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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Diario di un agosto popolare 2
Strani Stranieri

STRANI STRANIERI
Roma, 1 agosto 2019

La mia prima uscita è al bar di Mario, che è un cinese.

Dicono che i cinesi fanno i migliori caffè, anche se il bar non ha neanche un cornetto e ha quattro bottiglie in fila e un aspetto da periferia di paese.

Però il bar di Mario è il più frequentato dai vecchietti della zona.

Si siedono fuori, in estate, sulle sedie intrecciate di plastica e sorseggiano liquori scadenti o fumano sigarette.

E’ un luogo ideale per ascoltare gli umori del quartiere (Prenestino), anche se il target è molto definito: non si scende sotto i 50.

Stasera mi avvicino a un tavolo dove parlano ad alta voce.

C’è Adriano, un tipo abbronzatissimo coi capelli tinti e degli occhiali psichedelici, Porta una vistosa camicia rossa e degli shorts come fosse appena arrivato dalla spiaggia.

Adriano è un personaggio fisso del bar di Mario, lo trovo quasi tutti i giorni.

Al tavolo sono in tre: un signore pelato che viene dal Marocco e un altro che ha la funzione di ascoltare e star zitto.

Adriano parla con una voce da bibitaro, rivolgendosi solo a quello muto e gli risponde sempre il marocchino, che però lui non guarda mai.

Non c’è traccia di razzismo: i tre sono a loro agio allo stesso tavolo, come vecchi amici, ma non posso non notare la triangolazione degli sguardi.

Forse è una questione di identità di gruppo: Adriano può convivere con Omar, ma appartiene comunque a un’altra tribù: chissà se può fidarsi. Del muto, invece, sì.

A un certo punto il marocchino dice: “Non si può andare avanti così: i miei vicini italiani guadagnano 400 euro di pensione, sono io che devo aiutarli, perché dove vivo io sono l’unico che lavora, non mi posso lamentare. Del resto uno ha una panza così (e mostra una ciambella), come vuoi che cerchi lavoro? Certe persone hanno finito, non puoi chiedergli di andare a lavorare. E il Governo che fa?”

Adriano gli dà ragione, ma, dice, “non si può dare sempre colpa al Governo, che certo ha le sue pecche, ma me pare che tutti stanno a aspettà che lo Stato gli dia i soldi per vivere. E come fa lo Stato a pagare tutti?”

“Si, d’accordo”, dice Omar ”ma una povertà così non si è mai vista. E lo dico io che vengo dal Marocco: non parlo per me che sto bene, lavoro, sto in cantiere. Ma gli italiani non ne possono più”.

Adriano, continuando a parlare col terzo, comincia a parlare della guerra. Dice che “allora sì che c’era la miseria, e menomale che poi so’ arrivati gli americani…”

Poi mi arriva una telefonata e mi perdo il passaggio, ma quando riascolto stanno parlando di Monte Cassino. “C’eravamo anche noi, a Monte Cassino” dice Omar. “Era meglio che non ci foste” dice Adriano, alludendo, credo, agli stupri delle donne. Il marocchino ridacchia e a me, che tifavo per lui, corre un brivido nella schiena.

Il machismo tra maschi dà la stura ai lati peggiori. Ma Omar aggiunge, come fosse uno storico, “certo che anche prima della guerra qui le cose andavano male, però oggi il mondo ha più soldi e dovrebbero distribuirli meglio”,

Adriano non sembra convinto, però lo ascolta e lo saluta, dicendo: “’Namo che qui, quann’eroregazzino, so’ cascate le bombe, nun se dovemo lamenta’ troppo!”. E inforca un motorino, sgommando via, energico e ottimista.

Questa conversazione mi è sembrato un buon inizio. Naturalmente non ha alcun valore sociologico, ma mi ha presentato qualcosa di inatteso.

Il paese, a quanto sembra, sta parlando solo di stranieri. Respingerli, accoglierli, buonismo, cattivismo. Forse la realtà è più complessa e gli stranieri, che sono già fra noi da almeno vent’anni, cominciano a porsi problemi da italiani.

Certo che ci dobbiamo preoccupare per i rigurgiti razzisti e la deriva che sta prendendo il paese grazie alle esternazioni di Salvini.

Ma forse è anche pericoloso semplificare, come faceva un tizio in piscina che protestava incazzato: “E’ che viviamo in paese di stronzi: in banca da me sono diventati di botto tutti fascisti e continuano a dare la colpa al PD!”.

Sarà. Ma forse anche questo, creare una frattura crescente tra “noi” e “gli stronzi”, sta mandando a quel paese la famosa coesione sociale.

Che, senza rinunciare al conflitto di classe e alla battaglia per un mondo più giusto, è una delle cose più importanti da tenere stretta.

(Continua domani, 2 agosto) 

Per leggere tutti insieme i capitoli del Diario di Daniele Cini:

Diario di un agosto popolare


Oppure leggili uno alla volta:

ANDARE PER STRADA E ASCOLTARE LA VITA

STRANI STRANIERI

CORPI DIMENTICATI

NELLA CITTA’ DESERTA

COCCIA DI MORTO

FINCHÉ C’É LA SALUTE

LA BOLLA SVEDESE

STELLE CADENTI

LA METRO, IL BUS E LO SCOOTER

FREQUENZE DISTORTE

CANNE AL VENTO

L’OTTIMISMO DURA POCO

LA TORBELLA DI ADAMO

ConCreta

Passeggio per Comacchio, in un dopocena leggermente ventilato dopo assaggi leggeri e delicati di piatti di pesce di tradizione locale. Era parecchi anni che non passavo da qui e sono piacevolmente sorpresa dalla rinascita e dalla bellezza di questa curata cittadina di mare.

Ammiro gli scorci fra i canali, una piccola Venezia, ci sono tanti bar e ristoranti qua e là con persone sorridenti, finalmente. Superato l’ennesimo ponticello, vedo un negozio di ceramiche artigianali, è chiuso purtroppo la sera, ma la vetrina mi attira. È molto colorata, allegra e vivace, se pur piccola, una statuina di una coppia abbracciata persa in un bacio eterno mi piace davvero moltissimo. Il ti amo del vestito scritto in tutte le lingue è davvero originale, le braccia sono un tutt’uno, così come il contatto delle labbra. Tempo un paio di giorni e sarà mia.

Scoprirò una realtà molto interessante di cui oggi vi vorrei parlare: ConCreta, un piccolo laboratorio artigianale per la lavorazione della ceramica in cui prendono forma le idee di tante creazioni in ceramica, pezzi unici. C’è anche tanto territorio nelle creazioni: i Trepponti di Comacchio, il Delta, i fenicotteri rosa, la delicata signora che legge (versioni bellissime sia in azzurro che rosso). Ma non solo.

Oggetti per la casa, vasi, bomboniere, gadget per le festività, targhe, monili, statuette, tutto realizzato e dipinto a mano. Lo spazio per la personalizzazione è un forte incentivo a chiedere di realizzare un’opera d’arte (perché di questo si tratta) che possa impreziosire la propria casa fin dal benvenuto sull’uscio. Ogni piccola imperfezione rende quell’oggetto prescelto unico, un regalo vero per chi si ama. Pensato ad hoc.

Ma chi sono i preziosi e validi artisti? E qui la sorpresa più bella: persone con disabilità del CSO Dune di Sabbia con cui il laboratorio di ConCreta collabora. Dune di Sabbia è un Centro sociooccupazionale ubicato a Comacchio, che nel tempo diversificato le sue attività pensando progetti educativi per ciascuna delle persone con disabilità che lo frequentano, mirando al miglioramento della qualità della loro vita. Ospita persone adulte con disabilità intellettiva e/o fisica con autonomie espresse o potenziali, che possono essere incrementate o sviluppate attraverso percorsi personalizzati, incluse forme di apprendimento professionale in un contesto operativo protetto per molti aspetti simili agli ambienti di lavoro. Dune di sabbia crea la base, il punto di caduta su cui si formerà la duna successiva: un granello di sabbia alla volta… una nuova duna continua a crescere.

Dune di Sabbia e ConCreta sono gestiti da Girogirotondo, una Cooperativa sociale mista in ambiti A (servizi socioeducativi per l’infanzia, la famiglia, i giovani, le disabilità) e B (attività produttive e commerciali finalizzate all’integrazione sociale e all’inserimento professionale delle persone svantaggiate o in difficoltà), per coniugare l’aspetto lavorativo con quello del recupero sociale di persone svantaggiate, attraverso il lavoro come strumento idoneo al reinserimento nel normale tessuto sociale. Il tutto realizzato da un’equipe multidimensionale che progetta percorsi di crescita e inserimenti lavorativi per lo sviluppo del territorio e l’inclusione sociale di tutte le persone. Opera a Comacchio, Lagosanto, Codigoro, Mesola, Goro, Ostellato, Fiscaglia, Ferrara, Molinella e Tresigallo.

Sperimentare percorsi di crescita e inserimenti lavorativi come strumento idoneo all’inserimento (o al reinserimento) nel normale tessuto sociale è la sfida di questo laboratorio creativo. Nessuno escluso. Gli ingredienti? Il percorso dell’argilla grezza che diventa prezioso oggetto, la manualità operosa, l’ingegno, la fantasia, la creatività, la passione, l’entusiasmo, il fascino della decorazione a mano, la voglia di riscatto, la capacità di emergere. Il potere dell’arte e del colore.

ConCreta ha una sua pagina Facebook e Instagram

Punto vendita: Piazza Vincenzino Folegatti, 2, 44022 Comacchio

Telefono: 345 2692026 – Mail: info@concretacomacchio.it

 

Per certi versi
Cori di lavanda

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
 [Qui]

 

CORI DI LAVANDA

C’era un tempo
Che donava tempo
Un elastico orizzonte
Quasi
Illimitato
Volava
La vita
Il suo gesto acerbo
Spronava
Il puledro
desiderioOra il tempo
Si è fatto parco
La strada
accorciata
stretta
Con fiori di luce
Sale d’attesa
Lenta
Ora sei la distesa
Azzurra viola
Dei cori
Di  lavanda

Diario di un agosto popolare 1
Andare per strada e ascoltare la vita

 

Anche se è abbastanza evidente, premetto che questi miei diari estivi non hanno l’ambizione di essere né inchieste, che andrebbero minimamente documentate, né opere letterarie che andrebbero meditate e rilette, ma semplici note “un po’ colorite” per un benevolo pubblico di amici: lo dico perché m’imbarazza sempre l’atto del pubblicare. Ogni volta è un brivido premere il tasto invio e rischiare di aver sottovalutato le conseguenze emotive di un passaggio, magari innamorandomi di una battuta di spirito o di un aggettivo che suona bene.

ANDARE PER STRADA E ASCOLTARE LA VITA
Roma, 31 luglio 2019

Avevo cominciato bene, da ragazzo, imparando che il modo migliore per rendersi conto di ciò che si sta vivendo, fosse leggere libri e ascoltare il popolo.

All’epoca non usavo questa parola, che era il nome dell’organo della DC, mi piaceva di più il proletariato o al limite, i poveri.

Andavo in giro per quartieri a me sconosciuti (vivevo a Porta Metronia e i miei erano insegnanti) e con la scusa di dare un volantino entravo nelle case popolari o nelle baracche o davanti alle fabbriche e ascoltavo le vite e i problemi delle persone che mi aprivano la porta, tornando a casa ubriaco di Sambuca e Amaro Cora.

Poi vennero i tragici anni di piombo e i patetici anni ’80 e cominciai a conoscere il mondo solo attraverso la televisione e i giornali.

Nelle case non entravo più, nessuno si fidava e i volantini erano finiti.

Alla tv non parlava più il popolo ma la gente.

Dopo la caduta del muro le cose sono andate anche peggio. Mi restava solo il cinema e farmi amici che non fossero della mia stessa classe sociale.

Guglielmi aveva inventato i reality di Rai 3 e si cominciava a conoscere la gente comune nelle aule dei tribunali, nelle caserme dei pompieri e tra chi aveva smarrito un parente.

Ma a me più che la gente, mi piacevano gli strani, quelli che, immaginando di essere – chissà perché – tra i normali, venivano chiamati i diversi, semplicemente perché trovandosi a disagio con le norme predominanti, insistevano, con fatica, ad essere come si sentivano.

Poi è arrivato il cambio di millennio e da allora abbiamo deciso di chiuderci in casa davanti a uno schermo e vedere il mondo da lì.

Ho sospirato da solo, vedendo cadere le Torri gemelle in diretta. Ho protestato da solo vedendo le bombe cadere su Baghdad. Ho persino guardato alla tv “C’è posta per te” e “il Grande Fratello” incrociando mondi sconosciuti ma probabilmente fasulli.

Oggi, alla fine degli anni ’10, quello che so del resto del mondo, passa per tre quarti da Facebook o dalle notizie online.

Frugo commenti su Facebook nelle pause della vita, nelle file alla posta, in sala d’aspetto per un esame di salute, a una fermata d’autobus e purtroppo prima di addormentarmi, al posto di un bel libro o di una salutare scopata.

È un mondo pieno di notizie che si rimbalzano, che ruota attorno a conflitti monocordi, battutacce – a volte persino divertenti, ma col secondo fine di creare facili schieramenti e compattare le identità in modo sempre più settario. .Anche se per fortuna ho amici intelligenti, a volte mi pare che da Facebook non se ne esca vivi.

Perciò gli sforzi dell’amico Daniele Vicari, che ammiro moltissimo anche per la sua capacità di coniugare l’onesta volontà di indignarsi e al coraggio di autocriticarsi, con la capacità di fare bene il suo lavoro di autore e regista, mi sembra una delle cose più lodevoli di queste conversazioni digitali.

Ha ragione Daniele: bisogna parlare nelle strade, davanti a un bancomat con la vecchietta e alle poste dove brontola la gente. Bisogna uscire dalla tastiera, capire cosa sta succedendo: e non solo alla sinistra, al mondo del cinema o ai diritti umani calpestati.

Ma anche al nostro vicino di casa, nella fila al CUP, o al mercato.

Non possiamo lasciare il campo al contagio mediatico di slogan e contro-slogan.

Io non ho mai avuto una gran passione per essere gregario. Anche nei gruppi a cui ho aderito sono sempre stato (credo in modo civile) poco allineato.

E mi sono sempre piaciute di più le persone vere, anche le più rozze, rispetto al modo in cui vengono rappresentate per sommi capi.

Dunque, per non fare troppe chiacchere qua, andrò adesso in giro, (anche se ho scelto un periodo sbagliato) e da domani, se ho ascoltato qualcosa di nuovo, e se a qualcuno interessa, ve lo racconterò, proprio così come lo avrò sentito.

Domani è il primo di agosto.

(1 Continua:  domani e per tutto il mese di agosto)

Per leggere tutti insieme i capitoli del Diario di Daniele Cini:

Diario di un agosto popolare


Oppure leggili uno alla volta:

ANDARE PER STRADA E ASCOLTARE LA VITA

STRANI STRANIERI

CORPI DIMENTICATI

NELLA CITTA’ DESERTA

COCCIA DI MORTO

FINCHÉ C’É LA SALUTE

LA BOLLA SVEDESE

STELLE CADENTI

LA METRO, IL BUS E LO SCOOTER

FREQUENZE DISTORTE

CANNE AL VENTO

L’OTTIMISMO DURA POCO

LA TORBELLA DI ADAMO

Al Consiglio Comunale di Ferrara:
Firmare l’Appello per la proibizione delle Armi Nucleari

 

Mai come in questi ultimi tre anni Ferrara appare una città drammaticamente spaccata in due. Si tratta di qualcosa di diverso della salutare dialettica tra Maggioranza e Opposizione, ma di una contrapposizione radicale, addirittura preconcetta, che coinvolge tutto e tutti. Tutti i cittadini intendo. Sembra di essere tornati alla Ferrara del 1200 quando le famiglie Salinguerra Torelli e Adelardi si contendevano la città senza esclusione di colpi.

Questo scontro – giustissimo quando si tornerà a votare per il governo municipale – ha però occupato tutto lo spazio della politica, si è imposto nella società civile e perfino nel confronto interpersonale, facendo letteralmente sparire la capacità di dialogo e la ricerca della mediazione per il bene comune della città. La vicenda della migliore location per il concertone di Bruce Springsteen è solo l’ultimo episodio su cui era ed è possibile trovare una ragionevole mediazione e dove si sta scegliendo di non ascoltare il dissenso (sono già 25.000 le firme raccolte dalla petizione popolare SAVE THE PARK).

Ma davvero Ferrara e chi la rappresenta in Consiglio è condannata a scontrarsi su tutto? Su nessun tema, su nessun obbiettivo, su nessuna presa di posizione Ferrara può trovarsi dalla stessa parte? Questo quotidiano, sui temi nazionali come su quelli cittadini, non ha mai scelto la neutralità, ma non si rassegna neppure ad accodarsi agli Adelardi o ai Salinguerra.
Ci si può confrontare civilmente su tutto. E su qualcosa si può anche andare d’accordo. Ad esempio votare questo breve appello che ICAN (Campagna Internazionale per l’Eliminazione delle Armi), cui è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace nel 1917, ha proposto ai Consigli eletti delle città italiane, raccogliendone l’adesione.
Periscopio rilancia l’appello al Consiglio Comunale di Ferrara.

 

Al Signor Sindaco di Ferrara 
Ai Signori Consiglieri di Maggioranza
Ai Signori Consiglieri di Opposizione

Cities Appeal: l’Appello delle Città
a favore del Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari 

L’anno scorso, e precisamente Il 22 gennaio 2021, è entrato in vigore del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari TPNW (Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons).
ICAN, la Campagna Internazionale per l’Eliminazione delle Armi Nucleari, con i suoi partner italiani Rete Italiana Pace e Disarmo e Senzatomica ed insieme all’associazione Mayors for Peace, Sindaci per la Pace, presieduta dal Sindaco di Hiroshima, promuovono e raccolgono l’adesione degli Enti Locali italiani all’Appello che segue:

“La nostra Città esprime forte preoccupazione per la grave minaccia posta dalle armi nucleari alle comunità in ogni parte del mondo. Crediamo fermamente che i residenti nelle nostre città abbiano il diritto di vivere in un mondo libero da questa minaccia. Qualsiasi uso di armi nucleari, intenzionale o accidentale, avrebbe conseguenze catastrofiche, vastissime e durature per gli esseri umani e per l’ambiente. Noi quindi esprimiamo il nostro sostegno al Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari e ci appelliamo ai nostri governi nazionali affinché vi aderiscano”.

Al momento hanno sottoscritto l’Appello di ICAN le seguenti città italiane:

14 COMUNI con oltre 15.000 abitanti

Alba (TO)

Modena

Reggio Emilia

Brescia

Padova

Senigallia (AN)

Cervia (RA)

Palazzolo sull’Oglio (BS)

Thiene (VI)

Empoli (FI)

Ponsacco (PI)

Torino

Gussago (BS)

Pontedera (PI)

41 COMUNI con meno di 15.000 abitanti

Alfianello (BS)

Carbonera (TV)

Nave (BS)

Barghe (BS)

Casazza (BG)

Olgiate Comasco (CO)

Bientina (PI)

Castegnato (BS)

Ospitaletto (BS)

Borgo San Giacomo (BS)

Castelnuovo Cilento (SA)

Paciano (PG)

Borgosatollo (BS)

Cerveno (BS)

Padenghe sul Garda (BS)

Botticino (BS)

Cevo (BS)

Passirano (BS)

Bovezzo (BS)

Chianni (PI)

Roè Volciano (BS)

Braone (BS)

Collebeato (BS)

Roncadelle (BS)

Brione (BS)

Crespina Lorenzana (PI)

San Gervasio (BS)

Caino (BS)

Fauglia (PI)

Terricciola (PI)

Calcinaia (PI)

Fregona (TV)

Verolavecchia (BS)

Calvisano (BS)

Lajatico (PI)

Vicopisano (PI)

Capannoli (PI)

Malegno (BS)

Villachiara (BS)

Capo di Ponte (BS)

Muscoline (BS)

Cover: Parata militare con armi nucleari, foto Vatican New

Il giorno delle elezioni

Il giorno delle elezioni in casa mia è sempre stato vissuto nella sacralità di un rito laico. Un’aura di religiosità ammantava quel giorno, spesso con i miei genitori andavo pure io alla scuola Ercole Mosti sede del seggio, nella consapevolezza che i miei nonni e mia bisnonna anche avevano fatto quelle poche centinaia di metri per recarsi nella mia scuola a fare il loro dovere.

I cartelli elettorali e i simboli io li conoscevo tutti, forse già dalla quarta elementare sapevo esattamente chi fossero i segretari dei partiti di tutto l’arco costituzionale, Craxi, De Mita, Zanone, Spadolini, Pannella, Almirante, Capanna, Magri. E poi c’era il nostro segretario, la gigantesca figura che ci rappresentava, nel rigore della sua timidezza, con la forza della sua pacatezza, nell’indissolubile vigore della forza dei Comunisti Italiani, Enrico Berlinguer. Non è per nulla facile far capire a chi non c’era cosa significava per una famiglia di Comunisti avere l’orgoglio di recarsi alle urne, in una città Bulgara come Ferrara alla fine degli anni ’70 e nei primissimi ’80.

La macchina della sezione “Chiarioni” da qualche settimana girava per le strade della borgata a richiamare alle urne i compagni, ma non ce n’era bisogno. Era un po’ come il primo di maggio e il 25 aprile quando mi svegliavo con le lacrime agli occhi per la musica che veniva diffusa sempre dalla medesima 127 del partito, con Bandiera Rossa, Bella Ciao e Fischia il vento sparate a 120 dB(A).

Le elezioni erano generalmente in primavera, l’aria nuova pre estiva, l’avvicinarsi della fine della scuola, le giornate lunghe e un pallone preannunciavano il vento del cambiamento. La rivalsa, tramite le urne, della nostra solidarietà di classe, il martello per demolire i muri del privilegio, la falce per estirpare le frange della reazione che in quegli anni chiamati di piombo ammorbavano l’aria di una democrazia incompiuta e incompleta. Le sezioni oliavano i morsetti dei tubi Innocenti in preparazione delle mille feste de L’Unità che si sarebbero succedute nel corso della bella stagione. I volontari, i compagni, a servire agli stands, a montare palchi, a verniciare tensostrutture, a collegare i morsetti degli alto parlanti.

Un mondo di solidarietà e partecipazione, un mondo dove quasi un ferrarese su due era un comunista. Una parola che ora fa paura, è passata da motivo di orgoglio a sostantivo da sussurrare in piccole e omertose riunioni, dove pare ancora esistano dinosauri mai estinti.

Bandiera rossa, come canzone e come oggetto di per sé, non rappresenta più il mio popolo, è sbriciolata e sbrindellata in pulviscolo impalpabile, quasi come il talco.

Il giorno delle elezioni, si salutava il presidente di seggio, compagno pure lui, si prendeva la matita copiativa, si scostava la tenda dietro la quale c’era il banchetto e si marcava a forza, calcando due o tre volte il primo simbolo in alto a sinistra. Senza dubbi, senza titubanze, con la mano che tremava per l’emozione, con il cuore pieno dell’orgoglio che quel simbolo rappresentava. Gli altri non erano come noi, è un dato di fatto, non ditemi che non è vero. Gli altri partiti avevano dei sostenitori, noi eravamo Comunisti, tutti attivisti nel loro piccolo, tutti più informati degli altri, tutti più preparati degli altri e non dite che non era così. La povera gente aveva dei portavoce, aveva dei rappresentanti, che stavano in sezione in Via Foro Boario, nella segreteria di Via Porta Mare e a Roma. Lì ci stavano i migliori, i più preparati, l’avanguardia del quarto stato.

