Articolo originale di: Redazione Italia di pressenza
La 24 ore per Julian Assange del 15 ottobre si avvicina e, come si può vedere dalla mappanel sito, le iniziative si moltiplicano. Attivisti e gruppi di ogni tipo stanno lavorando per organizzare eventi diversi a seconda dei loro gusti e capacità. Se siete interessati a organizzare un evento locale, grande o piccolo, scriveteci alla mail 24hassange@proton.me.
Di seguito riportiamo un’originale iniziativa che si svolgerà nel “pub più eccentrico” di Manchester, nel Regno Unito e che potrebbe servire da ispirazione per altri eventi simili.
In collaborazione con Body Warmth: Dance to Stay Warm stiamo organizzando il nostro evento “Save Julian Assange. Join The Wikileaks Revolution” presso l’Old Abbey Taphouse, Guildhall Close, Hulme, Manchester. Il nostro evento inizierà sabato 15 ottobre alle 15:00 e durerà fino alle 19:00; sarà poi seguito da Body Warmth dalle 20:00 alle 03:00 del mattino. L’evento è gratuito, ma è previsto un costo di 5 sterline per la parte serale, al fine di raccogliere fondi per coprire i crescenti costi di riscaldamento del locale.
Il nostro gruppo “The People’s Collective” sostiene la democrazia mondiale e la libertà di espressione e il nostro obiettivo particolare al momento riguarda i recenti e preoccupanti sviluppi del caso del fondatore di Wikileaks Julian Assange.
Julian è attualmente detenuto in isolamento, in condizioni terribili, nella famigerata prigione di Belmarsh a Londra. Il Ministro degli Interni Priti Patel ha recentemente firmato i documenti per l’estradizione, che lo porteranno a essere processato negli Stati Uniti, dove rischia 175 anni di reclusione.
L’evento si terrà presso l’Old Abbey Taphouse di Hulme. Vincitore nel 2022 del premio “Community Pub of the Year” assegnato dalla “Campaign for Real Ale”, è stato anche definito il “pub più eccentrico di Manchester” dal Manchester Evening News nel 2022. Il locale dispone anche di uno studio al piano superiore dove DJ, musicisti e altri creativi possono registrare sessioni e programmi radiofonici per STEAM Radio, che fa parte dell’impresa sociale STEAM MCR. L’obiettivo di STEAM è fornire uno spazio creativo a chi vive nella zona, in particolare ai gruppi poco conosciuti.
Saranno esposte opere d’arte originali, striscioni politici e fotografie di attivisti politici di base e di sostenitori di questa causa provenienti dai nostri precedenti eventi musicali e dalle passate manifestazioni per Julian Assange. Il nostro rivoluzionario evento live sarà caratterizzato da una serie di esibizioni dal vivo, tra cui i set acustici di Damien Luke McNeilly e The Valleys, i recital di poesia di Leon the Pig Farmer, Steve Jaffa Brown e altri poeti, nonché una performance di danza contemporanea dalle 15.00 alle 19.00. Ci sarà anche un’esibizione della band di attivisti politici punk scar Galaventis. Vari DJ sosterranno il tema dei diritti umani, della libertà di parola e di espressione e della democrazia mondiale.
I post-fasci in questo momento soffrono di una ambivalenza del comportamento: l’arroganza e la paura.
L’arroganza scatta come riflesso della vittoria elettorale da tutti pronosticata, e fa scappare i loro desideri prima inconfessabili: bloccare il mare contro l’arrivo dello straniero; dare un’ elemosina solo alla famiglia numerosa (italica), perchè se lo merita, gli altri possono morire di fame; censurare i cartoni animati con dentro famiglie lesbiche e omosessuali. Non so dire se i Mollicone e i Pillon che tuonano contro le amiche gender di Peppa Pig siano il nuovo Minculpop: un’abbreviazione che, per triviale assonanza, si attaglia anche alla tentazione di questi bigotti di mettere all’indice le proprie pulsioni represse.
La paura trapela dalle parole del gran consigliori di Giorgia Meloni, Guido Crosetto. Che davanti ad una domanda del giornalista di Avvenire che chiede su chi possa contare Fratelli d’Italia per governare nel frangente più duro del secondo dopoguerra, risponde: “Giorgia, se servisse in un momento particolarmente difficile o tragico, parlerebbe con Letta e chiamerebbe Letta senza nessuna esitazione, così come Conte o Calenda. Se è in gioco il destino dell’Italia, tutti devono collaborare. Penso che i primi ad averne piena consapevolezza siano Mattarella e Draghi.”
Paura, eh? No, caro Crosetto, troppo comodo. Se vincete, governate voi, fasci e derivati. Se davvero avrete il 70 per cento dei seggi, arrangiatevi. O almeno dovreste arrangiarvi. Intanto vedere Giorgia Meloni che giura fedeltà alla Costituzione antifascista sarà un piccolo spettacolo. Per il resto, quien sabe. Mi aggrappo paradossalmente all’idea che il peggio sia davvero vicino, e alla flebile speranza che una parte del mitologico “popolo” a quel punto esca dal torpore. E’ una brutta immagine, ma siamo su un piano inclinato.
– Non sei mica fascista? – mi disse. Era seria e rideva. Le presi la mano e sbuffai. – Lo siamo tutti, cara Cate, – dissi piano. – Se non lo fossimo, dovremmo rivoltarci, tirare bombe, rischiare la pelle. Chi lascia fare e s’accontenta, è già un fascista. Cesare Pavese
di Francesco Gesualdi
pubblicato con altro titolo su pressenza del 9 settembre 2022)
Ormai lo abbiamo imparato: i prezzi vertiginosi del gas che stanno sconquassando l’Europa si formano in Olanda, alla Title Transfer Facility, una realtà più comunemente nota come TTF o Borsa del gas.
Schematicamente le borse sono strutture organizzate per fare incontrare produttori e acquirenti affinché possano accordarsi su prezzi e consegne dei prodotti oggetto delle loro trattative. Le borse sono molte, ciascuna con la propria specificità: quella di Chicago per le derrate agricole, quella di Londra per i minerali, quella di Amsterdam per il gas. Quando nacquero, a fine Ottocento, le borse erano frequentate soprattutto da produttori, grossisti e imprese di trasformazione. Con l’andare del tempo, però, si sono popolate anche di speculatori, soggetti interessati non a vendere o comprare alcun tipo di bene, ma a ingaggiare scommesse fra loro sull’andamento futuro dei prezzi.Oggi l’attività speculativa è così ampia da avere spostato il centro gravitazionale della formazione dei prezzi. Se in condizioni normali i prezzi sono determinati dagli operatori di scambi reali che costringono gli speculatori al ruolo di piccoli opportunisti, quando prevale la finanza la situazione si ribalta: la speculazione determina i prezzi e gli operatori di scambi reali fungono da inseguitori. Così si può assistere a impennate repentine o crolli subitanei dei prezzi, perché la speculazione si nutre più di calcolo emotivo che di scientificità previsionale.
Di tutte le borse, quella di Amsterdam è fra le più recenti. Nata nel 2003, fra l’altro su base totalmente telematica, è stata fortemente voluta dal governo olandese che voleva fare del proprio paese una piattaforma commerciale del gas a livello europeo.
Approfittando di tre elementi favorevoli: l’Olanda stessa è produttrice di gas; è crocevia di una fitta rete di gasdotti che la collega al tempo stesso a paesi produttori, come Norvegia, Russia, Gran Bretagna e a paesi consumatori, come Germania, Belgio, Francia; dispone delle infrastrutture necessarie a ricevere e immagazzinare LNG, il gas liquefatto che viaggia via nave.
Del resto sul finire degli anni Novanta del secolo scorso l’Unione Europea aveva emanato una serie di provvedimenti tesi a liberalizzare il mercato del gas, che il governo olandese sfruttò per aprire la borsa del gas affidandone la gestione a Gasunie, l’impresa di Stato che possiede i gasdotti situati sul suolo nazionale.
Stando ai numeri forniti da Gasunie, alla sua borsa sono iscritti 150 operatori economici di tutta Europa (fra cui società petrolifere, società elettriche, ma anche banche e altre società finanziarie), che nel 2021 hanno stipulato contratti per una quantità complessiva di gas corrispondente a 600 miliardi di metri cubi.
L’aspetto curioso, però, è che nel 2021 le importazioni di gas dell’Olanda non hanno oltrepassato i 60 miliardi di metri cubi, mentre le esportazioni si sono fermate a 43 miliardi di metri cubi, la differenza essendo stata utilizzata per consumi interni. In conclusione si può affermare che solo il 10% dei contratti stipulati alla borsa di Amsterdam ha avuto finalità commerciali, mentre l’altro 90% ha avuto finalità speculative, riuscendo negli ultimi 12 mesi a moltiplicare il prezzo del gas di quasi sei volte.
Nei giochi speculativi c’è sempre una parte che vince e una che perde. Ma poiché sono entrambi consapevoli dei rischi che corrono, è forte la tentazione di scrollare le spalle e sentenziare che mal voluto non è mai troppo. Il guaio, però, è che i loro giochetti poi ricadono sull’intera società a causa di un effetto contagio che però ci lascia sempre col dubbio se sia reale o pretestuoso. Nel caso specifico del gas, verrebbe fatto di pensare a un contagio reale per Paesi come Germania, Belgio e Francia, che sono i destinatari del gas acquistato sulla borsa di Amsterdam. Mentre rimangono dubbi per i Paesi dell’Europa meridionale, che con l’Olanda hanno rapporti pressoché nulli. L’Italia, ad esempio, nel 2021 ha importato da questo Paese solo lo 0,4% del suo fabbisogno sotto forma di gas liquefatto.
E alla fine viene spontanea la domanda: come può un sassolino trasformarsi in una valanga che getta nella disperazione famiglie ed imprese di un intero continente?
Ci sono due criteri per capire la portata della borsa di Amsterdam: quello quantitativo e quello contrattuale.
Da un punto di vista quantitativo la borsa olandese si conferma un sassolino. Nel 2021 l’Unione Europea ha importato 337 miliardi di metri cubi di gas, di cui solo il 17% transitato per l’Olanda. L’altro 83% è stato ricevuto tramite gasdotti o navi metaniere in un rapporto commerciale diretto fra Paesi consumatori e Paesi produttori. L’Italia, ad esempio, nel 2021 ha importato 72,7 miliardi di metri cubi di gas di cui l’86% tramite gasdotti che la collegano direttamente a Russia, Algeria, Azerbaijan, Libia. Mentre l’altro 14% è stato ricevuto tramite navi metaniere da Qatar, Norvegia e Usa.
Venendo all’altro aspetto, quello contrattuale, schematicamente esistono due tipologie di contratti di fornitura: a prezzi fissi e indicizzati.
Quelli a prezzi fissi, solitamente di lunga durata, tutelano sia l’acquirente che il venditore. L’acquirente perché ha la garanzia di un prezzo certo, il venditore perché ha la garanzia che il prezzo gli verrà pagato anche se l’acquirente decide di sospendere i suoi acquisti. Non a caso tali contratti sono anche detti take or pay ossia prendi o paghi.
Di tutt’altro genere i contratti a prezzi indicizzati, che oltre ad essere di durata più breve, prevedono prezzi viariabili, oscillanti in base a come si muovono le quotazioni di borsa, quella di Amsterdam nel caso europeo.
Dunque gli aumenti in bolletta troverebbero giustificazione solo nel caso di forniture basate su contratti indicizzati. Ma è questa la situazione dell’Italia o non è piuttosto dominata da contratti take or pay, che in caso di esplosione dei prezzi permettono alle imprese importatrici di ottenere generosi extraprofitti?
Questa informazione purtroppo non circola, mettendo in evidenza un grave deficit di democrazia che preferisce sacrificare famiglie, tessuto economico e conti pubblici, piuttosto che inimicarsi le imprese energetiche.
Ma oggi che stiamo parlando della necessità di mettere un tetto al prezzo del gas, il tema della trasparenza assume enorme importanza, come assume importanza la necessità di riformare le borse per limitare le bizzarie della speculazione e soprattutto per non assumere più le sue follie come riferimento per i prezzi reali.
Ne va di mezzo non solo la vita dei più deboli, ma la tenuta stessa della società.
Francesco Gesualdi, già allievo di don Milani, è fondatore e coordinatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano (Pisa), che si propone di ricercare nuove formule economiche capaci di garantire a tutti la soddisfazione dei bisogni fondamentali. Coordinatore di numerose campagne di pressione, è tra i fondatori insieme ad Alex Zanotelli di Rete Lilliput. www.cnms.it
A fine ottobre 2021 li avevamo già incrociati per le strade della nostra città. Ferrara ancora una volta set cinematografico, questa volta della docummedia “Lu’ duchessa d’Este, fama e infamie di Lucrezia Borgia”. Protagonisti: Lucrezia Lante della Rovere, Tullio Solenghi e Tobia De Angelis (e la recente new entry Francesco Zecca), regia di Marco Melluso e Diego Schiavo (produzione Mardi Gras).
Oggi sono tornati. Tornati ad arricchire il racconto di figure carismatiche della storia italiana iniziato con La Signora Matilde. Gossip dal Medioevo(Premio Francovich 2019, assegnato dalla SAMI, Storici Archeologi Medievisti Italiani), ispirato a Matilde di Canossa e raccontata come la più grande influencer dell’anno Mille, e Il Conte Magico, legato alla storia del Conte Cesare Mattei e della sua Rocchetta a Grizzana Morandi, con sullo sfondo, le scoperte scientifiche dell’800 e il sogno di Mattei, inventore dell’elettromeopatia, di trovare la cura per ogni male.
Film entrambi sostenuti dal Fondo Audiovisivo della Regione Emilia-Romagna, nell’ambito del Progetto Rinascimento Emiliano.
Un bel connubio frizzante e innovativo tra cultura, storia, cinema e territorio, destinato a una vasta divulgazione e a un pubblico di tutte le età. Un lavoro sapiente e intelligente di approfondimento e riscoperta di figure storiche locali, volto a renderle familiari al grande pubblico oggi sempre più distratto da mille informazioni, leggermente confuso, oserei. Con una strizzatina d’occhio alla promozione culturale e turistica del territorio.
Dal primo ciak che si era aperto, a ottobre scorso, a Palazzo Roverella, con una simbolica partita a scacchi volta a raccontare i giochi di potere intorno alla controversa protagonista, si era passati alla sala dell’Arengo, nel Palazzo Municipale, scenario di una “conferenza stampa”, durante la quale i giornalisti mettono alla gogna la famiglia Borgia, accusandola di aver creato pubblico scandalo. Ci si era poi spostati al Castello Estense e a Bologna.
Oggi le riprese continuano, fra lo stesso Castello Estense, le piazze Trento e Trieste e Ariostea, il Teatro Comunale, le sale del Palazzo Ducale Estense, oggi sede del Comune di Ferrara), i territori del ducato estense (le Delizie di Belriguardo, del Verginese e della Mesola) per poi trasferirsi a Modena, alle Gallerie Estensi.
Nel tempo, la figura di Lucrezia Borgia ha assunto diverse sfumature, quasi sempre machiavelliche, che l’hanno relegata al ruolo di femme fatale. L’intento, spiega DiegoSchiavo, è di “raccontare i fatti nella loro ricostruzione e nel modo più obiettivo per ridare piena dignità storica a Lucrezia, troppo spesso rappresentata, a senso unico, come una figura spregiudicata e malvagia. Il narratore si muoverà in ambientazioni moderne, in un ponte tra passato e futuro”.
“Lucrezia Borgia sosteneva: per essere felice ho bisogno dell’amore, della bellezza e della cultura” – ha ricordato l’assessore Marco Gulinelli – “e il grande merito di questo film è quello di riuscire a mettere insieme la bellezza estetica, la storia ed elementi legati all’ironia con un lavoro di destrutturazione e desacralizzazione molto intelligente ed efficace, che dà grandi stimoli intellettuali e che siamo impazienti di potere apprezzare nella sua pienezza”.
Lu’ Duchessa d’Este. Fama e infamie di Lucrezia Borgia racconta l’appassionante storia di Lucrezia Borgia d’Este, donna per secoli ritenuta simbolo di crudeltà e amoralità. Lucrezia, in realtà, è stata vittima di pettegolezzi e spregiudicati giochi di potere della sua famiglia e solo una volta divenuta duchessa di Ferrara, ha potuto dimostrare il suo valore e la sua benevolenza. Durante la terribile guerra contro Venezia, ha sfoggiato la sua capacità diplomatica e di governo e ha retto da sola il Ducato. In seguito, si è dimostrata abile imprenditrice, investendo i suoi averi nella costruzione di argini di fiumi e in un’opera di bonifica che ha reso coltivabile un’area di oltre 25.000 ettari, risollevando così le finanze dello Stato, colpite dalla guerra. Inoltre, dal suo arrivo a Ferrara, aveva fatto restaurare e costruire chiese e conventi. Per questo e per il suo senso di giustizia e di rispetto per i ferraresi, Lucrezia era riuscita a vincere i pettegolezzi e le maldicenze che l’avevano preceduta e si era conquistata l’appellativo di “Madre del popolo”.
Lucrezia Borgia è stata una profonda amante della cultura e ha accolto alla sua corte un vero e proprio cenacolo di poeti e umanisti, tra i quali Ludovico Ariosto, Pietro Bembo, Gian Giorgio Trissino ed Ercole Strozzi. Ma è stata anche una delle donne più eleganti del Cinquecento, vantando un guardaroba sontuoso e di lussuose fattezze; famosa anche per la raffinatezza dei gusti, ha ispirato numerose ricette e leggende legate al cibo: si narra che ai suoi capelli si siano ispirati per la creazione delle tagliatelle e delle coppiette di pane tipiche di Ferrara. A lei si deve anche la fortuna del pampapato e della salama da sugo, ancora oggi rinomate eccellenze della cucina ferrarese.
Attraverso il racconto della vita di Lucrezia Borgia, il film intende anche far riflettere su victim blaming (la colpevolizzazione della vittima) e slut shaming, fenomeni estremamente attuali che colpiscono le donne e di cui già Lucrezia Borgia fu vittima durante la sua vita.
La protagonista del film è la meravigliosa Lucrezia Lante Della Rovere, che condivide con Lucrezia Borgia il nome, ma che, soprattutto, è discendente di Giulio II, al secolo Giuliano della Rovere, il Papa che commissionò a Michelangelo gli affreschi della cappella Sistina. Acerrimo nemico dei Borgia, Giulio II ne ha decretato la rovina. Un bel filo.
Il teaser del filmè stato presentato lo scorso 13 maggio nella sala dell’Arengo
In esso si può apprezzare quanto i registi amino giocare con stili, mode e riferimenti alla cultura, facendoli interagire con luoghi ricchi di arte e storia. Immagini che mostrano alcuni dei luoghi che fanno da scenografia alla storia, come il Palazzo Roverella Circolo dei Negozianti e le segrete del Castello Estense di Ferrara. Ma non solo: il teaser contiene alcuni momenti del backstage a cui emerge la passione con cui i registi, il cast e tutta la troupe stanno portando avanti il progetto che la pandemia ha rallentato, come gran parte del mondo del cinema, della musica e del teatro.
Il film tanto atteso e dal sapore pop e un po’ glamour, è in uscita l’8 marzo 2023, giorno della Festa della Donna. Sarà un caso?
Il progetto Lu’ duchessa d’Este. Fama e infamie di Lucrezia Borgia è patrocinato da: Regione Emilia-Romagna, Comune di Ferrara, Comune di Modena, Città Metropolitana di Bologna, Visit Romagna, Comune di Nepi, Comune di Bentivoglio, Comune di San Lazzaro, Comune di Voghiera, Fondazione Ferrara Arte, Genus Bononiae – Musei della Città, GVC We World, AICS, Festival dell’Eccellenza al Femminile.
“O silenzio!
strillo di cicale
penetra le rocce”.
(Matsuo Bashō, Poesie, Sansoni, Firenze 1944, 37).
Nel testo a commento di questo haiku si legge che fu ispirato a Bashò [Qui] visitando il tempio di Rûshakuji, vicino alla città di Yamagata.
Situato fra antichi pini e querce sopra numerose e gigantesche rocce muschiose: «Due o tre voci di cicale relativamente basse udite di quando in quando in un luogo quieto danno vie più l’impressione del silenzio (M.)»
Si custodisce il creato come si custodisce la parola di Dio, ascoltandola e vivendola: è il creato la sua parola silenziosa: «Ascolta la voce del creato». Si custodiscono i poveri come si custodisce l’eucaristia, condividendola, celebrandola nella vita: «Ascolta la voce dei poveri».
‘Custodire nel cuore’ è verbo che troviamo nel vocabolario della Sapienza. Il grido dei poveri come la parola silenziosa del creato deve essere macerata, sminuzzata, continuamente ruminata, al pari della parola di Dio − dicevano i Padri del deserto − affinché diventi vita con e nelle nostre vite, storia con e nelle nostre storie.
«Ascolta la voce del creato». È questo il tema scelto da papa Francesco per il suo messaggio nella giornata per la cura del creato. In realtà, più che una sola giornata è un periodo che stiamo vivendo: il tempo del creato, che è iniziato il 1° settembre e si concluderà il 4 ottobre, con la festa di san Francesco.
Senza ascolto profondo, senza crederci, non si attua nessun cambiamento radicale, né in noi, né nel creato e ancor meno nella società. Di qui l’invito all’ascolto quale viatico di conversione, non solo individuale, ma comunitaria;
noi in umanità solidale «Come persone di fede, ci sentiamo ulteriormente responsabili di agire, nei comportamenti quotidiani, in consonanza con tale esigenza di conversione.
Ma essa non è solo individuale: “La conversione ecologica che si richiede per creare un dinamismo di cambiamento duraturo è anche una conversione comunitaria” (Laudato Sii, 219).
In questa prospettiva, anche la comunità delle nazioni è chiamata a impegnarsi, specialmente negli incontri delle Nazioni Unite dedicati alla questione ambientale, con spirito di massima cooperazione» (Messaggio, Ascolta la voce del creato). Così l’umanità tutta va compresa come soggetto chiamato alla cura della madre terra e dei poveri.
L’ascolto inizia con uno sguardo sul creato, sull’altro, quello dell’enciclica Laudato sii [Qui], che è insieme un’enciclica verde, ma al contempo fortemente sociale, capace di discernere, cioè di vedere nella questione ecologica alla sua radice il problema sociale, e nei poveri la cristologia, il Cristo stesso e la conseguente pratica di un’opzione preferenziale per i poveri.
Un “tempo per il creato” fu proposto dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli sin dalla fine degli anni ottanta. Ma ancor prima papa Paolo VI auspicava un tempo di riflessione necessario a prevenire una “catastrofe ecologica”. Un tempo per coltivare la nostra “conversione ecologica”, rilanciava Giovanni Paolo II.
Quella ecologica, non può che essere infatti una sfida che unisce tutti i cristiani. Al pari di quella della giustizia e della pace fu sempre di più la coscienza e l’impegno che animò il cammino del Consiglio Ecumenico delle Chiese nella seconda metà del secolo scorso.
L’ambito ecumenico conferì uno sviluppo ulteriore alla sensibilità dei temi ambientali, intrecciando – non a caso − il tema della cura del creato con i temi della giustizia e della pace.
In questo solco anche la Conferenza episcopale italiana attraverso le sue commissioni per i problemi sociali e il lavoro, della giustizia e della pace, unitamente a quelle per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, dal 1º settembre 2006, ha iniziato a celebrare annuale la “Giornata per la salvaguardia del creato” che poi prenderà il nome “per custodia del creato”.
Dolce canto e grido amaro
“Il canto delle cicale
non dà segno
di loro vicino morire”.
(Bashō, 10)
Scrive papa Francesco: «Se impariamo ad ascoltarla, notiamo nella voce del creato una sorta di dissonanza. Da un lato, è un dolce canto che loda il nostro amato Creatore; dall’altro, è un grido amaro che si lamenta dei nostri maltrattamenti umani.»
