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SUOLE DI VENTO /
Viaggio alla Fine del mondo inseguendo il Raggio Verde

Un Cammino

Ho conosciuto la Costa da Morte – come si dice in gallego – quando ero molto giovane, negli anni ’80. All’epoca arrivarci era già di per sé un’avventura che durava 2 giorni. Aereo fino a Barcellona o a Madrid, poi treno fino a Santiago o La Coruña e poi  autobus a Carballo e ancora autobus a Corme. La mia meta era sempre Corme un piccolissimo paesino sulla Costa Nord Occidentale della Spagna. Qui finiva la strada, finiva il mondo.

Mar de Fora, Costa della Morte, Galicia, Spagna

Per me cominciava qualcosa d’altro. Mi piaceva andare al Faro do Roncudo al tramonto con la mia amica Marina. La strada era quasi sempre deserta, brullo tutto intorno e alla fine il Faro bianco, piantato sulle rocce scure di granito. Roncudo viene da ronco, come il rumore del mare quando si infrange sulle scogliere.


C’è un’aria misteriosa e solitaria tutt’intorno. Ci si arrampica fino in cima e ci si va a sedere appoggiate alle rocce che sono diventate delle poltrone naturali scavate dall’acqua. Da qui si può contemplare l’oceano e se si è fortunati vedere il Raggio Verde. Può capitare di vedere una sottile linea luminosa di colore verde che si staglia all’orizzonte al calar del sole.

Dicono che porti fortuna agli innamorati vedere il Raggio Verde. Lo vidi il Raggio Verde, una sera al tramonto con il mio innamorato di allora. Non fummo molto fortunati, ma quella costa, quel Faro, quel rumore dell’Oceano sarebbero diventati la mia casa del cuore.

Da allora sono tornata tante volte in Galicia, ma non ho più rivisto il raggio verde, come nel lontano ’87.

Quest’anno ho voluto organizzare  un Trek lungo la Costa della Morte: un percorso ispirato al famoso Caminos dos Faros che percorre la costa Atlantica per circa 200 kilometri fino ad arrivare a Finisterre. Insieme a Marina, maestra e artista merlettaia e Beppe, mitica guida di Trekking Italia, siamo partiti proprio da Corme, dalla spiaggia di Niñons  e dal piccolo Faro di Roncudo.

Il percorso si snoda lungo la Costa più spettacolare d’Europa, con una varietà infinita di paesaggi: alte scogliere di pietra granitica, spiagge bianchissime e dune a perdita d’occhio, grotte scavate nella roccia e grandi massi che disegnano varie forme animalesche e umane, boschi di eucalipti e vaste pinete, piccoli borghi di pescatori accanto a Mulini di pietra, campi di mais e mucche al pascolo, paesaggi fluviali e lagune che si perdono nell’oceano.

Camminare lungo la costa atlantica è davvero  di una bellezza straordinaria, ma camminare lungo la Costa della Morte è da brivido puro. Qui le onde dell’oceano si infrangono con una tale potenza da far paura e nello stesso tempo affascinano.

Il rumore del mare ti penetra, una emozione intensa ti scuote dentro, e poi quando lo sciabordio si quieta è tutto un mormorare indistinto, un bisbiglio acquatico che ti sussurra alle orecchie lontani pensieri rimasti nascosti chissà dove. Il profumo delle ginestre  e il blu in lontananza ti placano l’anima.

Ci si perde, ma ci si ritrova a guardare l’Oceano: da Corme fino in cima al Monte Branco dove la laguna di confonde con il mare, da Laxe fino ad Arou, un piccolissimo paese di pescatori  e poi giù a Camariñas, la patria del merletto a fuselli.

Il merletto ha viaggiato da Camariñas in tutta la Spagna, fino alle colonie americane. La tradizione è sopravvissuta fino ad oggi. La mia amica Marina ha insegnato a centinaia di merlettaie in tutta la Spagna e altrove.

merletto galiziano

E’ stato per lei, cito da un suo libro: “la via per comprendere la Storia d’Europa. Il merletto, nato in Italia, si è diffuso in tanti altri Paesi e ha svolto un ruolo importante nell’economia e nell’autonomia delle donne.  Il merletto sta alla Storia del Tessuto come la Poesia sta alla Storia della Letteratura: il merletto è il modo più poetico di tessere, dove si può leggere dal sonetto più barocco all’Haiku più profondo”.

Nel Finisterre Galiziano erano le donne a tessere il tessuto dell’economia familiare. Fare il merletto è come scrivere allo stesso la propria storia e quella del proprio tempo.

Non ho mai fatto il merletto, anche se ne ho sempre ammirato la sua arte, ho sempre preferito camminare.

Dopo Camariñas, los Camiños dos Faros si snoda lungo i boschi di eucalipti e le pinete fino alle spiagge meravigliose di Traba , di Nemiña, di Lago, del Rostro e fino alla spiaggia del Mar de Fora. Poi, diritti a Finisterre.

spiaggia

La Galizia è verde con i prati che giungono fino alla spiaggia, è piovosa. Per questo motivo forse non è molto affollata di turisti, ma è un bene. E’ una terra antica come i suoi abitanti, un po’ Celti e un po’ Vikinghi. Una terra di mais e di percebes, è Finis-terra.

Si fa pace col mondo a camminare così vicino all’Oceano. Un passo dopo l’altro, non puoi sbagliare.

SE IL CARCERE É UNA CONDANNA A MORTE
57 suicidi nelle carceri italiane nei primi 8 mesi del 2022

Associazione Antigone

Il carcere non è una condanna a morte. È necessario intervenire affinché il dramma che sta interessando gli istituti di pena italiani in questo 2022 si possa fermare”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.

Nei primi 8 mesi di quest’anno sono stati 57 i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri. Gli ultimi due in Sicilia, uno a Caltanissetta e l’altro a Siracusa. Ad agosto abbiamo registrato 14 suicidi, più di uno ogni due giorni. 57 furono le persone che si suicidarono in carcere in tutto il 2021.

“Proprio in questo mese così drammatico la nostra associazione – prosegue Gonnella – ha lanciato la campagna “Una telefonata allunga la vita”, chiedendo una riforma urgente del regolamento del 2000 che porti ad una liberalizzazione delle telefonate per i detenuti. In un momento di sconforto, sentire una voce familiare, può aiutare la persona a desistere dall’intento suicidario. I 10 minuti a settimana previsti attualmente non hanno più nessun fondamento, né di carattere tecnologico, né economico, né securitario. Cambiare quel regolamento non comporta alcun atto legislativo e il Governo potrebbe farlo anche in questa fase transitoria”.

“Dell’importanza dell’affettività per i detenuti – continua il presidente di Antigone – ci parla anche la relazione finale della Commissione ispettiva del Dap, chiamata ad indagare sulle ragioni delle rivolte che scoppiarono nelle carceri nel marzo 2020”.

Secondo questa, ad innescare le proteste non fu infatti una cabina di regia criminale. Il motivo va invece ricercato nell’insoddisfazione della popolazione detenuta per la poco dignitosa qualità della vita penitenziaria e, soprattutto, nella sospensione dei colloqui in presenza con i familiari.

“All’indomani di quelle chiusure – sottolinea Patrizio Gonnella – la nostra associazione chiese che a tutti i detenuti fossero concesse chiamate e videochiamate in più rispetto a quanto previsto dai regolamenti. Quella richiesta fu accolta e nel giro di pochi giorni nelle carceri di tutto il paese arrivarono oltre 1.000 tra cellulari e tablet, senza che ci fossero problemi dal punto di vista organizzativo e della sicurezza. Questa iniziativa servì a riportare la calma negli istituti di pena e consentì ai detenuti di mantenere il rapporto con i propri affetti anche in quel periodo di chiusure parziali o totali”.

“Oggi il dramma che sta attraversando il carcere non è il Covid ma sono i suicidi. La risposta, oggi come allora, passa anche dalla possibile vicinanza affettiva. Oggi come allora è urgente che il governo prenda provvedimenti e si liberalizzino le telefonate” conclude Patrizio Gonnella, che auspica che a settembre, alla ripresa dei lavori parlamentari, Deputati e Senatori osservino un minuto di silenzio per commemorare tutte le persone che si sono tolte la vita mentre erano sotto la custodia dello Stato.

Per certi versi/
Il Delta verso sera

Il Delta verso sera

Rintocca
Sui rami
gli arbusti alti
La ghiandaia
Dal dolce suono
Volo discreto
Come lieto
Pasce e bruca
La fresca erbetta
Di un giardino
abbandonato
Il daino
Capobranco
Dalle corna
Incoronato
Schiere di folaghe
Incrociano rade nuvole
Rosse di sole
Che sfiora
le ali di cipria
Degli ospiti rosa
In batteria
Prima della notte
Stanno volando via

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

UN ANNO A SCUOLA /
Agosto: rimetti a noi i nostri debiti

In  esergo

Nella scuola italiana la realtà e la fantasia si fronteggiano da molti anni in un’esaltante sfida quotidiana al reciproco superamento. Questo diario di un anno scolastico vorrebbe partecipare alla competizione gareggiando per la fantasia, consapevole del rischio di condividere così la sua eventuale disfatta.

 

Chiudo gli occhi e sento un profumo inebriante, che mi ricorda quello della polvere sollevata dal passaggio di carretti trainati dai cavalli essiccati di Tozeur. Certo, il caldo asfissiante alimenta l’associazione. D’altr’onde, è il 25 agosto.

Riapro le palpebre e vedo che la polvere non è sollevata da ruote tremanti, ma dalle suole frastagliate di un paio di Jordan dai colori aggressivi. Che l’odore non si effonde da refoli di traspirazione equina, ma dagli ormoni potenti di Ponzi.

Vicino a me c’è la rassegnata Monaco, dai radi capelli e dalla voce di pioggia.

Ponzi si siede di fronte a noi. Monaco mi guarda e goccia: “Cominciamo?”.

Lei non doveva neanche esserci oggi, nel nostro liceo di periferia. Il debito, a Ponzi come ad altri sette su ventisei, glielo ha dato De Nino, come sempre giudice a giugno e latitante ad agosto.

Sì, De Nino agli scrutini di fine anno ostenta sempre il suo lato inflessibile, rifiutando ogni forma di clemenza verso gli studenti marchiati dai suoi giudizi. Nel farlo, non lesina ai colleghi – provocando in essi sbuffi e vistose rotazioni di bulbi oculari – lezioncine più o meno esplicite sui guasti epocali causati dalla loro mollezza.

Poi ad agosto, quando i medesimi studenti devono tornare a dimostrarle che – per quanto li riguarda – l’epoca può stare tranquilla, De Nino immancabilmente si dilegua. Dev’esserci un demone dell’afa che l’attende al varco e ogni volta la colpisce con sciatiche, gastroenteriti, depressioni, e qualsiasi tipo di disturbo non facile da accertare in modo oggettivo.

Così, a fare i ‘recuperi dei debiti’ oggi tocca alla friabile Monaco e al sottoscritto.

Un tempo si diceva: ‘esami di riparazione’. Gli studenti, insomma, non erano dei ‘debitori’ precoci, ma soltanto ragazzini, che avevano fatto qualche danno e che ora dovevano ripararlo. Per questo erano stati ‘rimandati  a settembre’.

Già. Com’è che settembre è diventato agosto? Che intere famiglie devono riprogrammare le loro ferie per arrivare in tempo ancora una volta in pancia alla città? Che i professori sono costretti a comprimere i loro famosi quattro mesi di ferie tra la fine degli esami di maturità (circa 10 luglio) e il weekend dopo ferragosto?

Ci sarà senz’altro una buona ragione educativa, no? Sicuramente sì, ma al momento è nota solo quella burocratica: finché dura il vecchio anno scolastico gli insegnanti sono legati alla sede nella quale hanno prestato servizio, dunque obbligati a svolgere gli esami (obbligo efficacissimo, come dimostra De Nino). Con l’inizio del nuovo anno, la diaspora: chi si trasferisce in un’altra scuola, chi deve aspettare un nuovo incarico, ecc.

Certo, il problema potrebbe essere risolto non troppo difficilmente, ad esempio sborsando qualche soldino. Ma è molto più divertente sbrigarsela rompendo i coglioni a un’intera nazione.

A ogni modo, fino ad adesso con Monaco ce la siamo cavata relativamente bene. Abbiamo “esaminato” cinque delle vittime di De Nino e qualche cosa è venuto fuori. Certo, si tratta di conoscenze a brandelli, schegge di consapevolezza, snodi di argomentazione precompilati e privi di ogni flessibilità. Però, le apparenze possono essere salvate. Il calice, da lontano, può apparire mezzo pieno: sei.

Ora però c’è Ponzi, le cui sneakers da pariolino rimediate all’outlet scricchiolano incessantemente sul PVC del pavimento, come se i suoi piedi avessero una vita propria e già scalpitassero sul marciapiede policromo della libertà.

Gli comunichiamo, come abbiamo fatto con gli altri, che la sua prof “purtroppo” non può esserci per motivi di salute e che l’esame glielo faremo noi.

Lui risponde lapidario: “Lo sapevo già”.

Monaco, che ha tutta l’imprudenza di chi è affezionato al bene, non lascia cadere: “Ah… ti sei sentito con la professoressa?”.

“No. Lo sanno tutti che a fare gli esami non ci viene”.

Monaco arrossisce, quasi avesse ancora del sangue nelle vene.

Ponzi se ne accorge e gongola, e il PVC scricchiola più forte.

“Hai studiato anche il programma o ti sei limitato alla vita della professoressa De Nino?”, intervengo con una certa decisione per cercare di riportare le cose nel loro alveo.

“Non ho studiato nessuno dei due, professo’…”, rilancia e ride.

Ecco, ora siamo davvero nei guai. Qui ci scappa il bocciato. Mi guardo in giro per vedere quanti testimoni ci sono: c’è solo la mamma di Ponzi, che armeggia col telefonino. Starà filmando?

“Scherzavo, professo’…”, assicura Ponzi, “ho studiato tutta questa settimana!”.

Ora è giovedì mattina, Ponzi ha studiato tre giorni. Però, parla sul serio, è davvero persuaso di aver fatto uno notevole sforzo.

Partiamo con qualche domanda, ma Ponzi è vuoto come una cisterna d’acqua piovana nel deserto. Non solo non sa nulla, ma non ha la minima idea di quel che dovrebbe sapere. Però, non tace, anzi parla a raffica, dicendo cose senza senso. Perché lo farà? A un tratto, lo capisco: vuol far credere alla madre di star rispondendo a tutte le domande, e infatti ella lo ascolta e annuisce rapita.

Occorre intervenire al più presto.

“Quello che stai dicendo non solo non ha rapporto con le domande che ti sono state fatte, ma nemmeno con qualcuno degli argomenti in programma”.

Ponzi mi guarda con un sorriso beffardo, che istantaneamente riverbera sul volto della madre. Poi ricomincia a farneticare come e più di prima, con l’aria di chi me le sta cantando. La madre ha un’espressione estatica che ricorda Santa Teresa accarezzata dalle mani del Bernini.

Lo fermo ancora, mentre Monaco si asciuga un sudore isterico: “Ora stiamo perdendo anche un qualsiasi tipo di relazione con l’area disciplinare. Per favore, parlaci di un argomento a tua scelta tra quelli inseriti nel programma”.

È il famoso ‘argomento a piacere’, l’ultima spiaggia dell’incomunicabilità scolastica.

Ponzi improvvisamente si placa, anzi si immobilizza, quasi come un camaleonte tra rami di mangrovia.

E finalmente capisco: ha scoperto in questo istante che esisteva un programma, nel senso di un foglio di carta compilato all’uopo che lo concerneva.

Guardo Monaco che sta per avere una crisi psicotica, probabilmente autolesionista. Ma non escludo che, al contrario, stia per conficcare le sue unghie malconce nelle guanciotte del nemico.

I suoi pensieri si son fatti così pesanti che le si addensano visibilmente sulla fronte. Così, vi leggo: “Perdonami, e lasciami fare…”.

Poi estrae da una cartellina un foglio di carta stropicciato: il famoso programma. Lo porge a Ponzi e lo prega di leggerlo e di trovarvi qualcosa che “lo abbia coinvolto in modo più personale”.

Ponzi legge muovendo le labbra, e sembra quasi un pesciolino. Poi, la sua attenzione incappa in qualcosa con la quale deve essere entrato in contatto, magari attraverso i riferimenti culturali ruffiani di una serie seguita in streaming.

Monaco lo incoraggia e lo instrada finché, sul nulla, si edifica una sorta di scambio.

Ok. L’esame è finito. Arrivederci. Ponzi e madre escono, le porte si chiudono.

“Senti, Monaco, io ti ho lasciata fare, ma mica lo vorrai promuovere?”.