Mi bastava sentire due parole dette a Tribuna Politica per capire se chi parlava era dei nostri o meno, forse concentrandomi sarei riuscito a individuare un Comunista alla TV anche solo dall’abbigliamento, la cravatta un poco allentata, la camicia sbottonata sui polsi, piccole cose, ma grandi differenze.

Da bambino i dibattiti in TV, ma soprattutto la predetta Tribuna erano programmi che tutta la mia famiglia, io bambino compreso, ascoltava come fosse la messa domenicale del Papa. Mi ricordo i salti sul divano e la sequela di bestemmie di mio padre agli interventi degli avversari, contrapposti ai rafforzativi e agli assensi quando parlavamo noi.

Noi, capite? Un pronome personale estinto, evaporato nella mediocrità dell’oggi, nell’appiattimento di tutte le idee, nell’evaporazione delle ideologie, parola bellissima divenuta il latte di suocera del Diavolo.

Alle venti della domenica o alle tredici del lunedì chiudevano le urne e lì si rimaneva incollati al televisore fino a tarda notte. Io ricordo che non riuscivo a prendere sonno, molto oltre la mezzanotte mi alzavo e vedevo mio papà e fino a una certa ora anche mia mamma, incollati al televisore a tubo catodico, a guardare le percentuali, ad ascoltare i commenti, nell’attesa del giorno dopo dove su almeno cinque quotidiani si confrontavano i numeri.

L’Emilia Bulgara era sempre una garanzia, assieme a Toscana e Umbria, regioni in cui notoriamente si vinceva a mani basse e a pugno chiuso. Alla volta del mercoledì si rideva guardando i risultati delle frazioni e della provincia andando sempre a ricercare il dato di Filo d’Argenta, dove le percentuali del partito raggiungevano il plebiscito e dove, la leggenda narra, aveva la tessera del Pci pure il parroco.

E non saprei dire una data precisa in cui tutto questo è evaporato, dove un popolo ha smesso di essere tale. Dopo la morte di Enrico vincemmo le Europee, e con le lacrime agli occhi ci abbracciammo in casa, il trentatre e rotti per cento, sopra la Dc, un sogno pieno di tristezza e che ci lasciò col magone per giorni. Il giorno dopo lessi l’editoriale di Giorgio Bocca su La Repubblica e lo odiai, per anni non riuscii più a leggere nulla che provenisse dalla sua macchina da scrivere. Il motivo? Disse che la vittoria era gonfiata dal lutto avuto nel giugno dell’84. Era vero, ma io non ero pronto ad accettarlo.

Dicevo, quando ci estinguemmo? Dopo la Bolognina? Dopo la morte di mio padre? Dopo l’abbandono della falce e del martello ai piedi della quercia? Dopo la nascita del Partito Democratico? Non lo so, credo che l’analisi abbisogni di un esercito di sociologi bravi.

Io mi sono perso.

Sono talmente perso che il mio essere Comunista dalle elementari mi porta a lasciarmi andare nel mare della mancata rappresentanza, con la speranza assurda e impossibile che poco prima di affogare una mano mi acchiappi per la collottola e mi tragga in salvo su una barca piena di compagni. Nel mare scosso della desolazione e della reazione mi conduca molto oltre le colonne d’Ercole, verso la speranza dell’approdo ad un mondo migliore.

Dove noi esistiamo ancora.

Attenti alla Statista

 

Giorgia Meloni e il suo partito sono in questo momento sugli scudi. Fratelli d’Italia (conserva la fiamma ma si annette Goffredo Mameli e ha adottato l’inno nazionale) è stimato attorno al 25%, quattro o cinque punti sopra il PD di Letta e quasi dieci punti sopra la Lega che, grazie al suo leader, ha sbagliato tutte le ultime mosse.
Le elezioni di fine settembre sono ancora lontane, e la maggioranza degli italiani non sa ancora chi voterà – e se andrà a votare – ma il dato è comunque storico. Per la prima volta in 75 anni di storia repubblicana il partito di estrema destra diventa il “primo partito”. Giorgio Almirante sarebbe contento.

Molti, anche del Centrosinistra, minimizzano, lo ritengono un fenomeno passeggero, perché la politica in Italia è come la porta girevole del Grand Hotel, entra uno ed esce un altro: Berlusconi, Monti, Renzi, Conte… E poi, Giorgia è cambiata, non urla più come una coatta di Tor della Monaca, e ha scritto (o si è fatta scrivere) una bella autobiografia. E soprattutto è una donna, finalmente una donna, la prima, l’unica donna in una balbettante politica da appannaggio da sempre dei maschi.

La metamorfosi è compiuta, ora Giorgia è una statista. Ha smorzato i toni, senza rinunciare ai suoi sacri valori. Sembra la carta carbone (la carta carbone è nera) della sua grande amica Marine Le Pen. Con la differenza che in Francia c’è il presidenzialismo e Marine arriva prima al primo turno e perde regolarmente al secondo. In Italia invece, se come probabile a settembre vince il Centrodestra, Giorgia può diventare Presidente del Consiglio. Matteo Salvini è troppo depresso per opporsi.

Sulla fiamma sono sempre diffidente, ma la nuova Giorgia sembrava convinta e convincente. Poi ho letto il suo programma elettorale, IL MOVIMENTO DEI PATRIOTI IN 15 PRIORITÀE’ già il titolo mi ha precipitato nella macchina del tempo. E dopo i patrioti, tra una promessa e l’altra, ecco che salta fuori la gloriosa fiamma con le sue parole ammuffite e puzzolenti, tutto il vecchio repertorio fascista e neofascista. Lo sapevo io, la vecchia bestia non muore mai.

“Difesa della famiglia naturale, lotta all’ideologia gender e sostegno alla vita. […] PRIMA L’ITALIA E PRIMA GLI ITALIANI […] una Legge che dica che la difesa è sempre legittima  […] Controllo delle frontiere e blocco navale con rimpatrio immediato a seguito di accordi con gli Stati del nord Africa. Espulsione dei clandestini e stop al business dell’accoglienza […] TUTELA DELLA NOSTRA IDENTITÀ DAL PROCESSO DI ISLAMIZZAZIONE […] Albo degli imam e obbligo di sermoni in italiano. Nessun cedimento a chi vorrebbe eliminare i simboli della nostra tradizione cristiana, vietare il presepe o rimuovere i crocifissi dai luoghi pubblici. Tetto al numero massimo di alunni stranieri per classe […] Cura dei più bisognosi con pasto caldo e dormitorio per tutti ma stop al racket dei mendicanti […] Per una Gioventù nazionale protagonista delle sorti dell’Italia.”
(Tratto da IL MOVIMENTO DEI PATRIOTI IN 15 PRIORITÀ)

In Copertina: Giorgia Meloni interviene al CPAC (Conservative Political Action), Orlando, California, 24-27 febbraio 2022 (foto Wikimedia Commons) 

TERZO TEMPO
Gli “ambasciatori” della Deutsche Telekom

Negli ultimi quindici anni le partnership commerciali delle società di calcio hanno acquisito sempre più visibilità grazie all’aumento esponenziale degli spazi a loro dedicati, sia all’interno che all’esterno degli stadi. Il costante processo di internazionalizzazione di questo sport ha fatto sì che a un aumento degli sponsor sia corrisposto un aumento degli spazi pubblicitari, poiché quello sulle divise da gioco non è più sufficiente. Insomma, il calcio abbraccia qualsiasi settore merceologico, e le sponsorizzazioni che non hanno punti di contatto con lo sport o con gli atleti si affidano a delle campagne di marketing piuttosto originali: è il caso dell’azienda di telecomunicazioni Deutsche Telekom, partner commerciale del Bayern Monaco dal 2002.

Sta di fatto che, in occasione delle partite di campionato disputate all’Allianz Arena di Monaco di Baviera, la stessa Deutsche Telekom dà la possibilità a 58 persone di assistere gratuitamente all’incontro dalle primissime file della tribuna est – quella più esposta alle riprese televisive – al fine di formare un logo “umano” della stessa azienda. È a tutti gli effetti un modo alternativo per poter assistere a una partita del Bayern, le cui gare, specialmente nelle ultime stagioni, sono andate sold out ben prima dell’inizio del campionato.

Tuttavia, soltanto gli impiegati e i tirocinanti della Deutsche Telekom possono occupare quei posti, e per farlo devono inviare la propria richiesta all’azienda. Un’estrazione stabilirà chi, di volta in volta, farà parte dei 58 brand ambassadors, i quali non devono far altro che godersi l’esperienza: vengono accompagnati in bus allo stadio, ricevono un poncho e un cappello bianco a testa e assistono alla partita dai settori 124 e 125. L’unico accorgimento richiestogli, stando al portavoce René Bresgen, sarebbe quello di non abbandonare il proprio posto durante lo svolgimento della gara.

SUOLE DI VENTO /
Good morning Vietnam!
Diario di viaggio: 24 giugno-8 luglio 2022

L’ARRIVO

Scrivevo ormai molti anni fa in una mia poesia: “ Mi piace la geografia/che si fa coi piedi” ed è arrivato questo viaggio in Vietnam a portarmi con i piedi sopra una terra odorosa che ricopre le ferite delle sue tante guerre con una vegetazione rigogliosa e piena di colori.

All’arrivo, sul taxi che ci conduceva dall’aeroporto verso Hanoi città mi hanno colpita i palmizi e gli oleandri, e una miriade di altri arbusti rigogliosi sia carichi di fiori che solamente gonfi di fogliame verde brillante. Sono ovunque, chiazzano le zone di periferia con i palazzoni costruiti negli ultimi vent’anni e nella parte più centrale della città sono parchi attorno a laghetti, oppure lunghi viali con alberi ad alto fusto, come nel quartiere francese.

Il verde più familiare, però, è stato quello che ricopre i rilievi del Vietnam centrale: quello in cui sono ambientati tanti film girati sulla guerra tra Vietnam e USA finita nel 1975, il verde inestricabile in cui si nascondevano i Vietcong [Qui]. Con la stessa familiarità mi muoverei nel Grand Canyon in Arizona, se portassi là i miei piedi, per averci visto ambientate un milione di scene nei film western che ho visto da bambina.

Ora metto il sonoro e risento i rumori di motorette e clacson. Hanoi ha oltre nove milioni di abitanti e sei milioni di scooter che sfrecciano dalle prime ore del mattino, indifferenti ai colori dei semafori.

La sola regola per tutti, anche per gli automobilisti che pure si stanno facendo numerosi, è avvisare col clacson che si sta arrivando e poi andare avanti a oltranza. Evitare i pedoni che usano inutilmente le strisce pedonali. Evitare gli scontri. Ogni altra norma della circolazione stradale non ha importanza. Ho attraversato le strade tenendomi per mano a mio marito e agli amici, come non facevo da quando ero molto piccola e stavo aggrappata ai miei genitori.

Ora mi chiedo qual è stato il momento più bello e mi rispondo: la gita in barca sul delta del Fiume Rosso. Si scivola sopra una piccola barca di forma allungata alla scoperta di Tam Coc, il fiume delle tre grotte, fra montagne ricche di vegetazione, anfratti e spelonche e alte rocce calcaree.

barca fiume vietnam

In un silenzio che la voce della conduttrice interrompe solo per dire in un inglese stentato cosa va osservato alla nostra destra e a sinistra. Ci sono alcune capre issate tra le rocce. Lassù sulla cima aguzza una pagoda e una torre.

Il traffico caotico di Hanoi è a sole due ore di strada, siamo nella provincia di Ninh Binh e abbiamo incontrato solo piccoli villaggi venendo qui, in mezzo a una mare di risaie.

Ma diamo ai ricordi, pur selettivi, un ritmo da diario di viaggio e dividiamo in tre brevi periodi la permanenza nel Paese.

SEI GIORNI A HUE NEL CENTRO DEL VIETNAM

Dopo la prima notte ad Hanoi e il volo interno durato solo un’ora ci aspettano sei notti all’Hotel Saigon Morin nella antica e vaporosa Hue. Sei giorni ci fanno già sentire residenti del luogo, abitiamo nel bell’albergo in stile coloniale che ci contagia i suoi riti e piccole abitudini.

Ho frequentato soprattutto il giardino, vero luogo di relax, a partire dalla buona colazione del mattino: si trovano perfino croissant e pane da tostare, marmellata e riccioli di burro, mentre intorno dilagano le verdure calde e gli altri piatti ricchi di spezie della cucina vietnamita.

Intorno c’è la città: siamo davanti al bel Fiume dei Profumi, oltre il quale si possono intravvedere la mura della Cittadella Imperiale; alle nostre spalle la parte moderna con i suoi edifici poderosi e dalle ambizioni occidentali.

Cartelloni e insegne pubblicitarie, traffico e commercio di ogni cosa in prestigiosi punti vendita e molti grandi magazzini. Basta svoltare in una stradina laterale o uscire appena dalle larghe vie centrali per incontrare case piccole affacciate alle strade e botteghe, botteghe, botteghe.

Piccole attività familiari, con la famiglia seduta sul marciapiedi a fare la sua giornata. Poco vestiti gli uomini, le donne invece sono coperte fino agli occhi da pantaloni, maglie a manica lunga, cappello e una sorta di passamontagna che copre il volto.

Se sfrecciano sul loro scooter hanno addosso anche grosse paia di occhiali da sole. Ho visto vecchine alte un metro e poco più vendere cibo appena cucinato su fornelletti minuscoli, sedute su sedioline di plastica dai colori vivaci, come quelle che arredano le nostre scuole materne.

Ho visto donne e fanciulle vendere ogni tipo di merce al mercato di Dong Ba, rincorrendo i turisti e offrendo loro con suoni ripetuti e incomprensibili i loro vestiti, o i fiori o le pietanze fumanti appena cucinate. Con un sole a picco sui cappelli a cono, con nugoli di mosche attorno, a loro agio con i 38 gradi e l’umidità al 91 per cento.

gastronomia vietnamita

Ho provato a uscire dall’albergo e a prendere la direzione del centro, a piedi, ma ho resistito poco a causa del caldo. Sono arrivata fino alla Chiesa di Notre Dame per scoprire che è una costruzione enorme ma non bella e colorata di azzurro, il colore di altre chiese cattoliche in questo Paese. Dentro, un’atmosfera più raccolta e silenziosa; fuori un mondo di rumori e odori, tra le grida dei bambini che a frotte trascorrono la loro giornata all’aperto.

DAL PRIMO LUGLIO IN MOVIMENTO ATTORNO A HUE

Ora il mezzo di trasporto più idoneo è il pullmino, vera oasi di fresco al rientro dalle visite ai monumenti e ai luoghi di interesse, dove un angelo travestito da autista ha pronte per noi sei nuove bottigliette di acqua fredda.

A cento chilometri a nord di Hue visitiamo la zona demilitarizzata, che corrisponde al diciassettesimo parallelo, una fascia carica di storia che si estende con l’ampiezza di cinque miglia per un centinaio di chilometri da ovest a est.

Sono scesa nelle grotte di Vinh Moc, percorrendo una piccola parte dei tunnel dove si rifugiava la popolazione per scampare ai bombardamenti USA. Ho memoria sicura del piccolo anfratto chiamato pomposamente sala parto, dove durante il conflitto tra Vietnam del Nord e Vietnam del Sud sono nati 17 bambini – se ben ricordo – e sono sopravvissuti.

Il 2 luglio corriamo invece verso sud: ci sono almeno due località deliziose da conoscere. Il villaggio di Cam Thanh, detto anche villaggio del cocco, dove pranziamo su una terrazza affacciata a un piccolo fiume, assistiamo al passaggio incessante di piccole imbarcazioni rotonde cariche di turisti coreani e facciamo ciao ciao anche noi, incessantemente.

La presenza di Mai Thuong, la nostra deliziosa guida, salva il nostro pranzo dalle spezie troppo abbondanti e soprattutto da aglio e cipolla, per cui il mio ricordo è di un mangiare sano e saporito. Pieno di allegria.

A Hoi An, dove arriviamo nel pomeriggio, troviamo un paese davvero pieno di turisti. La sera, seduti sul terrazzo di un ristorante nella città vecchia attraversata da canali, ammiriamo le mille lanterne che fanno luce ai nostri piatti, che accompagnano strade e stradette del centro e si riflettono nell’acqua raddoppiandosi.

lanterne fiume vietnam

La storia di questa zona è ancora una volta troppo piena di invasioni straniere e di influssi culturali eterogenei. Cerco di stare attenta, ma a un certo punto non ascolto più: un Paese così diverso e carico di storia è un osso duro anche per la mia proverbiale curiosità.

Il giorno dopo rimango incantata dal massaggio podalico che ci fanno tre giovani ragazze chiamate da Mai, il pomeriggio vado anche a farmi la manicure nel loro negozio.

Tutto qui costa molto meno che in Italia, per lo meno costa la metà, e mi lascio cullare da queste coccole esperte. Uscendo trovo il vicolo ad aspettarmi e le povere case che eruttano bambini sui marciapiedi e li lasciano scalzi a giocare nella mota del fiumiciattolo che taglia le file delle case.

GLI ULTIMI TRE GIORNI DI NUOVO AD HANOI

Dalla vastità della metropoli in cui siamo tornati oggi 3 luglio ci salva Thung, la guida che abbiamo prenotato perché ci accompagni con l’immancabile pullmino nei luoghi nevralgici della città.

Il nostro hotel si trova già in un quartiere che va visitato, il quartiere medievale delle 36 strade occupate da artigiani dei più diversi mestieri, dai calzolai ai lavoratori della seta. Dunque oggi rimaniamo in zona.

Thung, che vuol dire ginepro, ci conquista subito: è innamorato dell’Italia dove ha vissuto a lungo dividendosi tra Palermo e Venezia. A Ca’ Foscari è stato lettore della lingua vietnamita per gli studenti italiani che hanno scelto le lingue asiatiche nel loro corso di studi. Ha dato al suo figlio primogenito il nome Ramo che si anagramma in Roma e in Amor, in onore del nostro Paese.

Tuttavia Thung ama profondamente il suo, un paese che almeno da trent’anni si mantiene neutrale in campo internazionale, mentre in politica interna invoca la stabilità come primo obiettivo della Repubblica Socialista a partito unico che è stata proclamata nel 1976. E’ lui a condurci nel secondo di questi ultimi tre giorni sul delta del Fiume Rosso e ci accompagna nella gita più bella tra fiume e montagne.

L’ultimo giorno ci porta a visitare l’immensa area del Mausoleo di Ho Chi Min [Qui]: a causa di lavori di restauro non possiamo entrare a vedere il corpo del grande politico, patriota e rivoluzionario vietnamita che nel 1945 condusse il paese verso l’indipendenza e fu poi presidente della Repubblica Democratica del Vietnam del Nord fino alla morte avvenuta nel 1969.

mausoleo ho chi min

Thung ci accompagna a visitare il parco attorno al mausoleo dove si trovano le case abitate dall’eroe nazionale e ce ne parla con ammirazione devota.

Quando ci spostiamo in un’altra zona di Hanoi e visitiamo il Tempio della Letteratura mi accosto alla grande statua dedicata a un famoso insegnante; mi piace vedere la somiglianza tra il viso magro e allungato che ho davanti e quello di Ho Chi Min che ho visto su mille insegne in tutta la città.

Soprattutto è bello avere conferma da Thung che in Vietnam, oggi come anticamente, viene riconosciuta una grande importanza all’istruzione.

IL RITORNO

Il giorno della partenza desidero troppo tornare in Italia, voglio ritrovare le mie abitudini e lasciare questo clima impossibile che ci ha fiaccati. Prendo l’ultimo acquazzone e ritrovo sulla strada verso l’aeroporto le strade larghe e la vegetazione ai lati, anche se ora sono sagome scure squassate dalla pioggia.

Tuttavia quando metto piede in aeroporto mi sorprende la nostalgia dei dodici giorni trascorsi qui. Cucio tra loro flash di immagini e suoni, che mi pulsano un po’ ovunque e realizzo quanto siano preziosi, quanto io li abbia voluti e assaporati.

E’ arrivata in tempo, mentre i miei piedi poggiano ancora sulla terra d’Asia, la pienezza del concepire ciò che mi è accaduto.

Nel mondo

Mi piace la geografia
che si fa coi piedi
con le ruote, sui treni
fino ad andare lontano.
La geografia delle facce
della gente, di case da poveri
e di cortili.
Si sta coi tramonti
negli occhi, a sbarlocchiare le insegne
e salutare i vecchi.
O sul mare guardando in fondo
con occhi ciechi pieni del blu.

(Roberta Barbieri, 20.11.1982)

Foto: gli scatti presenti nel testo sono dell’autrice

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#CasamuseoRemoBrindisi
a due passi dalle spiagge del lido di Spina

 

Libero orientamento di pittura in apertura con tutti i liberi orientamenti dello spirito: cartello in entrata alla casa Museo Remo Brindisi del Lido di Spina, nel Comune di Comacchio. Non ci passavo da decenni e ne ho un vago e lontano ricordo.

Gino Marotta, Alberi, 1971, foto Tommaso Sandri

Si respira questo libero orientamento, il movimento che avvolge gli alberi, le spirali di alcune opere e delle scale dell’edificio è quasi vorticoso. Arte cinetica pura. Tra pineta e spiaggia.

Siamo entrati in un edificio bianco, caratterizzato da un grande cilindro centrale che collega e compenetra i piani e gli spazi di studio ed espositivi, da una preziosa scala elicoidale e da grandi pareti a specchio, realizzato su progetto della designer italiana Fernanda (Vanda) Vigo tra il 1971 e il 1973.

Gino Marotta, Alberi, 1971 focus, foto Tommaso Sandri

Nato come casa estiva e museo insieme del grande artista Remo Brindisi, l’intento era quello di farne un vero manifesto dell’integrazione delle arti (architettura, scultura, pittura, design), dell’integrazione tra arte e vita e di un approccio libero e democratico all’arte.

Casa Remo Brindisi studio, foto Tommaso Sandri

Qui sono raccolte opere dello stesso Brindisi ma anche circa duemila esemplari di altri importanti artisti documentando molte delle principali correnti artistiche del Novecento a livello internazionale, con un particolare accento sulla Milano degli anni ’50-’70.

Mario Ceroli, Duca di Mantova 1971, foto Tommaso Sandri

La collezione del museo accoglie opere di Carmelo Cappello, Arturo Martini, Alberto Savinio, Mario Sironi, Felice Carena, Tullio Crali, Giacomo Balla, Fausto Melotti, Filippo De Pisis. E ancora esponenti di importanti correnti quali lo Spazialismo e il Movimento Nucleare (Gino Marotta, Lucio Fontana, Roberto Crippa, Gianni Dova, Enrico Baj), del Movimento internazionale Zero e del Gruppo Azimuth, dell’arte cinetica e programmata (da Nanda Vigo a Piero Manzoni e Agostino Bonalumi), Nouveau Réalisme e Pop (tra cui Arman, Mario Schifano, Andy Warhol), e poi astrattisti, informali, esistenzialisti. Tra i maestri del design, oltre a Nanda Vigo, vi sono opere e arredi originali di Bruno Munari, Achille Castiglioni, Pio Manzù, Vico Magistretti, Giò Colombo.