Il dolce canto del creato ci invita a praticare una «spiritualità ecologica» (LS, 216), attenta alla presenza di Dio nel mondo naturale. È un invito a fondare la nostra spiritualità sull’«amorevole consapevolezza di non essere separati dalle altre creature, ma di formare con gli altri esseri dell’universo una stupenda comunione universale» (ivi, 220).
Per i discepoli di Cristo, in particolare, tale luminosa esperienza rafforza la consapevolezza che «tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Gv 1, 3).
In questo Tempo del Creato, riprendiamo quindi a pregare nella grande cattedrale del creato, godendo del «grandioso coro cosmico» di innumerevoli creature che cantano le lodi a Dio.
Uniamoci a san Francesco d’Assisi [Qui] nel cantare: “Sii lodato, mio Signore, con tutte le tue creature” (cfr. Cantico di frate sole). Uniamoci al Salmista nel cantare: «Ogni vivente dia lode al Signore!» (Sal 150, 6).
Purtroppo, quella dolce canzone è accompagnata da un grido amaro. O meglio, da un coro di grida amare. Per prima, è la sorella madre terra che grida. In balia dei nostri eccessi consumistici, essa geme e ci implora di fermare i nostri abusi e la sua distruzione.
Poi, sono le diverse creature a gridare. Alla mercé di un “antropocentrismo dispotico” (ivi, 68), agli antipodi della centralità di Cristo nell’opera della creazione, innumerevoli specie si stanno estinguendo, cessando per sempre i loro inni di lode a Dio.
Ma sono anche i più poveri tra noi a gridare. Esposti alla crisi climatica, gli “ultimi” soffrono più fortemente l’impatto di siccità, inondazioni, uragani e ondate di caldo che continuano a diventare sempre più intensi e frequenti.
Ancora, gridano i nostri fratelli e sorelle di popoli nativi. A causa di interessi economici predatori, i loro territori ancestrali vengono invasi e devastati da ogni parte, lanciando “un grido che sale al cielo” (Querida Amazonia, 9).
Infine, gridano i nostri figli. Minacciati da un miope egoismo, gli adolescenti chiedono ansiosi a noi adulti di fare tutto il possibile per prevenire o almeno limitare il collasso degli ecosistemi del nostro pianeta.
Ascoltando queste grida amare, dobbiamo pentirci e modificare gli stili di vita e i sistemi dannosi. Sin dall’inizio, l’appello evangelico: «Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino!» (Mt 3, 2), invitando a un nuovo rapporto con Dio, implica anche un rapporto diverso con gli altri e con il creato.
Lo stato di degrado della nostra casa comune merita la stessa attenzione di altre sfide globali quali le gravi crisi sanitarie e i conflitti bellici. «Vivere la vocazione di essere custodi dell’opera di Dio è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario dell’esperienza cristiana» (ivi, 217) (Messaggio).
“Dall’amaro al dolce”, è l’espressione che frate Francesco al termine della vita ricorda ai suoi come sintesi della propria conversione.
Non solo quella iniziale ma anche quella sperimentata lungo tutta la propria esistenza, vissuta come un continuo passaggio pasquale da una logica autocentrica e autoreferenziale ad una proiezione eccentrica, evangelica; da un pratica di dominio e sfruttamento all’essere servo di ogni creatura.
Un cambiamento radicale è anche quello ecologico, purché parta dall’ascolto del grido amaro della natura e dei suoi più vulnerabili abitanti per poter ritornare al dolce cantico di tutte le creature.
«Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato (conversum fuit) in dolcezza di animo e di corpo. E in seguito, stetti un poco e uscii dal secolo» (Fonti francescane, 110).
Anche l’amaro di Bashō, per l’improvvisa morte, a 25 anni, del suo maestro Jshitada, o “Sengin”, si mutò in una mistica dolce, di poeta itinerante: «il poeta pianse colui che per anni gli era stato maestro e amico. Come voleva l’usanza andò sul monte Koya con una ciocca di capelli del defunto a depositarla nel grande monastero buddista.
La tradizione vuole che per il dolore fosse preso da un amaro desiderio di ritiro; ma di certo, da allora, fu un mistico umile e povero, predicatore della bontà universale. Riuscì a liberarsi con onore da ogni funzione ufficiale e, abbandonata la casa del suo signore, andò a Kyiìto facendosi alunno e domestico di Kigin che aveva avuto per l’addietro occasione di praticare recandosi da lui come messaggero di Joshitada» (Bashō, 50).
L’amaro grido del mare, eco muto
Fuggono Farid e sua madre Jamila dopo l’uccisione del padre Omar in Libia al tempo di Gheddafi. Fuggono per la guerra lasciando il deserto, la loro casa; ma il viaggio per mare sul barcone verso l’Italia non andrà a buon fine. È una storia raccontata con grande sensibilità poetica senza mortificarne tutta la drammatica tragicità da Margaret Mazzantini [Qui], in Mare al mattino, Einaudi, Torino 2011.
«Farid non ha mai visto il mare, non c’è mai entrato dentro. Lo ha immaginato tante volte. Punteggiato di stelle come il mantello di un pascià. Azzurro come il muro azzurro della città morta.
Ha cercato le conchiglie fossili sepolte milioni di anni fa, quando il mare entrava nel deserto. Ha rincorso i pesci lucertola che nuotano sotto la sabbia. Ha visto il lago salato e quello amaro e i dromedari color argento avanzare come logore navi di pirati.
Abita in una delle ultime oasi del Sahara. I suoi antenati appartenevano a una tribù di beduini nomadi. Si fermavano negli uadi, i letti dei fiumi coperti di vegetazione, montavano le tende. Le capre pascolavano, le mogli cucinavano sulle pietre roventi.
Non avevano mai lasciato il deserto. C’era una certa diffidenza verso la gente della costa, mercanti, corsari. Il deserto era la loro casa, aperta, illimitata. Il loro mare di sabbia. Macchiato dalle dune come il manto d’un giaguaro.
Non possedevano nulla. Solo impronte di passi che la sabbia ricopriva. Il sole muoveva le ombre. Erano abituati a resistere alla sete, ad essiccarsi come datteri, senza morire. Un dromedario apriva loro la strada, una lunga ombra storta. Scomparivano nelle dune. Siamo invisibili al mondo, ma non a Dio. Si spostavano con questo pensiero nel cuore.
D’inverno il vento del nord che attraversava l’oceano di roccia stecchiva i barracani di lana sui corpi, la pelle si aggrappava alle ossa dissanguata come quella di capra sui tamburi.
… In primavera nuove dune nascevano, rosate e pallide. Vergini di sabbia. Il ghibli infuocato si avvicinava insieme al gemito rauco di uno sciacallo. Piccoli riccioli di vento come spiriti in viaggio pizzicavano la sabbia qua e là. In un attimo il deserto si sollevava e divorava il cielo. E non c’era più confine con l’aldilà…
I dinari dei risparmi di Omar, gli euro e i dollari che nonno Mussa ha guadagnato con i turisti del deserto. Omar conta i soldi, poi toglie una pietra e li nasconde nel muro. Parla con Jamila, chiude le mani intorno alle sue mani strette.
Farid non dorme, guarda quel nodo di mani nel buio che tremano come una noce di cocco sotto la pioggia. Omar dice che devono andarsene. Che avrebbero dovuto farlo da un pezzo. Nel deserto non c’è futuro. E adesso c’è la guerra. Ha paura per il bambino» (ivi, 4-5; 8).
Un altro deserto, un altro grido: il grande sertão
«Ed ecco, il sole, con un balzo, lontano alle nostre spalle, al di sopra dei macchioni, scoppiava, una grandiosità. Giorno spiegato. Terminò la vegetazione da foraggio, e gli arbusti spinosi, come quei cespugli dai virgulti argentati, e simili. Terminava l’erba, in quei paraggi grigiastri.
E tutto questo, arrivando a poco a poco, dava un’oppressione raddensata, il mondo si stava invecchiando, nel viandante. Terminò il sapé selvatico dell’altipiano. Uno si guardava alle spalle. A quel punto, il sole non lasciava guardare in nessuna direzione.
Vidi la luce, un castigo. Vidi uno sparviere: fu l’ultimo uccello che si scorse. Ed ecco che stavamo in quella cosa – deserto pieno, vuoto soffice, rovesciato. Era una terra differente, insensata, un lago di sabbia.
Dove si sarà trovato il suo soverchio, confinante? Il sole si rovesciava sul suolo, con sale, sfavillava. Di quando in quando, una vegetazione morta, qualche ciuffo di pianta secca – come una chioma senza testa. Si propagava a distanza, in avanti, un vapore giallo. E il fuoco cominciò a entrare, con l’aria, nei nostri poveri petti.
… La continuazione del martirio, da quando spuntò il mattino, del giorno seguente, nella brumalva di quel defunto albeggiare, senza nessuna speranza, senza neppure la semplice presenza degli uccellini.
Ci muovemmo. Io abbassavo gli occhi per non vedere gli orizzonti, che chiusi non mutavano, incombevano. La Landa dell’Onza Rossa concepiva silenzio, e produceva una cattiveria – come persona!
… Le piogge già erano state dimenticate, e lì c’era il midollo tristo del sertão, era un sole sul vuoto. Si avanzava di pochi metri, e si calcava il sabbione, una sabbia che sfuggiva, senza consistenza, spingendo all’indietro gli zoccoli dei cavalli.
Poi, sopravveniva un aggrovigliamento intricato, di arbusti spinosi e stoppia di gravia, assai scabroso, di un verde-nero color serpente. Nessun cammino. Di lì, si passa a un terreno duro rosato o color cenere, screpolato e ruvido – i cavalli, non intendendolo, s’innervosivano».
(João Guimãres Rosa [Qui], Grande sertão, Feltrinelli, Milano 2017, 42-44).
Si diventa consapevoli di sé e del cammino solo con l’irruzione dell’altro. Affinché si ritrovi la strada per la cura del creato occorre sempre di nuovo ascoltare il suo dolce canto e il grido amaro.
Lasciamoci guidare dall’istinto insito nel creato e dallo stupore ancora promettente, il creato sarà per noi come quel contadino che camminava avanti portando il foraggio sul dorso. Senza saperlo, servì da guida a Bashō e a Sora, suo discepolo, alla ricerca dello “stretto sentiero del nord”, che altrimenti si sarebbero smarriti per il vasto deserto della pianura di Nasuno.
Un cambiamento radicale di stile e di sguardo; scrive Chandra Candiani di Bashō: «La nostra fame di spirito, di vastità, può trovare in Bashō una bussola, dentro gli stretti sentieri della vita messa a nudo, la sua asciuttezza, la sua sobrietà ma soprattutto l’incantevole parità del suo sguardo sul mondo: “Sui monti d’estate/ Partendo/ Mi inchino ai sandali di legno”» (Chandra Candiani, Lo stretto sentiero del profondo nord, Einaudi, Torino 2022, xxiii-xxiv).
Traverso la landa d’estate
ci guida un uomo che porta
un fascio di fieno sul dorso.
Sopra il sentiero montano
nasce improvviso il sole
fra il profumo dei fiori di prugno.
(Bashō, 23; 20)
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]
Va bene, ho capito, è morta la povera vecchia regina Elisabetta, rimasta eroicamente al timone del Regno Unito (e mica tanto unito) e del Commonwealth (ammesso e non concesso che conti ancora qualcosa) per più di Settant’anni. Una tempra di ferro, un attaccamento alle tradizioni che non ha pari. Ho sentito anche la salve infinita dei cannoni. Elisabetta II: in televisione non si parla d’altro.
Ma chi come me – e non mi pare siano tanti – senza venir meno al rispetto dovuto ad ogni morte, prematura o tardiva che sia, dichiara che “della regina Elisabetta non mi importa poi molto”, chi dice una cosa assolutamente ovvia: che “il suo peso politico era pari a zero”, essendo stata, la sua, “una guida puramente simbolica”. Chi osserva che “il mondo, con Elisabetta o senza Elisabetta, rimane esattamente quello che era, con tutti i suoi drammi irrisolti”.
Ma chi (e anche questa volta mi iscrivo al piccolo gruppo) osserva come tutto il grande squadrone corazzato dell’informazione mainstream(i grandi giornali, tutte le televisioni, le inspiegabili lacrimucce sui social, and so on) ci sta propinando vita, morte e miracoli di Elisabetta e della Real Casa, tralasciando le cattive nuove di un’Italia ‘alla canna del gas’ (letteralmente) e di un’ Europa divisa su tutto, comprese le sanzioni, le contro-sanzioni, il tetto ai prezzi del gas, le tasse sugli extraprofitti…
Chi, insomma, prova a dire che sarebbe ora di abbandonare i fatti e misfatti, gossip incluso, di Casa Reale e di parlare di cose serie, di raccontare l’inverno da incubo che aspetta gli italiani, di indicare magari qualche responsabile. Tutti questi, e spero che col tempo aumentino di numero, vanno incontro a una selva di reprimende: se non son proprio duri di cuore, sono i soliti bastian contrario.
Bene, sfida accettata: da incallito bastian contrario a me interessa parlare del Razionamento.
E si badi, il termine Razionamento (riapparso da poco nel vocabolario corrente) ha una storia ancora più vecchia del lunghissimo regno di Elisabetta II.
Per capire cos’è il razionamento, per guardarlo in faccia, non basta andare indietro di 50 anni. Allora, eravamo agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, c’era la cosiddetta ‘crisi petrolifera’: ci dicevano che il petrolio stava finendo (macché!), in realtà c’era il braccio di ferro con i paesi del cartello OPEC e le speculazioni conseguenti dei grandi operatori industriali e finanziari. Ma l’Austerity non era Razionamento. Ero piccolo ma un po’ me la ricordo l’austerity: non si imponevano agli italiani regole, orari, temperature, chiusura di fabbriche e negozi. L’austerity era la gran invenzione dell’ ora legale per catturare un’ora in più di luce. E poco altro: spegnere un po’ prima le luci di piazza; un po’ di austerità sociale, e alla fine ne saremmo usciti fuori.
Il razionamento, quello vero, è molto più antico. Bisogna tornare alle foto in bianco nero del 1943-45. Agli anni di ‘molte lacrime e altrettanto sangue’, agli anni della fame, delle lunghe code con in mano la tessera annonaria. Il “batrace stivaluto” (Carlo Emilio Gadda) ci aveva infilato in una guerra assurda e persa in partenza, con un esercito con le pezze al culo e le scarpe di cartone. Che ci potevamo fare? Dopo la disfatta dovevamo pagare tutti. Non avevamo scelta.
Non siamo ancora a questo. Vedremo cosa sarà, all’inizio e mese dopo mese, il razionamento del prossimo autunno inverno. Quello che è certo è che morderà la carne viva degli italiani. Porterà disoccupazione e disperazione, negozi e piccole imprese fallite e chiuse per sempre.
Gli Italiani – siamo o non siamo ‘brava gente’? – aspetteranno ad accendere il riscaldamento e abbasseranno di uno o due gradi la temperatura; poi vedremo se basterà: un sacrificio tira l’altro. Ma avremo o no il diritto di sapere chi e perché ha messo l’Italia e gli italiani in questo vicolo cieco?
Per chiedere, anzi, per imporre sacrifici (mi par di ricordare che Giulio Andreotti fosse un esperto in materia) al governo e ai partiti sembra bastare puntare il dito su un unico capro espiatorio: la Russia brutta e cattiva. Ma chi pagherà per la fallimentare politica delle sanzioni, che ha messo in ginocchio mezza Europa e invece ha arricchito (parlo di svariato miliardi, l’impero di Putin? Chi chiederà conto alle grandi aziende energetiche nazionali degli extraprofitti miliardari, ottenuti vendendo il gas al prezzo della borsa di Amsterdam?
La storia si ripete. E questa vota è storia recente: prima dei giganti dell’energia, erano state le big pharma a vendere a peso d’oro i loro vaccini, fissando il prezzo a loro piacimento. Prezzi gonfiati e pagati dall’Europa e dagli Stati Nazionali senza battere ciglio. Ovviamente i soldi venivano sempre dalla stessa sacca, le tasche dei contribuenti.
Forse l’italiano medio dovrebbe opporsi a sacrifici dovuti a una situazione di cui nessun italiano medio è responsabile. Ma siamo ‘brava gente’, un po’ troppo abituata a ubbidir tacendo. Guarderemo in su, un cielo sempre più minaccioso. Fino a quando, si vedrà.
Cover: ritratto di Elisabetta II, foto Wikimedia Commons
Nessuna come Marsiglia. Nessuna città ho desiderato visitare, girare, annusare come Marsiglia. Nessuna ho, come Marsiglia, amato prima di vederla, sentirla, viverla.
Perché prima di riuscire, finalmente, ad andarci, l’ho vista, sentita, vissuta grazie agli scritti di Jean-Claude Izzo [Qui], seguendo il suo “poliziotto” Fabio Montale nelle inchieste, nei suoi incontri, nei suoi percorsi. E quando ci sono riuscita è stato per una breve ma intensa vacanza, tre settimane fa, con quattro amiche di canto e di avventure intellettuali.
Dopo la rapida ed efficiente fase di organizzazione logistica (aerei, hotel) parliamo poco, di questo viaggio, nei mesi precedenti. Forse i due anni di COVID ci hanno disabituate, forse tutte e cinque, ognuna a modo suo, desideriamo che questa città, subito ed inaspettatamente nominata come prossima meta dopo il precedente viaggio insieme, sia da scoprire in loco.
Di certo ognuna si aspetta qualcosa, si prepara a modo suo a questo incontro, ma ce lo diciamo solo in parte, prima di partire e, stranamente, non sentiamo il bisogno di un incontro comune per pianificare, proporre e studiare itinerari.
Condividiamo solo qualche brano di Jean-Claude Izzo riletto o appena scoperto e i consigli di una giovane amica architetta sulle tracce di novità urbanistiche, edifici e strutture assolutamente da non perdere.
Io ho con me il quadernetto su cui ho trascritto i posti preferiti di Fabio Montale, ricavati essenzialmente dalla trilogia (Casino totale, Chourmo, Solea) e dal gustosissimo, uscito postumo nel 2006, Aglio, menta e basilico.
Le parole che mi colpiscono mentre aspettiamo il volo all’aeroporto di Bologna, contenute nel primo capitolo di Chourmo, mi sembrano insieme un viatico e un pugno:
“Marsiglia non è una città per turisti. Non c’è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui bisogna schierarsi. Appassionarsi. Essere per sempre contro. Essere, violentemente. Solo allora ciò che c’è da vedere si lascia vedere. E allora è troppo tardi, si è in pieno dramma. Un dramma antico dove l’eroe è la morte. A Marsiglia, anche per perdere bisogna sapersi battere.”
Più una visione del mondo e della vita che la descrizione di una città, per di più una visione del mondo che mi affascina e che vorrei che fosse anche mia.
Ma noi ci fermeremo solo quattro giorni, pochi per vivere davvero alla maniera di Izzo e di Montale.
In aereo vedo per la prima volta due delle mie amiche di viaggio tirar fuori le loro guide e le sento enumerare e commentare. Siamo sedute su due file diverse per cui non colgo tutto, ma quanto basta per individuare già quelle che saranno, anche perché sanno un po’ di francese, a fasi alterne le ‘capogruppo’; ma so anche che il rapporto che c’è fra noi cinque è garanzia di una vera collaborazione e rispetto e condivisione di idee, desideri, proposte.
Come viene immediatamente dimostrato quando, arrivate all’aeroporto, ci basta una rapida consultazione sotto il sole caldo per decidere di preferire un taxi al treno-navetta, perché, nonostante sapessimo che il nostro hotel era vicinissimo alla Gare Saint-Charles, desideravamo arrivare più in fretta possibile.
Che si sarebbe arrivate in fretta abbiamo compreso appena partite: guidare e sorpassare erano la stessa cosa, per Messa il magrebino, come pure la sua velocissima parlata e il suo intrecciare racconti personali e offerte di tour personalizzati nei giorni successivi.
Ma noi i tour li volevamo decisamente personalissimi, nel senso di pensarli e realizzarli seguendo e interpretando alla lettera i nostri impulsi e desideri del momento. E, trattandosi dell’ora di pranzo, il momento, una volta entrate nelle stanze e posati i bagagli, doveva essere decisamente culinario.
Ci avviamo e imbocchiamo quasi subito (ce l’abbiamo a due passi) la Canebière e l’aria che respiriamo è proprio quella che ci aspettavamo: tanta gente, tanti colori, tanti odori.
Non posso dimenticare che Izzo, nel capitolo ottavo di Casino totale (1995), manifesta la sua contrarietà alle ristrutturazioni avviate in quegli anni “I cinema avevano chiuso, uno dopo l’altro, poi i bar. La Canebière non era, oramai, che un susseguirsi di negozi di vestiti e scarpe. Un grande ciarpame, con un solo cinema, il Capitole”.
Per rafforzare, nel capitolo dodicesimo, il concetto: ”Non c’era più neppure un bar. Alle sette, le strade diventavano vuote e tristissime come alla Canebière”.
Quasi vent’anni dopo, a noi appare una Canebière affollatissima, giorno e notte, di gente diversa e variegata, e purtroppo anche di famiglie intere di indigenti che dormono su materassini stesi sul largo marciapiedi.
Torniamo al nostro primo giorno, alle nostre prime ore marsigliesi. La fame è tanta e ci fermiamo nel primo bugigattolo etnico che incrociamo: come spesso capita quando non si è programmato nei minimi particolari un itinerario, ci tocca accontentarci di quello che a Ferrara si definirebbe ‘un pustazz’, ma è così bello stare qui che tutto va bene.
Poi, fin da subito, diventiamo più esigenti, per cui la tappa successiva è un barettino nella piazzetta del Marché Des Capucins per un profumatissimo the alla menta.
Ristorate e rinfrancate iniziamo una delle lunghe camminate che caratterizzeranno le nostre giornate: ora la meta è Le Vieux Port. La sua collocazione, su una baia ad arco, consente di arrivarci ogni volta da una strada diversa e, quindi, di cogliere ogni volta una diversa prospettiva.
Oggi ci arriviamo da sinistra, praticamente sotto la collina su cui domina la Basilica di Notre-Dame-de-la-Garde, come scopriremo una volta spostateci sulla riva opposta.
Mentre ci facciamo accarezzare dal vento e annusiamo l’aria del mare e respiriamo la luce azzurra, siamo attratte dalla vista di un gran numero di persone che sostano sotto una struttura rettangolare, che si svela compiutamente solo quando ci arriviamo sotto e alziamo gli occhi.
Ci vediamo specchiate sull’immensa volta: l’Ombrière, la pensilina realizzata nel 2013 su progetto di Norman Foster [Qui], uno dei miei architetti prediletti.
Visto che l’altro polo nostro di attrazione è l’architettura contemporanea, decidiamo di andare alla ricerca dei Docks, i magazzini portuali riqualificati dallo studio di architetti genovesi 5+1, inaugurati nel 2015 a completamento della rivoluzione estetica che nel giro di pochi anni ha letteralmente cambiato volto alla città. Sono diventati centri commerciali e luogo di incontro e passeggiate sulla Joliette.
In tanto camminare e ammirare è arrivata la nostra ora del Pastis (per onorare l’affermazione del ‘nostro’ Jean-Claude “il Pastis faceva parte dell’arte di vivere marsigliese”) e approdiamo in un bistrot, sulla cui lavagnetta del menu tutte leggiamo “Pastis à toute l’heure“.Solo dopo esserci sedute al tavolino scopriamo, nel faticoso cercare di comunicare con la cameriera burbera e gesticolante, che in realtà c’era scritto “Plats à toute l’heure“.Comunque il Pastis ce l’ha (ci raccomanda di mettere un solo cubetto di ghiaccio) e ci accordiamo pure su due vassoi di affettati e sottaceti e pane a volontà.
