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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


NATURA VOX AETERNA:
Il Nomade Augusto alla Marfisa

 

Trent’anni fa scompariva prematuramente Augusto Daolio, storico fondatore, con il batterista Beppe Carletti, dei Nomadi, uno dei gruppi più longevi e importanti della musica italiana, simbolo della beat generation e delle proteste giovanili.

Nato nel 1947 a Novellara in provincia di Reggio Emilia, dal 1963 Daolio e la sua band partono dalle balere dell’Emilia-Romagna per sbarcare in Italia e nel mondo. Ma la musica qui non c’entra.

Daolio dai capelli lunghi e dalla barba brizzolata era anche un bravissimo pittore e scultore autodidatta: dalla prima mostra personale a Novellara nel 1991, le sue opere sono oggi ancora esposte e sono approdate a Ferrara alla Palazzina Marfisa d’Este, dove le potremo ammirare fino al prossimo 11 settembre.

“La musica la coltivo come mezzo sociale per comunicare con gli altri: ansie, rabbia, amore, idee e progetti.  La pittura per scavare dentro me, per interrogarmi, per lo stupore, la meraviglia e il segreto.”
Augusto Daolio

“Ho sempre ascoltato molto – diceva Daolio – guardato, osservato, e mi sono sempre lasciato sedurre dalla natura, sentendomi parte di essa. Fisicamente, voglio dire. Ho provato stordimenti e capacità visionarie. Mi sono abbandonato agli odori della terra, dell’erba, della corteccia degli alberi. La mia piccola natura sente tutto lo sconvolgimento di un temporale di primavera”. “Non disegno per riempire un vuoto”, diceva, “ma per vuotare un pieno che è dentro di me e preme”. “Sono gravemente ammalato di quello strano male che spinge a guardare tutto con grande stupore”. Lo stupore, il motore della creazione.

E a raccontare questo sentire, l’avvolgente respiro della natura, Ferrara espone una selezione di 56 lavori, tra olii e chine colorate, realizzati tra il 1973 e il 1992, ispirati dalla natura intesa come insieme di tutte le cose che nascono, vivono e si trasformano, uomo compreso, “non sempre visibile” nei suoi “spaesati” paesaggi, ma che “sa mescolarsi alle cose, scambia i ruoli, diventa cavallo e albero”. Ancora gli alberi… sempre presenti.

Eccoci allora stupiti dalla forza di un’una emblematica china del 1990, abbracciato, e protetto, dalla corteccia di una quercia nella grande e amata pianura emiliana.

Augusto Daolio, Senza titolo, 1990 china su cartone

“Quando guardo la campagna, larga, lunga, infinitamente piatta all’orizzonte”, scriveva Daolio, “provo una strana nostalgia per un paesaggio di foreste e di grandi alberi che da noi, forse, non è mai esistito”. L’albero diventa così uno dei protagonisti del suo immaginario, forse perché gli assomigliava: “L’albero trae forza e nutrimento dall’oscurità della terra, silenziosa e misteriosa. Essere metafisico. Esce dalla terra acquistando corpo fragile e robusto, si spinge verso l’alto. Essere fisico. Rompe in una specie di delirio fantastico di rami, foglie, teneri germogli, gemme. Essere poetico”. E l’artista ne aveva capito la grande intelligenza. Essere alberi (e pensare come loro) resta importante.

L’albero, silenzioso, che in questa calma e silenzio, con le sue immense, portentose e vitali radici, fa tutto per noi. Lì fermo, in attesa di ogni nostro rientro, paziente ci sostiene. E si mescola, si fonde con il resto.

Augusto Daolio, Senza titolo,1991, china su cartone

L’albero si stacca dal suolo e l’ombra delle sue radici diventa la chioma delle pietre perenni, che, altrove, s’accordano nel profilo di un elegante destriero. Che, a sua volta, nasce dall’intreccio delle frasche degli arbusti cresciuti sugli scogli. Un eterno ritorno.

Augusto Daolio, Senza titolo, 1991, olio su tela

Emerge, l’albero, dal coccige di una sensuale fanciulla, come una coda, ne diventa i capelli, la testa. corpo muscoloso con la testa di rami.

Rami che paiono volersi fondere con i corpi, in un tutt’uno cosmico. Perché il mondo è uno. Spicchi di luna un poco spaesati. Sublimi emozioni.

Un’unione fisica e metafisica, un amore vegetale, la fusione, lo svettare verso il cielo. Pure le pietre parlano. Poesia e Bellezza della natura eterna: spettacolo straordinario.

Augusto Daolio, Senza titolo, 1990, olio su cartone telato

Siamo nuovamente immersi nel “surrealismo padano”, indica Vittorio Sgarbi, e la città, anche con le più recenti mostre come quella di Adelchi Mantovani, ne continua la narrazione. Come per Adelchi, anche qui c’è un mondo onirico, magico, evocativo e simbolico dove si coglie la connessione Uomo-Natura, le affinità tra essere viventi e inanimati. Un tempo di sempre, curioso. Il meraviglioso mistero di cose, oggetti e sentimenti.

Augusto Daolio – Il respiro della naturaFerrara, Palazzina Marfisa d’Este, 18 giugno – 11 settembre 2022

Organizzatori: Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara e Fondazione Ferrara Arte in collaborazione con l’Associazione “Augusto per la vita”. Patrocinio della Regione Emilia-Romagna.

“Augusto per la vita” è stata fondata dalla compagna di sempre, Rosanna Fantuzzi, per raccogliere fondi a favore della ricerca oncologica.

Giorni e orari di apertura – 9.30-13 / 15-18 – Chiuso il lunedì

Immagini cortesia Ufficio Stampa Fondazione Ferrara Arte

Daolio, foto di Dario Lasagni

PRESTO DI MATTINA /
Sognare è continuare a nascere

 

Il cielo sogna la terra e nasce Maria; spunta il fiore del vento, l’anemone umile che alle prime piogge farà fiorire il deserto. Il cielo dice “Adusm”, presente, ci sono. La terra risponde “Eccomi”, son qua. «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca» (Is 35,1).

Sognare è andare verso un sapere dell’anima: un affacciarsi ed un ritirarsi, un dentro e un fuori; è un continuare a nascere, ferita aperta tra la notte del senso e il suo giorno, tra sapere e non sapere; la soglia non già di un luogo ma di una relazione, perché non basta essere nati e affidarsi la prima volta.

«Ogni volta che si nasce o si rinasce, perfino nel nascere di ogni giorno, occorre accettare la ferita nell’essere…

Viveva al futuro, o meglio nel futuro, non avendo presente. Era stata sul punto di cadere nel passato. Ma lo stesso passato, frammentario e doloroso, la respingeva. Si era decisa a nascere, ma avrebbe dovuto continuare a nascere

Doveva portare in alto sé stessa attraverso il deserto, talvolta perdendo i sensi, cadendo in pozzi di silenzio, in negazioni. Vivere è una fatica che, in alcuni momenti, appare impossibile da compiere; la fatica di percorrere la lunga processione degli istanti, di opporre resistenza al tempo; resistere al tempo è la prima azione che l’essere vivi richiede; è sapere, poi, che il “qui” è molto concreto, molto definito e non lo si conosce» (Maria Zambrano [Qui], Delirio e destino, Milano 2000, 19.).

Solo attraversando di continuo dal dentro al fuori delle relazioni e dei sogni, si costituisce e prende forma quell’orizzonte in cui il sogno si risveglia, diventa reale; un sognare insieme è la realtà: «Farò scaturire fiumi su brulle colline, fontane in mezzo alle valli; cambierò il deserto in un lago d’acqua, la terra arida in zona di sorgenti» (Is 41, 18).

Nella luce dell’aurora il sogno dalle tenebre si fa luce; su questo confine e soglia, che è passaggio dell’esistenza stessa, ci è dato comprendere il sogno come un continuare a nascere.

La scrittura stessa è onirica. I suoi segni grafici in attesa, al pari di germogli di sogno, divengono come anemoni nel deserto dell’arida pagina, simili agli anemoni scarlatti che ricoprono all’arrivo delle prime piogge il deserto del Negev nel sud della Palestina.

Ma un continuo venire alla luce sperimentano anche coloro che hanno come levatrice la lettura. Chi legge è come quei torrenti del Negev che, secchi e inariditi, d’improvviso la pioggia rigenera: aprendo un libro, essi si riempiono di acque impetuose, dei sogni del cielo raccontati dalle nubi portate dal vento, sino a che la terra arida, come lo spirito, fanno rifiorire.

Il sogno è “immenso fiume” che precede il nascere di nuovo. È la nascita come desiderio di ristabilimento delle sorti, promessa di una trasformazione. Un precedere è il sogno che fa procedere la vita, un passo dopo l’altro, perché nascere è un venire a sé stessi andando verso l’altro, un procedere verso chi ci precede innanzi.

«Ed ecco: la stella che avevano visto in oriente li precedeva» (Mt 2,9): il sogno dei Magi è il sognare dei popoli. «E ora andate e dite ai suoi discepoli che egli è risorto dai morti e vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, ve l’ho detto» (Mt 28, 7): l’annuncio delle donne è il vangelo: il sogno nascosto nelle viscere di ogni vivente.

Sotto il deserto
Sterile nel tempo,
Procede fresco e lento
Un fiume immenso.

La terra gli fa largo,
E si pulisce;
La tenebra in letargo
Si spoltrisce.

Ogni goccia in sé raccoglie
Che filtrava esaurita,
E l’abbevera di vita,
Non più sola con la morte.

Ma di fuori sta il deserto
Senza avere giovamento:
Moltiplica la sabbia,
Ammucchia pietre e rabbia;
Ignora il fiume immenso,
Che se sporge in refrigerio
Dentro l’oasi feconda
Una cinta lo circonda,
E fa suo il desiderio.

*

Così il fiume torna ancora
Nel mister del proprio corso –
E per sé nemmeno un sorso.

***

Perde i pètali la rosa
Per spiegar le ali al volo:
Compie intanto il tuo sogno,
E la salute del ramo.

Chi cammina leva un piede
Mentre appena l’altro posa:
L’equilibrio è un richiamo,
E così il passo procede.

Io rimango, e tu mi lasci,
Come terra sfugge al sole
Perché tutta la fasci:
L’addio non è l’abbandono.

(Clemente Rebora [Qui], Le poesie, Milano 1994, 157-158; 479).

L’Assunta: un destino sognato

Scrive Maria Zambrano: «Ombre del sogno di Dio. La mia vita non è il mio sogno e se la sogno è perché io che la sogno vengo sognato. Dio ci sogna e allora dobbiamo rendere il suo sogno il più trasparente possibile, ridurre l’ombra al minimo, assottigliarla. Dio mi sogna? Sarà possibile realizzare il suo sogno? …

Forse Dio sognò di una sua creatura, la prediletta; forse l’universo ci sogna come suo compimento e siamo già sognati, pre-sognati nel fiore e nell’albero che si erge, nella stessa materia estesa, sognata a sua volta, che aspira alla realtà e si mette a servizio per raggiungerla» (ivi, 16-17).

L’Assunta è il sogno di Maria, è quell’addio che non abbandona; un saluto – invece − di prossimità, perché l’a-deus è un abbraccio che ritorna sempre, di nuovo, da parte di colei che ci ha preceduto in una nuova nascita, quella della sua ultima Pasqua, il passaggio nella beatitudine del Figlio.

Disse di lei Elisabetta, sentendo sussultare il suo grembo gravido: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1, 45).

Innalzata è Maria, come il Figlio, risorta nel Risorto − potremmo dire pure − poiché il verbo greco eghéirô corrisponde ad alzare, rialzare, innalzare, sorgere: ma è anche il verbo della risurrezione, quello a cui ricorrono gli evangelisti per descrivere lo status del Crocifisso risorto: “in piedi”.

Da Maria e dal suo popolo, Gesù ha imparato a sognare il sogno di Dio per continuare a far nascere la vita attraverso i suoi sogni, che sono le sue parabole, a rialzarla nei suoi gesti di guarigione prendendola per mano.

Per questo nelle icone bizantine della Dormitio – come è chiamata in Oriente l’“Assunta” – è raffigurato Gesù che tiene sulla mano una piccola Maria, così come quest’ultima aveva tenuto quella del figlio appena nato.

Sogno vivente, quello di Gesù, incarnato nell’orizzonte della realtà e della storia. Ritorna infatti il verbo egheiretai, surgit a cena: «si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto» (Gv 13,4-5).

Lo stesso è stato per Maria dopo l’annunciazione, dopo il suo eccomi all’adsum del cielo. “Exsugens autem Maria, abiit in montagna”. Qui, in Luca 1, 39 troviamo un altro verbo della risurrezione: «‘Anastãsa de Maria»:

«In quei giorni Maria si alzò in fretta», tutta incinta del suo sogno per recarsi verso la montagna dalla cugina Elisabetta, pure lei incinta del suo impossibile sogno: un figlio nella vecchiaia.

Giovanni, sarà il suo nome: grazia e dono di Dio. Anístêmi è il verbo che significa risvegliare, far alzare, innalzare, far risorgere da morte; e Anastasi viene detta nell’iconografia bizantina l’icona della risurrezione e della discesa agli inferi di Cristo.

Il sogno di Maria è il sogno dei poveri, degli afflitti, dei miti, degli affamati e assetati, dei perseguiti a causa della giustizia, dei misericordiosi, dei pacifici e di coloro che hanno il cuore limpido: il sogno degli uomini e delle donne delle beatitudini.

Maria, la ragazza di Nazaret, ne ha piena consapevolezza quando risponde ad Elisabetta con il canto del Magnificat: ha guardato all’umiltà della sua serva… ha deposto i potenti dai troni “ha innalzato i tapini” «hupsôsen tapeinoús», i piccoli, gli umili.

Ancora un altro verbo per dispiegare, oltre tutti i confini e le barriere, l’ampiezza e la smisuratezza del sogno dell’Assunta. Mi riferisco al verbo hupsoô, che significa alzare in alto; elevare alla sommità di opulenza e prosperità; esaltare, elevare a dignità, onore e felicità.

Ma così l’Assunta ha preceduto ogni cristiano nella pratica delle beatitudini del regno, parimenti è colei che per prima nella peregrinazione della fede, accompagna tutta la Chiesa.

Del resto la prima beatitudine è proprio quella del credere e del praticare il sogno del vangelo. Non per caso, sul monte delle Beatitudini, Gesù pronuncia l’Adsum qui sulla terra, il suo eccomi qui, tra la gente: «Al tramontar del sole, tutti quelli che avevano dei sofferenti di varie malattie, li conducevano a lui; ed egli li guariva, imponendo le mani a ciascuno» (Lc 4,40).

Da dove comincia allora la sequela di Maria nella pratica delle beatitudini? Innanzitutto bisogna impararle a memoria non diversamente conosciamo il Padre nostro. Ci vuole così poco − credetemi − basta volerlo.

È come imparare una poesia. Ma perché una poesia diventi un sogno che risveglia, che continui a farci nascere, occorre un’interiorità spaziosa, resa libera dalla premura, come grembo materno umile e ospitale.

L’umiltà − dice Nikolaj Berdiaev [Qui] − è una delle vie della libertà. Lungi dal corrispondere a sottomissione della volontà ad una volontà estranea, l’umiltà è l’atto dell’uomo orientato verso se stesso tanto da presupporre una intensa libertà dello spirito.

«Essa è la via che conduce alla liberazione dal potere di tutto ciò che è arbitrio, esteriore, estraneo all’uomo; la via che conduce alla libertà dello spirito, al rifiuto di ogni dominio degli elementi asservitori, a quella libertà interiore che trionfa del male nella vita» (Nikolaj Berdjaev, Spirito e libertà, Edizioni di Comunità, Milano 1947, 217-218).

E se l’umiltà è l’ospitalità che uno fa di sé al sogno dell’altro, ecco che praticare le beatitudini significherà mettersi dalla parte degli uomini e delle donne delle beatitudini nella forma di una diakonia sinodale.

Svegliarsi è rinascere ogni giorno: un risvegliare il sogno

«E imparò a svegliarsi alle prime luci del giorno per vedere, per un istante, attraverso il balcone aperto alla neve, l’alba, luce immemore che benedice il nostro sogno.

Svegliarsi è rinascere ogni giorno. E la luce già ci attende. È già lì, iniziata, la storia che ci tocca proseguire. Svegliarsi è entrare in un sogno già in movimento, provenire dal deserto puro dell’oblio ed entrare, per prima cosa, nel nostro corpo, ricordarlo senza rancore, entrare ad abitarlo e a recuperare la nostra anima con la sua memoria, la nostra vita con le sue occupazioni. Entrare come in un bozzolo tessuto da innumerevoli affaccendati bruchi; riprendere la nostra freddezza nel bozzolo fabbricato instancabilmente dal bruco-uomo, facitore di sogni che si realizzano, costruttore di storia». (Zambrano, ivi, 63).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

​Come un “gnic” nel Credo

 

Lo slogan elettorale della ex Lega Nord (ora Lega e basta) per le prossime elezioni ruota attorno alla parola ‘Credo’ ed i richiami religiosi all’atto di fede dei cattolici sono evidenti.

Non è una novità che il segretario della Lega Matteo Salvini, tramite i suoi baci pubblici al rosario, i suoi giuramenti sul Vangelo, il suo contornarsi di immagini sacre, sfrutti spudoratamente i simboli religiosi in cambio di voti.

In effetti noi elettori, quando scegliamo per chi votare, spesso ci facciamo condizionare più da alcuni aspetti apparentemente secondari piuttosto che dal programma elettorale e dalla credibilità dei candidati e delle candidate. Oltre ai colori e ai simboli, gli slogan rappresentano una parte importante di questi aspetti.

Molti partiti hanno capito da tempo che, in Italia, si conquistano più voti con ciò che si è detto che con ciò che si è fatto, più con la forma che con la sostanza; Freak Antoni[Qui] ha riassunto questo concetto con una frase straordinaria: “A volte il fumo è meglio dell’arrosto”.

In sostanza quel ‘Credo’ scelto dalla Lega Nord sembra proprio un invito a “credere”, indipendentemente dal contenuto proposto, ancor prima che a ragionare nello specifico sul tema.

In certi casi l’ironia mi aiuta ad immaginare che in fondo a destra, dopo il “credere”, venga il conseguente invito ad “obbedire” da parte di coloro che hanno preso il classico incitamento calcistico alla nostra nazionale per farlo diventare il nome del loro partito e, a seguire, arrivi l’ordine di “combattere” da chi si è appropriato dell’incipit del nostro inno nazionale, per tenere accesa la fiamma fascista nel proprio simbolo e non solo.

In ogni modo quel ‘Credo’ leghista mi ricorda una suggestiva espressione ferrarese: “At conti come un gnic in tal Credo”, la cui traduzione è: “Vali come un gnic nel Credo” ed il cui significato equivale sia a: “Non vali niente”, che a “Sei inopportuno”, proprio come un cigolio (gnic) prodotto da un movimento sull’inginocchiatoio durante una preghiera solenne (il Credo).

La similitudine non ha bisogno di ulteriori spiegazioni sull’inopportunità, a mio giudizio, di alcuni “tranelli politici”.

Del resto mi pare che, oggi in politica, le cose inopportune stiano diventando più uno status symbol che un difetto da evitare.