Carmelo Cappello, Spirale, 1971-1973, foto Tommaso Sandri
Casa Remo Brindisi opere Mengozzi e Ceroli, foto Tommaso Sandri

Ma chi era Remo Brindisi? Devo documentarmi, ammetto, non lo conosco tanto.

Nato a Roma il 25 aprile 1918, l’artista, di origine abruzzesi, studia a Penne, in provincia di Pescara, prima alle scuole elementari e poi presso la Scuola d’arte Mario dei Fiori, in cui il padre Fedele insegna scultura in legno. Dopo una breve permanenza a L’Aquila, parte per Roma, per frequentare i corsi del Centro Sperimentale di Scenografia, per i quali aveva vinto una borsa di studio, e le lezioni alla Scuola Libera di nudo dell’Accademia di Belle Arti.

Remo Brindisi, foto dal web

Nello stesso anno, grazie ad un’altra borsa di studio, si stabilisce a Urbino ed entra nel corso quinquennale dell’Istituto Superiore d’Arte per l’illustrazione del Libro. Terminati gli studi, nel 1940, si trasferisce a Firenze dove allestisce la sua prima mostra personale presso la Galleria Santa Trinità, il cui catalogo viene presentato da Eugenio Montale.

Scoppia intanto la Seconda Guerra Mondiale e la chiamata alle armi non gli viene risparmiata. Fatto prigioniero dai tedeschi, riesce a fuggire e a rifugiarsi in clandestinità a Venezia fino al giorno della Liberazione. Qui entra in contatto con il celebre gallerista Carlo Caldazzo, che gli organizza un’intensa e importate attività espositiva. In questo periodo Brindisi vive insieme a Marcello Mastroianni e frequenta personaggi come il poeta Diego Valeri, lo scultore Marcello Mascherini, il pittore Filippo De Pisis e la scrittrice-poetessa Milena Milani. I rapporti con Caldazzo lo portano e trasferirsi stabilmente a Milano per esporre nella galleria “Il Naviglio”. La pittura di Brindisi evolve in questo periodo, orientandosi verso un’impronta cubista, si avvicina poi alla corrente del Realismo, che abbandonerà nel 1955. Tra il 1956 e il 1961 le opere di Brindisi affrontano importanti tematiche sociali attraverso nuove modalità espressive definite “Nuova Figurazione”, i cui temi principali sono quelli del Fascismo e della Resistenza, manifestando un orrore e un’angoscia ancora vivi e sempre indelebilmente presenti nella mente e nell’anima.

Agli inizi degli anni ’60 si avvicina all’espressionismo astratto americano e, per questo, parte per New York dove presenta una sua prima mostra nel 1961, alla quale ne seguono altre a Boston e Washington. Nel 1963, chiamato a Lido degli Estensi per presiedere una giuria, visita il vicino Lido di Spina, che si propone subito alla sua mente come ambiente ideale per la realizzazione dell’ambizioso progetto che vi (ri)presentiamo oggi e che 10 anni dopo vedrà la luce: la costruzione di una struttura che avrebbe ospitato la sua collezione artistica, rendendola accessibile a tutti, e costituito la residenza estiva della sua famiglia.

Remo Brindisi litografie a colori 1970-1980, foto Tommaso Sandri

Nel 1972, viene nominato Presidente della Triennale di Milano e Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Macerata; tra il 1973 e il 1983, realizza circa cento mostre personali; di questo periodo è anche il dipinto di 20 metri commissionatogli dalla RAI per la celebrazione del Giorno della pace. A ciò si aggiunge una produzione come scenografo e incisore, all’interno della quale si ricorda il lavoro realizzato nel 1974 all’Arena di Verona.

La varietà dei suoi interessi non lo distoglie dai temi sociali e politici, come l’assassinio dell’amico Aldo Moro, al quale dedica una serie di grandi opere.

Fervore, irrequietezza, discontinuità, dinamismo artistico e nomadismo caratterizzano la vita di Brindisi sino alla fine, all’approdo definitivo che trova a Lido di Spina dove rimarrà sino al 25 luglio del 1996, giorno della sua morte.

Giardino, foto Tommaso Sandri

Alla fine della mia visita chiacchiero con la studentessa alla cassa e il custode della casa museo, un entusiasta ragazzo brasiliano approdato in Italia per studiare all’Accademia di Belle Arti di Bologna e che qui a Spina vive quasi tutto l’anno. Sono necessarie molte opere di manutenzione e il giardino soffre. Un appello al Comune di Comacchio allora, perché qualche risorsa ed attenzione in più siano dedicate a questo spazio ricco ed entusiasmante. Programmazione cinematografica nel giardino inclusa (molto poco curata e attenzionata).

Giardino, foto Tommaso Sandri

Per un’intervista a Remo Brindisi 

Pagina Facebook della Casa Museo Remo Brindisi 

Oggi, per volontà testamentaria dello stesso Brindisi, l’intera raccolta e la Casa Museo sono di proprietà del Comune di Comacchio. L’allestimento, a cura dell’Assessorato alla Cultura, prevede che le opere siano esposte a rotazione.

Casa Museo Remo Brindisi – Via Nicolò Pisano n. 51, Lido di Spina

Casa Remo Brindisi entrata, foto Tommaso Sandri

Orari di Apertura: aprile e maggio, settembre e ottobre: venerdì, sabato e domenica dalle ore 10 alle 12.30 e dalle 15 alle 17.30

Giugno, luglio e agosto: Da martedì a domenica apertura serale dalle ore 19 alle 23

Tutte le foto che illustrano l’articolo sono di Tommaso Sandri. In copertina: Interno della Casa museo Remo Brindisi.

Sul ponte non sventola bandiera bianca
Quanto ci costa la guerra in Ucraina

 

Ci sono molti costi che Italia e italiani sono chiamati a sostenere per il conflitto iniziato il 24 febbraio tra Russia e Ucraina, strettamente legati al sostegno che il governo Draghi ha assicurato a quest’ultima seguendo l’esempio di quasi tutti gli altri paesi europei, oltre che le richieste statunitensi.

I costi sono sostanzialmente di tre tipi: quelli legati alle sanzioni, quelli per gli aiuti militari e per i profughi, quelli eventuali per l’ingresso nell’UE e per la ricostruzione dell’Ucraina.

Le sanzioni scatenate dal tentativo di isolamento della Russia hanno provocato una diminuzione nelle quantità di gas e petrolio importato e contemporaneamente un aumento dei prezzi. L’aumento dei prezzi delle materie prime ha fatto da volano per l’aumento di tutti i beni correlati a vario titolo, dalla benzina alla pompa, ai trasporti, ai generi alimentari fino alle vacanze. Questo aumento dei costi, si badi bene, da importazione, ha causato un aumento dell’inflazione come non si vedeva da decenni. Di conseguenza, a parità di salario siamo tutti più poveri.

Giusto per aprire una parentesi ma rimanendo in tema, l’inflazione sarà combattuta con l’aumento dei tassi da parte delle banche centrali, il che farà aumentare il costo del denaro e quindi dei nostri mutui. E’ stato calcolato che già il primo aumento dei tassi deciso il 21 luglio dalla BCE di 0,50 punti porterà su un mutuo già contratto a tasso variabile di 200.000 euro un aumento di 60 euro al mese. Aumenti che dovranno essere sopportati anche da coloro che accenderanno nuovi mutui a tasso fisso.

Federconsumatori ha calcolato che il costo aggiuntivo medio in campo energetico e alimentare sarà di 1.228 euro a famiglia. La Cgia di Mestre calcola invece che il calo del Pil per il 2022 sarà di circa 24 miliardi e questo si tradurrà in una perdita media per ciascuna famiglia italiana di 929 euro.

Di fatto ci sono aumenti nel costo della vita che possiamo calcolare anche senza l’aiuto delle associazioni di consumatori, visto la loro incidenza sulla nostra vita quotidiana. La benzina a luglio 2021 costava mediamente 1,650 euro contro i 2 euro di oggi, le bollette del gas sono quasi raddoppiate sia per famiglie che imprese, prenotare una vacanza costa tra il 15 e il 20% in più come costa notevolmente di più fare la spesa al supermercato.

Ci sono poi i costi affrontati, e che stiamo continuando ad affrontare e pianificare, per il sostegno ai profughi ucraini e per gli armamenti. Si intendono sia le spese per le armi che inviamo direttamente sul posto, sia le spese per il mantenimento dei nostri militari in prima linea ai confini del “nemico” russo.

Draghi aveva dichiarato ad aprile che l’Italia aveva speso per gli aiuti umanitari 610 milioni di euro, di cui 110 inviati direttamente a Kiev. Il sole24ore aggiornava il 10 maggio la cifra a 990 milioni di euro, siamo a luglio ed è facile presumere che abbiamo superato il miliardo. Per la cronaca, Il fatto quotidiano denunciava il 30 giugno che lo Stato non aveva ancora assolto i suoi doveri nei confronti dell’80% dei privati che avevano aderito all’appello e avevano accolto cittadini ucraini.

L’invio di armamenti viene invece effettuato attraverso il nuovo strumento European Peace Facility (EPF) al quale l’Italia partecipa seconda la sua quota UE, ovvero il 12,5%. Lo stanziamento iniziale per il finanziamento dell’operazione di sostegno bellico all’Ucraina era di un miliardo, ma dovrebbe arrivare a un miliardo e mezzo. Per l’Italia il contributo impegnato è di 125 milioni, che arriverebbe a 187,5 milioni di euro se verrà deliberata l’ulteriore tranche ipotizzata.

Con questo strumento si supportano anche altri paesi nei quali sono in corso conflitti. Nel corso del 2021 sono stati spesi quasi 259 milioni di euro per forniture militari e supporto militare di vario genere a Paesi africani (85 milioni alla Somalia, 44 milioni al Mozambico, 35 milioni al G5 Sahel, 24 milioni al Mali e 10 milioni a Camerun, Chad, Niger e Nigeria), alla Georgia (12,75 milioni), alla Bosnia (10 milioni), alla Moldova (7 milioni) e all’Ucraina (31 milioni in ospedali da campo, sminamento, logistica e cyber-difesa). L’Italia ha fatto la sua parte sempre per il 12,5%.

Nell’ambito delle spese militari per il “contenimento” della Russia rientrano anche altri 78 milioni di euro necessari per mantenere in Romania un massimo di 12 caccia militari (inizialmente erano 4, attualmente sono 8) e 260 uomini, in Lettonia più di 200 alpini della Brigata Taurinense con decine di carri armati ruotati Centauro e cingolati da neve nell’ambito della missione NATO ‘Baltic Guardian’. Ci sono poi da conteggiare circa 200 marinai sulla fregata Fremm ‘Carlo Margottini’ e sul cacciamine Viareggio necessarie alla missione della forza navale permanente della NATO, cui la Marina Militare attualmente partecipa per le operazioni di contrasto nel Mar Nero e nel Mediterraneo orientale.

Ai costi cui stiamo già partecipando attivamente si potrebbero aggiungere quelli di un eventuale ingresso dell’Ucraina nell’UE. Come si sa l’Italia, insieme a Germania e Francia, è uno dei Paesi che rimette all’Unione più di quanto riceve. E’ un contributore netto, come si dice. Questo è dovuto principalmente all’ingresso dei paesi dell’Est come Polonia, Ungheria e Romania e a cui si aggiungerà, eventualmente, l’Ucraina che già prima della guerra era uno dei paesi più poveri d’Europa e che quindi sarebbe ovviamente un nuovo percettore netto di contributi italiani via Unione Europea.

A questo si aggiungerebbero i costi della ricostruzione. Sono costi davvero ipotetici, ma si consideri che a Lugano, in Svizzera, è andata in scena la “conferenza per la ripresa dell’Ucraina” dove il presidente Zelensky ha presentato un piano decennale per la ricostruzione da 750 miliardi di euro. Certo le bombe cadono ancora, ed è difficile immaginare quanto possa essere realistico un piano del genere. Tuttavia già molti nostri politici si sono fatti avanti, dichiarando che ovviamente l’Italia sarà in prima linea nella ricostruzione.

SUPERBONUS E SUPERCAZZOLE
Una ricerca di Nomisma smentisce Draghi

 

Sono recentemente apparsi su queste colonne due interventi – a firma di Francesco Monini [Vedi qui] e di Nicola Cavallini [Qui] – che a conclusione dell’esperienza del Governo Draghi ne tracciano un consuntivo alquanto problematico, molto molto diverso da quello prevalente sul cosiddetto mainstream.

L’obiettivo del presente intervento è quello di corroborare le perplessità espresse nei citati articoli, attraverso l’analisi di un aspetto specifico citato in entrambi: la gestione che l’Esecutivo ha attuato del cosiddetto Superbonus 110%, misura introdotta dal secondo governo Conte il 19 maggio 2020. L’analisi che segue si giova dei risultati di un’interessante ricerca sugli effetti ottenuti dalla misura in questione, condotta da Nomisma e riferita dal Corriere della Sera il 14 luglio [leggi Qui]

Corriere e Nomisma non sono esattamente due centrali grilline, ma sintetizzando al massimo i risultati esposti si arguisce quanto segue:

  1. la misura è stata finora finanziata per 38,7 miliardi di euro (compresi i deplorevoli abusi che ne hanno dirottati, secondo gli ultimi dati, 5.8) ma, se si considerano i maggiori introiti fiscali derivanti dal valore economico generato, il costo netto per le casse dello Stato scende a soli 811 milioni di euro;
  2. si può dunque ragionevolmente dedurre che se le azioni amministrative di prevenzione e di repressione delle truffe fossero state maggiormente efficaci, la misura avrebbe addirittura prodotto un attivo, oltre che un ulteriore miglioramento di tutti gli indici che seguono;
  3. la misura ha generato un valore economico di 124,8 miliardi di euro, pari al 7,5% del PIL: viene da chiedersi come starebbe oggi la nostra economia, senza questa robusta iniezione di risorse;
  4. la misura ha prodotto maggiore occupazione per 643.000 unità;
  5. dal punto di vista ambientale, la misura ha consentito – soltanto grazie alle opere realizzate fino a oggi – un abbattimento delle emissioni di CO2 pari a 242.000 tonnellate, con un risparmio medio annuo in bolletta di 500 euro a unità immobiliare.

Insomma, sintetizzando ulteriormente, il superbonus avrebbe prodotto praticamente a costo zero – e anzi, potenzialmente, con un attivo per le casse dello Stato – un notevole incremento di PIL, una significativa ripresa dell’occupazione e un beneficio ambientale e per la bilancia commerciale di rilevanti dimensioni.

Se così fosse, non si tratterebbe, in tempi di recessione e di crisi energetica, della misura anticiclica perfetta?

Naturalmente, ogni ricerca può cadere nell’errore e i dati finora riferiti potrebbero essere smentiti.

Probabilmente, il Governo Draghi, poi dimissionario, ne aveva di diversi, visto che ha condotto una lotta senza quartiere contro la misura ereditata dal precedente (vedi ad esempio [Qui]).

Nel caso, sarebbe bene che condividesse tali dati con gli italiani, dato che le ragioni finora addotte a sostegno dell’ostilità (vedi l’intervento di Draghi a Strasburgo il 4 maggio scorso) hanno a che fare con aspetti certamente deplorevoli – l’aumento dei costi e le truffe – ma non connaturati all’orizzonte di politica economica del provvedimento. Piuttosto, legati a manchevolezze nella predisposizione e nell’attuazione di forme di controllo.

Le truffe e gli abusi, infatti, si combattono attraverso azioni di contrasto mirate. A chi verrebbe in mente di chiudere gli ospedali perché vi si verificano delle malversazioni? O di eliminare le pensioni d’invalidità perché una certa parte di esse sono fasulle?

Non si butta via il bambino con l’acqua sporca, si dice. E, soprattutto, non si getta il bambino conservando l’acqua sporca, come sembra commentasse Federico Caffè quando, più di quarant’anni fa, si vollero separare i destini del Tesoro e della Banca d’Italia, in modo tale che il collocamento dei titoli di Stato non potesse automaticamente contare su un prestatore di ultima istanza, con l’intento dichiarato di frenare la spesa pubblica e di arginare di conseguenza la corruzione ad essa connessa.

Come sia andata, è noto. Proprio come temeva Caffè, il bambino della crescita economica è progressivamente finito nello scarico, mentre l’acqua sporca della corruzione dilaga sempre più nel Paese.

Così, se i risultati della ricerca di Nomisma fossero attendibili, la metafora di Federico Caffè – del quale Mario Draghi, prima di rinnegarne l’insegnamento, era ritenuto l’allievo più brillante – risulterebbe quanto mai attuale.

Allora, un dubbio appare lecito: non sarà che le ragioni reali dell’ostilità radicale di Draghi e amici verso il superbonus sono esattamente quelle per le quali esso potrebbe essere stato uno dei migliori atti di governo da quarant’anni a questa parte?

La ragione ultima dei benefici economici apparentemente indotti dal provvedimento è, infatti, abbastanza semplice: la cessione del credito costituisce una cospicua immissione di strumenti di pagamento ‘freschi’ nel tessuto economico, creazione di moneta (sotto la forma di moneta fiscale) destinata a dare ossigeno al mondo produttivo e ai lavoratori.

Si tratta, chiaramente, di un’eresia contro il vangelo neoliberista. Di un peccato assolutamente mortale secondo i Comandamenti della BCE.

Non è così? L’ostracismo draghiano verso il superbonus non è stato ideologico e strumentale, ma si basava su ragioni di merito?
Chiuso il loro mandato, Draghi e i suoi ministri avrebbero il dovere di chiarirle, con qualche argomento un po’ più consistente di quello, demagogico e populista come pochi, delle truffe e degli abusi (che certamente qualcuno avrebbe dovuto prevenire e reprimere). Dopo quarant’anni di acque sporche, sa tanto di supercazzola.

La Russia di Dibba e le scimmiette bianche


Antonio Indelli, giovanissimo e talentuoso storico, inizia oggi la sua collaborazione a
periscopio. Devo dire che, quando ci incontriamo, de visu o da remoto, 8 volte su 10 non ci troviamo d’accordo. Anche per questo tengo particolarmente ad avere la sua voce nel coro polifonico di questo quotidiano. Siamo d’accordo, ad esempio, sulla condanna a Putin e al suo regime, mentre litighiamo sulla Nato e le sue scelte espansionistiche (che lui difende e io trovo sbagliate e pericolose), sull’invio di armi all’Ucraina (lui favorevole, io contrario) e in generale sul giudizio sulla genesi e gli sviluppi della guerra in Donbass.  Nel caso presente, nel mirino di Indelli c’è il tour ‘giornalistico’ (si fa per dire) in Russia di Alessandro Di Battista, il quale Dibba (così il suo popolo ama chiamarlo) esce letteralmente sbriciolato dalla documentata analisi e dall’ironia di Indelli. Ho controllato, su Facebook Dibba ha superato 1,5 milioni di followers; spesso sposa cause nobilissime, ma la sua ignoranza unita a un tot di mala fede (complice Travaglio e il suo il Fatto quotidiano) gli fanno dire una montagna di castronerie. Giusto quindi ‘castigarlo’. Anche se ad Antonio, tanto per litigare, contesterò che “sparare su Dibba é come sparare sulla Croce Rossa”. Buona lettura.
Effe Emme

I noti dispacci dalla Russia di Alessandro Di Battista c’entrano con le trappole per turisti cinesi?
Per capire ciò che intendo è necessario introdurre il concetto di “white monkey” (scimmietta bianca). Si tratta di una pratica di marketing diffusa in Cina da decenni, che prevede l’ingaggio di un ‘bianco’ a fini pubblicitari.
Una sua declinazione comune consiste nell’invitare un influencer occidentale (la ‘white monkey’, preferibilmente un blogger di viaggi) per un tour indimenticabile in una particolare località, secondo una tabella di marcia serratissima che prevede attività ricreative (balletti, sport bizzarri, visite a lunapark…), gastronomiche e culturali (tra cui la partecipazione a conversazioni e cene con i locali, meglio se con minoranze dai costumi pittoreschi, tutti ovviamente istruiti a dovere). L’influencer di turno paga poco o nulla (anzi, spesso è pagato a sua volta): tutto ciò che deve fare è rispettare la tabella di marcia, fare quello che gli è detto e sprizzare da tutti i social felicità e stupore di fronte alle meraviglie locali.

Il gioco è il seguente: da una parte, attirare il ricco turismo occidentale e promuovere all’estero la propria immagine, dall’altra attirare il turismo interno, che considera di particolare prestigio ciò che è gradito ai ‘bianchi’” (i ‘neri’ invece sono spesso sgraditi in Cina).

La formula ha avuto un successo tale da attirare l’attenzione del governo cinese, che prontamente ha deciso di farla sua. In particolare nello Xinjiang, pittoresca patria degli Uyghuri. Ivi si è recato sotto la ferrea sorveglianza degli agenti in borghese un profluvio di influencer occidentali che, visitando sempre gli stessi luoghi turistici secondo le medesime tappe e con annessa la stessa cena presso la medesima ridente famigliola locale, dimostravano al loro seguito adorante come i ristoranti fossero sempre aperti, le persone felici e il governo cinese non vi stesse assolutamente attuando un genocidio.
Ovviamente, le prove schiaccianti che testimoniavano e testimoniano ben altro (raccolte in buona parte da eroici attivisti cinesi con ovvi e notevoli rischi personali) erano tacciate di essere “falsità sinofobe dell’Occidente ignorante e cattivo”.

Per quanto tale iniziativa a dir poco grottesca non sembri aver sortito gli effetti sperati sui governi occidentali, ciò non ha impedito a Bashar al-Assad di importarla in Siria, come documentato da un recente report di Al-Jazeera che vi invito a vedere.

Veniamo dunque al nostro Dibba. Il quale, come è noto, da ormai un mese gira la Russia cercando di mostrarci ‘l’altra parte’ (#laltraparte).
Concretamente, posta su instagram, su tiktok, twitter e  facebook, su youtube ci comunica le sue impressioni (il suo ‘diario’) e risponde ai commenti (con occasionale uscita sulla politica italiana), mentre invia i suoi reportage al Fatto Quotidiano e raccoglie materiale per i documentari che saranno pubblicato su TVLoft, di proprietà del Fatto medesimo.

il risultato è quello che ci aspetteremmo da Di Battista, improvvisatissimo reporter allo sbaraglio: banalità per turisti e luoghi comuni sulla politica russa, che dimostrano gravissime lacune nell’ambito (si veda il commento a un suo video da parte di Marta Ottaviani, che invece la Russia la conosce sul serio).
Si badi, ciò non significa che non sappia nulla di Russia, ma che l’immagine che l’appassionato Di Battista ne ha è mitica, fortemente parziale e superficiale. Dibba non sarà putiniano, ma è sicuramente estremamente filorusso. È per l’allontanamento e la condanna dall’America (e perché no, l’Europa) e la comprensione e la vicinanza alla Russia. Sostiene che Putin strangoli l’opposizione, ma che sia ciò che la stragrande maggioranza dei russi vuole (sulla base del fatto che “pochissimi gli dicono il contrario”; non spiega poi come mai allora strangoli l’opposizione), poiché ha risollevato, riequilibrato e reso forte il paese dopo il caos dell’era Eltsin (vecchio cavallo di battaglia del regime, non serviva andare in Russia per sentire queste cose; ovviamente Dibba non mette minimamente in discussione tale narrazione, né a dire il vero la grandissima parte della narrazione del regime russo, presunto colpo di Stato in Ucraina compreso).