Quando ripassiamo dal Vieux Port per dirigerci verso l’hotel decidiamo che domani sarà il momento de Les Calanques. Tre ore e mezza in battello, il cielo azzurrissimo, il vento tra i capelli e la voglia di catturare con lo sguardo e trattenere dentro di te tutte quelle meraviglie: le isole, le falesie bianche e grigie, che disegnano l’orizzonte coi loro contorni, l’acqua ora blu ora color smeraldo. E ogni tanto girarsi per vedere Marsiglia dal mare.
Fabio Montale, in Solea: “Se potessi arriverei a Marsiglia solo dal mare. L’ingresso del porto, una volta superata l’ansa di Malmousque, mi dava ogni volta grandi emozioni… La città, stamattina, era trasparente. Rosa e blu nell’aria immobile.. Marsiglia respirava la propria luce…
In quel momento Marsiglia profumava di anice…Il porto era magnifico in quel punto. Entrava negli occhi. Le banchine. I cargo. Le gru. I traghetti. Il mare. Il castello d’If e le isole del Frioul in lontananza. Tutto era bello da vedere.”
Dopo tanta bellezza, prevalentemente naturale, la giornata si arricchisce di altra bellezza, frutto della creatività e maestria e progettualità umana: il MuCEM, museo della civilizzazione europea e del Mediterraneo, realizzato nel 2013 su progetto dell’architetto marsigliese Rudy Ricciotti [Qui], che ingloba il Fort Saint-Jean. In un cubo in acciaio e vetro avvolto da un rivestimento esterno in cemento accoglie collezioni permanenti, mostre e un piacevole tetto terrazza con caffè e ristoranti.
Ci spostiamo poi verso la Ville Méditerranée ‘centro per il dialogo e gli scambi nel Mediterraneo’ costruito, sempre nel 2013, nell’ambito delle iniziative per Marsiglia capitale europea della cultura, su progetto dell’architetto italiano Stefano Boeri [Qui].
Il nostro ‘corso di aggiornamento dal vivo’ sull’architettura contemporanea prevede, il mattino successivo, la visita alla Cité Radieuse, vale a dire l’Unité d’abitation progettata da Le Corbusier [Qui], come manifesto di un nuovo sistema abitativo, funzionale e sociale e realizzata nel 1952.
Visitiamo il quarto piano, dove uffici, negozi e gallerie d’arte aperti al pubblico permettono di immaginare strutture e dimensioni degli appartamenti privati in cui vivono oggi circa 1000 persone. La terrazza al nono piano si spalanca ai nostri occhi con il biancore di grandi elementi architettonico-scultorei e ci riempie lo sguardo dei panorami grandiosi della ‘città radiosa’.
Siamo praticamente in zona Prado, dove ci attende la passeggiata nel Parc Borely, dal quale approdiamo alla spiaggia!!!! Siamo in spiaggia insieme ai marsigliesi: tante famiglie, quasi tutte magrebine, bimbi e bimbe che si gettano nella schiuma dei marosi, il vento che richiama il pericolo, il ‘bagnino’ o ‘gendarme di spiaggia’, che invita ripetutamente e calorosamente, dall’altoparlante, alla prudenza.
Il giorno seguente saliamo allaGare Saint-Charles: non ho sbagliato verbo: per arrivare ai binari si affronta una monumentale scalinata in stile Novecento, con una profusione di statue allegoriche dedicate alla Marsiglia ‘porta dell’Oriente’.
Attraversata la bella galleria in pietra e vetro, aggiunta in occasione della ristrutturazione del 2007, scendiamo dalla parte opposta per raggiungere, con un altro dei nostri lunghi percorsi a piedi, La Friche La-Belle-de-Mai, centro culturale polivalente, ricavato nel 1992 attraverso il recupero delle ex manifatture di tabacco.
Raggruppa oltre 70 strutture e comprende, tra gli altri, una galleria d’arte, una sala da concerto, Radio Grenouille, teatri e sale espositive e una terrazza sul tetto dove in serata è previsto uno spettacolo teatrale.
Noi non ci saremo: ci figuriamo troppo stanche per pensare di ritornarci, visto che nel pomeriggio prevediamo di salire alla Basilica di Notre-Dame-de-la-Garde, perciò ci accontentiamo di pranzare nel ristorante e di girare negli spazi, pochi aperti ma comunque suggestivi e coloratissimi di migliaia di graffiti.
Un tram affollato, nel quale siamo le uniche con mascherina, ci porta alla base della collina su cui si erge la basilica; saliamo sotto il sole caldo solo in tre e veniamo premiate dalla splendida vista dall’alto, a 360 gradi, della città.
Il giorno conclusivo lo dedichiamo al Panier, il primo sito colonizzato di Marsiglia e il quartiere più antico di Francia; nel XX secolo magrebini, italiani, corsi vi si stabilirono a ondate e per anni è stato un quartiere decisamente popolare.
Ora è attrazione turistica, pur con le dovute contraddizioni, come Izzo aveva previsto e come appare chiaro in queste parole che leggiamo nel capitolo decimo di Chourmo: “il Panier somigliava a un gigantesco cantiere. La ristrutturazione era al suo apice. Chiunque poteva comprarsi una casa per un pezzo di pane e, tra l’altro, risistemarla completamente grazie ai crediti speciali del Comune.
Si abbattevano case, addirittura pezzi di strade, per costruire graziose piazzette o dare luce a quel quartiere che ha sempre vissuto nell’ombra dei suoi vicoli. Il giallo e l’ocra cominciavano a dominare Marsiglia italiana. Gli stessi odori, le stesse risate, gli stessi scoppi di voci delle strade di Napoli, Palermo e Roma. Anche lo stesso fatalismo rispetto alla vita. Il Panier sarebbe rimasto il Panier. Non si poteva cambiare la sua storia. Così come quella della città.”
Si sarà notato che, dopo gli aneddoti relativi ai nostri primi incontri col cibo marsigliese, non ho più descritto i nostri pranzi e cene; questo perché il nostro non era un Esperimento Marsiglia, come intitola Paolo Di Paolo [Qui] il suo appetitoso scritto sul suo peregrinare lungo Cours Julien in cerca di ristoranti e cucine, che ivi abbondano, delle più svariate parti del mondo.
Noi abbiamo mangiato salades e daurades e riso e salsa aïoli e ci è piaciuto quasi tutto, ma in realtà, ovunque ci fossimo fermate, cercavamo la bouillabaisse, un po’ per curiosità e molto per omaggiare, anche in questo modo, la nostra guida letteraria, Jean-Claude Izzo ça va sans dire. E non l’abbiamo trovata mai…
E allora mi piace dirmi che, un po’ come quando si dimentica qualcosa in un luogo come traccia di sé o come pretesto per poterci ritornare, a Marsiglia ci dovrò tornare e questa volta la bouillabaisse di certo riuscirò a trovare.
I libri citati:
Jean-Claude Izzo, Casino totale, Ed. E/O 1999 (prima edizione Gallimard 1995)
Jean-Claude Izzo, Chourmo . Il cuore di Marsiglia, Ed. E/O 2000 (prima ed. Gallimard 1996)
Jean-Claude Izzo, Solea, Ed. E/O 2001 (prima edizione Gallimard 1998)
Jean-Claude Izzo, Aglio, menta e basilico. Marsiglia, il noir e il Mediterraneo, Ed E/O 2006
Paolo Di Paolo, Esperimento Marsiglia, Ed. EDT 2019
Un respiro di carta imbavaglia il tormento
che nell’attimo prima giaceva pungente.
Dondola la notte
in una culla di parole
cigola l’oscurità in un barlume di insonnia.
Sospira la mano sul tratto d’inchiostro lo bagna di lacrime in un bacio di carta.
L’avvicinamento, a questa nuova plaquette “Bacio di carta“, Babbomorto Editore, 2022 di Maria Mancino, passa per un originale preludio di Edoardo Fontana fatto di impressioni.
Impressioni tipografiche, di odori, di mescolanze, di maestranze “impregnate” d’inchiostro e impegnate in un lavoro che vede passare, comporsi, scomporsi migliaia e migliaia di caratteri, di parole che si sposano e si slegano a caso.
Maria Mancino ci parla del piacere dello scrivere, di fare poesia nel tempo presente, una poesia “che dice la verità” anche nei tanti periodi dove i versi non sbocciano come “gemme senza volto“.
Lo dico piano
Lo dico piano
lo dico sottovoce per paura di farmi male
l’anima è di cristallo
la ragione la frantuma.
Lo dico piano
lo dico senza voce
per paura di farti male
è complicato vivere
senza una ragione.
L’eterno confronto, tra la ragione e le emozioni, emerge tra immagini fantastiche “Navigo su una barchetta di giornale/ piegata da un bimbo in riva al mare” e sogni depositati in attesa di andarli a riprendere “quando sarò grande“.
Forse Maria “da grande” non saprà ancora scegliere quando riprendere quel sogno magari per paura che sia svanito.
Poesie impregnate di natura. Un legame fisico, costante, alla ricerca continua di un’armonia col proprio corpo e col tempo che, nonostante sia “fermo in una clessidra otturata“, passa inesorabile.
Petali
L’umore del cielo si guasta
i fiori arrugginiti tremano sul bordo di un sorriso.
La notte imbriglia il sogno
il buio corteggia la solitudine che inquieta slega parole.
Soffi d’anima scrivono
poesie su petali di carta nel pianto dell’inchiostro.
L’amore prosegue verso luoghi
dove la ragione è sfocata segue il profumo di rose sorgive.
Maria Mancino è nata a Campobasso e vive attualmente a Imola. Scrive poesie fin da piccola. Afferma di pensare in versi anche quando non scrive. Appassionatasi alla narrativa, ha pubblicato racconti con le case editrici: Negretto, FuocoFuochino e Fernandel. Da Babbomorto Editore hanno visto la luce le tre raccolte poetiche: “Bianco Spino”, “Mani d’argilla” e “Bacio di carta”, nonché il racconto “Uccel di bosco”. Nel settembre 2020, pubblica con l’Edizione Apostrofo: “I plumcake del nonno” un libro che attraverso i ricordi d’infanzia, delinea la mentalità, le tradizioni e la semplicità dei suoi luoghi. Sempre con l’Edizione Apostrofo nel marzo 2021 pubblica la raccolta poetica: “Nascosta è in lui la mia follia”. La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia/Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]
Il libro “Bacio di carta” è acquistabile richiedendolo direttamente all’editore o durante le presentazioni.
Preparo la partenza per Mantova con una felicità nuova, nonostante sia l’ennesima partecipazione al Festivaletteratura.
Ma stavolta non me l’aspettavo di essere di nuovo reclutata come volontaria al servizio eventi, ho pensato di andare solo per un paio di giornate col pass della stampa come lo scorso anno, già contenta di questo privilegiato assaggio.
Invece presterò servizio per tutte le giornate del Festival, da mercoledì 7 a domenica 11 settembre e tornerò col gruppo nel mattino di lunedì.
Già, il gruppo: sono cinque studenti del Liceo Ariosto e la amica ed ex collega che li accompagna. Saremo insieme nel viaggio, nella palestra dove alloggeremo e anche alla postazione di San Sebastiano, almeno noi due prof.
Mi sentirò ancora in servizio presso il mio liceo di sempre, ancora dentro il gruppo di lettura che chiamiamo Galeotto fu il libro.
La notizia che andrò a Mantova ha quasi spazzato via dai pensieri il libro di Alessandro Carlini [Qui], che devo presentare alla Biblioteca di Poggio Renatico poco dopo il rientro, mercoledì 14 settembre.
Ho detto “quasi” perché in realtà continuo ad abitare anche l’intenso universo di questo libro che ha per titolo inquietante Il nome del male, lo visito con senso di appartenenza ma a intervalli irregolari.
Nel frattempo la mente scappa a Mantova: leggo il programma cartaceo, lasciando segni di colori diversi sugli eventi più interessanti, verde per la musica, rosa per gli incontri di letteratura, blu per i grandi temi del presente e per gli autori imperdibili.
Penso a come riempire la valigia ideale che deve contenere un po’ di tutto: arredo letto, farmacia e beauty, abbigliamento e molto altro.
Settembre ha proprio cambiato le mie giornate, ho salutato il ritmo pigro di agosto e ritrovato il clima più fresco e più attivo della stagione autunnale.
Si intensificano le relazioni, scrivo e mi scrivono mail gli interlocutori del vivere sociale, soprattutto mi cade addosso il carico greve delle pastoie burocratiche in cui incappo a ogni piccolo atto da cittadina di questo paese.
Leggo. Ho ripreso a farlo ai ritmi consueti. E ascolto meno i notiziari tv, nella convinzione che le notizie dilaganti sulla campagna elettorale siano in buona misura eludibili.
Ma veniamo al libro di Alessandro Carlini che è uscito lo scorso aprile presso Newton Compton e rappresenta il sequel dell’altro recente romanzo, Gli sciacalli, uscito presso lo stesso editore nel 2021.
Li ho letti in ordine di edizione e in giorni ravvicinati, dunque mi rimane in testa una sorta di spumosa somma delle loro storie, la conoscenza ampliata del protagonista, il procuratore Aldo Marano, che investiga su assassini efferati nella Ferrara violenta degli ultimi anni di guerra e nell’immediato dopoguerra, tra il 1944 e il 1946.
Mi avvolge il quadro storico della città e della nazione uscita dalla Repubblica di Salò e dal conflitto civile senza avere una bussola, con gli Alleati in casa e i voltagabbana che aumentano ogni minuto. Mi intrigano le spire del romanzo giallo (o piuttosto del genere noir?) che Carlini padroneggia bene nel distribuire gli svelamenti della investigazione.
Nel primo romanzo Marano si occupa del caso della Fiat 1100 nera: una banda di feroci assassini percorre la provincia compiendo omicidi e vendette, nel buio della notte si vedono appena le luci e la targa dell’auto che uccide e poi si lancia a folle velocità facendo perdere ogni traccia.
Marano ipotizza chela banda sia formata da ex partigiani, ma anche da falsi partigiani ex repubblichini, che mascherano con la loro vendetta una diversa pulsione criminale alla conquista di denaro e potere.
Sono sciacalli che approfittano del momento caotico in cui anche Ferrara si trova per seminare violenza; hanno appoggi importanti a livello politico e non sembrano avere ostacoli sulle strade polverose del contado.
Li combatte un magistrato che crede nella legge, che ne auspica il ritorno come principio di ordine contro il caos postbellico. Nel romanzo la figura letteraria di Aldo Marano riprende quella reale del magistrato Antonio Buono [Qui]; del resto la situazione storica è ricostruita dall’autore sulla base di documenti d’archivio, alcuni dei quali sono inediti.
Per esempio molte delle azioni criminali della banda sono riprese da verbali originali delle forze dell’ordine e da materiale giudiziario relativo al processo ai capi della banda, istituito presso il Tribunale di Ancona e finito con l’applicazione dell’amnistia Togliatti.
Storia e finzione si intrecciano, ‘manzonianamente’, anche nell’ultimo libro: fin dal titolo la promessa è di immergere il lettore in una nuova serie di “atti tenebrosi” da romanzo gotico. Così è.
Le indagini del dottor Marano sono rivolte a un efferato omicidio avvenuto nel maggio del 1944 in una villa fuori città: è stata violentata e poi uccisa la contessa Maria Gherardini Franchi.
Il caso fino a quel momento insoluto è avvolto da segreti e misteri: mentre indaga Marano scopre che la vicenda si incrocia con i delitti della banda della 1100 nera.
In più, tra le insidie e la impaurita omertà dei testimoni che interroga Marano raccoglie alcuni segni che non può che qualificare come diabolici, viene a conoscere credenze e leggende del territorio, che lo spingono ad andare oltre l’interpretazione razionale dei fatti.
Deve mettere in gioco tutto ciò in cui crede se vuole dare un nome al male. Il finale, che è un finale aperto e non consolatorio, come in un giallo classico, non risponde completamente alla domanda. Nel senso che del nome tanto atteso vengono svelate solo alcune lettere…
Viene spiegata per intero, invece, la etimologia del nome Aldo: l’origine è longobarda, e aldio indica il semilibero, “colui che non si poteva allontanare dalla terra dove il padrone lo aveva collocato.
Non era ammesso nell’esercito né poteva partecipare alle assemblee del popolo… Forse il suo padrone è la legge, e il suo nome sta lì a ricordarglielo sempre”, anche quando lui viene tentato dalla vendetta verso i colpevoli che lo ossessionano con la loro efferatezza e la immunità a cui sembrano essersi assicurati, diabolicamente. Il nome è dunque uno stigma.
La città di Bassani, quella raccontata in Una notte del ‘43, si arricchisce di nuovi tasselli storici e di nuova invenzione letteraria sotto la penna di Alessandro Carlini.
Il linguaggio in quest’ultimo romanzo ha soluzioni espressive ancor più coinvolgenti rispetto al precedente, ha una maggiore carica allusiva e si avvale di espedienti formali cari alla nostra tradizione poetica, non solo narrativa.
Il registro espressivo non è mai neutro, perché il narratore pur utilizzando la terza persona assume il punto di vista dei personaggi e di Aldo Marano innanzitutto.
Nelle analisi psicologiche e anche nella esposizione di azioni e pensieri prende corpo il mondo interiore di ogni personaggio, nei dialoghi le parole, con cui ognuno si esprime, emanano coerenza col quel mondo e il lettore trova davanti a sé figure a tutto tondo che risultano credibili.
Carlini a Mantova non c’è. Devo aspettare il dopo Mantova per incontrarlo e fare la sua conoscenza. Ora lo percepisco lontano, posizionato al di là dell’universo del ventiseiesimo Festival.
Tuttavia se le cose andranno come di solito accade quando ci si addentra nella letteratura, dall’universo di Mantova tornerò carica di nuove ricche suggestioni.
Credo che alla biblioteca del mio paese porterò nuove domande, o domande meglio pensate da porre al nostro ospite.
Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di carta, clicca [Qui]
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“Toccare e modellare la terra è un modo per vivere in sintonia con la natura.” Setsuko
Terracotta rivestita di smalto bianco, la purezza che splende e brilla di luce propria. Ma anche bronzo, legno, lavori su tela e un’accurata selezione di opere su carta.
Arrivano a Roma la delicatezza e la grazia della giapponese Setsuko (Setsuko Klossowska de Rola), in una mostra, Into the Trees II, che aprirà al pubblico l’8 settembre presso la famosa Galleria d’Arte Gagosian, in Via Francesco Crispi 16, di fianco alla centralissima piazza Barberini.
Non potevo non restare affascinata da tanta bellezza, tanto più che, ancora una volta, grandi protagonisti della storia sono, tra gli altri, i miei sempre amati alberi.
L’esposizione approfondisce i bellissimi lavori già presentati dall’artista a Parigi nel 2019, alla Gagosian di Rue de Ponthieu, in Into the Trees. Per Setsuko, la Natura è la sua maestra, colei che l’aiuta ad orientarsi, senza la quale non potrebbe dipingere o lavorare, l’ispirazione. Il suo giardino in Svizzera dal quale lavora è circondato da foreste e montagne: osservarle con attenzione e cura guida il tratto di ogni opera. Dedizione al mondo e alla sua forza.
A Parigi questa gentile artista giapponese ha presentato al suo pubblico la felice connessione tra elementi naturali ed elementi forgiati dall’opera umana, unitamente ad un mélange delicato di Oriente e Occidente testimonianza di grande sensibilità ed empatia, una meticolosa attenzione alle qualità più svariate della materia che l’hanno condotta a interessarsi alla ceramica e all’infinita malleabilità dell’argilla. Quasi un potente e creativo demiurgo.
Le opere parigine erano state realizzate nel suo studio presso il laboratorio diBenoît Astier de Villatte, prestigiosa firma di collezioni in ceramica, con il quale Setsuko intrattiene una continua e proficua collaborazione fin dai tempi in cui aveva vissuto con i genitori, da bambino, all’Accademia di Francia di Roma, Villa Medici, di cui il marito di Setsuko, Balthazar Klossowski de Rola (Balthus), era stato direttore tra il 1961 e il 1977. Da qui Setsuko si sarebbe trasferita al Grand Chalet de Rossinière, in Svizzera.
Quello nella Capitale è, quindi, un ritorno a una città per lei importante.
Realizzate in terracotta e rivestite di uno smalto bianco lattiginoso, le sue sculture in ceramica rappresentano querce, magnolie, rose, viti, alberi di limone, mela cotogna, melograno e fico enfatizzando il solido radicamento dei tronchi e la consistenza nodosa della corteccia, incorporando fogliame, fiori, ghiande e frutti finemente modellati. Le forme imponenti e le superfici delicate trasmettono la forza sviluppata in anni di sopravvivenza e la nuova promettente crescita, attraverso forme vitali che denotano l’innata osservazione della natura da parte dell’artista. Queste opere, che ricordano le ceramiche giapponesi Jōmon (circa 10,500 – 300 a.C.), traggono anche ispirazione da tradizioni estetiche europee, continuando la sua ricerca sull’immaginario di Oriente e Occidente.
Accompagnano le ceramiche un ulivo in legno con foglie e fiori dipinti e candelabri in bronzo ornati da vite, fichi e melograni. Queste opere proseguono il percorso diRegards de Setsuko, una mostra del 2021 al Musée national du château de Malmaison, in Francia, ideata in dialogo con gli oggetti d’arte decorativa conservati nella casa di Joséphine de Beauharnais e Napoleone Bonaparte.
Una serie di dipinti e opere su carta di Setsuko ripercorre poi la sua evoluzione artistica nell’arco di sei decenni, dagli anni Sessanta, quando l’artista risiedeva a Roma, fino alle opere realizzate durante l’isolamento della pandemia. Realizzati con tratti delicati e definiti con precisione all’interno del piano pittorico, queste eleganti nature morte e intimi interni domestici sono a volte ravvivati dalla presenza di piante e felini. Sintesi dell’estetica tradizionale giapponese e di quella modernista europea, i dipinti, come le opere scultoree dell’artista, rivelano la sua attenta osservazione contemplativa degli oggetti quotidiani e della vita che li circonda.
Leggerezza e bellezza da non perdere.
Setsuko è nata, nel 1942, a Tokyo da un’antica famiglia di Samurai e vive e lavora tra Parigi e il Grand Chalet de Rossinière, in Svizzera, l’albergo dalle 113 finestre acquistato d’impulso negli Anni ‘70 quando Balthus, che soffriva di malaria, su consiglio del medico cercava casa a mezza costa. Pensavano a poche stanze con un grande atelier finché un pomeriggio non entrarono per un tè in uno chalet immenso e fascinoso, un albergo semi dismesso. “Era vuoto, non c’erano altri clienti”, racconta Madame Setsuko. “C’era una atmosfera alla Agatha Christie, vedevo Miss Marple sferruzzare e Poirot centellinare il suo tè. Il padrone era malato e disperato, voleva vendere ma non trovava acquirenti: è una casa del 1754, con stanze piccole e soffitti bassi, a ogni piano tante porte e un solo bagno in fondo al corridoio. E non la si poteva ammodernare perché è una casa storica”. La coppia se ne innamorò subito. «Il proprietario era così felice che qualcuno la volesse che ci disse: vi do tutto, mobili, lenzuola, servizi per la tavola, soprammobili. Ancora oggi ho cose bellissime». Un luogo particolare e unico per un’arte che sarebbe presto diventata altrettanto unica e indimenticabile.
Le opere di Setsuko sono incluse, tra le altre, nella collezione del Metropolitan Museum of Art, New York. Tra le mostre più importanti: Setsuko et Harumi: hommage à Balthus, Palais des Nations, Ginevra (2001); Atelier de Cezanne, Aix-en-Provence, Francia (2012); Grand-Château d’Ansembourg, Lussemburgo (2014); The Life of Setsuko Klossowska de Rola, Sogo Museum of Art, Yokohama, Giappone (2016); e Regards de Setsuko, Musée national du château de Malmaison, Rueil-Malmaison, Francia (2021). Dal 2002 Setsuko è presidente onorario della Fondation Balthus e nel 2005 è stata nominata Artista per la Pace dell’UNESCO.