Io, che comincio a rimpiangere le noiose tribune politiche di quando ero adolescente, credo esista un grave problema di educazione nel nostro Paese di cui pochissimi si preoccupano.

Io, che faccio il maestro elementare, osservo che si voterà ancora una volta chiudendo le scuole ad una settimana dal loro inizio, senza rispettare quell’impegno a trovare altre sedi che diversi partiti avevano preso qualche anno fa.

Io, che giocando con le parole me ne prendo cura, temo che questa sarà una pessima campagna elettorale perché sarà orientata ancora una volta allo scontro e non al confronto.

Io, che guardo alla coerenza ancor prima che alla conferenza, vedo che qualcuno si impegna più a sfoggiare la propria vanità privata invece di discutere, ad esempio, per migliorare la sanità pubblica.

Io, che vivo del mio stipendio, vorrei che chi promette di tagliare le tasse non guardasse solo alle proprie casse, ma spiegasse con quali soldi pagherebbe poi i servizi pubblici.

Io, che a scuola guardo tutti i giorni in faccia al futuro, desidero ascoltare qualcuno che abbia proposte serie sul come uscire da questo presente in cui siamo tutti impantanati.

Io, che a forza di turarmi il naso ormai fatico a respirare, ho bisogno di aria fresca nei polmoni, di vento forte per veder volare proposte alte di giustizia sociale in modo da rafforzare la mia “costituzione”.

Io, che  non “credo” a certi slogan, penso che sceglierò invece la “credibilità” delle persone che hanno fatto battaglie sociali ed esperienze importanti soprattutto fuori dal Parlamento, come mio criterio per decidere chi votare.

Diario di un agosto popolare 10
FREQUENZE DISTORTE

FREQUENZE DISTORTE
16 agosto 2019

Nella chimica delle emozioni, l’estate sembra indurre, nella gente in città, oscillazioni più sensibili che nelle stagioni fredde.
Sarà anche il calo della pressione e il frenetico circolare di liquidi nel corpo, ma insomma, in farmacia, che è oggi il luogo di aggregazione sociale più popolare del quartiere, nella fila tra i clienti emergono questi squilibri di serotonina, dall’euforia ostentata alla depressione più cupa.

Non c’è dubbio, l’Italia è un paese per vecchi e adesso, che le famiglie coi pupi stanno sguazzando a Coccia di morto e dintorni, qui vicino alla fermata metro Malatesta siamo quasi tutti pelati o con capelli bianchi.

Nella cabina dove si prova la pressione c’è un matusalemme con la barba fino all’ombelico che si confessa con il farmacista fricchettone (capelli lunghi un po’ bisunti, maglietta da concerto rock e sotto il camice, un paio di short gialli con infradito ai piedi). Il vecchio parla della moglie: “Non so più che fare, è sempre smaniosa, va in giro tutta la notte e si lamenta di tutto.” “Eh, le donne so’ così…” risponde il dottore, che è uno specialista, “ma la pressione tua sta meglio della mia” gli dice, non so quanto rassicurandolo.

Una delle cose che mi hanno insegnato (e che non s’imparano mai), è che quando qualcuno ha bisogno di sfogarsi, raccontando un disagio, la cosa peggiore è compararlo con il proprio, per fargli credere che il suo non esiste. Eppure il matusalemme la prende a ridere e io capisco che il gusto per la battuta e il darsi del tu come compagni di merende, sono cose che, nella solitudine urbana, restituiscono comunque un salvagente di umanità.
Ora il novantenne barbuto raggiunge nella fila un giovane che sta ordinando delle siringhe per l’insulina e fra loro si sviluppa un dialogo affettuoso, tanto che il giovane, che risulta essere un vicino di casa, si propone di aiutarlo a fare le iniezioni alla moglie: “Chiamami quando vuoi, io ormai, anche se me lo sarei risparmiato volentieri, sono diventato un esperto!”.
Tutti quanti ora parlano fra loro della generosità del giovane diabetico, e nessuno ha perso la pazienza: anche se la fila è lunghissima per colpa mia, che ho comprato un apparecchio per misurare la pressione e il giovane farmacista per mostrarmi come si usa, ha deciso di provarsela lui accorgendosi di avere dei valori da iperteso.

Niente allarme, solo grandi risate sul fatto che certi trabiccoli, se si usano male, fanno prendere dei colpi ingiustificati.
Siamo tutti venuti là per delle paure, dei malesseri, delle angosce notturne eppure stiamo sghignazzando come fossimo al Bagaglino.
Tornando a casa con l’apparato per ipocondriaci, incontro per strada altri sprazzi di malessere.
Una signora un po’ spettinata, ma con una sua cura femminile nello smalto delle unghie e nelle scarpette dorate sta gridando nel suo cellulare “Mo’ quello con me ha chiuso! Nu’mmevedrà mai più!” e entrando nei dettagli “Ha avuto la faccia tosta de portasse quella troia al pranzo de feragosto!” Mi verrebbe voglia di fermarmi e sentire il seguito, ma lei è in mezzo alla strada e sarebbe davvero un po’ sfacciato fermarmi ad origliare.

Poi proseguendo, vedo una ragazza, l’aria spersa, seduta per terra, accanto a un muretto. Non capisco se ha avuto un mancamento o stia chiedendo l’elemosina, ma non ha un’apparenza malmessa. La guardo per capire se ha bisogno d’aiuto, con un po’ di timore di restare invischiato. Avvicinandomi mi accorgo solo che ha le labbra un po’ screpolate.
Lei, sentendosi osservata, mi dice: “Buongiorno!” “Buongiorno!” le rispondo io. E restiamo così, a guardarci per un paio di secondi. Poiché non sembra aver bisogno d’aiuto, passo oltre, col dubbio che a quel buongiorno da parte mia, dovesse seguire almeno la domanda: “Tutto ok?”
E mi viene di pensare a quando, cercando qualcosa da ascoltare all’autoradio mentre mi aggiro nel traffico, passo da una stazione all’altra, cogliendo frasi, mondi, umanità, che abbandono subito con un colpo di freccetta: voci tremule di vecchiette che chiamano radio Maria, litanie di preghiere nella contigua radio vangelo, queruli conduttori che flirtano con conduttrici dalle voci impostate, grevi voci di rauchi tifosi laziali, adrenalinici disk jockey che fanno gli spiritosi e l’immancabile comizio registrato di Marco Pannella.

Alla fine del giro, in cui generalmente mi stufo e spengo, mi domando: sarà questa la realtà? Quella della radio, dei giornali, di facebook, dei tg, della strada, del cinema…?
Ogni cosa che mi arriva all’orecchio o alla vista è talmente parziale e manipolata dalla mia lettura, che prende una vita propria.
Anche i miei viaggi minori, nel micro-mondo romano del quartiere Prenestino, benché mi sforzi di registrarli nel loro letterale accadere, sono alla fine esercizi di finzione.
La frequenza dei miei passi è come la frequenza di una radio e la mia grande libertà (lo diceva persino Brecht) e forse anche il mio limite, è che – nella maggior parte dei casi – decido io quando accendere e quando spegnere l’ascolto.

La Centrale a Biometano a Villanova stravolgerebbe il territorio.
La transizione ecologica non può prescindere dalla tutela dell’ambiente e della vita dei residenti.

Nelle prossime settimane sono previsti passaggi determinanti riguardo la realizzazione della Centrale a biometano a Villanova di Denore, a pochi chilometri da Ferrara.  Al di là del giudizio sulla opportunità e sulla localizzazione dell’impianto – che in ogni caso sembra sovradimensionato e quindi foriero di gravi conseguenze sociali ed ambientali – quello che risulta insopportabile è il vizio degli enti pubblici (in questo caso il Comune di Ferrara) di decidere interventi e avviare procedure senza il coinvolgimento attivo dei cittadini. Non è accettabile – ce lo ricorda Sandra Travagli nel suo intervento inviato a periscopio – sventolare lo slogan della pur necessaria transizione ecologica  per nascondere l’opacità di decisioni assunte senza una seria programmazione, senza adeguati approfondimenti, senza informare e consultare gli abitanti direttamente interessati . Questo quotidiano sarà lieto di ospitare le opinioni di chi, a titolo istituzionale o personale, vorrà contribuire al dibattito in corso.
(Francesco Monini)
Sono molto preoccupata al pensiero di doverle presentare in breve e  in maniera utile l’argomento centrale biometano,  ma soprattutto di dare un senso all’idea, che ho da tempo, che ferraraitalia/periscopio potrebbe essere un  luogo importante di approfondimento e confronto su questo tema.
In estrema sintesi, è come Lei già saprà,  è prevista la realizzazione di una centrale per la produzione di biometano nei pressi di Villanova di Denore. Il Consiglio Comunale, il 21 febbraio di quest’anno, non concede le autorizzazioni alle varianti urbanistiche e di fatto sembra che bocci in maniera definitiva il progetto.
E subito parte l’azione dei ‘seri’ – come li definisce oggi nella sua nota Nicola Cavallini nel ragionamento sui rigassificatori che ben si avvicina al nostro tema – viene condannato l’operato dissennato della Giunta che, soprattutto nel preciso “momento storico” di fine febbraio 2022, decideva di non contribuire a rendere autonomo il Paese dal gas russo.
I riferimenti poi alla primaria Società che avrebbe realizzato la centrale e al guadagno che ne sarebbe derivato agli agricoltori rendeva più  completo il quadro dell’occasione persa.
Qualcuno parla anche di patriottismo mancato…
Non è sarcasmo, mi creda, sono state queste le motivazioni che spingevano per la realizzazione dell’impianto e non sono mancati lo “dice il PNRR” e anche un “ce lo chiede l’Europa”. Punto. Per rincuorarmi lo definisco il fuoco amico. Ho chiaramente una conoscenza delle normative e delle politiche energetiche da persona comune e oggettivamente molto coinvolta, però ho la sensazione che ideologia e anche superficialità stiano influenzando troppo la situazione.
Cercando di avere maggiori informazioni, scopro casualmente che il procedimento di autorizzazione del progetto, da parte di Arpae  va avanti. Posso acquisire la documentazione e presentare anche osservazioni.
Scopro via via che quella che dovrebbe essere realizzata sarà una delle centrali più grandi della regione,  cinque volte più grande di quelle già presenti nella nostra zona (in un raggio inferiore ai 10 km ce ne sono altri cinque), che ‘digerira’ 100.000 tonnellate, per metà stocchi di mais, sorgo etc. (checampagna ferrarese immagino si contenderanno con gli altri impianti) e metà reflui zootecnici, pollina e residui dell’industria agroalimentare provenienti da fuori provincia e anche da fuori regione.
Ne usciranno 45.000 tonnellate di ‘digestato’ che verrà sparso nei campi, in un raggio di 15 km.
Sono previste decine di migliaia di viaggi di trattori e di camion, in ogni periodo dell’anno. Sarà  costruita in deroga alle distanze dalle abitazioni previste dal Regolamento Urbanistico Edilizio del Comune di Ferrara.
Verrà prodotto metano ‘green’ che sarà immesso nel metanodotto della  Snam che passa proprio a pochi metri da qui.
E tutto questo, nel silenzio assoluto. Per la realizzazione di un impianto industriale di questa portata non sono coinvolti i residenti, non c’è nessuna voce che domandi cosa ne sarà di questo territorio, che modificazioni irreversibili subirà, quali conseguenze subiranno le persone che vivono attorno all’area di progetto.
Temi come la tutela paesaggistica e il consumo di suolo sono ritenuti inutili in questa zona,  che anzi viene definita non di pregio.
È ‘semplicemente’ campagna! La nostra è una tipica zona della campagna ferrarese!
Ma siamo a 12 km dalla città!  È l’area di cintura verde che caratterizza da sempre Ferrara. 
Ogni volta che io dico di aver scelto di abitare a Villanova mi sento dire” di Denore? ” e la conoscenza finisce lì.  Non mi dovrebbe stupire l’assenza di attenzione!
Penso però, e cerco di ragionare con tutti quelli che hanno voglia di ascoltarmi, che la transizione ecologica non può giustificare ogni cosa ma che è indispensabile riconoscere la complessità e dare valore anche ad aspetti che possono sembrare a prima vista secondari.
Ma siamo ad oggi.
Finalmente si parla di questa situazione sulla stampa.
Escono informazioni più dettagliate e di conseguenza i primi dubbi.
L’Amministrazione comunale riporta adesso il ragionamento sull’opportunità di approvare la realizzazione di una centrale dimezzata per arginare il rischio di vedersela appioppare intera.
E adesso sempre più persone si chiedono se non era possibile uno svolgimento diverso della vicenda.
L’accusa di non volere semplicemente la centrale vicino a casa propria e di irragionevolezza nel voler anteporre i propri legittimi diritti  al perseguimento dell’interesse pubblico – come stabilito anche  dal PNRR – sono solo scuse, a mio avviso, per nascondere la mancanza da parte degli enti pubblici di una  programmazione efficace e di una pianificazione vera di questo tipo di interventi, a tutela generale dei cittadini e non dagli investitori, che è evidente hanno altre finalità.
Credo di dovermi fermare, ma solo nel racconto di quanto è successo fino a qui.
Mi auguro che tante persone abbiamo voglia di pensare a quello che potrebbe succedere  o che succederà dalle parti di Villanova. a sostegno delle nostre preoccupazioni,  ma soprattutto  per uscire dalle improduttive contrapposizioni ideologiche sui temi della energie alternative e sul contributo dovuto da tutti, e in modo coerente, per la salvaguardia dell’ambiente. Altrimenti riconosciamo di accettare tanti interventi parziali che lavano le coscienze ecologiche e non portano da nessuna parte.
In copertina: Building-observatory-dome-biogas-manure-factories-pxhere.com (Wikimedia Commons)

Parole a capo /
Silvia Lanzoni: “Magnolia” e altre poesie

“Universo che mi spazia e m’isola, poesia.”
(Alfonso Gatto)

SCINTILLA

Eri bruco sei diventata farfalla
è sbocciata la tua anima bella
scintilla di luce dal buio sei uscita
ma già nel tuo bozzolo
fremeva la vita

 

KABUL

Homo erectus
prepara le tue frecce
dalle punte di selce
taglienti e mortali
homo sapiens
quante promesse
dimenticate
ma tu piccolo mio
apri le tue ali e vola
vola oltre le frecce
oltre le parole
oltre i fili spinati
noi riusciremo a farti da scudo?

 

FACCIO IL MIO MESTIERE

Faccio il mio mestiere
ho con me la cassetta degli attrezzi
se a volte mi graffiano l’anima
ho di che ripararla

 

INCONTRO

E se il tuo cuore cerca
lascialo fare
abbandona le certezze
in questo grande mare
un respiro dopo l’altro
niente di eccezionale
è la vita che ti chiama
con il suo ritmo primordiale
ecco senti è più incalzante
sta scorrendo linfa nuova
nel silenzio dell’incontro
ti sussurra…dai prova

 

LA MAGNOLIA

Sono passata davanti alla tua casa
rigogliosa è la magnolia che piantammo
fiori bianchi come coppe di alabastro
col loro nettare mi invitano ad entrare
ma la chiave l’ho perduta chissà dove
forse in sogno dove ci incontrammo

Silvia Lanzoni (1959 – Ferrara). Laureata in Pedagogia. Ha lavorato come insegnante nelle scuole dell’infanzia del Comune di Ferrara.
Attualmente, in pensione, dedica gran parte del suo tempo alla scrittura.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopioPer leggere i numeri precedenti clicca [Qui] 

LE RINNOVABILI NON DECOLLANO…
Le Comunità energetiche e solari sono una soluzione

Con i costi dell’energia alle stelle, il contributo delle rinnovabili al mix energetico nazionale è divenuto urgente e ancor più al centro di un acceso dibattito.
Secondo il rapporto Comunità rinnovabili 2022 di Legambiente, gli impianti da fonti rinnovabili in Italia non decollano: sono 1,35 milioni (60 GW di potenza complessiva), di cui appena 1351 MW installati nel 2021. Cala il contributo complessivo portato al sistema elettrico italiano: 115,7 TWh (solo +1,58% rispetto al 2020) e Legambiente dichiara “Numeri insufficienti che rischiano di farci raggiungere l’obiettivo di 70 GW al 2030 tra 124 anni”.

L’aspetto positivo registrato nel rapporto è, invece, rappresentato dall’aumento delle nuove opportunità di autoproduzione e scambio di energia attraverso le Comunità energetiche da fonti rinnovabili: sono 100 quelle mappate negli ultimi tre anni dal rapporto di Legambiente, tra realtà effettivamente operative (trentacinque), in progetto (quarantuno) o che muovono i primi passi verso la costituzione (ventiquattro). Tra queste cinquantanove le nuove, censite tra giugno 2021 e maggio 2022, che vedono il coinvolgimento di centinaia di famiglie, decine di Comuni e imprese, di cui trentanove sono Comunità energetiche rinnovabili e venti Configurazioni di autoconsumo collettivo.

Le comunità energetiche rinnovabili per l’autoconsumo collettivo

Le Comunità energetiche rinnovabili (Cer) sono comunità territoriali dove produttori di energia – i prosumer – e i consumatori si scambiano l’energia prodotta in un circuito di consumo collettivo.

L’energia comunitaria riflette un desiderio crescente di trovare modi alternativi di organizzare e governare i sistemi energetici. Rappresenta un movimento sociale che consente processi energetici più partecipativi e democratici, ma solo recentemente la legislazione dell’Unione Europea ha riconosciuto uno status chiaro alle comunità energetiche nate dal basso, con diverse forme a seconda dei vari ordinamenti giuridici nazionali.

La legge italiana ha riconosciuto le Cer dal novembre 2021 con fondi di incentivazione consentendo a cittadini, enti locali, aziende e cooperative di associarsi e diventare comproprietari di impianti di energia rinnovabile “di vicinato” (fino a 200 chilowatt di potenza), scambiarsi energia per autoconsumo e mettere in rete l’energia, ricevendo un incentivo dal Gestore dei servizi energetici (Gse), l’ente pubblico che promuove la transizione ecologica.

Una lunga storia che inizia nel 1921 in Sud Tirolo

Le Comunità energetiche non sono però fenomeni nuovi. Nascono nel 1921 in Alto Adige, prima dell’arrivo dei combustibili fossili, dove fu costituita la prima cooperativa di centrali elettriche a Silves, con l’obiettivo di autoaiuto solidaristico per produrre elettricità e distribuirla attraverso una rete.

In questa valle remota, tre agricoltori e un artigiano costituirono la “Società elettrica di Santa Maddalena, allo scopo di “produrre energia elettrica e sfruttarla a beneficio dei propri soci, per assicurare l’illuminazione e il funzionamento meccanico, così da incentivare l’economia e promuovere al contempo il benessere materiale dei loro soci, attraverso impianti di segherie, mulini, officine per il legno e altre industrie”.

Cooperative energetiche dell’arco alpino, nate per produrre e fornire energia elettrica ai propri soci -Fontanone, centrale idroelettrica Paluzza, 1913. (ⓒhttps://www.secab.it)

Alla fine degli anni Settanta, negli anni della crisi petrolifera, nascono in Danimarca delle Cer in forma di cooperative eoliche che ebbero poi ulteriore impulso dopo il disastro di Chernobyl del 1986.