“Senti, tu sei ancora giovane – (sì, sono ancora più vicino ai cinquanta che ai sessanta, da queste parti vuol dire essere giovani) – non lo sai come vanno a finire queste cose”.

“No, un po’ lo so, ma qui non c’è assolutamente nulla di nulla da salvare”.

Sento Monaco cambiare voce: ora non è più pioggia, ma tintinnio di vetri infranti.

“Ascoltami: quella stronza ogni anno fa la stessa cosa, dà debiti a destra e sinistra e poi sparisce. E adesso noi ci dobbiamo prendere la rogna di bocciare questo deficiente? Con tutti i casini che succederanno? Hai visto, no, che la madre registrava?”.

“Sì, ma…”.

“’Ma’ cosa? Fai quello che vuoi, io non firmerò mai un verbale di bocciatura. Punto”.

Valuto la situazione e mi rendo conto che non c’è molto da fare.

Dico: “Ok. Promosso”. E mentre lo dico mi accorgo che era quello che desideravo anch’io.

La sapienza di un gesto scaturisce allora da chissà quale riparo dimenticato, costringendo la mie mani a muoversi come non facevano da millenni. Mi faccio il segno della croce.

Gli eventi narrati in questa rubrica sono frutto dell’immaginazione dell’autore, a esclusione di leggi, decreti, circolari ministeriali ecc., che sono frutto dell’immaginazione gerarchica. Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

PRESTO DI MATTINA /
Senza timore

 

Senza timore restiamo aperti. Senza timore si sta nell’apertura della fede come in quella della poesia.

Così ho pensato rileggendo alcuni testi poetici di Friedrich Hölderlin, per il quale la poesia è manifestazione, svelamento del divino, della dimensione sacrale, nascosta del vivere.

Testi, quelli di Hölderlin, nei quali l’aprirsi, il rivelarsi, non hanno un valore solo spaziale, ma assumono una valenza esistenziale di svelamento. Sino al punto che il divino, il sacro si fanno immanenti, reali, manifestandosi infine nella storia.

Scrive Giorgio Vigolo nell’introduzione alle poesie cui mi riferisco: «Una fondamentale idea di Hölderlin è il Dio manifesto, palesato (…) L’apertura della valle è nel paesaggio quasi la struttura visibile della rivelazione, del palesamento, ma anche della cordialità accogliente.

Il divino diviene, nella poesia di Holderlin, offen und gemein,/ aperto e comune. Stalt offner Gemeine sing’ich Gesang/ Di un’aperta comunità io canto», (Friedrich Hölderlin, Poesie, Garzanti, Milano 1971, lxxxviii).

L’invito rivolto al poeta − come al credente − è allora quello a non temere l’altro che viene, ma di restare ospitali e, alla benedizione, dischiusi.

Vocazione e coraggio del poeta

Non ti son dunque congiunti tutti i viventi?
Non ti alimenta la Parca, come tua stessa ancella?
Perciò! va’ pure inerme
Attraverso la vita, e nulla temere!
Ciò accade, tutto ti sia benedetto,
Ti sia rivolto in gioia! che dunque potrebbe
Recarti offesa, o cuore, che mai.
Succederti, dove tu devi andare?
(Coraggio del poeta. Seconda versione, ivi 79-81)

Nemmeno è bene essere troppo saggi. La gratitudine
Conosce Lui. Ma da sola non Lo trattiene.
E per questo il poeta ama la compagnìa
Degli altri, perché lo aiutino a capirLo.
Ma, senza timore, quando deve, rimane solo
L’uomo davanti a Dio, difeso dal suo candore
E non abbisogna di armi né di astuzie,
Finché Dio lo aiuta, mancandogli.
(Vocazione del poeta, ivi, 95-97).

La vocazione del poeta e il suo coraggio sono pure quelli del credente. Per questo Romano Guardini considera Hölderlin profeta religioso, nel senso di Pindaro, Eschilo e Dante.

Egli scrive: «Ma ciò che pervade il vate in modo da renderlo “aperto” e capace di vedere, lo spirito, è la stessa potenza che opera, “l’Alternarsi e il Divenire”, la potenza della storia stessa. … Dietro la figura del “vate” appare quella del profeta nell’Antico Testamento.

È il profeta a creare la consapevolezza sacra della storia. Dio gli rivela che cosa significa l’avvenimento immediato per la guida del popolo e per il venturo Regno di Dio. Il profeta ascolta e annuncia la rivelazione al presente, trovando per lo più orecchi chiusi e cuori ribelli.

Così dallo Spirito Santo che rende il profeta “aperto”, ossia capace di ascoltare e di parlare, nasce la storia sacra. Esso è il vero “signore del tempo”, che nell’intreccio delle parole, dei fatti e degli avvenimenti produce il “divenire nuovo”, la metanoia e la trasformazione … Tutto questo sta anche dietro alle parole di Hölderlin, solo che in questo caso la realtà libera e ultraterrena del Dio vivente è divenuta un elemento del mondo.

Anche il non-poeta, l’uomo comune ma religioso, può avvertire quella realtà ‘altra’. In mezzo ai suoi amici, durante la cena commemorativa, entro la comunità del popolo nell’eccitazione festosa, essa diventa percettibile anche per lui»
(Hölderlin, Immagine del mondo e religiosità, Morcelliana, Brescia 1995, 204-206).

A questo punto qualcuno si domanderà: ma perché allora nell’Antico Testamento ritorna spessissimo l’espressione “il timore di Dio”? Il sacro se si caratterizza per un verso come attraente, fascinans, al tempo stesso si manifesta come respingente, tremendum?

Eppure anche nel suo sottrarsi al credente e al poeta − “mancandogli” direbbe Hölderlin – paradossalmente anche così egli viene in aiuto; ciò accade persino nel distanziamento che intimorisce, perché tale da impedire l’assimilazione che annulla la libertà altrui, spazio aperto invece ad una più grande libertà.

Il timore di Dio

Basterebbe guardare con un poco di attenzione l’apparato critico delle note della TOB, Traduzione (O)ecumenica della Bibbia, per averne una prima comprensione.

Sabato scorso leggevo il testo del profeta Isaia 11, 1-3: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. Si compiacerà del timore del Signore».

I sei attributi dello Spirito qui elencati corrispondono a quelli della Sapienza personificata come troviamo in Proverbi 8, 12.

Ci viene così ricordato innanzitutto che l’espressione “timore di Dio” è venuta formandosi negli ambienti sapienziali della Bibbia a completamento di altri attributi della sapienza. Cosicché essa va giustapposta, affiancata a quella di “conoscenza di Dio”, elaborata a sua volta negli ambienti profetici.

Temere Dio significa in prima battuta conoscerlo attraverso la sua Parola e il suo agire nella storia. Una conoscenza non intellettuale, ma sperimentata nella vita, tramite il sapere della esperienza.

Nel libro sapienziale dei Proverbi (1,7), si dice addirittura che «il timore del Signore è principio della scienza. Gli stolti disprezzano la sapienza e l’istruzione. Ascolta figlio» (un filiale ascolto ripreso pure da Benedetto da Norcia nel prologo alla sua Regola).

L’espressione diventa così stereotipa in tutta la Bibbia, ove indica una relazione filiale e familiare al contempo rispettosa di fronte al Dio dei Padri, artefice di un’alleanza e di una legge di vita con il popolo a cui resta stabilmente fedele. Si corrisponde a tale fedeltà percorrendo la via della Sapienza, nella continua ricerca della sua Parola, con cui egli si fa conoscere.

Sia i saggi di Israele, sia i profeti sanno di camminare alla presenza del Dio vivente, di colui che scruta reni e cuori; e dunque il timore di fronte alla sapienza è l’atteggiamento di chi, stando alla presenza dell’altro, fa un cammino nella relazione al fine di conoscerlo.

La familiarità, l’affidarsi, richiedono un cammino segnato da prossimità e lontananza, da comprensione e oscurità, da sapere e non sapere, trepidazione e fiducia. È un passare sempre di nuovo, attraversando timorosi l’estraneità e la diversità dell’altro, per arrivare gioiosi alla confidenza, alla stabilità serena. Decisiva è l’apertura della fede: «Se non crederete, non avrete stabilità»
(Is 7, 9b).

Non è così anche quando si affronta una poesia? Non si principia forse incerti, timorosi stando nell’apertura, sulla soglia di parole sconosciute, incomprensibili?

Molto di più lo è il credere: lo è l’incredula e timorosa fede quando sente le parole: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).

Sempre nel linguaggio dei testi sapienziali, è la fede stessa ad essere denominata come “timore di Dio”, si dà dunque equivalenza. L’obiettivo è quello di sottolineare, tramite questa espressione, la forma dinamica della fede, il suo continuo divenire claudicante.

Scrive al riguardo Giuseppe Angelini: «la sapienza non è possibile in altro modo che a condizione di concedere un credito a Dio… Ma come definire la figura del timore di Dio? Certo non si tratta della paura di Lui; ma della confessione costante che di Lui sempre si tratta nel cammino della vita.

E dunque, per sapere che cosa attende da noi ogni singolo momento della vita, è indispensabile alzare fino a Lui gli occhi. Per conoscere la sapienza, occorre invocarlo; soltanto a condizione di interrogarsi sempre da capo a proposito dei suoi disegni è possibile scorgere quale sia la via della vita» (La fede una forma per la vita, Glossa, Milano 2014, 75-76)..

Non è tutto. Con la nozione di timore di Dio si fa evidente anche il carattere di alterità che contraddistingue i poli della relazione interpersonale.

Si tende così a esprimere l’inviolabilità dell’altro, la sua non assimilazione, non manipolabilità in ragione del suo continuare ad essere differente, estraneo e oltre ogni immagine che vorrebbe omologarne l’identità: l’altro non è me, ma può essere con me, e proprio l’unione nella differenza è il valore supremo della relazione.

Il timore è lo spazio rispettoso, reverente; un sentire con il cuore tra coloro che vivono in alleanza. Un sentimento che nasce dalla consapevolezza che la vita comune − come l’amore − non possono mai essere completamente possedute, richiedendo al contrario un’apertura permanente allo spirito, alla persona.

Il timore va compreso allora come un dono spirituale, una barriera all’autoreferenzialità, a porsi al centro dell’attenzione, al credere di possedere la verità, la sapienza appunto; una disposizione interiore, un restare umili, aperti nell’attesa dei tempi, dei momenti e delle decisioni della libertà altrui.

In questo modo l’Altro/gli altri vengono riconosciuti come un’inesauribile fonte di ispirazione e creatività generatrice di novità e di vita.

Lo spirito del timore di Dio è, per i credenti, come la musa per il poeta. Continuerà a dire: «cammina non temere finché potrò vederti ti darò vita».

La mia Musa è lontana: si direbbe
(è il pensiero dei più) che mai sia esistita.
Se pure una ne fu, indossa i panni dello spaventacchio
alzato a malapena su una scacchiera di viti.
Sventola come può; ha resistito a monsoni
restando ritta, solo un po’ ingobbita.
Se il vento cala sa agitarsi ancora
quasi a dirmi cammina non temere,
finché potrò vederti ti darò vita.
(E. Montale, Tutte le poesie garzanti, Garzanti, Milano 1996, 439).

Il timore della morte: un più grande nascere

Quelle volte che mi avvicino a Montale e apro le sue poesie è sempre con timore, ma anche con il desiderio di trovare tenui risonanze in un comune, umano sentire. Così è stato ancora una volta imbattermi nella sua la traduzione poetica del Cant espiritual dello scrittore e poeta spagnolo Joan Maragall.

Non importa. Sia il mondo ciò ch’esso è,
così diverso, esteso e temporale,
questa terra con quanto in essa cresce
è la mia patria; e non potrà, Signore,
essere la mia patria celestiale?
Uomo sono e la mia misura umana
per ciò che posso credere e sperare;
se qui fede e speranza in me si fermano,
nell’aldilà me ne farai tu colpa?
Nell’aldilà io vedo cielo e stelle,
anche lassù vorrei essere un uomo:
se ai miei occhi le cose hai fatto belle,
se per esse m’hai fatto gli occhi e i sensi,
con un altro ‘perché?’ dovrò rinchiuderli?

Tu sei, lo so; ma dove, chi può dirlo?
In me ti rassomiglia ciò che vedo …
Lasciami creder dunque che sei qui.
E quando verrà l’ora del timore
che chiuderà questi miei occhi umani,
aprimene, Signore, altri più grandi
per contemplare la tua immensa face,
e la morte mi sia un più grande nascere.
(ivi, 748).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Diario di un agosto popolare 13
LA TORBELLA DI ADAMO

LA TORBELLA DI ADAMO
26 agosto 2019

Torbellamonaca a Roma è un po’ una sineddoche (la parte per il tutto) della periferia.
Una volta si diceva “è un borgataro”, oggi se vivi “allo sprofondo” ti chiedono: “ma ‘ndo stai, a Torbellamonaca?” .

Perché a Roma se il tuo quartiere comincia con Tor, vuol dire che stai fuori dal centro. Ma il mito di Torbella, che addirittura è oltre il Sacro G.R.A., riassume da solo tutto il peggio del suburbio metropolitano: i più truci spacciatori, i topi più affamati, il degrado più appariscente.

Diventa anche simbolo della crisi politica che stiamo vivendo: Torbellamonaca passa a destra mentre Parioli va a sinistra. Qui la casta non ci finisce neanche per sbaglio, tutto è popolo.

Ho cominciato a frequentare Torbella (si fa per dire, ci sarò stato una decina di volte) per andare a trovare Adamo, che ci ha lasciati il 26 agosto di due anni fa, e non riesco a separarla da lui.

Adamo l’ho incontrato una trentina di anni fa, alla stazione Termini. Radunava barboni e senzatetto per aiutarli a occupare spazi vuoti dove dormire. Mi ha colpito subito il suo sguardo (l’iride celestissimo incorniciato da sopracciglia scure), che lanciava un messaggio molto chiaro: “ti tengo d’occhio”. All’inizio, confesso di non essermi subito fidato e forse neanche lui di me. Ci scrutavamo dai nostri rispettivi mondi per capire se non ci saremmo dati qualche fregatura.

Un giorno, mentre tornavamo dal cimitero dove era sepolta Valentina, una ‘barbona’ di trent’anni morta di freddo alla stazione, Adamo mi chiese brutalmente se ero anch’io ‘della parrocchietta‘. Lui aveva fatto la galera, aveva cominciato in un carcere minorile, parlava di rapine e grandi giocate d’azzardo: “Ero un malandrino, Daniè, non mi avresti riconosciuto”. Lo rassicurai sul fatto che io le parrocchie le avevo sempre fuggite, comprese quelle dell’estrema sinistra da cui più o meno provenivo. Da lì cominciò la nostra amicizia.

A lui piacque molto un mio piccolo film che feci su di loro (“Gli amici di Valentina”), e credo che attraverso quelle immagini capì che, come lui, avevo allergia per le ingiustizie e cercavo la maniera di esprimerlo. Adamo era uomo di grande generosità e poca voglia di star zitto.

Nella sua nuova vita, si mise a organizzare senza tetto, disabili, zingari e alcolizzati. Lottando come un leone per i loro diritti. Poi un tumore gli ha portato via le corde vocali.

Andai all’ospedale dopo l’operazione e gli regalai un quadernetto e una penna che apprezzò molto. Iniziò in quel periodo a scrivere il libro della sua vita e io l’aiutavo a correggere l’italiano, perché avevo fatto più scuole di lui.

Ma Adamo era irrequieto e poco indulgente con se stesso e il libro non lo fini mai. Mi fece però conoscere la sua famiglia tutta di donne, la moglie Anna e quattro figlie in gambissima, e Tor Bella Monaca.

Entrando sotto quei ponti che uniscono i blocchi, girando per la piazzetta o nei ‘terrains vagues’,(come i francesi chiamano gli spazi residuali, con un’espressione secondo me molto efficace, o ‘i non luoghi’ di Marc Augé), ambienti che al cinema vediamo sempre collegati a scene di spaccio o di violenza, ho sempre trovato invece, grazie ad Adamo, una toccante densità di relazioni umane. Certamente c’è anche spaccio e delinquenza, rapporti difficili di vicinato e violenza domestica: sarebbe ridicolo negarlo. Chissà, un domani la cronaca ci parlerà di un africano bastonato o di un efferato delitto, a consolidare il mito oscuro di Torbella.

Eppure per me, grazie alla mia amicizia con Adamo, ha fatto tutto un altro effetto. Sin dalla prima volta, mi ha colpito un aspetto che difficilmente si trova nei quartieri della Roma bene: un tessuto di vicinato solidale, che qui in qualche maniera comunica. Un tratto accentuato da una presenza piuttosto visibile dei disabili (che hanno avuto in passato delle facilitazioni dell’assegnazione degli alloggi). E che come spesso accade alle persone con la vita più difficile, dimostrano una grinta speciale a muoversi in un quartiere per altri versi inospitale.