I ministri europei dell’energia anticipano al 9 settembre l’incontro di Berlino in quanto gli aumenti enormi di gas/luce mettono a rischio non solo molte famiglie ma parte dell’industria europea.
Si profilano razionamenti e una riforma strutturale dell’energia basatasi fino ad oggi sul libero mercato.
L’Europa scopre (un po’ tardi) che non si può andare avanti con bollette stratosferiche legate al “prezzo marginale” che fa la borsa Ttf di Amsterdam (avviata nel 2003). Una borsa che molti esperti hanno definito un “autenticocasinò”, che consente agli speculatori enormi profitti a spese dei consumatori e che ora tiene in scacco coi suoi prezzi (20 volte quelli del 2021) i cittadini europei.
Una borsa, quella di Amsterdam, con scambi modesti (1-2 miliardi di dollari di gas al giorno) contro i 2mila miliardi di dollari del petrolio Brent alla borsa di Londra (fonte Salvatore Carollo sulla rivista Energia.it) e che – non riflettendo i reali valori tra produzione e consumo -, consente con pochi movimenti speculativi di modificare (e di molto) il prezzo giornaliero. Già la California fu travolta nel 2000 da un sistema simile dove “gli squali della finanza sfruttarono gli errori dei politici” (F.Rampini su Il Corriere della Sera del 2.9.2022), che portò al fallimento della società finanziaria Enron. E la storia si ripete oggi con gas e luce in piena Europa.
E’ la Germania il paese più colpito perché ha la manifattura più estesa in Europa (seguita da quella italiana) e il suo modello di sviluppo si è basato per decenni su export ed energia a basso prezzo dalla Russia.
La carenza di gas ha fatto schizzare i prezzi alle stelle e il rischio è che le imprese europee vadano fuori mercato in quanto quelle americane pagano gas ed elettricità 7-10 volte meno e i cinesi la metà. Se 2/3 delle famiglie italiane rischiano di perdere ‘solo’ una parte dei risparmi nei prossimi 6 mesi (1/3 hanno contratti bloccati fino al 30 aprile 2023, poi sarà “lacrime e sangue per tutti”), molte imprese europee (con contratti variabili) rischiano di chiudere o essere acquistate (come Pernigotti da JP Morgan, banca d’affari Usa). Il che prefigura chiusure, licenziamenti, deindustrializzazione e pesanti ricadute sul debito pubblico, specie per quei paesi (come l’Italia) che sono fortemente indebitati.
Dopo Svezia e Finlandia è ora la Germania che versa 10 miliardi a Uniper(l’utility tedesca del gas) affinché non fallisca, ma Uniper ha già perso negli ultimi 40 giorni altri 4 miliardi (perde 100 milioni al giorno) in quanto costretta a rifornirsi al mercato libero del gas. Ma al di là di Uniper, quasi nessuna impresa è in grado di reggere la concorrenza asiatica o americana con i prezzi attuali della materia prima energetica.
Negli ultimi 6 mesi industria e famiglie hanno ridotto i consumi energetici di circa il 15% in Germania e del 3% in Italia (al solito inadeguata), ma ciò non è assolutamente sufficiente (già l’Europa ci impone una riduzione del 7%). Inoltre ci sono prezzi stratosferici (245 euro a MWh ieri, 5 settembre, dopo il picco a 330 del 26 agosto), rispetto ad una media di 11-20 euro del 2018-2021), anche perché i rifornimenti alternativi alla Russia sono possibili solo in parte e a questi prezzi altissimi.
Ciò porta a rinviare la chiusura delle centrali nucleari tedesche (fissata a fine anno), a riaprire le 6 centrali a carbone in Italia e la BCE ad alzare i tassi di interesse (75 punti attesi) per mitigare l’inflazione, rallentando ancor più l’economia e accrescendo l’onere del debito pubblico per gli Stati. Europa e G7 hanno approvato un tetto al prezzo del gas russo (come chiesto da Draghi) e al petrolio russo (che scatta a fine anno) che probabilmente farà cessare completamente il flusso del gas russo aggravando il razionamento di questo inverno. Difficile pensare che la Russia possa accettare (unico tra i membri Opec+) di autoridursi i prezzi. Verosimilmente venderà petrolio e gas a Cina e India come sta già facendo.
In tale contesto cresce la pressione di cittadini e imprese perché la guerra finisca prima possibile.
Molte imprese espongono i confronti tra le bollette di questo anno e il 2021 (più alte da 3 fino a 16 volte) e sono i problemi che buona parte delle famiglie si troverà ad affrontare da ottobre (e forse per altri 2-3 anni).
Per molti paesi poveri (specie Africa) il rischio è ancora peggiore: la fame. Negli ultimi 20 anni infatti qualcosa di molto storto è avvenuto anche nei paesi poveri, i quali (come noi) si sono sempre più indebitati, complici i bassi tassi di interesse che pagavano (in dollari) al Fondo Monetario Internazionale (Fmi), per cui oggi a livello globale il debito pubblico è salito a 305mila miliardi (348% del Pil mondiale), 5 volte quello che era nel 1997. 100mila miliardi sono debiti dei paesi poveri che hanno in parte anche migliorato le loro condizioni, ma ora, molto più indebitati, rischiano grosso.
Se infatti gli Stati Uniti, con l’inflazione alle stelle, aumentano i tassi di interesse al 3,5% per mitigarla, il dollaro (attuale moneta internazionale) si rivaluta (+12% sulle altre monete, euro incluso) e cresce così il costo annuo del debito dei paesi poveri (che è in dollari), per cui circa 20 paesi rischiano di fallire entro la fine dell’anno come lo Sri Lanka.
La finanza internazionale, a caccia di profitti per i nostri 50 milionari occidentali (americani, inglesi ed europei), dà un enorme contributo a questi squilibri perché sposta i soldi dai paesi emergenti (a rischio default) verso l’Occidente (circa 50 miliardi, fonte Fmi) dove crescono i tassi di interesse dei titoli di Stato e delle obbligazioni e anche per la rivalutazione del dollaro. Oltre alle manovre speculative su alimentari e gas che da sole incidono per la metà sugli aumenti in corso. A rischio è paradossalmente anche l’Ucraina che da sola ha avuto un deflusso di 11,8 miliardi di dollari (da marzo) pari al 22% del totale deflusso dei paesi poveri e rischia la bancarotta dello Stato non più in grado di pagare gli stipendi (infatti l’Italia ha prestato, per ora, 200 milioni per pagare gli insegnanti).
Il Governo italiano anziché intervenire sulle regole di formazione del prezzo del kW al consumo ha lasciato fare,sapendo che ciò avrebbe prodotto ingenti extraprofitti (50 miliardi calcola la Confindustria). Extraprofitti che ha poi tassati per 25%, ma poiché la misura è malfatta ha raccolto solo 2-3 miliardi dei 10 previsti.
Doveva invece cambiare le regole di determinazione del prezzo base del kW al consumo, lasciando i legittimi profitti alle imprese della filiera, ma stroncando sul nascere gli extraprofitti. Il popolo italiano avrebbe ringraziato di cuore.
L’invasione della Russia in Ucraina ha dato di certo il via a questo processo, ma nessuna riduzione del 17% del gas in Europa da parte della Russia può scatenare prezzi 20 volte superiori.
Cosa dunque porta i prezzi alle stelle?Da un lato c’è la speculazione, dall’altro le aspettative degli operatori, banche e finanza Si è avviata una rottura della globalizzazione e delle catene di fornitura con il nuovo mondo bi-polare che si va realizzando, con due recinti sempre più chiusi (Usa-Occidente vs Cina-Russia) che produrrà per molti anni ancora (fonte Federal Reserve Usa)alta inflazione per tutti e conseguente impoverimento per tutti i popoli del mondo (Italia compresa).
Intanto prosegue la guerra dove a morire sono soprattutto gli ucraini (e russi). Anziché essere uniti, come Nato, per imporre a tutti una equa distribuzione degli oneri (almeno delle bollette) ci troviamo con paesi che per gli aumenti di gas e luce ci guadagnano (come Usa, Norvegia e Olanda) e noialtri che ci perdiamo. Strana idea di fratellanza.
Questo è a mio avviso il grande peccato di omissione dell’Europa, non aver capito per tempo il suo compito spirituale e civile, cioè diventare un Terzo polo nel mondo (autonomo sia da Usa che da Cina), dialogante con tutti, specie coi paesi poveri che sono la grande maggioranza nel mondo, sfruttando i reciproci interessi (come fece il grande Mattei a suo tempo con Eni), senza subire la diffidenza o l’ostracismo di molti paesi nei confronti degli USA per le sue politiche di potenza.
Era questo del resto il progetto politico di Gorbachev e di Brandt (due grandi statisti che “ci hanno provato” : alleare Europa e Russia (fonte Barbara Spinelli, Il Fatto quotidiano, 2.9.22). Del resto gli stessi Stati Uniti hanno capito, con l’uscita dall’Afghanistan che il mondo non può essere governato con le armi e solo un commercio equo (e non semplicemente “libero”) aiuta tutti a svilupparsi, limitando le speculazioni finanziarie e ridando un ruolo alla vera economia degli scambi equi nel rispetto anche della Natura che fino ad oggi è stata considerata una mera esternalità da distruggere per avere prezzi minori.
Questo non significa essere amici di Putin, ma capire che non ha senso combattere la Russia (che prima o poi si libererà di Putin), così come la Cina (che prima o poi potrebbe mitigare il suo dispotismo).
In ogni caso non è più possibile fare i ‘gendarmi’ di un mondo in cui diventiamo sempre più piccoli. Significa accettare che Russia e Cina oggi governati da dispotismi invaderanno il mondo e il nostro ricco Occidente? Non credo.
Compito dell’Europa è fare in modo che la Russia non finisca nella braccia della Cina in modo definitivo. Il futuro starà sempre più nella capacità di allearsi coi paesi poveri con scambi equi che favoriscano lo sviluppo (loro e nostro), Una politica di pace, diversa sia da quella militare americana, sia da quella ‘commerciale’ cinese che ‘aiuta’ i paesi poveri per indebitarli e portarli nella propria sfera di influenza.
L’Europa ha un altro ruolo, quello di proporre una ‘vita buona’ per tutti (non consumistica), basata sul modello sociale europeo, rispettoso della Natura, basata su scambi equi tra paesi, che ponga uno stop definitivo alle guerre e all’uso della finanza per impoverire con una ‘mano invisibile’ la maggioranza dei nostri concittadini e i paesi poveri come si fa da 500 anni.
Questo è il nostro ‘vantaggio competitivo’: cultura, habitat, ambiente, sanità, welfare, diritti umani, comunità territorialmente radicate che qualcuno vuole spazzare via.
Il prossimo 13 settembre, RECA (Rete per l’Emergenza Climatica e Ambientale Emilia-Romagna) e Legambiente regionale depositeranno in Regione più di 7.000 firme a sostegno delle 4 proposte di legge di iniziativa popolare in tema di energia, acqua, rifiuti e consumo di suolo. In poco più di 3 mesi si è bene superata la soglia delle 5000 firme necessarie per la loro presentazione e discussione all’Assemblea regionale, segno di una disponibilità e di un interesse diffuso nella società su questi temi, soprattutto declinati in termini di alternativa alle politiche regionali (e nazionali) praticate sulle questioni ambientali e, più in generale, sul modello di sviluppo che li genera.
Non intendo riprendere qui i contenuti presenti nelle proposte di legge (peraltro li avevo già esposti in un precedente articolo su questo quotidiano [Vedi qui] ), quanto proporre tre ordini di riflessioni.
Il primo riguarda il fatto che le questioni su cui abbiamo raccolto le firme (ancora con la faticosa e superflua modalità di autenticazione e certificazione elettorale, sic!) sono diventate ancora più attuali e centrali anche solo rispetto ai mesi scorsi.
Prendiamo, a titolo esemplificativo, i temi dell’energia e dell’acqua. Sull’energia è ormai diventato senso comune la constatazione che l’aumento del prezzo del gas e dell’elettricitàsta producendo una crisi profonda – più di quella conosciuta a proposito del petrolio negli anni ‘70 del secolo scorso – mettendo a forte rischio il livello di reddito e di vita delle persone e la situazione economica e produttiva del Paese. Una crisi che nasce dalla forte ripresa dopo il lockdown pandemico, con le strozzature nelle catene produttive che ha determinato.
Una crisi che si è aggravata con la guerra tra Russia e Ucraina e viene alimentata da un’irresponsabile ma, purtroppo, ‘fisiologica’ speculazione che si produce da quando un mercato di tipo borsistico regola il prezzo.
Una crisi che rende più forti la necessità di una politica energetica che scelga indipendenza e autosufficienza delle fonti (anche da questo punto di vista, quale scelta migliore se non quella della produzione da fonti rinnovabili?), ma che, invece, viene utilizzata per rilanciare con forza l’utilizzo delle fonti fossili, secondo una logica guidata dalla conferma di un vecchio e sbagliato modello di sviluppo e dalla massimizzazione dei profitti.
Se qualcuno giudica estremiste queste affermazioni, dovrebbe rispondere a un fatto che ha quasi dell’incredibile. Nello stesso momento in cui si fa persino allarmismo sulla mancanza di gas per il prossimo autunno, ci tocca registrare che, tra gennaio e maggio, di quest’anno sono stati esportati dall’Italia 1.467 milioni di metri cubi equivalenti (Smc) di gas, ovvero il 578% in più rispetto ai 254 milioni del 2021. Una quantità che non ha pari negli ultimi 15 anni
Oppure, basterebbe guardare all’esplosione di profitti dell’Eni, che nel 2021 sono balzati a 4,7 miliardi di €, il livello più alto dal 2012. O allo scandalo delle imprese energetiche diventate soggetti di elusione fiscale, visto che, rispetto aduna tassazione, pur insufficiente, del 25% degli extraprofitti realizzati con l’aumento del prezzo del gas, chedoveva garantire 4,2 mld. all’erario con l’acconto di giugno, ne hanno versati solo 800 milioni.
Ragionando sulla questione dell’acqua, in tempi in cui sia la siccità che i fenomeni alluvionali estremi diventano ‘normali’ e ben evidenziano che il cambiamento climatico è già un dato strutturale, anche qui non si può non vedere come occorre ripensare un intero paradigma in base al quale la risorsa era considerata illimitata e la sua gestione poteva essere affidata dentro una logica completamente privatistica.
Di fronte a questa drammatica situazione – e questo è il secondo ordine di riflessione – anche in Emilia-Romagna, come a livello nazionale, si propongono interventi di corto respiro, legati a concezioni superate, dettati da un’idea di sviluppo prigioniera della logica della crescita quantitativa del PIL e di una torsione economicista e produttivista. Con l’aggravante, stando alle esternazioni del presidentedella regione Bonaccini, che essi vengono presentati, da bravi primi della classe, come elementi esemplari per l’intero Paese.
Ecco che allora Ravenna viene vista come una delle capitali del gas in Italia, installando un nuovo rigassificatore e promuovendo una nuova fase di trivellazioni per incrementare la produzione nazionale di gas, senza dimenticare il progetto dell’Eni di installare lì il CCS, impianto di stoccaggio e immagazzinamento della CO2.
Un progetto, quello del rigassificatore, che, oltre alle problematiche non trascurabili di sicurezza che comporta e di messa a rischio dell’ecosistema marino, significa puntare, per un periodo di tempo non breve, alla strategicità di una fonte fossile come il gas, mettendo in secondo piano il tema della transizione ecologica.
Senza, peraltro, rispondere in tempi brevi all’emergenza energetica, visto che il rigassificatore non andrà in funzione prima dell’autunno 2024.
In tema di mobilità,si continua imperterriti a seguire la strada delle grandi opere autostradali – dal Passante di mezzo a Bologna alla Cispadana e alla bretella Campogalliano-Sassuolo- che supportano l’utilizzo del mezzo di trasporto privato, anziché puntare al potenziamento del trasporto pubblico e alla “mobilità dolce”.
Su altri fondamentali beni comuni, dall’acqua al ciclo dei rifiuti, viene confermata la spinta alla loro privatizzazione e ad una gestione non sostenibile delle risorse: sulla prima con un provvedimento regionale che ha prorogato fino alla fine del 2027 le attuali gestioni del servizio idrico, facendo un ulteriore grande regalo a Hera e Iren, mentre sul secondo siamo addirittura in presenza di un un nuovo Piano regionale che prevede un incremento della produzione pro-capite dei rifiuti urbani del 5,4% che passerebbe dai 667 kg/ab anno del 2019 ai 703 del 2027!
Potrei continuare parlando del consumo di suolo, del ruolo negativo della proliferazione della logistica, delle linee che ispirano l’attuale produzione agricola e zootecnica, della qualità e dell’inquinamento dell’aria e di altro ancora.
Mi pare che ce ne sia quanto basta per sottolineare come non si può più ignorare la necessità della transizione ecologica e come diventa necessario mettere in discussione il modello produttivo e sociale che produce tali scelte regressive. Perché è di questo che si deve parlare e su cui occorre intervenire: del cosa si produce, di come e per chi lo si fa.
Le 4 proposte di legge di iniziativa popolare hanno l’ambizione di muoversi entro quest’ambito. Spingere verso la produzione e l’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili, eliminare il consumo di suolo, ridurre la produzione dei rifiuti e uscire dall’incenerimento, favorire i processi di ripubblicizzazione del servizio idrico e dei rifiuti significa proprio aggredire questo nodo e prospettare un embrione di modello produttivo e sociale alternativo.
Anche per questo non si possono nutrire molte illusioni sul fatto che, allo stato attuale, esse possano essere accolte nella loro sostanza da chi governa (ma anche da chi sta all’opposizione) in questa regione. Serve un’ampia mobilitazione sociale e una forte pressione sulla politica per sostenerle. E’ questa la terza riflessione di fondo.
E per questo il deposito delle proposte di legge, il 13 settembre, verrà accompagnato da un presidio sotto la Regione Emilia-Romagna. Quindi si lavorerà perché esse vengano discusse in tutti i Consigli comunali, almeno di quelli capoluoghi di provincia.
Già con l’idea di pensare ad una grande manifestazione regionale a Bologna per il mese di ottobre, mettendo al centro le tante vertenze territoriali che intervengono sui temi ambientali e che sono aperte in questa regione, unificate dall’orizzonte di prospettare un nuovo modello sociale e produttivo, di cui le 4 proposte di legge costituiscono un forte elemento esemplificativo. Costruendo anche una convergenza tra tutte le realtà che si muovono nel variegato mondo ambientalista e anche con il tema del lavoro, visto che lotta al cambiamento climatico, transizione ecologica e quantità e qualità del lavoro si tengono insieme. Almeno per chi pensa necessario tenere aperta la porta sul futuro, perché possa essere più giusto e solidale.
Esiste un posto che non ho mai detto.
Esiste da quando quella volta decisi d’andar dietro a un sogno. Perché erano tante notti che veniva a trovarmi.
Ogni notte, puntuale, sentivo bussare alla finestra della mia cameretta. L’orologio alla parete segnava le tre e trentatré, e lui compariva dal buio oltre il vetro, e mi guardava senza far nulla. Io mi nascondevo sotto coperte e lenzuola e aspettavo che se ne andasse. Ero paralizzato dalla paura, non l’avevo mai visto in faccia ma vedevo la sua ombra, fuori nell’oscurità, e mi terrorizzava.
Poi, una notte, lo sentii singhiozzare. Era un pianto sommesso, discreto. E quando mi decisi a sbirciare da sotto il lenzuolo, quando ne alzai un lembo e provai a guardare verso la finestra, lui non c’era più.
La mattina seguente, mia madre entrò nella cameretta per svegliarmi e intravide qualcosa sul davanzale della finestra. Aprì le imposte e scoprì un piccolo fiore spuntare da una fessura della pietra. Era un gelsomino giallo, nato, non so come, proprio quella notte appena passata.
Quando me lo fece vedere, pensai fosse stato lui a lasciarlo, pensai che era un segno d’amicizia. Forse non era cattivo, forse m’ero sbagliato, e quel fiore era nato dalle sue lacrime.
Giunse un’altra notte e restai sveglio ad aspettarlo, volevo conoscerlo, scusarmi e ringraziarlo.
Mia madre aveva piantato il fiore con tutte le radici in un vaso, ci aveva messo della terra morbida e l’aveva innaffiata. Il vaso col fiore era sul davanzale, e io mi misi alla finestra, sperando che il mio visitatore misterioso tornasse a trovarmi. Aspettai tutta la notte fino al mattino, ma non venne. Feci altrettanto la notte dopo, e quella dopo ancora. Ma non venne mai, non venne più.
Passarono i giorni, e i giorni divennero settimane, così mi decisi: una sera aprii la finestra, presi il vaso – incredibilmente il piccolo fiore era diventato una bella pianta di gelsomini gialli e profumati – e lo posai sul comodino, poi mi coricai a letto e m’addormentai.
Alle tre e trentatré sentii bussare alla finestra. Era lui. Era tornato!
Misi da parte la paura, mi alzai dal letto, andai alla finestra e finalmente lo vidi.
Emerse dall’oscurità, era il mio sogno: un bambino uguale a me, e mi sorrideva.
Poi mi prese la mano e m’invitò a seguirlo.
Abbandonammo la mia cameretta uscendo dalla finestra. Non facemmo alcun rumore, proprio come due creature dell’oscurità. E l’oscurità non era affatto terribile come avevo sempre creduto.
Finimmo sul greto d’un torrente in mezzo al bosco. Attorno a noi c’erano gli abitanti della notte. Tutti quegli esseri che avevo sempre temuto e guardato con sospetto. Erano vicinissimi, illuminati dalla luna piena. E tutti ad accoglierci in pace.
Così falene, pipistrelli, gufi, volpi, grilli, lepri, donnole, gatti, marmotte, ricci, civette, toporagni, lupi e tanti altri esseri ancor più strani e misteriosi apparvero dal nulla e s’affollarono tutt’intorno incuriositi, quasi fossero folletti.
E per la verità – ora lo posso dire con certezza – erano proprio folletti!
Esatto cari miei. I folletti esistono per davvero. Vivono nei sogni dei bambini e degli stessi animali, ne hanno tutto l’aspetto. E oggi, ogni animale è mio amico, così come ogni creatura dei sogni, perché è proprio grazie a loro che tanti anni fa ho vinto la paura del buio.
Tornando a quella notte, quell’unica notte, rimasi a lungo nel bosco in compagnia delle sue fantastiche creature. Tanto a lungo che poi m’addormentai di nuovo.
Più tardi, al mattino, mia madre entrò nella cameretta e mi svegliò. S’era accorta che sul davanzale della finestra mancava la pianta di gelsomino e mi chiese dov’era finita. Io le risposi che non lo sapevo, e lei, poco convinta, la cercò in ogni angolo della stanza senza trovarla. Alla fine si rassegnò e uscì dandomi un’occhiataccia.
In fondo cosa avrei dovuto dirle? Che l’avevo lasciata in un posto segreto, sul letto di un torrente in mezzo al bosco, lontano miglia e miglia da casa?
Somewhere Only We Know (Keane, 2004)
Videoracconto letto da Alessandra Arlotti
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Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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Una solennità tutta raccolta, nascosta, feriale, quella di santa Teresa di Gesù [Qui] nella trasverberazione del suo cuore, celebrata con le sorelle Carmelitane venerdì 26 agosto nella chiesa a lei dedicata in via Borgovado 19.
Solenne il canto, polifonia di un’intima gioia che irradiava, non più trattenuta, dalle grate abbracciando l’assemblea liturgica e oltre, disperdendosi benefica per le vie del borgo.
Il monastero è del 1712. Una vedova di origini reggiane, trasferitasi a Ferrara e desiderosa di vestire l’abito delle figlie di santa Teresa, decise di donare la sua abitazione per la fondazione. La chiesa invece si iniziò a costruirla solo nel 1781 e fu benedetta e aperta al culto il 24 agosto 1788.
