei morti e della morte. Fu la paura il Cavallo di Troia, il Tallone di Achille, l’Uovo di Colombo. Alla paura non scampò nessuno, neppure gli atei militanti, gli agnostici, gli ufficiali di carriera, i marines e le teste di cuoio.

Alla fine, fu una scena davvero commovente, i morti vincitori e i vivi sconfitti – diventati all’istante ex vivi e morti novelli – si abbracciarono riconoscendosi fratelli. Il pianeta Terra trovava finalmente un po’ di pace. Eterna.