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JOHN FANTE E I COLONNELLI DI ENRICO LETTA

Il grande scrittore italoamericano, inizia il suo capolavoro “Chiedi alla polvere”, con un aneddoto apparentemente banale. A letto nella sua camera di albergo, vede un biglietto che la padrona gli aveva infilato sotto la porta. O pagavo o me ne andavo. Un grosso problema, dice, che risolsi spegnendo la luce. Insomma, chissenefrega!
E’ quanto è accaduto a Enrico Letta con i suoi colonnelli.
Intanto la sconfitta elettorale de PD non è solo di Letta, ma di tutto un gruppo dirigente di pavidi poltronari, senza dignità e spina dorsale. Un dato di verità che si tende più ad occultare, che a farne una presa di coscienza. La battaglia era difficile. Si sapeva. E proprio per questo, richiedeva un supplemento di coraggio, di entusiasmo, di impegno. E anche di rischio. Tutto questo il pegno da pagare.
Invece questi colonnelli, tutti, come Fante, hanno spento la luce. Sono rimasti senza pagare nessun tipo di pegno. Si sono acconciati nel listino bloccato per garantirsi la rielezione. Nessuno, dico nessuno, si è presentato nei collegi uninominali a cercare voti per il partito. Nessuno ha fatto campagna elettorale. Hanno lasciato solo il povero  front runner.
La politica o è un servizio eticamente ispirato, o diventa solo una sinecura del proprio egoismo. Così è stato.
Oggi si sente un coro ipocrita, che sta lì a cianciare sulla necessità di una ‘riflessione’, con l’unico argomento delle alleanze, ancora di là da venire. Una riflessione di una povertà imbarazzante. Insomma, mentre il problema è grande, le chiacchiere, come si dice, stanno a zero.
direttore d'orchestra
Quando invece occorrerebbe partire da un solo dato autocritico. Se un partito di… sinistra sta dieci anni al governo e, in questo periodo, le disuguaglianze e la povertà aumentano in modo sconcertante, il suo fallimento è conclamato.
Una povertà economica, sociale, ambientale. Una povertà educativa. Una povertà del lavoro. Una povertà salariale e culturale. Tutti fattori che compongono il caleidoscopio della nostra società, e che ci vedono in fondo a tutte le classifiche più significative.
E dieci anni al governo a che sono serviti? A chi sono serviti oltre a chi c’è rimasto così comodamente?
Nel più grande bacino elettorale, la Campania, che governa da molti lustri, il Pd non ha conquistato un solo, uno solo, dei collegi uninominali. E non è andata meglio nelle altre regioni meridionali, dove la povertà è più grande e cronica.
Non è questa una punizione che parla? Anzi che grida? Non è questo l’urlo di un popolo che esprime la propria rabbia?

La vecchia classe dirigente, tutta non solo il segretario, ma tutta la schiera dei colonnelli deve prenderne atto e andare a casa. Cioè pagare e non spegnere la luce.

Ha ragione Fabrizio Barca che invoca scelte e decisioni radicali. Se no, non se ne esce, dice. E chi non ha la dignità morale di farlo da sé, ci deve essere qualcuno che lo fa per lui.
E invece abbiamo colonnelli che non solo si sono garantiti per sé, ma anche per le proprie mogli… Largo alle mogli se sono brave, ma fuori i mariti, per stile e dignità.
Non si può non ripartire, insomma, che da una vera nuova classe dirigente di giovani, ragazze e ragazzi, sensibili al problema delle povertà. Capace di proporre idee e ricette nuove. Radicali. Coraggiose. Ricette che recuperino il senso di una vera idealità di sinistra. Senza paure. Senza le ambiguità di un moderatismo deprimente e irritante, che scambia le paure dell’utopia, con un’idea banale del buon senso.
Ammoniva il cardinale Martini a non confondere la moderazione necessaria all’agire in un mondo complesso e dialettico, come è quello democratico, con il moderatismo. Su quasi tutto invece il Pd è apparso frenato. Un po’ meno sui diritti civili. Ma drammaticamente assente su quelli sociali, in un periodo di grande crisi di persone e famiglie
Crisi di risorse basiche per mettere assieme i bilanci familiari. Ma anche e, soprattutto, crisi di speranze e di futuro.
Una crisi questa che penalizza particolarmente i giovani nei loro progetti di vita.
I vecchi colonnelli, con i vecchi riti, i vecchi vizi, le vecchie pastette fatte solo di odiosi tatticismi, volti solo a massimizzare le loro convenienze, devono sparire.
Lo chiedo come elettore non più disposto a dar più credito a chi, al potere, non ha fatto nulla di significativo, e oggi viene a pontificare su quello che si deve fare. È moralmente delegittimato e Intollerabile.
So di essere solo una voce. Ma credo di esprimere un sentimento di molti che si sentono di sinistra, e non si sentono rappresentati. Con il rischio ulteriore di lasciare questa rappresentanza ad un partito farlocco come i 5 Stelle di Conte che continua, l’antico imbroglio che abbiamo pagato a duro prezzo. Sveglia ragazzi!!

Le storie di Costanza /
Ottobre 1959 – Carolina Viscioli

 

Il muro

Vicino alla casa di mia madre a Cremantello c’era casa Viscioli. Una casa molto belle ed elegante, colorata di rosso, squadrata, su tre piani, con un grande cortile di terra, una stalla e l’orto.

La separazione tra Casa Viscioli e la casa di mia madre era sancita da un vecchio muro di pietra che spartiva i due cortili e gli orti. Tale muro aveva un’apertura che permetteva agli abitanti delle due case di comunicare senza uscire dalle proprietà e passare sulla strada.

Quel pertugio aveva permesso, nell’inverno del 1955, di far transitare cibo caldo da casa Viscioli a casa Ghepardi, perché la nonna Adelina si era ammalata di pleurite e non poté alzarsi dal letto per due mesi.

Il muro di mattoni rossi era abitato d’estate da ragni, gechi e lucertole e d’inverno da muschio spesso che andava benissimo per il presepio ed era magnifico da accarezzare, trasmetteva alle mani una bella sensazione di morbido, fresco e vivo, tutt’assieme. Attaccate ai mattoni c’erano anche le felci e alcuni ciuffi d’erba particolarmente resistenti all’umidità estiva e al rigore di quegli inverni padani.

Mi ricordo anch’io quel muro. Peccato che ero troppo piccola per coglierne il valore e soprattutto per memorizzare ogni dettaglio di quella vecchia costruzione. Non sapevo che a un certo punto sarebbe stato sostituito da un muro squadrato, perpendicolare al terreno, dritto e di cemento armato. Tutt’altra storia iniziata molti anni dopo.

Nel 1959 molte vicende erano già state raccontate e nascoste da quelle mura. Tante persone avevano pianto e riso guardandosi nel buco che metteva in comunicazione le due case. Tanti drammi si erano consumati mentre quei mattoni invecchiavano e perdevano un po’ di polvere rossa ogni giorno, ogni mese, ogni anno.

L’erosione del tempo aveva attribuito a quel muro la sua stravagante forma, con alcune parti un po’ più scavate e bitorzolute e con alcuni fori che permettevano visioni surreali e parziali della vita tumultuosa che si svolgeva aldilà e aldiquà di quel confine.

I confini sanciscono sempre delle separazioni e ciò che trova unità oltre la frattura è come se fosse sempre un po’ zoppo, fragile e insicuro. I confini spezzano legami che altrimenti potrebbero essere parentali e amicali per farli diventare cordiali e rispettosi, nel migliore dei casi.

Il clan, la famiglia e la tribù ergono muri per riconoscere i vincoli interni e attribuire loro essenzialità e, allo stesso tempo, per conferire a ciò che resta fuori, un maggiore carattere di precarietà e una decisa connotazione di superfluità.

Carolina

Carolina Viscioli era la più vecchia delle tre sorelle che abitavano aldilà del muro. Anche la più “bruttarella”, purtroppo. Aveva gli occhi sporgenti e le gambe storte.

Per quella strana forma dei suoi arti inferiori, camminava sempre un po’ traballante e con le gambe un po’ aperte. Sembrava che ogni giorno inaugurasse una specie di marcia personale per la riconquista di casa Viscioli quando, di fatto, non c’era nulla da conquistare se non i sorrisi della gente e l’indifferenza delle sue sorelle.

Questo suo aspetto poco invitante non era migliorato dai suoi modi un po’ rozzi. Diceva un sacco di parolacce e quando litigava con una delle sue sorelle le aggrediva verbalmente con insulti di vario genere. Amava particolarmente la parola “scema”.