Dagli anni 2000, con la liberalizzazione del sistema energetico e la transizione verso sistemi energetici più decentralizzati, sono emersi nuovi paradigmi nella transizione energetica verso la produzione di energia rinnovabile. Il riconoscimento del potenziale contributo dei cittadini nel circuito produttivo dell’energia e la diffusione delle iniziative energetiche comunitarie varia notevolmente in Europa con Paesi come la Germania, la Danimarca e i Paesi Bassi con il maggior numero di comunità energetiche rispetto agli altri Paesi europei.

A livello europeo sono circa 3.500 le comunità energetiche che producono energia rilevate in nove Paesi dal rapporto del Joint Research Centre (JRC) della Commissione europeaEnergy Communities: An Overview of Energy and Social Innovation” 2020. Il rapporto rileva che entro il 2030 le comunità energetiche potrebbero possedere il 17% della capacità eolica installata e il 21% del solare in tutta Europa. Entro il 2050, quasi la metà delle famiglie dell’Ue dovrebbe produrre energia pulita.

case studies esaminati si riferiscono a progetti comunitari che offrono schemi di partecipazione collettiva da parte di cittadini e comunità locali. (© JRC European Commission)

Crescono le Comunità solari locali per mettere insieme l’energia

Le Comunità solari locali (Csl), sono nate a partire da un progetto dell’Università di Bologna nel 2010 , prima della legge nazionale che ha istituito le comunità energetiche Cer. Attualmente, sono presenti in comuni dell’Emilia Romagna (Medicina, Zola Predosa, Casalecchio di Reno, Sasso Marconi), Montegiorgio (Fermo) e Pesaro nelle Marche. Ci sono poi altre trentaquattro sezioni costituende tra cui Sambuceto in Abruzzo.

Il Centro per le Comunità solari è un’associazione senza scopo di lucro, nata nel 2015 con il compito di accompagnare le famiglie nella transizione energetica verso un Mondo alimentato da energia rinnovabile.

Leonardo Setti, docente dell’Università di Bologna, esperto di rinnovabili e fondatore delle Comunità solari, spiega ad Agenda17 che “nel passaggio dai combustibili fossili alle energie rinnovabili dobbiamo inevitabilmente passare dal global al glocal, ovvero dalla gestione dell’energia a livello globale alla gestione a livello locale perché le rinnovabili, a differenza dei combustibili fossili, non sono centralizzabili. Ognuno di noi dovrebbe iniziare a produrre l’energia che consuma che sia sulla superficie di un  tetto, di una scuola o di un parcheggio. In questo modo potremmo produrre il 70% dell’energia sui territori e consumare sui territori, l’altro 30% dovremmo necessariamente importarlo per ragioni stagionali o metereologiche. Le comunità energetiche nascono per tenere in equilibrio questo sistema di produzione e di consumo.”

Leonardo Setti, docente presso l’Università di Bologna e fondatore delle Comunità solari (©unibo)

Il Centro per le Comunità solari è uno spin off dell’Università di Bologna e rappresenta la piattaforma dove i partecipanti vengono inseriti secondo il profilo da semplice consumatore, da prosumer che mette in condivisione il suo impianto fotovoltaico, o come automobilista elettrico per caricare l’auto nelle stazioni di ricarica realizzate dall’associazione e localizzate vicino casa degli associati. Per avviare una sezione di scambio, i cui limiti sono dettati dai confini del territorio comunale, occorrono almeno un prosumer e due consumer. A oggi le famiglie che si scambiano l’energia sulle piattaforme esistenti sono poco più di sessanta. La rete di scambio prevede anche le stazioni di ricarica per le auto elettriche, le cosiddette “Community Charger”.

“Il Comune di Medicina – continua Setti – costituisce la comunità più ampia con tanti piccoli impianti ubicati sui tetti comunali, il suo Solar Info Store, la piattaforma fotovoltaica condivisa e due Community Charger. La comunità raccoglie più di 300 famiglie (circa il 2% della popolazione) in cui ogni cittadino solare, ovvero colui che risulta iscritto all’associazione, ha potuto beneficiare di risparmi economici reali, mediamente 250/300 euro sulle bollette annuali. Abbiamo imparato a consumare energia a chilometro zero e statisticamente questi risultati evidenziano che ogni cittadino solare ha fatto risparmiare mediamente quaranta kg di anidride carbonica all’anno. Questa quantità di emissioni evitate, è significativa dal punto di vista ambientale.”

Per attivare una Comunità solare è necessario trovare un’azienda disposta ad aprire una piattaforma di comunità solare nell’ambito della sua attività di responsabilità sociale d’impresa. In termini pratici, l’azienda contribuisce a un fondo che, tramite uno sconto annuale in bolletta, eroga i premi agli utenti prosumer consumer.  Anche chi non è cittadino di una Città solare può partecipare ai progetti collettivi della comunità, come ad esempio per la realizzazione della rete di colonnine per la ricarica dei veicoli elettrici della Csl.

 

Fuori dal fossile, le associazioni ambientaliste spingono per la nascita di comunità solari locali

La condivisione dell’energia apre a un nuovo sistema economico basato sull’economia di prossimità o una sharing economy. Per Viviana Manganaro, attivista e promotrice della campagna nazionale ‘Per il Clima Fuori dal Fossile’ sostenere e diffondere le comunità solari è importante perché, come afferma ad Agenda17, “ormai è assodato che le attività umane sono responsabili del riscaldamento climatico e purtroppo le varie crisi degli ultimi anni, dal Covid alla guerra, hanno giustificato un rallentamento del percorso verso la transizione ecologica.”

Viviana Manganaro, attivista della campagna “Per il clima fuori dal fossile” (©multiradio.it)

Per quanto riguarda le Comunità solari aggiunge: “dopo anni di battaglie contro il fossile abbiamo deciso che è necessario avere un’alternativa credibile e concreta. Autoprodurre e scambiare energia pulita, creando anche lavoro nel settore delle rinnovabili tra produzione, installazione e riciclo è possibile da subito creando comunità solari. Noi della campagna ‘Per il Clima fuori dal fossile’ abbiamo sposato le comunità solari come modello di comunità energetica perché non dipendono dalle decisioni dei Governi ma dipendono dai singoli cittadini e dai territori.
Dal Piemonte, alla Lombardia, dalle Marche alla Sicilia stanno aumentando le comunità solari che possono essere costituite anche solo da tre cittadini che si mettono insieme e condividono un pannello fotovoltaico e possiamo solo augurarci che questa accelerazione non si fermi. La transizione energetica è un processo ormai inderogabile e le comunità energetiche rinnovabili e solari rappresentano una soluzione possibile per contribuire alla lotta contro i cambiamenti climatici, rispondere ai costi crescenti dell’energia e combattere la povertà energetica.”

Milva Naguib
Consulente in comunicazione nel campo della salute e farmaceutico, ha conseguito il Master in Giornalismo e comunicazione istituzionale della scienza dell’Università di Ferrara

Agenda17
è realizzato dal Laboratorio DOS (Design Of Science) dell’Università di Ferrara, in collaborazione con il Master in Giornalismo e comunicazione istituzionale della scienza  e con l’Ufficio stampa, comunicazione istituzionale e digitale dell’Università di Ferrara.

Questo articolo è stato pubblicato il 9 agosto 2022 sul sito di Agenda 17  

ACCORDI
Gli Interpol e le luci del nuovo millennio

È l’autunno del 2001, e i riflettori di gran parte del mondo sono puntati su New York e sul World Trade Center. A circa 100 chilometri dalla “città che non dorme mai”, una band newyorchese dal nome piuttosto insolito – Interpol, come l’organizzazione internazionale di polizia – è intenta a registrare il suo disco d’esordio, che di lì a breve ridisegnerà i canoni dell’indie-rock.

Così, l’intimità dei Tarquin Studios di Bridgeport dà vita al crepuscolare Turn on the Bright Lights, nel quale gli innumerevoli riferimenti alla new wave britannica di fine anni ‘70 – perlopiù Joy Division, Wire e Chameleons – si mischiano con l’inquietudine e la disillusione del nuovo millennio.

La personalità degli Interpol è evidente fin dall’inizio: il sound tagliente e le ritmiche sincopate si adeguano ai saliscendi emotivi dettati dalla voce baritonale di Paul Banks, il cui timbro aggiunge ulteriore drammaticità a delle liriche già di per sé piuttosto cupe. Ci sono infatti rimpianti, promesse e confessioni con cui fare i conti, nonché vecchie ossessioni che riaffiorano.

A far da contorno alle liriche dello stesso Banks c’è per l’appunto New York, città natale della band a cui è dedicata l’ipnotica e trasognante NYC, che, pur nella sua semplicità, racchiude in sé un sacco di sfumature che ne impreziosiscono l’ascolto. La chitarra di Daniel Kessler è infatti precisa ed efficace, e somiglia un po’ alla mano di Mario Brega in Bianco, Rosso e Verdone: può essere ferro, può essere piuma. Al pari delle melodie vocali, i suoi riff spigolosi e i suoi fraseggi eterei suggeriscono all’ascoltatore un’ampia gamma di sensazioni, come ad esempio nell’irrequieta Obstacle 1 o nell’affascinante cavalcata di Stella Was a Diver and She Was Always Down.

Ciò che rende ancor più espressiva la musica degli Interpol, e in particolare le due suddette canzoni, è l’intensità della sezione ritmica: il duo Fogarino-Dengler dà respiro alle melodie di Paul Banks e indirizza il sound di ciascun brano con la giusta dose di aggressività e sperimentazione.

Pubblicato dall’etichetta indipendente Matador il 20 agosto del 2002, Turn on the Bright Lights si è guadagnato fin da subito lo status di “classico del nuovo millennio”, influenzando migliaia di artisti in tutto il mondo e dando il via a un filone – quello del post-punk revival – che ha rimescolato le carte del rock chitarristico. Oggi, a vent’anni dalla sua pubblicazione, il responso di un’ipotetica prova del tempo non può che essere il seguente: è invecchiato e continuerà a invecchiare bene, come un buon vino rosso dai colori scuri e dal sapore intenso.

MEGALOMEN:
L’Ombelico del mondo e la società dello spettacolo

 

“Il megalomane differisce dal narcisista per il fatto che desidera di essere potente piuttosto che simpatico e cerca di essere temuto piuttosto che amato. A questo tipo appartengono molti dementi e la maggior parte dei grandi uomini della storia.”
Bertrand Russell

Megalomen, cartone animato giapponese

Magari sei diventato un personaggio grazie ad un’ immagine da cazzone. Però decidi di crescere, di studiare, di applicarti, e questo è encomiabile, anche se ciò non ti rende Frank Zappa, o il Dalai Lama.

Continui a vendere tanti dischi, addirittura più di quelli che vendevi con la vecchia immagine, e questo è obiettivamente un gran colpo. Ti scaricano milioni di volte, tutti ti cercano per intervistarti.  Tutti si abbeverano alle tue parole come se fossi un profeta, interpretano i tuoi testi come se fossero letteratura, politica e tu finisci per crederci. Del resto, non è mica facile starne fuori. Succede a chi non interessa a nessuno, figurati a te che sembri interessare a tutti. Più del Dalai Lama.

Allora vuoi fare le cose sempre più in grande. Le tue idee hanno bisogno di una rappresentazione sempre più gigantesca. Cominci a ragionare come un capitano d’industria, un top manager. Non basta quello che hai ottenuto, devi fare sempre di più. La tua visione del mondo (il tuo ombelico) deve essere imposta al mondo. Deve diventare l’ombelico del mondo, diamine! Non importa se i tir, gli aerei, le ruspe che la trasportano inquinano e spianano il mondo ovunque tu passi. La gigantesca vision che porti in giro lascerà cambiato lo spicchio di mondo dove sei passato, in modo irrimediabile. Puoi farlo pulire, tirare su le cartacce, farlo lavare. Lo hai cambiato lo stesso, con la violenza della tua visione di una grande chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa. Ma forse è proprio quello che volevi: lasciare un’ impronta indelebile.

 

Vale per te, ma vale per chiunque non riesca più a dire di no agli adepti della propria personale chiesa, e quindi vuole dare una chance a tutti di vedere lo spettacolo, democraticamente (a parte la sezione aristocratica del pacchetto VIP, of course). Se ti vogliono vedere in 500.000 bisogna fare in modo che tutti possano farlo, ma non puoi mica esibirti cento volte in luoghi da cinquemila. Gli U2, che avevano il problema che li volevano vedere 5 milioni di persone, nel 1997 portarono in giro per il mondo un gigantesco logo giallo che richiamava McDonald’s o un megastore, con un’enorme oliva infilata in uno stuzzicadenti e un limone gigante. Un palco di 700 metri, sotto loro che si esibivano sembravano lillipuziani. Voleva essere una parodia della società dei consumi. Ma come puoi essere una parodia della società dei consumi se la stai letteralmente incarnando, con biglietti al prezzo medio di 50 dollari (allora), uno spreco di risorse naturali imbarazzante e un inquinamento da co2 pari a quello di un piccolo stato sovrano? 

“Oi ndemo veder i Pin Floi”
Pitura Freska

Il 15 luglio 1989, data del concerto dei Pink Floyd su una piattaforma galleggiante di fronte a Palazzo Ducale, Venezia, è uno snodo centrale dell’instaurazione del cortocircuito tra realtà e spettacolo. Ci avevano già provato a Pompei, ma lì il connubio non prevedeva la presenza di un pubblico. Anzi, la solitudine della band nell’anfiteatro pompeiano era parte del fascino dell’operazione. Diciassette anni dopo, oltrepassarono lo stargate.Adesso la nuova frontiera dello show gigante – di cui Pink Floyd a Venezia è l’antesignano – è lo spettacolo allestito negli ecosistemi, meglio se delicati. I palazzetti, gli stadi, le aree costruite dall’uomo per quegli scopi (al limite ex ippodromi, ex aeroporti) non bastano più. Non esiste più l’idea che ci sia un posto per ogni cosa, che è poi l’idea del limite, della finitezza, del senso della misura. L’idea, anche, per cui ad un certo punto, in quanto individuo della specie umana, ti accade che muori. L’antropocentrismo deve debordare dentro le aree belle ma fragili (Venezia), dentro gli spazi naturali, li deve conquistare alla sua megalovisione di un mondo biodegradabile e compostabile. E per rappresentare questo mondo, accetta di degradare la natura ad ancella dello spettacolo. Popolare, democratico, ecologico e progressista. Ne sapremo qualcosa anche a Ferrara.

“Lo spettacolo non può essere compreso come l’abuso di un mondo visivo, il prodotto delle tecniche di diffusione massiva di immagini. Esso è piuttosto una Weltanschauung divenuta effettiva, materialmente tradotta. Si tratta di una visione del mondo che si è oggettivata.”
Guy Debord

In copertina: Jova beach 2022

Diario di un agosto popolare 9
LA METRO, IL BUS E LO SCOOTER

LA METRO, IL BUS E LO SCOOTER
16 agosto 2019

Oggi ad esempio ho sperimentato il trasporto pubblico di mezz’agosto e realizzato con un po’ di vergogna che, avendo una macchina (attualmente rotta) e uno scooter, non avevo mai preso la metro C, che passa a cento metri da casa mia.

La prima impressione, appena entrato in uno spazio sotterraneo gigantesco, animato com’ero da un brivido di ottimismo dettato dalla curiosità, è stata quella di trovarmi finalmente in una metropoli europea.

Impressione che è durata pochissimo, forse per il vuoto spettrale delle ferie estive, forse per l’assenza di colori, d’indicazioni, di spazi espositivi, cartelloni pubblicitari o mappe stradali, che caratterizzano le metropolitane di altre città.

Nel grigio vuoto di questa stazione nuova di zecca, l’unico elemento che me l’ha fatta sentire parigina è – per dirla come si usa adesso – la nettissima prevalenza di stranieri, oppure – come si diceva prima – il carattere multietnico dei suoi utenti.

Superata la prima panchina di bengalesi e la seconda, occupata da una famigliola musulmana con regolare signora col foulard, mi seggo vicino a due bellissime africane che parlano animatamente fra loro in una lingua che non capisco.

La nuova metro C ha un unico vagone e si vedono tutti i passeggeri. Da una mia rapida statistica direi che i romani sono il 10%. Anche se è difficile essere scientifici, i miei strumenti sono un insieme di stereotipi gestaltici che vanno dall’abbigliamento ai caratteri somatici. Oggi Roma è in mano ai turisti e ai migranti: proporrei un referendum per fissare le elezioni a ferragosto, in metropolitana. Forse ci potremmo liberare di Salvini.

Appena sceso a San Giovanni aspetto un tram alla fermata.

Sento un dialogo tra una brasiliana e una croata: “Di qui passa il tram?”

“No, niente tram fino al 3 settembre, solo bus!”. E’ un po’ come quando si chiama Alitalia per un volo Roma –Torino e ti rispondono da Tirana.

Ormai dell’Italia ne sanno di più all’estero.

L’autobus arriva, inspiegabilmente, subito. E dopo due fermate sale una pattuglia di controllori, che setaccia i viaggiatori facendoci esibire i biglietti.

Un brivido mi attraversa, ma questa volta, stranamente, sono in regola.

Mi ricordo una volta, più di vent’anni fa, quando, su un autobus che veniva dalla periferia, scoprirono che eravamo una ventina a non aver pagato. Decisero, dopo aver fatto scendere i pochi in regola, di chiudere le porte e sequestrarci portandoci direttamente alla Questura centrale.

La maggioranza di chi non aveva il biglietto, vent’anni fa, era di italiani: studenti, pensionati, barboni. Oggi, che ne hanno beccati tre, due di loro sono stranieri.

In questi casi la gente tergiversa, fa finta di cercare nella borsa, uno (l’italiano) addirittura minaccia: “Guardate che prima che lo trovo, perdete un sacco di tempo!”. Poi, appena l’autobus apre le porte a una fermata, la signora velata di bianco, forse un’eritrea, che aveva esibito un biglietto scaduto, si butta giù dalla porta posteriore e inizia a correre. Uno dei tre controllori, con scatto da poliziotto, scende giù all’inseguimento.

L’autobus riparte e con la coda dell’occhio vedo che il controllore ha bloccato la signora e le sta facendo una ramanzina. Immagino la sensazione terribile di resa, di fronte a una multa pesantissima, di questa donna anziana dall’aria mite eppure un po’ sfacciata nel suo goffo tentativo di farla franca.

Anche su di lei avrei un pregiudizio, benevolo però: penso che sia talmente povera e sfortunata che dovrebbero lasciarla andare.

Ma mentre intanto, nell’autobus, i controllori stanno finendo di prendere gli estremi di quello che non ha il biglietto, s’alza all’improvviso un signore sulla settantina, magro, benvestito, un elegante barba bianca. Parla forbito il signore, anche se sta esprimendo la sua indignazione e non si capisce il perché.

“Faccia reclamo all’Atac” gli dice il controllore, che vuol tagliare corto.

Ma il tizio non si arrende: “C’è gente a Viterbo che rischia la vita, ma solo io ho denunciato al Prefetto che quel ponte era pericolante!” spara a voce alta, e nell’autobus spunta una foresta di punti interrogativi. Ma di cosa starà parlando? Tutti naturalmente pensiamo al viadotto di Genova, ma non capiamo cosa c’entri adesso Viterbo. Allora il signore, che ormai è circondato da gente che guarda altrove e fa finta di non sentire, si rivolge a me per dirmi “Pensi che a me che sono italiano da tutte le generazioni, mi hanno tolto la cittadinanza perché vivevo all’estero! Ah ne dovrei fare di denunce io! Non mi basterebbe il tempo!”