A casa di Adamo ho conosciuto tutto questo.

Tendiamo a conoscere le periferia attraverso figure fragili, o sbandate. Che empatizzano con i nostri lati stropicciati dalla vita. Il canaro di Dogman, Vittorio e Cesare di Non essere cattivo, i tossici di Trainspotting, la Rosetta adrenalinica dei fratelli Dardenne…

Adamo apparteneva a un’altra categoria, quella dei tosti.

Anche se so che la sua determinazione umanitaria, la sua grinta, resa ancor più evidente dopo che aveva perso le corde vocali, non sarebbe stata tale senza la presenza di un’altra tosta, sua moglie Anna: anni di lavoro durissimo da infermiera, notti di pazienza passate ad accudire gli anziani e giornate a tirar su le quattro figlie, da sola, mentre Adamo faceva l’eroe da qualche parte, incatenandosi insieme a cinquanta carrozzine in Campidoglio o innalzando crocifissi con appesi sopra i suoi amici barboni.

Ho sempre mangiato tantissimo e con gusto a casa di Anna, ho incontrato persone generose e fatto grandi risate.

Per me Tor bella monaca è questa vitale esperienza.

Eppure solo a due anni di distanza, rimane un ricordo lontano, uno ‘sprofondo’, che assieme a Adamo, ho dimenticato troppo.

È forse il destino delle periferie, essere dimenticate: perché, nella loro bruttezza, sono fin troppo umane.

“Le periferie sono il posto in cui i problemi che si dibattono sul piano nazionale sono reali: la disoccupazione, le tensioni tra le diverse comunità religiose, la lontananza dalle istituzioni (anche europee). Ma proprio perché sono posti difficili, sono posti vivi. La lotta per risolvere queste difficoltà genera anche molta energia creativa. Tanto più che moltissimi creativi decidono poi di trasferirsi in quelle zone per seguirne il battito.”.
(Marc Augé, Tra i confini, Milano, 2007)

(Fine)

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L’OTTIMISMO DURA POCO

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Croce Bianca Uncinata

 

Mentire a se stessi è una delle principali forme di menzogna, e il periodo cui fare riferimento per legittimare l’origine di un simbolo può essere un buon lavacro per la coscienza. Così, un combattente del battaglione Azov può dire che la croce uncinata è un simbolo religioso eurasiatico, niente a che vedere con Hitler. Così una leader post fascista può dire che la Fiamma non è quella che arde sulla tomba di Mussolini, ma il richiamo all’esperienza della Repubblica Sociale Italiana – come se quello fosse un fatto di cui vantarsi: però può essere un fatto di cui non vergognarsi troppo, al confronto.

La croce è un simbolo ambivalente. In effetti non è nata con Cristo: se ne rinvengono origini precristiane nella mitologia nordica, la croce celtica.
La Croce Bianca Emilia Romagna è una associazione privata che presta soccorso attraverso un servizio di ambulanze. Ad imbrattare di cacca il suo candore ci ha pensato il suo “coordinatore”, tal Alberti Donatello, che ha pensato bene di commentare su Facebook l’assassinio di una ragazza ad opera del suo ex con la seguente frase: “comunque anche lei come andava conciata, ovvio che il ragazzo era geloso”.

Il figuro non corrisponderà allo stereotipo del soccorritore, però corrisponde al profilo del seguace della croce. Potrebbe ri-denominare la ditta “Croce bianca uncinata”, visto che ha augurato al giornalista “bastardo” David Parenzo  che la sua famiglia di “sporchi ebrei” fosse rapita e uccisa dai rom. Il tutto sempre in modalità social.

Avete presente ‘al mat dal paes’? Si dava la colpa agli incroci dello stesso sangue: nei paesini della bassa da mille anime, erano sempre membri di quelle tre famiglie che, da generazioni, si accoppiavano tra loro. Così ogni tanto nascevano degli incalmati strani, con qualche rotella fuori posto, che però non facevano male a nessuno.

Il figuro in questione è ferrarese, grande sostenitore del vicesindaco (ciacaràd). Per Ferrara come potremmo spiegare i fenomeni Alberti, Naomo, Solaroli? E’ vero che siamo un paesone, ma siamo in troppi per giustificare incalmi del genere. Sarà l’aria troppo umida, sarà che viviamo in una buca.

“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.”
Umberto Eco

“Non voglio andare in guerra”.
Ancora obiezioni e diserzioni di soldati russi

Redazione di Azione Nonviolenta

I giornalisti investigativi di Bellingcat e del giornale indipendente The Insider hanno ottenuto molta corrispondenza dopo che la casella di posta elettronica dell’ufficio del procuratore militare russo è stata violata. Tra le lettere c’erano molte lamentele di genitori, giovani soldati e civili, che dimostrano che la situazione al fronte non è così rosea come la presenta Mosca per le vie ufficiali del Cremlino. Molti giovani arruolati sono stati indotti con l’inganno ad andare al fronte, molti genitori sono scontenti di come vengono trattati i loro figli. Il Movimento Nonviolento si schiera a fianco e continua a supportare il Movimento degli Obiettori russi e rilancia la campagna Obiezione alla guerra.
Non trattate mio figlio come un cane”Una delle lamentele proviene dai genitori del soldato ventenne Mikhail.  La loro posta dimostra che sono molto insoddisfatti di come stanno andando le cose. “Quando ho chiamato mio figlio, mi ha detto che lo stavano portando a fare un’esercitazione. Poi si è scoperto che era una guerra. Stavano nelle tende, non potevano lavarsi. Doveva mangiare razioni secche e gliene davano solo mezza porzione. Sul treno non c’era nemmeno acqua potabile. I nostri figli non sono animali. Dov’è la giustizia?”.Anche altri genitori hanno contattato l’ufficio del procuratore militare russo per esprimere il loro disappunto. “I nostri figli facevano parte del primo battaglione, ma non hanno firmato nulla, mentre voi sostenete il contrario. Riteniamo che i nostri figli siano stati indotti con l’inganno a partecipare a un’operazione militare e ora la loro vita è in pericolo. Non hanno mai ricevuto un addestramento militare completo. Vi chiediamo di rintracciare i nostri figli e di portarli urgentemente in un luogo sicuro”.

“Il nipote di un mio amico è tornato ferito e mi ha raccontato come sono stati picchiati dai loro comandanti. Sono stati costretti a firmare un contratto”, racconta Elena, una cittadina russa preoccupata. “Siamo davvero di fronte a una illegalità. Vi chiedo di indagare su questi fatti e di assicurare alla giustizia, secondo la legge di guerra, coloro che mandano a morire i nostri coscritti”.

Feriti? Si torna al fronte!

Anche la madre del caporale Niyazov Mikailovich testimonia contro le autorità militari. Suo figlio è stato ferito due volte. La prima volta è stato colpito da schegge e ha subito una commozione cerebrale e una paralisi. Tuttavia, dovette lasciare nuovamente l’ospedale da campo perché non c’era abbastanza spazio. Nonostante i forti mal di testa e la parziale perdita della vista e dell’udito, dovette tornare al fronte.

Un mese dopo, è finito in ospedale dopo essere stato vicino a una mina esplosiva. Soffre di vertigini, mal di testa, parziale perdita di memoria e problemi di vista e udito. Secondo la madre, l’assenza di cure mediche adeguate potrebbe avere conseguenze irreversibili.

Costretti a combattere

Anche per molti russi l’invasione dell’Ucraina è stata molto inaspettata. Molti soldati e coscritti russi sono stati inviati in Ucraina con un pretesto. Un soldato di 21 anni ha testimoniato di aver pensato di andare in Siria per l’addestramento, ma di essere finito improvvisamente in Ucraina. “Sono stato mandato in Ucraina in modo fraudolento, senza tenere conto dei miei desideri. Sono in prima linea, in posizione di tiro. Ho perso i miei compagni in battaglia. Ho 21 anni e voglio vivere. Ma cosa posso fare?”.

Obiezione di coscienza alla guerra. Una Campagna coordinata dal Movimento Nonviolento. Tutti possono firmare.

Clicca qui per la pagina dedicata. Scarica qui il testo della Dichiarazione di Obiezione

Per informazioni e adesioni: obiezioneallaguerra@nonviolenti.org

Diario di un agosto popolare 12
L’OTTIMISMO DURA POCO

L’OTTIMISMO DURA POCO
25 agosto 2019

La disposizione del proprio tempo è un privilegio che, quando mi capita, non so mai bene come far fruttare. Così dopo mille cincischiamenti, decido di smaltire un po’ di entropia e inutile opulenza della casa, preparando dei pacchi di libri e di vestiti da regalare o buttare ai cassonetti.

Siccome nei pacchi preparati, dopo un po’ d’indecisione, vedo due giacche che mi chiedono di non abbandonarle, decido di riprenderle e portarle in tintoria.

Non è un luogo che frequento spesso, ma quelle poche volte che ho portato degli abiti a smacchiare, la tintoria è rimasta nel mio immaginario come un luogo dove delle signore stirano a vapore in piedi tra gli sbuffi di un odore di trielina, anche se spesso c’è un uomo, di solito in posizione defilata, che appende o cerca i vestiti, in genere con qualche difficoltà a ritrovarli.

Oggi, invece, nella prima tintoria aperta, mi accoglie sorridente un ragazzo dall’aria simpatica, sui 25 anni, Alessio.

Alessio parla con un lieve accento romano, ma da come mi spiega la differenza tra la pulizia a secco e quella invece a umido, si capisce che andava bene a scuola.

O perlomeno, questo è il mio primo pensiero, perché anch’io, sotto sotto, ho un’idea che gli orientali siano per lo più degli sgobboni: perché, dimenticavo, Alessio e i suoi compagni di tintoria, vengono tutti dalle parti di Guang Zhou.

Mentre mi spiega i vantaggi del procedimento wet-clean mi accorgo che sulla sua maglietta c’è scritto: “MI SVEGLIO OTTIMISTA, MA POI MI PASSA”.

Mi viene da ridere e indicandola gli dico: “Beh, menomale che sono passato di mattina!”.

E in effetti, Alessio ha l’aria di uno che si sveglia bene e ha voglia di chiacchierare.

Mi dice che è nato in Cina ma che da quando ha tre anni è a Roma ed ha più accento italiano quando parla in cinese, che quando fa il contrario.

Gli chiedo se ha la nazionalità italiana e lui dice che no, perché purtroppo, mi dice, in Cina si può avere un passaporto solo. Perciò bisogna scegliere: se avessi preso quello italiano, e poi da grande (com’è successo a molte persone famose, aggiunge) se volessi ritornare in Cina, non me lo farebbero più cambiare.

“Ma non ti crea problemi lavorare qui da straniero?” “No”, mi dice: “basta avere il permesso di soggiorno e hai tutti i diritti, come un italiano”. ”Allora preferisci così? Non ti senti un po’ insicuro? Le cose potrebbero cambiare…”

Lui fa una faccia pensosa ed esitando un po’ prima di lanciarsi in una battuta, mi dice: “Non saprei…dipende da che ora me lo chiedi!”. Ci facciamo una risata.

Tornerò a ritirare le giacche di sera e vedremo: ma secondo me, a Alessio, l’ottimismo non passa mai.

Salvate le due giacche e dopo aver buttato le cose rotte nei cassonetti, col resto dei pacchi mi avventuro a trovare Isabella e i suoi amici di Emmaus, a via Casale de Merode, verso l’Eur.

Isabella è una donna, anzi direi – al di là dell’anagrafe – una ragazza, decisamente fantastica.

Da anni si occupa di una piccola comunità di gente “in difficoltà” che ruota attorno a un mercatino solidale, ispirato alla geniale figura dell’Abbé Pierre.

Il fatto che una donna sola riesca a farsi rispettare da un numero cospicuo di maschi, con storie di vita e caratteri non certo facili, mi infonde una grande ammirazione. Ma certamente anche è ammirevole il modo in cui questi uomini la rispettano e si guadagnano il rispetto di tutti, per la capacità di uscire da storie in salita dopo pesanti discese,  con la dignità del proprio lavoro.

Ogni volta che vado a trovarli, spesso con la mia amica Silvana, portando qualche pacco di cose per noi non più necessarie o a comprare oggetti che invece ci possono servire (io ci ho comprato dei mobili, un lume e qualche cianfrusaglia) mi sono sentito in una specie di strana famiglia, dove l’ispirazione religiosa – verso la quale ho un po’ di allergia – sparisce in favore di quella sociale e di responsabilità civile.

Non è facile parlare con gli ospiti, a volte un po’ diffidenti, con vite spesso frantumate in pezzi e segnate da grandi dolori. Ma quando capita finalmente di oltrepassare quel muro, viene voglia di approfondire l’amicizia e sapere chi c’è dietro a quel cartellino che dice “persona in difficoltà”.

Oggi per esempio, riesco a finalmente parlare con C., che ha fatto la galera e scontato la sua condanna e ora, che potrebbe finalmente rifarsi una vita all’estero, da un amico che gli ha offerto un lavoro e aperto un nuovo orizzonte, non può avere il suo passaporto per un delirante accanimento burocratico.

“Ho sessant’anni” mi dice: e quando mi ricapiterà un’occasione del genere?”

mi parla di quando era giovane e della bella vita un po’ scellerata di quando aveva soldi per le mani.

“Me la sono goduta, certo, ma l’ho anche pagata. E la sto pagando ancora.”

Ricordando i suoi errori, C. ha ancora un sorriso un po’ malandrino, ma gli occhi dicono qualcos’altro.

Ripenso alla maglietta del giovane tintore cinese.

Anch’io mi sono svegliato ottimista. Ma poi, garantito, mi passa.

(domani, 26 agosto, ultimo capitolo)

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L’OTTIMISMO DURA POCO

LA TORBELLA DI ADAMO

Parole a capo
Eugenia B. Paris: Tre poesie

“La poesia malinconica e sentimentale è un respiro dell’anima.”
(Giacomo Leopardi)

Una sera

Nella oscurità risuonano le sirene sorde rosse e blu.
Un cancello chiuso, un muretto traforato,
una finestra, un uomo con i miei occhi
e un albero, addobbato a festa, il mio albero.
Una donna, disperata che tiene una bambina.
La mano tenendomi mi dava coraggio,
lasciandomi spersa e spaesata
in questa scena incasinata.
Anche libera di vedere la realtà
e la donna nella sofferenza.
Infine un gioco, un regalo da San Nicola, per me!
da parte della donna, ora con gli occhi,
ricolmi di determinazione, forza e paura.
Ed ecco un pulsante e poi musica e luci.
Riscaldando e illuminando la sera scura e fredda.
E poi buio.

(maggio 2022)

 

L’uomo nella nebbia

Percepivo sulla pelle già gelida la nebbia densa,
mentre arrancavo verso la sagoma di un mulino a vento in speranza di vita.
Quando con difficoltà mi avvicinai la visione si fece più nitida,
capii che era solo un albero, la stanchezza ebbe la meglio.
Riposai sotto l’albero che mi aveva dato falsa speranza,
dolce come la vita stessa.
La primavera successiva venne ritrovato un cadavere sotto il più maestoso degli
alberi in fiore.

(Inverno 2019)

 

Falsa neve

Neve, un sorriso
Uguale a questa falsa neve.
Che non è altro, che una goffa riproduzione
in questo verde vivo.
Una persona davanti a me in attesa,
di una risposta chiesta a me,
ma donata al vento.
E io vuota in cerca di una risposta,
ma il nulla mi sopprime.
Poi delle parole nel vento,
con la mia voce in risposta.
Ed ecco la neve.

(2022)

Eugenia B. Paris (Ferrara), di anni diciotto. Queste prime prove poetiche sono uscite da un cassetto dove mi si dice ce ne siano numerose altre.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopioPer leggere i numeri precedenti clicca [Qui] 

ANCH’IO BALLO CON SANNA MARIN
Ma non svenda a Erdogan la pelle dei Curdi

 

Sanna Marin è la premier della Finlandia. Non ha ancora 37 anni, ed è madre di una bambina di 4. Già questo basta a renderla una marziana per un paese di vecchi patriarchi ammuffiti.

In (sicuramente non casuale) concomitanza con la richiesta della Finlandia, paese storicamente neutrale, di aderire alla NATO per avere un ombrello di protezione contro la minacciosa Russia di Putin, una manina ha diffuso un video di una festa privata nella quale Sanna Marin balla e canta, probabilmente alticcia.