La chiesa si raggiunge salendo sia per chi viene da XX Settembre contromano, sia per chi percorre Borgovado da Santa Maria in Vado. Posta sul colmo di quello che era l’argine di via Ripagrande, mi fa pensare ogni volta alla salita al monte Carmelo [Qui].
È a pianta circolare, piccola e raccolta, in stile barocchetto, impreziosita soprattutto dalla pala dell’altare maggiore (attribuita al ferrarese Francesco Pellegrini), che raffigura l’apparizione della Madonna e di san Giuseppe a Teresa. La forma di un cuore trafitto è visibile nel centro della cupola della chiesa e sopra l’altare maggiore.
Con la parola ‘trasverberazione’ si vuole ricordare un episodio della vita di Teresa descritto da lei stessa nel capitolo 29 del Libro della Vita e reso famoso dallo scultore Gian Lorenzo Bernini[Qui] nello splendido gruppo marmoreo Estasi di santa Teresa (1652), conservato a Roma nella Cappella Cornaro della chiesa di santa Maria della Vittoria.
Teresa narra di un serafino che le trafisse ripetutamente il cuore con un dardo infuocato: «lasciandomi ardente di grande amor di Dio e piena di desiderio di contagiare gli altri di questo amore».
Una frase che – volendo − esprime anche oggi il paradigma di vita delle sorelle carmelitane. La loro vocazione, le loro esistenze nascoste come radici sprofondate in quella terra buona che è l’umanità di Gesù. Dalla quale esse poi si avventurano, percorrendo la via dell’orazione, per portare la linfa del suo vangelo alle nostre comunità, alla città intera.
Dicono di loro stesse: «anche noi, come piccolo anello di una catena solidale con ogni uomo e ogni donna accogliamo la sfida della nostra santa madre Teresa di Gesù di «avventurare la vita», consapevoli che − come lei stessa scrive in una sua poesia richiamando il Vangelo − «non c’è chi la custodisca meglio di chi la dà per persa».
Che immagine potente: “avventurare la vita”, ripreso da quell’“avventurarmi” proferito per prima da Teresa.
“Aventurar” equivale a essere protesi, rischiarsi in un’impresa, esporsi a ciò che viene, mettersi in gioco, osare fino in fondo.
Il cammino spirituale − di perfezione lo chiama lei scrivendo alle sorelle – e ne La Vida dice: «Sta tutto ad avventurare la vita (Tudo isto faz aventurar la vida). Per conto mio, bramo di averla già persa: avventurarsi, (aventurar-me) sarebbe un comprar molto a poco prezzo. No, non è più possibile vivere vedendo con i propri occhi la cecità in cui si è, e l’illusione che c’inganna» (Vida, 21, 4).
Nella trasverberazione del suo cuore ci è offerta un’immagine viva del mistero pasquale; di quel rischiarsi ad amare “costi quel che costi”; un avventurarsi e perdersi nella vita del Crocifisso risorto e osare attraversare il vado che porta dal timore all’amore, dal perdersi al ritrovare se stessi, da sé agli altri.
‘Verberare’ significa ‘colpire’. E trasverberare equivale, di conseguenza, a ‘colpire attraversando’, andando al di là così da restare uniti, innestati l’uno all’altro per ferita d’amore. Cauterio, la chiama Giovanni della Croce [Qui]: “una bruciatura di purificazione amorosa”, una ferita che guarisce.
Ma purificazione da che cosa? Guarigione da quale male? Dal timore – risponde Teresa − quello che afferra chi avventura la sua vita con il vangelo. «Nada te turbe, nada te spante (spaventi), Sólo Dios basta».
Sono parole di Teresa diventante un canto liturgico molto popolare, non solo nelle parrocchie. Parole che si congiungono a un’altra espressione di Teresa nella quale sintetizza la sua più profonda esperienza mistica: «scomparve ogni timore, venne, col godimento, la pace, e io rimasi in estasi».
Così anch’io mi sono avventurato nella sua Vida, come un bracconiere, alla ricerca di risonanze, e approfondimenti, bramoso anch’io di questo cammino dello spirito che scaccia il timore:
«Mentre, dunque, ero in così grande angoscia (fino allora non avevo cominciato ad avere nessuna visione), bastarono queste sole parole per dissiparla e acquietarmi del tutto: “Non aver paura, figlia mia, sono io e non ti abbandonerò, non temere”».
Anche quando parla del timore di Dio, Teresa lo distingue dalla paura umana, servile, perché il timore di Dio è, a differenza di quello terreno, intessuto d’amore:
«Tutti questi segni del timore di Dio mi vennero dall’orazione, e per la maggior parte erano intessuti d’amore, perché non mi si presentava mai il pensiero del castigo… Nell’orazione che è rapporto di amicizia con il Signore, un trovarsi frequentemente da soli a soli con chi sappiamo che ci ama. Qui non c’è nulla da temere, ma tutto da desiderare».
Nel capitolo 26, Teresa racconta cose che le sono accadute e che, facendole deporre ogni timore, l’hanno convinta che era lo spirito buono a parlarle (aveva a che fare con confessori ottusi o timorosi, l’inquisizione non scherzava allora).
«Una sola sua rassicurante parola bastava a lasciarmi tranquilla e lieta come al solito, senza alcun timore. Mi sembrava che Gesù Cristo mi camminasse sempre a fianco… E se pure, a volte, temevo ancora per tutto quello che mi dicevano, il timore mi durava poco, perché il Signore mi rassicurava: la via del timore non è fatta per la mia anima».
Per Teresa il “Nada te turbe” scaturisce dal non pensarsi da soli, dal non avventurarsi da soli: un “Cercati in Me” e “CercaMi in te” quale frutto di un’intima amicizia e compagnia amorosa.
“Aventurar la vida” è allora non rinunciare ad arrischiare il proprio amore. Lo stesso amore che indusse il Figlio di Dio a non sottrarsi all’avventura umana della fraternità fino alla croce, segno dell’amore più grande che è dare la vita, divenendo così per tutti il Figlio dell’uomo.
Sognando il paradiso
Uno strano sogno di molti anni fa − scrivendo di queste cose − mi è tornato alla memoria. Ricordo che la sera prima avevo visto con alcuni ragazzi della parrocchia la fiction su san Filippo Neri con Gigi Proietti, Preferisco il Paradiso.
Sognai dunque che ero in chiesa, dopo l’omelia invece di continuare la messa andai verso la sacrestia, la gente mi chiamava indietro, ma io diritto senza voltarmi, aprii la porta e d’improvviso mi trovai in via Porta san Pietro, che è come dire la porta del Paradiso.
Mentre camminavo, un mormorio fastidioso di gente che sembrava conoscermi da vicino mi additava: “eccolo il sognatore, quello che predicava la salvezza a buon mercato, quello che diceva alla gente di non temere Dio, che insegnava a non avere paura di lui. Adesso vedremo come andrà a finire quando incontrerà san Pietro”.
Queste voci cominciarono a turbarmi e presi ad avere timore. Ma ripetevo a me stesso e a loro: “non ho paura, siamo amici”.
Ma giunto da san Pietro, prima mi impensierii, e poi mi spaventai solo a guardare la sua faccia, specie quando mi interpellò dicendo: “Oh guarda un poco chi c’è, chi è arrivato, mettiti là in disparte che adesso vediamo cosa fare”.
Non che mi sentissi degno dei primi posti, ma su un posticino in fondo, di fianco alla porta ci contavo, memore di quando mia madre si auspicava di poter varcare quella porta almeno con il dito mignolo, così da essere poi dal Signore tirata dentro.
Che ci fossero dei problemi e degli intoppi anche lì mi inquietò ancora di più.
Giunse il momento in cui san Pietro, dopo aver fatto scorrere velocemente le mie omelie, mi chiamò e fece sfilare davanti a me tutti i patriarchi e i profeti, che avevano in un modo o nell’altro annunciato il santo e terribile timore di Dio.
Solo al vederli mettevano paura, figuriamoci quando cominciarono a ripetere i loro scritti e le loro profezie ad alta voce. E fu allora che mi assalì il dubbio e poi fui preso dalla certezza di aver sbagliato o per lo meno di aver tralasciato qualcosa di importante.
Era proprio grave non avere ricordato il timore di Dio come avrei dovuto. Avevo così disorientato la gente che mi ascoltava, e forse, a forza di predicare un Dio di cui non bisognava avere paura, avevo aperto la strada, per molti, alla leggerezza, alla faciloneria, alla salvezza a buon mercato.
Intanto continuavano con insistenza, uno dopo l’altro, coloro che avevano annunciato il timore di Dio. Sino a che decisi di non aspettare la fine: oramai ero sicuro del verdetto; ero solo dispiaciuto, anzi mortificato per coloro che avevano creduto alle mie parole e forse non sarebbero entrai in paradiso. Mi girai di 180 gradi e feci per tornare indietro, chissà dove, senza più speranza.
Inaspettatamente, avevo fatto pochi passi, mi sentii chiamare con insistente amorevolezza e la voce ripeteva anche “un poco di pazienza”. Mi voltai e vidi venirmi incontro sorridente una donna, con una penna in mano e nell’altra un libro, indossava un mantello candidissimo.
Aveva qualcosa di familiare, di molto, molto familiare; ma ancora faticavo a ricordare, come quando, nei sogni, provi a parlare e non escono le parole, i nomi. “Ma sì, sì era proprio lei”, dissi poco dopo. Così mi sentii rincuorare come da una ferita dolorosa che rimarginava dentro un altro cuore.
Era proprio lei, Teresa di Gesù, la santa madre – così la chiamano le sorelle – quella che tutti i giorni vedevo all’angolo tra via Coperta e via Borgovado e salutavo con lo sguardo, alzando gli occhi verso di lei. La sua esile e piccola immagine in pietra bianca è posta infatti in una nicchia sul muro di cinta del suo monastero.
Teresa di Gesù mi disse: “aspetta un momento ancora, non avere fretta, e nemmeno timore, lasciali finire”. Terminata la fila degli accusatori, mi accorsi che alle spalle di quell’improvvisata avvocatessa d’ufficio cominciavano a venire i testimoni della difesa. Mi meravigliai: era tutta gente importante, che conta lassù.
Teresa aveva chiamato a testimoniare davanti a san Pietro per primo l’arcangelo Gabriele che ripeté il suo annuncio a Maria scandendo bene le parole: “non temere Maria, hai trovato grazia”.
Poi gli angeli apparsi ai pastori a Betlemme, e quello apparso in sogno a Giuseppe per tre volte. Ma poi furono chiamati a deporre gli evangelisti che in diversi episodi avevano riportato le parole di Gesù: “Non temere continua solo ad avere fede”.
E ancora i due messaggeri innominati in bianche vesti che erano seduti sul sepolcro vuoto di Gesù il mattino di Pasqua; essi avevano rincuorato con gioia grande le donne mortalmente spaurite: “Non temete voi, non è qui, è risorto”. Sarebbero bastati quei due a far spalancare le porte del paradiso, così come spalancarono l’ingresso sigillato del sepolcro dalla pesante pietra.
Ma Teresa non era contenta, così si presentò il serafino della trasverberazione e, da ultimo, maestoso e umile insieme, accompagnato da un’aquila, proprio lui, Giovanni l’evangelista, il teologo a ripetere con insistenza le stesse parole di Gesù ai suoi amici:
“Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore vado a preparavi un posto. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore, vi lascio la mia pace, la mia pace io vi do”.
Alla fine Teresa, per evitarmi l’eventualità della condizionale, strabiliò tutti. Fece giungere l’intero coro angelico – ed era grandissima, innumerabile schiera – che intonò: “Nada te turbe. Nada te spanta Quien a Dios tiene, nada le falte. Solo Dio basta”.
Vidi allora san Pietro rallegrarsi così tanto, come quella volta alla pesca miracolosa e affrettarsi ad aprirmi.
Una luce rifulse non appena dischiuse la porta. Fu come quando nel cielo le nubi nascondono il sole, ma non riescono a trattenerne l’impeto, i loro bordi diventano luccicanti, merletti dorati e lo splendore e la gloria dei raggi solari sprizza da tutte le parti schiarendo il cielo a fasce, sino a formare una raggera che scende fino a terra.
Provai a fare un passo in avanti, a sporgere la testa, ma come nei sogni, tentavo di camminare, ma non riuscivo a muovermi; d’improvviso mutò la scena, inciampai in un gradino, ma era quello della sacrestia e mi svegliai.
Che delusione, c’ero quasi. Mi sentii allora come un ladro di notte che fugge con la refurtiva nel sacco e nella fuga perde dal fondo bucato tutta la refurtiva, restando a mani vuote.
Era presto, quella mattina, ancora buio e il lampione della strada illuminava debolmente l’icona della Madre di Dio di Kazan nel luogo della preghiera. Accesi un lume, aprii il breviario e cominciai la preghiera delle lodi. Ma il pensiero andava al sogno appena fatto e mi dicevo che forse era il caso di fare marcia indietro.
Tanto che la domenica dopo, anche se ci fosse stata la parabola della festa e del banchetto con il vitello grasso per il figlio ritrovato, avrei parlato solo del timore di Dio. Dopo tutto, era solo un sogno: chi mi avrebbe assicurato che sarebbe andata proprio così?
Ero in questi pensieri quando incominciai il canto del Benedictus, l’inno di Zaccaria. Leggevo, ma ero distratto continuamente dal pensiero: “chissà forse ci sono altri testi oltre a quelli ricordati da Teresa e dovevo proprio cercarli”.
Così, dopo ogni distrazione, tornavo sulle parole dell’inno e con mia sorpresa, in uno di quei ritorni, mi fermai di colpo e rilessi incredulo una, due, tre volte il versetto di mezzo e mi venne da esultare e ringraziare, diceva:
«Così Egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni».
Proprio in quel momento, i rintocchi della campana del Carmelo chiamavano alla messa.
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]
Cover: Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa (commons.wikimedia.org)
Ennesimo Rapporto ambientale, ennesima conferma di un trend di degrado che sembra inarrestabile. Questa volta è l’ISPRA, che circa un mesetto fa ha presentato, in piena bagarre vacanziera, il suo “Rapporto nazionale sul consumo di suolo-2021”
In questi giorni, Legambiente Emilia-Romagna, utilmente e puntualmente, ha rielaborato i dati per la nostra regione, ottenendone un quadro disarmante e allarmante.
Ai vertici del PIL per abitante[Vedi qui]e per Ricerca e Sviluppo[Qui]l’Emilia-Romagna nel 2021 è però terza nel poco invidiabile primato di consumo di suolo. Peggio di noi fanno solo Lombardia e Veneto. E non va meglio se consideriamo il consumo netto di territorio (ovvero il rapporto tra mq costruiti o impermeabilizzati ed ettaro di suolo): in questo caso scendiamo al quarto posto, perché ci supera anche la Campania.
Fatta la legge, trovato l’inganno, dice un vecchio adagio popolare. In questo caso la legge regionale è la n. 24 del 2017. Il suo corretto recepimento a livello comunale passa attraverso la stesura e approvazione dei PUG(Piano Urbanistico Generale), laddove si impone una soglia di consumo pari al 3% rispetto al 2017. “Rielaborando i dati ISPRA”- scrivono quelli di Legambiente Emilia-Romagna – “ si trova che tale limite è già stato ampiamente superato da 21 Comuni che hanno prorogato più volte l’approvazione del PUG.” Aggirando dunque bellamente la legge.
Una cartina ci può evidenziare più di tanti numeri e parole questo sfascio. Si trova a pag. 213 del rapporto ISPRA ed evidenzia lo sviluppo dei poli logistici in Italia. “Tra la via Emilia ed il West”, come cantava il buon Guccini, non ci sono più le sconfinate praterie, ma le grandi piattaforme dell’e-commerce, la nuova frontiera del commercio e della distribuzione delle merci, ovvero AMAZON ed i suoi innumerevoli cloni. Altro che dematerializzazione o merci a km zero.
In una recente indagine sul consumo di suolo in Italia [Vedi qui] pubblicata nel numero di marzo di La Nuova Ecologia (la rivista di Legambiente) si legge tra l’altro::
“Il commercio elettronico disegna nuove geografie e consuma suolo. La Pianura Padana, uno dei luoghi con l’aria più inquinata al mondo, è diventata una grande piattaforma logistica, che serve anche il mercato europeo. Tra Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, centinaia di ettari di suolo agricolo vengono trasformati per realizzare poli logistici collegati a porti e aeroporti, presso i caselli autostradali, gli snodi ferroviari”.
E’ il mercato, bellezza! Ma al consumo di suolo, con tutte le conseguenze che questo comporta, soprattutto per una Regione fortemente antropizzata come la nostra, non si contrappone, come spesso si sostiene, l’aumento dell’occupazione ed il contenimento dell’inquinamento, attraverso la razionalizzazione degli spostamenti delle merci. Continua Elisa Cozzarini su Nuova Ecologia: “Una recente ricerca di EBiComLab, il centro studi sul terziario di Treviso, ha analizzato l’impatto socio occupazionale di sette centri di distribuzione e smistamento Amazon nel Nord Italia, evidenziando che, rispetto al numero di assunzioni all’apertura, poco più del 30% dei posti di lavoro è stato confermato già nei primi anni di attività. A Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, il polo esiste dal 2011 e oggi occupa appena il 20,7% dei lavoratori che aveva dieci anni fa.” [Ibidem]
Sui poli logistici le Regioni della pianura padana sbaragliano tutti. Ed in questa ristretta cerchia di campioni, l’Emilia-Romagna la fa da padrona. Senza snocciolare ulteriori dati, basta richiamare la lettura della Tab. 78 a pag. 209 per verificare i numeri di questo scempio: “Non ci illudiamo di poter bloccare l’avanzata della logistica, visto che l’e-commerce alla gente piace sempre di più – spiega Giuseppe Castelnuovo di Legambiente Piacenza – Il nostro obiettivo è almeno contenere il fenomeno, che deve essere governato con una pianificazione corretta, agganciandolo al trasporto su ferro per ridurre al massimo quello su gomma. Anche in Emilia-Romagna la legge regionale ha lasciato aperti varchi enormi, che hanno permesso la proliferazione di poli ovunque, mentre le procedure di valutazione ambientale sono diventate una farsa”.[Ibidem]
Sarebbero tante le informazioni contenute nell’imponente Rapporto dell’ISPRA che citavo all’inizio. Vorrei citarne ancora un passo significativo.
“La relazione tra il consumo di suolo e le dinamiche della popolazione conferma che il legame tra la demografia e i processi di urbanizzazione e di infrastrutturazione non è diretto e si assiste a una crescita delle superfici artificiali anche in presenza di stabilizzazione, in molti casi di decrescita, della popolazione residente (Tabella 11). Anche a causa della flessione demografica, il suolo consumato pro-capite aumenta dal 2020 al 2021 di 3,46 m2 /ab e di 5,46 m2 /ab in due anni sebbene il consumo di suolo annuale pro-capite diminuisca da 1,16 a 1,12 m2 /ab”.[Rapporto ISPRA]
I nostri amministratori farebbero bene a riflettere su queste pagine, perché dietro il consumo di suolo ci sono anche molte delle ragioni che stanno alla base delle conseguenze sempre più disastrose che gli eventi atmosferici estremi si portano dietro. La deregulation connessa al nostro miope federalismo urbanistico, ci richiama ancora una volta ad una legge nazionale per il contenimento del consumo del suolo ed a favore del riuso e della rigenerazione urbana.
Tra l’altro, lo scorso 17 novembre la Commissione Europea ha approvato la nuova Strategia sul suolo al 2030. Questa prevede, tra l’altro, che tutti gli Stati membri si devono dotare di una road map con l’obiettivo di azzerare il consumo di suolo zero entro il 2050.
Se andiamo avanti così, nel nostro Paese rischiamo di chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati. Non sarebbe la prima volta.
Joni Mitchell ne parlava splendidamente nel brano Big yellow taxi, nel suo terzo album, nel 1970, in piena stagione hippie Ladies of the canyon. Non è tra le sue canzoni più note, ma credo che ci possa far riflettere. Così lo presentava la grande cantautrice: “Qualche settimana fa sono stata alle Hawaii. Era la mia prima visita e ci sono stata solo per due giorni il che è un peccato perché avrei potuto vedere molto di più dell’isola. Sono atterrata alle 11 di notte e il giorno seguente sono corsa alla finestra, ho spostato la tendina ed ecco il paradiso: colline verdi, le montagne davanti a me, uccelli di tutti i tipi che svolazzavano in giro. E proprio lì, in mezzo a tutto questo, stava un immenso parcheggio. E così ho scritto questo pezzo per commemorare l’evento.” [Vedi qui]
Andare alle Hawaii per due giorni mi sembra uno schiaffo alla sostenibilità, ma si sa, agli artisti che ci piacciono spesso perdoniamo tanto.
Riflettori, passerelle, star e tappeti rossi: si è aperta la 79° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Tutti in trepidante attesa, curiosi, come sempre. Per chi ama il cinema è un appuntamento imperdibile, il Programma ricchissimo, come sempre.
E qui, da undici anni consecutivi, sbarca il Green Drop Award, il premio che Green CrossItalia assegna al film, tra quelli in gara nella selezione ufficiale del Festival, che interpreta meglio i valori dell’ecologia, dello sviluppo sostenibile e della cooperazione fra i popoli. Green Cross Italia è stata introdotta nel 1998, da Rita Levi Montalcini e riconosciuta come organizzazione nazionale del network Green Cross International, fondata nel 1992 dal premio Nobel Mikhail Gorbaciov, da poco scomparso. Green Cross è una ONG per lo sviluppo sostenibile con la missione di affrontare le sfide di sicurezza, povertà e degrado ambientale, sfide rese più gravi e urgenti dalla crisi climatica.
“Il Green Drop Award non è un premio ai meriti artistici, questo lo fa benissimo e da sempre la Biennale; noi vogliamo invece segnalare al pubblico, alla stampa, agli insegnanti nelle scuole e ai giovani e alle giovani tutte quelle opere che aiutano a riflettere e ad aumentare la nostra consapevolezza per uscire dalla crisi ecologica”, dice Elio Pacilio, presidente di Green Cross Italia.
Il 9 settembre, insieme al Green Drop Award 2022 (nessuna anticipazione, attendiamo…), verrà assegnato un riconoscimento speciale al film fuori concorso, Siccità, di Paolo Virzì “che si è assunto la grande responsabilità di esporre un tema così devastante e di incredibile attualità, e per l’impegno della produzione, la Wildside, che anche in questo film ha voluto essere meticolosamente rispettosa dell’ambiente e degli impatti della lavorazione sul clima”, continua Pacilio.
Il trofeo assegnato al film vincitore simboleggia una goccia d’acqua soffiata dal maestro vetraio di Murano Simone Cenedese (a Ferrara noto per il suo albero di Natale) e ogni anno contiene un pugno di terra proveniente da un luogo significativo del pianeta. Quest’anno la “goccia” conterrà la terra del Monte Ararat, come simbolo di speranza e rinascita dopo un periodo di forte sofferenza. L’Ararat, il più alto monte della Turchia orientale (5.137 metri), è di fatto un vulcano coperto dai ghiacci ed è il luogo leggendario dove, secondo la tradizione, si sarebbe incagliata l’arca di Noè alla fine del diluvio universale. Per tale ragione questa montagna è un territorio denso di significati simbolici per molte culture e religioni.
Ecco il programma. Lunedì5 settembre alle ore 19 la Goccia di Murano con la Terra del Monte Ararat arriverà al Lido e sarà presentata al pubblico presso l’Isola di Edipo; martedì 6 settembre, fra gli altri appuntamenti dei “green days” che accompagnano il Green Drop Award a Venezia, saranno presentati i finalisti del concorso “Screen in green”, promosso dal Ministero della Transizione Ecologica in collaborazione con Fondazione Sardegna Film Commission, Premio Solinas e Green Cross Italia. Mercoledì 7 settembre alle ore 14, presso il Venice Production Bridge all’Hotel Excelsior, si svolgerà la tavola rotonda “Sustainable screens 2022”, organizzata in collaborazione con il Mite, Fondazione Sardegna Film Commission e Premio Solinas. Venerdì 9 settembre alle ore 10, all’Italian Pavilion, sarà annunciato il film vincitore del Green Drop Award 2022 e sarà consegnata la Goccia “speciale”, in collaborazione con ENEA, a Siccità di Paolo Virzì.