Tralasciamo la validità dei giudizi sulle “sanzioni che non funzionano” (smentito dagli stessi organi ufficiali del Cremlino) e sullo “sfondamento in Donbass” (arenatosi di lì a breve). Non stupisce che ripeta senza riportare un solo dato “quel che sente in giro”, senza dire cosa dicano gli organi di propaganda russi o  come e perché tali opinioni si siano formate, o dare adeguato conto del contesto al di là di basilari notazioni storiche (perlopiù manualistiche).
Gli intervistati, di nessuno dei quali è riportato il cognome, non sono verificabili, e non paiono pressoché mai contraddire il quadro già pensato e più volte espresso da Dibba, che trascrive di solito poche frasi isolate per intervista. Gli elementi da cui trae le conclusioni non possono che essere impressionistici. Così le sanzioni non funzionano perché le burrate autarchiche vanno a gonfie vele mentre la Russia commercia coi fantomatici BRICS , e dove invece funzionano alimentano il patriottismo (non riporta ovviamente la fonte, né come fosse la situazione prima della guerra, né cosa ne pensino gli oppositori a Putin più in vista e seguiti). Degli ucraini si insiste sulla percezione che li vede come nazisti che bombardano e hanno compiuto atrocità che sono alla base della guerra perché i profughi che gli han lasciato intervistare glielo han detto.

Non fa mai una domanda scomoda. Nulla sulla corruzione dilagante o sul processo a Navalny. Nulla sulla chiusura dei giornali. Nulla sui campi di filtrazione, eredità della guerra Cecena, attraverso i quali passano gli Ucraini che vengono deportati in massa in Siberia. Nulla sui bombardamenti dei civili e la distruzione delle città. Nulla sulle perdite e sui coscritti, mandati a morire in condizioni disumane malgrado il governo russo affermasse di non averne mandati affatto. Nulla sulla Wagner, palese eppure illegale, o sui crimini di guerra. Chiede (e a quanto pare, talvolta ripete) ai suoi interlocutori solo le cose che già sosteneva e si sostengono diffusamente in Italia, e che dunque non si capisce perché sia dovuto andare in Russia per riscoprirle, tanto più dato che già l’agenzia TASS (di fatto fonte quantomeno secondaria del Nostro) dice più o meno le stesse cose.

Le fonti riportate esplicitamente con coerente cherry picking, del resto, sono perlopiù giornali della stampa generalista (con ovvio plauso al Fatto Quotidiano e a Travaglio, il ché dovrebbe farci riflettere), Barbero, e almeno in un caso il Papa, di chiara risonanza presso il pubblico italiano.

Più interessanti sono le informazioni accidentali. Un esempio è quando si reca in gita in un campo profughi presso Belgorod, ove è seguito da vicino dal responsabile del campo “che sembra un militare più che un operatore sociale”, il quale tenta insistentemente di fargli il lavaggio del cervello sulla giustizia della ben nota ”Operazione Speciale” contro il nazismo ucraino. Si tratta di un raro caso di dissenso da parte del Nostro, che tuttavia è incapace di riconoscere le palesi falsità espresse dal suo interlocutore sulla mancata presenza di militari a Belgorod (centro logistico importantissimo per le offensive su Kharkiv e nel Donbass) o di commentare l’identificazione dei nazisti con gli europei.

La scimmietta bianca Dibba ci racconta dalla Russia cose che sono già diffuse in lungo e in largo nei media italiani, impegnato a dare conferma alle proprie opinioni, piuttosto che a riportare qualcosa di nuovo. Sorgono allora diverse domande. Chi organizza il viaggio di Alessandro Di Battista? Chi gli fa da guida e da interprete? Chi è di preciso la gente che incontra e lo ospita? Chi è che viaggia con lui e che talvolta compare nelle foto? Chi gestisce e inoltra i contatti?

Nonostante tutto ciò che condivide sui social, del viaggio di Dibba sappiamo in realtà assai meno di quanto vorremmo.
Nulla di grave per un privato cittadino, ma Di Battista è un personaggio pubblico che esercita influenza nella politica italiana, tanto più in questo momento e ancor più con l’enorme visibilità che questi “dispacci” gli danno.

In conclusione, è Alessandro Di Battista la white monkey più amata d’Italia?
Ciascuno lo giudichi in cuor suo. Se anche lo fosse, credo che sarebbe una white monkey straordinariamente sincera e “innocente”. Dibba riporta palate di propaganda russa perché ci crede, non perché ne tragga un diretto vantaggio (indirettamente sì, vista la recente visibilità), e voglio credere che si sforzi di essere distaccato, ma le sue simpatie e convinzioni glielo rendano manifestamente impossibile.
Non desidero infierire oltre su un uomo che probabilmente non si rende conto di quello che fa davvero, in fin dei conti è una vittima della disinformazione anche lui, e va detto che comunque risulta simpatico per il suo temperamento sornione, ironico e travolgente (cosa che però lo rende potenzialmente assai pericoloso).
Di certo Di Battista non riceve supporto e sovraesposizione dai russi, ma dal Fatto Quotidiano, il cui direttore ha deciso promuovere i post di Dibbaloqui in ogni modo possibile dando ad essi la dignità di “notizia”, nel tentativo forse di eterodirigere qualcosa della fumosa e rissosa ex entità politica che sostiene e difende a spada tratta (e di far due soldi dopo i minimi storici toccati dal suo giornale). Così Marco Travaglio procede con testardaggine su una via discendente segnata da traduzioni dall’inglese volutamente sbagliate, telefonate inventate, distorsioni e opposizioni per partito preso e promozione di propagandisti impresentabili. È solo naturale che in molti già l’abbiano abbandonato, esattamente come accaduto al suo coccolato protegé, il professor avvocato Giuseppe Conte.

Jeff Bezos: il nuovo dottor Stranamore

 

Evitare la morte è una cosa su cui devi lavorare. Se gli esseri viventi non lavorano attivamente per impedirlo, alla fine si fonderebbero con l’ambiente circostante e cesserebbero di esistere come esseri autonomi. Questo è quello che succede quando muoiono“.

Questa dichiarazione agli azionisti Amazon racchiude, in mirabile sintesi, la filosofia del superuomo postmoderno che l’ha rilasciata: Jeff Bezos da Albuquerque. La cronaca di questo progetto la potete leggere su diverse testate (per tutte, una: QUI). In sostanza, il patron di Amazon metterà un sacco di soldi dentro la società Altos Labs, che lavora sulla “riprogrammazione biologica”, ovvero la possibilità di rigenerare le cellule umane fino a rendere il medesimo essere umano non più umano, ma immortale.

Il CEO di Altos Labs è stato il direttore del National Cancer Institute degli Stati Uniti. Bezos sta reclutando inoltre, pagando loro ingaggi stratosferici, il miglior manager farmaceutico (Barron, dalla Glaxo), il miglior biochimico (Juan Carlos Belmonte), il premio Nobel per la Medicina 2012 (Yamanaka, scopritore delle cellule staminali “pluripotenti indotte”). E’ singolare il fatto che tutti questi scienziati abbiano un età che va dai 57 ai 60 anni. Bezos stesso è nato nel 1964. Verrebbe da pensare che stiano lavorando anzitutto per loro stessi, esattamente come Bezos. Tuttavia sarebbe semplicistico ridurre questo progetto al tentativo di trasformare una plurima crisi di mezza età in un elisir di lunga vita (se possibile, eterna). Perchè loro stanno invece lavorando per l’Uomo. Non ogni uomo, beninteso. Da questo punto di vista non c’è niente di rivoluzionario: gli eventuali benefici di questo faraonico sforzo saranno privati e riservati ai pochi che se li potranno permettere. Però l’idea che sta dietro a questo gigantesco laboratorio è racchiusa in quelle tre frasi.

Evitare la morte è una cosa su cui devi lavorare“. Non rinviare la morte, non curare la malattia, non migliorare la qualità della vita. No. Evitare la morte. Del resto, se l’obiettivo fosse meno ambizioso avremmo a che fare con quanto la scienza medica e biologica tentano di fare da sempre, cioè allungare la vita media del genere umano e se possibile renderne più piacevole (o meno sgradevole) la parte conclusiva. Qui si punta dichiaratamente a fare in modo che vi sia un’unica specie vivente che supera la natura, che la cambia, anzi, che oltrepassa le sue leggi e crea una propria natura, immortale per sè e gli altri eletti. Il fine sembra essere quello di poter diventare (chi potrà permetterselo) delle meduse immortali, l’unico organismo vivente avente una tale capacità di rigenerazione cellulare da essere considerato una vera e propria macchina del tempo, una concretizzazione dell’eterno ritorno: da medusa a polipo e così via per sempre, senza mai morire.

Se gli esseri viventi non lavorano attivamente per impedirlo, alla fine si fonderebbero con l’ambiente circostante e cesserebbero di esistere come esseri autonomi. Questo è quello che succede quando muoiono“. Capite qual è considerata la disdetta più grande, l’epilogo più disdicevole? Fondersi con l’ambiente circostante. Non c’è solo il rifiuto del “polvere sei e polvere ritornerai” della Genesi. C’è il sogno di porsi al di sopra della sola infinità filosoficamente concepibile, la sostanza, la divinità di Spinoza, il Deus sive Natura, unica realtà eterna ed infinita. Torniamo ad un antropomorfismo religioso, nel quale però non è Dio ad avere forma di uomo, ma è il Superuomo ad essere Dio, perchè quello che vale per l’universo non vale per lui. “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, il postulato di Lavoisier che fonda la legge di conservazione della massa, implica che dopo la trasformazione ciò che risulta dalla stessa non è l’individualità di prima. Invece no: Bezos vuole essere lo stesso di sempre, per sempre. Lui, e nessun altro. Lui non vuole diventare parte di un albero, di un seme, della terra, del mare. Non so nemmeno come pensi di esser stato concepito. Siamo oltre l’avidità, la smania di potere. Siamo alla trasformazione antropologica dell’imprenditore di successo in Superuomo.

La “cessazione dell’esistenza come essere autonomo” è l’altro orrore da superare, per Bezos e i suoi scienziati. E’ straordinario come voglia pervenire attraverso la ricerca scientifica all’estrema realizzazione, una realizzazione hardcore, dell’antropocene. Non gli basta più essere l’uomo più ricco del mondo, non gli basta più piegare la natura (anche la natura umana) ai propri interessi economici, non gli basta più avere tanti soldi da potersi comprare un’isola, un continente, un pianeta, per farci quel cazzo che gli pare. A questo tipo di uomo, tutto questo non basta più, perché, sfortunatamente, tutto questo presto o tardi finirà. E’ il concetto di finitezza che non può accettare. Tutto questo non può finire, e non finirà. Costi quel che costi, agli altri, compreso l’universo (non parliamo dei poveri topi da laboratorio).

Siamo al cospetto di un gigantesco disturbo narcisistico della personalità, che si autoalimenta del suo stesso successo. Mentre però un megalomane fallito è pericoloso per sè, un megalomane di successo è pericoloso per gli altri. Una manica di megalomani di successo apre prospettive che definire fantascientifiche è ottimista e riduttivo, a meno che non ci abituiamo all’idea che le nostre utopie saranno distopie, e iniziamo ad amarle, nostro malgrado. Un po’ come nel sottotitolo de Il dottor Stranamore di Kubrick: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba.

FANTASMI /
Animula vagula blandula

Animula vagula blandula*
confessione di un daimon

“Quando tutte le anime si erano scelte la vita secondo ciò che era loro toccato, si presentarono a Lachesi. A ciascuna ella dava come compagna il daimon che quella si era assunto, perché le facesse da guardiano durante la vita e adempisse il destino da lei scelto. E prima di tutto il daimon conduceva l’anima da Cloto: sotto la sua mano e al volgere del suo fuso, il destino prescelto viene ratificato. Dopo Cloto il daimon conduceva l’anima alla filatura di Atropo per rendere irreversibile la trama del suo destino. Di lì, senza voltarsi, l’anima passava davanti al trono di Necessità.”
[Platone, Repubblica, X, 620 d-e]

cendere o salire – non saprei dire, dipende dai punti di vista, o dalla vostra filosofia, ma io di queste cose non mi sono mai curato, per me non c’è alcuna differenza tra scendere e salire – salire o scendere mi è sembrato un lampo, una frazione di tempo, o neppure questo, il tempo non sono riuscito ad avvertirlo. Per me il tempo non passa, non esiste, perché io vengo prima del tempo, e durante e dopo il tempo. Io sono prima ancora di nascere e dopo ogni vostra morte. Io sono in eterno. Devo solo svolgere il mio incarico, assolvere il mio compito: quando me lo ordinano io scendo (o salgo) là dove mi è stato indicato. Faccio il mio dovere, ma non è neppure un dovere, questa parola non ha nessun significato per me, né mi diverto a farlo, perché neppure il piacere io conosco. Salgo (o scendo) seguendo la mia natura, perché è questo che da sempre la natura ha apparecchiato per me, ciò che il supremo essere ha disposto.

Platone nella Repubblica parla bene di me, il daimon, o se volete, il genio, l’ispirazione, il soffio che guida ogni destino verso il suo compimento. Come tutte le entità a voi invisibili mi sono guadagnato molti nomi, qualcuno mi ha voluto anche con due ali sulle spalle e mi ha chiamato angelo. Platone non si discute, è tutto vero, o almeno verosimile quello che di me lui dice. Ma dimentica tanto altro. Dimentica l’ansia e la fatica del mio eterno lavoro, e la noia e il buio dell’attesa, la breve ebrezza di un trionfo e il masticare amaro di una sconfitta. Io, il daimon, devo accompagnare, devo suggerire; e interrogare, istillare dubbi, infondere coraggio. Devo orientare l’anima del corpo che mi ospita verso il bersaglio già scritto dal principio. Già scritto, ma che occorre riconoscere, incarnare, compiere. E non è cosa semplice, nient’affatto, è una faticaccia come direste voi.

Ricordo – sì, anche io ho questa cosa che voi chiamate memoria, che è in ogni essere e che lo distingue dal non essere – ricordo che ero in fila con gli altri. Una fila lunghissima sapete, come a voi capita andando a vedere una mostra di un pittore eccelso. Ero in fila e aspettavo, aspettavo di essere chiamato. Se la mia natura assomigliasse alla vostra – ma proprio questo devo fare, fingere di essere come voi, come posso altrimenti spiegare, raccontare, farmi capire? – immaginatemi dentro questa fila senza termine e senza principio, lassù, in alto, come su un ponte sopra tutte le città del mondo. Immaginatemi in una qualche forma e sostanza, anche se io non aderisco a nessuna forma, o a tutte, e contengo tutte le sostanze e le possibilità. Pensate voi a darmi una forma e una materia, un volto se volete. E datemi un corpo, un sentimento. Immaginatemi mentre aspetto, aspetto per un tempo infinito, e parlo sottovoce con i miei vicini, e cerco di guardare là in fondo dove inizia la fila – non c’è un inizio ma voi dovete immaginarlo – dove Lachesi sta seduta nel suo scranno. La prima delle tre Moire finalmente mi guarda. E io fremo e prego e spero di essere chiamato.

Dopo – non so dare una durata a quel dopo – quando è arrivato il mio turno ho provato un’emozione fortissima (anche se siete voi a immaginare questa emozione). Mi succede sempre così quando è l’ora di partire, di scendere o salire fino alla mia meta. Ecco, finalmente sono in cima, il primo della fila, e davanti a me, posso quasi toccarla, in cima alla fila opposta, la prima dell’infinita fila che fronteggia la mia, sta la predestinata. Così ho guardato quella piccola anima, quell’animuccia leggera e spaurita, proprio lei avrei dovuto accompagnare passo passo, dentro un corpo e dentro la vita.

Questa è una confessione: voglio, devo essere sincero: mi aspettavo qualche cosa di meglio, di più grande, di meraviglioso.  Invece, da un’anima così male in arnese, anche con tutto il mio impegno, con tutta la mia fede, con tutta la mia esperienza non avrei potuto ricavare granché. Se anche le anime sono infinite perché a me doveva capitarne una di scarto? Ma già Cloto, la seconda sorella, filava il suo fuso, scorrendo tutta la vita terrena. e Atropo conduceva la minuscola anima alla filatura per deciderne il termine e rendere irreversibile la trama del suo destino. Ecco, ora il daimon e la sua anima gemella sono finalmente sposi. A me spetterà condurre quell’anima al compimento del destino scritto per lei.

Ecco, sentite questo grido acuto? Non conosco i sentimenti, non so se sia un urlo di dolore oppure la gioia, la sorpresa di venire al mondo. Per questo bambino è la prima volta, mentre per me non c’è e non c’è mai stata una prima volta. Io sono dal principio, da prima del principio. Io conosco tutto e questo piccolo non conosce nulla. Lui è nuovo e ignorante, io sono antico e sapiente. Eppure non credete che io parta avvantaggiato. E’ sempre la stessa lotta che combatto. E mentre salgo, mentre scendo dentro questo bambino, mentre saluto con un cenno d’intesa la sua animuccia tremante, in questo momento sento una cosa a cui io non so dare un nome, ma che voi chiamate paura e tenerezza. Non so ancora se riuscirò nell’impresa, sono un semplice daimon, ma prometto, giuro: come un soldato fedele, come una mamma premurosa, come un artigiano innamorato del suo mestiere, come un amico fraterno, come un amante appassionato, lo prometto e lo giuro. Scorterò questa animuccia durante i suoi giorni, vigilerò sul suo sonno e sui suoi sogni, sarò accanto a lei, senza distrarmi, nella buona e nella cattiva sorte, per orientare la sua freccia nel centro esatto del bersaglio.

* Animula vagula blandula (Animuccia tenera e smarrita) è il primo verso di una breve lirica dell’imperatore Publio Elio Traiano Adriano. Adriano si prepara a congedarsi dalla sua anima e si rivolge ad essa salutandola, quasi come fosse sulla soglia che separa la vita dalla morte e si apprestasse a separarsi da una cara compagna. Gli splendidi bersi sono anche nel capolavoro di Marguerite Yourcenar “Memorie di Adriano”

Un’altra nota: questo mio breve racconto, dettato da un ricordo di Platone, è anche figlio della lettura di alcuni libri di James Hillman, e in particolare a “Il codice dell’anima” edito in Italia da Adelphi.

Racconto inedito, proprietà dell’autore.

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Caro Draghi, anche se tu ti credi assolto, sei lo stesso coinvolto

 

Tre giorni fa Francesco Monini su questo quotidiano, intuendo la frittata che sarebbe sortita dalle repentine dimissioni del ‘formica elettrica’, ha attaccato duramente e preso in giro Mario Draghi [Vedi qui].  Devo invece confessare che, circa due anni fa, anche io avevo riposto alcune disincantate aspettative (ossimoro dettato dalla prudenza) in Mario Draghi (leggi qui). Per carità: non ero convinto che l’intervento del Drake versione libero pensatore, pubblicato sul Financial Times il 25 marzo 2020 (leggi qui), un mese scarso dopo l’esplosione mondiale della pandemia, lo avesse trasformato nel nuovo John Maynard Keynes.

Non ne ero convinto, anche se in un angolino del mio cervello albergava la speranza. Del resto, scusate, Draghi allora scrisse cose come questa: “Tali aziende forse saranno in grado di assorbire la crisi per un breve periodo di tempo e indebitarsi ulteriormente per mantenere salvi i posti di lavoro. Tuttavia, le perdite accumulate potrebbero mettere a repentaglio la loro capacità di successivi investimenti. E se la pandemia e la chiusura delle attività economiche dovessero protrarsi, queste aziende resterebbero attive, realisticamente, solo se i debiti contratti per mantenere i livelli occupazionali durante quel periodo verranno alla fine cancellati.”

Ha scritto “debiti cancellati”. Lo ha scritto lui, ed io ho pensato: toh, ha capito che questa non è una crisi come le altre, questa è una crisi che impone un cambio di paradigma. Attenzione, perché scrisse anche questo: “O i governi risarciranno i debitori per le spese sostenute, oppure questi debitori falliranno, e la garanzia verrà onorata dal governo. Se si riuscirà a contenere il rischio morale, la prima soluzione è quella migliore per l’economia. La seconda appare meno onerosa per i conti dello stato. In entrambi i casi, tuttavia, il governo sarà costretto ad assorbire una larga quota della perdita di reddito causato dalla chiusura delle attività economiche, se si vorrà proteggere occupazione e capacità produttiva”.

Lì pensai: la situazione è veramente pesante se lui arriva a dire queste cose (sacrosante). Ma ciò che più mi sorprese e al contempo mi rinfrancò fu quando lessi: “I livelli di debito pubblico dovranno essere incrementati. Ma l’alternativa – la distruzione permanente della capacità produttiva, e pertanto della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e, in ultima analisi, per la fiducia nel governo. Dobbiamo inoltre ricordare che in base ai tassi di interesse presenti e probabilmente futuri, l’aumento previsto del debito pubblico non andrà a sommarsi ai suoi costi di gestione.”
Capite? L’incremento del debito come male necessario e largamente preferibile alla distruzione della base produttiva. E infine: “Davanti a circostanze imprevedibili, per affrontare questa crisi occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra. Gli sconvolgimenti che stiamo affrontando non sono ciclici. La perdita di reddito non è colpa di coloro che ne sono vittima. E il costo dell’esitazione potrebbe essere fatale. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni Venti ci sia di avvertimento.” 

Queste non sono parole di un banchiere. Queste sono parole di uno statista.
Un anno dopo Draghi è diventato Presidente del Consiglio
, spintoci da persone che lo hanno individuato come uno dei pochi (l’unico?) in grado di attuare certe linee di politica economica, perché dotato della credibilità e della affidabilità necessarie per attuarle senza farsi bacchettare dai burocrati del pareggio di bilancio e senza farsi condizionare dalle consorterie di partito.
Bene. Le ha attuate?

200 euro una tantum, 85 milioni per l’innovazione digitale a scuola, fino a 840 euro (tetto massimo) per le famiglie con handicap (eredità del precedente governo); negazione del reddito di cittadinanza a chi rifiuta una “offerta di lavoro congrua”; blocco sostanziale del superbonus per eccesso di abusi (che però parrebbero soprattutto esserci stati sul bonus facciate); rimodulazione Irpef sostanzialmente piatta, che ha restituito più potere d’acquisto a chi guadagna di più e meno a chi guadagna meno, con buona pace del criterio della progressività, e dell’idea della redistribuzione. Sto tenendo fuori i fatti che Draghi non poteva prevedere: la guerra e la conseguente impennata dei prezzi, rispetto a cui le misure adottate finora non sono minimamente avvertibili.

C’è uno scarto abissale tra il Draghi visionario del marzo 2020 e il Draghi capo di un governo che risponde con misure stitiche alla più grave crisi del secondo dopoguerra.
Non sono così ingenuo da pensare che fosse possibile trasporre integralmente, declinandole in provvedimenti di concreto e strutturale aiuto a famiglie e imprese, le linee da Piano Marshall da lui delineate in quell’intervento. Ma se devo pensare che questa sia stata la visione che lo ha ispirato, dovrei definire la sua gestione di questi 500 giorni di governo totalmente fallimentare.