Sei scema! Sei una scema! Scema, di una scema, di una scema, di una scema”. Questo era il suo improperio preferito quando le budella della vacca non erano ben pulite e bisognava ripulirle.

Le Viscioli facevano le macellaie. Avevano ereditato il negozio e la macelleria dal papà e avevano continuato la professione con un discreto successo, sufficiente per garantire loro una vita senza preoccupazioni economiche.

“Brutta scema, brutta scema, brutta scema” andava ripetendo Carolina, e intanto il tempo passava tra una vacca da macellare, dei pezzi di carne da vendere e qualche osso di mucca o ala di pollo da far bollire, per preparare enormi pentoloni di brodo che servivano per i pranzi della sua famiglia e per quelli di molte altre famiglie bisognose, che loro aiutavano.

Le Viscioli erano persone generose e, soprattutto di quei tempi, le persone che ricorrevano a loro per necessità impellenti, quali trovare un pranzo per i figli, tante.

L’orologio

Carolina da giovane aveva avuto un amante. Un gerarca fascista le aveva promesso la felicità appena prima di dover partire per Roma e non farsi mai più vedere. E pensare che la povera Carolina gli aveva regalato un bell’orologio d’oro per il viaggio, convinta che l’avrebbe riabbracciato presto.

Era andata in una oreficeria di Casalrossano, con il cavallo e il biroccio di famiglia, e si era fatta consigliare dal gioielliere per sceglierne uno davvero bello, adatto al ruolo pubblico del suo innamorato. Uno orologio d’oro giallo, con il quadrante rotondo e il cinturino a maglia. Tutto luccicante.

Regalato l’orologio e sparito il nuovo proprietario fu un tutt’uno e la povera donna si trovò senza futuro, felice e alleggerita dei suoi risparmi in un batter d’ali. “Scemo, di uno scemo, di uno scemo, crepa sulla forca.” E così la storia era stata dimenticata e non si sapeva se ce ne fossero mai state altre, sicuramente non erano mai stati acquistati altri orologi da regalare.

D’estate andava sempre in giro con delle vestaglie a fiorellini e le ciabatte. Aveva sempre la pelle un po’ arrossata e screpolata e usava la nivea per non peggiorare la situazione.

I capelli erano rossicci e tagliati corti. Sulla sua testa non ci stavano i riccioli e nemmeno le piacevano i capelli raccolti in eleganti chignon sulla nuca, come la maggioranza delle signorine benestanti portava allora. Li portava semplicemente così com’erano, tagliati corti e diritti sulla testa.

Il dito

Le mancava anche la falange di un dito, era stata troncata di netto da uno di quegli enormi e affilatissimi coltelli che lei usava tutti i giorni. La povera falange era finita sottoterra nell’orto. Non esistevano contenitori per lo smaltimento dei rifiuti speciali e non esistevano reparti chirurgici in grado di riattaccare dita, come invece succede adesso.

A volte la nonna Adelina raccontava la storia di quel dito mozzato della povera Carolina e diceva sempre che era stata una brutta giornata, che si erano spaventati tutti e che purtroppo non si era potuto fare niente, se non darle delle gocce di laudano, l’unico antidolorifico disponibile.

Poi era arrivato il medico condotto e le aveva dato alcuni punti di sutura, le aveva fasciato la parte di dito rimasto e l’aveva mestamente salutata dicendo che sarebbe tornato il giorno dopo per vedere come stava.

Le aveva anche detto di non preoccuparsi se aveva l’impressione che il suo dito ci fosse ancora tutto. Le terminazioni nervose non si rassegnano subito alla nuova situazione e simulano la parte mancate, creando così una dolorosa illusione. La povera macellaia patì così tanto male, che per una settimana non disse più nemmeno una parolaccia, con molta preoccupazione di tutti.

Le scoperte della medicina, sugli antidolorifici e le cure palliative, sono una testimonianza tangibile del progresso dell’umanità, una delle cose di cui andare davvero fieri. Gli eccessi di dolore non temprano e non migliorano nessuno, semplicemente lo fanno star male e gli rovinano la vita, l’autostima e le aspettative per il futuro.

A Carolina erano stati destinati i lavori più pesanti della macelleria: segare ossa, lavare la trippa e d’inverno, quando faceva un freddo cane, andare avanti e indietro dalla cella frigorifera per prendere i pezzi di vacca che servivano in negozio. Si caricava degli interi quarti di mucca congelata sulle spalle e li portava nel retrobottega dove venivano ridotti, con seghe e coltelli, a porzioni adatte alle famiglie Cremantellesi.

Non ho mai saputo quale fosse il motivo di quella spartizione dei lavori ma di certo alla povera Carolina non era capitato il meglio e, se a volte se la prendeva col mondo, qualche ragione l’aveva. E’ spesso così, le persone più incattivite con la vita sono quelle che la vita non ha trattato bene.

A Carolina piaceva ascoltare la radio, in modo particolare la politica e poi ingaggiava con le sue sorelle e anche con altre persone disposte ad ascoltarla, delle discussioni su quei temi di res publica a lei particolarmente cari.

Una volta, presa dalla rabbia per un discorso politico che non le era affatto piaciuto, aveva disintegrata la radio a terra e, quando le fu chiesto che cosa fosse stato a farla arrabbiare, la risposta era stata: – Non capiscono niente quei cretini – e nulla più.

2022 – Cremantello

Ancora adesso, nel 2022, la casa è là con tutti i suoi muri e le sue tante finestre, ma le tre sorelle Viscioli sono morte da molto tempo.

Tutti i miei parenti si ricordano molto bene quelle tre signorine, in modo particolare le mie cugine Ines e Bella che, essendo vissute sempre a Cremantello, le hanno frequentate fino agli ultimi momenti della loro lunga vita.

Suor Guenda è andata al funerale di Carolina e, per nulla turbata dalle parolacce che si ricordava di averle sentito dire, ha pregato in silenzio per la sua anima.

Del resto, un po’ di ragione Carolina l’aveva. Non tutto a questo mondo è bello e qualche cretino, sulla strada della vita, lo si trova sempre: “Scemo, di uno scemo, di uno scemo!”.

N.d.A. I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore.

L’AMORE È UNA COSA MERAVIGLIOSA

Guardi, non senza una punta d’invidia, le foto di spiagge e tramonti. Ti emozioni per i buoni sentimenti. Poi però, già che ci sei, ti fai qualche domanda:
1) Non ti sembra la stessa isola, con lo stesso isolotto sullo sfondo?
2) Magda Emme è in vacanza con il comunicatore del sindaco (non ci sarebbe in fondo niente di male)?
3) Se Magda invece è a Ferrara che rinasce, chi ha scritto sulla sabbia ‘Grazie Alan’ (anche qui niente di male, la gratitudine nobilita l’animo)?
4) Se invece Magda e il comunicatore fossero la stessa persona, sulla stessa isola?
5) Si tratta di una provocazione, come le foto sui giornali di gossip, per far parlare gli invidiosi?
6) Ma alla fine, cinico come sei, cosa te ne frega delle storie romantiche?
PS Poiché la mia pagina non è un profilo istituzionale, non si accettano insulti né espressioni che vadano oltre la gentilezza del cuore. Saranno rimosse per non ferire l’anima dei piccini
Rispetto agli stupidi insulti di cui è stato oggetto, non mi indigno più di tanto, ma mi schiero senz’altro a favore del pensiero libero di Stefano Lolli e della sua barba sbarazzina.
(Francesco Monini)
Se vuoi seguire la pagina Fb di Stefano Lolli, la trovi [Qui]

ACCORDI
Il sogno di mio padre

This Guy’s in Love with You (Burt Bacharach, 1968)

Burt Bacharach mi accompagna spesso nelle mie faccende domestiche, non c’è musica migliore per rilassarsi e abbandonarsi ai ricordi. Come questo di qualche tempo fa…

Stavo sognando quando sentii bussare alla porta. Andai ad aprire, era mio padre!
Era ringiovanito, ben vestito, con una camicia bianca e una giacca di lino beige. E mi sorrideva.
Io lo guardai senza riuscire a dire una parola, quanto tempo era passato…
Poi pensai: “E’ vero, è soltanto un sogno!”
Lo feci entrare, lui mi guardava divertito e insieme andammo in cucina.

Così continuai a fare quello che stavo sognando – in effetti è difficile ricordarsi i sogni – comunque sì: stavo pelando delle pesche mature, le avrei poi affettate per farci la macedonia.
Adoro le pesche. Avete presente quando una pesca è matura al punto che riesci a pelarla con le dita?