Siccome non mi piace trattare gli altri da dementi, gli chiedo: “E perché le hanno tolto la cittadinanza?” “Perché, perché…” facendo un’ironica pausa teatrale “perché se loro non usano il potere che hanno, non si sentono potenti” risponde, cercando complicità. Insisto: “Si, d’accordo, ma con quale argomentazione?” “Quale? Nessuna! E’ che io…sono diverso! No, non mi fraintenda, non sto facendo outing, non sono gay. Sono solo diverso da loro.” Mi è simpatico il signore, ma effettivamente gli manca qualche rotella, perché attacca una lunga concione sulle sue persecuzioni senza mai spiegare bene cosa gli sia successo, parlando sempre di “Loro”, gli imprecisati nemici che gli hanno rovinato la vita.

E cominciando a scaldarsi, perde definitivamente il filo della logica.

Mi colpisce che in questa Roma in maggioranza straniera, l’unico italiano che prenda la parola protesti, apparentemente, per aver perso la cittadinanza. Sembra una metafora perfetta per chi agita oggi il tema dell’invasione.

Anche se, con la convivenza, non c’entra niente.

Intanto mi rendo conto che col signore non c’è spazio per un dialogo, e comincia a salirmi un po’ di angoscia. Per fortuna è arrivata la mia fermata: gli chiedo scusa di doverlo interrompere, ma lui comunque va avanti da solo, cercando un altro pubblico.

Quando scendo, mi sento sollevato.

Prendo il mio scooter, salto in sella e comincio a correre godendomi il vento in faccia, sentendomi perfino giovane, un po’ egoista, ma libero di stare, almeno per un po’, in compagnia soltanto dei miei piccoli guai.

(continua dopodomani, 18 agosto)

Per leggere tutti insieme i capitoli del Diario di Daniele Cini:

Diario di un agosto popolare


Oppure leggili uno alla volta:

ANDARE PER STRADA E ASCOLTARE LA VITA

STRANI STRANIERI

CORPI DIMENTICATI

NELLA CITTA’ DESERTA

COCCIA DI MORTO

FINCHÉ C’É LA SALUTE

LA BOLLA SVEDESE

STELLE CADENTI

LA METRO, IL BUS E LO SCOOTER

FREQUENZE DISTORTE

CANNE AL VENTO

L’OTTIMISMO DURA POCO

LA TORBELLA DI ADAMO

Maternità parallele in un dramma collettivo:
Almodóvar colpisce ancora

È impegnativo, intenso e coinvolgente, l’ultimo film di Pedro Almodóvar, Madres paralelas. Bisogna trovarsi nel giusto stato d’animo, ma una volta pronti lo si guarda tutto d’un fiato. Non che il regista sia nuovo a tanta profondità e sensibilità, per tematiche toccate e scene che, a volte, un po’ disturbano i benpensanti; né tanto meno ci stupisce la forza dirompente delle sue interpreti, Penélope Cruz in primis (che per questa pellicola ha vinto, nel 2021, la Coppa Volpi come miglior attrice), la sua favorita, l’attrice che è ormai una sorta di alter ego del regista, una presenza costante in simbiosi quasi perfetta.

Eccoci allora di fronte a due donne, Janis (Penélope Cruz) e Ana (Milena Smit), che, a Madrid, condividono la stanza di ospedale in cui stanno per partorire.


Presto si capirà che le due madri, entrambe single e a confronto con una gravidanza inattesa, non condivideranno solo quello spazio tra quelle bianche, silenti e anonime mura ma una vita e un destino.

Janis è una fotografa affermata, Ana una ragazzina qualunque, abbandonata a sé stessa da una madre attrice di teatro sempre in giro per il mondo e un padre totalmente assente. Età diverse, ma situazioni del tutto analoghe per solitudine e un qualcuno sempre altrove.

Janis sul lavoro conosce Arturo, antropologo forense, e gli chiede aiuto per un progetto cui tiene molto: riesumare da una fossa comune alcuni corpi, tra i quali quello del suo bisnonno, di desaparecidos assassinati durante il periodo franchista. Tra i due nasce una frequentazione saltuaria finché Janis non scopre di essere incinta, ma Arturo è sposato. Deve proseguire da sola. Come sempre. Tornerà ad aiutarla?


Ana è invece una giovane con un passato complicato alle spalle
, ancora minorenne quando scopre di essere incinta. Anche lei non ha una relazione stabile, al punto che ignora chi sia il padre della sua bambina. Mentre il dramma si avvicina. Si salverà?

Entrambe diventano madri lo stesso giorno (delle piccole Cecilia e Anita), il legame fra le due donne cresce, e crescerà, fino a mettere davanti agli occhi dello spettatore una relazione inaspettata e un destino tragico sorprendentemente crudele. Colpi di scena e sconforto ma tanta forza di ricominciare. E sempre insieme.


Sullo sfondo una Spagna che fa i conti con il passato, soprattutto per Janis. Qui a (s)muovere l’animo del regista è la legge della memoria storica, approvata alla fine del 2007 dal Governo Zapatero per restituire a un popolo i suoi morti. Un popolo che chiede di riconoscerli e di piangerli. Un’esigenza sollecitata nel film dal personaggio di Penélope Cruz, spinta dall’urgenza di restituire una degna sepoltura al suo bisnonno, promessa fatta a sua nonna e alla figlia appena nata.

Perché la Memoria non ha a che fare col passato ma col presente e il futuro. Lo crediamo fermamente: senza memoria un popolo non ha futuro, tramandare gli errori del passato è fondamentale per evitare di ripeterli.  Almodóvar ricorda così le ferite di un paese non ricomposto, gli interessa profondamente la sua amata Spagna nativa e ne riesuma i fantasmi della guerra civile.

Tutto è movimento, azione, sentimento, un’avventura intima che ci farà commuovere, fino a piangere calde, caldissime lacrime. Per la tragedia delle due madri parallele ma anche per quella di un popolo che cerca finalmente pace con sé e il suo passato.

La scena finale è magistrale: una sorta di quadro vivente che incarna l’essenza della memoria e della storia e che ricorda l’olio su tela di Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato, del 1901. Geniale.

Maggi Giovanni, foto Quarto Stato 

A chiudere il film, poi, questa frase di Edoardo Galeano “Nessuna storia è silenziosa. Non importa quanto la brucino, la rompano e mentono su di essa. Per quanto si tenti di ridurla al silenzio, la storia umana si rifiuta di tacere.”,

Un omaggio a tutte le madri e all’importanza delle radici. Da vedere assolutamente.

 

 

 

Trailer

Madres paralelas, di Pedro Almodóvar, con Rossy De Palma, Penélope Cruz, Milena Smit, Aitana Sánchez-Gijón, Israel Elejalde, Spagna, 2021, 120 mn.

 

Fotografie dal web

TERRA & ACQUA DA SCOPRIRE.
La  Ciclabile Burana

 

Si è scritto tanto su questo sentiero che fiancheggia per 13 chilometri il canale Burana, da Ferrara a Bondeno. Ma questa è la mia storia personale. Mi è sempre piaciuto fare escursioni e passeggiare su due ruote e da qualche anno ho potuto apprezzare a pieno questa oasi per ciclisti, podisti o amanti della natura. La Ciclabile Burana.
Possiamo pensare che questo percorso ciclo pedonale, risalga al periodo in cui venne scavato l’omonimo canale, agli inizi del 900, forse inizialmente era solo uno stradone che fiancheggiava il collettore. Il Canale fu costruito per bonificare queste terre denominate “terre basse”.

Fu scavato con il sudore della fronte, con badili e con l’ausilio delle carriole veniva esportato il materiale dal gretto, dagli “scariolanti” come si usava in quel periodo.
E’ un condotto di acque meteoriche e di reflusso e bagna le province di Mantova Modena e Ferrara, e viene tutt’ora utilizzato per l’irrigazione dei campi circostanti.

Canale Burana

Io lo percorsi anche con il mio Kajak da Bondeno fino alla località Traghetto, per poi trasbordare nel fiume Reno ed arrivare all’oasi di Vallesanta, ad Argenta, nel Parco Nazionale del Delta del Po, ma questa è un altra storia.

pista ciclabile BuranaOggi parliamo di bicicletta e del tratto piu’ ombreggiato, che inizia sotto il ponte dell’autostrada A 13  Bologna Padova,  per arrivare a Bondeno (FE) e collegarsi ad altri itinerari tra cui la ciclabile “Argine destra Po”.
Sul nostro percorso ciclo pedonale, troviamo 13 ponti che attraversano il collettore, alcuni chiusi per ragioni di sicurezza e altri che si perdono nella campagna o che portano a casolari, a volte abbandonati e dimenticati. Casolari che, mi evocano storie passate di vita contadina, dove attorno all’aia, alla sera, si ballava e si cantava al chiarore e al crepitio del fuoco, unico divertimento, di quei tempi andati dopo la giornata di duro lavoro.

Passiamo il primo ponte e lasciamo alle spalle l’autostrada A13. Subito mi sento immerso in questo paradiso verde, di siepi, di arbusti e fitta vegetazione che ci accompagnerà per quasi tutto il tragitto che manca al paese di Bondeno. Nel percorso possiamo rallegrarci del canto di varie specie di uccelli tra cui merli, ghiandaie, tortore, picchi capinere, cinciallegre, sierpazzole, regoli, gazze, fringuelli, folaghe e tanti altri.

 

Mentre pedalo con la mia bicicletta nel silenzio della natura, che ci avvolge con un abbraccio sereno di pace, mi piace ascoltare il canto di questi pennuti, fischiettando tento di imitarne il verso e a volte sembra quasi che mi rispondano con un cordiale saluto.

Durante il tragitto, non è raro imbattersi in una colonia di pavoni, io ne ho contati circa 9 ma non sempre sono tutti visibili, li possiamo incontrare a circa 3 km dalla partenza, nei pressi di una residenza abbandonata (foto 9) se siamo fortunati, possiamo gioire di una stupenda ruota di penne, meraviglia di questi uccelli che sfoggiano con orgoglio nel periodo dell’accoppiamento.

Pavoni sulla pista ciclabile Burana (foto Valerio Pazzi)

Nelle campagne circostanti, le culture di frutta, grano, frumento, girasoli.
girasoli

La ciclabile denominata anche “Corridoio Ecologico del Burana” è completamente ombreggiata tranne l’ultimo tratto di circa 2 km e 800 metri, le siepi di frangola, nocciolo, sanguinello, pallon di maggio…, che contornano la ciclabile servono da frangivento oltre che da habitat, protezione e riserva di cibo naturale per uccelli, insetti e mammiferi.
Gli alberi ad alto fusto, tra cui possiamo riconoscere il tiglio, il ciliegio selvatico, l’ acero campestre…, creano ombra e condizioni ambientali ideali per la nidificazione per circa 36 specie di uccelli censiti in queste aree.

A circa 4 km dalla partenza, nei pressi del paese di Vigarano Pieve, troviamo un oasi ecologica gestita dal Canoa Club Ferrara, dove si svolgono gare di canoa olimpica, kajak, oltre a campi estivi e ad altre attività a stretto contatto con la natura. Adiacente al CCF, vediamo un molo su canale Burana da dove partono diverse escursioni in battello.

Molo fluviale, attracco sul canale Burana (foto di Valerio Pazzi)

Proseguendo circa 2 km troviamo l’ottavo ponte sul Burana che ci porta alla località Diamantina.

E’ un antico e nobile podere il cui nome deriva da uno degli emblemi della casa d’Este, il Diamante. Si hanno notizie di questo borgo, leggo, dal 1590. Il palazzo con stalle, grandi granai, aia, e torre colombaia è ora visitabile e contiene una ricca collezione di macchine e materiali legati all’arte contadina dei tempi che furono. Tuttora al suo interno sulla grande aia, si svolgono feste paesane, mostre e concorsi canini e felini.

Questa bellissima campagna ha fatto da sfondo recentemente alla registrazione di un cortometraggio del regista Edoardo Pappi, “Gabriella” , dove ho avuto il piacere partecipare in qualità di fotografo di scena.

Foto di Valerio Pazzi: dalle riprese del cortometraggio “Gabriella”, regia di Edoardo Pappi

Ma la ciclabile è anche un luogo dove puoi incrociare ciclisti provenienti da ogni dove e ciascuno con la sua storia, c’è chi tutti i santi giorni la percorre, per solo per passeggiare nella natura e mantenersi in forma, chi arriva da molto lontano e chi si allena in vista di gare importanti

Quest’anno ho incrociato due gentili signori francesi che visitavano il nostro paese in bicicletta.  un altro escursionista, con bicicletta e carrello,  proveniente da Treviglio (BS) e diretto ai nostri lidi per qualche giorno di mare. e proprio ieri un ciclista polacco arrivato sulla ciclabile Burana dopo averf attraversato Germania ed Austria: Dopo aver visitgato Ferrara – mi raccontava – avrebbe proseguito il suo viaggio in Albania, Macedonia, Kosovo, Montenegro, Croazia, Repubblica Ceca …

Prima di Bondeno dopo un paio di tornanti leggeri tra una fitta e fresca vegetazione arriviamo all’ex ponte della ferrovia, ora destinato all’attraversamento ciclo pedonale del Cavo Napoleonico, il canale che collega il fiume Reno al Po e utilizzato durante il periodo estivo per l’irrigazione dei campi, due colombi sulla sommità del ponte mi salutano al mio arrivo. E finalmente dopo aver percorso questo tratto di oasi sprofondato nel verde nella natura, arrivo a Bondeno di Ferrara, al bivio con le altre ciclabili e pronto con la mia bicicletta per una nuova avventura.

Vecchio ponte ferroviario, ora ponte pedonale sul Cavo Napoleonico (foto Valerio Pazzi ) 

Cover: la foto di copertina, come tutti gli scatti che illustrano il testo, sono di Valerio Pazzi, collaboratore e fotografo ufficiale di periscopio.                                                   

Il treno di Margherita
…un racconto

Il treno di Margherita
Un racconto di Carlo Tassi

Il sovrintendente passava sempre alla solita ora. Era un tipo preciso, pignolo, non ti guardava mai in faccia. Per lui eri merda, merda come tutti quelli che stavano sotto di lui.

Quel lunedì tre agosto gli uffici erano chiusi per ferie. Io ero stato chiamato all’ultimo momento per fare uno straordinario: mi dovevo occupare delle pratiche inevase di Margherita.
Margherita Cantelli aveva lavorato nell’ufficio a fianco al mio fino a tre giorni prima. Poi, venerdì mattina, aveva deciso di salutare tutti gettandosi sotto l’intercity per Bologna.

Margherita entra in stazione alle dieci e tre quarti circa. La stazione è affollata, molta gente è in viaggio per le vacanze. Margherita non ha bagagli, si ferma a dare un’occhiata al tabellone degli arrivi e delle partenze, sembra tranquilla, addirittura sorridente. Poi s’avvia spedita nel sottopasso. Sale la rampa, sbuca sulla banchina tra i binari quattro e cinque e resta in attesa. Ha pure il tempo di fumarsi un’intera sigaretta mentre aspetta sul bordo del quinto binario.
Una voce metallica gracchia dall’altoparlante: “Attenzione, allontanarsi dal binario cinque. L’intercity proveniente da Venezia e diretto a Firenze è in transito ad alta velocità!”
Un potente fischio in lontananza annuncia l’imminente arrivo del convoglio e in un attimo il treno sfreccia sul binario con un frastuono assordante. Tutta la stazione sembra tremare al suo passaggio mentre lo spostamento d’aria fa volare le cartacce lasciate per terra e le pagine d’un giornale dimenticato su una panchina. Il treno sembra non finire mai e la sua velocità è tale da non riuscire a distinguere le facce dietro i finestrini.
Poi, finalmente, l’enorme serpentone d’acciaio passa e s’allontana. La gente, all’apparenza indifferente, resta stordita per qualche secondo. Una bimba, in attesa di partire assieme a sua madre, guarda a terra e vede qualcosa d’insolito, sembra una biglia di vetro. La raccoglie. È morbida, calda, e le tinge la manina di rosso. La porge alla mamma. La donna riceve l’occhio azzurro rigato di sangue, lo fissa: un intero bulbo oculare, un macabro regalo dalle piccole mani innocenti della figlioletta. Grida inorridita.
Un secondo grido e un altro ancora. La gente si sporge dal bordo della banchina, guarda in basso, sulle rotaie del binario cinque. Un ragazzo di vent’anni si piega in avanti e vomita, un poliziotto sbuca dal sottopasso, accorre e chiama il collega sull’altra banchina, gli dice di far presto e di portare dei teli bianchi. Altri restano a guardare in silenzio, espressioni d’orrore e di disgusto nelle loro facce…

Margherita era bella, una mora con gli occhi d’uno splendido azzurro chiaro. Proprio bella!
Prima o poi le avrei chiesto d’uscire…
Il sovrintendente era brutto. Ma non solo brutto, era un fottutissimo stronzo. E per lui ogni occasione era buona per dimostrare a tutti quanto era fetente.
“Sortini, ha liberato la scrivania della Cantelli?” urlò alle mie spalle.
Ebbi un sussulto e mi girai. “Non ho ancora finito dottore…” risposi.
Il sovrintendente Soprani attraversò la porta dell’ufficio e mi si parò di fronte. “Si sbrighi! Non dorma come al solito!” sbraitò a due centimetri dal mio naso. “Tutta la roba della Cantelli dev’essere portata via e sistemata entro mezzogiorno! Sennò peggio per lei!”
Girò i tacchi e uscì, tronfio e impettito come al solito.
Io continuai il mio lavoro senza fiatare. Mi rimase appiccicata addosso quella sua alitosi fatta d’acetone, aglio marcio e fondi di caffè che mi rivoltava lo stomaco. Spalancai la finestra, tornai alla scrivania di Margherita, aprii i cassetti e tirai fuori tutto.
Elenchi, preventivi, contratti, schede di lavoro. Poi un sacchetto di caramelle, un gufetto di porcellana, due cornici con le foto di lei durante una vacanza di qualche anno prima. Guardai ancora una volta il suo sorriso incantevole e mi venne un groppo alla gola.
Mi chiedevo perché era successo. Se lo chiedevano tutti naturalmente.
In fondo all’ultimo cassetto trovai un libretto con la copertina celeste. Lo aprii, lo sfogliai: era un diario.
Non avrei dovuto ma iniziai a leggere. Magari c’era scritto qualcosa che potesse spiegare il suo gesto…
Magari…