Se una donna di 37 anni sana e finlandese non sbevazzasse, non cantasse e non ballasse in una festa tra amici intimi che fanno le stesse cose, ci sarebbe da chiedersi che problemi ha. Sociopatia? Depressione? Invece il mondo si è interrogato sulla sua affidabilità e serietà, ovviamente. Del resto, gettare una palata di fango sulla sua reputazione era esattamente lo scopo di chi ha diffuso quel video. La Russia nelle mani di un ex funzionario del Kgb è maestra in queste cose, come in altre attività a maggior tasso criminale.

Nel contempo è scattata anche la solidarietà mondiale per la premier, che nell’epoca dei social non costa nulla. Basta dire “io ballo con Sanna”, girare un video in cui fai due mosse e hai già fatto bella figura. Bene, anch’io ballo con Sanna.

Però le faccio anche un appello – virtuale, ovviamente: non mi leggerà. Non consegni lo scalpo dei Curdi a Erdogan, in cambio della non opposizione del despota turco all’ingresso della Finlandia nella Nato. E’ notorio che Erdogan, dittatore di una Turchia (membro Nato) che potrebbe mettere il veto all’adesione di Finlandia e Svezia alla medesima, non opporrà il veto solo in cambio di una contropartita. E la contropartita è che Finlandia e Svezia la smettano di accogliere perseguitati curdi, primo; e favoriscano l’estradizione di quelli che già ospitano, secondo.

Sul primo favore temo ci sia poco da fare: la Scandinavia non sarà più terra di rifugio per i curdi (popolo senza nazione perseguitato da diversi nazionalismi, in primis quello turco) che si oppongono ai dittatori. Sul secondo favore, mi appello alla sensibilità di due donne in politica (Sanna Marin e Eva Andersson, premier svedese) sperando che, appunto, non ragionino nè agiscano come gli uomini. Perchè sono donne, perchè (se vogliono) danno la vita, perchè il dato biologico possa prevalere sull’istinto di morte che guida le menti dei maschi alle prese col potere.

Non è facile. E’ una prova molto dura. Possiamo solo immaginare il tipo di pressione alle quali sono sottoposte dentro una situazione simile. Però hanno voluto la bicicletta, e adesso devono fare un gran premio della montagna. Il memorandum trilaterale Turchia – Finlandia – Svezia che i rispettivi ministri degli Esteri hanno appena firmato al vertice Nato di Madrid, purtroppo non induce all’ottimismo. Anzi, la sua lettura integrale fa venire i brividi (qui).

Al punto 5 di questo documento di tre pagine, Svezia e Finlandia confermano che le principali organizzazioni politiche curde, tra cui il PKK, sono da considerare terroristiche. Al punto 6 Finlandia e Svezia scrivono che nei rispettivi paesi stanno per entrare in vigore norme più severe contro il terrorismo, comprese norme che puniscono con sanzioni specifiche il “pubblico incitamento” ad attacchi terroristici (qui si sente puzza di legislazione di emergenza contro una minaccia che in questi paesi non ha mai suscitato un simile allarme; per capirci, non siamo nell’Italia degli anni settanta e ottanta).

Il terzo alinea del punto 8 di seguito gela il sangue: “Finland and Sweden will address Turkiye’s pending deportation or extradition requests of terror suspects expeditiously and thoroughly, taking into account information, evidence and intelligence provided by Turkiye, and establish necessary bilateral legal frameworks to facilitate extradition and security cooperation with Turkiye, in accordance with the European Convention on Extradition.” Traduzione: “Finlandia e Svezia indirizzeranno le richieste pendenti di estradizione da parte della Turchia per sospetti terroristi speditamente e minuziosamente, considerando le prove, le informazioni e le notizie riservate messe a disposizione dalla Turchia, e stabiliranno necessarie strutture legali bilaterali per facilitare l’estradizione e la cooperazione di sicurezza con la Turchia, in accordo con la Convenzione Europea sull’Estradizione”.

Dove sta scritta la possibilità di controllare in maniera autonoma e indipendente le informazioni che provengono da fonte turca? Da nessuna parte.

Agli alinea seguenti è scritto che Finlandia e Svezia proibiranno ogni attività di finanziamento e reclutamento per il PKK e per le altre organizzazioni terroristiche; così assumendo il punto di vista turco, secondo il quale tutti i movimenti che si oppongono a Erdogan sono per definizione terroristici. Infine, una ciliegia al veleno: Finlandia e Svezia “si impegnano a supportare il massimo coinvolgimento possibile della Turchia e di altri Alleati non facenti parte dell’Unione Europea nelle attuali e future iniziative della Policy di Difesa e Sicurezza dell’Unione Europea, inclusa la partecipazione della Turchia nella PESCO (cooperazione integrata militare, la famosa “difesa unica europea”).”

Il sito bufale.net sostiene che sia esagerato dire che Sanna Marin ha regalato a Erdogan la pelle dei Curdi. Erdogan intanto ha dichiarato (leggi qui) che non opporrà veto all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato solo se esse manterranno le promesse (lui le chiama così, tanto per capirci) di estradare 73 presunti terroristi. Altrimenti, picche. E questa non è una bufala.

A ciascuno le conclusioni. Spero che le organizzazioni indipendenti internazionali, a partire da Amnesty International, tengano accesi i fari su quello che appare a tutti gli effetti come un pactum sceleris, in nome della real politik. Io credo che in questo caso Sanna Marin e Eva Andersson, che rischiano di essere lasciate sole davanti a questa schiacciante responsabilità, non dovrebbero considerare Amnesty come un fastidioso grillo parlante, ma come un alleato.  Sanna e Eva, non svendete la pelle dei Curdi al dittatore.

Julian Assange Libero!
Le adesioni alla 24 ore crescono in tutto il mondo

15 0tt0bre 2022: 24 ore per Assange

L’organizzazione della maratona “24 ore per Julian Assange”, che si svolgerà il 15 ottobre, sta rapidamente procedendo e si diffonde per tutto il pianeta.

L’appello lanciato da Pressenza a fine luglio è già stato raccolto da centinaia di persone di tutto il pianeta, dall’Australia natale di Julian, all’America Latina, dalle capitali europee all’Oriente. Sono già confermati almeno 30 eventi, quando mancano poco meno di due mesi all’iniziativa. Crescono di giorno in giorno le organizzazioni sociali e le testate che aderiscono alla maratona e si propongono di organizzare i tanti eventi che comporranno la 24 ore che attraverserà il pianeta il 15 ottobre.

Come funziona?

La manifestazione comincerà in un punto preciso a una certa ora del 15 ottobre e durerà 24 ore, durante le quali una diretta collegherà tutte le iniziative del pianeta. La diretta includerà anche video esplicativi e interventi registrati.

Saranno organizzati eventi locali che si collegheranno con la 24 ore in un momento e per un tempo preciso. Puntiamo alla massima apertura, diversità e creatività possibili – un piccolo evento di quartiere, uno spettacolo, una manifestazione, un incontro tra amici, un video, un’intervista radiofonica, una dichiarazione. Tutti sono benvenuti, non importa quanto “piccoli” o “grandi”: invitiamo attivisti di base, giornalisti, personaggi dello spettacolo, artisti, scrittori ecc ecc a partecipare secondo le loro possibilità, capacità e gusti.

Sarà possibile partecipare anche organizzando un gruppo di ascolto nel proprio quartiere, negozio, casa, piazza.

Per adesioni e proposte di organizzazione scrivere alla mail 24hassange@proton.me

Tutti gli aggiornamenti su: http://www.24hassange.org

Anche a Ferrara …

La testata giornalistica periscopio aderisce alla 24 ore per Assange. Invitiamo tutte le nostre lettrici e lettori, singoli, gruppi e associazioni ferraresi a segnalarci il proprio interesse e la propria disponibilità ad organizzare per 15 ottobre p.v. un evento a Ferrara per la liberazione di Julian Assange e la libertà di opinione e di espressione.
[ La redazione ]

VITE DI CARTA /
Senza vite di carta

 

Mi stupisco da me: da un mesetto a questa parte leggo pochissimo. Non libri di narrativa, non articoli di quotidiano, o meglio poco di tutto. Sento le notizie al telegiornale, vedo trasmissioni culturali che parlano soprattutto di luoghi di vacanza. Come se avessi messo in stand by il dna.

Eppure i libri si accumulano sul tavolo dello studio, li ho comprati girando tra Ferrara e Bologna. E molti titoli costellano le chat che intrattengo.

L’ultima in ordine di tempo, più preziosa che mai, è quella con gli ex studenti di una classe del Liceo Classico, allora sperimentale, che ho avuto per tutti i cinque anni del loro corso.

Una classe uscita nel 1996, che ora si è ritrovata per festeggiare i venticinque anni dal diploma. Che serata. A parlare dei vecchi tempi, è questo che si fa in circostanze come questa, a ricordare insieme e a svelare gli uni agli altri retroscena e percezioni soggettive degli anni del liceo, dei professori e del  bel rapporto tra compagni di classe, di me che ho rappresentato “l’Italiano” dal primo giorno di liceo fino all’esame di Stato.

Una empatia che, mi ha sorpreso, ci ha uniti. Una empatia per la lettura, di cui mi hanno considerata la responsabile, dopo tanti anni. Che responsabilità meravigliosa mi sono presa.

Che soddisfazione leggere i loro consigli su romanzi, soprattutto di autori stranieri, che ancora non conosco. La vita è stata lunga abbastanza da invertire i ruoli: ora sono io che cito e consiglio qualche titolo, ma ne ricevo da loro molti di più.

Prendo dalla pila dei nuovi volumi il catalogo del Festivaletteratura 2022. L’ho comprato a Bologna, non potendo andare di proposito a Mantova. Per me è meglio avere tra le mani la versione cartacea: posso scrivere appunti e creare collegamenti tra gli eventi che mi interessano. Posso leggere i contributi d’autore che mancano nella edizione on line.

Già nelle prime due giornate di mercoledì 7 e giovedì 8 settembre ho evidenziato molti eventi che mi interessano. Mantova mi fa fare sempre scorpacciate letterarie e culturali in senso ampio, questa ventiseiesima edizione non sarà da meno. Quando vado al Festival ho il respiro largo.

Il catalogo però è una rassegna di eventi e letture, mentre io voglio decidermi a entrare nei testi.

Plano allora su un romanzo breve che ho letto in luglio, Il giorno prima della felicità di Erri De Luca [Qui], e su un’opera di George Orwell [Qui] che presto leggerò, Giorni in Birmania.

Da Erri De Luca, che ho sentito proprio a Mantova in un paio di occasioni, mi aspettavo questo linguaggio scabro. Un narrare la vita povera del protagonista con la profondità e la secchezza espressiva di Fenoglio: “Non mi è mancato quello che spetta a un’infanzia, una famiglia. Avevo fatto senza, come tanti nel dopoguerra… Avevo lo stanzino, la scuola, il cortile. Avevo la minestra portata dalla donna di servizio di mia madre adottiva”.

Nella Napoli popolosa degli anni cinquanta cresce e si fa uomo “’a scigna”, la Scimmia, il ragazzino smilzo e pieno di sogni, che don Gaetano alleva nella portineria di un grande palazzo, come se fosse figlio suo.

Nel crescere il protagonista studia e ama la scuola, si innamora di una bambina e poi della donna, in cui la bambina si trasforma, abitando al terzo piano del palazzo; conosce la carne e il sangue, si scontra con il fidanzato camorrista della sua Anna e poi è costretto a partire su una nave che lo porta lontano da Napoli. La sua Napoli, la città che don Gaetano gli ha fatto amare, come si ama la propria identità.

La Scimmia potrebbe essere uno dei piccoli che nel bel romanzo di Viola Ardone [Qui], Il treno dei bambini, lasciano Napoli per allontanarsi dalla miseria e vivono per alcuni mesi presso famiglie del Nord Italia, che li ospitano, li curano e li fanno andare a scuola.

Invece il nostro protagonista pare avere tutto l’essenziale negli anni dell’infanzia e solo nella adolescenza lascia l’Italia per l’Argentina: ci deve pensare il mare a pareggiare i conti per il fatto di sangue in cui è rimasto coinvolto. Sarà don Gaetano a fargli sapere quando potrà tornare.

Un bel libro, coinvolgente. Letto nelle soste all’aeroporto di Dubai, nel viaggio di andata ad Hanoi e poi in quello di ritorno. Letto pensando all’Italia e avendo i piedi su un suolo straniero. Letto e compreso come meglio non avrei potuto.

Dovevo andare così lontano per leggere due frasi-destino.  La prima: c’è una generosità civile nella scuola pubblica, gratuita che permetteva a uno come me di imparare…La scuola dava peso a chi non ne aveva, faceva uguaglianza”. In questa direzione mi sono mossa insegnando, sempre.

L’altra: “lo scrittore dev’essere più piccolo della materia che racconta. Si deve vedere che la storia gli scappa da tutte le parti e che lui ne raccoglie solo un poco. Chi legge ha il gusto di quell’abbondanza che trabocca oltre lo scrittore”. Ecco, è un’avvertenza per i libri che leggerò e per ripensare in questi termini a quelli che ho letto e apprezzato.

Orwell, d’altro canto, mi aspetta dalle pagine del suo romanzo sulla Birmania degli anni venti, in cui visse come membro della polizia coloniale. Non so molto altro di questa storia, se non che l’autore vi trasfonde il proprio amore per l’Oriente e la satira sferzante contro l’ingiustizia, che dominava i rapporti sociali nelle colonie.

Visto il Vietnam, voglio capire meglio come è stata la penisola indocinese e come è. Anche se la luce che mi arriva da un grande scrittore come Orwell è come quella che arriva da una stella talmente lontana da noi, che impiega anni e anni per raggiungere la terra.

Mescolare le impressioni che mi ha lasciato la parte est dell’Indocina, in quella lunga S che è il Vietnam, con la parte occidentale ex birmana che oggi ha nome Myanmar. Verificare se ho saputo leggere anche i lasciti del suo passato. Ridare spinta alla spirale e sentire che il dna si muove, in questo agosto che prima ribolliva e ora si è ingozzato di pioggia.

Indicazioni bibliografiche:

  • Erri De Luca, Il giorno prima della felicità, Feltrinelli, 2009
  • George Orwell, Giorni in Birmania., Mondadori 2020 (prima edizione inglese 1934)
  • Viola Ardone, Il treno dei bambini, Einaudi, 2019
  • Catalogo del Festivaletteratura, Mantova 7-11 settembre 2022 , Arti Grafiche Castello – Viadana

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

ANTITRUST: COS’È E COSA DOVREBBE ESSERE
La democrazia tra dispotismo e multinazionali

 

L’AntiTrust è una Autorità pubblica indipendente dal Governo che controlla che sul mercato di riferimento non si formino monopoli, cioè la presenza di pochi o addirittura di un solo operatore che può così determinare il prezzo senza controlli da parte degli altri concorrenti.
Fu inventato dagli americani dopo la prima guerra mondiale quando si resero conto che i grandi arricchimenti avvenuti dai singoli petrolieri e altri monopolisti nel periodo 1870-1914 non andavano a vantaggio della popolazione. L’Italia è arrivata dopo 70 anni con le prime Autority e anche l’Europa ha le sue.

Purtroppo non esistono Autority mondiali e quindi oggi ci troviamo spesso con giganti multinazionali che operano sui mercati mondiali in condizione di quasi monopolio. +
Amazon per esempio si può permettere di aumentare l’abbonamento ‘prime’ a 49 dollari in quanto ha un enorme potere di mercato Uno strapotere che gli è conferito dai suoi milioni di clienti, che sono quindi conniventi e complici delle sue politiche di distruzione dei piccoli negozi (di cui poi ci si lamenta della sparizione).

Anche la Cina ha le sue Autority, le quali hanno ora obbligato tutte le grandi società ad alta tecnologia digitale a comunicare gli algoritmi che usano, che è come chiedere di sapere il tuo segreto industriale.
Alibaba (e-commerce), Byte Dance, Baidu (il Google cinese), Sina Weibo (social network), Tencent (app WeChat), Kuaishou (video brevi), Meituan (consegna cibo a domicilio) insieme a molte altre hanno comunicato alla Autority cinese Cyberspace Administration of China i dettagli dei loro software, quindi le tecniche che usano per ‘servire’ i loro clienti-consumatori.
Alibaba, per esempio, propone nuovi prodotti in base alla cronologia di navigazione. ByteDance, invece, in base al tempo trascorso dai potenziali utenti su Douyin (il TikTok cinese). La documentazione è stata resa pubblica ma è probabile che la parte più sensibile sia nota solo all’Autority cinese (e soprattutto al Governo che in Cina tutto controlla), In Cina non si scherza, e le aziende hanno subito fornito i dati.