Mio padre stava in piedi di fianco a me e osservava l’operazione, poi disse: “Devono essere dolci e pure buone, quasi quasi ne mangerei una.”
“Tieni papà!” gli allungai quella che avevo appena finito di pelare.

La prese, la guardò con ammirazione, e con un sorriso affettuoso sentenziò: “La pesca, quando è matura, è il frutto più buono di tutti!”, poi iniziò a mangiarla di gusto, come se non mangiasse da anni. Ventidue anni, per la precisione, da quando se n’era andato.
Ben tornato papà… Quanto avrei voluto dormire ancora!

Per leggere tutti gli articoli, i racconti e le vignette di Carlo Tassi su questo quotidiano clicca sul suo nome. Per visitare il sito di Carlo Tassi clicca [Qui]

LA VIGNETTA
La bourla

illustrazione di Carlo Tassi
(tutti i diritti riservati)

Per chi volesse comprendere meglio il senso di questa vignetta: Interrogazione Pfizer al Parlamento Europeo del 10 ottobre 2022
Il video è stato censurato dai fact checkers di Open che nelle loro motivazioni dichiarano che la non efficacia del vaccino sulla trasmissibilità del virus era stata rivelata da Pfizer già nel 2020, e che quindi il video è fuorviante. E allora perché nel frattempo le istituzioni pubbliche (vi ricordate cosa disse Draghi a proposito del greenpass? Ecco il video: Draghi parla del green pass) ci hanno sempre fatto credere il contrario?

Vuoi vedere tutte le altre vignette di Cart? Clicca [Qui]

Robin Bank: un docufilm deludente.
Storia frammentaria di un oscuro Don Chisciotte

 

All’ultimo festival di Internazionale a Ferrara ho assistito, in una gremita Sala Estense, alla proiezione del docufilm Robin Bank: la storia di Enric Duran, attivista catalano divenuto famoso per aver truffato molte banche chiedendo prestiti mai restituiti, ed utilizzati per finanziare progetti di cooperazione, decrescita ed economia alternativa.

Da ‘addetto ai lavori’ (non del cinema né della decrescita, ma della banca) sono andato con la curiosità di capire come Duran avesse potuto, da semplice cittadino privo di reddito fisso, e non coperto da alcuna consorteria politica, farsi prestare mezzo milione di euro da decine di banche spagnole.

La curiosità era accresciuta dal fatto che, cercando su Internet, la strategia usata veniva esposta a spizzichi e bocconi, con pochi dettagli folkloristici ma non tecnici, senza spiegazioni che potessero far realmente capire come ci era potuto riuscire.

Dopo aver visto Robin Bank, sono uscito dalla Sala Estense sapendone come prima.
Provate voi a farvi dare 500.000 euro dalle banche senza poter esporre un reddito vero. Provate a falsificare documenti con un ciclostile, a inventarvi un’azienda che non esiste, a mettere due timbri fasulli su delle buste paga, a fare tutto questo nell’intervallo (due mesi) tra l’ottenimento di un fido o prestito e la segnalazione di quell’impegno sulla Centrale dei Rischi, in modo che le ultime banche non vedano ciò che vi hanno dato le prime. Provateci, poi mi dite con quanti soldi siete venuti via.

Questo rappresenta il film: poche notizie, frammentarie, che non permettono di costruire un filo logico.
Come abbia potuto farsi dare tanti soldi rimane un mistero. Potrà accontentarsi chi gode solo per il semplice fatto che Duran sia riuscito a fregare i banchieri. Come, non si sa. Non pretendevamo un tutorial, ma nemmeno di rimanere con il dubbio che la truffa non sia solo ai danni delle banche, ma anche alla credulità del pubblico.

Se il documentario avesse narrato le gesta di un ladro gentiluomo, che senza spargere sangue rapinava banche per finanziare forme di economia sociale, avrei apprezzato la logica e la linearità. Qui invece non si capisce un mucchio di roba. Troppi sono i buchi nella storia della vita di Duran e delle sue tecniche di ‘sopravvivenza’ e lotta. Capisco il fatto che sia clandestino e viva nascosto, ma se decidi di farci un film sopra, non puoi non incontrarlo almeno una volta guardandolo in faccia. Invece va proprio così: la vita e le azioni di Enric Duran sono ricostruite esclusivamente attraverso frammenti di chiacchierate con la madre, il suo avvocato, un suo amico anarchico, una ex fidanzata, e spezzoni di una trasmissione in cui comparve, ancora a piede libero, per spiegare – sempre in modo inspiegabile – come aveva fatto. La volta che si dovrebbero incontrare faccia a faccia, tra l’altro, lui e la regista, dopo un lungo e fin troppo rispettoso “corteggiamento” da parte di lei, lui le dà buca. Altro disappunto personale:  non si capisce nemmeno con precisione chi abbia finanziato Duran, e per fare cosa.

Non basta a migliorare le cose l’illustrazione di sfondo, che parte dal G8 di Genova per passare attraverso la crisi finanziaria del 2008. La narrazione che lega i puntini di questi fatti assomiglia a degli schizzi su una tela: non c’è un quadro di insieme. Il tutto si riduce ad una rapida e frettolosa retrospettiva sulla perdente ribellione anticapitalistica degli ultimi vent’anni, che finisce per risultare nebulosa.

Per carità, non pretendevo di vedere sullo schermo un saggio di controinformazione economica. Tuttavia, siccome non è un’ opera di fiction ma un docufilm, se devi riempire i vuoti nella vicenda del protagonista e le lacune nella ricostruzione del contesto con delle animazioni digitali, l’impressione è che nella parte documentaristica manchi tanta roba, e che Anna Giralt Gris, la regista, sia rimasta anch’essa spiazzata dall’inafferrabilità di colui che avrebbe dovuto essere il protagonista della storia.

L’ultimo Enric Duran messosi (finalmente) a disposizione della pellicola, in faticoso collegamento da remoto a bordo di una barca, è un uomo appesantito, solo, dallo sguardo strano, che non chiarisce di cosa campa, e si limita a dire che sta organizzando qualcosa ma senza precisare cosa, con chi e perchè.

Non sono potuto rimanere dopo la proiezione. Era fisicamente presente la regista, e stavolta è una mia lacuna non averla ascoltata. Forse avrà gettato una luce diversa sopra una pellicola grigia, che mi ha lasciato un senso di incompiutezza. Ho letto che ha paragonato l’attivista più a un Don Chisciotte che a un Robin Hood. Eppure, a Enric Duran la vita sembra aver tolto un pezzo d’anima.  “Un cavaliere errante senza amore è come un albero spoglio di fronde e privo di frutti, è come un corpo senz’anima”, dice Don Quixote di sè stesso.

amazon labor union

Non si ferma la lotta dei lavoratori Amazon.
In Usa e in Europa il sindacalismo alza la testa contro l’imperatore Bezos

Pubblicato da: Redazione di Diogene 

simbolo del Amazon Labour Union
Il simbolo del Amazon Labour Union

La politica antisindacale di Amazon inizia a subire duri colpi, negli Usa e nel resto del mondo. I lavoratori di Amazon del deposito di Albany, capitale dello Stato di New York, votano i loro rappresentanti sindacali in un’elezione fondamentale nello scontro tra l’azienda e l’Amazon Labour Union indipendente.
Sarà un test che se vedrà la vittoria dei veri sindacalisti darà un enorme impulso all’organizzazione sindacale statunitense su Amazon, ma anche a quella di altri Paesi dove l’azienda regna incontrastata sulla pelle dei lavoratori. con basse paghe e turni massacranti.

L’affermazione precedente del sindacato a Staten Island, lo scorso aprile, si è rivelata una spina nel fianco del gigante dell’e-commerce. La società non è riuscita a ribaltare il voto e ha dovuto affrontare sempre più pressioni provenienti da Washington, tra cui un’indagine sul lavoro da parte dell’Osha (Occupational Safety and Health Administration), il controllo da parte della Ftc (Federal Trade Commission) per i consumatori, e un disegno di legge fiscale rafforzato messo in atto dall’Inflation Reduction Act del presidente Biden.

Amazon ha recentemente provato a riabilitare la sua immagine di datore di lavoro aguzzino annunciando l’intenzione di spendere 1 miliardo di dollari per aumentare la paga per i suoi magazzinieri e gli addetti alle consegne. Ma resta il simbolo nel mondo del dilagare di un’organizzazione padronale arrogante e senza regole a cui rispondere. Le ripercussioni del malcontento, talvolta confinante con lo sdegno per la chiusura alle problematiche operaie di Amazon, non si fermano agli Stati Uniti.