Scorsi le pagine velocemente e mi soffermai sulle ultime.
Lessi: “Il maiale, m’ha toccata anche oggi. Ha avuto il coraggio di sorridermi e di dirmi di star tranquilla. Che tanto rimarrà un segreto tra di noi. Di non preoccuparmi, che, se faccio quello che mi chiede, poi l’assunzione me la rinnova anche stavolta… Mi faccio schifo… Vuole guardarmi mentre ingoio il suo sperma… Sto male, non riesco a togliermi quel sapore dalla bocca, quella puzza orrenda mi perseguita… Sono andata in bagno a vomitare per l’ennesima volta. Vorrei gridare a tutti che lo odio ma non posso, non adesso che son rimasta sola… Ieri gli ho detto che con lui avevo chiuso, che non venisse più a cercarmi, che avrei detto tutto all’ispettorato, che l’avrei denunciato, sputtanato. Ma lui è Soprani, l’onnipotente, e m’ha risposto che può mettermi a casa in qualunque momento e che nessuno mi crederebbe… Poi se l’è tirato fuori e m’ha riso in faccia… Forse me lo merito, forse sono marcia io, sennò non mi spiego perché a me e non ad un’altra… Oramai la soluzione è una sola, devo soltanto trovare il coraggio di farlo e buonanotte…”
“Sortini, ancora qui? Non ha ancora finito con la Cantelli?” risuonò la solita voce sgradevole, sempre alle mie spalle.
“No dottore… m’è capitato tra le mani il diario di Margherita e ho letto qualche riga…” dissi io fissandolo negli occhi.
Il sovrintendente impallidì e per la prima volta incrociò il mio sguardo. Sembrava sorpreso, disorientato. “E che c’è scritto?” balbettò.
“Delle cose assai interessanti. C’è anche il suo nome sa?” gli dissi, “Cose incredibili. Dovrò darlo alla polizia ferroviaria che sta indagando sulla disgrazia…”
“Sortini, lo consegni a me. Ci penso io a darlo a chi di dovere!” mi disse col sorriso più falso che abbia mai visto.
“Mi dispiace sovrintendente, qui Margherita parla di lei e dei vostri rapporti particolari… Dovrò consegnarlo io a chi di dovere!”
“Sortini, non sia stupido. La Cantelli soffriva di depressione, lo sanno tutti. Avrà scritto sicuramente delle cazzate senza senso… lo dia a me!”
“Era depressa, certo… e qui se ne capisce il motivo!”
“Ha cominciato a dare i numeri dopo la morte dei suoi. Ho pure cercato d’aiutarla, ma non è servito a nulla.” sospirò. Aveva la stessa faccia tosta d’un mafioso al funerale della sua vittima.
“Ma la pianti per piacere!” sbottai. Ormai la mia sopportazione era giunta al limite massimo.
“Su Sortini, mi dia quel diario se ci tiene a continuare a lavorare in questo posto!” m’intimò.
“Mi sta minacciando dottor Soprani? Lo sa cos’ho appena letto in questo diario? Lo sa che potrebbe essere denunciato per quello che c’è scritto qua dentro?”
“Denunciato per cosa? Per i vaneggiamenti di una troietta arrivista?” chiese con strafottenza. Quella sua maschera di superiorità e finta sicurezza si stava sfaldando davanti ai miei occhi. Era evidente la sua paura così come la meschinità di cui era impregnato. Vedevo un ometto piccolo piccolo sul punto di crollare.
Andai alla finestra per respirare. “Lei ha un problema di alitosi… gliel’ha mai detto nessuno?” dissi.
Improvvisamente Soprani s’avventò verso di me. “Dammi quel cazzo di diario!” gridò.
Lo scansai e gli afferrai un braccio spingendolo via. Tentò di colpirmi con un pugno ma era più bravo a comandare che a fare a botte. Lo afferrai e lo lanciai oltre la finestra.
Sentii un tonfo sordo, m’affacciai dal davanzale e lo vidi: giaceva immobile in una pozza di sangue, un fantoccio disarticolato sul marciapiede del cortile interno.
Dopo un volo di cinque piani l’impatto col cemento gli aveva fracassato il cranio, spezzato le ossa e spappolato gli organi interni. Era morto sul colpo.
Mi guardai attorno, non vidi nessuno. In quell’ala del palazzo tutti gli uffici erano chiusi da venerdì.
Me ne andai. Il giorno stesso portai il diario ai carabinieri, del volo dalla finestra del sovrintendente non dissi nulla. Lo trovarono due giorni dopo già gonfio e pieno di mosche.

Passarono altri tre giorni quando, sulla prima pagina della Nuova, lessi questo titolo: “Molestie sul lavoro, duplice suicidio di vittima e carnefice”. Così andai al cimitero a trovare Margherita, sulla tomba c’era ancora il manifesto funebre. Posai un mazzolino di fiori di campo in un vaso e le dissi: “Mi dispiace non averlo capito prima Margherita. Ti vedevo tutti i giorni e non immaginavo quanto soffrissi… Non è vero, quel treno non t’è passato sopra. Tu quella mattina sul treno ci sei salita e te ne sei andata per fare finalmente il viaggio che volevi. Ora sei lontana da tutta questa merda! Ciao Margherita, sii felice. Sappi che quello stronzo ha avuto ciò che si meritava, è in viaggio anche lui adesso… Ma stai tranquilla, non lo rincontrerai più, è andato nella direzione opposta!”

Who’s Gonna Find Me (The Coral, 2006)

Per leggere tutti gli articoli, i racconti e le vignette di Carlo Tassi su questo quotidiano clicca sul suo nome. Per visitare il sito di Carlo Tassi clicca [Qui]

Le storie di Costanza /
Agosto 1959 – Gli zufoli di Sambuco

 

Mio fratello Giovanni è tremendo. È biondo con gli occhi verdi, piccolo e molto agile. Va in giro con i suoi amici per i campi e lungo i fossi. Pesca con una canna di bambù che ha fatto lui e tira su i pesci con esche di lombrichi che dissotterra dal nostro orto.

A Cremantello ci sono due grandi fossi: la Tiria e la Calamazza, che qui tutti chiamano i navigli, e lui va lì a pescare e a nuotare. Nei fossi vivono piccoli pesci d’acqua dolce come le Amboline e i Pesci-gatti e a volte lui riesce a pescarli e noi li mangiamo fritti, dopo che mia madre li ha depurati dalle interiora e lavati per bene.

Lo scorso dicembre, mentre si stava dondolando su un ramo di un albero radicato sulle sponde di un fosso, è incappato in un incidente. Il ramo si è spezzato e lui è piombato nell’acqua sottostante. È finito nel fosso gelido e, dopo essere uscito bagnato e pieno di melma, ha dovuto attraversare tutto Cremantello per venire a casa.

Quando è arrivato tutto bagnato, i miei parenti si sono spaventati  – Preghiamo che non gli venga la polmonite – ha detto Ciadin e subito dopo ha estratto dal suo grembiule il rosario di legno d’ulivo, che predilige, e si è messa a borbottare sottovoce la prima decina di “Ave Maria”, snocciolando con le sue mani esperte i primi grani della santa collana.

Giovanni è stato immerso in un bagno di acqua calda presa dal pozzo e fatta bollire per l’occasione in una pentola sulla stufa. Il rimedio è stato molto efficace, si è riscaldato, asciugato e non gli è venuto neppure il raffreddore.

Appurato che non aveva nulla, si è preso una bella sgridata da mia madre Adelina che, essendo l’unico genitore che ci è rimasto, incarna sia il ruolo di madre che quello di padre.

Per due settimane gli è stato vietato di uscire di casa e così lui si è messo a saltare dal fienile al pollaio, atterrando sulla paglia dove le galline nascondono le loro zampe mentre fanno le uova.

Ha fatto qualche frittata estemporanea poco gradita dai nostri familiari, fatta eccezione per Toti, che ha leccato con piacere il vischioso impasto giallo rimasto a terra, scodinzolando soddisfatto.

Tra il fienile e il pollaio c’è un salto di due metri che mio fratello fa senza alcuna preoccupazione. Non si può di certo dire che sia un bambino tranquillo, ma è buono e molto intelligente.

Quando era molto piccolo mia madre legava il girello, con il quale stava imparando a camminare, al piede del tavolo, in modo che le sue passeggiate assistite avessero un perimetro limitato. Non si sapeva altrimenti dove avrebbe potuto arrivare e soprattutto come avrebbe potuto tornare.

Mi ricordo che quando aveva un anno andava ‘a quattro zampe’ praticamente ovunque e se lo perdevi di vista anche solo un attimo si avventurava sulla strada, dove passano i carretti oppure nel pollaio, dove gli animali da cortile sporcano continuamente.

Fino a due anni fa, andava in colonia sulle rive del Lungone (che passa a cinque chilometri da Cremantello) in un paese che si chiama Tortolano. I bambini di Cremantello erano dei pendolari, passava il carro a prenderli la mattina e li riportavano la sera.

La colonia era gestita da uno dei curati di Tortolano, ma poi un ragazzo è annegato nel fiume e il pover’uomo ha chiuso l’attività estiva in preda allo sconforto. Quello sfortunato prete non si è mai più ripreso dalla disgrazia di quel ragazzino che proveniva dalla città e, non essendo abituato alle insidie del fiume, è finito in uno dei suoi infernali vortici senza più riuscire a riemergere.

Il Lungone è molto pericoloso. È un grande fiume che sembra scorrere piatto e lento ma al suo interno ha dei violenti mulinelli, pericolosi, silenti e poco visibili. Quella meravigliosa acqua piatta e verde, che rasserena guardandola, nasconde la morte. Come un bellissimo fungo velenoso che ammazza incantando, che ti attira inneggiando alla bellezza.

Bisogna conoscere il fiume per frequentarlo, così come bisogna accogliere le sue insidie per amarlo. I bambini che crescono lungo un fiume imparano a conoscerlo.

Non fanno mai il bagno da soli ma sempre in due o tre. Così se uno finisce in un vortice gli altri hanno buone probabilità di riuscire a tirarlo fuori e a trascinarlo a riva. Bisogna accorgersene subito, il risucchio può essere tanto violento quanto imprevisto e il salvataggio ha ottime probabilità di giungere a buon fine se compiuto subito.

Eppure, nonostante ciò, tutti i nostri bambini vanno a fare il bagno al fiume e i genitori non se ne preoccupano affatto, perché anche loro da piccoli ci sono sempre andati, si sono divertiti, sono cresciuti tra l’acqua e le fronde e hanno imparato ad amare il fiume con tutte le sue insidie.

I grandi amori crescono un po’ alla volta, maturano con la vita e non ti lasciano più. Ogni grande amore nasconde dei pericoli, ma non per questo smette di chiamarsi amore. Il Lungone conquista tutti, un po’ alla volta, un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro e a un certo punto scopri che non ti lascerà più, che non lo lascerai più.

Dallo scorso anno la colonia estiva è organizzata a Corte dei Marchesi e passa sempre un carretto a prendere i bambini la mattina e a riportarli la sera. È gestita dal parroco di Corte, che può disporre di un seminarista e di alcuni ragazzi grandi che lo aiutano.

Anche Corte dei Marchesi è sul fiume e la quotidianità della colonia è molto simile a quella di Tortolano. Spiaggia, giochi, pranzo in riva al fiume, un po’ di preghiere e, una volta digerito il pranzo, il bagno.

L’immersione nell’acqua, che chiude la giornata e ben predispone gli animi alla serata in avvicinamento, è momento più atteso, il più divertente, il più rilassante e rinfrescante. Senza il fiume non ci sarebbe la colonia estiva.

È la corrente del Lungone che tiene vivo il divertimento, la sua acqua che accoglie, i suoi alberi che permettono il riparo necessario per apprezzare le lunghe giornate estive trascorse lungo le rive sabbiose e bollenti di quegli argini amici.

A volte i ragazzi si siedono tutti sotto gli alberi e cantano.
Siam tre piccoli porcellin, siamo tre fratellin/mai nessun ci dividerà,/trallalla-lallà./ …” e dedicano la canzone ad un bambino non particolarmente esile.

La colonia dura quattro settimane, da metà luglio a metà agosto. Giovanni arriva a casa ad ora di cena, si lava, mangia un pezzo di formaggio e poi si addormenta perché è stanco morto.

La mattina dopo si alza presto e ricomincia con i preparativi per la giornata. Riempie il suo sacchetto con i sandali, un berretto, la canna da pesca, un piccolo cuscino e qualche caramella di zucchero, che non mangia lui perché non gli piacciono, le regala a qualche bambino, o a qualche bambina.

I dolci che riceve per Santa Lucia li mangio tutti io. Lui se li dimentica e li fa ammuffire nella credenza della cucina. Non vedo perché li dovrei lasciare là: sprecare cibo non è una bella cosa, la mamma ce lo dice sempre.

Così i dolci me li mangio io e nessuno si lamenta; mio fratello se li dimentica e mia madre trova il comportamento coerente con i suoi insegnamenti e non può rinnegare quanto predica sempre, semplicemente perché invece di un pezzo di carne si tratta di rapanelli di zucchero.

Quando Giovanni ha finito di riempire il suo sacchetto, esce di casa e aspetta davanti alla vetrina della nostra merceria, il carretto che passa a prenderlo. A volte esce anche Toti e gli scodinzola intorno, salutando il suo padrone insieme al nuovo giorno che comincia.

Andare a Corte dei Marchesi gli piace tanto perché è libero di fare quello che vuole, organizzare giochi, stare all’aperto e respirare l’aria buona che profuma di vegetazione e fiori di sambuco. Il sambuco è uno dei nostri alberi autoctoni, ce ne sono ovunque e sono molto belli e ricercati. Quella pianta ha dei fiori e delle bacche bellissime.

Sono andata in biblioteca a Vergania a cercare alcune informazioni su questo arbusto e ho trovato che: “Il sambuco è una specie botanica di origine antichissime. Tracce di bacche di Sambuco, sono state addirittura rinvenute in insediamenti del Neolitico. Il suo utilizzo è altrettanto antico. Nella tradizione popolare, a questa pianta venivano attribuiti poteri magici. L’etimologia del nome deriva dalla parola greca sambike, ossia un flauto ricavato dalla corteccia della pianta. Anche oggi se ne apprezzano le sue qualità. Parti della pianta vengono utilizzate per essere trasformate in preparazioni farmaceutiche o per scopi alimentari.”

Anche i nostri bambini fanno i flauti col sambuco, in colonia tutti ne hanno almeno uno e i Tre porcellini vengono un po’ cantati e un po’ zufolati con questi artigianali strumenti musicali. Una allegra brigata davvero.

Alcuni zufoli suonano meglio di altri, alcuni suonatori sono più esperti, ma non è questo lo spirito con il quale si usano. Gli zufoli di sambuco sono per tutti, grandi e piccini, belli e brutti, agili e impacciati e sono gratis.

Se si rompono si possono rifare subito, basta trovare un bel ramo dritto, svuotarlo del midollo e poi fare i buchi sulla corteccia, infilandoli in maniera simmetrica.

I ragazzi grandi della colonia li sanno fare velocemente e li fanno ogni estate per loro e per i più piccoli. Si sente così un’allegra zufolata un po’ stonata che sa di giochi in riva al fiume e di tanti presagi per un futuro felice.

Io non vado in colonia, perché sto sempre in negozio ad aiutare mia madre, ma aspetto sempre il carretto che porta a casa Giovanni. Quando sento il rumore del carretto e gli zufoli dei bambini, mi sento in pace.

La giornata sta finendo, il mio fratellino sta tornando a casa e la mia famiglia si sta ricomponendo per aspettare la sera e la notte, senza preoccupazioni.

La presenza di Giovanni e di mia madre è la miglior musica possibile per le mie orecchie. Anche a me piacciono gli zufoli di sambuco, soprattutto quando mio fratello li suona a casa, guardando il cielo che diventa blu.

N.d.A. I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore.

La lingua corrotta della campagna elettorale

Michele Ronchi Stefanati, sulle colonne di Periscopio (qui), fa una estesa disamina delle ragioni per cui il PD non riscuote consenso soprattutto tra le persone che hanno maggiori problemi sociali. Ciò all’interno di un più generale ragionamento, che utilizza le prossime elezioni come “gancio” per parlare della crisi della rappresentanza politica, soprattutto a sinistra.

Concordando con molte delle sue argomentazioni, mi limito ad invitare alla lettura del suo pezzo. Rispetto al tema (salvo una postilla finale) cerco di offrire un contributo leggero, augurandomi che la “leggerezza” cui mi ispiro possa essere intesa nell’accezione che le dava Italo Calvino nelle sue “Lezioni Americane”. In questo piccolo esperimento ferragostano mi faccio aiutare da alcune tra le peggiori locuzioni della politica, cercando di conferire loro un senso possibile, forse l’unico: quello di mostrare come il deterioramento della prassi politica si manifesti anzitutto nella corruzione del suo lessico.

L’Interesse del Paese
La cosa in sè, contrapposta al fenomeno. In effetti farsi aiutare da Kant permette un’affermazione apodittica, ma non priva di una sua dignità: l’ “interesse del Paese” è qualche cosa di cui ammettiamo che non è oggetto di esperienza possibile, ma non possiamo negare che esista, solo perché abbiamo la presunzione di spacciare la nostra esperienza per l’unico modo possibile di conoscere le cose. E’ vero: nella nostra esperienza non si è mai dato qualcuno che abbia dichiarato di agire “nell’interesse del Paese” e che poi lo abbia fatto per davvero. Eppure tutti lo affermano, ma proprio tutti, e questo vorrà pur dire qualcosa. Anche i credenti non hanno mai visto il loro Dio – tranne qualcuno che ne ha fatto conoscenza mistica – eppure tutti i credenti non mettono in dubbio che il loro Dio esista (a parte il Papa in The Young Pope, ma quello era un film). Io non ho mai visto un UFO, ma questo non può bastarmi ad affermare con tracotanza che gli alieni non esistono.

A volte, peraltro, vengo sfiorato da un atroce sospetto, una malevola folgorazione: e se ci fosse di mezzo un gigantesco equivoco? Non nel senso che quando citano questo interesse, tutti intendano un’altra cosa. Ma alcuni sì, e questi la perseguono, ed è possibile anche averne kantianamente esperienza. L’interesse del Paese potrebbe essere in effetti l’interesse del proprio paese, con la lettera minuscola, quello che ci ha dato i natali, oppure quello che ci ha dato i voti. Dentro questo gruppo potremmo annoverare allora i meno ipocriti? Forse, anche se la franchezza delle intenzioni non è la sola delle qualità da soppesare: atteso che di questo stesso gruppo, di chi ha voluto fare l’interesse del proprio paese, potrebbero far parte un Marcello Dell’Utri, un Antonio Razzi o un Mimmo Lucano.

Convintamente
In questo caso assistiamo ad un duplice degrado del lessico. Il primo è da condividere con altri linguaggi, e riguarda l’abuso degli avverbi di modo. Ogni volta che si usa un avverbio di modo, bisognerebbe essere consapevoli che si potrebbe esprimere lo stesso “modo” senza usare quell’avverbio, e la frase suonerebbe meglio. Quando poi l’avverbio di modo appartiene al novero di quelli che finiscono con “…mente”, entriamo nella categoria della depravazione. Il personaggio comico che la mostra con mirabile efficacia è Cetto La Qualunque – non a caso una caricatura di uomo politico – che infarcisce i suoi discorsi di “senzadubbiamente”, “qualunquemente” e “convintamente”. Qui si innesta il secondo degrado: gli uomini politici reali comprendono che i primi due avverbi non esistono e se ne tengono alla larga, mentre abbracciano con trasporto il terzo. In realtà fanno tutti parte della stessa depravazione, della quale il primo ed il secondo avverbio rappresentano, attraverso l’invenzione di una parola senza senso, l’esasperazione satirica. Ma l’essenza della depravazione risiede nel terzo avverbio: “convintamente” infatti non stravolge il senso di una parola fino a renderla assurda, ma opera un abbruttimento fonematico che finisce per corromperne la semantica, fino a farla debordare nella excusatio non petita, accusatio manifesta.