Il fatto che sia caduto proprio adesso è considerata una sciagura perché proprio adesso stava arrivando il bello, la ciccia; i soldi del Pnrr, la riforma del fisco, quella della giustizia, il tetto al prezzo del gas (notare che la Spagna lo ha già introdotto, e noi no; quando pensiamo di introdurlo, invece di limitarci a dichiararlo?). A parte che suona comico questo “proprio adesso”, dopo che sono passati 516 giorni, non 56. Ma io chiedo: di chi è la responsabilità di avere messo “proprio adesso” nei casini il Paese, quel Paese nell’interesse del quale tutti, a partire da Draghi, dichiarano di agire?

I 5 Stelle hanno posto dei temi sociali all’attenzione del Governo. Se ci fossero state delle reali aperture, non credo che avrebbero rifiutato di votare la fiducia al cosiddetto Decreto Aiuti. Hanno fatto una cosa irresponsabile? Non saprei. Se avessero ritirato tutta la delegazione di ministri avrebbero fatto un passo da cui non potevano tornare indietro, ma non lo hanno fatto, per cui hanno lasciato la porta aperta.
Forza Italia e Lega non hanno votato la fiducia perché il Governo l’ha posta unicamente su una risoluzione del PD, firmata Casini, che diceva in sostanza “va bene quello che ha detto Draghi, punto e basta”. Irresponsabili pure loro? Può darsi.

Ma questa irresponsabilità va equamente divisa, perché se la logica è questa, c’è un terzo irresponsabile: Mario Draghi.

Il suo Governo, infatti, non è stato sfiduciato. Anzi, ha ottenuto nuovamente la fiducia della maggioranza del Parlamento. Nonostante questo, Draghi ha confermato le sue dimissioni.
In pratica ha detto: se non ci sono dentro tutti quelli di prima, io non ci sto più, però devono fare quello che dico io. Se non è un peccato di arroganza questo, vorrei capire cos’è. Dietro questo sfarinamento si intuisce chiaramente una difficoltà anche nella gestione di rapporti personali, e quando gestisci un gruppo da primus inter pares questa incapacità non è un difetto da poco.

Quindi Mario Draghi se ne va pur non essendo stato tecnicamente sfiduciato, ed è una mossa che personalmente non comprendo.
Se avesse a cuore i problemi che lascia aperti sul campo, se ne occuperebbe con un Governo dalla maggioranza più risicata ma sicuramente dalla linea più coesa. Invece è come se dicesse: io me ne vado, e se dopo di me deve diluviare, che diluvi. Non la trovo una mossa da statista.

Parole e figure /
L’estate più bella

Ai luoghi che restano e ci vedono passare

Acchiappastorie è il nome, azzeccatissimo, della collana di Terre di Mezzo che più mi piace, compagna paziente di questi afosi pomeriggi di vacanze estive. Sono al mare, finalmente un po’ di riposo e di relax, immersa nelle letture che più mi piacciono, da sempre, gli albi illustrati per ragazzi ma anche per adulti che si sentono sempre bambini. Una bella vignetta di Snoopy mi ricorda che abbiamo sbagliato tutti quando ci chiedevano cosa volevamo fare da grandi: la risposta giusta era restare bambini. Io ci provo, almeno, e non mi è difficile.

In queste acchiappastorie ci sono tutti gli ingredienti più appetitosi: (acchiappa)sogni, (acchiappa)fantasmi, (acchiappa)fantasia, (acchiappa)ricordi, (acchiappa)bellezza.

Lei è una delle autrici-illustratrici francesi più interessanti del panorama di questa zona sogni: Delphine Perret, classe 1980, laureata in design alla Scuola di Arti Decorative di Strasburgo. Con Terre di mezzo Editore ha pubblicato Björn (2018) e Björn. Una primavera di scoperte (2019) e Tutto comincia da un punto (2020). In Francia è stata premiata al Salone del libro di Montreuil, la più importante fiera francese dell’editoria per ragazzi.

Il libro che ho tra le mani è il suo ultimo capolavoro, L’estate più bella (Le plus belle été du monde, Éditions les Fourmis rouges), da lei scritto e illustrato, che ha ottenuto il Prix Sorcières (il premio attribuito dall’associazione dei bibliotecari di Francia e dell’associazione librerie specializzate per ragazzi) ed è stato inserito nella IBBY Honour List 2022 (IBBY è l’organizzazione no-profit l’International Board on Books for Young People che effettua una selezione biennale di libri di recente pubblicazione, opera di scrittori, illustratori e traduttori dei suoi paesi membri, caratterizzati dal rappresentare il meglio della letteratura per bambini del Paese di provenienza ma dall’essere, allo stesso tempo, adatti alla pubblicazione in tutto il mondo, con un approccio quindi interculturale. Le collezioni permanenti dei libri della Lista d’Onore sono conservate a Monaco di Baviera, Zurigo, Bratislava, San Pietroburgo, Tokyo, Kuala Lumpur, Tucson).

L’estate più bella riporta indietro nel tempo, quando i gesti più semplici erano naturali e ci rendevano felici, oggi più che mai che quei momenti restano solo bei ricordi.

Il libro è illustrato con acquerelli dai colori tenui e un poco sfuocati, come il ricordo e il tempo spensierato dell’infanzia meritano.

La bellezza dei momenti passati solo con la mamma, in attimi fatti di felicità e complicità memorabili, ci abbraccia teneramente. Bastava un gelato, un prato verde e un picchio rumoroso a rendere unica un’estate che trascorreva lenta.

Il libro è un dialogo ma è fatto anche per essere letto ad alta voce, a due magari, leggendo e rileggendo passaggi alla sera prima di andare a dormire. Va sfogliato e risfogliato con calma, immagini, parole e pensieri quasi da cullare.

Delphine si ispira ai ricordi d’infanzia della casa dei nonni nel dipartimento del Giura, in Borgogna, e accarezza la dolcezza dei luoghi che restano e ci vedono passare. Quella casa di campagna, fatta di paesaggi quasi eterei, accoglie tutti gli elementi di un bel racconto d’infanzia: le caramelle all’ananas rimaste sull’armadio di cui sentiamo ancora l’odore e il sapore, gli stivali da pioggia gialli che forse un anno dopo sono diventati un poco stretti, i tappi di sughero numerati e dimenticati, i fili d’erba che fra le labbra emettono piacevoli suoni, la soffitta piena di polvere, stoviglie, fotografie e forzieri, le api, i calabroni e le ortiche, un attento fuocherello nel bosco, il lavarsi i denti canticchiando in pigiama, prima di andare a letto, l’osservare un picchio verde, uno scarabeo, un grillo, i girini, una farfalla, una tela di ragno o le formiche, le foto di un cane nella sua cuccia, le macchinine colorate da non lasciare lungo le scale, il sonnellino pomeridiano, le pigne da colorare, il rumore dei passi sulla ghiaia, la cena con l’attesa del dolce, la visita degli amichetti e le avventure nelle tende o nelle recite teatrali, spettacolo in maschera e costume, la raccolta di more o di lamponi, i guanti spaiati (perché mai si trova sempre solo il destro?), il panino mordicchiato a metà, i soldatini da spostare perché stanno sempre in mezzo, un piccolo guscio d’uovo di volpe.

I luoghi dove passiamo e che restano non significano tanto che le cose ci sopravvivono ma, come dice l’autrice in una delicata e originale intervista su radio france, che vi invito ad ascoltare se comprendete il francese, che quei luoghi sono fatti da tutte le persone che ci hanno preceduto. Se si tratta di membri della famiglia, magari sono ancora lì con noi (“mi ricordo che un giorno il nonno ha portato a casa una biscia enorme, in un catino”. “Il nonno? Quand’era piccolo?” “No, era grande. Era già diventato il mio papà”… “Quando il nonno è morto, tu hai pianto?”. “Certo”) se, invece, sono altri, sono coloro che, con la loro esistenza, hanno fatto quei luoghi. Coloro che gli hanno dato vita, respiro, luce, energia e anima. E che nel e con il ricordo di tutti accompagnano la storia. Parlare e raccontare di chi non c’è più anche a chi non lo ha mai conosciuto rende vivo un essere che magari da lassù ci guarda con affetto, tenerezza o amore. La memoria salva, fa amare la vita e cerca di impedirne corsi e riscorsi storici. Anche il semplice ricordo di un sapore può essere meraviglioso.

La complicità con un genitore, fatta di piccoli ma indimenticabili momenti, rimane per sempre, se pur sfumata da e con un acquerello. L’acquerello della vita che scorre.

Il tutto mentre si prova ad allacciarsi da soli le scarpe, finché, dopo numerosi vani tentativi, finalmente vi ci si riesce. E allora si è cresciuti. Ricordando quell’estate, lontana ma vicina, quell’estate che è ed è stata la più bella del mondo.

 

TACCIANO LE ARMI NEGOZIATO SUBITO!
Oggi flash mob anche a Ferrara: piazza Municipale ore 18

?️‍?TACCIANO LE ARMI: NEGOZIATO SUBITO!?️‍?

VENERDI’ 22 LUGLIO ORE 18.00 – PIAZZA MUNICIPALE FERRARA

La Rete per la Pace di Ferrara organizza un flash mob nell’ambito della mobilitazione nazionale per la pace che si terrà in tutte le città italiane.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha riportato la guerra nel cuore dell’Europa ed ha già fatto decine di migliaia di vittime. Si avvia a diventare un conflitto di lunga durata con drammatiche conseguenze sulla vita e il futuro delle popolazioni ucraine, ma anche sull’accesso al cibo e all’energia di centinaia di milioni di persone, sul clima del pianeta, sull’economia europea e globale.
Siamo e saremo sempre dalla parte della popolazione civile, accanto alle vittime, e con i pacifisti russi che si battono per porre fine all’aggressione militare.

Questa guerra va fermata subito cercando una soluzione negoziale, ma non si vedono sinora iniziative politiche in questa direzione, né da parte degli Stati, né da parte delle istituzioni internazionali e multilaterali.

Occorre che il nostro paese, l’Europa, le Nazioni Unite operino attivamente per favorire il negoziato e avviino un percorso per una conferenza internazionale di pace che, basandosi sul concetto di sicurezza condivisa, metta al sicuro la pace anche per il futuro.
Bisogna fermare l’escalation militare. Le armi non portano la pace, ma solo nuove sofferenze per la popolazione. Non c‘è nessuna guerra da vincere: noi invece vogliamo vincere la pace, facendo tacere le armi e portando al tavolo del negoziato i rappresentanti del governo ucraino, di quello russo, delle istituzioni internazionali.

La popolazione italiana, nonostante sia sottoposta a una massiccia propaganda, continua a essere contraria al coinvolgimento italiano nella guerra e a chiedere passi concreti da parte del nostro governo e dell’Unione Europea perché sia ripresa con urgenza la strada dei negoziati.
Questo sentimento maggioritario nel paese è offuscato dai media più diffusi e non è rappresentato in Parlamento. Occorre dargli voce perché possa aiutare il Governo a cambiare politica e a imboccare una strada diversa da quella attuale.

Per questo – a 150 giorni dall’inizio della guerra – aderiamo anche a Ferrara alla giornata nazionale di mobilitazione per la pace con iniziative in tutto il paese per ribadire:
TACCIANO LE ARMI, NEGOZIATO SUBITO!
Rete per la Pace Ferrara

LA BANDIERA SBAGLIATA
Tra i giornali ferraresi, Estense.com ci è sempre sembrata una esperienza coraggiosa, un esempio di giornalismo locale indipendente. La consideriamo una testata amica, non certo un concorrente, anche perché questa testata, periscopio, non è un quotidiano locale, nè lo era il quotidiano glocal ferraraitalia. Questa volta però, in occasione della pubblicazione del comunicato de Rete per la Pace Ferrara, ci è parsa sbagliata, giornalisticamente non corretta, la scelta di Estense.com di scegliere come copertina la bandiera dell’Ucraina. L’appello “Negoziato subito!” si rivolge a tutte le parti in campo (Russia, Ucraina, Stati Uniti, Inghilterra, Francia ,Italia …), a tutti i Paesi che (direttamente o indirettamente) prendono parte al conflitto. La solidarietà dovuta al popolo ucraino, non deve essere scambiata con al solo appoggio all’Ucraina e all’adesione del popolo pacifista alle posizioni atlantiste. Scegliere di mettere in copertina i colori dell’Ucraina, invece, induce proprio in questo equivoco. Le manifestazioni che oggi si terranno a Ferrara e in tutte le città d’Italia chiedono, in coerenza con le posizioni del movimento pacifista internazionale, la trattativa, la tregua, la pace per tutti i civili: per il popolo ucraino come per le minoranze russofone. Dunque, l’unica bandiera che si può e si deve sventolare (e correttamente mettere sul giornale) è la bandiera arcobaleno. Così noi ci siamo sentiti di fare.
Francesco Monini

Progetto FERIS: non basta dire no.
Lavoriamo insieme ad una nuova idea di città

 

Con la riunione del Consiglio comunale del 12 luglio si è concluso solo il primo round relativo al progetto FERIS (Ferrara Rigenerazione Innovazione Sostenibilità), quello che mette insieme la ristrutturazione della ex Caserma di Cisterna del Follo, la creazione di un nuovo parcheggio in viale Volano e di un ulteriore ipermercato in via Caldirolo. Lo svolgimento di questo round ci dice non solo che l’approvazione di tale progetto è filata in modo tutt’altro che liscio rispetto a quanto previsto dall’Amministrazione, ma che è possibile, nei passaggi successivi, fermarlo e rendere possibile soluzioni completamente diverse.

E’ necessario lavorare per questa prospettiva, perché il progetto è radicalmente sbagliato e regressivo rispetto ad un’idea di città che guarda al futuro.

Checché ne dica l’acronimo FERIS, nel progetto non c’è nulla che parli di rigenerazione, innovazione e sostenibilità.
Tante sono le ragioni e le motivazioni di un giudizio totalmente negativo avanzate da più parti[vedi ad esempio la stroncatura di Italia Nostra]. Mi limito qui a ricordare quelle essenziali.

il nuovo Ipermercato in via Caldirolo riesce, contemporaneamente, a consumare suolo agricolo e a insistere in un’area in cui, nel raggio di poco più di 1 km, ce ne sono altri 5 per servire circa 13.000 ferraresi, con un rapporto, quasi incredibile, tra mq. di superficie di vendita e 1000 abitanti pari a 461metri quadri.

Il parcheggio in viale Volano, oltre a svalorizzare il paesaggio nel vallo murario, contraddice qualunque approccio adeguato al tema di una nuova mobilità non più incentrata sull’utilizzo dell’auto privata, nonchè di incentivazione al trasporto pubblico collettivo, che in tante città europee significa parcheggi scambiatori nelle zone periferiche e non a ridosso del centro cittadino.

la ristrutturazione dell’ex Caserma è tutta guidata da interventi, siano lo studentato, la parte di edilizia residenziale e quella destinata ad altri servizi, che, anziché guardare all’utilità pubblica, sono finalizzati alla redditività dei soggetti privati che gestiranno quelle attività.

Per farla breve, siamo in presenza di una logica, già fatta propria in altre vicende (dall’utilizzo delle piazze del Centro a quella del Parco Bassani per il concerto futuro di Bruce Springsteen), di privatizzazione degli spazi pubblici e della città. Il tutto seguendo i più classici concetti neoliberisti, a partire dal dogma di attrattività degli investimenti privati che, di per sé, produrrebbero ricchezza economica e sociale.

Il punto è che tale modello ormai non funziona più da tempo e solo fanatismi ideologici e/o interessi di natura privata impediscono di guardare in faccia questa conclamata realtà.

Sempre per stare a Fe.ris, si può dire che esso ha quasi una valenza paradigmatica rispetto all’idea di sviluppo e di città dell’Amministrazione di centrodestra: edilizia e commercio (ai quali si aggiunge il turismo come “fattore produttivo”) come volani per la crescita e il rilancio economico e sociale. Un’impostazione per lo meno datata, vecchia di decenni, e incapace di prospettare una traiettoria adeguata ai problemi di oggi. Non a caso la parte dedicata ai risultati occupazionali del progetto FERIS – 350/400 posti di lavoro strutturati in più- non è assolutamente argomentata e si presenta come stima completamente arbitraria: allo stesso modo, si poteva dire che l’incremento occupazionale previsto è di 100 unità o di 1000 unità, tanto esso è privo di qualunque analisi e approfondimento.

Dicevo in premessa che l’operazione congegnata dall’Amministrazione su FERIS non è andata come progettato. Si era pensato ad una sorta di approvazione-lampo – nel giro di una settimana il passaggio in Commissione consiliare e poi in Consiglio comunale- nel silenzio della città per poi procedere speditamente con gli altri passaggi. In realtà, il voto è stato assai risicato – 17 favorevoli e 15 contrari, con l’opposizione significativa di 3 componenti della maggioranza-, l’opposizione è riuscita, a differenza di altre vicende, a far sentire la propria voce in modo sufficientemente chiaro, si sono prodotte molte prese di posizioni di contrarietà di persone e delle organizzazioni/associazioni sociali, dalle rappresentanze dei commercianti a quelle dei sindacati, dal mondo ambientalista a importanti settori intellettuali.

Soprattutto, si è visto il Consiglio comunale affollato da tante cittadine e cittadini che, senza essere “ convocate” in particolare da nessuna organizzazione, ma spinte dalla consapevolezza dell’importanza delle questioni in gioco, segnalano una possibilità di risveglio e protagonismo delle persone interessate al futuro della città.
Sono queste le risorse su cui diventa possibile contare per fermare il progetto FERIS nei suoi passaggi successivi e invertire la tendenza negativa che lo anima. In particolare, se vogliamo provare ad arrivare lì, a mio parere è necessario avere chiaro almeno 3 ordini di questioni.

La prima, tutt’altro che banale, è che l’attuale opposizione, per essere credibile, dovrebbe riconoscere che, nella sua attività di governo precedente, anche sui temi urbanistici e di visione della città, non ha avanzato una progettualità alternativa a quella cui oggi giustamente si oppone. Certo, è intervenuta in modo meno “sgarbato”, dentro un quadro di regole fissato e non pensato di volta in volta, secondo le proprie convenienze (e quelle dei privati), ma non c’è dubbio che, per usare l’esempio dello sviluppo degli ipermercati e del rapporto pubblico-privato, anche le Amministrazioni di centrosinistra hanno guardato alla loro proliferazione come punto positivo ai fini della crescita economica e sociale.
Detto in altri termini, fa quasi ridere sentire dal sindaco Fabbri che la presenza di un nuovo soggetto privato avrebbe il merito di rompere il monopolio rappresentato dalla grande distribuzione affidata alla cooperazione amica del centrosinistra– narrazione che ricorda l’ “anticomunismo” di Berlusconi degli anni ‘90 del secolo scorso- se invece si pensa che, come è stato giustamente ricordato da Stefano Lolli, oggi operano sul territorio comunale anche Tosano, Interspar, Lidl, Aldi, Despar, Famila, Penny Market, Ecu, Eurospin, Cadoro, In’s, Conad, Carrefour, Md, Crai e Superday.

E’ proprio questo, invece, che merita una riflessione: non un’ autocritica fine a se stessa, operazione notoriamente priva di significato, ma la riconsiderazione di un approccio per cui anche il centrosinistra si è dimostrato subalterno alle logiche privatistiche e dettate dal mercato e che, oggi, come su altre questioni, il centrodestra aggrava e porta alle sue estreme e negative conseguenze.
Per esemplificare, tale riconsiderazione potrebbe partire appoggiando la battaglia aperta in città dal Comitato “Save the Park”, con l’obiettivo di far svolgere il futuro concerto di Bruce Springsteen in un’area diversa dal Parco Urbano Bassani: un tema rilevante, che parla anch’esso dell’idea di città.

Da qui si arriva alla seconda questione di fondo, e cioè al fatto di intervenire nei prossimi passaggi relativi all’approvazione di FERIS, con l’idea di farlo bocciare e iniziare a costruire un altro percorso. Altri attori dovranno pronunciarsi nei mesi a venire, dovendo modificare il Piano provinciale del commercio e produrre la variante urbanistica, a partire dalla Provincia e, se non ho capito male, dalla Regione. Detto solo come inciso, non mi dispiacerebbe capire cosa pensa in proposito il presidente della Giunta regionale Bonaccini che, per usare un eufemismo, non si è certo distinto per proporre un modello di sviluppo sociale e produttivo diverso dall’idea di pura crescita quantitativa del PIL, con quel che ne consegue.

Infine –  terzo e decisivo punto fondamentale – occorre, appunto, mettere in campo un progetto alternativo a FERIS.
Il docente di urbanistica Farinella, nei giorni scorsi, ha ricordato come diverse città hanno organizzato gli ‘Stati generali’ per discutere gli obiettivi di fondo del futuro urbanistico della città. Dubito che quest’Amministrazione sia interessata a farlo, visto come ha proceduto in questa vicenda, tutta costruita per silenziare la città.
Mi sento, però, di riprendere lo spirito della proposta: si potrebbe pensare di dare vita ad una sorta di ‘Stati generali dal basso’ per dare voce a tutti i soggetti – cittadini, associazioni e organizzazioni, intellettuali, esponenti politici – che si oppongono a FERIS ed elaborare, in modo partecipato, un’ipotesi alternativa ad esso, come premessa per impostare un nuovo ridisegno della città. Penso valga la pena ragionarci sopra.

Se non l’hai ancora fatto, puoi  leggere e firmare la petizione popolare SAVE THE PARK che ha già superato le 23.000 firme [la trovi Qui]

Più di Undici
Storia Passionale di Amore e Ludibrio (SPAL)

 

Non esiste in Europa una squadra di calcio il cui nome sia un acronimo più raffinato di SPAL: Società Polisportiva Ars et Labor (esiste CSKA, ma sta per Club Sportivo dell’Esercito, una cosa molto più dozzinale). Così come non esiste in Europa una Curva di tifosi che abbia scritto una storia collettiva (ma anche molto individuale) di sè e l’abbia pubblicata in veste di romanzo, con tanto di codice ISBN. Con un’eccezione: la Curva Ovest di Ferrara, la cui lingua ufficiale è un dialetto da grezz e aldamar, contraltare della raffinatezza latina dell’acronimo.

Non ho mai capito come si fa a scrivere un libro a quattro mani, figuriamoci a trenta. Non ho mai davvero capito come fa il collettivo Wu Ming a scrivere, e quando l’ho chiesto a uno di loro, Wu Ming 1, mi ha risposto che nelle loro riunioni si scannano a parole fino a venire (quasi) alle mani. Questo produce un miracoloso compromesso al rialzo, che tiene il radicale e scarta il pallido. Il contrario del compromesso al ribasso, che tiene il pallido e scarta il radicale. Credo che il meccanismo sia il medesimo della scazzottata: dopo che ti sei picchiato, quello non è più un tuo nemico, perchè hai eliminato il non detto, ma anche il non fatto. Vi siete detti tutto e vi siete spaccati la faccia. Non c’è più spazio per covare il rancore, e questo fa scaturire addirittura la possibilità di un’amicizia.