Il film, interpretato, fra gli altri, da Silvio Orlando, Valerio Mastandrea, Tommaso Ragno, Claudia Pandolfi, Monica Bellucci, Max Tortora, sarà in sala dal 29 settembre.
Una sinossi: A Roma non piove da tre anni e la mancanza d’acqua stravolge regole e abitudini. Nella città che muore di sete e di divieti si muove un coro di personaggi, giovani e vecchi, emarginati e di successo, vittime e approfittatori le cui esistenze sono legate in un unico disegno, mentre ognuno cerca la redenzione.
E un commento del regista: Nel momento in cui le strade delle nostre città erano deserte, ed eravamo chiusi ciascuno a casa propria, connessi l’uno all’altro solo attraverso degli schermi, ci è venuto naturale guardare avanti, interrogandoci su quello che sarebbe stata la nostra vita dopo. Abbiamo iniziato a fantasticare su un film ambientato tra qualche anno, in un futuro non così distante dal presente. Immaginando alcuni racconti da far procedere ciascuno autonomamente, secondo la tecnica del film corale, che man mano scopriamo esser legati l’uno all’altro in un intreccio più grande. Una galleria di personaggi ugualmente innocenti e colpevoli, un’umanità̀ spaventata, affannata, afflitta dall’aridità̀ delle relazioni, malata di vanità, mitomania, rabbia, che attraversa una città dal passato glorioso come Roma, che si sta sgretolando e “muore di sete e di sonno”.
L’edizione 2022 del Green Drop Award è realizzata in partenariato con: Sardegna Film Commission, ANEC, Settimana del Pianeta Terra, Centro internazionale del fumetto di Cagliari. Con il Patrocinio di: Ministero della Transizione Ecologica, Ministero della Cultura
Hashtag ufficiale: #GreenDropAward
Fotografie del film Siccità dalla pagina della Mostra del Cinema di Venezia, del Green Drop Award, cortesia ufficio stampa
Nel nostro Paese, di carcere si parla poco e male. Sembra che anche i politici preferiscano l’affermarsi di pregiudizi piuttosto che si affronti ragionevolmente il problema. Forse per paura di perdere consensi lasciando che una certa informazione faccia una cattiva educazione.
Fëdor Dostoevskij, che la galera l’aveva vissuta, diceva che “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”.
La situazione italiana delle carceri e dei carcerati è drammatica e indegna di un paese vivile, ieri come oggi.
E’ di pochi giorni fa l’ennesimo allarme per il sovraffollamento dei nostri istituti penitenziari. Qualcuno vorrebbe costruirne altre prigioni: per appaltare altri cantieri, non certo per risolvere il problema. L’unica vera strada è quella già indicata da Cesare Beccaria e sancita dalla nostra Costituzione. I dati sono molto chiari, quanto poco conosciuti e poco considerati: i detenuti che scontano la loro pena con misure alternative al carcere sono statisticamente molto meno soggetti a tornare a delinquere. Una strada ancora poco seguita. Da qui la rabbia, la disperazione dei carcerati chiusi in gabbia e le continue rivolte in questo o quell’istituto di pena
La nostra Carta Costituzionale, immaginando una giustizia operante, scommette sul cambiamento delle persone attraverso la rieducazione. La gran parte delle persone che hanno vissuto o stanno vivendo l’esperienza del carcere, prima o poi usciranno, E allora quello che ci dovrebbe preoccupare è che la maggioranza delle carceri, così come sono gestite e organizzate oggi in Italia, non si sono impegnate a rieducare ed aiutare uomini e donne “ristrette” a cambiare. La recidiva del resto come pensiamo di combatterla se non così?
Non tutte le carceri sono uguali e non in tutte si fanno attività rieducative, così come sarebbe previsto. Per fortuna ci sono esempi positivi
Da questo punto di vista, nella Casa Circondariale di Ferrara esistono istituzioni, realtà associative e singoli, che intervengono per offrire diverse attività: dalla scuola all’università, dal teatro al gruppo di lettura, dalla cura degli orti al riciclaggio di apparecchiature elettriche, dal calcio al rugby, dallo yoga alla pallavolo, dal cammino veloce alla ginnastica dolce, dalla scrittura creativa, al giornale.
Una delle iniziative e di attività degna di nota. che vede una buona partecipazione tra i detenuti e che fornisce occasioni stimolanti di creatività e di confronto è quella curata dal regista Eugenio Melloni [1] con un laboratorio di cinema.
La sua è una proposta coraggiosa ed importante sia perché è una scommessa ambiziosa, sia perché può aiutare a creare consapevolezza di sé e altro ancora, nel lavoro progettuale di gruppo.
Qquando ci si mette in gioco in un’attività creativa che coinvolge anche altri, si favorisce ilconfronto attivo e l’assunzione delle responsabilità personali, che sono elementi cardine in un percorso rieducativo.
Eugenio non è nuovo ad esperienza simili, perché già ha realizzato l’ottimo lungometraggioSezione Femminilenel carcere della Dozza.[2]
La sua ricerca è accurata, costante, coerente e determinata. Mi piace ricordare, a proposito di ricerca, che l’anagramma di ‘carcere’ è ‘cercare’ e, anche per questo, Eugenio si può definire un “cercatore di volenterose speranze”.
Un paio di mesi fa, ho avuto occasione di poter partecipare ad una prima visione davvero singolare. In una saletta del carcere di Ferrara, ho visto un quarto d’ora circa del nuovo lavoro di Eugenio, insieme al regista stesso, alle educatrici e ad un gruppo di persone di quella sezione, che stanno partecipando al progetto, arrivato al momento della sua realizzazione. Ho visto l’inizio del film ipotetico che si dovrebbe fare.
Sono rimasto incredibilmente sorpreso dalla capacità del filmato di rendere le emozioni, i pensieri, le paure, i bisogni dei “ristretti” in condizioni difficilissime, quali quella di non dover riprendere il viso delle persone detenute.
Il gioco di luci e ombre è suggestivo, il contrasto dei muri con il cielo provocante, i silenzi interrogano, le voci catturano.
È stata davvero un’emozione forte vivere quei pochi minuti di film; di conseguenza ho immaginato che il prodotto finito possa essere potente. Si annuncia un capolavoro, ho ragionato di primo acchito. Che va oltre l’ambientazione. Che riguarda tutti. Induce un’esperienza nuova. Senza pietismi.
Poi ho pensato che forse stessi esagerando, influenzato dall’ambiente, che si trattasse di un’impressione semplicemente personale, il cinema quante volte inganna?
Tuttavia, sono stato confortato da un commento di Pietro Montani, filosofo, critico cinematografico e professore ordinario di Estetica all’Università La Sapienza di Roma, che il regista mi ha girato:
«Carissimo Eugenio, grazie per aver condiviso con me il primo frammento del tuo nuovo film ambientato nella Casa Circondariale di Ferrara. Sono pochi minuti, ma è già evidente che essi preludono a una ripresa stilistica e, soprattutto, ad un approfondimento drammaturgico del lavoro sperimentale, molto innovativo, che avevi fatto con Sezione Femminile.
Mi rendo conto che in questo caso dovrai rispettare dei vincoli più stretti, soprattutto in termini di tutela della privacy. Ma mi sembra anche molto significativo che queste limitazioni di carattere sostanziale e giuridico alludano a un incremento dell’elaborazione creativa, a cui i protagonisti del tuo cinema sanno di poter fare riferimento: sia che si tratti dei tuoi attori, sia che si tratti del tuo pubblico.
Nello spezzone che mi hai mandato ho visto comparire, in almeno due occasioni, soluzioni formali molto spregiudicate e di alto impatto emotivo, che mi autorizzano a pensare che il lavoro che stai preparando raggiungerà risultati molto notevoli, nella prospettiva, che ti caratterizza, di un intreccio stretto tra l’aspetto artistico e l’aspetto etico e sociale del cinema.
Ti prego di tenermi informato sugli sviluppi del lavoro e fin d’ora ti comunico la mia disponibilità nella prospettiva di eventuali discussioni o presentazioni del film. Con un caro saluto, Pietro Montani.»
Un capolavoro? Perché non dovrebbe essere così? Mi viene in mente una canzone di Fabrizio De André… Del resto quanti capolavori nascono da situazioni estreme? Guerra, sofferenza, tradimenti…. eccetera, eccetera… In un pezzo del filmato si sente una voce che dice: «Se l’uomo vedesse le sbarre delle inferriate che porta dentro, avrebbe conquistato il cielo che vi si apre in mezzo.»
Un invito a metaforizzare il proprio vissuto per poterlo comprendere. Una chiave per oltrepassare i muri che si pensa di avere. Fuori, ma ancor più dentro ad un carcere, dove le sbarre sono la quotidianità.
A queste condizioni di riflessione, vien da pensare, per un’opera d’arte come può essere un film, svilupparsi, poterla realizzare compiutamente diventa una questione di libertà.
Eugenio mi dice che da un punto di vista produttivo, è nato un progetto destinato al Ministero di Giustizia che dà queste opportunità, ma deve avere la partecipazione del Comune, nel nostro caso Ferrara come coordinamento e controllo, senza che per l’ente locale ci siano esborsi economici.
Il regista ha chiesto a proposito un incontro al sindaco e all’assessore alla cultura. È in attesa di essere ricevuto. Quanti aneddoti conosciamo sui percorsi tortuosi affinché un’opera filmica sia realizzata? Tanti. Finiti bene o male.
Tuttavia noi che sentiamo di essere tra le persone libere, speriamo bene.
Note:
[1] Regista teatrale, documentarista e sceneggiatore. ha collaborato a vario titolo con progetti teatrali e cinematografici. Ha messo in scena Le sedie di E. Ionesco, I dialoghi di Leucò di Cesare Pavese, Pazzo d’Amore di S. Shepard e altro ancora.
Per conto della Cineteca di Bologna, in collaborazione con l’ASP Giovanni XXIII, coordina il progetto di ricerca sperimentale Il memofilm, a memoria di uomo sull’uso del cinema nei confronti di malati di demenza, film personalizzati per combattere questa malattia. Al progetto hanno collaborato, Giuseppe Bertolucci, Luisa Grosso, Enza Negroni, Igor Bellinello, Davide Sorlini. Per il cinema, ha scritto i soggetti e co-sceneggiato numerosi film.
Nel 2001 ha scritto L’accertamento, per la regia di Lucio Lunerti. Lungo il suo sodalizio artistico con Stefano Incerti per cui ha sceneggiato tre film: Prima del Tramonto (1999), presentato in concorso al Festival di Locarno; La vita come viene (2003) con Stefania Sandrelli, Toni Musante, Stefania Rocca; Complici del Silenzio (2009) con Alessio Boni e Giuseppe Battiston.
Per la regia di Wim Wenders ha scritto soggetto e sceneggiatura del mediometraggio in 3D Il Volo (2010) con Ben Gazzarra e Luca Zingaretti. Nel 2011 ha curato la regia del documentario 700 anni per vedere il mare con Ivano Marescotti, Premio Medaglia di Rappresentanza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Sezione Femminile (2018), soggetto, sceneggiatura e regia e inoltre Lunetta Gamberini, (2020) regia, documentario Selezione ufficiale Festival internazionale di Salerno.
[2] Il film è nato da un laboratorio di cinema diretto dal regista nella Sezione Femminile di un carcere italiano. Non racconta direttamente questa esperienza, ma ne è il risultato. Un risultato che ci mette in contatto non solo con le condizioni concrete del vivere in prigionia delle detenute (peraltro spesso raccontate), ma con il recupero di una immaginazione forse perduta nei meandri di una tragica e stordente esperienza.
Credo si possa dare per assodato che la semplice appartenenza al genere femminile non rappresenti la condizione unica e sufficiente per dare forma e concretezza al cambiamento di prospettiva di genere di cui molte donne sentono il bisogno e l’urgenza, vivendolo come necessario e praticandolo nella loro quotidianità, in attesa che insieme a loro sia la società a evolversi.
Essere donna non è di per sé garanzia né di obiettivi né di metodo. Basti pensare alla reticenza con la quale moltissime donne ammettano di vivere – e spesso partecipare – ad un sistema patriarcale, al punto da giurare di essere più libere ed emancipate di quanto non siano, non siamo, in realtà.
A scrivere è una femminista tardiva (nel senso che sono approdata al femminismo ben più che in età adulta), per la quale è facile riconoscere stereotipi e automatismi di chi pensa che il maschilismo sia l’unica forma possibile, perché in esso è cresciuta e si è formata e di esso ha inconsciamente accettato le regole sul presupposto para-educativo che “è così che si fa”, o, peggio “è naturale che sia così”.
Di naturale c’è ben poco nell’abitudine alla subordinazione, nel coprire una parte che alle donne è stata affidata nel corso dei decenni, nell’accettare regole che cristallizzano una discriminazione. Non c’è nulla di naturale nemmeno nella cosiddetta famiglia naturale, la cui tutela viene spesso richiamata per tranquillizzare i complottisti delle teorie gender. Niente è più culturale e sociale di una costruzione come la famiglia, dove anche nella forma più comune di relazione tra un uomo e una donna i ruoli sono definiti in base ad un mix di tradizioni, usanze, abitudini.
Se per femminismo intendiamo l’insieme dei movimenti volti a emancipare le donne, renderle libere attribuendo loro gli stessi diritti e le stesse opportunità che hanno gli uomini, è un vero mistero come non tutte le donne siano femministe, anzi, alcune di loro rifiutino categoricamente di poterlo essere, accettando al contempo di essere parte del meccanismo ben oliato del patriarcato tradizionale.
Una solidarietà minima, quella sì, naturale, ci spinge a lottare anche per tutte quelle donne nel mondo che non hanno accesso all’istruzione, non possono guidare, non possono lavorare, la cui estrema povertà le espone a violenze e sfruttamento.
Ma c’è di più. Il femminismo contemporaneo non è estraneo alle battaglie analoghe per la trasformazione dei meccanismi che condannano minoranze o gruppi di persone a subire discriminazioni di sorta. Il femminismo non prescinde dalla lotta contro il razzismo, contro l’omotransfobia, contro le diseguaglianze profonde, contro le tradizionali forme di dominazione sociale, contro la manifestazione del potere. Non solo per empatia
(parola politicamente abusata), non solo perché la lettura del reale indica chiaramente che nella stessa persona possono sommarsi più caratteristiche che la rendono esposta a discriminazioni, ma anche perché sta nel concetto di rappresentanza la tensione a farsi carico della possibile soluzione di problemi che non siano solo i nostri, e, infine, perché le uguali opportunità devono essere per tutte, per tutti, per tutt*, o non
sono.
Ecco perché chi persegue un futuro migliore del presente (migliore per tutte e tutti, non solo come conservazione dei propri privilegi) non può che essere femminista. Ed ecco perché non basta essere donne per essere dalla parte delle donne.
Ferrara, 31.08.2022 Ilaria Baraldi
Portavoce Donne Democratiche di Ferrara
Mancano 45 giorni alla 24 ore per la libertà di Julian Asssange e questo strumento vuole informare e chiedere aiuto per la migliore riuscita della manifestazione del prossimo 15 ottobre.
Adesioni
Tutti i giorni arrivano adesioni soprattutto dall’Italia dove abbiamo già oltre 20 città che si collegheranno. Potete seguire l’evoluzione qui
Molti chiedono come aiutare; ecco un elenco di cose su cui si può dare una mano:
– trovare contatti internazionali; l’idea è nata in Italia ma c’è bisogno di coinvolgere a livello internazionale: contattate amici, associazioni e coinvolgili o passa il contatto a24hassange@proton.me
– organizzare un evento locale dalle tue parti
– dare una mano sui socials; creare socials almeno in inglese
– cercare personalità artistiche e culturali che aderiscano anche solo mandando un video: puoi provare a contattarle su intenet mandandogli l’appello; lo stesso per associazioni e giornalisti
– dare una mano in aspetti tecnici: gestione della diretta, connessioni, riprese video, foto
Per tutte queste cose scrivi a 24hassange@proton.me e ti metteremo in contatto con la persona responsabile
Sentiti parte del comitato promotore !! Sentiti parte del grande grido:
Assange Libero !!
Un abbraccio
Il Comitato Promotore
Ultimi atti del calvario giudiziario di Julian Assange, tra i fondatori diWikiLeaks :
– Ad inizio dicembre 2020 il relatore ONU sulla tortura, Nils Melzer, oltre a rinnovare l’appello per l’immediata liberazione di Assange, chiede che – in attesa della decisione sull’estradizione prevista per gennaio 2021 – questi venga almeno trasferito dal carcere a un contesto di arresti domiciliari.[16][17]
– Il 5 gennaio 2021 la giustizia inglese nega l’estradizione di Assange per motivi di natura medica, nello specifico per il bene della sua salute mentale poiché alto è il rischio di tendenze suicide.[18]
– Il 10 dicembre 2021 l’Alta corte di Londra ribalta la sentenza che negava l’estradizione[19].
– Un ulteriore passo verso la consegna di Assange ai tribunali americani avviene il 14 marzo 2022: la Corte Suprema del Regno Unito respinge il ricorso presentato dai legali dell’australiano, lasciando l’ultima decisione al ministro dell’interno Patel[20].
– Il 21 aprile 2022 la Westminster Magistrates’ Court di Londra ha emesso l’ordine formale di estradizione negli Usa per Julian Assange, durante l’udienza a cui l’attivista australiano ha assistito in videocollegamento.
Per saperne di più: Alessandro Marescotti su periscopio[Vedi qui] Julian Assange su wikipedia[Qui]
“Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa”. Questo incipit della famosa e disperata poesia-denuncia di Allen Ginsberg, letta per la prima volta nel 1955 ad un reading collettivo alla Six Gallery, mi è venuto alla mente leggendo i versi del bel libro di Roberto Dall’Olio, I ragazzi dei giardini, Ed Pendragon, 2022.
Versi pieni di rabbia, di tristezza e, perché no, di sensi di colpa che mi rimandano una mescolanza di ricordi e di esperienze lavorative.
“Ricordate/ Ricordiamoli/ erano ribelli/ poca scuola/ molta vita/ molta notte/ l’ideologia finita/ erano di sinistra/ erano maledetti/ erano ignari/ tutti lo eravamo/ finito il piombo/ del settantasette/ arrivò lo scirocco/ americano/ la droga/ per spegnere/ la giovinezza/ la ribellione/ poi gli spacciatori/ senza scrupoli/ che ghiotta occasione/ Ricordiamoli/ Ricordate”.
Dai tempi delle Magistrali, passati in una classe dove dominava l’approccio goliardico (anche pesante) alle cose, ai compiti scolastici di ogni giorno. Anche la scelta monacale di un compagno o l’interesse per la politica di qualche altro, erano passate senza scalfire più di tanto il vivere quotidiano. L’uso di sostanze stupefacenti si affacciò prepotente quando le scuole superiori erano ormai finite.
Iniziarono ad arrivarmi notizie di diversi compagni che erano diventati tossicodipendenti. Ragazzi che pensavano di essere più forti di ogni contrarietà della vita e, perché no, l’assunzione di una o più sostanze poteva aiutare…
Poi, gli incontri ravvicinati e, spesso, drammatici con ragazze e ragazzi sono stati quotidiani sia al centro giovanile, dove lavoravo come operatore, sia in comunità terapeutica, dove ho trascorso quasi sei anni di full immersion come educatore professionale. Rodolfo, Attilio, Guglielmo, Giannina, Vinicio, Catia, sono solo alcuni dei nomi di storie concrete con cui mi sono rapportato ogni giorno. Alcune storie continuano, riuscendo a dare un taglio netto con quella non vita e altre, purtroppo, no. A lungo ho pensato ai tanti episodi vissuti in quel micromondo che era la comunità terapeutica. Agli errori di valutazione commessi e ai successi dove il merito era soprattutto loro. Noi educatori eravamo le loro stampelle come quei piccoli alberelli che pian piano provano a crescere e poi arrivano a riaffrontare la vita e un nuovo futuro. A rimettere radici.
Le poesie di Dall’Olio ci/mi ricordano anni quasi passati nel dimenticatoio. Riporto una lirica diretta come un pugno nello stomaco.
LORO
Avevano i capelli lunghi gli orecchini i jeans alla varechina stavano sulle panchine dei giardini ricordi lo zoo di Berlino? Erano un modello e una moda non usare la roba ti escludeva da quel luogo non c’era più politica i blindati erano passati i terroristi non aveva presa Nemmeno il Partito Una giovinezza Tarlata Come mobili lucidi In apparenza Sotto soffiava La violenza Contro se stessi Nelle spade piantate in vite Piene di onnipotenza Sovrumana E ancora tarli Polvere Nessuno poteva sapere E’ bastata è bastata Anche una Una volta Maledette Pere
Anche il linguaggio poetico asciutto può aiutare a non dimenticare ma non basta. Lo sappiamo e non si può mai demordere o rimandare agli altri.
“I ragazzi dei giardini”, l’ultimo libro di Roberto Dall’Olio è reperibile nelle migliori librerie di Bologna e Ferrara.
Roberto Dall’Olio (1965), bolognese, docente di filosofia e storia al Liceo Classico Ariosto di Ferrara. Ha pubblicato diversi volumi di poesia. E’ del 2015 il poema “Tutto brucia tranne i fiori” Moretti e Vitali editore- nota di Giancarlo Pontiggia postfazione di Edoardo Penoncini – con il quale ha vinto il premio Va’ Pensiero 2015. Con l’editore L’Arcolaio ha pubblicato il poema Irma con note di Merola, Muzic, Sciolino, Barbera e la raccolta di poesie “Se tu fossi una città” con nota di Romano Prodi. Nel 2021 ha pubblicato Monet cieco (Ed. Pendragon). Vive a Bentivoglio nella pianura bolognese dove è presidente della sezione locale dell’ANPI.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]
Grande successo di pubblico e una valanga di nomination al David di Donatello 2022, ben 11, e due prestigiosi Premi, Miglior attore protagonista, consegnato a Silvio Orlando e migliore sceneggiatura originale, a Leonardo Di Costanzo, Bruno Oliviero e Valia Santella.
Parliamo di Ariaferma, film di Leonardo Di Costanzogirato, in pieno lockdown, in Sardegna, a Sassari, all’interno del carcere in tufo di San Sebastiano, costruito nel 1871, diventato il carcere ottocentesco di Mortana del film, spazio immaginario che richiama il penitenziario di massima sicurezza, e che nessuno sembra più voler abitare, né i carcerati, né le guardie né tantomeno il tempo che si dimentica di tutto e di tutti, implacabile.
Alienazione, solidarietà, onore, rispetto, codice barbaricino di un entroterra misterioso, inerzia, limbo di coabitazione forzata in attesa di sviluppo sono parte del linguaggio lineare di un film intenso e magistralmente interpretato da due protagonisti che si fronteggiano con reciproco rispetto, Toni Servillo e Silvio Orlando, rispettivamente Gaetano e Don Carmine Lagioia.
Gaetano è l’ispettore di Polizia Penitenziaria lasciato con un pugno di colleghi (cinque) e una dozzina di agenti a gestire dodici detenuti, che poi diventano tredici, in un carcere sperduto in Sardegna. Un carcere vecchio, antico, malridotto, cadente, che sta chiudendo, con carcerati tutti trasferiti, tranne quei dodici, che devono aspettare, insieme alle guardie, in una lunga e interminabile attesa (“L’ordine di trasferimento può arrivare in qualsiasi momento, anche domani”, ripete Gaetano, come un mantra che vuole convincere tutti, ma cui si fatica a credere). E si aspetta, sospesi nello spazio e nel tempo, con una tensione continua che però non sfocia mai in protesta.