Manifestazione dei lavoratori di Amazon -Albany (USA)

Ieri il sindacato tedesco Verdi ha invitato i lavoratori di nove centri di distribuzione Amazon in tutta la Germania a scioperare questa settimana, durante il secondo grande evento di vendita dell’azienda quest’anno, per cercare di far pressione sugli accordi collettivi di contrattazione.

Nel Regno Unito i sindacati hanno adottato come slogan le parole di un lavoratore Amazon a un giornalista del Guardian: “Voglio solo vivere”. Nel magazzino di Coventry per la prima volta i lavoratori hanno votato per uno sciopero, dopo che gli era stato detto che il loro aumento annuale di stipendio sarebbe stato di 50 pence l’ora, mezza sterlina. “Non voglio la barca di Bezos”, ha spiegato l’operaio, “Ma nemmeno dovrei lavorare 60 ore a settimana solo per pagare le bollette”.

In Francia nel maggio scorso, la maggior parte dei sindacati ha respinto la proposta di stipendio dell’azienda ritenendola insufficiente rispetto all’inflazione.

In Italia il magazzino Amazon di Castel San Giovanni (Piacenza), famoso per lo storico sciopero nel giorno del Black Friday di qualche anno fa, è l’unico in cui è stata eletta una rappresentanza sindacale interna, un anno fa. Però sono stati esclusi dalla trattativa nazionale e hanno diffidato Amazon dal condurre trattative sindacali che possano avere ricadute sullo stabilimento di Castel San Giovanni escludendo le organizzazioni dei lavoratori e i loro delegati. Minacciano uno sciopero.

Il termitaio del magazzino Amazon di Castel San Giovanni

In settembre nell’Unione Europea, dove le autorità di regolamentazione stanno indagando sui problemi di concorrenza scorretta di Amazon legati al suo utilizzo di dati di terze parti, una dozzina di associazioni della società civile e gruppi per i diritti digitali, organizzazioni non governative e sindacati, hanno esortato la Commissione Europea a rifiutare la proposta di Amazon per bloccare l’indagine dell’Antitrust continentale.

Amazon resta forte naturalmente, ma sta crescendo in tutto il mondo l’avversione per la sua condotta odiosa verso i lavoratori e scorretta versa le altre società di e-commerce.

Jeff Bezos, come raccontò nel 2013 un’inchiesta del Washington Post appena venduto al proprietario di Amazon, è un padrone spietato: «Bezos sa essere un grandissimo stronzo», disse una delle prime impiegate di Amazon, Ellen Ratajak, riferendosi principalmente alla “testardaggine irrazionale” del suo ex capo con i suoi dipendenti.
Forse non per molto ancora.

Cover: tratta da Vox –  Stephanie Keith/Getty Images

Dura minga, dura no.

 

Non c’è molto da dire. Oppure tanto: perché l’avventura della maggioranza di Centrodestra è cominciata malissimo. Ed è continuata peggio. Le vicenda è talmente nota (“tutta la città ne parla”) che basta il nudo elenco dei fatti, senza commento.

Prima l’elezione alla Presidenza del Senato (sarebbe la Seconda carica dello Stato) di Ignazio Benito La Russa, senza i voti di Forza Italia (il Presidente La Russa si prende il primo vaffanculo da Berlusconi) e grazie a 19 voti dell’Opposizione. Di chi? Di Renzi, dei 5 Stelle, di qualche furbetto del Pd? Non lo sapremo mai, le ipotesi si sprecano, ma chi se ne frega. Sappiamo come faide e divisioni nelle forze dell’Opposizione non siano meno gravi di quelle nella Maggioranza.

Poi l’elezione alla Presidenza della Camera del vice di Salvini e conclamato omofobo Lorenzo Fontana. (Finalmente Salvini si calma e canta vittoria) (ma il Cavaliere è imbufalito: niente, Giorgia non gli fa neanche ministro la Ronzulli) (la Meloni dimentica il fair play e risponde a muso duro al Cavaliere: “Non sono ricattabile”).

Terzo atto, ancora da scrivere, il nuovo governo. Ce l’hanno ripetuto fino a sfondarci le orecchie:Sarà Un governo che durerà 5 anni”Poteva essere l’unico primato che riusciva a  intestarsi la Destra al potere (dal 1948 ad oggi si contano la bellezza di 67 governi, nessuno è durato per un’intera legislatura) ma, ed in politica è un dato matematico: “il buongiorno si vede dal mattino”. Il primo Governo Meloni  durerà come o meno degli altri. Non serve l’analisi di  un meteorologo politico, basta la previsione di un milanese qualunque: Dura minga, dura no.

Intanto però il governo bisogna farlo. Giorgia Meloni è impegnatissima – così ci dicono le cronache – ma il parto sembra ancora lontano. Tra i partiti e dentro ai partiti della Coalizione si registra un crescente ‘nervosismo’, un eufemismo da tradurre ‘lotta al coltello’.

Per esempio. Salvini è furioso con Giorgia che ha rubato alla Lega due terzi dei voti.  Berlusconi è furioso con Giorgia perché non da spazio ai suoi ministri. I leghisti del Nordest sono furiosi con Salvini e pensano a come defenestrarlo. I forzisti scalpitano e aspettano il prossimo ricovero al San Raffaele di un patriarca barcollante e fuori controllo: perfino il vecchio ‘democristiano di razza’ Cirino Pomicino ha consigliato al Cavaliere un urgente pensionamento.

“Non sono ricattabile”, dice Giorgia, che vuol dire il contrario, Giorgia Meloni è sotto ricatto.
Adesso, che deve quadrare la squadra di Governo.
E ancora, e di più, quando il nuovo governo si insedierà.

Non sappiamo cosa farà e cosa non farà il primo governo della Destra. Temo farà sfracelli dei nostri diritti. Dei diritti degli immigrati, dei richiedenti asilo, dei bambini stranieri sul suolo italiano. Dei diritti dei più deboli, dei più poveri, delle donne, degli operai, dei non vaccinati licenziati, di chi si ribella alle Grandi Opere o alle nuove colate di cemento. I prossimi, saranno tempi duri per i diritti di tutti, già ampiamente attaccati e limitati dai governi precedenti.

Per il resto, da Giorgia Meloni e dai suoi rissosi compagni non mi aspetto grandi novità.

La strada tracciata da Mario Draghi – padronale, guerrafondaia, atlantista – è stata più volte apprezzata dalla prossima Presidente del Consiglio. La seguirà.
Nessuna novità per l’ambiente: del resto peggio di così…
Ancora Grandi Opere e grandi affari.
Ancora più povertà: nessuna traccia della misericordia che un vecchio Papa continua a invocare.
Ancora guerra e armi da piazzare ad amici e nemici.
Ancora guerra ai pacifisti, agli ecologisti, ai dissenzienti, ai ribelli che non si adeguano.

Insomma, il nuovo governo sarà abbastanza uguale al penultimo. Purtroppo.

Abbiamo un’unica fortuna: Dura minga, dura no.

“IO SO CHI SONO IO!”
Storie e voci di giovanissime/i al Banchetto dei Diritti di Arcigay

 

Come premessa

La scuola non è sempre un luogo sicuro: i “Libri Viventi” nei corpi adolescenti  dei giovani attivisti e attiviste lgbtqi+, ci raccontano di bullismo, incomprensione , discriminazione ed esclusione. Raccontano di sofferenza e solitudine accentuate dalla incapacità degli insegnanti di vedere o di intervenire ed anche dalla impossibilità di esprimersi completamente perfino in famiglia.

Non avrei mai pensato che ragazzi e ragazze tanto spigliati a presentarsi in pubblico e su temi tanto personali avessero problemi di rendimento scolastico. Eppure avrei potuto facilmente intuirlo: il bullismo è una delle cause del ritiro sociale e del rifiuto di tanti ragazzi e ragazze di andare a scuola. Dobbiamo fare tesoro delle loro esperienze e dei loro giudizi, perché quello che ci piace del nostro lavoro è la possibilità di essere facilitatori della ricerca di identità, della ricerca di senso, dell’incontro delle diversità.

In questo resoconto si leggeranno forti critiche agli insegnanti. Credo non ci si possa stupire di questo: nessuno e nessuna è attrezzata per natura a gestire situazioni, che non si possono affrontare solo con buona volontà, le buone intenzioni, il buon senso. Non bastano.

Purtroppo non basta nemmeno informarsi: nella mia esperienza di insegnante e di genitore, tante cose che ho ‘studiato’ le ho fraintese nella pratica, o applicate male, nel senso che non ne ho colto la sostanza o che ho dovuto prima fare un lavoro su me stessa per poterci arrivare con l’emozione, non con la ragione. Per questo è molto importante quello che ha detto una delle mamme: non è necessario capire, quello che è importante è esserci.
Vi rimando anche al primo post del mio blog, che vuole essere il programma di quello che scrivo: vietato rimproverare prima di avere ascoltato dovrebbe essere il nostro mantra .