Per capire come la Curva Ovest ha potuto scrivere “Più di Undici” ho condiviso una birra al circolo Blackstar, a margine della seconda presentazione “pubblica” del libro, con quattro di loro: Michele, Cristiano, Filippo e Marco. Mi hanno spiegato che alcuni membri della Ovest erano soliti scrivere piccole storie, tipo resoconti di trasferte o partite speciali, che poi venivano diffusi in Curva. Poi è lentamente maturata l’idea di scrivere dei racconti “finiti”, che si esaurivano nella vicenda narrata all’interno della singola storia. Ogni racconto aveva un protagonista: ognuno di questi (alla fine) quattordici personaggi è un dropout, ma più che di emarginati sociali (c’è anche qualche professionista in carriera) è appropriato parlare di persone che si trascinano dietro un nodo esistenziale irrisolto, e che hanno un punto in comune, pur non conoscendosi: un passato da ultrà della Curva Ovest, o perlomeno da appassionato curvaiolo dei tempi che furono. Qui sta la chiave di questa pionieristica opera di artigianato collettivo: dall’integrato allo scoppiato, ognuno di questi caratteri si ritrova a fare i conti con il suo passato, o prova a dare una svolta al suo presente, scegliendo come luogo fisico e simbolico di approdo lo stadio del Rapid Bucarest, dove la Spal deve giocare l’andata di un fantasmatico preliminare estivo di Europa League. Ad un certo punto, il gioco delle casualità e delle combinazioni fa in modo che le strade di questi personaggi si intersechino, si mescolino, e diventino una storia collettiva fatta di tante singole imperfezioni, rimorsi, rimpianti, inadeguatezze, scelleratezze. L’operazione di intersezione dei personaggi mi ha ricordato, in qualche modo (e non sembri sacrilego il paragone), quello che lo sceneggiatore del film America Oggi di Robert Altman fece con i personaggi di alcuni racconti di Raymond Carver, in origine separati l’uno dall’altro e invece intrecciati nella trama livida della pellicola che da essi prendeva spunto.

A Ferrara non si dice “vado allo stadio”, ma “vado alla Spal” . Per chi non si è perso una trasferta, nemmeno a Santa Croce contro il Cuoiopelli o a Solbiate, sfidando il ludibrio post-fallimento e credendo all’incredibile, cioè ad una Spal che dalla Lega Pro arriva alla serie A in tre anni, non può apparire impossibile nemmeno una “improbabile trasferta” a Bucarest, come la definisce il collettivo LAPS (Laboratorio Autonomo Produzioni Spalline). Chi invece alla Spal andava da ragazzino ma poi l’ha persa di vista, per disamore, scoramento o perchè la vita l’ha portato lontano dal Mazza, proverà un brivido nel rileggere la incomprensibile, arcana cantilena che negli anni settanta lo speaker gracchiava pochi minuti prima dell’inizio della partita: sigma, novaghemo, monocura . Erano prodotti per l’agricoltura, ma per le orecchie di un bambino erano le parole d’ordine esoteriche che preludevano all’ ingresso delle squadre in campo, quando il cuore batte a mille. Chi infine vuole provare l’emozione straniante e rassicurante di sentir parlare in dialetto ferrarese trovandosi in un lontano altrove straniero (a chi non è capitato di sentir esclamare un maial! in capo al mondo?), si tuffi dentro le pagine di “Più di Undici”:

La luce del fumogeno illuminava gli avversari: si distingueva nettamente il viso di Aldro su una, due, tre maglie delle ombre avversarie. “Fermi! Fermi! A sén ad Frara anc nualtar!”…In un secondo l’elettricità nell’aria si dissolse in uno scoppio di risa, pacche sulla schiena e cori. C’erano tutti: quelli di Barco e di Vigarano, Claudio col suo megafono e il gruppo dei giovani con Sambo in testa. Tutti si abbracciarono ridendo in mezzo al fumo delle torce. I due pullman dispersi a Trieste si accodarono agli altri tre e si ricostituì la colonna. Era tempo di ripartire. Il confine con la Romania non era lontano. 

Oggi, 20 luglio 2022, “Più di Undici” sarà presentato allo Spazio Grisù-Consorzio Factory Grisù a partire dalle ore 19.

Dopo Lui il diluvio? Macché, il diluvio c’è già stato!
Le inspiegabili ragioni del successo di una “formica elettrica”.

 

Mario Draghi si è dimesso. O dio mama!
Ma davvero il paese è in lutto? Da buon cronista dovevo fare un’immediata verifica.
Appena appresa la ferale notizia, sono subito andato a fare un giro in citta. Centro e periferie. Tutto normale. Poi ho preso il cellulare e ho telefonato agli amici in tutta Italia, da Bolzano a Catania. Nessuna visibile reazione. Come se niente fosse successo.
Sara colpa del popolo bue?
Sicuramente è il segno della distanza siderale (visibile solo con il nuovo telescopio spaziale appena entrato in funzione) tra la politica e i partiti da una parte, e il popolo che in teoria dovrebbero rappresentare dall’altra.

Ai ‘piani alti’, le dimissioni di Draghi hanno innescato una inarrestabile reazione a catena, una frana emotiva, una valanga di accuse incrociate. Tutti i leader di partito della eterogenea maggioranza larga piangono e protestano in pubblico, molti (il più accorato è Enrico Letta) implorano Draghi di restare, di non fare lo schizzinoso, di ripensarci, di aver pietà di loro. Si segnalano i soliti affabulatori: il nuovo uomo di regime Luigino Di Maio e il fine politologo Matteo Renzi. E assieme ai partiti, piangono e strillano, intingendoci il cucchiaio fino al gomito, giornalisti e commentatori, governativi (per fede o per necessità),  tutti i canali televisivi, i grandi quotidiani mainstream. Il più sparato di tutti? Sempre lui, il direttore Maurizio Molinari e la sua Repubblica.

Sono giorni (e notti) di riunioni, risse, trattative convulse per mettere insieme i cocci di una qualche maggioranza e convincere Draghi a tirare avanti almeno fino a dicembre. Ce la faranno? Come sempre, tutto dipende da lui, sarà Draghi a decidere. Domani il Presidente del Consiglio dimissionario andrà in Parlamento e finalmente sapremo: un Draghi bis o elezioni anticipate?
Messi male come stiamo, confesso che l’alternativa mi lascia indifferente e, al di là dei soliti inaffidabili sondaggi, ho la sensazione che la grande maggioranza degli italiani sia indifferente come e più di me.

Insomma, mentre partiti e media sembrano eccitati, quasi isterici per le dimissioni di Mario Draghi, il paese reale (esattamente quello che i nostri politici citano spesso senza conoscerlo affatto) non sembra per nulla traumatizzato. Al contrario, ho il sospetto che molti italiani abbiano tirato un sospiro di sollievo. Non se ne poteva più del “più bravo di tutti”, del santo taumaturgo, del gran finanziere “fazo tuto mi”, del Salvatore della patria… che invece non ci aveva salvati per niente: dall’impoverimento, dalle morti record per Covid, dall’inflazione galoppante, dalla disoccupazione e dal lavoro precario e malpagato, dalle fabbriche chiuse grazie al lasciapassare governativo ai licenziamenti e alle delocalizzazioni gratis et amore dei.

Un mistero da sondare

Mi appassiona invece provare a rispondere ad alcune domande, che tutte insieme rappresentano un vero mistero, impossibile da sciogliere. O quasi.
Per quali motivi tutta la classe politica italiana è schierata come una truppa di soldatini di stagno dietro il generale Draghi?
Perché tutti i ‘nostri alleati’, in Europa come Oltreoceano, lo ritengono una garanzia autorevole e necessaria per l’equilibrio europeo e mondiale?
E per quale arcana e oscura ragione Super Mario rappresenterebbe (come tutti ci ripetono) l’ultima e unica risorsa per salvare l’Italia?

Per favore, lasciamo perdere il suo aureo curriculum in Banca d’Italia e alla BCE.  Avrebbe salvato l’Euro? Non so, c’è pure chi la pensa diversamente, soprattutto i greci che per i diktat della troika hanno versato moltissimo sangue, ma va bene, magari come capo banchiere d’Europa ha fatto anche cose buone, come, negli ultimi anni del suo mandato, il comunque tardivo quantitative easing.

Qui però stiamo parlando di Mario Draghi Presidente del Consiglio, di quanto è riuscito a combinare nei 18 mesi in cui ha comandato con pugno di ferro la baracca Italia. Quali eccezionali risultati può vantare il suo governo? Di quali meriti, di quali medaglie si può fregiare? Se questi successi, anche solo parziali, ci fossero, allora si potrebbe capire l’entusiasmo per il governo Draghi di tutto l’establishment politico. Invece di questi successi non c’è traccia.

Corrado Oddi, su questo quotidiano, ha scritto più di un articolo denunciando, dati ufficiali alla mano, il completo fallimento delle politiche neoliberiste perseguite dal governo Draghi. Puoi leggere alcuni interventi di Oddi Qui  Qui Qui e Qui.

Ma mettiamoli in fila i grandi in-successi di Draghi.
Dal 2005 (prima della grande crisi) al 2020, in Italia il numero delle famiglie e delle persone sotto la soglia di povertà assolutè triplicato (primi in classifica in Europa e con grande distacco). Negli ultimi 18 mesi, quelli di Mario Draghi, nonostante il grande rimbalzo del PIL registrato nel 2021, i poveri sono rimasti tali e quali. A chi è andato allora il surplus di ricchezza prodotto da quel +7,5 di PIL del 2021? Sono sicuro che il lettore può arrivarci senza un mio suggerimento.

L’inflazione, lo sappiamo, è alle stelle. Metteteci pure l’onda lunga della pandemia, la guerra in Ucraina e la conseguente ‘guerra del grano’, le sanzioni alla Russia a cui la Russia ha risposto tagliando il gas all’Italia, metteteci anche la grande speculazione sui prezzi di gas e petrolio, fatto sta che i prezzi al consumo, quindi la spesa delle famiglie italiane, continuano a salire come un razzo. Fonte Istat+ 4,5 nel 2021 e + 6,4% nel primo semestre dl 2022.

Nel medesimi 18 mesi, i salari sono cresciuti poco o nulla (rimando ancora a Oddi che mostra come i salari italiani, a differenza di quelli francesi o tedeschi, siano ‘inchiodati’ da più di quindici anni). In ogni caso Draghi ha ascoltato le richieste dei sindacati ma ha fatto solo vaghe promesse. Quanto a calmierare i prezzi, il governo non ci ha neppure provato. Giusto una spuntatina alle tasse sulla benzina, qualche rimborso causa Covid e il famigerato bonus edilizio del 110%, il quale, tra l’altro, ha fatto impennare i prezzi di calce, mattoni e di tutti i materiali da costruzione.

Primi in Europa

Rimarrebbe, ultima bandiera, il figurone fatto del governo Draghi per la sua gestione della pandemia: vaccinazioni, tamponi, e quant’altro. E’ stato o non è stato Draghi a scegliere di persona personalmente Francesco Figliuolo, l’ormai celebre generale con la piuma sul cappello? Da tutto il mondo sono piovuti complimenti per la strategia italiana di lotta al virus. Nessuno ha vaccinato più di noi, anche perché nessuno ha martellato i cittadini come in Italia; grazie a Draghi, devi vaccinarti per amore o per forza… se non vuoi essere licenziato in tronco.

Non è questo il luogo per discutere ancora di vaccini e vaccinazioni (periscopio ne ha parlato diffusamente, usando sempre il beneficio del dubbio), ma c’è un dato macroscopico  –  e che nessuno ama citare –  che dimostra come nella gestione della pandemia qualcosa sia andato storto. Anzi, più di una cosa. Il dato è quello delle morti per Coronavirus – in rete trovate tabelle aggiornate quotidianamente [Vedi qui]. Provate a confrontare i numeri dei vari paesi europei. Ecco un piccolo ma significativo estratto: dall’inizio della pandemia in Italia si registrano 170.037 morti per Covid, in Francia (con una popolazione superiore all’Italia di qualche milione più) le morti sono 151.875,  in Germania (84 milioni di abitanti) 143.650. Significa che – senza la nostra campagna mediatica asfissiante, senza il ricatto della perdita del lavoro, senza la demonizzazione dei non vaccinati –  gli altri hanno fatto meglio di noi, o almeno meno peggio. La Francia ha avuto circa il 12% di morti in meno rispetto all’Italia (che diventa un -15% se si considera l numero degli abitanti dei due paesi), mentre in Germania il conto dei decessi è  inferiorie del 20% (- 30% se calcoliamo che la Germania ha 25 milioni di abitanti dell’Italia).
Saremo pure i primi per il numero di vaccinati, ma siamo primi (cioè gli ultimi della classe) anche per il numero dei morti.

Fatto sta che, per non guastare la narrazione trionfalistica e nazionalista, in Italia delle statistiche dei morti si preferisce non parlare. Come non si parla più degli ospedali in cronica e mai sanata carenza di personale medico e paramedico.
La triste verità è che anche sul fronte Covid, prima il governo Conte bis, poi il governo Draghi. non si sono coperti di gloria. Ce la raccontano, ma quelle 170.000 croci dimostrano il contrario.

La formica elettrica

Non voglio crocifiggere Mario Draghi – so anche che alla Confindustria e al suo dinamico presidente Bonomi piace tantissimo – dico semplicemente che non vedo traccia di un suo successo (basterebbe uno) nei 18 mesi di suo governo. Eppure, inspiegabilmente la sua stella brilla sempre di più. Ho rimuginato questo mistero, queste domande senza una risposta almeno plausibile.
Poi l’altra notte ho riletto La Formica Elettrica, uno straordinario racconto di Philip K. Dick. Ecco l’incipit; “Alle quattro e un quarto del pomeriggio, T.S.T., Garson Poole si svegliò, si rese conto di essere in un letto di ospedale in una stanza a tre letti e si accorse di altre due cose ancora: che gli mancava la mano destra e che non sentiva dolore”. Dopo poche righe, il medico lo informa che ha perso la mano in un incidente, che potrà avere una perfetta protesi sostitutiva e che lui, l’alto dirigente Garson Poole, non era un uomo ma un androide, “una formica elettrica” secondo il felice neologismo di Dick.

Un androide non è un semplice robot, non è fatto di metallo e di plastica. Un androide è fatto di materia organica, ha un’ intelligenza autonoma, perfino dei sentimenti. L’androide ha una capacità di lavoro sovrumana, non si stanca mai, come una formica appunto. E’ uno pseudo-uomo assolutamente indistinguibile da un uomo. Ma è molto più performante di un uomo; più veloce, più efficiente, più resistente, non sente dolore, non si ammala mai, neppure un raffreddore. Ragiona e decide meglio e più in fretta. Se programmato e assemblato bene, dimostra di essere molto intelligente. E straordinariamente furbo.

Va da sè che una formica elettrica è naturalmente destinata a una carriera formidabile. Può scalare tutti i gradini, e arrivare in alto, molto in alto. Esiste forse qualche uomo, un normale homo sapiens, capace di resistere al suo fascino? Di non trasecolare davanti alla sua competenza, sicurezza, perfezione? Chi non è tentato di farsi da parte per cedergli un qualsiasi scranno? A uno così gli puoi dare tranquillamente le chiavi di casa, cedergli la guida della tua auto o di un intero Stato.

Garson Poole, il protagonista del racconto, era arrivato in cima, governava con efficienza una grande impresa. Collaboratori e dipendenti non sapevano fosse un androide. per loro era un uomo ed era il loro capo, un capo bravissimo. Anche Garson Poole ignorava di essere un androide: credeva di essere un uomo, solo più fortunato della media, Quando si accorge di essere una formica elettrica gli crolla il mondo, ma è coraggioso, determinato, e decide… Leggete il racconto e lo saprete.

Non so se si è ancora capito, ma il mio tremendo sospetto è che l’irresistibile ascesa di Mario Draghi, il consenso e l’ossequio unanime di tutta la classe dirigente italiana (economica e politica), la decisione di dargli in mano tutte le chiavi, tutte le deleghe, tutti i poteri, possa avere a che fare con il racconto di Dick e la storia del protagonista.
Mario Draghi è una formica elettrica come Garson Poole? E se lo è, è cosciente di esserlo, o come Garson Poole pensa di essere un uomo, solo più intelligente, più capace, più fortunato della media degli uomini?  Non sono sicuro, ma da quando mi è entrato in testa quel pensiero, l’ipotesi fantascientifica di un Draghi androide mi sembra l’unica che possa spiegare l’inspiegabile.

Un consiglio e una nota 

Il consiglio. Se vi piace la fantascienza, mollate gli imperi galattici e le tre leggi della robotica del vecchio Asimov e leggete Philip Dick. Per campare ha scritto tantissimo, anche 5 romanzi all’anno, e nonostante la scimmia sulla spalla. Se non vi piace la fantascienza ma amate Franz Kafka e lo ritenete il più grande degli ultimi 150 anni, leggete i libri e i racconti di Philip Dick. Ovvio, Dick non vale Kafka, ma nelle sue prove migliori ritrovate la claustrofobia e la ragione disperata dell’autore praghese. Soprattutto leggete Dick per le sue visioni e le sue premonizioni. Cinquanta o sessanta anni fa scriveva (prevedeva) quello che sta incominciando ad accadere oggi, sotto i nostri occhi. La fine della politica cosi come l’abbiamo conosciuta, le nuove forme del potere, il dominio della tecnica e dei tecnici, la bulimia mediatica, la nuove forme di alienazione e di sfruttamento. Eccetera.

La nota. Chi è abituato a leggermi, avrà capito che con Mario Draghi e Philip Dick mi sono un po’ divertito. Probabilmente Mario Draghi non è un androide (ma non scartate a priori l’ipotesi, guardate il suo modo meccanico di camminare e di usare le mani e le braccia, l’occhio fisso, la bocca senza labbra e dritta come un segmento…). Ma se Mario Draghi non è la prima formica elettrica che arriva nella stanza dei bottoni – questo è il sottotesto della storia che ho raccontato – l’avvento di Mario Draghi rappresenta una novità assoluta, per l’Italia e per tutto il mondo. Molto pericolosa a mio avviso. Con Draghi, per la prima volta la tecnocrazia si impone, dispone, comanda, mentre la politica si inchina ossequiosa. Non è un caso che Draghi si sia portato con sè una piccola squadra di tecnici dentro il governo, e che questi siano gli unici ministri che contano qualcosa.
Quello di Draghi non è uno dei soliti ‘governi tecnici’ che abbiamo conosciuto. E non è solo il governo di ‘un uomo solo al comando’, E’ qualcosa di più e di diverso: è la tecnocrazia che si impone sulle forme della democrazia, ormai sfilacciate.
Non so dove ci porterà questo esperimento inedito. Non conosciamo come governerà la tecnocrazia, se non dalla letteratura distopica e dalla fantascienza, ma sicuramente la tecnocrazia non fa rima con democrazia. E, a differenza del populismo, non ha più bisogno nemmeno del popolo. In fondo in fondo, meglio Berlusconi che Mario Draghi.

CONTRO L’IMBROGLIO DEL PIANO FERIS DEL COMUNE DI FERRARA:
inaccettabile, assurdo, pericoloso, contro tutti i vincoli di legge

Ospito con particolare piacere la durissima nota della sezione ferrarese di Italia Nostra dedicata al piano Fe.ris., già da più parti contestato. Parliamo dei famigerati 3 progetti ‘ammazzaverde’ che il Comune ha commissionato a un pool di aziende private e di cui il Consiglio Comunale ha appena approvato con una risicata maggioranza la prima delibera di indirizzo. Come sempre, le contestazioni e le accuse di Italia Nostra sono precise e documentate, senza appello. Sono perciò curioso di leggere, se avrà la compiacenza e il senso civico per farlo, cosa riuscirà a controbattere il sindaco Alan Fabbri.
Devo dire che questo intervento ha un valore tutto particolare, almeno per me, e credo per tanti ferraresi con un po’ di memoria. Se oggi, almeno urbanisticamente, “Ferrara è bella”, se abbiamo l’Addizione verde, lo straordinario patrimonio delle Mura, della grande cerchia verde del Sottomura, del Parco Urbano Bassani, lo dobbiamo soprattutto al lavoro di Italia Nostra e all’impegno e alla perseveranza dei suoi uomini migliori, come l’avvocato Paolo Ravenna, storico presidente e animatore della sezione ferrarese della associazione, l’architetto Carlo Bassi, l’Ingegner Serafino Monini.
I ferraresi, e chiunque ami questa meravigliosa città, hanno quindi un debito storico con Italia Nostra. Leggere in questa nota che scende in campo aperto e promette battaglia contro un inaccettabile vulnus al patrimonio pubblico – di ogni singolo cittadino e di tutti i cittadini che diventano città – mi sembra un buon auspicio. Non sarà facile fermare il cemento, vincere sopra i grandi interessi degli speculatori, ma possiamo e dobbiamo provarci.
Francesco Monini

Contro il progetto Fe.ris.
Per la difesa del patrimonio ambientale ed urbanistico di Ferrara

Italia Nostra fu tra le poche voci contrarie al testo della nuova legge urbanistica della regione Emilia Romagna, varato nel dicembre del 2017, perché, dopo l’enunciato positivo del limite al consumo di suolo, rinunciava a stabilire a priori a favore dell’interesse collettivo le regole di trasformazione del territorio, demandando di fatto ogni decisione alla contrattazione tra pubblico e privato.

Il voto dei giorni scorsi del Consiglio Comunale di Ferrara, che dà il via all’iter di approvazione del progetto Fe.ris., rende evidente quali possono essere gli effetti nefasti di una legge che lascia alla discrezionalità delle singole amministrazioni comunali la valutazione dell’interesse pubblico nella contrattazione coi privati.

Nella bozza di accordo una società privata si impegna ad intervenire per la “rigenerazione” del comparto delle caserme di via Cisterna del Follo, irrisolto da decenni, recuperandolo ad usi privati (studentato, abitazioni e attività commerciali) con un consistente aumento della capacità edificatoria sull’area di sedime dell’antico convento di San Vito.

Chiede di realizzare la quota di parcheggi pubblici di pertinenza non in loco ma in area extra mura, divenuta nel frattempo di sua proprietà, lungo la via Volano, vincolata a verde nel vigente piano regolatore, nel rispetto delle indicazioni del Progetto Mura.

Condiziona i punti precedenti alla costruzione di un nuovo ipermercato con superficie di vendita di oltre 3.700 metri quadri in area privata  lungo la via Caldirolo, anch’essa destinata a verde nel vigente piano regolatore, quindi inedificabile.
Il Piano Regolatore vigente, come quelli precedenti almeno dal 1975, considerava patrimonio intangibile le aree verdi residue, alcune ancora ad uso agricolo, in prossimità del lato est della cerchia muraria.

In altre parole: io privato mi impegno ad acquistare e sistemare il comparto della ex caserma, per gli usi che fanno comodo a me, ma tu, comune, mi autorizzi a realizzare i parcheggi in area di mia proprietà fronte mura, dove non potrei in ogni caso costruire, ma soprattutto mi concedi di costruire una grande struttura commerciale in area prossima alle mura, anch’essa inedificabile, cedendoti la quota di verde pubblico che dovrei comunque cederti se costruissi in qualsiasi altra parte della città.
Delle “rilevanti ragioni di interesse pubblico” richieste dalla legge per accordi con privati in assenza di PUG ed in deroga al piano vigente, neanche l’ombra.

Inaccettabile, oltre che puerile, dal punto di vista paesaggistico, la proposta di mascherare l’ipermercato all’interno di una sorta di collinetta verde, proposta che si innesta nella corrente architettonica, ultimamente sempre più diffusa, del “So che qui non potrei farlo, lo faccio lo stesso, ma lo nascondo”. E’ tra l’altro evidente che un rilevato “verde” a poche decine di metri dalle mura entrerebbe in contrasto col rilevato storico delle mura stesse. 