“È dura stare in carcere, eh”, dice a un certo punto Don Carmine, un boss camorrista a fine pena, rivolto a Gaetano. Non è una provocazione, Don Carmine è intelligente e scaltro, non vuole alimentare malumori o tensioni. La sua è la frase simbolo in una pellicola silenziosa, dai toni bassi, che fa della fotografia e delle immagini le migliori alleate e narratrici: alcuni stanno dietro le sbarre, altri no, ma in fondo il carcere è carcere per tutti. “Io e te non abbiamo nulla in comune,” si lascia scappare Gaetano a un certo punto, sotto tensione. Ma lo sa bene che non è vero. Così come lo capiamo anche noi.
C’è comunque tanta umanità, nelle vite che si intrecciano, anche a costo di violare le regole. Basta soffermarsi sulla vicenda di Fantaccini (l’esordiente Pietro Giuliano), ragazzo problematico che diventa il tredicesimo detenuto dopo l’ennesimo scippo. Gaetano, che l’ha visto entrare e uscire di lì troppe volte, gli vuole bene e non lo nasconde, così come non lo fa Lagioia, che, alla fine, se ne prende cura. Il contatto umano rimane sempre vivo, la confidenza è un bisogno inespresso, i protagonisti sono separati da sbarre reali ma anche invisibili, l’altro diverso da sé non è poi così altro o diverso. Sguardi eloquenti interminabili.
L’aria è ferma nel carcere di Mortana, esattamente come il tempo. Un destino comune.
Un film importante, carico di pathos e di umana bellezza, da non perdere.
Ariaferma, di Leonardo Di Costanzo, con Toni Servillo, Silvio Orlando, Fabrizio Ferracane, Salvatore Striano, Italia, 2021, 117 min.
“The great rock’n roll swindle” è un film del 1980 nel quale il manager dei Sex Pistols, Malcolm Mc Laren, racconta che il punk fu una gigantesca operazione commerciale fintamente iconoclasta per fare un mucchio di soldi. Una truffa (swindle, appunto). Con il senno di poi e il fiuto di sempre, Mc Laren diceva solo una parte della verità; ma non può essere considerato impostore chi, in sostanza, dà dell’impostore a se stesso.
Il primo a parlare di truffa sui prezzi dell’energia è stato l’attuale Ministro per la Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, che non può certo, in materia, essere definito un impostore.
Poi si è defilato, perché un ministro ha l’obbligo della prudenza e della diplomazia – o forse più banalmente perché gli hanno detto che è meglio se sta zitto. Sta di fatto che durante la guerra in Ucraina le forniture del gas russo all’Europa e all’Italia non si sono mai interrotte.
Quindi non c’è stato, finora, nessun problema di squilibrio tra domanda e offerta di gas che possa giustificare il decollo dei prezzi al consumo.
Per spiegarne le ragioni cito chi di sicuro non è un comunista- populista-incompetente- nemico-del- mercato, cosa che potrei essere io. Alfonso Scarano, analista finanziario indipendente;
Dice Scarano, rispondendo a un’intervista di Andrea Trucco su Valigia Blu: “Il problema in Italia dipende innanzitutto dal fatto che Arera (l’ente pubblico che vigila sul mercato dell’energia elettrica e del gas naturale) fa riferimento ai dati del mercato spot sul gas naturale. L’aumento del prezzo sul mercato finanziario ha portato a un’induzione degli aumenti di prezzo nei consumi perché Arera prende questi dati in maniera quasi automatica, asettica, anche se questi sono staccati dal cosiddetto prezzo doganale, cioè quello relativo al gas fisico che passa nei gasdotti e sul quale vengono poi calcolate le accise. Per dirla in maniera più semplice:il prezzo fisico si è distaccato da quello speculativo… La mia tesi, o potremmo dire un legittimo sospetto, è che ci sia stata una manipolazione del mercato TTF che mira a stravolgere gli equilibri geopolitici. Penso per esempio al fatto che nel giro di poco tempo gli USA sono riusciti a piazzare all’Europa 15 miliardi di metri cubi di GNL a prezzi esorbitanti: un risultato impensabile appena pochi mesi fa. Ma soprattutto ha permesso ai nostri tre operatori principali sul gas, vale a dire ENI, Snam ed Edison, di posizionarsi in una rendita parassitaria, lucrando con la differenza tra i prezzi reali alla fonte e i prezzi speculativi”.
Ancora – perché quando un addetto ai lavori dice le cose bene, non si può dirle meglio: “…anche una tassazione maggiore non risolve del tutto la questione. Bisogna andare alla radice del problema, rivolgendosi al mercato TTF di Amsterdam e rivolgendosi a trader professionisti, anche perché si tratta di un mercato talmente di nicchia che si conoscono tutti gli operatori. Serve un’inchiesta internazionale, seria e di parti terze, per capire se determinati soggetti hanno stabilito cartelli e accordi sottobanco”. Infine: “Se ci fosse una reale volontà politica si potrebbero obbligare aziende come Eni a restituire ciò che hanno guadagnato a chi ha perso tanto o tutto.”(per l’intervista integrale leggi qui).
Queste dichiarazioni sono di Alfonso Scarano, analista finanziario indipendente. Che non sarà l’oracolo di Delfi, però, se il primo a parlare di “truffa” sui prezzi dell’energia è stato l’attuale Ministro per la Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, molto inserito negli ambienti che contano e certamente aduso alla cautela, credo che siamo messi male.
Poi ci sono i fenomeni che stanno al governo ma che non riescono a stare zitti (non nel senso di Cingolani, voce dal sen fuggita). E dovrebbero invece tacere, visto che hanno emanato una norma che (timidamente) vorrebbe far pagare ai nostri produttori di energia una tassazione straordinaria sui profitti straordinari che hanno accumulato in questi mesi, e non ci riescono assolutamente.
Allora, i casi sono tre: o scrivono male le norme (grave, per dei seri e competenti, anzi, i “migliori”); o hanno fatto male i calcoli del gettito previsto (visto che hanno incassato un decimo dello stimato); oppure chi non paga se ne frega dello Stato e dei cittadini, e questo menefreghismo è praticato, tra le altre, da un’azienda che è detenuta al 30% dallo Stato.
Invece si permettono anche di pontificare. Tipo il nostro spocchioso quant’altri mai Luigi Marattin (deputato di Italia Viva), che dà del populista sovietico a Maurizio Landini, mentre dovrebbe chiedersi per quale arcana ragione, invece dei 10 miliardi di sovrattassa alla aziende del gas per gli extraprofitti che il governo (di cui Marattin fa parte) doveva incassare entro giugno. sono arrivati solo 800 milioni. E magari, da grande economista quale dice di essere, trovare un rimedio a questa vergognosa disfatta dello Stato.
In Italia chiunque parli di misure redistributive – che prelevino da chi accumula ricchezze e restituiscano a chi perde reddito e potere d’acquisto – è un ‘populista’. Punto e a capo.
Invece i fautori del laissez-faire , i liberal liberisti, per i quali i mercati non sono speculativi, ma fanno semplicemente il loro mestiere, sono le persone serie.
Peccato, però, che la loro mitologica ‘classe media’, quella che dichiarano di voler difendere, scivolerà nel giro di tre bollette nell’incubo di non avere i soldi per fare la spesa. E intanto leimprese, a una a una, stanno chiudendo i battenti, perché produrre in perdita a causa del caro energia non conviene. Evviva il neoliberismo.
Sembra non finire mai la telenovela delle navi che trasportano cereali (grano e mais in particolare) dai porti dell’Ucraina verso i paesi importatori, tra i quali non figura certamente l’Italia, che sicuramente necessita di questi importanti prodotti agricoli, ma dipende marginalmente dal paese invaso dalle truppe russe per i propri approvvigionamenti.
Ma e vero che l’Italia dipende dal grano russo e ucraino?
Le notizie apparse in questi ultimi mesi su quotidiani e telegiornali, mai così frequenti e numerose, hanno fatto pensare che molti paesi, e anche il nostro, fossero fortemente dipendenti dai paesi in conflitto per il commercio dei cereali.
Non è esattamente così, e a dirlo è ISMEA (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) Ente del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, che in un recente report descrive l’attuale situazione, affermando che le anomalie “del mercato delle commodity agricole, cominciata dalla fine del 2020, è da ricondurre a una moltitudine di fattori che hanno agito in maniera concomitante: pandemia mondiale, vigorosa ripresa della domanda nelle fasi post pandemiche, forte aumento delle richieste all’estero della Cina di cereali e soia, dazi all’export imposti dalla Russia, eventi climatici estremi, guerra in Ucraina”.
Alcuni di questi fattori si sono di recente modificati e, continua il report di ISMEA: “l’andamento del mercato mostra segnali di flessione, risentendo dell’accordo raggiunto tra Ucraina e Russia per sbloccare i porti ucraini del Mar Nero e delle prime indicazioni circa l’aumento dei raccolti nordamericani. Infatti, a luglio 2022 l’Indice FAO, che monitora l’andamento dei prezzi internazionali delle commodity agricole, evidenzia un calo dei prezzi dei cereali dell’11,5% su base mensile, rimanendo comunque più elevato del 16,6% rispetto a luglio 2021.”[1]
Certo, la realtà di questo comparto è particolarmente complessa, e non da oggi si assiste periodicamente a ricorrenti crisi, associate principalmente al regime dei prezzi delle materie agricole. A partire dalla seconda metà del 2020, afferma ISMEA, “lo scenario internazionale dei mercati è stato caratterizzato da un significativo e generalizzato incremento dei prezzi delle principali commodity energetiche e agricole, riconducibili a un insieme di fattori di natura congiunturale, strutturale e speculativa”, e della “improvvisa e intensa ripresa della domanda mondiale nella prima fase post-pandemica, e dei relativi problemi organizzativi e logistici dei principali scali mondiali”.
Come dicevo, le notizie apparse recentemente su una possibile crisi alimentare sono state spesso confuse e superficiali. In sostanza, non si comprende – o non viene fatto capire – chi e come possa essere coinvolto dalle situazioni originate dalla guerra Russo-Ucraina. A inizio giugno, La Repubblica scriveva: “Ucraina, nel deserto del porto di Odessa: “Qui il grano arriva e poi non riparte. Così il blocco favorisce i russi e i colossi americani dell’export”. A sua volta, Il Fatto Quotidiano paventava addirittura una “guerra del pane”, spiegando poi che: “dall’inizio del conflitto in Ucraina i prezzi dei cereali hanno continuato a crescere aumentando il rischio di una carenza globale di cibo e di un impatto devastante sui Paesi in via di sviluppo”.
Da questi pochissimi esempi si evidenzia che due sono i fattori che possono portare ad uno stato di crisi alimentare in relazione alla disponibilità dei principali cereali utilizzati a livello mondiale: da un lato le produzioni, dall’altro i prezzi. E’ ovvio, infatti, che se anche c’è disponibilità di prodotto ma i prezzi delle materie agricole sono elevati, il risultato è che molti Paesi non sono in grado di importarne le quantità necessarie al proprio fabbisogno.
A questo proposito, emblematico è stato il caso dell’India, dove, a fronte di ottimistiche dichiarazioni di disponibilità nei primi mesi dell’anno ad esportare quantitativi record di grano (10 mln di t), e che si era detta pronta a “sfamare il mondo”, a metà dello scorso maggio, a causa di un’ondata di caldo torrido che ha ridotto la produzione e rialzato i prezzi, ne ha vietato le esportazioni, mettendo in crisi molti Paesi in via di sviluppo che da quel grano dipendono. (ascolta il servizio di Radio3)
Può essere utile quindi descrivere il comparto cerealicolo fornendo qualche dato in più, ricordando però che il mercato di queste importanti materie prime dipende non solo dai quantitativi prodotti e dai prezzi, ma anche dalle dinamiche di altri comparti, a cominciare da quello dell’energia.
Cereali: quote di produzione mondiale, import ed export
La produzione totale di cereali (mais, grano, riso, avena, orzo, ecc.) nel mondo viene stimata per il 2021 in 2.791 milioni di tonnellate secondo la FAO, un dato molto superiore a quello stimato dall’organizzazione intergovernativa International Grains Council (IGC), che lo valuta in 2.226 mln di tonnellate.
Relativamente al solo frumento tenero ISMEA, su dati dell’IGC[2], riporta una produzione media stimata nel triennio 2020-22 di circa 772 mln di t. con Cina, India. Russia, USA e Francia i primi 5 produttori mondiali (52%).
Attenzione: l’Ucraina risulta solo settima in questa classifica, contribuendo con il 4% alla produzione mondiale. A livello di esportazioni il primo paese è la Russia con il 21% del totale commercializzato, seguita dagli USA (14%), e dal Canada (11%); a seguire Ucraina e Francia con il 10% ognuna. Le principali destinazioni dell’export, ma relativamente al triennio 2018-20, per la Russia sono l’Egitto e la Turchia, per gli USA il Messico e le Filippine e per il Canada l’Indonesia e la Cina. La Francia invece esporta principalmente in Algeria, mentre l’Ucraina in Egitto e Indonesia. L’Ungheria è il paese che esporta in Italia la quota più rilevante (23%) del totale importato, seguita dalla Francia (16%), mentre dall’Ucraina ne riceviamo solo il 3%.
Per il frumento duro, a fronte di una produzione media mondiale (anni 2020/22) di quasi 33 mln di t, i principali paesi produttori sono il Canada con il 15 % del totale, l’Italia (12%) e la Turchia (10%). Le esportazioni invece non riflettono la classifica di produttori: infatti se il Canada rimane primo anche in questo caso, le destinazioni sono principalmente l’Italia e il Marocco (19%). Secondo paese per export è la Francia che invia in Italia il 36% del duro commercializzato, poi la Repubblica Ceca che esporta in Germania e Austria e a seguire sono USA, Kazakistan, Russia e Ucraina i paesi esportatori di frumento duro. L’Italia importa il 46% di questo cereale dal Canada, mentre per Grecia, USA e Francia assieme la quota complessiva importata si assesta al 22% del totale.
Per il mais, che in termini produttivi rappresenta il cereale maggiormente coltivato al mondo, l’Ucraina detiene un ruolo rilevante nel mercato, non tanto in termini produttivi, in quanto rappresenta solo il 3%, ma per essere tra i principali esportatori, soddisfacendo il 15% delle richieste globali. La Russia, al contrario, è marginale sia in termini produttivi che di export, sempre secondo i dati elaborati da ISMEA. I principali produttori di questo cereale, che, va ricordato, viene utilizzato soprattutto per l’alimentazione animale, sono gli USA (31%), la Cina (23%), il Brasile (9%) e l’Argentina, che con il 5% si colloca prima dell’Ucraina. Il maggiore esportatore di mais sono gli USA, seguiti da Brasile, Argentina e Ucraina.
La Cina, pur essendo il secondo produttore al mondo di mais, è il primo paese destinatario dell’export dall’Ucraina. Per quanto riguarda il nostro paese i principali fornitori di mais sono in ordine di importanza l’Ungheria (30% sul totale importato), poi Ucraina seguita da Francia, Austria, Croazia e Germania, secondo le statistiche riferite al 2021. Dall’Ucraina ne importiamo il 15%.
Il riso, infine, che nel contesto mondiale risulta il terzo cereale per quantità prodotte (oltre 500 mln di t nell’annata 2021/22 secondo le rilevazioni dell’IGC), ovviamente non riveste una grande importanza per il nostro continente. Il commercio di riso nell’anno in corso ha raggiunto quantitativi record nei mercati dell’Asia e dell’Africa. La produzione globale 2022/23 è prevista leggermente in calo a causa di potenziali riduzioni dei principali produttori, tra cui l’India, mentre la domanda mondiale di importazioni nel 2023 dovrebbe rimanere elevata per la situazione dell’Africa.
L’andamento dei prezzi
Di notevole interesse le dinamiche dei prezzi dei vari cereali, che, nello scenario di grande incertezza che si sta vivendo, ma da valutazioni un po’ troppo superficiali, risulterebbero in aumento solo negli ultimi mesi e, principalmente, a causa del conflitto in Ucraina, in base a quanto comunicato dalla maggioranza dei media a partire dalle prime settimane dall’inizio della guerra. In realtà, stando ai dati del report di ISMEA: “gli incrementi di prezzo più consistenti per i principali cereali, si sono registrati già dallo scorso anno, mentre tra gennaio e aprile 2022 questi sono stati decisamente più contenuti”[3].
Se si analizzano i singoli casi, nel report, per quanto riguarda il frumento duro, viene riportato che “ il conflitto in atto non ha alcuna connessione diretta in ragione del fatto che produzione ed esportazione mondiale sono influenzate dal Canada, il quale nel 2021 ha perso il 60% dei propri raccolti”.
Alla luce di questa precisazione si osserva che la crescita dei prezzi del frumento duro si è verificata dal giugno 2021 – quando era quotato poco più di 269 euro/t – arrivando a 514 euro/t a novembre (+245 euro/t) e assestandosi attorno ai 500 euro/t da dicembre in poi e registrando una quotazione di 519 euro/t secondo i dati aggiornati al giugno scorso. Le semole di grano duro (in Italia di notevole importanza per la produzione della pasta secca) hanno subito un aumento dei prezzi da 412 euro/t nel giugno 2021 a circa 782 euro/t a novembre, rimanendo praticamente costanti nei mesi successivi fino alle ultime rilevazioni.
Per quanto riguarda i prezzi medi del frumento tenero i dati statistici hanno mostrato una crescita non così evidente come per il duro; dai circa 230/240 euro/t di metà 2021 si arriva, con qualche oscillazione ai circa 313 euro/t di febbraio 2022. Poi, da questo mese, i prezzi sono saliti fino a circa 409 euro/t, anche a causa del conflitto russo-ucraino, per poi scendere a poco più di 361 euro/t dello scorso luglio.
Per il mais la situazione sostanzialmente è stata di leggero aumento dall’aprile 2021 (circa 233 euro/t), con un’impennata a marzo e, ultimo dato di aprile, leggero calo a circa 371 euro/t. Permangono le preoccupazioni sulla mancanza del mais ucraino, e non sono positive le prime indicazioni per la prossima campagna di commercializzazione 2022/23.
Qualche considerazione
Al termine di questa lunga, e forse un po’noiosa, elencazione di numeri e dati, due considerazioni.
Da un lato, come già detto in apertura, è possibile affermare che l’informazione proveniente dai principali media (giornali e TV) risente di scarso approfondimento, poca chiarezza e imprecisione.
Abbiamo assistito ad episodi che possono far sorridere sia per la superficialità che per la troppa enfasi data ai fatti raccontati. Come il 13 agosto, quando una nave proveniente dall’Ucraina giunge al porto di Ravenna con un carico di 15mila tonnellate di mais per alimentazione animale. (Agenzia ANSA – Ucraina: a Ravenna la nave con 15mila tonnellate di mais. Prima in Italia dopo lo sblocco diplomatico, arriva da Odessa). In un notiziario TV ho potuto assistere a una diretta con una giornalista che commentava alcuni momenti delle operazioni di scarico.
Sulla pagina online del Resto del Carlino c”è anche un video che mostra l’arrivo della nave al porto di Ravenna, lo scarico del prodotto e i relativi controlli. Tutte operazioni di routine che non presentano nulla di eccezionale e si ripetono quotidianamente in questo e in tanti altri porti italiani. Nel servizio TV e nel video si vedono gli addetti ai controlli che prelevano campioni della granella di mais per le analisi che, specie per questo cereale, vengono normalmente effettuate per verificare la eventuale presenza di tossine prodotte da muffe. Anche qui nulla di strano, ma per l’enfasi data alla notizia, e per il contesto in cui la si racconta, le operazioni descritte sembrano risultare straordinarie.
Un’ultima domanda a cui rispondere, ma dal punto di vista quantitativo il carico arrivato a Ravenna è tanto o è poco?
Si consideri che nel 2021 l’Italia ha importato dall’Ucraina 785.000 tonnellate di mais su una produzione nazionale di circa 6 milioni di tonellate (dati ISTAT). Premettendo che le importazioni di mais dell’Italia dall’Ucraina sono importanti e che nel 2020 hanno rappresentato il 13% dei volumi complessivi (prima del 2020 i volumi erano molto più elevati e il “peso” del mais ucraino arrivava al 20%), attualmente ne rappresentano poco meno del 50% della domanda interna, con un andamento crescente da alcuni anni a questa parte in conseguenza del crollo delle superfici a mais in Italia (per fattori climatici e di mercato). Le 15.000 t del carico arrivato a Ravenna rappresentano perciò circa il 2% della quantità importata dall’Ucraina lo scorso anno, e quindi per raggiungere quella stessa quota occorrerebbero più di 50 navi con un carico equivalente.
La conclusione ovvia è che il carico arrivato in Italia il 13 agosto non ha presentato nessun carattere di eccezionalità.
NOTE [1]“Tendenze e dinamiche recenti”, ISMEA, agosto 2022. [2]“Dinamiche fondamentali dei cereali e situazione degli scambi commerciali con Ucraina e Russia”, ISMEA, marzo 2022. [3]“L’impatto della crisi Russia-Ucraina sui prezzi dei cereali e della soia e proiezioni per la campagna 2022/23”, Report Focus on, ISMEA, maggio 2022.
Due giorni per esplorare l’anima più nascosta e rigogliosa della città estense
Il consueto appuntamento annuale, da annotare e non perdere, con le eleganti corti rinascimentali, gli orti medievali nascosti da alte mura di cinta, le piccole oasi fiorite di tranquillità e pace domestica, le geometrie zen e i labirinti di siepi, i profumi e i colori che avvolgono le nubi, i magnifici alberi secolari e gli arboreti insospettabili, celati alla vista dei passanti curiosi dalle facciate degli antichi e imponenti palazzi. Merletti su merletti.
Ferrara custodisce gelosamente, all’interno del proprio centro storico uno spettacolare patrimonio di curatissimi giardini privati, degni delle fiabe più belle e custodi di storie d’amore reali o sognate. Un patrimonio che eccezionalmente si aprirà alla comunità grazie al festival Interno Verde. Come avviene dal 2016. Ammetto che non mi sono persa un’edizione.
“La natura non ha fretta, eppure tutto si realizza” (Lao Tzu)
Sabato 17 e domenica 18 settembre si potranno esplorare oltre cinquanta giardini, gentilmente aperti dai loro proprietari. Isole segrete ricche di suggestioni e ricordi, attraverso i quali è possibile leggere la storia, i cambiamenti e i vissuti della città.
Negli anni il numero dei giardini visitabili è aumentato, segno di una crescente predisposizione della cittadinanza a condividere spazi, storie e valori. Un bellissimo momento di scambio e di confronto, soprattutto quando sti stanno ad ascoltare i proprietari che ci raccontano storie e aneddoti di quelle realtà tramandate e curate nel tempo.
L’assenza di un giardino fa apparire edifici e palazzi opere grossolane. (Francis Bacon, Saggi, 1597-1625)
L’obiettivo del festival è, fin dalla sua creazione, quello di sensibilizzare i visitatori al rispetto della natura, fornire una chiave per interpretare più profondamente il senso dello spazio che si attraversa, meglio se in silenzio, sollecitare una più completa comprensione del passato e maggiore consapevolezza della ricchezza presente, che va tutelata e promossa. Per questo ogni giardino sarà accompagnato da informazioni di carattere botanico, storico e architettonico, che saranno a disposizione online nella mappa interattiva dell’evento e in formato audio, su Spotify. Le stesse schede, corredate di belle fotografie, saranno raccolte in un volume a tiratura limitata, in omaggio a chi si iscrive entro venerdì 16 settembre, arricchito quest’anno da un’originale collezione di figurine.