Penso che sarebbe bastato questo, nei casi raccontati, per evitare tante sofferenze: interessarsi, ascoltare, credere, dare fiducia. Di questo parlerò nei miei prossimi articoli. Intanto aggiungo che sono convinta che l’ascolto serva anche a ridimensionare il bullismo, perché anche il bullo, la bulla, hanno bisogno di dire delle cose, ma devono imparare come dirle.

I Libri Viventi ci insegnano
Parlano i Libri Viventi
Il Banchetto dei Diritti di Arcigay

Al “Banchetto dei Dirittisabato 24 settembre 2022 organizzato da Arcigay Ferrara ‘Gli Occhiali d’Oro’, si è detto No alla disinformazione. É servito a tutti per la formazione e informazione sul tema dell’identità sessuale.
Abbiamo ascoltato e dialogato con giovanissimi attivisti e attiviste che hanno animato la Biblioteca dei libri viventi “perché raccontare e raccontarsi è l’unico strumento per superare stereotipi e pregiudizi. Conoscere è l’unica via per non discriminare”. Conoscere e conoscersi: “So quello che sono io” ha detto Nico, 15 anni: mi ha suscitato ammirazione per la consapevolezza che io nemmeno a più di 60 anni ho.

La consapevolezza del limite che indica la capacità di comprendere quello che c’è oltre. e di fare comprendere. È stato un pomeriggio illuminato, nonostante il grigiore, dalle voci squillanti e orgogliose di questi cuori a colori, così capaci di introspezione, così maturati dal dolore, così unici eppure così uguali nell’esperienza del bullismo, della discriminazione, dell’emarginazione.  Mi è parso che le parole e le riflessioni di questi giovanissimi e giovanissime abbiano gettato luce anche su chi sono io, chi siamo noi. 

“Io so quello che sono io. ”Gli altri vogliono rimanere ignoranti”. La consapevolezza per tutti e tre i protagonisti “Libri Viventi” (ho inventato i loro nomi) è arrivata verso i 12 anni.

Si sono dovuti documentare da soli e da sole su Internet, perché gli adulti non c’erano con loro,  prima di scoprire quale fosse la loro identità, unica, e prima di sapere dell’esistenza dell’ Arcigay, dove hanno finalmente individuato un ritrovo senza pericoli. Non è poco, visto che la loro breve vita è stata purtroppo piena di maltrattamenti e violenza fisica e psicologica, anche e soprattutto a scuola, dove non hanno trovato sempre la protezione degli insegnanti, dove hanno subito bullismo, derisioni, offese.

Fede e Ethan sono stati compagna e compagno nelle scuole medie e hanno avuto l’esperienza della bocciatura insieme. È importante avere almeno un insegnante vicino, ma per tante ore, perché se l’insegnante ha poche ore nella classe, è più un tormento che un aiuto, dicono all’unisono. Le affermazioni  risuonavano dall’una all’altro, a riportare lo stesso stato di angoscia, tristezza, frustrazione, rabbia, depressione. Ma anche di orgoglio: per essersi trovati, per avere raggiunto il proprio equilibrio e per avere il coraggio di manifestare e di manifestarsi per quello che sono, sapendo quanto valgono.

C’è stata anche la descrizione dello studio delle tattiche per manifestarsi con i compagni e compagne di scuola, con i genitori, fratelli e sorelle. E il problema con i nonni: già in famiglia inizia la solitudine e l’impossibilità di essere ciò che si è, perché i genitori non capirebbero e anche se ti ‘accettano’. Appunto, ti accettano soltanto. È anche vero, però, che ora, i genitori e anche zie, fratelli e sorelle sono venuti alla manifestazione a fare il tifo per loro.

Tante offese dai compagni e compagne di scuola, continue:
“Cambi tanto i tuoi comportamenti, dopo certi commenti mi chiudevo in camera non vedevo nessuno, non uscivo, non ero accettato, non ero benvenuto” .
“I
 commenti mi hanno formato il carattere: da timida e fragile, per via del bullismo, sono cambiata, rispondevo per le rime, come non avevo mai saputo fare”.
“I commenti mi hanno formato uno scudo, mia madre mi diceva che mi avevano tolto la luce negli occhi, mi chiudevo in camera, a volte non avevo la forza di alzarmi; mia madre e mio padre questo non lo accettavano”.

Ethan, Fede e Nico

L’anno in cui è stato bocciato, per un lungo periodo Ethan non è andato a scuola, si comportava male con i professori perché i compagni lo chiamavano con il nome e con il pronome che lui non voleva. Ethan infatti ha vissuto da bambina per i primi anni della sua vita, per poi scoprire di sentirsi un ragazzo.

Non si sentiva accettato nemmeno dai professori. Quando tornava a scuola dopo un’assenza veniva accolto con scenate perché gli insegnanti non coglievano la sofferenza che gli impediva di frequentare.  Lui rispondeva per le rime, anche sbattendo la porta.
Si sentiva triste, e solo la sua amica Fede gli dava comprensione. I compagni sapevano che stava male, ma a loro non importava niente, anzi infierivano. Ethan non accettava che ragazzi della stessa età lo insultassero e ha anche finito per aggredirli. 

Fede è stata bocciata sia per insofferenza all’ambiente ostile che per motivi di salute: i professori le hanno detto che avrebbe potuto portare il certificato medico per giustificare le assenze solo a cose fatte.  Quando Ethan aveva attacchi di panico gli insegnanti lo ignoravano, non lo lasciavano uscire dalla classe. 

Dice Nico: “Mi è caduta la motivazione e ho smesso di studiare”. Non si sentiva sicura in classe: è stata presa a pugni: lo ha detto alla coordinatrice, ma questa ha sospettato che fosse stata lei a provocare i compagni.

L’ambiente di scuola influisce enormemente sulla motivazione a studiare: la può far passare come può farla venire: “Essere bocciati è una crescita, abbiamo cambiato scuola, abbiamo imparato molto. Ai compagni non importava niente di me, prima, ma se ti trovi bene con i compagni ti viene più voglia di studiare”. 

Le parole della mamma di Ethan ci hanno commosso: sono state una dichiarazione di amore per il figlio, di fiducia, di stima, di sostegno senza se e senza ma. Un grande cuore accogliente e nessun argomento razionale. Anche se non comprende tutto, ha detto. lo sosterrà in tutto e per tutto.
Per la scuola c’è amarezza, da una parte, e gratitudine dall’altra, perché non sempre Ethan è stato accettato e protetto a scuola, ma ci sono insegnanti e presidi che lo hanno saputo accogliere.

Nico ha concluso con una riflessione: “Siamo tutti diversi nell’uguaglianza e tutti uguali nella diversità”.

Nota: Ovviamente Ethan, Nico e Fede sono nomi inventati 

Piero Guccione al PAC di Ferrara.
Una versione solare e mediterranea del figurativismo travagliato di Bacon

“Se dipingessi il mare come si dipinge il mare, se dipingessi il nero come si dipinge il nero, finirei col dipingere un quadro, mentre io vorrei che questa immagine fosse una pura emozione”. È un dipinto a olio su tela quello scelto per la locandina della mostra ferrarese dedicata a “Piero Guccione. Mistero in piena luce”: un paesaggio marino dove le sfumature di azzurro occupano tutta la superficie. Colori che delineano gli elementi visivi di aria e acqua e immergono lo spettatore in un’atmosfera di pura luce.

Una delle opere di Guccione dedicate a mare e cielo

Un’opera di rappresentazione del reale, dunque, che riesce a trasportare fuori dalla realtà figurativa in senso stretto. Le combinazioni di mare e di cielo sono uno dei temi ricorrenti nella ricerca di questo artista (nato a Scicli nel 1935 e morto a Modica nel 2018) a cui la Fondazione Ferrara Arte dedica un’esposizione di oltre 70 opere.

Ingresso della mostra di Guccione al Pac

Una carrellata che documenta la carriera di un protagonista dell’arte contemporanea, dagli esordi negli anni Sessanta fino alle ultime opere degli anni Duemila.