Sull’ assurdità di un nuovo ipermercato, dichiaratamente voluto non per motivi di necessità per la città, che già sovrabbonda di tali strutture, ma di concorrenza territoriale tra marchi commerciali, già si sono levate numerose e qualificate voci contrarie e sembra quindi inutile dilungarsi.

Il recupero del comparto della caserma Pozzuolo del Friuli è argomento serio, di enorme importanza per la città, che non può prescindere da un investimento pubblico diretto e massiccio capace di coinvolgere la partecipazione di privati.
Esigenze delle strutture civiche di arte antica, dell’università e anche dei residenti in quella parte della città (perché la storia insegna che una città resta viva finché anche il suo centro storico rimane abitato da ogni strato sociale della popolazione) possono trovare risposte attraverso il recupero di quello straordinario comparto-risorsa.
E’ ad esempio impensabile che il bellissimo edificio della Cavallerizza non diventi in futuro struttura pubblica per convegni al servizio dei vicini musei e dell’ università.
La Caserma è uno dei casi emblematici in cui una previdente progettualità pubblica avrebbe potuto cogliere la straordinaria opportunità offerta dal PNRR.

Italia Nostra, che tanto in passato ha contribuito alla realizzazione del patrimonio urbanistico costituito dal parco delle mura e dal parco urbano, si batterà perché le aree salvate dall’edificazione in prossimità delle mura rimangano tali e perché nel parco Bassani, protetto dal Piano Paesaggistico Regionale come “zona di particolare interesse paesaggistico ambientale”, non si organizzino eventi potenzialmente devastanti per un ambiente tanto bello quanto delicato.

ITALIA NOSTRA – sezione di Ferrara
Ferrara, 18 luglio 2022

Cover il Parco delle Mura di Ferrara, Baluardo dell’Amore. 

Le storie di Costanza /
Luglio 1959 – La Violetta di Parma

 

In luglio la maturità di mia madre Anna terminò e lei si diplomò. Allora il diploma dell’Istituto magistrale era abilitante e permetteva alle neo-maestre di iniziare subito la carriera di insegnante.

In settembre, posti disponibili permettendo, avrebbe potuto cominciare ad insegnare alla scuola primaria di primo grado (che allora si chiamava semplicemente scuola elementare).

Intanto era luglio e a scuola non andava nessuno. Mia madre passò quell’afoso mese estivo nel negozio della nonna Adelina, vendendo spagnolette, bottoni e passamaneria.

Il negozio era fresco e aveva un profumo intenso dato dagli oggetti là stipati pronti per essere venduti e dall’umidità che trasudava dai muri. Il connubio era interessante, l’umidità tratteneva gli odori del negozio e in parte li trasformava, rendendo quel posto inconfondibile.

È proprio l’odore che rende i luoghi unici. Basti pensare all’odore di polvere, fiori e incenso che caratterizza le Chiese, all’odore di disinfettante, medicinali e minestra che caratterizza gli ospedali, all’odore di carta e gesso che caratterizza le scuole.

Esistono poi luoghi particolari che hanno odori unici e riconoscibili solo per ciascuno di noi. Mi viene in mente il ‘cantinetto’ della vecchia casa della nonna Adelina, che aveva un odore forte di umidità mischiata all’odore morbido dell’olio e a quello fortissimo delle botti di vino, o all’odore riconoscibile e festaiolo della mia cucina quando è appena stato fatto il ripieno di zucca per i tortelli natalizi (ingredienti: zucca, cotognata, amaretti, noce moscata, formaggio e scorza di limone). Quell’odore di zucca sa per me di ritorno a casa, di festa, di parenti, amici, ricordi, di sospensione del tempo ordinario per assaporare il momento dell’incontro.

Sa di punto d’arrivo in cui si fa la somma degli eventi successi e si cerca di tirare un rigo per vedere se il totale è positivo o negativo. Sa anche di attesa per il futuro, per una una ripartenza inevitabile, piena di insidie e sfide, perché così è il rientro nel tempo quotidiano, nel mondo di tutti dove si consuma buona parte della nostra vita su questa imprevedibile e tumultuosa terra.

Nel negozio della nonna, nella parte posteriore del banco di vendita, c’era un reparto con le boccette di profumo. Il banco aveva due grandi cassettoni laterali e uno piccolo centrale. In quello centrale c’era la cassa, in quello più vicino alla stanza chiamata stufa c’erano i profumi e in quello dalla parte verso l’ingresso del negozio c’erano elastici, bottoni e cerniere variopinte.

Le boccette di profumo erano tutte di vetro col tappo di metallo. Le più belle avevano la scatola di cartone mentre le altre erano nude. Il vetro era pesante e a volte colorato.

Tra i profumi più venduti c’era la Violetta di Parma che aveva la bottiglietta trasparente, il tappo viola e un’etichetta con disegnate le violette. Una fragranza apprezzata ancora oggi, soprattutto dalle nonne. Un profumo che a me ricorda la primavera e Adelina.

Fu Maria Luigia D’Asburgo, seconda moglie di Napoleone Bonaparte, amante delle violette che a Parma fioriscono in molti giardini, a battezzare la nascita di questa fragranza.

Proprio lei sostenne le ricerche dei frati del Convento dell’Annunciata che lavoravano sui distillati vegetali. I frati, dopo un lungo e paziente lavoro, riuscirono ad ottenere dalle violette e dalle loro foglie un’essenza molto simile a quella dei fiori appena sbocciati.

Nel 1870 Ludovico Borsari [Qui] acquistò dai canonici la formula segreta per la preparazione di quel profumo. Borsari ebbe per primo la coraggiosa idea di farne una produzione da offrire ad un pubblico vasto. Fu un grande successo.

Il secondo, e più prezioso, profumo venduto dalla nonna Adelina e da mia madre era la Lavanda Coldinava.  Aveva la bottiglietta di vetro trasparente, leggermente bombata e il tappo viola. Sull’etichetta, anch’essa viola, era disegnata una contadina con un cesto di lavanda appena raccolta sulla schiena.

La sua formula è rimasta immutata nei decenni. Nel 1932, la ditta Niggi [Qui] diede vita ad una larga produzione di colonia alla lavanda, raccogliendo una tradizione artigianale diffusa fin dal primo dopoguerra nell’entroterra ligure, al di là del colle di Nava. Da qui il nome.

Questo secondo profumo era più costoso e, poche delle clienti del negozio della nonna, potevano permetterselo. La vendita aumentava in occasione di qualche evento particolarmente significativo per la comunità: un matrimonio, l’arrivo del Vescovo, la festa della Madonna d’ottobre e qualche viaggio particolarmente lungo per andare al funerale di un parente defunto, le cui spoglie erano deposte in un cimitero lontano.

Il viola usato per dipingere l’etichetta della Violetta di Parma e quello usato per la Lavanda Coldinava erano uguali, la stessa tonalità di colore e lo stesso potere evocativo legato al ricordo dei fiori che, in campagna, tutti avevano visto sbocciare.

Quel bel viola chiaro, caratterizzava le etichette delle boccette di profumo e abbelliva di colore il cassetto della nonna Adelina. Ogni volta che si apriva il cassetto, il profumo si diffondeva per tutto il negozio.

Le essenze si mescolavano all’aroma degli altri prodotti allineati sugli scaffali del negozio e diventavano un tutt’uno che comprendeva l’odore dei fili di cotone, del sapone, dello shampoo sintetico in busta, del dentifricio al fluoro in tubetto, della cipria e del talco, della crema per le mani alla glicerina e della pasta Biancardi.

pasta biancardi pomataLa Biancardi era una poltiglia bianca che si metteva sulla pella per non abbronzarsi. Nel 1959 era molto ricercata perché nessuna donna voleva avere la pelle scurita dal sole. La pelle scura era un segno di appartenenza ad un ceto sociale ‘basso’, rivelava chi d’estate passava il suo tempo lavorando nei campi.

Nel negozio della nonna si vendeva anche la Leocrema che ha mantenuto la stessa composizione e la stessa confezione fino ad oggi.

C’era poi il reparto cartoleria con i quaderni che servivano ai bambini per andare a scuola. Le copertine dei quaderni erano mono-colore e non esistevano figure disegnate che potessero indirizzare la vendita verso un prodotto piuttosto che un altro.

Nel negozio erano inoltre esposti altri articoli non molto richiesti. Stavano lì più per riempiere tutti gli scaffali che per rispondere alle esigenze delle persone di Cremantello che frequentavano il negozio.

Una merceria con alcuni scaffali vuoti non era bella da vedere, per questo la nonna Adelina aveva sapientemente posizionato vasetti, imbuti e piccoli attrezzi da giardinaggio che non comprava quasi nessuno, ma che completavano l’estetica di quel negozio rendendolo vivo e bellissimo.

Per incartare i prodotti acquistati dai clienti, mia nonna e mia madre usavano fogli di vecchia carta.

Poco distante da casa loro abitava un signore che faceva il venditore di giornali. Andava sempre in giro con una bicicletta arrugginita sui cui erano sistemate due sacche di cuoio piene di quotidiani e riviste da vendere. Se qualcuno voleva acquistare un giornale, doveva uscire per strada e urlare ad alta voce: “Pinara fermati! fermati! fermatiiiii!!! Voglio comprare un giornale”.

A quel punto Pinara tornava indietro e ti dava il giornale che volevi o, in alternativa, quello che era disponibile quel giorno. Tantè, qualche notizia la si capiva comunque. A volta te lo consegnava in mano, mentre altre, se aveva fretta, te lo lanciava con una certa precisione.

Pinara e sua moglie Carolina vivevano ina una casa fatiscente, una specie di catapecchia piena di mobili e suppellettili preistoriche ed erano degli antesignani giornalai.

Marito e moglie facevano inoltre parte di quella curiosa e non troppo diffusa categoria di persone che dicono “pioverà”, quando vedono dei nuvoli neri in cielo e “si vedranno le stelle cadenti”, quando è agosto e fa molto caldo. Dei profeti nostrani che sapevano propinare oracoli efficaci e facevano promesse molto veritiere, anche se inutili.

Vivevano al limite del decoroso, erano poverissimi, senza contratto di lavoro, ferie, pensione e sanità gratuita. Senza niente da ereditare e senza figli a cui lasciare tutta la loro carta. Questi erano i giornalai del 1959, queste le loro condizioni di vita considerate allora normali.

Pinara e Carolina regalavano alla nonna Adelina vecchi giornali in cambio di un quaderno all’anno che usavano per la gestione domestica. Con quei fogli tutti pieni di scritte, in negozio, si incartavano i prodotti da consegnare ai novelli proprietari. A volte erano quotidiani e a volte riviste.

Mia madre e mia nonna tagliavano i giornali in quadrati, che impilavano nel cassone centrale stando attente a mettere i più vecchi sopra la pila. Mia nonna era inflessibile, bisognava usare sempre i più vecchi, perché la carta si deteriora facilmente e l’incartamento con fogli molto rovinati non fa un bel vedere.

Mia madre Anna, a cui è sempre piaciuto leggere, appena poteva, estraeva dei fogli impilati per l’imballaggio e leggeva le notizie documentate sui pezzi di carta. Così, tra un cliente l’altro, in quel luglio caldissimo del 1959, mia madre costruì una sua visione del mondo grazie ai ritagli che metteva insieme e a cui attribuiva un significato, aiutata da un personalissimo senso di causalità.

Sperava sempre di riuscire a finire l’articolo che stava leggendo prima che entrasse il cliente successivo. La rigorosità procedurale della nonna Adelina era infatti inalienabile e non si poteva cambiare il modo con cui venivano utilizzati i ritagli di giornale. Se entrava un cliente bisognava usare il foglio più sopra. Se conteneva un articolo potenzialmente interessante o letto solo a metà, non faceva nessuna differenza.

Un giorno Pinara chiese a mia nonna se poteva regalargli una boccetta di Violetta di Parma da donare a sua moglie per il suo settantaduesimo compleanno. Per mia nonna non era un regalo da poco ma, mossa a compassione dalla povertà di quella gente, regalò a Pinara una boccettina di profumo.

Pinara andò a casa tutto contento, ma purtroppo non poté regalare a sua moglie la Violetta di Parma. Carolina era morta mentre lui era in giro in bicicletta.

N.d.A.

I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore.

La Terra dei Sogni
Lettera a mio nipote Filippo

 

Un classico.
Dico la lettera.
Alla moglie, alla fidanzata, al nipote…
Ma a volte è veramente un’ultima possibilità.
Per dire cose che si ritengono importanti ma senza voler scatenare un contraddittorio.
Appunto perché non interessa aver ragione ma far arrivare un messaggio.
Ecco cosa voglio fare: affidare questo messaggio al mare della vita, lo metto in una bottiglia chissà che ti arrivi prima o poi. Lasciami questa speranza.

Cosa è successo è presto detto.
È successo che ieri sera è arrivato un pensiero dalla mia Terra dei Sogni.
Arrivano senza farsi annunciare.
Nei momenti più diversi.
Senza notifica si accomodano nella mia anima e aspettano che li legga.
Provengono da un paese assolutamente reale dove vive tutto ciò che non esiste.
Negli anni si è popolato di progetti, cose, viaggi e persone.
Intanto tutte le persone che ho amato e che hanno lasciato questa terra vanno qui.

Bene, ieri è capitata una di quelle cose che per la Terra dei Sogni è assolutamente importante e che qui invece è di una banalità sconcertante tanto da non essere mai, e dico MAI, essere presa in seria considerazione.
Sto riferendomi al fatto che non posso più parlare, a voce viva intendo, con le persone che non ci sono più!
Cosa è quella faccia?
L’avevo detto che era una cosa evidente!
Mai ieri ero particolarmente felice, ero sopra pensiero e volevo dirlo ad una di quelle persone che abita ora nella Terra dei Sogni!
Ho proprio preso in mano il cellulare, (sì, altro comportamento psicologicamente etichettabile come per lo meno originale: non cancello i numeri delle persone che muoiono ma le conservo appunto in una cartella CONTATTI TERRA DEI SOGNI) e stavo per digitare il suo numero.
Ecco. Tutto qui: Occhi di Cielo (questo il suo nome nella Terra dei Sogni, lì si cambia nome… ma adesso non ho tempo per spiegare questo aspetto della faccenda) non può più rispondere.

Filippo, hai capito cosa ho detto?
Lo dico a te perché se lo dico a qualcun altro mi guarderebbero strano.
Occhi di Cielo non potrà rispondere mai più!
Per sempre dico.
Questo benedetto “per sempre” che ad altri da’ grande sicurezza a me mette profonda inquietudine.
Significa che per quanti sforzi io faccia la sua voce non la sentirò mai più.
Ma ti rendi conto che alcune cose molto importanti con lei non riuscirò mai più a chiarirle? Non saprò mai se quella volta ero riuscito a farmi capire o no? Se quel tipo che avevo intravisto le piaceva veramente? Cosa pensava durante la chemio? Eh, sì perché cazzo, questa domanda non l’ho mai fatta… le chiedevo come stava ma non cosa pensava.
Ma come poteva stare una persona che sa di dover morire? Lo avrei potuto immaginare… è cosa sentiva che non lo so!!!! Questo avrei dovuto chiedere, no?
Insomma oggi posso solo fare domande.
Le risposte dalla sua voce non arriveranno mai più.

Allora panico.
E subito penso: se le cose stanno così, con tutti gli altri che sono ancora qui, meglio chiarire fino a che c’è tempo.

Ed ecco il punto.
Che sembra non interessare a nessuno, me compreso.
Assurdo, vero?
Cioè mi comporto come se il Tempo fosse senza fine, come se ci fosse sempre la possibilità di aggiungere, chiarire, parlare…

Si comincia senza pensarci su troppo.
Non si chiariscono subito le cose.
Lascio passare le giornate.
Alcuni aspetti rimangono sotto terra.
Non verranno più presi in considerazione.
E la mente li dimentica.
Non per forza dolorosi.
Anche aspetti belli.
Un sorriso al momento giusto.
Un incontro mai più ritornato.
Chi lo dice che valgono solo gli incontri con persone che ritroviamo poi abitualmente nella nostra vita e altri no?
Sappiamo con certezza cosa forma la nostra sensibilità, il nostro modo di essere?
Sta di fatto che un numero impressionante di emozioni non le rammentiamo più.
Poi improvvisamente per motivi sconosciuti, per sinapsi particolarmente favorevoli, arriva come un flash dal passato. E il ricordo si materializza sotto i miei occhi, così come mi è capitato ieri e allora la voglia di parlartene esplode dentro e mi precipito per chiedertelo… ma tu non puoi rispondere.

Allora Filippo chiedi adesso!
Chiedi tutto adesso.
Appena imparerai a parlare.
Ti prego… non aspettare
Appena puoi chiedi alla tua mamma di quanto ti ha desiderato.
Ma falle tante domande, tempestala di particolari.
Farglielo ripetere più volte.
Se riesci poi scrivi un diario.
Non badare al fatto che non è più di moda… fregatene della gente e di ciò che pensa, scrivi, scrivi tutto!
Così quando non sarà più lì con te, leggendo quelle pagine ti sembrerà di averla ancora vicino, avrai le sue parole.
Filippo… avere le parole è tutto!

E alla fine arrivato all’ultima pagina del tuo racconto potrai baciare quel foglio e ti assicuro, te lo giuro, sentirai il suo profumo che dalla Terra dei Sogni è arrivato fino a te.

Solo in Italia il Tour europeo del Boss invade il verde protetto. E Monza e Ferrara insorgono.

 

Ultimamente, tra musica rock/pop  e sostenibilità ambientale, nel Bel Paese ci sono alcune importanti frizioni. A quella arcinota, con protagonista The Boss e due dei suoi futuri concerti in Italia, è tornata a riproporsi, come coda di un’analoga polemica già infuriata tre anni fa, prima della chiusura di queste manifestazioni a causa della pandemia, proprio sui nostri lidi, quella con protagonista Lorenzo Jovanotti con il suo Jova Beach Party, che in una delle sue prime tappe si è fermata vicino alla Pineta di Marina di Ravenna.

La cosa sconcertante però non è questa. Il nostro è il Paese delle polemiche, dei cento campanili, dei leader che stanno al governo, ma che si chiamano fuori ad ogni piccola o grande scelta timidamente impopolare. Quello che lascia perplessi è che le polemiche infuriano anche tra ambientalisti, non tutti contrari alle scelte che sono al centro della discussione. Ma perché stupirsi. Anche i virologi, importanti esponenti del mondo scientifico, hanno litigato e stanno litigando sulla lettura dei fatti.

Se in matematica, cambiano le premesse – tecnicamente le assunzioni o ipotesi – le conclusioni saranno completamente diverse. La scienza non è un monolite e quindi nemmeno l’ambientalismo, che nelle sue migliori espressioni alla scienza si rifà. Saranno infatti sempre le premesse a fare il discrimine e l’onestà intellettuale, che da queste premesse, razionalmente, porta a determinate conclusioni e quindi alle scelte.

E’ insomma sempre una questione politica, perché le premesse di un discorso nascono da lì, da quello che si chiamava e si dovrebbe ancora chiamare governo della polis. Allora, se scorriamo le tappe del lungo tour che l’anno prossimo porterà The Boss e la mitica E. Street Band in giro per l’Europa [Qui], una prima annotazione balza agli occhi: le uniche location collocate all’interno di ambienti naturali sono in Italia, rispettivamente a Ferrara e a Monza (la terza tappa italiana del Tour è prevista a Roma al Circo Massimo).

Alla scelta di Monza e dei suoi prati, ci si è arrivati dopo l’indisponibilità di San Siro, dove il Boss si è esibito in tutte le precedenti tourné. Come a Ferrara, entusiasti gli amministratori, nettamente contrario meno il Comitato Parco locale [vedi l’articolo su Milano Today], che già in passato si è opposto a questo tipo di eventi – ad esempio per il concerto di Ligabue alcuni anni fa – per i danni all’ecosistema che decine di migliaia di persone inevitabilmente comportano.

Per le nostre attività, anche per pulire una porzione di bosco, dobbiamo firmare fior di carte, sottolinea Matteo Barattieri, referente di un gruppo di volontari che opera all’interno del gioiello naturale del parco dell’autodromo di Monza, in un post su Facebook – e garantire che lasceremo le aree interessate dalle cose che organizziamo nelle stesse condizioni di partenza. [Vedi qui] 

Per il Parco Bassani, si tratta invece della prima volta in assoluto, per una manifestazione di questa portata. Legambiente e altre associazioni sul territorio ferrarese si sono immediatamente attivate per contestare questa assurda location, ma, anche se a titolo personale, Ermete Realacci, fondatore e ancora presidente onorario di questa grande associazione ambientalista, si è detto più che possibilista sulla sostenibilità dell’evento. [Qui]. 

Premetto che non conosco in maniera approfondita il contesto naturalistico e faunistico del parco Urbano. – Afferma Realacci nella sua intervista – Di base, comunque, non sono contrario al fatto che si facciano concerti in luoghi diversi dagli stadi, dunque nei parchi. E’ un’esperienza ormai consolidata. L’importante è che si riesca, dopo il concerto, a ripristinare l’integrità ambientale del luogo“. Mi pare quasi un nonsense, perché dopo l’irruzione di decine di migliaia di persone in un ambiente naturale, non è materialmente possibile che tutto resti come prima, a meno che non si pensi che ripulire da una montagna di rifiuti un’area voglia dire ripristinarla ambientalmente.

In Europa infatti nessuno lo sostiene, altrimenti non si capisce la scelta di usare solo Stadi o aree vocate all’interno delle città, per i concerti del Boss. A conferma di quello che scrivo, riporto quanto dichiarato lo scorso maggio, da Claudio Trotta il promoter dei concerti di Springsteen in Italia.
Con il progetto A.R.M.O.N.I.A, Trotta ha inaugurato un nuovo sistema di realizzare concerti, incontri e conferenze più rispettoso della natura. Un esempio su tutti: si utilizzano luci autoalimentate. “È ovvio che non possono essere tutti così” – dice il manager – ma è importante prendere coscienza di questo fatto: i grandi concerti hanno spazi già pronti, stadi e palazzetti, che possono essere usati senza problemi. Andare nella natura significa metterla in alcuni casi in disordine. Non sarebbe forse meglio che tutti noi cercassimo di evitare o limitare le nostre opzioni rispetto alle location? Molto importante è anche la disponibilità del pubblico a utilizzare sempre meno mezzi di trasporto inquinanti e invasivi”.[qui la versione integrale].

Un’altra interessante annotazione è quella del prezzo dei biglietti, così come si evince dal sito ufficiale Bruce Springsteen Tickets, Tour Dates & Concerts 2022/2023, per alcune date, questi non sono ancora disponibili, ma per le altre, normalmente i prezzi di partenza sono più bassi di quelli italiani, probabilmente perché la collocazione è in ambienti più ampi, quasi sempre Stadi, che anche se non vocati a manifestazioni di questo tipo, offrono logisticamente un supporto sicuramente migliore sul piano organizzativo, una capienza più adeguata alla domanda ed innegabilmente un molto più basso impatto ambientale.

Come denuncia la cantante Elisa [Vedi qui] che ha inaugurato lo scorso 28 giugno il suo tour “Back to the future”, l’Italia non ha infrastrutture adeguate alla fruizione di musica a basso impatto ambientale e quindi l’organizzazione di grandi eventi musicali in giro per la penisola deve confrontarsi con non pochi problemi.