Proviamo a concentrare l’attenzione sopra una delle frasi tipiche dell’ultimo uomo politico: “appoggiare convintamente questo provvedimento”, “muoversi convintamente nella direzione della transizione…”, “lavorare convintamente alla prospettiva di una grande coalizione”. Sarebbe possibile per un politico dichiarare di appoggiare un provvedimento senza convinzione, muoversi senza convinzione verso una transizione ecologica, lavorare senza convinzione ad una coalizione? No. Allora perchè c’è bisogno di dichiarare che si è proprio convinti di fare una cosa? Dietro questa dichiarazione compare, a caratteri cubitali, il suo contrario. Quando un politico dichiara che fa una cosa convintamente, vuole convincere prima di tutto se stesso. Ma per mentire bene a se stessi, premessa necessaria per mentire bene agli altri, occorre sobrietà nel linguaggio. Verrebbe da dire: chi usa avverbi che finiscono in “mente”, in effetti mente.

Prima vengono le idee, dopo vengono le persone
Questa è la frase di risposta (alternata alla variazione “prima si condivide un progetto, poi vengono le persone”) alla domanda “quanto vi state accoltellando per spartirvi le poltrone?”, formulata in termini meno brutali ma dal senso inequivocabile: quello.

In questo caso l’ipocrisia lessicale tocca vette tanto elevate quanto controproducenti. Nella politica non credo sia malsano, o derubricabile a gossip da rotocalco, a scambio da retrobottega, voler sapere chi si occuperà di quel problema o chi occuperà quel ruolo. Questo non ha nulla a che fare con la personalizzazione dei movimenti politici. Essa dà luogo a fenomeni di culto della personalità che in larga parte sono di culto della propria personalità, visto che l’enfatizzazione di una persona trae origine precisamente da un input di quella stessa persona. Ma queste sono derive ridicole o patetiche, anche se purtroppo a volte efficaci (vedi alla voce Silvio Berlusconi).

Non ha a che fare nemmeno, se non per una coincidenza possibile ma non necessaria di fattori, con una spartizione di cariche alla “manuale Cencelli”, espressione spregiativa che fa riferimento ad una pratica democratica utilizzata con piena legittimità (del resto non si capisce perchè un partito che ha preso il dieci per cento dovrebbe esprimere novanta politici ed uno che ha preso il novanta per cento dovrebbe esprimerne dieci).

Ha a che fare con: sarebbe stato indifferente se al dodicesimo Congresso del PCI fosse stato eletto segretario Enrico Berlinguer, Giorgio Napolitano o Armando Cossutta? Le sorti di quel partito e delle vicende storiche con cui quelle sorti si sono intrecciate sarebbero state le stesse? E’ stato indifferente per l’evoluzione della Russia, comprese le tragiche vicende attuali, che Michail Gorbaciov sia stato avvicendato da Boris Eltsin? Non cambia niente se il Ministro dell’Economia è Pierluigi Bersani o Carlo Calenda? Cambia, eccome se cambia. Non sto dicendo chi è meglio (per me), sto dicendo che ho bisogno di saperlo, e non c’è proprio niente di sporco o di perverso in questo. Le idee camminano sulle gambe delle persone: per quanto io non creda che la sinistra storica in Italia sia morta solo a causa della morte prematura di Berlinguer, sono però sicuro che la sua scomparsa ha lasciato un vuoto che non è mai stato colmato; e non è stato solo un vuoto di inadeguatezza ideologica di fronte alla rivoluzione geopolitica ed economica scoppiata nel 1989, è stato anche un vuoto di elaborazione, passione e capacità di guida personale. Una perdita enorme.

Non è vero che le persone vengono dopo le idee, e non c’è alcun bisogno di difendersi dall'”accusa” di spartirsi le poltrone con una risposta così falsa. Sarei orgoglioso di quel politico che alla domanda fatidica rispondesse “stiamo pensando alla persona giusta per quel ruolo, perchè la persona è più importante dell’idea: anzi, la persona è l’idea”.

Conosco l’obiezione: guarda che ci sono forze che la pensano esattamente così, al punto che il loro programma è (è stato, e forse sarà) Mario Draghi.  Infatti il loro ragionamento è corretto, e del tutto rispettabile. Ma la leadership dimostrata nel passato non può diventare autorizzazione alla gestione autocratica di un potere, che è uno degli effetti collaterali di una idea (la scelta dell’uomo) che diventa idolatria (la deferenza acritica per il “migliore”). Detto questo, se il cosiddetto front runner di una coalizione che dovrebbe chiedere il voto ai ceti popolari è Enrico Letta, temo che non riporterà alle urne folle entusiaste.

Democratico e/o Repubblicano
Dal punto di vista della deriva lessicale, ecco due aggettivi paradigmatici di cui abusa buona parte dell’arco costituzionale. C’era una volta il Partito Comunista, poi il Partito Democratico di Sinistra, poi i Democratici di Sinistra, infine (infine?) il Partito Democratico. Il rosso sempre più stemperato dentro un brodo di margherite, fino a scomparire dalla vista, dall’olfatto e dal gusto. Anche negli Stati Uniti esiste il Democratic Party – una delle fonti ispirative tradizionalmente attribuite a Walter Veltroni –  le cui origini e scelte non hanno nulla a che vedere con una parvenza di socialismo. Ecco infatti dove siamo arrivati: sensibilità liberal sulle libertà civili, assottigliamento dell’analisi sociale fino alla scomparsa della terza dimensione, lo spessore. Flat and pale: piatto e pallido – in questo caso il suono dell’inglese rende bene il tenore del manufatto. Inoltre, democratico cosa qualifica di peculiare? Forse che in lizza c’è un partito che si dichiara assolutista, tirannico, che non riconosce il valore del metodo democratico, basato sul libero consenso? Nemmeno Casa Pound, che anzi si lamenta del fatto di avere sbarramenti democratici (quindi, in fondo, antidemocratici) all’ingresso.

Lo stesso discorso, con accenti ancora più parodistici, vale per “repubblicano”, che designerebbe una forma di Stato. Ho sentito alcuni esponenti politici denominare il tentativo di coalizione al quale stavano lavorando come unione “repubblicana”. Per caso c’è un rischio monarchico in Italia? La sciatteria lessicale di questo modo di esprimersi è tale che si usa “repubblicano” per intendere “costituzionale” o forse “antifascista”.  La sciatteria istituzionale invece denomina come “repubblicana” oppure “costituzionale” un’ alleanza che non ha come ragione fondativa la riproposizione di un Comitato di Liberazione Nazionale 2022  – alias tutti coloro che non stanno coi post fascisti. Anzi, ognuno gareggia da solo, in un’allegra corsa verso il precipizio. Quindi a sciatteria si somma sciatteria.

La grande ammucchiata/accozzaglia vs. coalizione di programma
S
i tratta dello stesso aggregato, visto e descritto rispettivamente da chi non ha potuto farne parte, o da chi è riuscito a ritagliarsi uno spazio al suo interno. Chi non ha potuto farne parte descrive l’agglomerato come una gang-bang di fanatici che, dopo aver descritto i loro avversari come abitanti di Sodoma e Gomorra, scoprono adesso assieme a loro le gioie dell’ omo o bisessualità. Chi è riuscito ad entrarci invece passa le giornate a derubricare le proprie passate fatwa a episodi di buffo folklore caratteriale, esaltando il sistema di “valori comuni” che affratella i Caino e Abele di una volta, foss’anche due settimane orsono. Essendo caratterizzate entrambe le definizioni da un’analoga ipocrisia descrittiva, accadrà ancora che un integralista duro e puro si trasformi in un neo seguace dell’amore libero. Sotto questo profilo, rischia di brillare per linearità chi si richiama alla trinità Dio, Patria e Famiglia: anche se è divorziato, o non si è mai sposato, e ha figli concepiti fuori dal matrimonio, l’incoerenza tra le sue scelte personali e i principi dichiarati è storicamente acclarata, al punto da apparire come una sorta di paradossale coerenza, alla maniera del musulmano osservante che oltrepassa il confine dello Stato islamico per andare a puttane ubriaco di gin.

Populisti vs. persone serie
“Populismo” indica in origine un movimento politico russo dell’inizio xx secolo, antizarista e mirante all’instaurazione di una società socialista rurale. La parola deriva dalla traduzione in inglese di narodnicestvo, vocabolo russo. Cito dal sito dell’Accademia della Crusca: “All’inizio del Novecento i due termini passarono dall’inglese all’italiano, diventando populismo e populista; si diffusero, in particolare, dopo la seconda guerra mondiale, quando furono adoperati per qualificare il tipo di politica attuata da Juan Domingo Peron in Argentina dal 1946 al 1955: da allora in poi le due parole hanno indicato in senso spregiativo l’atteggiamento di chi da una parte esalta in modo velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi, dall’altra cerca di conquistarne il favore con proposte irrealizzabili ma di facile presa: cioè, come si dice, demagogiche. …”.

Alcuni politici affermano di ergersi ad argine contro i due populismi, uno di destra e uno di sinistra. Costoro si accreditano come quelli che fanno proposte serie contro i populisti che fanno promesse irrealizzabili. Non nutro alcun dubbio sul fatto che promettere di alzare la pensione minima a mille euro sia una proposta poco seria, soprattutto se fatta da uno che ha avuto 25 anni di tempo per attuarla e non lo ha mai fatto. Non ho dubbi che la cosiddetta flat tax sia irrealizzabile, oltre che profondamente ingiusta. Però poi sento i “seri” dire che ci vuole un rigassificatore a Piombino, altrimenti quest’inverno restiamo tutti al freddo. Mi informo su quanto tempo, ottimisticamente, occorre per renderlo operativo, e il ministro della Transizione Ecologica dice “dai 12 ai 18 mesi”. L’inverno prossimo inizia fra quattro mesi. Sento i “seri” proporre di abolire Irap e Ires. Ma una finanzia il Servizio Sanitario Nazionale (per finanziare il quale in cambio dovremmo indebitarci con il MES), l’altra comunque garantisce entrate fiscali di rilievo. Sento i “seri” premere per fare un inceneritore a Roma dopo aver firmato un programma di governo che diceva stop agli inceneritori. Scendendo nel triviale, ho visto un “serio” firmare un patto elettorale (scritto da lui) nel quale c’era scritto che l’altro contraente avrebbe firmato patti anche con altri. Quattro giorni dopo, lo stesso “serio” ha ritirato la sua firma lamentandosi che l’altro contraente aveva firmato patti anche con altri. Allora mi domando: quali sono i populisti?  Chi accusa di demagogia gli altri è sicuro di non essere come il bue che dice cornuto all’asino? La patente di serietà si attribuisce su basi fisiognomiche, censuarie, residenziali (chi abita ai Parioli è serio, chi sta al Prenestino è un populista, oltre che uno sfigato)? 

PS
Michele Ronchi Stefanati chiede di esprimersi sulla sua proposta: “togliere il quorum dai referendum (in modo da favorire la partecipazione) e metterlo alle politiche (in modo che risultino non valide e dunque da ripetere quando non rappresentative di almeno il 50% degli aventi diritto).” Sui referendum: già lo strumento mi sembra abusato. Se gli togli il quorum favorisci in teoria i favorevoli al quesito, per cui i contrari potrebbero opporsi solo andando a votare “no”, anziché avere anche l’opzione di stare a casa facendo mancare il quorum stesso.  Potrei essere d’accordo, a patto di introdurre il contrappeso di un maggior numero di firme da raccogliere: 750.000 anziché 500.000. Sull’introdurre un quorum di validità alle politiche: col 50% comunque sarebbero valide (alle ultime politiche ha votato quasi il 73% degli aventi diritto). Introdurre un quorum maggiore  – tipo che deve votare almeno il 60% degli aventi diritto – mi sembra addirittura più hard dell’idea, che a volte accarezzo nei momenti di sconforto, di sottoporre i cittadini a un test preliminare di accesso al voto. In conclusione: apprezzo lo spirito, ma per ottenere lo scopo si dovrebbe introdurre un quorum altissimo. Mentre è facile peggiorare le proposte politiche con cattive leggi elettorali, trovo illusorio cercare di cambiare i partiti per via regolamentare.

I SIMBOLI ELETTORALI SONO 101
ma milioni di italiani restano senza rappresentanza

Mentre i partiti fanno la fila per presentare i loro roboanti loghi di coalizione, molta incertezza circola nel più grande partito non ufficiale d’Italia: quello degli elettori indecisi. Indecisi non per ignoranza o disinteresse, ma resi tali da anni di democrazia difficoltosa, di cui questa campagna elettorale lampo è il pinnacolo. I partiti ormai rodati, anche grazie all’esenzione dall’obbligo di raccogliere le firme, hanno la strada spianata per riprendere subito il loro posto in Parlamento. I cittadini, a cui non è concesso un vero spazio di partecipazione, sono solo chiamati a scegliere senza poter aggiungere nulla.

Già mesi prima della crisi di governo, erano moltissime/i le cittadine e i cittadini italiani a sentirsi ignorati dalla politica. E non si tratta solo dei giovani, sempre più esclusi dal dibattito politico, il cui grido per chiedere azioni concrete contro la crisi climatica rimane tuttora inascoltato. La crisi energetica scatenata dalla guerra in Ucraina ha infatti messo milioni di persone in condizione di non poter pagare le bollette o il carburante per spostarsi, accentuando una condizione di povertà che ormai colpisce quasi 6 milioni di italiani.

Nessuno dei principali partiti italiani ha avuto la volontà di proporre misure strutturali in grado di aiutare questa larga fetta di popolazione a sollevarsi. Così come non sono stati proposti provvedimenti seri per affrontare il problema della siccità e aiutare le persone più colpite, come gli agricoltori.

Queste persone sono solo alcune tra le tante a essere già orfane di una rappresentanza in questa campagna elettorale: persone che ritengono che nessuno dei principali partiti abbia risposte soddisfacenti ai problemi del Paese.

“In questa situazione di grande spaesamento collettivo, Fridays For Future, la comunità scientifica e molti movimenti della società civile con le loro proposte rappresentano proprio ciò che manca alla politica: un appiglio alla realtà, ai veri problemi delle persone, una visione di un mondo diverso da quello che per decenni la politica ha ritenuto l’unico possibile”, afferma Alice Quattrocchi, attivista di Fridays for Future Italia.

Gli interventi necessari a contrastare la crisi climatica – che sono da inserire in un più ampio processo trasformativo della nostra economia – forniscono risposte proprio a quei problemi sociali ed economici che la politica non riesce – o non vuole – affrontare. Rendere gratuiti e potenziare i trasporti pubblici, promuovere le energie rinnovabili e l’autoproduzione, efficientare le case popolari, consolidare la rete idrica del Paese, tassare i profitti delle aziende energetiche inquinanti, ridurre l’orario di lavoro mantenendo il salario invariato: queste sono solo alcune delle proposte che potrebbero avere un immediato impatto positivo e permanente sulla qualità della vita e sul lavoro (restituendo soldi ai cittadini, creando posti di lavoro, riducendo la disoccupazione e le disuguaglianze) e che al tempo stesso sono indispensabili per una giusta transizione ecologica.

Filippo Sotgiu, portavoce di Fridays for Future Italia, dichiara: Rivendichiamo il diritto di avere spazi di discussione per confrontarci pubblicamente con i partiti in campagna elettorale, per poter rappresentare gli interessi di chi oggi non viene ascoltato e obbligare i candidati a spiegare perché continuino ad ignorare misure vantaggiose, perpetuando così il collasso ecologico e l’ingiustizia sociale. Vogliamo costruire un’alternativa alla desolazione dello scenario politico italiano: siamo già in grado di immaginare un’Italia più giusta e sostenibile, anche grazie a decenni di studi e proposte, ma adesso pretendiamo di vederla.”

Fridays for Future Italia

Fridays For Future
#FridaysForFuture è un movimento nato nell’agosto 2018 in seguito alla protesta della quindicenne Greta Thunberg contro la mancanza di azioni per la crisi climatica. Greta Thunberg restò seduta davanti al parlamento svedese in segno di protesta, ogni giorno scolastico per tre settimane.

Cover: Manifestazione di Fridays For Future (Foto di Thomas Schmid)

Per certi versi /
La pineta di Volano

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca
 [Qui]

La pineta di Volano

La pineta
dopo la pioggia
Sospirata
Dopo la pioggia
La pineta
È diventata
madre
Con dolcezza
Di parto
Rilascia
I suoi figli
Essenze
Profumi
Scorre un fiume di luce
Sulle chiome
Che vibrano
Come archi
In un
Salto di gioia
fermento
E resina
Resina
Che s’incolla
Al vento

La Fiamma

LA FIAMMA

La fiamma
È ancora lì
Quella fiamma
Che fu il cuore
Del duce
È ancora li
E resta il cuore
Di chi la sfoggia
Risoluta
A governare
L’Italia
Nata
Da una guerra
Terribile  e perduta
Dal peso Alleato
E dai fazzoletti
Al collo
Mizzi di sangue
Dei partigiani
Dopo ottant’anni
Siamo ancora lì
La fiamma arde
La democrazia
Forse troppo verde
La tiene accesa
E brucia

Le storie siamo noi

Al centro del nostro relazionarci c’è sempre una “storia”, perché le storie sono la materia narrativa che costituisce senso e legame. Ciò che gli altri raccontano di sé e noi di noi stessi a loro, diventa terreno comune di unione, di condivisione del dipanarsi del tempo.
E la forza di ogni storia non sta solo nella qualità e quantità di elementi narrativi che ci doniamo reciprocamente, ma anche nella capacità e volontà di recepirla e trasmetterla per poi depositarla rispettosamente nel magazzino della nostra mente e della nostra emotività.

Le storie di vita che ascoltiamo e raccontiamo ruotano attorno a parole pronunciate con dolcezza, tristezza, veemenza, passionalità, dolore, speranza, entusiasmo, rancore, pienezza, sarcasmo, esasperazione, lapidarietà, rassegnazione,  riconoscenza, e ogni volta è una pagina nuova che ci dà modo di leggere o scrivere, interpretare e condividere le nostre esistenze.

Ascoltare e narrare storie ci appartiene strettamente fin dall’ infanzia, quando il racconto diventa il primo approccio con il mondo esterno per avvicinare ed elaborare la realtà comprendendone i risvolti. La storia di ciascuno di noi è quanto di più intimo, profondo, potente ed esclusivo ci appartenga: è la nostra pelle e la nostra essenza da cui non potremo mai separarci.
Ascoltare le storie di chi incontriamo, delle quali diventiamo testimoni e depositari, restituisce la dimensione umana giusta e preziosa che forse in quest’epoca andiamo perdendo per fretta, indifferenza, paura, egoismo, autoreferenzialità.
Fermarsi ad ascoltare con atteggiamento disponibile ed empatico arricchisce chi ascolta partecipando al racconto e dà sollievo e gratificazione al narratore, in uno scambio reciproco.

Ed ecco che uno studente in crisi esistenziale espone le difficoltà nell’individuare percorsi progettuali, riferiti ad un futuro nebuloso e incerto; una nonna profondamente provata, racconta della giovanissima nipotina venuta a mancare per “un brutto male che non perdona”, ricordando momenti toccati. Un imprenditore lamenta i problemi dell’azienda, raccontando la storia della sua attività e sottolineando i grandi cambiamenti epocali; una casalinga non più giovane sventola il conto della spesa e sconsolata rievoca la propria storia fatta di sacrifici e abnegazione a totale servizio degli altri, fino all’annullamento di sé e dei propri sogni.