“Autoritratto nel paesaggio” di Piero Guccione, 1971
“Attese di partire n. 7” di Piero Guccione, 1969 © by SIAE 2022

La rassegna – suddivisa tra il periodo romano di Piero Guccione e il suo ritorno in Sicilia – segna un ritorno a Ferrara di un pittore che, cinquant’anni fa, fu invitato a esporre la sua produzione dal mitico direttore di Palazzo dei Diamanti, Franco Farina. Ora come allora, il lavoro di Guccione ripropone un tema che è ben descritto nell’intervento del curatore Vasilij Gusella all’interno del catalogo, dove spiega come già in quegli anni la presenza dell’opera di Guccione contribuisse ad alimentare “l’accesa querelle tra realismo e astrattismo”, uno dei nodi centrali del panorama figurativo dell’epoca che non si è mai del tutto sciolto ed è destinato a riproporsi a più riprese tra artisti, critici e semplici spettatori e appassionati d’arte.

“Omaggio a Francis Bacon” di Guccione

A sciogliere o perlomeno a dare un’indicazione e un indirizzo al dilemma se l’arte per essere attuale può o non può rappresentare il reale, ci sono numerose tele con figure umane che non possono non fare pensare allo stile dell’artista britannico Francis Bacon. Salendo al piano superiore della mostra il collegamento si chiarisce con alcune tele più che mai baconiane e con un trittico che è un omaggio diretto al pittore, celebre per le sue rappresentazioni umane, deformate e contorte, di forte impatto espressionistico.

“Studio di Deterrent”, 1961, olio su tela

Un’affermazione di Guccione stesso, stralciata da un suo testo e appesa alle pareti accanto alle sue opere, chiarisce in maniera definitiva il debito che lui sente rispetto a Bacon. “Ho conosciuto Bacon  a Roma – ricorda Guccione – a metà degli anni Settanta. In quell’occasione la galleria Il Gabbiano offrì una colazione alla quale, oltre a Balthus, gentilmente aveva invitato anche me. Io non mangiavo: guardavo Bacon, me lo imprimevo nella memoria. Negli anni Sessanta, Bacon, con Balthus e Giacometti, garantiva la mia generazione – la garantiva in maniera autorevole – contro ogni tipo di intellettualismo: ci garantiva la possibilità alta di una pittura di immagine. Era moltissimo. Era tutto”.

Questa frase appare accanto alla sequenza dei tre quadri incorniciati in sequenza: sono ritratti che rappresentano il volto di Bacon stesso in uno sforzo di memoria che riconduce alla tecnica di rappresentazione, alterata e deformante, del pittore d’oltre Manica. I visi di questo “Studio – Omaggio a Francis Bacon”, 1976-79, sono realizzati utilizzando colori a pastello e colori a olio nelle sfumature del grigio e del nero. Il risultato esprime in maniera esplicita il legame con questo tipo di figurativismo. Qui però la drammaticità è sostituita da una sensazione meno tragica. L’inquietudine che trapela resta mitigata da una predisposizione soggettiva, più solare e mediterranea, che caratterizza l’artista italiano.

L’esposizione ferrarese è suddivisa tra la parte di allestimento al piano terra del Pac che mostra le opere dell’esordio artistico, durante la permanenza di Guccione a Roma.
Qui ci sono le tele che illustrano una commistione tra natura e città come la serie di “Giardini e cancelli” ma anche “Riflessi” e “Interno / esterno” dove il mondo vegetale e quello meccanico si sovrappongono.

“Sul far della luna” di Guccione, 1968-69

Salendo al piano di sopra del Pac, ci sono i lavori più maturi, realizzati dopo il ritorno in Sicilia: “Le linee del mare e della terra”, quelli fatti a pastello, gli omaggi ad artisti amati e studiati con opere “d’après”, “La fine dell’estate” e le tante declinazioni di “Il mare, il cielo”.

La mostra, nata da un’idea di Vittorio Sgarbi e Lorenzo Zichichi, è visitabile al Padiglione d’arte contemporanea di Ferrara fino all’8 gennaio 2023.

Padiglione d’Arte Contemporanea – Palazzo Massari, corso Porta Mare 5, Ferrara. Aperto da martedì a domenica ore 10-18 (biglietteria chiusa dalle 17.30). Prenotazioni sul sito web www.comune.fe.it/prenotazionemusei. Aperture straordinarie lunedì 31 ottobre, martedì 1 novembre, lunedì 5 dicembre, giovedì 8 dicembre, lunedì 26 dicembre 2022. Giorno di chiusura lunedì.

Una candela per Julian Assange.
Il 15 Ottobre, in tutto il mondo, 24 ore per la libertà!

Perché vi chiedo di accendere e di mettere una candela per Julian Assange davanti a una finestra?

Se avete la pazienza di leggermi per 4 minuti, ve lo dirò alla fine.

Andiamo per ordine.

Julian Assange è attualmente detenuto nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh, nel Regno Unito. Il suo primo arresto, l’inizio del suo calvario giudiziario, risale al 2010. Ora – dopo il pronunciamento del tribunale britannico e l’autorizzazione dell’ ex ministra dell’Interno Priti Patel – rischia concretamente di essere estradato negli Stati Uniti, dove è già stato condannato a oltre 140 anni di carcere.

Julian Assange ha ricevuto decine di riconoscimenti per la sua attività di giornalista ed editore libero (non ultimo quello di Amnesty International), eppure in questo momento nessun Paese al mondo si è fatto avanti per accoglierlo come rifugiato politico e salvarlo dalla vendetta del governo americano (repubblicano o democratico, in questo caso non conta).  Evidentemente, anche se molti ormai parlano di declino dell’ Impero americano, l’influenza e il potere commerciale degli Usa sull’America Latina e sull’Europa è ancora fortissimo.

Se  il fondatore ed editore di WikiLeaks , perseguitato e incarcerato da molti anni, appare oggi il portabandiera e insieme il capro espiatorio della libertà di espressione e di stampa, i media di tutto il mondo, e segnatamente i media europei – peggio ancora, i media italiani – sembrano averlo dimenticato. Abbandonato al suo destino.

Scrive Sara Chessa su Micomega on line, una delle poche eccezioni alla congiura del silenzio:

Assange 24H, la mobilitazione che sembrava impossibile è qui

Mentre i prossimi passi del processo vengono resi noti e si profila un possibile bivio nell’itinerario giudiziario, il 15 ottobre si terranno – in Italia e nel mondo – ventiquattro ore di manifestazioni di solidarietà verso l’editore di WikiLeaks.
Se guardata da coloro che hanno iniziato la battaglia contro l’estradizione di Assange nel 2019, l’imminente maratona di ventiquattro ore del 15 ottobre a favore della sua liberazione è una sorta di miracolo.
All’epoca dell’arresto, infatti, sembrava che la campagna diffamatoria ai danni del fondatore di WikiLeaks avesse eradicato ogni possibilità per gran parte del pubblico di provare qualsiasi forma di umana compassione per il giornalista, a dispetto della condizione di detenzione arbitraria appurata da un autorevole gruppo di lavoro delle Nazioni Unite già nel 2015, quando Assange era costretto a stare nell’ambasciata ecuadoriana perché la Svezia – che voleva estradarlo per accuse poi archiviate –  si rifiutava di assicurare che non lo avrebbe ceduto, in seconda battuta, agli Stati Uniti. Questi ultimi, infatti, secondo il suo team legale, lo aspettavano al varco per fargli pagare il conto dell’imbarazzo causato al loro governo quando WikiLeaks mostrò che la realtà quotidiana delle guerre in Iraq e Afghanistan era fatta di sistematiche violazioni dei diritti umani e crimini di guerra ai danni di civili.

Per molti Julian Assange è solo un nome, magari ne hanno sentito parlare, ma non conoscono nei particolari la storia e la drammatica avventura politico-giudiziaria di Julian Assange.
Poco o nulla troverete sui grandi giornali e sull’informazione addomesticata e reticente. A tutti gli ‘incolpevoli ignoranti’ consiglio di prendersi un po’ di tempo e di leggere la pagina a lui dedicata da wikipedia, una fonte libera, indipendente, molto documentata e che non può essere tacciata di estremismo: Julian Assange su wikipedia.

Ecco l’ultima riga della pagina wikipedia:
“Il 20 aprile 2022 il tribunale di Londra autorizza formalmente l’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti”. Non sappiamo cosa deciderà il nuovo governo britannico, ma se confermasse la decisione già presa, per Assange si aprirebbero le porte delle carceri statunitensi.

Per questa ragione le donne e gli uomini di buona volontà e di nessun potere hanno dato vita alla iniziativa 24hAssange.

Oggi, 15 di ottobre, 24 ore su 24, in oltre 50 città d’Italia e del mondo (in Italia e in Europa, in America Latina, in Australia, a Taiwan) si svolgeranno iniziative (incontri, cortei, flash mob, concerti, trasmissioni, dibattiti…) per la libertà di Julian Assange e per la libertà di informazione.