In Europa e Usa invece non ne sappiamo ancora nulla: in Occidente il potere delle multinazionali (supportate dalla finanza) ha una grande influenza sui governi.

La domanda che ci facciamo è: in questo caso, è dunque migliore il comportamento della Cina verso i suoi cittadini? Direi di si, ma è anche evidente che in una società dispotica (come la Cina) il Governo può usare questo potere per censurare e/o influenzare/manipolare i propri cittadini, in quanto le Autority cinesi non sono indipendenti dal Governo.

L’ indipendenza delle Autority è  una delle tante clausole di ‘economia di mercato’ che l’Occidente non ha mai preteso fossero osservate dalla Cina da quando è entrata nel 2001 nel Commercio Mondiale (WTO).  E come mai non sono state pretese? Perché gli interessi a fare affari delle multinazionali occidentali erano più potenti dell’ interesse dei Governi occidentali a far crescere la democrazia in Cina.

L’ideale sarebbe infatti disporre di Autority indipendenti dai Governi (come in Occidente, almeno in teoria) che possiedono però i dati (come in Cina), ma che hanno anche come controllori nel CdA non solo i rappresentanti del Governo ma anche le Associazioni dei consumatori.
Dare ai consumatori,
che sono alla fine i veri fruitori del servizio, un reale potere ti controllo sarebbe un modo per rendere efficace e vera la democrazia (al di là delle elezioni) sulle cose che contano.

Il noto economista Daron Acemoglu (vincitore nel 2005 della John Bates Clark Medal) ci dice che la democrazia si realizza quando c’é uno Stato forte che serve con efficacia i suoi cittadini e fa rispettare le leggi, e al tempo stesso, quando i cittadini hanno la capacità di tenere sotto controllo e chiamare in causa le autorità, tramite Istituzioni che non sono lasciate alla “benevolenza” dello Stato o al Governo di turno, ma che sono garantite dalla Costituzione.

Altrimenti  il dispotismo statale è sempre in agguato: sia nella versione cinese (dove il Governo si fa dare i dati e li tiene sotto chiave), sia nella versione occidentale (dove il Governo non chiede i dati e lascia spazio allo strapotere delle multinazionali). La libertà e la potestà dei cittadini (articolo 1 della Costituzione) diventano sempre più una finzione, perché vengono manipolate dal dispotismo politico orientale o dal consumismo materialista occidentale.

Questo articolo, con altro titolo, è uscito il 21 agosto su il blog di madrugada

Cover: vignetta satirica contro il potere economico delle grandi multinazionali, Stai Uniti, inizio ‘900

Diario di un agosto popolare 11
CANNE AL VENTO

CANNE AL VENTO
22 agosto 2019

In quest’agosto un po’ tetro, ci sono anziani soli che guardano dal balcone i neri nuvoloni che avanzano lentamente. Da quando sono cominciati gli acquazzoni tropicali, ogni giorno ci si aspetta una nuova tragedia: dalle case filtrano gli echi di notizie sconfortanti, di talk show necrofili e di dibattiti faziosi.

Ma a un certo punto questo rumore di fondo della rabbia e dello sconforto, viene coperto da tuoni e lampi che sembrano bombardamenti, e torna un po’ di paura.

Nelle strade ora vuote ci sono solo i cercatori d’immondizia con le loro carrozzine a frugare nei cassonetti, in un’atmosfera dai colori post atomici.

Qualche ritardatario corre, ridendo come un bambino, poco prima che cali un sipario che ricorda le cascate del Niagara.

Quando poi passa il finimondo, e si realizza che non ci sono stati troppi danni, il ritorno del sole, anche qui a Roma Prenestino, trasmette ancora un piccolo stato di grazia, una sorta di inconsapevole gioia di averla scampata.

In pochi minuti, gli umani vengono fuori dalle tane in cui si erano rinchiusi, e come marmotte, si richiamano fra loro con dei lunghi fischi, uscendo all’aperto negli spazi ancora bagnati.

Sarà pure un martedì ma la sensazione è che nessuno ancora ci creda, che siano finite le vacanze. Persino Mario il cinese, un caposaldo del quartiere, ha messo il suo bel cartellino rosa con una scritta ad arcobaleno che dice: Ferie fino al 1 settembre.

Per ritrovare un’atmosfera ciarliera e appizzare il mio orecchio da impiccione, mi tocca fare una decina di isolati.

Capito al bar Ilary, che non è in onore della Clinton ma della moglie di Totti.

E, guarda un po’, è gestito da cinesi.

Appena entro a rifornirmi di un pretesto, (i caffè qui sono a 70 centesimi), entra un cinquantenne galante che apostrofa la cinesina dietro al bancone: “Un bel corretto al vetro dalla mia principessa!” e capisco che Anna, la ragazzina che fa i caffè, è una star esotica per i maturi avventori.

Dato che la movida del bar (interamente maschile) è, come da Mario, nelle seggiole in plastica del déhors, mi sposto fuori col caffè in mano e mi piazzo in piedi in posizione strategica tra due tavolini.

Nel primo a destra cinque ultrasessanteni trafficano, come dei ragazzini, coi loro cellulari. Il tema di cui discutono sembra estratto dal film “Perfetti sconosciuti”. Dicono in sintesi “Co’ sti telefonini non ce se capisce gnente. T’ariveno certi messaggi che se te li legge tu moje, poi chi la sente?” “Ma nun sei bbono a bloccallli?” “Te devi imparà a blocca’ tu moje, no i messaggi…” dice un terzo, strappando uno sghignazzo…

Mi sposto a quello a sinistra, dove il parterre è più giovanile: sono tre cinquantenni che parlano di una pizzeria talmente economica, “’ndo’ fanno ‘na capricciosa co’ du carciofini e ‘na melanzana che fa piagne i morti”. La conversazione non sarebbe degna di essere riportata, se non fosse che a un certo punto i tre cominciano ad abbassare un po’ la voce, costringendomi ad avvicinarmi, anche se di spalle. E piantato lì a origliare, simulo di avere un appuntamento in strada, fingendo di guardare nervosamente il cellulare e le auto in arrivo.

Stanno parlando di hashish. “Ahò, a me l’altra sera m’annava de fammedu cannette e nun trovavo più er fumo: o sai dove stava? L’avevo nascosto in una confezione de merendine, tacci sua! Ce credete che se l’è portata mi fijo a scuola? Pensa si lo beccava la maestra!” e giù sghignazzi a rotta di collo. Si aggiunge un altro: “E a me? Pensa che l’avevo nascosto in un carzino e mi moje l’ha messo in lavatrice! Te possino! Quando l’ho tolto dalla lavatrice era fracico e s’era ammischiatocorcarzino! Allora io c’ho fatto? Ho asciugato ercarzinocor fero da stiro ed è venuto su un fumo ner naso… Non puoi capì come stavo! La vedi sta pozza da qui a lamaghina? Cecaminavo sopra come Gesù Cristo!” E di nuovo a ridere come forsennati.

Vorrei ascoltare di più ma temo di essere preso per un detective della narcotici e mi tocca cambiare bar.

Ma intanto non posso non notare che questo consesso di maschi è unito da almeno due cose: il gusto un po’ infantile della trasgressione e la costante presenza nei loro discorsi della figura della moglie. Padri di famiglia, mariti italianissimi, dall’aspetto tutt’altro che fricchettone.

Mi resta la curiosità della pizzeria con la triste capricciosa (che ancora non conoscevo) e decido di cercarla. E mentre mi allontano, rifletto sul fatto – non so quanto attendibile – che ormai hashish e marijuana siano diventati, a partire dagli anni ’70, parte di un lato semi segreto, innocentemente irresponsabile, di ogni generazione, attraversando ogni classe sociale.

Sarà pure che da quando ho deciso di mettermi in ascolto mi accorgo di cose che prima non notavo, ma guarda caso, appena arrivo, sento fra i tavoli, dove i clienti si stanno spazzolando supplì, crostini e pizze di tutti i sapori, l’odore tipico di uno spinello bello carico.

Cerco con lo sguardo da dove possa arrivare. C’è un tavolo con una famiglia in cui sono tutti grassi, compresa la nonna. Una coppia dall’aria stanca, con un figlio disabile su una carrozzina. Un signore pallido dall’aria insalubre. Un gruppo dopolavoristico di colleghi che sembrano bancari: nessuno di loro sta fumando, chissà dove l’hanno nascosto.

Nel cielo ora appare un arcobaleno vero, non quello in cartone delle ferie di Mario, che rende saturi tutti i colori di via Malatesta: e nonostante quest’estate sia stata prodiga di disgrazie, questa sera svaporano nel fumo di una cannetta.

(continua giovedì, 25 agosto)

Per leggere tutti insieme i capitoli del Diario di Daniele Cini:

Diario di un agosto popolare


Oppure leggili uno alla volta:

ANDARE PER STRADA E ASCOLTARE LA VITA

STRANI STRANIERI

CORPI DIMENTICATI

NELLA CITTA’ DESERTA

COCCIA DI MORTO

FINCHÉ C’É LA SALUTE

LA BOLLA SVEDESE

STELLE CADENTI

LA METRO, IL BUS E LO SCOOTER

FREQUENZE DISTORTE

CANNE AL VENTO

L’OTTIMISMO DURA POCO

LA TORBELLA DI ADAMO

Elizabeth Rose Alper
Diversa ma vicina… ci rendeva migliori

 

Elizabeth Rose Alper,  una vita originale e non integrata, interessata alla cultura e al bello, ha saputo creare affetto e comunità attorno a sé. Non la conoscevo personalmente, ma posso riferirmi senza presunzione alla cura che uomini e donne ferraresi hanno avuto per lei.

Qualche dettaglio per chi non fosse di Ferrara o non la conoscesse.
La si incontrava al cinema Boldini con le sue immancabili sportine di plastica piene, ho saputo poi, anche di libri,  ricoperta di indumenti sovrapposti senza ordine, gli stessi in estate e in inverno.
Ho saputo che negli ultimi tempi non si riusciva nemmeno a convincerla ad utilizzare un alloggio che una rete di persone, in pena per lei, le avevano procurato.
Ha sollecitato un affetto disinteressato, dove l’unicità e la bizzarria hanno avuto il loro posto fra di noi con naturalezza e rispetto. Il coro di voci preoccupate per le sue condizioni di vita, non si sono mai rese invadenti e non si sono tradotte in forzature.

È bello per me pensare che la presenza  di Elizabeth abbia ingentilito e impreziosito il nostro paesaggio umano, forse anche a partire dalla sua storia e dalle sue doti. Qualcuno ha insinuato che se non fosse stata americana e se non avesse frequentato l’università, non sarebbe importato a nessuno di lei. Non lo so, forse è così, ma a me piace pensare che questa cura verso di lei sia stato un bell’esempio. E che è stata lei, proprio lei, a far in modo che le nostre porte del cuore si aprissero. Serviva che fosse colta? Bene, adesso sappiamo che certe figure anticonvenzionali possono portare con sé conoscenza e cultura. Oppure possono esserne prive, ma questo non ha nessuna importanza.

In tanti e tante si sono INTERESSATI e presi cura di lei. Dai loro ricordi sulle sue abitudini e sulla sua personalità, ricaviamo un esempio prezioso, quello che ci educa mostrando come si crea la comunità che agisce e accoglie con fiducia e ci insegna che avvicinarci, interessarci a chi è diverso da noi migliora la nostra vita.

Elizabeth (a sx nella foto) qualche anno fa, mentre partecipa a una manifestazione

Per me l’esempio di Elizabeth è un esempio di speranza. Mi piacerebbe che fosse abituale, che nei nostri luoghi di vita quotidiana ci fosse la presenza di una Elizabeth, bella e serena come nelle fotografie che le  persone a lei vicine hanno mostrato in suo ricordo quando lei ci ha lasciato. Vorrei che a scuola, nelle classi, le tante Elizabeth che purtroppo ci sono, fossero guardate con gli stessi occhi affettuosi e premurosi, incuranti dell’immagine inconsueta e del subbuglio emotivo che possono creare in noi, perché irriducibili alla nostra comprensione.
Vorrei che diventassimo tanto aperti e fiduciosi in noi stessi, tanto forti da sopportare e persino valorizzare il disagio con cui la diversità ci mette a confronto. Elizabeth ha saputo suscitare in noi le nostre risorse migliori. Grazie Elizabeth e grazie a chi se ne è preso cura.

STORIE IN PELLICOLA /
Viaggio nello scompartimento n.6

 

Un treno, di quelli su cui difficilmente si vorrebbe viaggiare, per le sue comodità assenti, il buio e l’odore che emana, per il suo vagone angusto e uno strano, irritante, scontroso e ombroso compagno di viaggio all’apparenza molesto e un po’ minaccioso (nonché misogino). Immaginare di dover passare ore con quel vicino insofferente e rumoroso appare subito un preludio a una sorta di incubo.

Il viaggio è lungo in quello spazio ristretto e angusto: da Mosca a Murmansk, lungo rotaie sferraglianti e claudicanti, con nelle narici l’odore dei sottaceti, delle uova sode, del tabacco di sigarette e del thè fumante dal samovar in fondo alla carrozza, lo scuro della notte abbagliato dal candore della neve, il freddo assiderante, le fermate che non terminano mai, personaggi generosi che bevono vodka.

Mi domando se continuare a vedere il film, le prime scene mi indispettiscono un attimo, mi mettono un poco a disagio, le scene mi sembrano un poco claustrofobiche e cupe (la cuccetta non ha spazio), ma poi continuo, sarà una meravigliosa scoperta, un vero invito a rovesciare le apparenze.

Avevo letto il libro cui la pellicola si ispira (di fatto ne è un adattamento), attirata sia dal viaggio in treno che dalla destinazione nel nord della Russia, Murmansk, che ho visitato in passato: l’omonimo romanzo, Scompartimento n.6, di Rosa Liksom (pseudonimo di Anni Ylävaara). Mi era piaciuto, eccomi allora a cercare il film, ben diverso.

Il film del finlandese Juho Kuosmanen è Grand Prix Speciale della Giuria del Festival di Cannes 2021. Del tutto meritato, direi.

I personaggi di questa storia? La studentessa finlandese di archeologia, Laura (Seidi Haarla) e il minatore russo Ljoha (Yuriy Borisov): lei, delusa dall’amante moscovita Irina (un’elegante e colta professoressa, circondata da agio e benessere), timida e taciturna si reca a Murmansk per visitare alcune strutture rupestri (gli antichi petroglifi), lui va a lavorare e beve, beve.

Le incisioni ritrovate, Foto museo dei petroglifi di Kanozero

Di fronte allo spettatore ci sarà presto un treno che pare più una lotta per la sopravvivenza che un viaggio: si passa dalla sensazione di una possibile minaccia sessuale a una goffa amicizia che non ha alcun senso, ma che sorprendentemente funziona. Personaggi alla fine teneri che il regista pare sempre voler abbracciare, indifesi e spaventati, quasi intrappolati da timori e sentimenti.

Una strana coppia che ci accompagna fino alla fine, li seguiamo incuriositi fin all’arrivo a Murmansk, dove ognuno prende i suoi bagagli e via, arrivederci, magari non ci si vedrà mai più, accade spesso ai viaggiatori che percorrono insieme tratti di viaggio, scambiandosi magari mille confidenze e storie, come solo fra sconosciuti si riesce a fare.

Laura resta una sognatrice con strade amore per la storia e la vita, Ljoha è avvezzo al carcere e ai campi di correzione, ma pire lui è animato da un’irriducibile passione per la vita di chi si aggrappa agli istinti bruti per non cedere all’immenso vuoto che lo circonda.

Sullo sfondo, Murmansk (nel libro, Laura va a Ulan Bator, in Mongolia), città di mare al nord del circolo polare artico, città di luce e di freddo dove, secondo il regista, è facile respirare, perché quella storia non è fatta da un luogo ma dal viaggio. E il respiro conta.

Altra differenza con il libro è l’epoca: la storia era ambientata in epoca sovietica, qui è spostata avanti in quella russa degli anni ‘90. La cornice geografico-politica avrebbe distratto, dice Kuosmanen in un’intervista, ancora una volta l’attenzione è su due esseri umani, persone vere, imperfette e a tratti goffe, non su un luogo e un tempo.

Girato nella modalità apparentemente arcaica del 35 millimetri (poi trasferito in digitale, chi accetta oggi la pellicola?), è molto bella e importante la morbida fotografia, soffusa, a tratti sfuocata, come se si guardasse da un finestrino un po’ appannato bagnato di rugiada o di neve. Neve che non manca, freddo e gelo palpabili. Molto interessante il contrasto fra il movimento del treno e l’immobilità dei personaggi.

Nostalgia di un tempo che fu, duro realismo che ha però molta poesia. Volti che cambiano con i sorrisi, alla ricerca di sé stessi, ritrovando un’umanità calorosa, un’accettazione delle differenze. Perché la solitudine può essere condivisa.