“Colui che danza cammina sull’acqua e dentro una fiamma”
(Federico Garcia Lorca)
Accompagnerà la manifestazione un fitto calendario di iniziative dedicate all’ambiente: mostre e installazioni artistiche, laboratori per adulti e bambini, picnic e gite fluviali. Da non perdere Interno Verde Danza, la rassegna organizzata insieme al Teatro Comunale Claudio Abbado, che porterà nei luoghi più significativi della città, da Palazzo Schifanoia a Casa Romei, le performance site specific di compagnie di danza contemporanea di rilievo internazionale. Ci saranno Nicola Galli (Il mondo altrove) e C.G.J., collettivo Giulio e Jari (Evento), al Chiostro di San Paolo, Michele Merola (Short stories), prima mondiale, al cortile di Casa Romei, Aterballetto (Microdanze/urban setting), a Palazzo Schifanoia e Collettivo Cinetico (O+< Scritture viziose sull’inarrestabilità del tempo) a Palazzina Marfisa d’Este. Rituali danzati, ricerca e creazioni di formati performativi, contatto e sinergia con la bellezza dello spazio che ospita la danza, ricerca e profondo studio del movimento. Da non perdere.
Quest’anno l’associazione lancia, per la prima volta, Interno Verde Design, un concorso rivolto ai giovani grafici e illustratori under 35, chiamati a realizzare un poster che rappresenti ed esprima al meglio l’anima della manifestazione e uno dei suoi luoghi più amati e significativi, il giardino di Casa Hirsch. Ad esaminare gli elaborati una giuria d’eccezione: Giulia Nascimbeni, grafica e fotografa che da anni firma l’immagine ufficiale dell’evento, Emiliano Ponzi, illustratore di fama internazionale con alle spalle innumerevoli premi e collaborazioni di prestigio, dal Salone del Mobile al New Yorker, da Vanity Fair a Moleskine, e Vasco Brondi, cantautore che da sempre ha abbinato alla produzione musicale una particolare attenzione nei confronti del disegno, collaborando con artisti quali Gipi, Andrea Bruno, Gianluigi Toccafondo, Marco Cazzato, Nicola Magrin e Davide Toffolo. Ponzi e Brondi sono cresciuti a Ferrara, e proprio in virtù dello speciale legame conservato con il capoluogo estense, hanno voluto supportare l’iniziativa.
C’è poi un’altra bella iniziativa: la caccia al tesoro di Wildflowers.
Il laboratorio floreale realizzerà tre installazioni nei giardini segreti aperti eccezionalmente al pubblico in occasione del festival. Si tratta di lavori site specific realizzati ad hoc per l’evento, dedicati ai fiori, alla coltivazione sostenibile, alla multiforme idea di flower design. La partecipazione è libera e gratuita. Chi vuole cimentarsi nel contest deve semplicemente iscriversi al festival, scovare le installazioni, scattare a ciascuna una foto e condividerla su Instagram, taggando @internoverde e @wildflowers.lab.
Nello stesso weekend, chi avrà trovato e immortalato le tre opere, potrà passare nel negozio di via Boccacanale di Santo Stefano 16, a ritirare il premio: un buono sconto per l’acquisto di piante e fiori, il libro con le descrizioni e le immagini dei giardini aperti da Interno Verde a Parma e a Mantova (per completare il trittico delle edizioni 2022) e le figurine che completano l’album di Interno Verde Ferrara.
Interno Verde è patrocinato dalla Regione Emilia-Romagna, dal Comune e dall’Università di Ferrara, dall’Associazione Italiana Architettura del Paesaggio, dall’Associazione Nazionale Pubblici Giardini, dall’Associazione Parchi e Giardini d’Italia.
La questione della pace è primaria nella politica perché include tutte le altre: giustizia, economia, povertà, uguaglianza, ambiente e clima, energia, lavoro, sanità, relazioni internazionali, scuola e istruzione, informazione, libertà…
Per assicurare la pace, una pace giusta e stabile, è necessario ripudiare la guerra. Questo rifiuto in Italia è un impegno costituzionale (art. 11), ma è anche, in tutto il mondo di oggi, esigenza primaria della razionalità politica, di una politica secondo ragione, non folle e criminale.
Oggi, ma già da Hiroshima 1945, la guerra non è più giustificabile, è impossibile che abbia fini giusti perché accende pericoli estremi, totali.La guerra è fuori e contro la ragione politica, contro la difesa dell’umanità.
Ma non basta. È necessario emanciparsi moralmente dall’atteggiamento armato, e smontare politicamente l’enorme apparato bellico, che è spreco di risorse, produttore di cultura di guerra, di corruzione civile, di speculazione sul consumo di armi, ed è causa di focolai di guerra.
Per assicurare una pace giusta e stabile è necessarionegare collaborazione politica, economica, culturale, emotiva, psicologica, alle politiche di guerra, di qualunque stato o potenza.
Ma non basta. È necessario, in positivo, costruire una propositiva cultura etico-politica di pace, una cultura che riconosce i conflitti reali di ogni genere, e li affronta con strategie non distruttive.
Conflitto non è sinonimo di guerra. Conflitto è ogni differenza e tensione esistenziale, tra singoli come tra gruppi umani, che può valere come dinamica storica arricchente, se gestito con mentalità e strategie non distruttive ma compositive, radicalmente alternative alla guerra.
La guerra è l’incapacità di vivere un conflitto come parte della vita, sebbene difficile: la guerra vuole risolverlo col distruggere una o più delle sue componenti umane.
Non è vero che la guerra è nella natura umana: è una grave malattia autoprocurata, ma curabile, guaribile, perché è contraria alla radicale aspirazione umana alla vita, allo sviluppo umano, in tutte le dimensioni materiali e spirituali.
Per assicurare una pace giusta e stabile occorre, nelle persone come nelle istituzioni, quella disposizione civile fondamentale che ripudia l’uccisione di persone umane come antiumano mezzo di azione, sempre illegale e degradante, impolitico.
Ogni vita va mantenuta e difesa, anche se sbaglia e se va corretta, perché ha sempre una possibilità di indefinita umanizzazione, per sé e per gli altri. La guerra, omicida per natura, è la negazione della politica umana. La politica umana è l’antitesi della guerra.
La politica, infatti, è essenzialmente la capacità di vivere insieme, nella pluralità, in cui l’individuo riceve dagli altri e contribuisce agli altri nel reciproco adattamento, che in parte limita, ma in gran parte costruisce ogni persona.
L’idea di politica include la pluralità: polis vuol dire città, vita insieme di molti, perché significa anche molteplicità: p, es. poliglotta, poligrafo, ecc. Molti diversi modi di essere umani compongono la ricchezza dell’umanità.
Non siamo soli, ma insieme, ed è impossibile vivere senza gli altri. Le differenze, anche problematiche, vanno assunte ed elaborate come fattore costruttivo di umanità: distruggere le differenze riduce tutti noi.
Ci sono situazioni e azioni che aggrediscono con violenza i diritti e le vite di persone, di popoli. Le vite e i diritti devono esseredifesi. Ci sono mezzi e azioni di difesa che non imitano e non riproducono, nei mezzi armati, l’offesa patita. La difesa con le armi omicide duplica la violenza patita, e così non afferma davvero i valori vitali che vuole difendere.
Ma ci sono esperienze, tecniche, tradizioni, realtà storiche di resistenza popolare attiva nonviolenta. La disobbedienza coraggiosa frustra il potere ingiusto, che ha bisogno di obbedienza e sottomissione.
La resistenza e difesa nonviolenta ha una forza maggiore: può anche costare vite e sofferenze, che sono meno amare della guerra, e affermano la maggiore qualità umana dei diritti difesi.
Per fare qui un solo esempio meno noto, tra molti nella storia (posso fornire una bibliografia storica delle molte lotte giuste di difesa nonviolenta) ricordo le donne di Carrara che, nel luglio 1944, disobbedirono in massa, davanti alle armi naziste in Piazza delle Erbe, all’ordine di sgombero della città, e rimasero coraggiosamente nella loro città davvero civile.
Per la pace è necessario uscire dalle culture politiche militari e dalle alleanze militari di difesa offensiva.
Ma non basta. È necessario, in positivo, diffondere nella cultura etico-politica dei cittadini e cittadine l’obiezione di coscienza personale (papa Francesco l’ha proposta ai giovani nell’incontro internazionale di Praga ,[Qui] 13 luglio 2022), che rifiuta ogni collaborazione alla guerra, nell’esercito, nell’industria, nel lavoro personale, nella informazione e cultura.
È necessario, in positivo, istituire corpi civili di pace, istituzioni pubbliche di volontari e volontarie, come già esistono nel volontariato civile non governativo, preparati alla intermediazione nei conflitti, alla solidarietà e soccorso delle popolazioni, a sostenere la difesa popolare nonviolenta, alla interposizione tra gruppi in guerra, alla internazionalizzazione di ogni conflitto nel quadro legale obbligatorio delle Nazioni Unite, che, in nome della nostra unica Umanità, vuole definitivamente «salvare le future generazioni dal flagello della guerra» (Statuto delle Nazioni Unite, Premessa) con la sua proibizione e punizione legale.
L’abolizione legale e politica della guerra è il passo di civiltà e umanizzazione richiesto alla coscienza di queste nostre generazioni e all’azione politica odierna.
L’umanità nella sua storia ha saputo abolire altre istituzioni disumane, per umanizzarsi, come i sacrifici umani alla divinità, la schiavitù legalizzata, la sottomissione consueta della donna all’uomo, il potere paterno di vita e di morte sui figli, i diritti dei padroni sui servi, la pena di morte in molti paesi, ecc..
A noi è chiesta fiducia e volontà per questo passo in avanti nella umanizzazione, che le diverse culture e spiritualità dicono in modi diversi ma uguali nella sostanza. L’abolizione della guerra è oggi la definitiva misura della nostra umanità.
Cover: Torino, Enrico Peyretti interviene ad una manifestazione contro la guerra (Foto di Giorgio Mancuso)
Nella recente nota del Ministero dell’istruzione che contiene i riferimenti per il contrasto alla diffusione del contagio da Covid-19 per l’anno scolastico che sta per partire, c’è una parte intitolata “Aerazione e qualità dell’aria negli ambienti scolastici”.
Questa fa riferimento alle “Linee guida sulle specifiche tecniche in merito all’adozione di dispositivi mobili di purificazione e impianti fissi di aerazione e agli standard minimi di qualità dell’aria negli ambienti scolastici e in quelli confinati degli stessi edifici”, emanate il 26 luglio 2022.
Ci aspettavamo molto da queste linee guida poiché diversi studi hanno dimostrato che la ventilazione meccanica controllata nelle aule, oltre a migliorare la qualità dell’aria, abbatte il rischio di contagio da covid-19 fino all’80%.
Ci aspettavamo molto perché speravamo che il Ministero investisse finalmente su questi dispositivi di purificazione delle nostre aule.
Ci aspettavamo che, dopo il dire, il Ministro dell’Istruzione passasse al fare.
E invece no!
Le linee guida che sono uscite guidano verso l’ennesimo paradosso: non ci sarà investimento per il miglioramento degli ambienti scolastici ma in compenso il Ministero investirà un mucchio di soldi in nuove tecnologie.
L’assurdo è che la scuola rimarrà un locale “malsano” con la vetrina “pulita” dove continueremo a mendicare i rotoli di carta igienica perché non ci sono fondi sufficienti… Avremo una scuola con bei tablet e brutte toilette. Avremo più “aria fritta” e meno aria sana.
Il ministro Bianchi ha sminuito l’importanza degli impianti di ventilazione nelle aule che pure hanno dato buoni esiti dove sperimentati.[1]
Chissà se è lo stesso Bianchi che prima di fare il ministro coordinava il gruppo di esperti impegnato nella gestione dell’emergenza Covid che valutava positivamente questa soluzione? C’è un passaggio stupendo delle linee guida in cui è scritto: “Allo scopo di migliorare la qualità dell’aria negli ambienti scolastici, le Linee guida indicano anzitutto la necessità di attuare le ordinarie regole di buon comportamento, quali, ad esempio, la ventilazione delle aule attraverso l’apertura delle finestre. Sono poi da considerare – e se possibile evitare – fonti esterne di inquinanti in prossimità delle aule (es. parcheggi di mezzi a motore in prossimità delle finestre). Il rispetto del divieto di fumo in tutta la scuola. L’assenza di arredi e materiali inquinanti. L’igiene e trattamento di pavimenti e superfici, ecc. ”
Tradotto vuol dire: “Non chiedeteci gli impianti di ventilazione ma aprite le finestre” perché i primi costano, le seconde no. Tradotto ancor meglio vuol dire una serie di banalità disarmanti, viste le quali verrebbe da fare la prova del palloncino a questi “guidatori” perché sembra che le loro linee non guidino troppo bene.
Come al solito mi rifugio nell’ironia per tentare di affrontare anche questo ennesimo paradosso che ci consiglia di tenere aperte le finestre per risolvere tutti i problemi.
Allora è facile immaginare che siano già pronte anche lelinee guida relative alla conservazione degli alunni e degli insegnanti negli ambienti scolastici. I 10 punti saranno scritti pressappoco così:
– durante i mesi invernali, l’esposizione all’aria aperta degli alunni e dei docenti tramite “sospensione” con mollette da bucatoche stringano bene le orecchie a dei fili tesi a tre metri da terra, collocati nei cortili delle scuole, affinché si senta bene “che aria tira” e tutti imparino a dire cose “campate in aria”;
– durante i mesi più caldi, la conservazione degli alunni e dei personale scolastico a temperature comprese fra un minimo di -21°C e un massimo di -18°C da effettuarsi tramite lo stoccaggio in cantine sotterranee o con l’impiego di ventilatori da banco (sono consentiti anche strumenti più potenti come i quarantalatori e gli ottantalatori);
– oltre al congelamento possono essere usati altri sistemi di conservazione degli studenti e degli insegnanti, quali: la salatura (mettere il sale in zucca), sott’olio (si consiglia di usare l’olio di gomito), la pastorizzazione (senza portarsi dietro le pecore) e l’essicamento (attenzione ai permalosi che si seccano troppo);
– è da evitare la vicinanza a fonti di calore quali fornelli, stufe e fuochi (ci si raccomanda di spegnere subito l’eventuale “fuoco sacro” per l’insegnamento che qualche docente potrebbe conservare);
– è fatto divieto di usare i colori caldi durante le attività didattiche (rosso, arancione e giallo in tutte le loro sfumature);
– occorre rispettare il divieto di fumo nelle aule, tranne il caso in cui il fumo sia meglio dell’arrosto [2];
– sono da evitare i parcheggi in doppia fila di mezzi a motore all’interno delle aule, nello spazio tra i banchi, a meno che i genitori non abbiano versato il contributo volontario;
– è sconsigliabile inalare ossidi e cariossidi, nitrati e nitriti, solfe e solfati, cloruri di vinile e cloruri di CD; – non è sano, durante l’intervallo, nutrirsi di nutrie, anche se sono nutrienti;
– infine si invitano calorosamente gli alunni ed il personale a “respirare piano per non far rumore, ad addormentarsi di sera e risvegliarsi col sole, a vestirsi svogliatamente e a non mettere mai niente che possa attirare attenzione, un particolare, solo per farsi guardare” [3].
NOTE
[1] “Gli impianti di aerazione nelle scuole sono una misura integrativa non risolutiva per fermare il contagio”. [2] La battuta è del grandissimo Freak Antoni [3] Da “Alba chiara” di Vasco Rossi
…Ebbene, non lo so.
Non so se l’attimo del trapasso dalla vita alla morte segua le medesime regole e gli stessi percorsi in ogni situazione, non so nemmeno se posso dire di averlo realmente affrontato.
Il dubbio rimane.
Poiché, se ora posso raccontare ciò che ho da dire, non sono in grado di affermare con certezza di aver vissuto tutto ciò come qualcuno effettivamente ed eccezionalmente ritornato dall’aldilà. Magari, più banalmente, potrei giurare e spergiurare di avere immaginato tutto, di averlo sognato…
Ecco, di averlo certamente sognato!
La mente umana, è un fatto, non ha la capacità di sostenere contemporaneamente entrambe le esperienze di vita e di morte. O si sta da una parte o si sta dall’altra, non esiste una mezza via… oppure no?
Il dubbio rimane.
Non mi tormenterò nell’incertezza di dover decidere quando e come la mia coscienza ha ripreso a funzionare, o se sia ancora inconsapevolmente in balìa di se stessa e dei suoi infiniti trabocchetti.
Mi limiterò a raccontare questa storia a chi vorrà darmi la sua attenzione.
A voi l’onere della scelta se credermi oppure no.
Sentii una voce che mi chiamava, era lontana e non la riconobbi. Era una voce di donna. Aprii gli occhi ma una luce potentissima mi accecò. Fu doloroso, come se qualcuno mi avesse premuto coi pollici nelle orbite. Automaticamente richiusi gli occhi. Poi, piano piano, tutto si attenuò.
Lentamente li riaprii e riuscii a distinguere delle figure.
Ero in un letto, l’ambiente intorno mi ricordava la stanza di un ospedale. La luce del sole filtrava attraverso le fessure delle persiane abbassate.
La voce riprese a parlare: «Carlo, ben tornato! Come ti senti?», un’infermiera di bell’aspetto e dall’aria gentile mi sorrideva tenendomi il polso.
«Ho abbassato le persiane, così potrai riposare gli occhi.» aggiunse mentre armeggiava tra flaconi trasparenti e valvole della flebo.
Cercavo di parlare ma la voce non usciva.
L’infermiera mi fermò: «Carlo, non sforzarti! Sei rimasto in silenzio per molto tempo… Cerca di fare un lungo respiro, poi prova a parlare, ma senza fretta.»
Seguii il suo consiglio, respirai profondamente, ma quasi subito un grumo nella gola mi tolse il fiato. Mi mancò il respiro e tossii violentemente, un blocco di catarro mi uscì dalla bocca insudiciando il fazzoletto di carta prontamente allungatomi dall’infermiera.
«Grazie…», fu la prima cosa che, con un filo di voce, riuscii a pronunciare.
«Carlo, ho avvisato il dottore, sarà qui a momenti… Ora rilassati che ti sistemo il letto.»
L’infermiera era una donna sulla quarantina, corpulenta ma dai bei lineamenti. Era bionda, portava i capelli a coda di cavallo e un paio d’occhiali da vista che facevano risaltare il verde acqua marina dei suoi grandi occhi.
Indugiai lo sguardo tra la bocca carnosa e i seni generosi della donna intenta a rimboccarmi le lenzuola. Lei se ne accorse e sorrise. «Finalmente ti sei svegliato e mi sembra che ti stai riprendendo in fretta… Io sono Barbara, mi sto occupando di te da quando sei arrivato. Hai avuto un brutto incidente ma ora il peggio è passato…» mi confidò. Poi incrociò il suo sguardo col mio e mi parve che la sua espressione si fosse fatta vagamente maliziosa.
In quel momento entrò un uomo calvo con un camice bianco sbottonato che lasciava intravedere una camicia azzurra e una cravatta bordeaux. Aveva una mano infilata in tasca mentre l’altra impugnava una cartellina blu. Anch’egli portava gli occhiali, mi guardò e mi fece un sorriso di cortesia. «Buongiorno, sono il dottor Martini… Finalmente ci siamo svegliati eh? Come si sente?»
Cercai di schiarirmi la voce e riprovai a parlare: «Buongiorno dottore. Mi sento un po’ debole, comunque sto bene, direi… Ma non ricordo nulla, come mai sono in ospedale?»
«La memoria le tornerà, vedrà, e ho già provveduto a far avvertire la sua famiglia che si è svegliato. Dovrebbero arrivare da un momento all’altro. Loro le forniranno tutte le informazioni che desidera. Io, signor Carlo, mi devo occupare della sua salute e vedo che tutto procede per il meglio. Ora la lascio tranquillo, ripasserò più tardi.»
Diede all’infermiera alcune istruzioni e con un cenno di saluto se ne andò.
Eseguiti i suoi compiti si congedò anche l’infermiera. Appena ebbe finito di regolare la flebo mi disse che sarebbe poi passata a controllare, m’indicò il pulsante delle urgenze nel caso avessi avuto bisogno di qualcosa e uscì chiudendo la porta dietro di sé.
Rimasi solo nella stanza e mi guardai attorno, nella testa avevo un vuoto, un vuoto assoluto, mi ricordavo a malapena il mio nome. Chiusi gli occhi, cercai di frugare nella memoria in cerca di qualche traccia…
…Eppure sono morto. So di esserlo. Non posso essere vivo, non dopo che un camion mi è passato sopra schiacciandomi e riducendomi come una frittella.
Lo ricordo bene. Mi sono alzato da terra dopo esser caduto dalla bici e ho fatto appena in tempo a girarmi e veder luccicare il radiatore cromato del tir che mi stava investendo. Una frazione di secondo, certo, ma ce l’ho stampato tutto nella mente con assoluta precisione: il colpo tremendo, il rotolare sotto, le ruote che mi hanno triturato sfracellandomi sull’asfalto, ricordo tutto.
Nessun dolore, non c’è stato il tempo. Solo la consapevolezza che la mia vita era terminata.
Ricordo la voce di mia madre che mi chiamava e mi diceva di non guardare, di andare via da lì, che non sarebbe stato bello vedermi ridotto a quel modo.
Tutto normale, come se niente fosse. È successo, tutto qui.
O forse no. Forse è tutto frutto dell’immaginazione. Una conseguenza strana, bizzarra, di quello che gli esperti chiamano “shock post traumatico”, può darsi.
Ricordo di aver camminato andando via dal luogo dell’incidente, di averlo fatto con le mie gambe con assoluta calma, senza voltarmi, come se tutto ciò non mi riguardasse. Ricordo che la gente mi passava di fianco senza degnarmi di uno sguardo, correvano, si agitavano, erano tutti sconvolti per ciò che era successo sulla strada dietro di me. Avevo ancora nella testa la voce di mia madre, la cercavo ma non riuscivo a vederla.
Ero orfano, eppure la sua voce l’avevo sentita, non mi ero sbagliato…
Aprii di nuovo gli occhi, ero nel mio letto d’ospedale, nella testa avevo solo una grande confusione. Il ricordo dell’incidente era azzerato. La memoria gioca brutti scherzi a volte.
All’ospedale ci rimasi ancora qualche giorno, poi tornai a casa dai miei genitori. Alla fine la diagnosi si risolse in un forte trauma cranico con perdita di coscienza per un paio di giorni e perdita parziale della memoria, un taglio e cinque punti in testa, mezza faccia pesta come quella di un pugile dopo un knockout, una spalla dolorante, una clavicola lussata e tre costole rotte.
Lentamente ripresi la vita di sempre.
Qualche tempo dopo, grazie alle dichiarazioni di alcuni testimoni dell’incidente, mi raccontarono come si svolsero i fatti. Successe che caddi dalla bicicletta mentre stavo pedalando verso casa, mi ero appena rialzato quando sopraggiunse un grosso camion che per non travolgermi frenò bruscamente e sterzò a sinistra sbandando e finendo la sua corsa qualche decina di metri più avanti. Fu un vero miracolo non finire sotto le sue ruote, fui però preso di striscio e il colpo mi scaraventò quasi nel fosso a lato della carreggiata. La caduta poi non mi procurò ulteriori danni perché attutita dalla vegetazione.
Sarà, mi accontento di questa versione poiché tutto quadra.
Tuttavia, dopo così tanti anni, gli attimi dell’incidente rappresentano per me ancora un punto di domanda. Un luogo sconosciuto e inaccessibile della mia mente, un vuoto mai riempito, un recesso buio, impermeabile al ricordo… Se non alla fantasia di morte che ho descritto sopra.
E ogni tanto mi chiedo se, in questo caso, realtà e fantasia non si siano messe a bisticciare duellando in equilibrio precario su quel filo dannatamente sottile che in egual misura divide e unisce la vita e la morte.
Il dubbio rimane.
Enough (Simply Red, 1989)
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Gli eventi di Facebook Conversion API (CAPI) ci aiutano a comprendere meglio come interagisci con i nostri siti web. Ci consentono di misurare l'impatto dei nostri annunci sulle conversioni del sito Web e migliorano il targeting degli annunci attraverso audience personalizzate. Quando possibile, potremmo condividere con Facebook informazioni come nome, indirizzo e-mail, numero di telefono o indirizzo.