Invito tutti a leggere il Calendario con il programma e la mappa delle iniziative. E a partecipare, o direttamente o collegandosi da remoto.

Che altro possiamo fare?
Forse –
è quello che oggi mi è venuto in mente – anche un piccola azione individuale, un gesto simbolico, può servire. Può testimoniare che non siamo disposti a lasciare solo Julian Assange, che crediamo non possa esserci democrazia vera senza la libertà di espressione e di informazione.

Una luce, per rompere il buio della persecuzione giudiziaria. Accendere una luce è da secoli, in tutte le culture, il simbolo della memoria, del ricordo, della vicinanza. Il segno tangibile di partecipazione ad un  rito collettivo (religioso o laico che sia). O a una lotta comune contro la violenza del potere.

Appena fa buio, accendete una candela e accostatela a una finestra. Appena fa buio.

Se non vi costa troppa fatica, a Julian Assange e alla libertà di tutti può servire anche il vostro piccolo lume.

 

UNA CANDELA PER ASSANGE

Una candela sì 
Senza vento
Una candela
Dieci trenta
Mille cento
Una candela
Che non si svolga
Tutto in segreto 
Che rimanga accesa
Nella notte
Degli uffici 
Colmi di segreti
Bugie 
Falsi destini
Confezionate verità 
Una candela
Che brucia il silenzio 
Una candela 
Per Assange
Una cento
Una più una 
Senza vento
di Roberto Dall’Olio

PRESTO DI MATTINA /
Cammino d’uomo

Oriente

«È compito di ogni uomo conoscere bene verso quale cammino lo attrae il proprio cuore e poi scegliere quello con tutte le forze» (Martin Buber [Qui]).

Cammino d’uomo, cammino di vangelo, sono stati una cosa sola per “Oriente” – il nome con cui il padre registrò all’anagrafe di Ferrara il figlio – a noi più familiare come Alberto Dioli, del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita: 28 settembre 1922 a Corlo.

Prete ferrarese, parroco a Mizzana e al Barco e poi, dal 1969, missionario fidei donum a Kamituga nella regione del Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, fino alla sua morte avvenuta a Ferrara, dopo una grave malattia, malaria celebrale, il 27 novembre 1989.

In quel nome, “Oriente”, riecheggia una vocazione a due mani, una tesa verso l’uomo e l’altra verso il vangelo, ma un unico cuore a servizio della promozione umana e dell’evangelizzazione.

Un nome misterioso che nascondeva due significati: “Oriens ex alto”, un sole che sorge dall’alto si legge in Luca 1, 78: nel testo greco anatolè che significa sorgendo all’orizzonte.

Ezechiele poi ricorda il venire della gloria di Dio da Oriente: «La gloria del Signore entrò nel tempio per la porta che guarda a Oriente» (43, 4). E l’evangelista Matteo dirà di Gesù, Figlio dell’uomo – venuto non per farsi servire, ma per servire e dare la vita – che egli «come la folgore viene da Oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo» (24, 27).

La luce del vangelo come quella del sole che sorge ad Oriente: «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (Is. 9,1).

Ma nell’immaginario simbolico ed esistenziale di don Dioli si poteva intravvedere anche un altro sole. La famiglia già lo immaginava avviato a diventare bracciante, al lavoro nei campi o, tutt’al più, muratore o barbiere, come aveva ipotizzato il padre, ma quello di bracciante era un contesto di lotte sociali e rivendicazioni di giustizia.

Un’epoca in cui si nutriva molta speranza nel “sole dell’avvenire”, nel riscatto degli operai e dei braccianti grazie al movimento dell’Internazionale socialista.

Don Dioli non era certo insensibile a queste istanze (come si legge nel libro di Carlo Pagnoni, Don Alberto Dioli da Ferrara a Kamituga, Corbo, Ferrara, 1998 che costituisce una miniera preziosa di documentazione e analisi del conteso religioso italiano e ferrarese di quel periodo, non meno che della situazione internazionale nella Repubblica Dominicana del Congo, ex Zaire).

Tuttavia scelse di farsene carico diventando sacerdote il 6 aprile del 1946 nella parrocchia della B.V. del Perpetuo Soccorso; quando espresse, la sera prima dell’ordinazione, scrivendo alla madre e al padre – quasi un programma pastorale – la sua opzione preferenziale per i poveri:

«Domattina è la mia e vostra festa più bella … voglio … ringraziarvi per il molto bene che mi avete fatto … Ormai sono di Dio, la mia famiglia è costituita da migliaia di anime per le quali dovrò lavorare e consumare la mia vita … sono nato e vissuto povero… io e voi saremo sempre poveri… II Signore mi ha voluto sacerdote, voi lo sapete bene! Sia dunque benedetto e serviamo fedelmente, io come sacerdote voi come cristiani fedeli! Suona mezzanotte proverò a dormire» (Pagnoni, ivi, 65).

Con queste premesse, non sorprende la scelta di don Dioli per la missione, animato dall’intento di portare il vangelo della pace nel cuore dell’umanità, alla ricerca inesausta di una giustizia più grande, quella del Regno:

«Se la vostra giustizia non sorpasserà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel Regno dei cieli» (Mt 5,20). Coloro infatti che avranno fame e sete di giustizia saranno saziati, dice la quarta beatitudine; e l’ultima ricorda che ai perseguitati per la giustizia – come ai poveri della prima beatitudine – appartiene (di essi è) il Regno dei cieli (Mt 5,3; 6;10).

Un prete libero e fedele

Un prete libero e fedele. Così il titolo di un libro di testimonianze curato dall’Associazione Amici di Kamituga, Ferrara 1999. Nell’introduzione dal titolo Seguendo Cristo libero e fedele, ricordavo: «Nel gesto di aprire un libro e di voltarne le pagine si celano e si svelano simbolicamente le nostre intenzioni ed energie più profonde. Il desiderio stesso di rinascere, di aprire e far entrare la vita.

Non solo gesto dell’aggrapparsi come per sopravvivere in un naufragio, oppure sguardo che cerca con affanno l’uscita di sicurezza come per sfuggire al fumo invasivo, ma gesto di “più vita” di “nuova vita”…

Una esperienza di “centrazione” ed insieme “orientamento” fuori di sé; evento non solo di memoria e di attesa, ma di presenza e di incontro, di viaggi, di partenze e di ritorni. E tuttavia non appena Ulisse, molto di più Abramo».

Don Dioli fu come il sale nel cibo” scrive Tobie Kyamalinga, laico, collaboratore per vent’anni di don Alberto e leggendo la sua testimonianza è come aprire un altro libro che ne contiene molte altre.

Nel libro della missione si impara e si scrive lo stile di una libertà non ripiegata su se stessa, ma vissuta in relazione, che fa strada con gli altri restando loro fedeli con quella fedeltà irrevocabile che si attinge dal vangelo: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13, 1).

Cammino di libertà dapprima.

Scrive padre Zampese: “La sua passione pastorale, la sua determinazione e il suo sogno di eliminare tutti gli steccati di esclusione, e lottando contro una storia del passato che aveva messo anche in lui i germi dell’integralismo religioso allineato dietro ad una bandiera, l’ha portato a scegliere la libertà di coscienza capace di annunciare solo una Chiesa profezia nel mondo“.

Nodi e reti di fedeltà poi.

«Don Alberto è legato alla vita, alla gente, a Dio. Forse per questo sapeva essere semplice e forte, creativo. Sapeva intuire i percorsi della storia ma restava uno di noi, senza pretese, come un fratello che vede lontano e dà sicurezza». Così la testimonianza di padre Silvio Turazzi.

Radicalità ed equilibrio

Padre Silvio Turazzi, ancora giovane seminarista, si stupiva della novità di vita che veniva dall’insegnamento di don Dioli, costituita dalla radicalità del suo equilibro.

«Ci presentò un giorno il tema della povertà …. liberi da tutto, ma soprattutto un modo di essere tra la gente. La sua parola era viva, ma lui ne era l’immagine. È questa la novità! Radicalità e equilibrio trasparivano dai suoi occhi, nel suo modo di presentarsi.

Dio era la sua forza, la vera radice del suo coraggio e del suo equilibrio interiore, nei rapporti con il mondo operaio o con i professionisti della città. Non si può dimenticare, c’era alle sue spalle il pane amaro di una famiglia onesta che aveva conosciuto le atrocità e gli stenti della guerra, c’era una conoscenza e un’esperienza non comune nella difficile vita sociale, politica ed ecclesiale che ne seguì.