Un road movie quasi onirico-sonnambulo, dal finale dolce. Consigliat(o)issimo.

“Per conoscere te stesso, devi conoscere il tuo passato”, ci ricorda spesso Laura.

Romanzo: Rosa Liksom, Scompartimento n.6, Iperborea, 2014, 256 p.

Film: Scompartimento n.6, di Juho Kuosmanen, con Seidi Haarla, Yuriy Borisov, Yuliya Aug, Lidia Kostina, Tomi Alatalo. Finlandia, Estonia, Germania, Russia, 2021, 107 minuti.

 

Trailer 

 

 

 

 

In copertina e nel testo: immagini dal web, alcuni screenshot dal film

Napoli 1/4 settembre: A BORDO!
Primo Festival di Mediterranea

 

Si terrà dall’1 al 4 settembre nel Maschio Angioino di Napoli la rassegna “A Bordo!”, il primo festival nazionale di Mediterranea Saving Humans, l’APS italiana impegnata nella ricerca e soccorso in mare dei migranti in fuga dall’inferno dei campi libici e nelle missioni umanitarie in territorio di guerra in Ucraina.
L’evento è patrocinato dal Comune di Napoli, per volontà del Sindaco Gaetano Manfredi, che ha accolto con entusiasmo la proposta di Mediterranea Saving Humans di svolgere proprio a Napoli il primo festival nazionale. In programma dibattiti, workshop, presentazione libri, mostre e concerti … e solidarietà.

Il Programma 

GIOVEDÌ 1 SETTEMBRE

  • 17:30 // Prima si salva e poi si discute: la nostra rete, le nostre missioni, il nostro impegno.
  • 19:00 // “Curare le vittime, rivendicare i diritti. Una persona alla volta”. L’esperienza di Emergency attraverso le parole di Gino Strada.

VENERDÌ 2 SETTEMBRE

  • 10:00 // Underground: Le rotte della speranza e le reti della solidarietà.
  • 10:00 // Frontex: Sorvolare sui diritti (L’Europa blindata).
  • 18:00 // Che razza di accordi: La Libia e la coscienza dell’Europa.
  • 21:00 // concerti live

SABATO 3 SETTEMBRE

  • 9:30 // Civil Fleet & Civil Mrcc: Cooperation at sea.
  • 12:00 // Presentazione del volume “Lettera alla tribù bianca” di Alex Zanotelli.
  • 16:00 // Manifestazione contro gli Accordi Italia-Libia.
  • 18:30 // Noi e le guerre: l’accoglienza, la pace e le nostre città.
  • 21:00 // concerti live.

DOMENICA 4 SETTEMBRE

  • 10:00 // Assemblea sociale

INFO IMPORTANTI PER L’ACCESSO AI CONCERTI

Gli eventi del mattino e i dibattiti serali saranno gratuiti, ma sarà richiesta una donazione minima per partecipare ai concerti.
Coperti i costi organizzativi, le donazioni supplementari saranno devolute a supporto delle missioni di Terra e di Mare di @mediterranearescue.
Sostenere l’organizzazione di un festival è un impegno importante, ma riteniamo fondamentale che gli eventi divulgativi siano accessibili a tutti.

Più info su donazioni e prenotazioni qui: https://donate.mediterranearescue.it/abordo/~mia-donazione

Cile: una Costituzione rivoluzionaria alla prova del referendum.
Intervista al deputato cileno Tomás Hirsch

Intervista di Olivier Turquet

Il 4 settembre il Cile voterà per approvare il testo della nuova Costituzione. Questo evento storico è largamente ignorato o poco seguito dai media, soprattutto da quelli europei. Ne abbiamo parlato con Tomás Hirsch, deputato di Acción Humanista e soprattutto attivista politico che ha seguito fin dall’inizio l’intera questione costituzionale.

Gli umanisti hanno sempre messo in cima alle loro priorità la necessità di una nuova Costituzione in Cile. Tomás, potresti fare un breve riassunto di come siamo arrivati a questo plebiscito?

Questo plebiscito è il risultato di una lunga lotta del popolo cileno, di varie organizzazioni sociali e partiti politici. Molti credono che l’origine sia nelle proteste del 18 ottobre 2019, ma la cosa è iniziata molto prima. Già quando, nel 1980, la Costituzione della dittatura è stata proclamata a ferro e fuoco, abbiamo iniziato a organizzare e mobilitare i vari movimenti sociali e partiti politici per avere una Costituzione democratica. Inoltre, porre fine alla Costituzione del 1980 era uno degli impegni del primo governo dopo la dittatura, che però non è stato rispettato.
Per noi umanisti questa è sempre stata una delle richieste fondamentali per cui ci mobilitavamo; quando ero candidato alle elezioni presidenziali abbiamo fatto un gesto che è rimasto impresso nella memoria del Cile, ossia gettare nella spazzatura la Costituzione di Pinochet. Questo atto, che ha scandalizzato alcuni potenti e i membri dell’élite politica, economica e militare del nostro Paese, ha risuonato profondamente nel nostro popolo.

Questa mobilitazione è continuata per decenni, fino a quando, dopo la rivolta dell’ottobre 2019, per dare corso e incanalare le diversissime richieste sociali si è giunti alla convinzione che non si trattava di sistemare uno o due aspetti dell’attuale legislazione, ma di andare al cuore del modello. E questo significava partire dal presupposto che viviamo da decenni sotto una Costituzione profondamente antidemocratica sia nella sua origine che nel suo contenuto, che non garantisce alcun diritto, che stabilisce differenze brutali tra una piccola minoranza e le grandi maggioranze del Paese.

Fu allora che si raggiunse un accordo per procedere verso una nuova Costituzione generata in democrazia. È stata eletta un’Assemblea Costituente (nell’ottobre del 2020, N.d.A.), che ha elaborato una proposta per un anno ed è questa proposta che sarà votata il 4 settembre con due opzioni: approvo o rifiuto. In un primo plebiscito, l’80% degli elettori ha votato a favore di una nuova Costituzione e lo stesso 80% ha votato a favore del fatto che fosse redatta da membri dell’Assemblea Costituente eletti a tale scopo e non da parlamentari. Così sono iniziati i lavori di questa Assemblea, la prima al mondo completamente paritaria, con il 50% di uomini e il 50% di donne, con un’ampia partecipazione di rappresentanti degli 11 popoli nativi e con una significativa presenza di indipendenti.

Se il testo proposto viene approvato, inizia il processo di implementazione della nuova Costituzione e di generazione delle centinaia di leggi che devono essere promulgate per renderla realtà; se viene respinto, la Costituzione della dittatura viene formalmente mantenuta. Tuttavia c’è già un accordo sul fatto che il mandato popolare ha chiesto la stesura di una nuova Costituzione e quella attuale, sebbene ancora in vigore dal punto di vista legale, è già morta politicamente e nel cuore del popolo cileno. Pertanto, anche se il testo verrà respinto nel plebiscito, promuoveremo la creazione di una nuova Assemblea Costituente per presentare un nuovo progetto che possa essere approvato.
Ma naturalmente speriamo e siamo convinti che l’approvazione vincerà e che avremo una nuova Costituzione a partire dal 4 settembre.

La nuova Costituzione cilena è stata definita d’avanguardia e rivoluzionaria. Quali sono, secondo te, i suoi punti più importanti?

Non c’è dubbio che questa nuova Costituzione sia assolutamente all’avanguardia e rivoluzionaria, perché non solo pone fine a una Costituzione generata sotto una dittatura, che come abbiamo già detto è antidemocratica nella sua origine e nel suo contenuto, ma soprattutto perché ci permette di affrontare le sfide del XXI secolo in modo nuovo e migliore. In questa Costituzione sono presenti i diritti della natura – e credo che sia la prima volta al mondo – così come la protezione delle altre specie, riconoscendole come esseri senzienti. Viene data particolare enfasi alla cura dell’ambiente e al riconoscimento della crisi climatica attuale, che viene segnalata come una delle sfide da affrontare.
È una Costituzione che dal primo all’ultimo articolo garantisce, protegge, incoraggia e promuove l’uguaglianza di genere, i diritti della diversità e della dissidenza sessuale e include i diritti delle persone transgender, questioni che non erano mai state considerate prima.

La nuova Costituzione definisce il Cile come un Paese plurinazionale in cui sono riconosciuti gli 11 popoli indigeni originari del nostro Paese, una novità assoluta. L’acqua viene ripristinata come bene comune che non potrà mai essere privatizzato e lo stesso vale per il mare e per le risorse naturali. La nuova Costituzione promuove inoltre la democrazia partecipativa diretta con iniziative di legge popolari, revoca del mandato, revoca popolare delle leggi e referendum municipali. In altre parole, si struttura lo Stato in base alla partecipazione diretta dei cittadini alla politica.

È una Costituzione che garantisce i diritti sociali in modo molto importante. L’articolo 1 definisce il Cile come uno Stato sociale e democratico basato sullo Stato di diritto, plurinazionale, interculturale, regionale ed ecologico. Credo che l’articolo 1 sintetizzi in modo molto profondo un cambiamento culturale strutturale del nostro Paese e per questo ci dà tanta speranza di avanzare verso la costruzione di un Paese più giusto, più democratico, più partecipativo, più decentrato e con più diritti per tutti.

Alcuni sondaggi danno un risultato incerto a favore dell’approvazione: qual è la tua impressione in base all’azione quotidiana in campagna elettorale?

E’ vero, i sondaggi continuano a mostrare un risultato in cui il rifiuto è vincente. Tuttavia, nelle ultime settimane c’è stato un cambiamento di tendenza e l’approvazione sta aumentando di due o tre punti ogni settimana. Credo che nei sondaggi delle prossime due settimane assisteremo a una sua vittoria. Non ho dubbi che il 4 settembre vinceremo, perché c’è un’immensa maggioranza di cileni che vuole una nuova Costituzione che garantisca tutti questi diritti.

Tuttavia, quello che è successo in questi mesi è stata una campagna brutale da parte della destra, che ha diffuso fake news e manipolato l’informazione grazie al controllo che ha su tutti i media – canali televisivi, giornali, stazioni radio e anche attraverso le reti sociali – con campagne multimilionarie in cui hanno soprattutto squalificato la proposta basandosi su falsità, vere e proprie falsità: sostengono che le persone si vedranno portare via la casa, che i loro fondi pensione saranno espropriati, che i popoli nativi controlleranno il sistema giudiziario. Insomma, una serie di bugie incredibili, ma che in molti casi sono state credute dai cittadini e hanno generato paura, incertezza, dubbio, ed è questo che negli ultimi tempi si è riflesso in una possibile prevalenza del voto di rifiuto. E’ chiaro però che questa tendenza si sta invertendo, perché nell’ultimo mese le forze che sostengono l’approvazione sono scese in piazza in massa e sono andate nei quartieri a parlare con la gente. Stiamo portando avanti una campagna chiamata “due milioni di porte per l’approvazione”, che parla con le famiglie, cosa che il rifiuto non può fare perché non ha il sostegno popolare.
Quindi in quest’ultimo mese, come è successo nel ballottaggio presidenziale dello scorso anno, siamo fiduciosi che il risultato volgerà a favore dell’approvazione[1].

Cosa possiamo fare noi, dal resto del mondo, per sostenere questo processo costituente?

Penso che il sostegno che possiamo ricevere dal resto del mondo sia molto importante: in primo luogo, per motivare le comunità cilene che vivono in altri paesi a partecipare, a votare, a essere presenti: questa nuova Costituzione significa anche migliori condizioni per loro. In secondo luogo, per aiutare a diffondere il testo anche in altri paesi. In terzo luogo, per mostrare attraverso le reti il sostegno all’approvazione e a coloro che stanno lottando duramente per questo.
Penso che queste siano alcune azioni molto concrete che si possono realizzare in altri Paesi e che senza dubbio aiuterebbero molto nella campagna per l’approvazione di una nuova Costituzione in Cile.

[1] Si riferisce ai sondaggi che davano Boric perdente al secondo turno, in cui l’attuale Presidente del Cile ha poi vinto con ampio margine, N.d.T.

Qui il testo originale della Nueva Constitucion Politica de la Republica de Chile: nueva constitucion de chile

Questo articolo è uscito oggi, 21 agosto 2022, con altro titolo, sull’agenzia di stampa internazionale pressenza

Naomo, la nemesi di Giove pluvio e il destino di un territorio fragile

 

Il brutto del web è che ogni giorno ti inonda di cose, e tende a cancellarti la memoria delle cose dette e fatte l’anno prima, il mese prima, addirittura il giorno prima. Il bello del web è che ne conserva le tracce.

Nel 2018, dopo un violento temporale che allagò alcune zone di Ferrara, l’allora censore del potere  Nicola “Naomo” Lodi girò un video nel quale accusò la Giunta di non avere fatto nulla per evitare il disastro. Lo sporcaccione Modonesi non aveva pensato di far pulire le caditoie che convogliavano l’acqua piovana alle fognature, e il risultato era che per girare Ferrara serviva una canoa (se non te lo ricordi, puoi rivederlo QUI)

Qualche giorno fa un violento temporale ha allagato Ferrara. Corso Ercole d’Este, via Spadari sembravano gonfi affluenti del Po, Piazza Ariostea un lago le cui acque venivano solcate da un improvvisato surfista di città. Video sulla pulizia delle caditoie da parte dell’attuale vicesindaco Nicola “Naomo” Lodi, non pervenuti. Ovviamente.

Se le divinità fossero cadute in disgrazia al punto da doversi occupare delle sorti di un piccolo pregiudicato di provincia, ti direi che Giove Pluvio e Nemesis si sono alleate per il nostro divertimento. Purtroppo però è un divertimento magro, che dura un attimo. Perchè quello che si è verificato e si ripeterà non è un brutto temporale, è una manifestazione del cambiamento del clima. L’altra faccia di mesi di siccità. Una tragedia. Per centinaia di coltivatori, anzitutto. Per te e me, per noi, che fra un po’ mangeremo scatolette invece di frutta e verdura fresca. In prospettiva, una tragedia per il nostro territorio, un fragilissimo delta in cui il confine tra terra e acqua oramai è segnato nemmeno dall’accigliarsi del fiume, ma del mare. E noi lo stiamo facendo accigliare, ed alzare.

Durante una bella lezione agli studenti (leggi qui), il premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi ha detto una cosa che trovo convincente: “Il Pianeta ha cinque miliardi d’anni, ha grandi animali da mezzo miliardo d’anni, è sopravvissuto alla caduta di asteroidi e altri cambiamenti climatici. Quindi io non credo che il Pianeta sia in pericolo, ma noi lo siamo. Tutta la nostra civilizzazione è basata su risorse agricole estremamente delicate da gestire con il cambio della temperatura. Immaginiamoci se si fermano i monsoni nell’oceano indiano: cesserebbe di piovere nel sud est asiatico e miliardi di persone nell’Asia, senza cibo, vorrebbero emigrare altrove. Ecco perché la situazione è estremamente difficile”.

Capisci? Noi siamo in pericolo. Il Pianeta Terra ha i mezzi per ristabilire un proprio equilibrio, ma su basi diverse, che potrebbero stravolgere completamente il nostro modo di vivere. Parisi ha aderito alla lettera aperta che molti climatologi del Sisc (Società Italiana per le Scienze del Clima) hanno rivolto ai politici impegnati nella campagna elettorale. Uno dei passi più significativi della lettera recita: “Come scienziati del clima siamo pronti a fornire il nostro contributo per elaborare soluzioni e azioni concrete che siano scientificamente fondate, praticabili ed efficaci. Ma chiediamo con forza alla politica di considerare la crisi climatica come un problema prioritario da affrontare, perché mina alla base tutto il nostro futuro” (per il testo integrale della lettera, leggi qui).

La cosiddetta “transizione energetica” non è una passeggiata. Di sicuro, le idee degli scienziati del clima andrebbero intersecate con robuste dosi di pragmatismo economico e sociale, per governare un processo che diversamente rischia di rimanere in stallo tra due estremi: l’estremo di chi guarda solo al ripristino di un equilibrio sostenibile dal punto di vista climatico, dicendo no ad un mantenimento nel breve e medio periodo di fonti energetiche inquinanti, ma non sostituibili in toto; e l’estremo opposto di chi guarda solo al presente, bollando come populista ogni idea di sostituzione graduale dei combustibili fossili con fonti rinnovabili. Solo un mix di questi due approcci fa imboccare una direzione di buon senso.