Una cinquantenne che deve affrontare un divorzio complicato fa un bilancio della propria vita ed esplora nuove modalità su cui ricostituire la propria esistenza; un pensionato, la cui unica compagnia è il cane, commuove e si commuove al ricordo di chi non c’è più, delle opportunità non colte, ma anche di una vita movimentata e libera. Un giovane uomo in pieno burn out racconta di aver puntato tutto sulla professione, sottopagata e poco riconosciuta, finendo  stritolato da ritmi insostenibili e profondo sconforto. Un aspirante in politica attende freneticamente il suo momento in autunno, confidando su un successo elettorale, dopo una vita di attesa, frustrazioni e false partenze.
Una signora racconta gli effetti della pandemia nella propria quotidianità, arrivando a non riuscire più a intessere relazioni con gli altri perché  in preda all’ansia; una giovane di Kiev racconta della guerra e di un’Ucraina prebellica che non esiste più, di un domani ancora impossibile da disegnare.

Storie, esperienze di vita, racconti che fanno comprendere come l’avventura umana sia quanto di più complesso, affascinante e degno di attenzione si possa immaginare.
Come il racconto di un’anziana che si dichiara pronta ad andarsene serenamente, pienamente contenta della propria esistenza nonostante la povertà in tempi difficili, un padre-padrone, un marito-padrone, i figli emigrati nel resto del mondo, “ma ho vissuto tutto quello che c’è da vivere e non sono mai scappata davanti a niente. Ho pianto ma non ho mai dimenticato di sorridere”.

Il Governo dei Migliori e i Migliori tra i docenti.
La grottesca lotteria inventata dal ministro Bianchi.

 

Un recente intervento apparso su queste colonne di Mauro Presini [Vedi qui]  ha cercato di fornire elementi di orientamento nel frangente politico che stiamo vivendo, a partire dal grande tema filosofico, antropologico ed economico delle diseguaglianze, e della lotta contro di esse come tensione fisiologica, almeno in teoria, delle democrazie evolute.

Il campo di battaglia di tale lotta trova nella Costituzione italiana una chiara definizione perimetrale in quei diritti fondamentali – come il lavoro, la salute, l’istruzione – l’accesso il più possibile paritetico ai quali, a prescindere da sesso, etnia, condizione sociale, costituisce il più sicuro indice di democrazia sostanziale.

Più tutto questo è vero, più risalta l’umiltà dei membri dell’Esecutivo da poco dimissionario, i quali – in quelle che dovrebbero essere le sfere d’azione eminenti di un governo democratico – hanno dissimulato la loro natura di “migliori” ammantandola di una inazione prodigiosa.

Non ci sono, però, riusciti fino in fondo: proprio in extremis, la loro ‘miglioraggine‘ è venuta fuori con il parto, nell’orizzonte dell’istruzione, della figura del cosiddetto ‘docente esperto’

Il Governo dei Migliori, insomma, ha generato i Migliori tra i docenti.

Non riuscendo a credere a quel che leggevo in proposito sui resoconti di stampa, sono andato a spulciare la norma nel dettaglio.

Ebbene, confermo che essa produrrà i suoi effetti, a meno di qualche comprensibile ritardo, nel 2032.

Ci separano da questo fausto momento almeno due legislature, un numero imprecisato di governi e quattro Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro. Ennio Flaiano, forse, ci rassicurerebbe dicendo che il provvedimento è dunque grave, ma non serio.

Da molte parti si è peraltro già obiettato che l’adozione di una misura che produrrà i suoi effetti a partire dal 2032 per decreto legge – ovvero un tipo di provvedimento che, per sua natura giuridica, si giustificherebbe solo in casi di necessità e di urgenza – costituisce una forzatura senza precedenti.

Quisquilie, per il Governo dei Migliori.

Altri hanno rilevato che definire per decreto che solo 32.000 docenti possano essere qualificati come “esperti” (non esperti di qualcosa in particolare, ma esperti come docenti) costituisce un’implicita stigmatizzazione di tutti gli altri, con tutte le conseguenze di mortificazione e demotivazione che la cosa avrebbe in particolare verso quella percentuale – non trascurabile – di insegnanti che in questi anni ha consentito al carrozzone della scuola, ripetutamente danneggiato e depauperato dalle politiche educative, di andare in qualche modo avanti.

Per i Migliori al governo, pinzillacchere. Sanno fare anche di meglio.

Infatti, lo hanno già fatto.

In primo luogo, per quanto riguarda la destinazione di un assegno “ad personam” legato non a differenziazioni di ruolo o di funzioni, ma a determinati profili di qualità riconosciuti, con l’obbligo però che tali profili non siano posseduti da più di 32000 docenti contemporaneamente.

Voi non credete, infatti, che chi pur possedendo i requisiti qualitativi richiesti venisse escluso dal riconoscimento giuridico ed economico di essi ricorrerebbe in tutte le sedi opportune contro un provvedimento chiaramente discriminatorio? Io credo di sì. E credo anche che vincerebbe molto facilmente, a meno che anche nel frattempo non venga ‘migliorata’ anche la Magistratura.

Parliamo, poi, della durata del percorso formativo richiesto: quasi dieci anni (ovviamente dopo la laurea, le varie scuole di specializzazione, ecc.), immagino più tempo di quanto serva per divenire cardiochirurgo infantile ad Harvard.

Di fatto, una simile durata esclude tutti quelli sufficientemente vicini alla pensione da non poter arrivare a godere degli eventuali benefici, o di poterne godere per un periodo limitato, tale da non giustificare l’investimento di tempo e risorse richiesto, nonché i rischi dell’impresa.

A mio modo di vedere, sono tendenzialmente esclusi dalla ‘docenza esperta’ gli insegnanti ultracinquantenni. Peccato che essi costituiscano la maggioranza del corpo docente, come ci ricorda anche Il Sole 24 ore, in questi giorni così solerte a spezzare lance in favore del ministro Bianchi.

Così, il provvedimento promuove di fatto un insensato testacoda generazionale, nel quale – in assenza di qualunque bilancio delle competenze realmente in gioco negli uni e negli altri – i meno esperti riceveranno lo status di esperti, negato invece ai più esperti.

Forse è prevalso nei Migliori un afflato evangelico? “Gli ultimi saranno i primi”. Certo, bisognerà che ne siano provvisti, magari per decreto, anche i poveri vecchi ‘inesperti, i quali dovranno porgere l’altra guancia e non lasciare che l’ingiustizia e la mortificazione subite scatenino in loro quei risentimenti e quelle cadute di motivazione sviluppate di norma dagli esseri umani in siffatte circostanze. E pensate che cosa potrebbe succedere nei prossimi dieci anni se costoro (più della metà del corpo docente in servizio) cedessero a questi umanissimi particolarismi.

Ma anche dal punto di vista dei privilegiati infracinquantenni, la situazione non è affatto chiara. Infatti, il congegno sembra essere un po’ quello della lotteria: attrarre i molti nel percorso di formazione – o in un meccanismo di  competizione divisiva – con il miraggio di un premio riservato a pochi. Ma più è alto il numero dei concorrenti, più aleatoria è la possibilità di vincita, più concreto è il rischio di un investimento decennale di tempo, energie e risorse senza alcun ritorno.

Ritorno che, poi, potrebbe mancare anche per i vincitori della lotteria, a causa semplicemente della lunghezza del percorso previsto, del fatto che gli interventi legislativi sulla scuola negli ultimi decenni sono molto frequenti, che le volontà politiche cambiano e le relazioni sindacali bene o male ancora influiscono.

Oppure, a causa del meccanismo di attribuzione dei premi, che – pare di capire – si basa sul numero chiuso a livello delle singole istituzioni scolastiche, col vincolo – per i premiati – di rimanere nella scuola presso la quale siano stati riconosciuti ‘esperti’ per almeno tre anni.
Ma prima? Tutti i partecipanti alla lotteria che sentissero di avere poche opportunità nell’istituzione scolastica di appartenenza, in base ai criteri che via via saranno esplicitati, cercheranno di spostarsi in altre nelle quali le prospettive appaiano migliori e la concorrenza meno agguerrita. Questo aumenterà, inevitabilmente, l’alea della competizione, col rischio di vedersi scavalcati magari all’ultimo giro. Per tacere, per carità di patria, del fatto che si tratterà di un gigantesco incentivo alla mobilità, ovvero all’ulteriore – forse finale – destabilizzazione delle istituzioni scolastiche.

Ci sarebbe ancora da dire, ma quello che si è fin qui evidenziato basta e avanza a qualificare, con ricchezza di argomentazioni, la misura in questione con due soli aggettivi: assurda e grottesca.

Sì, sono senz’altro i migliori. Ma si son dimenticati di esplicitare in cosa.

PENSARE COME UN ALBERO
Vita (d)alla finestra

 

“Planté dans la terre par ses racines, planté dans les astres par ses branchages, il (l’arbre) est le chemin de l’échange entre les étoiles et nous.”
Antoine De Saint-Exupéry

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie, in bilico, in attesa e nel timore che un impertinente colpo di vento malandrino quanto irriverente ci faccia sobbalzare, vacillare, tremare, ripiegare su noi stessi e, infine, cadere.

L’incertezza, quella sensazione che non piace alla mente umana, desiderosa di un sogno, di un piano anche a breve termine, di un traguardo, di un obiettivo, di un punto di arrivo. Possibilmente bello. In bilico, oggi più che mai. Oggi che il mondo è scosso da emergenze, pandemie, guerre, catastrofi climatiche. Oggi che fa caldo, più di ieri, forse meno di domani, oggi che la terra ha sete.

Toscana, Cortona, Basilica di Santa Margherita, foto Marco Migliozzi

E invece siamo qui, in balia di quell’alito di vento che ci potrebbe far cadere per sempre ma che, cadendo, darebbe, comunque, vita e nutrimento alla terra. Siamo qui, affacciati alla finestra, un giorno di vacanze qualunque. Stanno arrivando pure le Frecce Tricolori. Come le bandiere alle finestre di qualche mese fa, ogni immagine diventa simbolica, più di quanto non lo sarebbe in tempi normali, ogni accenno patriottico un motivo di commozione o lacrima. Tempi duri. Durissimi. Va tutto a fuoco.

Abbiamo assistito, inermi, alla partenza di una generazione di anziani che ci ha garantito libertà e benessere, al loro andarsene silenziosi senza la possibilità di un’ultima carezza. Se ne è andata via la storia, ma dobbiamo ricordare che quella storia siamo noi, noi che siamo assistendo a una parte di essa, così diversa, così folle e disarmante perché ci pone di fronte a un nemico invisibile e che non parla, che non insulta o sputa sentenze, ma che ci obbligherà ad avere coraggio. Tante le parole che abbiamo sentito e letto sui giornali che abbiamo timidamente imparato a riprendere in mano, una carta stampata che ha ritrovato uno spazio inedito nelle giornate di chi ha alternato le ore fra lavoro a distanza, cucina d’altri tempi, chiacchierate con vecchi amici ritrovati e qualche rebus o parola crociata.

San Candido fiorita, foto Simonetta Sandri

Libertà, resilienza, adattamento, cambiamento, paura, coraggio, responsabilità, solidarietà, amicizia, resistenza, pazienza. Mindfulness.

Dalla finestra abbiamo visto uomini mascherati, cani con una libertà a noi negata, sentito i suoni della natura ai quali non eravamo più abituati, cinguettii e fruscii che, nel silenzio, riportavano una briciola di serenità e pace.

Mosca, Gorky Park, foto Simonetta Sandri

Le città sono state silenziose e quiete, i quartieri deserti, nessuna calca e assembramento, ricerca dell’inutile, la distanza fisica è a lungo andata braccetto con quella della mente.

Il vuoto ha preso prepotentemente il suo spazio. Se non fosse stato per la tragedia che ci circondava, la sofferenza e le perdite che molti di noi hanno subito, si poteva dire che era tutto bellissimo. Il paradosso resta nel fatto che questo virus che ci toglie il respiro ci ha portato un’aria respirabile nelle città, ci ha riavvicinato al sussurro del dolce respiro della natura. Perché il respiro è tutto, è vita, e il male ci ha voluto dare la lezione.

Lecce, Quattro palme nel territorio urbano, foto Marco Migliozzi

Tutto ha continuato e continua, tutto ci mostra che può tranquillamente continuare senza di noi, noi ospiti di una terra meravigliosa, uomini richiamati all’ordine, fermati dalla Natura perché incapaci di farlo da soli. Forse dovevamo in qualche modo essere fermati, congelati per mesi solo con noi stessi e i nostri cari, per capire quanto loro fossero importanti, ancora di più se anch’essi congelati lontani. Fermati, immobilizzati come in un’istantanea in bianco e nero, rallentati per capire l’importanza di essere noi stessi, di quanto correre e accumulare non sia realmente un valore, di come si possa vivere con meno, con cibi genuini e preparati con amore, parlando con amici con i quali non si aveva mai il tempo di chiacchierare, riscoprire i legami dell’infanzia, quelli veri e che restano per sempre, capire chi veramente c’è. Monito e conseguenze pesanti. A salvarci resta la consapevolezza di essere vivi, la capacità di capire che la cultura sarà il nostro viatico per la rinascita. Sperando che di tutto questo si faccia tesoro. Anche se, a tratti, un po’ ne dubito.

Mosca, Gorky Park, foto Simonetta Sandri

Il mondo visto dalla finestra era ed è meraviglioso. Un battito di ali argentino. Abbiamo avuto il tempo di osservarlo, non perdiamo questa ricchezza. Quel periodo di pausa forzata ci ha riavvicinato alla sua bellezza e alla sua essenza, alle sue ragioni continuamente inascoltate, sbeffeggiate e schiaffeggiate. Nella difficoltà di concentrazione dovuta a un forte e tumultuoso sentimento di smarrimento, abbiamo tentato piano piano, giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto, di riprendere in mano i libri di un tempo, di sfogliare nuovamente pagine di vita che ci attendevano in attesa di essere ricomprese, rivalutate, ripensate, riviste, rimodulate, rivissute. Il rinviato ora è qui. Il qui e ora che si impone.

Rileggiamo con altro sentire. Spes contra spem.

Questa parentesi silenziosa e di isolamento ha mostrato a ciascuno la propria vera natura, il confronto quotidiano è stato spesso solo con sé stessi, un esercizio che ha aiutato a capire le cose a cui dire finalmente di no. Almeno spero. Non perdiamolo.

Personalmente ho ritrovato la direzione (o almeno parte), forse la sto solo riorientando perché molte delle conclusioni cui sono giunta si sono semplicemente consolidate; chi, come me, crede nell’essenziale, nel minimalismo e nella disciplina è sicuramente avvantaggiato, anche se pure a noi il tempo di vacillare si è fatto sentire.

Dobbiamo essere albero, mi dico e mi ridico, un saggio insegnamento atavico che vale sempre ma che oggi sembra sempre più fondamentale. Nessun ripensamento o dubbio. Poche certezze. Ancorati saldi alla Terra. Quella meraviglia che grida di ascoltarla.

Botswana, Central Kalahari Game Reserve, foto Marco Migliozzi

A parte quanto rimane in noi di essi, gli alberi sempre conoscono la nostra anima e, come ricordava Victor Hugo, sono simbolo di per sé di presenza, affiancano la nostra vita spirituale. Stanno, svettano, guardano verso il cielo a esso tendendo i rami a volte stanchi e secchi ma imperturbabili, con speranza, con devozione, con rispetto al bianco delle nuvole. Stanno. Semplicemente stanno. La presenza è un atto che impegna, una reale presa di coscienza del mondo, che ci lega di fatto al presente. È l’abolizione di ogni distanza tra sé stessi e il mondo, il che non fa sorprendere, dunque, che l’albero accompagni tanto spesso il nostro cammino spirituale. Libero.

Nulla è più vicino al mondo di un albero, che ne sposa i contorni fino a (con)fondersi con esso e a trasformarlo.

Australia, foto Marco Migliozzi

Lui, sensibile all’astro solare e alle profondità terrestri, dal movimento posato e sobrio. Bello, essenziale, elegante, educato, onesto, integro, sobrio, lento, perché capace di prendersi il proprio tempo. Libero, ancora una volta libero.

Scrigno di ricordi e memorie, paziente, sensibile alle stagioni, alle fluttuazioni quotidiane della luce, si lascia guidare da una temporalità cosmica di cui incarna una clessidra vivente. L’albero ci fornisce l’ora intima del mondo, pulsante, vivente, scalpitante, lucente, curioso, stabilmente meraviglioso, meravigliosamente grande e bello. Infinito.

Equilibrato e deciso, capace di trovare risorse nella scarsità, alleato sincero e solidale, perché con le sue radici intercomunicanti dona nutrimento alla vegetazione che gli chiede aiuto, con la sua ombra protegge quelle piantine che hanno bisogno di difendersi dalla luce. Ricco, ma solo della sua linfa e della sua forza, noncurante del superfluo, diverso nella coabitazione con le altre specie, decentrato perché senza organi interni, interamente proiettato verso l’esterno. Lui per noi, lui per loro. Un tutt’uno. Sensibile al cosmo.

Ramificato, con la sua immensa capacità di abbracciare il mondo, profondendogli energia. L’albero si fonde con il proprio ambiente, cresce in esso e con esso, l’uno il prolungamento dell’altro, difficili da dissociare.

Pointe Noire, Congo, foto di Simonetta Sandri

Gli alberi hanno talmente afferrato il mondo che non ne sono più separabili. Le loro radici varcano confini di giardini, città e Paesi, non vi è barriera che tenga.

L’albero svetta, nei campi, nelle pianure, nelle valli, nei boschi, sulle colline e sui dirupi, lungo le rive dei fiumi e nelle oasi dei deserti. Anche piccolo ma vivo e vivace.

Si adatta e cresce, sopravvive contemplativo, guardando solo verso il cielo azzurro e, a volte, con qualche nube di panna. Rivolto all’infinito e verso di esso, in un orizzonte la cui linea accarezza le nostre teste affaticate, i capelli incanutiti. Si piega ma non si spezza. O almeno ci prova. In armonia sostanziale con l’universo, come un accordo sinfonico che concorre al disegno di uno spartito quasi metafisico dal suono tintinnante dolce e sottile. Come un acquerello delicato che infonde pace e serenità all’occhio più disorientato e stanco, il tratto di un pennello su una foresta verde di pensieri che rinascono dalle ceneri.

Pointe Noire, Congo, atelier, foto di Simonetta Sandri

L’albero trattiene il nostro sguardo perduto, ci calma e culla nelle tempeste più violente. Energia pura.

Fluido, sospeso al suo divenire, si rinnova ogni anno, muore e rinasce all’arrivo di ogni stagione. Cambia pelle.

Spostato dall’uomo in ambienti a lui non congeniti, fa la conoscenza dei nuovi vicini, quelli non scelti da lui ma con i quali saprà trovare nuove occasioni di condivisione, ricomponendo una sua comunità.

Connesso, perché come diceva il biologo Alan Rayner, un albero non è mai solo. Simbiotico.