Il dopo Covid – sempre che sia effettivamente finita – ha lasciato non poche macerie in ambito culturale e in particolare, nella fruizione della musica, la ripresa a tutto tondo dei concerti, oltre a rivelare la gran voglia di lasciarsi alle spalle due anni di restrizioni, rappresenta sicuramente una boccata d’ossigeno per le migliaia di maestranze che campano, più o meno precariamente, sulle tournée delle star musicali.

Se il tour di Elisa si appoggia a Legambiente, attraverso la quale sostiene una campagna per la riforestazione di alcune aree del nostro Paese, oltre a fare da testimonial per  SDG ACTION [Qui] (la campagna  delle Nazioni Unite per sensibilizzare contro i cambiamenti climatici), Jovanotti e la sua riedizione del JOVA BEACH PARTY si avvale della collaborazione con il WWF, che lo ha difeso tre anni fa e continua a coprirlo in questi giorni dalle infuocate polemiche che accompagnano diverse delle sue tappe, sulle spiagge nostrane.

Come deve atteggiarsi allora un ambientalista di fronte a questi diversi punti di vista all’interno di importanti organizzazioni che si dichiarano e complessivamente sono, a difesa delle ragioni dell’ambiente?
Dobbiamo accordarci almeno sulle premesse: grandi eventi come quelli di cui abbiamo parlato, non possono assolutamente avere location in aree delicate sul piano degli equilibri naturalistici. L’impatto non è valutabile e comunque dovrebbe valere il principio di precauzione, soprattutto perché ci sono alternative praticabili (anche a Ferrara o a Milano – Monza) e che nulla tolgono alla magia di un concerto.
Accettare il confronto su questa semplice verità, a mio modo di vedere, non è possibile.
Piccoli concerti possono funzionare, mega raduni mai.

Per chiudere queste mie brevi considerazioni, vi propongo, come sempre, il testo di un brano musicale. Questa volta ho scelto una canzone, credo poco nota, di Roberto Vecchioni, Canzonenoznac” , tratta da un album del 1975, “Ipertensione”. Il titolo è palindromo ed è il modo migliore per presentare questo brano, che se non conoscete vi consiglio di ascoltare. L’ho scelto per associazione con il tema del mio articolo. A voi ogni rimando e considerazione ulteriore.

ll leader della parte scura,
dietro una barba quasi nera,
diceva cose alla sua gente,
a voce bassa come sempre;
e ricordava cose antiche,
proibite ma pur sempre vive,
come il martini con le olive.
Dal millenovecentottanta
anno di grazia e d’alleanza,
felice e immobile la gente
viveva solo del presente;
ma lui a quei pochi che riuniva
come una nenia ripeteva
quel suo programma che chiedeva.
Fosse permesso ricordare,
fosse permesso ricordare,
poi ricordò che era vietato
nel mondo nuovo anche il passato.

Il leader della parte chiara,
con quella cicatrice amara
sul mento a forma di radice,
gridava “Abbasso questa pace”.
Coi pochi giovani insultava
la polizia che costringeva
soltanto ad essere felici:
ed abbatteva e rifaceva
palazzi d’arte e di cultura
e delle bibite e del niente
sì, ma soltanto con la mente; e all’occorrenza le prendeva
davanti ai giudici abiurava,
ma appena uscito risognava.
Fosse possibile cambiare
fosse possibile sperare
ma la speranza era un difetto
nel mondo ormai così perfetto.

E il leader con la cicatrice
credeva l’altro più felice,
e l’altro quello con la barba,
di lui diceva “È pieno d’erba”
si sospettavano a vicenda
di fare solamente scena
d’essere schiavi del sistema
e l’uno l’altro beffeggiava
e l’altro l’uno ricambiava,
pur descrivendo alla rinfusa
due volti di una stessa accusa:
che era impossibile cambiare,
tornare indietro, andare avanti
avere voglia di sbagliare.

Come ad esempio ricordare
Come ad esempio ricordare
questo ricordo era un difetto
nel mondo ormai così perfetto,
né si poteva più cambiare
né si poteva più sperare
questa speranza era un difetto,
nel mondo ormai così perfetto.

E il leader della parte chiara
pianse di rabbia quella sera
seduto sopra la sua vita
perduta come una partita;
ma il servofreno dentro il cuore,
che scatta al minimo segnale,
gli eliminò tutto il dolore.
E il leader della parte scura
contando i passi e la paura
si avvicinò alle parti estreme
dove correva un giorno il fiume,
ricostruendo da un declivio
l’ultima chiesa, un vecchio bivio,
l’acqua e l’amore che non c’era,
si sentì stanco in quel momento,
tolse la barba e sopra il mento,
apparve a forma di radice
quella sua vecchia cicatrice.

Se vuoi leggere e firmare la petizione popolare SAVE THE PARK che ha già raggiunto e superato le 21.000 firme [la trovi Qui]

Cover: il “Bosco Bello”, il Parco di Monza dove è inserito l’autodromo. Nel parco è prevista la location del Tour europeo di Bruce Springsteen.

Italia sì, Italia no, la terra dei cachi

Anche oggi il grillo parlante è infastidito. È arrivato qualche lieve alito di vento ma, fra le cicale impazzite che assordano, le zanzare e i maleducati bambini vocianti e calpestanti, non è una bella giornata.

Questa volta è la proposta del nuovo ipermercato ferrarese a destargli una sensazione pruriginosa al collo. L’ennesimo compr(ami)ficio, non è mai l’ultimo. Fino a quando? Un altro pomo della discordia.

Legge le cronache locali, una dopo l’altra ripetono che non vi è stato confronto in giunta sulle scelte di via Caldirolo (a 100 metri dalle mura rinascimentali) né consultazione della cittadinanza. Come se questa, in Italia fosse la regola… Anche la Confesercenti è contraria. Si legge che, in centro, sono state chiuse quasi 60 attività commerciali, non c’è più spazio o respiro per molti. Anche di fronte a questa desolante situazione in cui pare versare il fragile centro storico (affitti dei locali alle stelle, peraltro) a cosa serve un altro centro centro commerciale? Ferrara è la città con maggior numero di ipermercati della Regione. Pochi giorni fa è stato anche inaugurato in via Saraceno, angolo via Terranuova, un altro discount: la banca che ospitava quei locali se ne è andata, lasciando spazio all’Ecu, proprio in un punto dove c’è già una bella concentrazione, se si pensi alla vicina Coop di via Mazzini, per citarne uno.

Serviranno mai così tanti super e ipermercati anche in uno scenario di calo demografico e dei consumi, di prezzi in ascesa e di enorme crisi energetica? Crisi galoppante, ma dove? Non sarebbe forse meglio investire e puntare sui negozi di prossimità, quei piccoli esercizi e artigiani che fanno dei quartieri un luogo di incontro, di scambio e di vera comunità ? Da bambino il grillo parlante andava con la sua piccola bicicletta rossa dai salumieri del centro a comprarsi i pezzetti di prosciutto e di formaggio per il suo bel e invidiato panino, accompagnava la mamma dal macellaio che le incartava le bistecche (sottili per carità, costavano troppo…) in quella carta oleosa dal colore di canna da zucchero. Era un lusso della domenica recarsi alla gastronomia per acquistare quella specialità che rallegrava la famiglia insieme alle pastine di Boni (tronchetto al cioccolato in testa), del caffè Europa o del Leon d’Oro.

Se c’era poi il Corriere dei Piccoli o qualche cioccolatino della Perugina di Corso Giovecca, la felicità era completa. Per i regali alle amiche si poteva sempre andare da Il piccolo Parigi o alla Cartoleria Sociale. Negozi piccoli e un po’ più grandi, tanti esercenti che arricchivano la città, magari più semplice di oggi ma vivace nel suo centro cittadino che accontentava tutti. Non parliamo dei negozi di giocattoli (la mitica Gioia dei Bimbi per ricordarne una per tutti), del tutto scomparsi, o dei blocchi di cioccolata dei fratelli Bazzi, i gentili Grigioni dal lungo e operoso grembiule scuro allacciato intorno al collo. Oggi tutti i negozi sono spostati nelle gallerie infinite e luccicanti degli ipermercati, rifugio per chi cerca l’aria condizionata, al centro non restano che bar e ristoranti. Alla faccia della sostenibilità.

Il grillo parlante ricorda a tutti che i turisti che oggi affollano le nostre piazze, anche per i concerti e gli spettacoli tanto conclamati e pubblicizzati, con un’offerta interessante, lasciateglielo dire, soprattutto in termini di Teatro e mostre, non meritano solo cibo e paccottiglia, ma anche qualche bell’oggetto, magari pure di fine artigianato o antiquariato, qualche abito elegante che si possa provare anche in una via centrale che non sia per forza incollata al Duomo, un itinerario  fra i negozi che sia originale, come la città meriterebbe. Riqualificare significa equilibrio e spazio per tutti. Anche verde.

Perché non sia sempre perennemente lo stesso mantra: Italia sì, Italia no …. La terra dei cachi.

 

Parcheggi abusivi
Applausi abusivi
Villette abusive
Abusi sessuali abusivi
Tanta voglia di ricominciare, abusiva
Appalti truccati
Trapianti truccati
Motorini truccati che scippano donne truccate
Il visagista delle dive adesso è un altro
Papaveri e papi
La donna cannolo
Una lacrima sul visto
Italia sì
Italia no
Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita
Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita
Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè
C’è un commando che ci aspetta per assassinarci un po’
Commando sì, commando no, commando omicida
Commando pam, commando papapapapam, ma se c’è la partita
Il commando non ci stà e allo stadio se ne va
Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà
Infetto sì, infetto no, quintali di plasma
Primario sì, primario dai, primario fantasma
Io fantasma non sarò e al tuo plasma dico no
Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò
“Fi fi fi fi fi fi fi fi ti devo una pinza, fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l’ho nella panza”
Viva il crogiuolo di pinze
Viva il crogiuolo di panze
Quanti problemi irrisolti
Ma un cuore grande così
Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo du spaghi
Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi
Una pizza in compagnia, una pizza da solo
Un totale di due pizze e l’Italia è questa qua
Fufafifi’ fufafifi’ Italia evviva
Italia perfetta (perepepè nanananai)
Una pizza in compagnia, una pizza da solo
In totale molto pizzo, ma l’Italia non ci sta
Italia sì, Italia no
Italia sì, uè
Italia no, uè uè uè uè uè
Perché la terra dei cachi è la terra dei cachi

Elio e le storie tese – La terra dei cachi

Per leggere e firmare la petizione popolare SAVE THE PARK [clicca Qui]

E’ ora di pensare in grande:
pianificare uno sviluppo equilibrato della città futura

 

Esistono, nella storia di una città o di un territorio, occasioni importanti di trasformazione o crescita, alle volte dovute ad accadimenti imprevedibili, anche esterni ai fatti della comunità locale, di fronte alle quali è necessario farsi trovare pronti, per non correre il rischio di perderle. Emblematico l’esempio del Progetto Mura, ultima grande realizzazione a scala urbana che ha profondamente e positivamente inciso sulla vita della città.
L’amministrazione comunale di allora, siamo negli anni Ottanta del Novecento, capì l’importanza di una idea capace di modificare in modo sostanziale il rapporto tra centro e periferia in questa città ed ebbe il coraggio di investire in un progetto, preceduto e garantito dai lavori di una commissione scientifica di altissimo livello. Quando si presentò l’occasione della legge nazionale sul Fondo Investimenti e Occupazione Ferrara si fece trovare pronta e presentò il progetto già predisposto che fu finanziato perché ritenuto tra i migliori a livello nazionale. Per il bene della città arrivarono e furono spesi oltre 80 miliardi di lire.

Oggi  si presenta l’occasione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), ma l’impressione è che Ferrara si sia fatta trovare sostanzialmente impreparata.

Da tempo mancano occasioni di confronto, di dibattito e di elaborazione sul futuro di questa città. Sembra mancare una visione strategica di lungo respiro, capace di concretizzarsi in progetti da mettere sul tavolo quando si presentano le, rare, occasioni giuste.
Ciò di cui si legge sulla stampa come progetti finanziabili col PNRR sono certamente cose utili o auspicabili, ma come parziali aggiustamenti della realtà attuale. Nulla a che vedere con una visione strategica complessiva della città futura, di quali scelte sarebbero necessarie per una città migliore.

Nulla a che vedere con la portata dell’occasione che si presenta. Preoccupa il ritardo col quale sono state affrontate le scadenze imposte dalla nuova legge urbanistica regionale (la legge 24 del 2017) che prevedeva la scadenza di tre anni, poi prorogata a quattro, per impostare la revisione degli strumenti urbanistici vigenti attraverso la redazione del nuovo Piano Urbanistico Generale (PUG).
Preoccupa perché la nuova legge urbanistica contiene novità importanti (come lo stop alle nuove espansioni e quindi all’erosione di suolo agricolo) ma estremamente delicate se non affrontate nei tempi e con gli strumenti adeguati (come il possibile stravolgimento di parti di città esistente, se le spinte di interessi immobiliari non sono incanalate e guidate all’interno di una pianificazione pubblica forte e di una progettualità adeguata). Solo in questi giorni è in scadenza il bando per la scelta dei tecnici che dovranno redigere il nuovo piano (dopo un primo bando andato, non a caso, deserto). Il piano vigente costituisce certamente una buona base di partenza, ma con limiti e difetti evidenti. Momenti di confronto tecnico e politico negli anni trascorsi dall’approvazione della legge avrebbero potuto fornire indicazioni preziose a chi sarà chiamato ad elaborare il nuovo strumento urbanistico, ma avrebbero anche potuto produrre progetti concreti pronti per essere presentati nell’occasione del PNRR.

Spero che, in questo quadro di sostanziale assenza, almeno a livello urbanistico, di approfondimenti e stimoli (fatta eccezione per la proposta, a livello territoriale, di “Metropoli di paesaggio”, tanto affascinante quanto realistica, portata avanti da Sergio Fortini con la cooperativa Città della Cultura/Cultura della Città) possano essere utili alcune riflessioni riguardanti possibili progettualità per un migliore assetto della città esistente, premettendo la convinzione che, oggi più che mai, ogni piano urbanistico debba partire dal presupposto della identificazione e della difesa della qualità preesistente, soprattutto nell’edificato storico, ed in particolare in una città dichiarata Patrimonio dell’Umanità.

Ricordo anzitutto che un grande progetto pronto a scala urbana esiste già: il ”Progetto finalizzato al restauro, recupero e valorizzazione delle mura e del sistema culturale-museale della città”. Il progetto Mura infatti fu in gran parte realizzato, ma restò incompiuto in due parti molto importanti:
1 ) le nuove connessioni tra le varie parti della cerchia muraria, oggi interrotta in più punti,
2 ) il completo recupero degli edifici che definiscono il Quadrivio dei Diamanti.

Quanto sia stato importante, per la vita dei ferraresi, recuperare il sistema terrapieno-mura-vallo che circonda la città è chiaro e noto a tutti.
Ma sarebbe ancora più importante completare il progetto realizzando nuovi collegamenti in quota dove le mura sono state, nel tempo, interrotte da parziali demolizioni per ricreare quella continuità di percorso che, oltre a non costringere i numerosissimi utenti e frequentatori a pericolosi attraversamenti, eviterebbe l’isolamento di zone diventate nel tempo, a fasi alterne, soggette a frequentazioni ed interessi socialmente pericolosi o potenzialmente tali. In questi casi sono convinto che la frequentazione dei cittadini e l’uso comune degli spazi possano contare più di qualsiasi recinzione. Il progetto mura propone soluzioni che possono essere riprese, approfondite, modificate ma soprattutto realizzate.

Per i palazzi del quadrivio dei Diamanti il Progetto Mura prefigurava, già negli anni Ottanta del Novecento, l’inserimento organico nel sistema culturale e museale della città con pinacoteca a palazzo dei Diamanti, ampliamento delle strutture della pinacoteca e strutture espositive permanenti a palazzo Prosperi Sacrati, strutture espositive (temporanee, aggiungo io, con spazi finalmente adeguati per le grandi mostre) a palazzo Pallavicino (attuale caserma Bevilacqua), dando per scontato l’uso espositivo per le collezioni dell’Università a palazzo Turchi Di Bagno.

La seconda riflessione riguarda quella che ritengo potrebbe essere, nei prossimi decenni, la parte di città maggiormente soggetta a trasformazioni: la zona ad ovest del centro storico. Dando per scontato che la città non potrà più espandersi  a scapito del territorio agricolo, anche perché finalmente le leggi urbanistiche vanno in modo più deciso in questa direzione, quindi che il lato a nord della città (il patrimonio inestimabile del Parco Urbano) rimanga sostanzialmente inedificato e che ad est e a sud, in assenza di espansioni,  l’edificato sarà oggetto semplicemente di aggiustamenti e miglioramenti localizzati.
La parte di città che meglio si presta a trasformazioni profonde, perché oggi in buona parte caratterizzata da un tessuto urbano sfrangiato e casuale, è quella che dall’irrisolto nodo viario delle barriere di porta Po, attraverso il grattacielo, la stazione e comparti di strutture produttive in buona parte dismesse
 giunge al canale Boicelli  e oltre, con gli immobili, in parte di grande qualità, della ex distilleria Alc.Este. Si tratta di un brano di città da ripensare completamente, carico di potenzialità,  ricco anche di spazi verdi da conservare e valorizzare, soprattutto lungo il Po di Volano ed il canale Boicelli, con alcune presenze architettoniche contemporanee di qualità, in parte già con funzioni pubbliche o aperte al pubblico, che sembrano precorrere i tempi della rigenerazione di quella zona: il complesso dell’ex Eridania, gli edifici che ospitano gli uffici finanziari dello stato, un supermercato all’inizio di via Modena e altri minori.

Solo in questa prospettiva sembra può avere senso concreto il cospicuo investimento della Conferenza Episcopale Italiana per la nuova chiesa di San Giacomo, con le annesse opere parrocchiali. Questo comparto costituisce l’occasione, in una città storicamente cresciuta per addizioni programmate, per una nuova addizione di qualità che però sarà attuabile solo attraverso una forte iniziativa pubblica di guida e di programmazione.
Va completamente ripensato il collegamento con la città storica trasformando, con approfondimenti progettuali adeguati, la ferrovia (con stazione): da barriera ad opportunità permeabile. E il grattacielo, da presenza ingombrante ed incongrua, oggi totalmente fuori scala,  ad isolato di edilizia di qualità integrato nel tessuto urbano (trovo a questo proposito sbagliata, se non raccapricciante, l’idea di recente prospettata di attingere  ad oltre 4 milioni di euro di fondi pubblici, attraverso le detrazioni fiscali del 110%, per “efficientare” e rendere più gradevole l’aspetto di quello che rimane e sempre rimarrà, se non drasticamente ridimensionato, un eco-mostro).

Questa grande parte di città che dalla darsena arriva al Boicelli  potrebbe dunque nei prossimi decenni essere determinante per l’equilibrio futuro della nostra realtà urbana.

Terza riflessione riguarda il superamento dell’ingorgo veicolare permanente che mortifica il borgo di San Giorgio, una delle parti più belle e storicamente più importanti della città. E’ necessario dare uno sbocco ad est alla strada di scorrimento posta a sud della città (la via Wagner)  con investimenti pubblici adeguati. Solo in questo modo il borgo san Giorgio, ridotto da decenni a spartitraffico, con l’aggravante recente della piccola assurda rotatoria al servizio di una struttura commerciale la cui collocazione mai avrebbe dovuto essere approvata in quel luogo, potrà rientrare organicamente e a pieno titolo a far parte del centro storico della città, centro storico il cui futuro meriterebbe una lunga riflessione a parte.

Sarebbe dunque il momento di pensare e di progettare in grande per consentire alla città esistente di essere anche la città del futuro,  sciogliendo i principali nodi che ne condizionano oggi il buon funzionamento.

Nota: questo articolo, esce su periscopio con il consenso dell’autore. Il medesimo testo è già apparso in precedenza sulla Nuova Ferrara.

In copertina: veduta aerea di Ferrara, particolare,

Gli operai resistenti del Collettivo ex GKN:
la Festa e la Lotta

 

A Campi Bisenzio la lotta determinata degli operai ex-GKN non si è mai fermata!

Dal 9 luglio 2021, la fabbrica occupata non è mai stata lasciata sguarnita dagli operai in cassa integrazione, affiancati dagli ausiliari che si sono uniti alla lotta e da oltre un centinaio di “solidali”, volontari che appoggiano gli operai sia nel presidio che nell’organizzazione delle manifestazioni e degli eventi.
Sono centinaia le persone che si sono rese disponibili, ormai da un anno, ad essere presenti, giorno e notte, estate e inverno, tutti PARTECIPI DELLA LOTTA e DECISI A NON MOLLARE!

Così è stato anche per la festa del 9 luglio scorso; più di 2000 persone davanti ai cancelli della fabbrica occupata e al palco dove si sono alternati per tutta la serata gruppi e cantautori: rap, rock, canzoni popolari, canti di lotta. Tutti si sono esibiti gratis, attorniati dallentusiasmo collettivo. Il pubblico batte le mani, canta in coro, balla. Tutti sono lì, davanti alla fabbrica, per condividere gli obiettivi e le strategie dei lavoratori della GKN in lotta: difendere il diritto al lavoro, alla dignità e alla vita nella sua più ampia accezione.

Tra i tanti saliti sul palco, ecco i Malasuerte, il gruppo storico fiorentino di hard-rock, e l’immancabile, magnifica e potente voce di Ginevra di Marco (ex NCCP) hanno coinvolto tutte e tutti. , uniti nei cori e nel cuore della festa!

Ma il giorno stesso della festa, il 9 luglio scorso, a un anno preciso dal ricevimento della famosa “mail di licenziamento per chiusura della fabbrica”,  i lavoratori sono stati convocati in Prefettura con urgenza! Nonostante avessero già mandato l’avviso per l’evento/festa. L’incontro è stato poi rimandato al giovedì seguente, com’era ovvio.
La risposta del Collettivo di fabbrica è stata immediata. Davanti alla Prefettura si sono riunite centinaia di persone, tra cori, canti e risuonare di tamburi, a dimostrazione che gli operai ex-GKN possono contare su una forte solidarietà del territorio fiorentino e non solo. C’è la disponibilità a mobilitarsi di un vasto movimento, dagli studenti, agli ambientalisti , alla Fiom toscana, ai sindacati di base.

La fabbrica rimane occupata, i macchinari (compresi robot nuovi e ancora impacchettati) non usciranno se non verranno avanzate proposte serie che disegnino un futuro concreto e possibile di investimenti e di lavoro.
L’urgenza della nuova proprietà è solo pretestuosa. E governo e ministro dello sviluppo economico si sono defilati, non hanno idee e non fanno proposte.| Impegnati come sono a finanziare la guerra in Ucraina e ad inviare armi, per procrastinare la fine di un conflitto disastroso sia per i Paesi direttamente coinvolti che per tutta l’Europa e il Paesi più poveri del mondo.

Le idee invece il Collettivo di fabbrica ex GKN le ha molto chiare, e c’è un crescente fronte popolare che lo sostiene.
Bene, ci rivediamo a fine estate: Tenetevi liberi, la lotta continua.

Cover: Campi Bisenzio 9 luglio 2022. I Malasuerte, lo storico gruppo fiorentino, sul palco della festa della ex GKN.