Sotto questo aspetto anche il nostro fragile territorio dovrebbe approfondire l’esperienza delle Comunità energetiche rinnovabili per l’autoconsumo collettivo:  comunità territoriali dove i produttori di energia e i consumatori si scambiano l’energia prodotta in un circuito di consumo collettivo. E’ un’esperienza nata in Alto Adige nel 1921, e sviluppata a partire dagli anni settanta soprattutto in Danimarca, Germania e Paesi Bassi (ne abbiamo parlato su Periscopio, qui).

Le Comunità Solari Locali sono nate a partire da un progetto dell’Università di Bologna nel 2010, prima della legge nazionale che ha istituito le comunità energetiche Cer. Attualmente, sono presenti in comuni dell’Emilia Romagna (Medicina, Zola Predosa, Casalecchio di Reno, Sasso Marconi), Montegiorgio (Fermo) e Pesaro nelle Marche. Ci sono poi altre trentaquattro sezioni costituende tra cui Sambuceto in Abruzzo. Come spiega Leonardo Setti, docente dell’Università di Bologna, esperto di rinnovabili e fondatore delle Comunità solari: “nel passaggio dai combustibili fossili alle energie rinnovabili dobbiamo inevitabilmente passare dal global al glocal, ovvero dalla gestione dell’energia a livello globale alla gestione a livello locale perché le rinnovabili, a differenza dei combustibili fossili, non sono centralizzabili. Ognuno di noi dovrebbe iniziare a produrre l’energia che consuma che sia sulla superficie di un tetto, di una scuola o di un parcheggio. In questo modo potremmo produrre il 70% dell’energia sui territori e consumare sui territori, l’altro 30% dovremmo necessariamente importarlo per ragioni stagionali o metereologiche. Le comunità energetiche nascono per tenere in equilibrio questo sistema di produzione e di consumo.”

Solo una produzione e consumo di prossimità potrà tracciare la strada che dalla transizione locale porta alla transizione globale. A Medicina in questo momento sono coinvolte nel progetto 300 famiglie, circa il 2% della cittadinanza. I risparmi sulle bollette sono stati di 250/300 euro l’anno; le mancate emissioni nocive sono state di 40 kg di Co2 l’anno per ogni cittadino aderente.

Avevo una macchinina di gomma rossa
…un racconto

Avevo una macchinina di gomma rossa
Un racconto di Carlo Tassi

Estate 1970. Unghie sporche di terra, ginocchia sbucciate, solchi sulla sabbia, tracce nella memoria.
Nelle mie mani di bambino una macchinina di gomma rossa rombava e sfrecciava tra le dita, nelle strade della fantasia. Sul vetro del finestrino posteriore disegnavo traiettorie verticali. La macchinina indistruttibile, inarrestabile, seguiva la rotta delle nuvole di fuori, mentre mio padre guidava verso il lago con mia madre al suo fianco, sempre. Con me, dietro, mia sorella e mia nonna che parlavano di cose lontanissime.
Intanto la macchinina rossa perlustrava le fessure tra le valigie, nel vano portabagagli, e poi tra le cuciture dei sedili, tra le pieghe della sottana di mia nonna…
Ogni angolo era un mondo da esplorare. Minuscoli omini immaginari uscivano dalla macchinina per entrare tra quelle fessure misteriose, tra i bagagli sovrapposti, come i fitti palazzi di una metropoli sconosciuta. Un micro mondo più vasto del mondo stesso, un mondo senza confini. Mentre Garda s’avvicinava creando nuove visioni, nuove aspettative, dopo un anno di attese.
La vacanza sul lago era lì, pronta per iniziare. E a quella s’aggiungeva il mio mondo stupefacente di bambino, che allargava gli orizzonti all’infinito.
No, gli adulti non potevano capire, ma che importava?
La macchinina rossa andava dappertutto e oltre, e io viaggiavo con lei, nella 124 nuova fiammante di mio padre, azzurrina e luccicante sotto il grande sole d’agosto, veloce e invincibile sulla strada per il lago. Un’astronave ammiraglia che ci portava a destinazione e mio padre che guidava silenzioso. Lui era il mio gigante buono che tracciava la rotta, ed era gioia pura.

A Salty Dog (Procol Harum, 1969)

Per leggere tutti gli articoli, i racconti e le vignette di Carlo Tassi su questo quotidiano clicca sul suo nome. Per visitare il sito di Carlo Tassi clicca [Qui]

Per certi versi /
Lunatica

 

LUNATICA

luna lo so cosa fai
In un bagno turco
Ti spelli gli occhi
Per guardarci
Mentre ci sguriamo
Dalle nostre sozzure
E ridi
Ridi
Delle nostre
Promesse
Alias bugie
Apparecchi i lampadari
Nel grande salone
Della notte
Finalmente
Qualcuno
Ti guarda
Addobba gli occhi

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
 [Qui]

LA STAGIONE DEI GRETINI

 

Ferrara è stata investita da una bomba d’acqua. Poteva andar peggio (Bondeno, Versilia…)  ma la botta l’abbiamo sentita tutti. Leggendo le polemiche di bassa lega del dopo alluvione (mentre tanti cittadini stavano a schiena bassa a raccogliere l’acqua a secchi) ho pensato alla famosa invettiva: Piove governo Ladro! Il che non vuol dire automaticamente che nel governo non si nasconda qualche lestofante (forse è addirittura probabile), ma che della pioggia nessun governo, di qualsiasi  colore, può essere incolpato.  Così come nessun sindaco, presente o passato, di un alluvione e delle strade e case allagate. Ne scrive, con il consueto acume, l’amico Stefano Lolli.
(Francesco Monini)
I dati sono inconfutabili, e parlano di precipitazioni di portata eccezionale, imprevedibili ma purtroppo non più impensabili. I dati evidenziano un sistema infrastrutturale che non da ieri o l’altro ieri non può reggere simili eventi, ahinoi sempre meno rari e di fatto sempre meno ‘eccezionali’. Giusto perciò concentrarsi sul presente (ossia sul rimediare con efficacia ai danni) e sul futuro (rivedendo magari qualche scala di priorità per investire su ciò che palesemente occorre). Le polemiche e i meme, per quanto fondate e divertenti, servono dunque ben poco.
Ma per non passare da Gretini, è utile anche un po’ di memoria storica. Non era eccezionale (e in effetti non si è più fortunatamente verificato) il cosiddetto ‘gelicidio’ avvenuto nell’inverno di alcuni anni fa, quando sotto una coltre quasi mai vista di neve e di ghiaccio l’allora sindaco Tiziano Tagliani venne sommerso di critiche, e l’assessore alla Protezione Civile Aldo Modonesi irriso dall’attuale vicesindaco che sfrecciava su uno slittino tirato non dalle renne ma dall’auto di un odierno consigliere comunale? Faceva ridere? Sì, ho riso anche io. È stato utile? Lo scopriremo, temo, solo nella malaugurata ipotesi di un nuovo ‘gelicidio’. Ma chi ha riso allora, deve ridere anche oggi delle caricature di Lodi a bordo di un canotto, mentre solca le acque in Porta Po o lungo viale Cavour. Perché è detto antico (e bipartisan) quel ‘piove, governo ladro’ che può essere declinato in molte epoche e in tutte le latitudini, nazionali o locali.
Polemizzare contro l’amministrazione è dunque inutile e, visti i dati meteo, immotivato; ma può dirlo solo chi non si è prestato a opportunismi, propagande e sciacallaggi (qualcuno anche creato ad arte), chi nelle circostanze davvero difficili ed ‘eccezionali’ è stato in prima linea. Ricordo la dolorosa pagina del terremoto, e l’impegno lodevole degli amministratori ferraresi, compresi certamente Alan Fabbri Sindaco di Ferrara e Fabrizio Toselli che hanno rappresentato un esempio di capacità e dedizione. Sperando che la nostra comunità non debba più affrontare simili prove, e che venga messa in condizione di fronteggiare anche eventi come quello odierno, non scanniamoci nella diatriba puerile, ma non facciamo neppure gli indiani. O meglio, i Gretini
Nota: lo scritto di Stefano Lolli è tratto, con il consenso dell’autore, dalla sua pagina Facebook

AMERICA BIANCA
Le grandi (e tardive) scuse per “Piccola Piuma”

 

Un giorno Piccola Piuma salì sul palco degli Oscar e rifiutò il premio in nome e per conto del grande Marlon Brando, insignito dall’Academy della massima onorificenza per la celeberrima interpretazione ne “Il Padrino” di Francis Ford Coppola.

Marie Louise Cruz, questo il nome latino dell’attrice e modella che nel 1973 calcò il palco più famoso di Hollywood per ricordare, in sessanta secondi, la storia millenaria del popolo dei nativi americani e lo stereotipo del selvaggio assetato di sangue, collezionista di scalpi, utilizzato nell’industria cinematografica americana per più di cinquant’ anni. Quella invece era una pratica utilizzata dai Francesi in Nord America e in Canada, per certificare l’uccisione delle bestie indigene in modo da essere pagati dal governo per la pulizia effettuata.

Come può essere definita una strage lunga almeno cinque secoli con circa cento milioni di morti? Esistono molti se e molti ma, sottilizziamo su quanti morti uccisi con le Colt, quanti caduti in combattimento, quanti torturati e morti in galera, quanti per malattie, quanti stuprati, quanti resi innocui grazie alla voluta diffusione dell’alcool, quanti suicidi a causa della secolare detenzione nelle riserve. E’ su questo che non tornano i conti, oppure sono numeri da non diffondere, da tenere “sedati”?

Pensate: dei recinti, degli zoo per esseri umani, dove gli infedeli sono rinchiusi da generazioni.

L’America bianca, puritana e assassina insorse quel giorno. I cow-boy ai piedi del palco ulularono di sdegno, non tanto per il rifiuto del grande attore, quanto perché per circa un minuto si diede voce ai milioni di fantasmi, che dalla notte dei tempi abitavano quel continente. La culla della democrazia e la terra delle opportunità al nord, dove tutti possono ambire a diventare qualcuno, dove ad ognuno viene data una opportunità, a patto che sia bianco e cristiano: il sogno americano. Il sud del continente invece descritto come un covo di ribelli latinocentrici, a loro volta superiori nella “catena alimentare” agli indigeni.

Quegli amerindi, popolazioni caucasiche che, tredicimila anni prima della consegna degli Oscar, avevano scavallato il nord del mondo per andare a vivere nelle pianure, nelle valli e nelle montagne di quel nuovo continente. Calpestando quelle terre, in sintonia con la natura, migliaia di anni prima del genovese Cristoforo Colombo.

Piccola Piuma fu accusata di tutto. I suoi occhi neri profondi come gli immensi laghi del nord, i suoi lunghi capelli colore del corvo, gli abiti tradizionali, le trecce e i colori della sua gente, divennero un bersaglio troppo facile per quel plotone di infallibili pistoleri.

Ci si dimenticò in fretta di Marlon, per riversare l’odio sulla bella donna indigena.

Era sicuramente l’amante di Brando, era un’attrice pagata da non si sa bene chi, aveva lo stesso cognome della moglie dell’attore, magari c’entravano pure i comunisti.

In quei giorni del 1973 attivisti nativi americani stavano occupando le aree nelle vicinanze di Wounded Knee, zona del South Dakota dove il 29 Dicembre 1890 l’esercito degli Stati Uniti d’America massacrò oltre trecento Miniconjou, del popolo dei Sioux Lakota. Tra i più grandi massacri della storia americana, l’atto più eclatante della “soluzione finale” indiana durata trenta anni. Soluzione finale a cui spesso Hitler disse di essersi ispirato quando progettò lo sterminio scientifico degli ebrei.

Perché quegli eventi non hanno una giornata della commemorazione e della memoria, se non tra i superstiti di quei popoli che abitarono il nuovo continente prima dell’arrivo degli Europei? Bella domanda. La culla della democrazia ha il potere di cambiare la memoria delle cose.

Ora, dopo cinquant’ anni, Piccola Piuma ha ricevuto le scuse dal parte del presidente dell’Academy David Rubin con una lettera ufficiale, e gli onori da parte di Jacqueline Stewart, direttrice e presidente dell’Academy Museum.

Oggi Piccola Piuma è una bella signora di settantacinque anni, con gli occhi neri, profondi come l’orgoglio del suo popolo, nei racconti millenari della Terra, della Luna, delle stelle, dell’aquila e del bisonte. Nell’accettare le scuse ha dichiarato: “per quanto riguarda le scuse noi nativi americani siamo persone molto pazienti, sono passati solo 50 anni! Dobbiamo mantenere il nostro senso dell’umorismo su questo in ogni momento. È il nostro metodo di sopravvivenza”.

La storia è raccontata dai vincitori e non sempre i vincitori hanno buona memoria.

NATURA VOX AETERNA:
Il Nomade Augusto alla Marfisa

 

Trent’anni fa scompariva prematuramente Augusto Daolio, storico fondatore, con il batterista Beppe Carletti, dei Nomadi, uno dei gruppi più longevi e importanti della musica italiana, simbolo della beat generation e delle proteste giovanili.

Nato nel 1947 a Novellara in provincia di Reggio Emilia, dal 1963 Daolio e la sua band partono dalle balere dell’Emilia-Romagna per sbarcare in Italia e nel mondo. Ma la musica qui non c’entra.

Daolio dai capelli lunghi e dalla barba brizzolata era anche un bravissimo pittore e scultore autodidatta: dalla prima mostra personale a Novellara nel 1991, le sue opere sono oggi ancora esposte e sono approdate a Ferrara alla Palazzina Marfisa d’Este, dove le potremo ammirare fino al prossimo 11 settembre.

“La musica la coltivo come mezzo sociale per comunicare con gli altri: ansie, rabbia, amore, idee e progetti.  La pittura per scavare dentro me, per interrogarmi, per lo stupore, la meraviglia e il segreto.”
Augusto Daolio

“Ho sempre ascoltato molto – diceva Daolio – guardato, osservato, e mi sono sempre lasciato sedurre dalla natura, sentendomi parte di essa. Fisicamente, voglio dire. Ho provato stordimenti e capacità visionarie. Mi sono abbandonato agli odori della terra, dell’erba, della corteccia degli alberi. La mia piccola natura sente tutto lo sconvolgimento di un temporale di primavera”. “Non disegno per riempire un vuoto”, diceva, “ma per vuotare un pieno che è dentro di me e preme”. “Sono gravemente ammalato di quello strano male che spinge a guardare tutto con grande stupore”. Lo stupore, il motore della creazione.

E a raccontare questo sentire, l’avvolgente respiro della natura, Ferrara espone una selezione di 56 lavori, tra olii e chine colorate, realizzati tra il 1973 e il 1992, ispirati dalla natura intesa come insieme di tutte le cose che nascono, vivono e si trasformano, uomo compreso, “non sempre visibile” nei suoi “spaesati” paesaggi, ma che “sa mescolarsi alle cose, scambia i ruoli, diventa cavallo e albero”. Ancora gli alberi… sempre presenti.

Eccoci allora stupiti dalla forza di un’una emblematica china del 1990, abbracciato, e protetto, dalla corteccia di una quercia nella grande e amata pianura emiliana.

Augusto Daolio, Senza titolo, 1990 china su cartone

“Quando guardo la campagna, larga, lunga, infinitamente piatta all’orizzonte”, scriveva Daolio, “provo una strana nostalgia per un paesaggio di foreste e di grandi alberi che da noi, forse, non è mai esistito”. L’albero diventa così uno dei protagonisti del suo immaginario, forse perché gli assomigliava: “L’albero trae forza e nutrimento dall’oscurità della terra, silenziosa e misteriosa. Essere metafisico. Esce dalla terra acquistando corpo fragile e robusto, si spinge verso l’alto. Essere fisico. Rompe in una specie di delirio fantastico di rami, foglie, teneri germogli, gemme. Essere poetico”. E l’artista ne aveva capito la grande intelligenza. Essere alberi (e pensare come loro) resta importante.

L’albero, silenzioso, che in questa calma e silenzio, con le sue immense, portentose e vitali radici, fa tutto per noi. Lì fermo, in attesa di ogni nostro rientro, paziente ci sostiene. E si mescola, si fonde con il resto.

Augusto Daolio, Senza titolo,1991, china su cartone

L’albero si stacca dal suolo e l’ombra delle sue radici diventa la chioma delle pietre perenni, che, altrove, s’accordano nel profilo di un elegante destriero. Che, a sua volta, nasce dall’intreccio delle frasche degli arbusti cresciuti sugli scogli. Un eterno ritorno.

Augusto Daolio, Senza titolo, 1991, olio su tela

Emerge, l’albero, dal coccige di una sensuale fanciulla, come una coda, ne diventa i capelli, la testa. corpo muscoloso con la testa di rami.

Rami che paiono volersi fondere con i corpi, in un tutt’uno cosmico. Perché il mondo è uno. Spicchi di luna un poco spaesati. Sublimi emozioni.