Dobbiamo essere come gli alberi. E alla fine, come scrive Concita De Gregorio, dopo una quarantena che è un vero setaccio, tutto andrà come può, ma soprattutto andrà come vogliamo che vada.

 

Alcune riflessioni sono maturate dalla lettura di Jacques Tassin, Penser comme un arbre, Odile Jacob, 2018, 142 p., che vi consiglio. Hanno cercato di sotterrarmi senza rendersi conto che ero un seme.

Articolo originale pubblicato su Meer, riscritto per periscopio

Foto di copertina; San Candido, di Simonetta Sandri
Fotografie nel testo:  Marco Migliozzi e Simonetta Sandri

Una brutta campagna elettorale:
due tristezze e due proposte

 

Stiamo entrando in campagna elettorale, anzi, veramente ci siamo entrati almeno un anno fa. La tristezza di Beppe Sini, storico militante pacifista e nonviolento, è la nostra stessa tristezza. Dopo il tragicomico balletto per mettere insieme il patchwork delle liste, dopo la lotta al coltello per accaparrarsi  un collegio “sicuro”, ci aspettano 40 giorni di mirabolanti  promesse e schiaffi in faccia a destra e a manca. Tutti contro tutti, soprattutto in zona Centro e nella periferia di Sinistra. Tanto si sa, questa volta la Destra (quella vera) vincerà a mani basse. Si parlerà molto di rigassificatori. Non si dirà una parola sulla Ius soli e sui diritti civili degli stranieri in Italia. Berlusconi ha tirato fuori dal cassetto la flat tax. Giorgia Meloni si rivolge a noi, agli italiani, e ci chiama “patrioti”. La pace, tutti insieme, l’hanno sotterrata sotto il tappeto. Insomma, saranno elezioni molto brutte, e tutte da perdere. Un motivo in più per non starsene in silenzio.
La redazione di periscopio

di Beppe Sini
Responsabile del Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo

Il 25 settembre si voterà per il rinnovo del Parlamento italiano. Ed ancora una volta saranno esclusi dal voto milioni di persone che in Italia vivono, lavorano, crescono i loro figli, fanno un gran bene al nostro paese.
Milioni di persone che continuano a subire nel nostro paese un regime di apartheid, una violenza razzista istituzionale che è strettamente connessa ed effettualmente complice della violenza razzista e schiavista e assassina dei poteri criminali e del regime dei predatori e della corruzione.

Cosa si attende ancora a riconoscere il diritto di voto a tutte le persone che in Italia vivono? Cosa si attende ancora a far cessare il regime della segregazione razzista nel nostro paese? Lo chiediamo dal secolo scorso: una persona, un voto.

Il 25 settembre si voterà per il rinnovo del Parlamento italiano. Ed anche i sassi sanno che la prima e più urgente iniziativa politica e legislativa è opporsi alla guerra, avviare il disarmo e la smilitarizzazione, passare dalla folle e sanguinaria “difesa” armata alla necessaria ed urgente ed unica ragionevole difesa popolare nonviolenta, iniziare una politica internazionale di pace con mezzi di pace che convochi l’umanità intera all’universale solidarietà per far cessare tutte le uccisioni e cooperare per la salvezza dell’intero mondo vivente.

Una politica internazionalista, una politica dell’umanità, una politica della salvezza comune di tutte e tutti. Il programma di Guenther Anders e di Ernesto Balducci [vedi su questo giornale un ricordo nel centenario della nascita], il programma di Rosa Luxemburg e di Simone Weil, il programma di Virginia Woolf e di Hannah Arendt, il programma di Primo Levi e di Aldo Capitini, il programma di Mohandas Gandhi e di Luce Fabbri.

Cosa si attende ancora a capire che il tempo è poco e la strage è in corso? Cosa si attende ancora a capire che è in pericolo l’esistenza dell’umanità intera? Solo la pace salva le vite, e salvare le vite è il primo dovere. Solo la nonviolenza costruisce la pace, libera tutte le oppresse e tutti gli oppressi, appronta gli strumenti e l’orizzonte di senso necessari alla salvezza comune di quest’unica umana famiglia e di quest’unico mondo vivente.

In questa grottesca, triste e trista campagna elettorale queste due indispensabili parole di verità, questi due prioritari impegni programmatici vorremmo sentire enunciati e sottoscritti da chi si candida a fare le leggi con l’impegno di contrastare il fascismo che torna, che in larga misura è già qui.

1. una persona, un voto
2. pace, disarmo, smilitarizzazione subito

Questo articolo  è uscito con altro titolo su pressenza del 10 agosto 2022.
In copertina: foto tratta da www.apiceuropa.com

NON SERVE “IL DOCENTE ESPERTO”.
Fare scuola è come fare il ragù: competenza e passione

 

Ho letto recentemente che all’articolo 37 del decreto cosiddetto Aiuti bis si prevede che fra 10 anni l’1% dei docenti italiani, dopo aver compiuto 3 percorsi formativi di 3 anni ciascuno, diventeranno esperti e guadagneranno 5.650 euro in più degli altri.

Potrà diventare esperto solo 1 insegnante su circa 100; in pratica, uno per istituto scolastico.

Il decreto non chiarisce il ruolo di questo docente ma precisa che “la qualifica di docente esperto non comporta nuove o diverse funzioni oltre a quelle dell’insegnamento”.

A questo punto viene da chiedersi: a cosa serviranno questi pochi docenti e, soprattutto, a chi?
A quale idea di scuola saranno funzionali se non al modello competitivo? E in una simile gerarchia, che prevede alla sommità i dirigenti scolastici ed un gradino più in basso i “docenti esperti”, quelli che stanno alla base saranno da considerarsi docenti “inesperti”? Si prevede forse di risparmiare non rinnovando i contratti di lavoro degli insegnanti preferendo pagarne bene solo alcuni? Un simile provvedimento è stato infilato in un decreto chiamato “aiuti” perché viene considerato un aiuto alla scuola? Perché questo decreto non è stato discusso in maniera democratica?

Tale scelta preoccupante trova il gradimento solo di chi, già in passato (Letizia Moratti, Valentina Aprea e Matteo Renzi), aveva provato ad inserire la competizione in un contesto scolastico che, per sua natura costituzionale, dovrebbe essere di cooperazione .

Chi si occupa di insegnamento e di educazione fa un mestiere potente perché può influenzare la crescita degli studenti e delle studentesse in modo importante o irrilevante e in maniera positiva o negativa. Per questo  fare scuola è un mestiere difficile e delicato, in cui oltre alle conoscenze occorre la capacità di saperle tramettere, ma soprattutto c’è bisogno di passione per il proprio lavoro e dell’abilità nel saper appassionare le alunne e gli alunni coinvolgendoli fino a farli diventare una classe cooperativa.

Non tutti noi insegnanti siamo empatici allo stesso modo ed è normale che sia così: alcuni sono più coinvolgenti e altri più equilibrati, alcuni sono più tecnici e altri più creativi, alcuni sono più pesanti ed altri più leggeri.
Allo stesso modo in cui la classe non esiste ma si costruisce a partire da un insieme di ragazzi e ragazze, anche la scuola si fa mettendo insieme docenti, collaboratori, personale amministrativo e dirigenti diversi fra loro.
È il saper creare mettendo insieme persone, passione, competenze, perché sono le diversità che fanno la differenza, nella vita come in classe e a scuola.

Personalmente, credo che il saper fare scuola sia un po’ come saper preparare il ragù.

Gli ingredienti sono vari, diversi, ognuno con le sue caratteristiche. Se li prendiamo da soli possono fare la loro bella o brutta figura grazie al loro sapore e al loro odore, ma se li mescoliamo insieme con buona competenza, con la progressione dovuta, dosando le opportuna quantità, per il tempo opportuno, con il giusto calore, non saranno più solo se stessi ma si trasformeranno a tal punto da diventare parte di qualcosa di originale e di specifico che non sarà più la somma dei singoli ma un insieme unico e prezioso.

Per fare un buon ragù non bisogna essere chef ma bisogna sapere come si fa, bisogna essere appassionati, serve conoscere gli ingredienti ed i condimenti, sapere quello che possono e non possono dare da soli e insieme agli altri in modo da riuscire ad ottenere il meglio da loro. Solo allora, grazie al sapere e al saper fare ma anche al saper essere di chi cucina, si potranno anche fare sperimentazioni.

La metafora del ragù per parlare del fare scuola mi serve per affermare che, nelle nostre classi, non abbiamo bisogno di pochissimi docenti esperti (i master chef) ma di tantissimi insegnanti appassionati, preparati e volenterosi (i cuochi).

A scuola, abbiamo bisogno di tanti bravi artigiani e non di pochi artisti eccezionali.

A scuola, abbiamo bisogno di ripensare seriamente ad una formazione iniziale che prepari i futuri insegnanti ad operare in una comunità in cui il sapersi relazionare è importante tanto quanto il saper trasmettere conoscenze.

A scuola, abbiamo bisogno che tutti gli insegnanti siano esperti nell’arte dell’ascoltare, dell’accogliere, dell’incuriosire, dell’appassionare, del raccontare, dello spiegare, del far capire, dell’inventare.

A scuola, abbiamo bisogno di insegnanti che siano operai della conoscenza, allevatori di speranze e coltivatori di futuro. Solo così avremo una ‘buona scuola’ e non una ‘cattiva scuola’ abbandonata a se stessa.

A scuola, abbiamo bisogno di sentire qualche politico al governo a cui interessa la scuola perché crede in un Paese migliore.

A scuola, abbiamo bisogno di ministri dell’istruzione “esperti” di scuola.

Parole a capo /
Giovanni Drogo: Haiku di vita quotidiana

 

Gli Haiku sono brevi componimenti poetici della tradizione giapponese. Normalmente non hanno titolo. Sono composti da 17 more (che possiamo tradurre in unità sillabiche), secondo lo schema 5-7-5. I versi di un haiku sono strutturati in modo che, normalmente tra il primo ed i due versi finali, contengano un kireji (letteralmente “parola che taglia”) ovvero una cesura, un rovesciamento, che può essere indicato da un trattino, una virgola o un punto. Questo kireji ha la funzione di segnalare a chi legge un ribaltamento concettuale, un rovesciamento di significato all’interno dell’haiku. Proprio in questo rovesciamento sta la riuscita o meno del componimento, che è stato anche definito come un antisillogismo. Mentre nel sillogismo le conclusioni sono logicamente determinate dalle “premesse” , nell’haiku le conclusioni appaiono illogiche, apparentemente prive di connessione.
I miei sono componimenti che si rifanno concettualmente agli haiku, non attenendosi, almeno in generale, alle sue regole di metrica. Perché scrivere haiku? Perché la concisione credo, è il miglior registro del nostro tempo.

1.

Guardo ma non vedo –
Dai finestrini di un treno
non trovo confini

2.

L’estate si allarga
bruciano i colori.
Si smarriscono le ombre

3.

In alto tra i tetti
incespica lo sguardo.
Una rondine vola

4.

Le cicale sognano
gli alberi pensano.
Si riempie il vuoto

5.

Gli stessi gesti
la profondità dei giorni.
Il tempo naufraga

6.

Indugio su quei volti
Giovani oggi vecchi domani –
Immagino storie

7.

Le parole arrancano.
Il bianco foglio cede
dimentica cosa è stato

8.

Sabbia e mare
Il suono ancestrale.
Sono nato nudo

Giovanni Drogo
Ho un nome letterario. Non è difficile, ma il perché ve lo lascio scoprire da soli. Non mi piace essere fotografato e nemmeno parlare di me. Quindi darò solo qualche indicazione, giusto perché non vorrei che si pensasse che non esisto. Ho fatto l’insegnante e poco importa cosa insegnavo, anche perché non so se qualcuno ha imparato qualcosa dal sottoscritto.  Nel tempo libero scrivevo – e scrivo ancora, ora che sono in pensione – ma mi sono anche messo a lavorare con le mani: giardinaggio e piccoli lavori di falegnameria. Sono da sempre un lettore onnivoro e insaziabile. Ho scoperto da qualche mese periscopio e la bella rubrica poetica curata da Gigi Guerrini. Avevo alcune cose nel cassetto. Ho deciso di inviarle e se mi leggerete, vuol dire che sono state giudicate degne di essere pubblicate.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui] 

Addio Sandy!

Sandy, cara Sandy. Ci hai lasciato soli, hai lottato come una leonessa per trent’anni con un male che ti ha fatto ben capire la differenza sostanziale fra remissione e guarigione ma alla fine ci hai detto addio. Non sarà un addio, però, credici, perché sei stata e sarai sempre nei nostri cuori. Quella gentile biondina che si trasforma è stata uno stimolo per molte di noi. Una perla di rara bellezza e delicatezza.

Il tuo amico John Travolta ti ha salutato così: “Mia cara Olivia hai fatto così tanto per rendere le nostre vite migliori. Il tuo impatto è stato incredibile. Ti ho amato tanto. Ci rivedremo ancora lungo il cammino e saremo di nuovo uniti, di nuovo insieme. Sono sempre stato tuo dal primo momento che ti ho vista e lo sarò sempre. Il tuo Danny, il tuo John”.

E tu per noi sarai sempre la dolce Sandy. Indimenticabile.

Gli sguardi magici e complici di Danny Zuko e Sandy Ollson del cult di Randal Kleiser che ha fatto la storia del musical, Grease (1978, trasposizione cinematografica di un grande successo di Broadway), non si perderanno mai.

Noi ricordiamo Olivia Newton-John per quelle scene che ci hanno ispirato infinita dolcezza e fatto sognare ad occhi aperti ma è stata anche, e soprattutto, una cantante di successo.

L’attrice inglese, trasferitasi presto in Australia, è, infatti, diventata un’icona negli anni ’80, non soltanto grazie a Grease ma anche per la sua carriera musicale, cominciata, nel 1966, con il singolo Till You Say Be Mine. Nel 1970 era entrata nella band Tomorrow, partecipando all’omonimo musical. Torna però presto alla carriera solista e nel 1974 si posiziona al quarto posto all’Eurovision Song Contest con il brano Long Live Love. Escono poi le canzoni If You Love Me (Let Me Know) e I Honestly Love You, per cui vince due premi Grammy. La consacrazione arriva nel 1981: esce l’album Physical, che contiene l’omonima canzone di enorme successo, e le viene data una stella nella Hollywood Walk of Fame.

Ha lavorato con molti artisti, da Elton John a Michael Jackson, fino a Lucio Dalla.

Nel 1983, nuovamente in coppia con John Travolta, Newton-John recita in Due come noi. Il film non regge il confronto con Grease, ma la colonna sonora diventa disco di platino. Farà altri film (Una mamma per Natale, 1990, Un party per Nick 1996, Sordid Lives, 2001, Tre uomini e una pecora, 2011), ma Grease resta quello che ha lasciato il segno.

L’artista ha chiesto al mondo di continuare a supportare la Olivia Newton-John Foundation Fund, organizzazione impegnata nella ricerca di fondi per trovare le cure contro il cancro, dal 2012.

Fotografie dal web

Diario di un agosto popolare 8
STELLE CADENTI

 

STELLE CADENTI
10 agosto

Nella notte di San Lorenzo, di solito (anche se adesso pare che sia slittato il calendario) cadono un po’ di stelle e si esprimono, senza dirli a voce alta, i desideri.

Stanotte, sulla via Tiburtina, altezza Casal Bruciato, c’è qualche briciola di quelle stelle cadenti al bar Manhattan, vicino al Bingo.

Seduto su una seggiola, da solo, c’è un maciste tatuato che potrebbe essere il buttafuori della sala giochi.

Ha un codino come Travolta in Pulp fiction e un fisico strapalestrato che lascia immaginare un periodo in cui, di diventare una stella, ci ha creduto. Stasera ha un’aria malinconica e solitaria, anche se qualcuno passa a salutarlo e si vede che l’ammira, toccandogli le pagnotte tatuate dei bicipiti.

Lui lo guarda con un’aria un po’ malinconica, forse vuole tenere le distanze, non si sa mai.

Perché Manhattan è aperto tutta la notte e ha frequentazioni di tutti i tipi.

Ora a un tavolino, una coppia di lesbiche mature e mascoline si sta consolando per qualcosa andata storta. In un angolo, una procace quarantenne vestita da ghepardo guarda chi entra dalla porta con sguardo da predatrice.

Arrivano altri culturisti, ragazze con tatuaggi strampalati.

Niente di particolarmente hard, ma c’è un profumo di America del Midwest.

Manuel, uno dei miei due figli di altri padri, che mi ha introdotto al Manhattan, dice che ci viene spesso nelle sue notti bianche, perché prova attrazione per i luoghi distopici.

E certo questo bar, già dalle luminarie che sognano una lontanissima Las Vegas, ha qualcosa di incongruo con quello che uno immagina della via Tiburtina.

A partire dalcocomeraro che, pochi metri più in là, offre uno scorcio di una romanità vintage, coi tavolacci di legno macchiato di umido dove stasera, un signore solitario mangia la sua fetta d’anguria seduto accanto al suo cane, che si è piazzato sulla sedia come una moglie e sembra che se la mangi assieme a lui.

Una Roma notturna piena di giovani in bande, indaffarati coi loro smartphone, ma quieta, un po’ scettica: Roma non appare violenta. Non è nemmeno sovraeccitata, frizzante o schizzata.

E’ una città che non esprime più erotismo, come si fosse ammosciata. La vita non è più così Dolce, se mai lo è stata.

E anche se non sono certo in grado di stilare un rapporto Kinsley sulle abitudini sessuali dei romani, m’immagino che a far l’amore siano in pochi e tanti invece a compiere casti rituali coniugali o dedicarsi a sfoghi più o meno deludenti.

Ma in fondo che ne sappiamo? Sul lato intimo dell’umanità, abbiamo solo finzioni.

A Roma d’estate, la notte è il momento migliore per uscire in strada. Si cammina senza troppa paura, anche per i viali della periferia, un tempo luoghi deputati solo alla prostituzione.

Al semaforo c’è sempre Ahmed, da almeno sei anni. L’ho visto invecchiare, imbiancare i capelli e anche perderli. All’inizio lo trovavo invadente, con quella spazzola sempre in agguato.

Ora lo vedo e lo chiamo. “Eh non c’è lavoro capo, niente lavoro” mi dice, alle due di notte, mentre insapona il cristallo cercando di sbrigarsi prima che venga il verde.

Io gli do la moneta e lui, dopo avermi ringraziato, fa dei segni al cielo, come se parlasse con Allah. Non so come farà mai a tornare al suo paese.

Forse, mentre il semaforo è verde, se avrà la fortuna di vedere una stella cadere, può ricordarsi di esprimere il suo desiderio. Ma dentro di sé, non ad alta voce.

(continua il 16 agosto)

Per leggere tutti insieme i capitoli del Diario di Daniele Cini:

Diario di un agosto popolare


Oppure leggili uno alla volta:

ANDARE PER STRADA E ASCOLTARE LA VITA

STRANI STRANIERI

CORPI DIMENTICATI

NELLA CITTA’ DESERTA

COCCIA DI MORTO

FINCHÉ C’É LA SALUTE

LA BOLLA SVEDESE

STELLE CADENTI

LA METRO, IL BUS E LO SCOOTER

FREQUENZE DISTORTE

CANNE AL VENTO

L’OTTIMISMO DURA POCO

LA TORBELLA DI ADAMO