Un’unione fisica e metafisica, un amore vegetale, la fusione, lo svettare verso il cielo. Pure le pietre parlano. Poesia e Bellezza della natura eterna: spettacolo straordinario.

Augusto Daolio, Senza titolo, 1990, olio su cartone telato

Siamo nuovamente immersi nel “surrealismo padano”, indica Vittorio Sgarbi, e la città, anche con le più recenti mostre come quella di Adelchi Mantovani, ne continua la narrazione. Come per Adelchi, anche qui c’è un mondo onirico, magico, evocativo e simbolico dove si coglie la connessione Uomo-Natura, le affinità tra essere viventi e inanimati. Un tempo di sempre, curioso. Il meraviglioso mistero di cose, oggetti e sentimenti.

Augusto Daolio – Il respiro della naturaFerrara, Palazzina Marfisa d’Este, 18 giugno – 11 settembre 2022

Organizzatori: Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara e Fondazione Ferrara Arte in collaborazione con l’Associazione “Augusto per la vita”. Patrocinio della Regione Emilia-Romagna.

“Augusto per la vita” è stata fondata dalla compagna di sempre, Rosanna Fantuzzi, per raccogliere fondi a favore della ricerca oncologica.

Giorni e orari di apertura – 9.30-13 / 15-18 – Chiuso il lunedì

Immagini cortesia Ufficio Stampa Fondazione Ferrara Arte

Daolio, foto di Dario Lasagni

PRESTO DI MATTINA /
Sognare è continuare a nascere

 

Il cielo sogna la terra e nasce Maria; spunta il fiore del vento, l’anemone umile che alle prime piogge farà fiorire il deserto. Il cielo dice “Adusm”, presente, ci sono. La terra risponde “Eccomi”, son qua. «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca» (Is 35,1).

Sognare è andare verso un sapere dell’anima: un affacciarsi ed un ritirarsi, un dentro e un fuori; è un continuare a nascere, ferita aperta tra la notte del senso e il suo giorno, tra sapere e non sapere; la soglia non già di un luogo ma di una relazione, perché non basta essere nati e affidarsi la prima volta.

«Ogni volta che si nasce o si rinasce, perfino nel nascere di ogni giorno, occorre accettare la ferita nell’essere…

Viveva al futuro, o meglio nel futuro, non avendo presente. Era stata sul punto di cadere nel passato. Ma lo stesso passato, frammentario e doloroso, la respingeva. Si era decisa a nascere, ma avrebbe dovuto continuare a nascere

Doveva portare in alto sé stessa attraverso il deserto, talvolta perdendo i sensi, cadendo in pozzi di silenzio, in negazioni. Vivere è una fatica che, in alcuni momenti, appare impossibile da compiere; la fatica di percorrere la lunga processione degli istanti, di opporre resistenza al tempo; resistere al tempo è la prima azione che l’essere vivi richiede; è sapere, poi, che il “qui” è molto concreto, molto definito e non lo si conosce» (Maria Zambrano [Qui], Delirio e destino, Milano 2000, 19.).

Solo attraversando di continuo dal dentro al fuori delle relazioni e dei sogni, si costituisce e prende forma quell’orizzonte in cui il sogno si risveglia, diventa reale; un sognare insieme è la realtà: «Farò scaturire fiumi su brulle colline, fontane in mezzo alle valli; cambierò il deserto in un lago d’acqua, la terra arida in zona di sorgenti» (Is 41, 18).

Nella luce dell’aurora il sogno dalle tenebre si fa luce; su questo confine e soglia, che è passaggio dell’esistenza stessa, ci è dato comprendere il sogno come un continuare a nascere.

La scrittura stessa è onirica. I suoi segni grafici in attesa, al pari di germogli di sogno, divengono come anemoni nel deserto dell’arida pagina, simili agli anemoni scarlatti che ricoprono all’arrivo delle prime piogge il deserto del Negev nel sud della Palestina.

Ma un continuo venire alla luce sperimentano anche coloro che hanno come levatrice la lettura. Chi legge è come quei torrenti del Negev che, secchi e inariditi, d’improvviso la pioggia rigenera: aprendo un libro, essi si riempiono di acque impetuose, dei sogni del cielo raccontati dalle nubi portate dal vento, sino a che la terra arida, come lo spirito, fanno rifiorire.

Il sogno è “immenso fiume” che precede il nascere di nuovo. È la nascita come desiderio di ristabilimento delle sorti, promessa di una trasformazione. Un precedere è il sogno che fa procedere la vita, un passo dopo l’altro, perché nascere è un venire a sé stessi andando verso l’altro, un procedere verso chi ci precede innanzi.

«Ed ecco: la stella che avevano visto in oriente li precedeva» (Mt 2,9): il sogno dei Magi è il sognare dei popoli. «E ora andate e dite ai suoi discepoli che egli è risorto dai morti e vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, ve l’ho detto» (Mt 28, 7): l’annuncio delle donne è il vangelo: il sogno nascosto nelle viscere di ogni vivente.

Sotto il deserto
Sterile nel tempo,
Procede fresco e lento
Un fiume immenso.

La terra gli fa largo,
E si pulisce;
La tenebra in letargo
Si spoltrisce.

Ogni goccia in sé raccoglie
Che filtrava esaurita,
E l’abbevera di vita,
Non più sola con la morte.

Ma di fuori sta il deserto
Senza avere giovamento:
Moltiplica la sabbia,
Ammucchia pietre e rabbia;
Ignora il fiume immenso,
Che se sporge in refrigerio
Dentro l’oasi feconda
Una cinta lo circonda,
E fa suo il desiderio.

*

Così il fiume torna ancora
Nel mister del proprio corso –
E per sé nemmeno un sorso.

***

Perde i pètali la rosa
Per spiegar le ali al volo:
Compie intanto il tuo sogno,
E la salute del ramo.

Chi cammina leva un piede
Mentre appena l’altro posa:
L’equilibrio è un richiamo,
E così il passo procede.

Io rimango, e tu mi lasci,
Come terra sfugge al sole
Perché tutta la fasci:
L’addio non è l’abbandono.

(Clemente Rebora [Qui], Le poesie, Milano 1994, 157-158; 479).

L’Assunta: un destino sognato

Scrive Maria Zambrano: «Ombre del sogno di Dio. La mia vita non è il mio sogno e se la sogno è perché io che la sogno vengo sognato. Dio ci sogna e allora dobbiamo rendere il suo sogno il più trasparente possibile, ridurre l’ombra al minimo, assottigliarla. Dio mi sogna? Sarà possibile realizzare il suo sogno? …

Forse Dio sognò di una sua creatura, la prediletta; forse l’universo ci sogna come suo compimento e siamo già sognati, pre-sognati nel fiore e nell’albero che si erge, nella stessa materia estesa, sognata a sua volta, che aspira alla realtà e si mette a servizio per raggiungerla» (ivi, 16-17).

L’Assunta è il sogno di Maria, è quell’addio che non abbandona; un saluto – invece − di prossimità, perché l’a-deus è un abbraccio che ritorna sempre, di nuovo, da parte di colei che ci ha preceduto in una nuova nascita, quella della sua ultima Pasqua, il passaggio nella beatitudine del Figlio.

Disse di lei Elisabetta, sentendo sussultare il suo grembo gravido: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1, 45).

Innalzata è Maria, come il Figlio, risorta nel Risorto − potremmo dire pure − poiché il verbo greco eghéirô corrisponde ad alzare, rialzare, innalzare, sorgere: ma è anche il verbo della risurrezione, quello a cui ricorrono gli evangelisti per descrivere lo status del Crocifisso risorto: “in piedi”.

Da Maria e dal suo popolo, Gesù ha imparato a sognare il sogno di Dio per continuare a far nascere la vita attraverso i suoi sogni, che sono le sue parabole, a rialzarla nei suoi gesti di guarigione prendendola per mano.

Per questo nelle icone bizantine della Dormitio – come è chiamata in Oriente l’“Assunta” – è raffigurato Gesù che tiene sulla mano una piccola Maria, così come quest’ultima aveva tenuto quella del figlio appena nato.

Sogno vivente, quello di Gesù, incarnato nell’orizzonte della realtà e della storia. Ritorna infatti il verbo egheiretai, surgit a cena: «si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto» (Gv 13,4-5).

Lo stesso è stato per Maria dopo l’annunciazione, dopo il suo eccomi all’adsum del cielo. “Exsugens autem Maria, abiit in montagna”. Qui, in Luca 1, 39 troviamo un altro verbo della risurrezione: «‘Anastãsa de Maria»:

«In quei giorni Maria si alzò in fretta», tutta incinta del suo sogno per recarsi verso la montagna dalla cugina Elisabetta, pure lei incinta del suo impossibile sogno: un figlio nella vecchiaia.

Giovanni, sarà il suo nome: grazia e dono di Dio. Anístêmi è il verbo che significa risvegliare, far alzare, innalzare, far risorgere da morte; e Anastasi viene detta nell’iconografia bizantina l’icona della risurrezione e della discesa agli inferi di Cristo.

Il sogno di Maria è il sogno dei poveri, degli afflitti, dei miti, degli affamati e assetati, dei perseguiti a causa della giustizia, dei misericordiosi, dei pacifici e di coloro che hanno il cuore limpido: il sogno degli uomini e delle donne delle beatitudini.

Maria, la ragazza di Nazaret, ne ha piena consapevolezza quando risponde ad Elisabetta con il canto del Magnificat: ha guardato all’umiltà della sua serva… ha deposto i potenti dai troni “ha innalzato i tapini” «hupsôsen tapeinoús», i piccoli, gli umili.

Ancora un altro verbo per dispiegare, oltre tutti i confini e le barriere, l’ampiezza e la smisuratezza del sogno dell’Assunta. Mi riferisco al verbo hupsoô, che significa alzare in alto; elevare alla sommità di opulenza e prosperità; esaltare, elevare a dignità, onore e felicità.

Ma così l’Assunta ha preceduto ogni cristiano nella pratica delle beatitudini del regno, parimenti è colei che per prima nella peregrinazione della fede, accompagna tutta la Chiesa.

Del resto la prima beatitudine è proprio quella del credere e del praticare il sogno del vangelo. Non per caso, sul monte delle Beatitudini, Gesù pronuncia l’Adsum qui sulla terra, il suo eccomi qui, tra la gente: «Al tramontar del sole, tutti quelli che avevano dei sofferenti di varie malattie, li conducevano a lui; ed egli li guariva, imponendo le mani a ciascuno» (Lc 4,40).

Da dove comincia allora la sequela di Maria nella pratica delle beatitudini? Innanzitutto bisogna impararle a memoria non diversamente conosciamo il Padre nostro. Ci vuole così poco − credetemi − basta volerlo.

È come imparare una poesia. Ma perché una poesia diventi un sogno che risveglia, che continui a farci nascere, occorre un’interiorità spaziosa, resa libera dalla premura, come grembo materno umile e ospitale.

L’umiltà − dice Nikolaj Berdiaev [Qui] − è una delle vie della libertà. Lungi dal corrispondere a sottomissione della volontà ad una volontà estranea, l’umiltà è l’atto dell’uomo orientato verso se stesso tanto da presupporre una intensa libertà dello spirito.

«Essa è la via che conduce alla liberazione dal potere di tutto ciò che è arbitrio, esteriore, estraneo all’uomo; la via che conduce alla libertà dello spirito, al rifiuto di ogni dominio degli elementi asservitori, a quella libertà interiore che trionfa del male nella vita» (Nikolaj Berdjaev, Spirito e libertà, Edizioni di Comunità, Milano 1947, 217-218).

E se l’umiltà è l’ospitalità che uno fa di sé al sogno dell’altro, ecco che praticare le beatitudini significherà mettersi dalla parte degli uomini e delle donne delle beatitudini nella forma di una diakonia sinodale.

Svegliarsi è rinascere ogni giorno: un risvegliare il sogno

«E imparò a svegliarsi alle prime luci del giorno per vedere, per un istante, attraverso il balcone aperto alla neve, l’alba, luce immemore che benedice il nostro sogno.

Svegliarsi è rinascere ogni giorno. E la luce già ci attende. È già lì, iniziata, la storia che ci tocca proseguire. Svegliarsi è entrare in un sogno già in movimento, provenire dal deserto puro dell’oblio ed entrare, per prima cosa, nel nostro corpo, ricordarlo senza rancore, entrare ad abitarlo e a recuperare la nostra anima con la sua memoria, la nostra vita con le sue occupazioni. Entrare come in un bozzolo tessuto da innumerevoli affaccendati bruchi; riprendere la nostra freddezza nel bozzolo fabbricato instancabilmente dal bruco-uomo, facitore di sogni che si realizzano, costruttore di storia». (Zambrano, ivi, 63).

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​Come un “gnic” nel Credo

 

Lo slogan elettorale della ex Lega Nord (ora Lega e basta) per le prossime elezioni ruota attorno alla parola ‘Credo’ ed i richiami religiosi all’atto di fede dei cattolici sono evidenti.

Non è una novità che il segretario della Lega Matteo Salvini, tramite i suoi baci pubblici al rosario, i suoi giuramenti sul Vangelo, il suo contornarsi di immagini sacre, sfrutti spudoratamente i simboli religiosi in cambio di voti.

In effetti noi elettori, quando scegliamo per chi votare, spesso ci facciamo condizionare più da alcuni aspetti apparentemente secondari piuttosto che dal programma elettorale e dalla credibilità dei candidati e delle candidate. Oltre ai colori e ai simboli, gli slogan rappresentano una parte importante di questi aspetti.

Molti partiti hanno capito da tempo che, in Italia, si conquistano più voti con ciò che si è detto che con ciò che si è fatto, più con la forma che con la sostanza; Freak Antoni[Qui] ha riassunto questo concetto con una frase straordinaria: “A volte il fumo è meglio dell’arrosto”.

In sostanza quel ‘Credo’ scelto dalla Lega Nord sembra proprio un invito a “credere”, indipendentemente dal contenuto proposto, ancor prima che a ragionare nello specifico sul tema.

In certi casi l’ironia mi aiuta ad immaginare che in fondo a destra, dopo il “credere”, venga il conseguente invito ad “obbedire” da parte di coloro che hanno preso il classico incitamento calcistico alla nostra nazionale per farlo diventare il nome del loro partito e, a seguire, arrivi l’ordine di “combattere” da chi si è appropriato dell’incipit del nostro inno nazionale, per tenere accesa la fiamma fascista nel proprio simbolo e non solo.

In ogni modo quel ‘Credo’ leghista mi ricorda una suggestiva espressione ferrarese: “At conti come un gnic in tal Credo”, la cui traduzione è: “Vali come un gnic nel Credo” ed il cui significato equivale sia a: “Non vali niente”, che a “Sei inopportuno”, proprio come un cigolio (gnic) prodotto da un movimento sull’inginocchiatoio durante una preghiera solenne (il Credo).

La similitudine non ha bisogno di ulteriori spiegazioni sull’inopportunità, a mio giudizio, di alcuni “tranelli politici”.

Del resto mi pare che, oggi in politica, le cose inopportune stiano diventando più uno status symbol che un difetto da evitare.

Io, che comincio a rimpiangere le noiose tribune politiche di quando ero adolescente, credo esista un grave problema di educazione nel nostro Paese di cui pochissimi si preoccupano.

Io, che faccio il maestro elementare, osservo che si voterà ancora una volta chiudendo le scuole ad una settimana dal loro inizio, senza rispettare quell’impegno a trovare altre sedi che diversi partiti avevano preso qualche anno fa.

Io, che giocando con le parole me ne prendo cura, temo che questa sarà una pessima campagna elettorale perché sarà orientata ancora una volta allo scontro e non al confronto.

Io, che guardo alla coerenza ancor prima che alla conferenza, vedo che qualcuno si impegna più a sfoggiare la propria vanità privata invece di discutere, ad esempio, per migliorare la sanità pubblica.

Io, che vivo del mio stipendio, vorrei che chi promette di tagliare le tasse non guardasse solo alle proprie casse, ma spiegasse con quali soldi pagherebbe poi i servizi pubblici.

Io, che a scuola guardo tutti i giorni in faccia al futuro, desidero ascoltare qualcuno che abbia proposte serie sul come uscire da questo presente in cui siamo tutti impantanati.

Io, che a forza di turarmi il naso ormai fatico a respirare, ho bisogno di aria fresca nei polmoni, di vento forte per veder volare proposte alte di giustizia sociale in modo da rafforzare la mia “costituzione”.

Io, che  non “credo” a certi slogan, penso che sceglierò invece la “credibilità” delle persone che hanno fatto battaglie sociali ed esperienze importanti soprattutto fuori dal Parlamento, come mio criterio per decidere chi votare.