Parrocchia, scuola, Acli, gruppi di Rinascita, Azione Cattolica, lo vedevano “presente”, povero e forte insieme… Me lo rivedo accanto – continua padre Silvio anche lui missionario in Congo – colgo nei suoi occhi i problemi degli operai (l’indignazione per quel salario equivalente ad un uovo al giorno!), i rapporti difficili con la direzione della miniera, con cui non accettò mai compromessi e vantaggi, le difficoltà con le autorità locali legate al sopruso e alla corruzione.

Mi guarda e sorridendo mi insegna ad ascoltare, lungo la strada del villaggio, il rumore ritmato degli scalpelli … sono i minatori che tentano l’estrazione dell’oro con le pietre raccolte nei filoni abbandonati… Il Centro per gli handicappati lo ha sognato e curato. Penso fosse per lui l’espressione più significativa della fedeltà della comunità per i più deboli» (Prete libero e fedele, 91-92).

Una vita che parla

«La sua parola era viva, ma lui ne era l’immagine», ricordava sopra padre Silvio, come a dire: “una vita che parla”.

Così sono rimasto sorpreso dalla attualità dello stile missionario di don Dioli, che corrisponde perfettamente a quello che papa Francesco delinea come compito missionario di tutti i cristiani, chiamati ad essere per il battesimo missionari nella chiesa di oggi.

Siamo come tempo pastorale nell’ottobre missionario. Il tema nel messaggio per la giornata missionaria mondiale 2022 sembra pensato su misura di don Albero titola: “Di me sarete testimoni” (At 1,8).

«Vite che parlano»; che parlano di Cristo risorto e vivo, speranza per tutti gli uomini e le donne del mondo, a fianco e testimoni di quel Cristo, direbbe Pascal, che continua ad essere in agonia nell’umanità ancora sopraffatta da tante ingiustizie e violenze.

Affascinato da questa storia infinita che non conosce confini di cultura, di religione, di razze, di popoli, don Dioli così scrive ai suoi parrocchiani per dire le ragioni della sua partenza: «Si sceglie la missione per “condividere da poveri con i poveri, come Gesù”.

«Perché ho scelto le missioni?» Me lo hanno domandato in tanti in questi giorni: «Perché se ne va? Perché ci lascia?» È una domanda legittima alla quale posso dare soltanto risposte evasive, provvisorie, che non possono persuadere i miei interlocutori.

Dico prima di tutto, che non vado per farmi un’esperienza nuova, per conoscere una chiesa diversa, costumi e tradizioni lontanissime da noi. Nessun uomo può essere oggetto di sperimentazione: un missionario non è mai un esploratore, un giornalista, un raccoglitore di notizie. Neppure è un inviato incaricato dai ricchi di distribuire doni ai poveri.

Sarebbe troppo grave che egli accettasse di farsi così complice della oppressione e dell’ingiustizia, di un nuovo colonialismo odioso, benefico e ladro insieme. Il missionario va per «condividere», da povero con i poveri. Come Gesù che ha posto la sua tenda fra noi, uomo tra gli uomini, vittima con i deboli, perseguitato, percosso, disprezzato, abbandonato, malfattore crocifisso.

Questa storia meravigliosa mi ha sempre persuaso più di ogni altro argomento. So di poter fare molto poco, di non poter rimediare a niente, che non avrò mezzi o energie per questo. Ma una cosa mi rimane possibile, condividere. E questo mi dà pace e mi giustifica nella scelta che ho fatto, della quale sono stranamente contento.

Naturalmente continuo a sperare che qualcuno darà istruzione agli analfabeti, pane agli affamati, medicine agli ammalati, libertà e dignità agli oppressi» (Alberto Dioli, Fidei donum. Lettere e antologia di testi, vv. 1 e 2, a cura di A. Zerbini, Quaderni Cedoc SFR, 25-26, Ferrara 2014, 120).

Nel Bollettino parrocchiale del Barco, don Alberto spiegava anche ai suoi parrocchiani il perché di tanta lentezza nell’adeguare e trasformare la chiesa secondo la riforma che era stata delineata dal concilio Vaticano II.

Oggi a noi che siamo in un cammino sinodale per attuare più in profondità la riforma conciliare, specie nelle parti rimaste ancora inespresse e disattese, egli direbbe anche a noi: «I laici più avveduti si meraviglieranno che dopo tante solenni affermazioni, tutto rimanga come prima e che la loro voce sia così poco ascoltata, anzi che essi non abbiano praticamente nessuna voce come nel caso nostro.

Ma il concilio è terminato da appena due anni e il cammino è lungo. L’importante è che ci si muova in quella direzione, tra molte pene, contrasti, difficoltà.

Vale per tutti quello che scriveva un precursore del nostro tempo, il cardinale Newman [Qui], uno degli spiriti più grandi del suo secolo. È una frase che ho letto nella sua  Apologia pro vita sua, a proposito del Vaticano I: «Poiché c’è il concilio, è tempo di soffrire» (Fidei donum 1, 116). Siamo avvisati dunque: anche per noi ci saranno fatiche e delusioni e lentezze per dare forma sinodale, coscienza partecipativa e ministeriale alle nostre comunità, una vita condivisa, una vita di più grande comunione.

“L’indifferenza verso il passato è una forma di ingiustizia”

Così scriveva Teodoreto di Cirro [Qui], vissuto nel V secolo e autore di una Storia Ecclesiastica, riferendosi a quella negligenza colpevole che induce a dimenticare nella chiesa il ricordo delle lotte e imprese ammirevoli dei cristiani.

E continuava: “Perciò io tenterò di scrivere ciò che della storia della Chiesa è trascurato, perché non ritengo cosa santa dimenticare la gloria di azioni molto splendide e di narrazioni utili, che sarebbero distrutte dall’oblio”.

E Paolo VI ricordava: “Non ignorare la propria storia non significa essere vincolati alle forme che ieri ne hanno tessute le vicende; significa piuttosto sperimentare la spinta, morale che da essa deriva, e cioè godere di una carica di esperienza, di ansia verso l’attualità e verso l’avvenire, di ricerca di sempre nuove e geniali originalità” (Discorso, 26 giugno 1971).

È con questo spirito che il Cedoc SFR lavora per custodire la memoria di coloro che ci hanno preceduto nel segno di umanità e di fede e per osare un passo, un altro passo ancora. Oltre ai testi citati sopra, l’impegno di questa memoria missionaria è testimoniato dai seguenti volumi:

  • M. Turrini, Dalle “retrovie” delle missioni alla Chiesa tutta missionaria. Il Centro missionario diocesano di Ferrara-Comacchio (1929-2000), Quaderni Cedoc SFR, 40, Ferrara 2017.
  • L’umiltà di navigare a vista. Memoria missionis, a cura di A. Zerbini, Quaderni Cedoc SFR, 41, Ferrara 2017.
  • F. Franceschi, L’attesa dei popoli. Interventi sulla chiesa missionaria e diario, a cura di M. Turrini e A. Zerbini, postfazione di A. Zerbini, Quaderni Cedoc SFR, 44, Ferrara 2021.
  • C. Pagnoni, Il Vangelo tra la gente. Missionari ferraresi nel mondo, Corbo, Ferrara 2003.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Il successo della Svezia nella lotta “aperturista” contro il Covid
e gli imperdonabili errori della “linea rigorista” del governo italiano.

 

Durante la pandemia si sono confrontate due principali strategie: quelle “chiusuriste” e quelle “aperturiste, e ciascuna di esse ha avuto diverse gradazioni in differenti Paesi.

La posizione più estrema tra le chiusuriste è stata quella di “Covid zero” (Cina, Australia,…) e, in Europa, dell’Italia, imitata (seppure in modo meno drastico) da quasi tutti i Paesi europei.

Al polo opposto si è invece collocata la Svezia, nella ipotesi che, lasciando correre il virus (e proteggendo anziani e fragili), si sarebbe creata una diffusa immunità naturale con riduzione di ricoveri e decessi.

Un consuntivo a 30 mesi dal marzo 2020 ci consente una prima valutazione.

L’ipotesi del dott. Anders Tegnell, a capo dell’Agenzia svedese per la Salute che decise la strategia (agenzia indipendente dal Governo -socialdemocratico allora-) era che, in mancanza di un vaccino e di tempi stimati lunghi (2 anni) della pandemia, il più efficace modo di contrasto al virus sarebbe stato un contagio di massa che avrebbe prodotto una immunità naturale nella popolazione sana non fragile (bambini, giovani, adulti) più efficace di qualsiasi vaccino che, in quel momento, peraltro, non era all’orizzonte, in quanto per fare un vaccino non sperimentale ci vogliono dai 2 ai 5 anni e le altre pandemie (del 1958, del 1969 e la ‘Spagnola’ del 1919) si erano esaurite da sole dopo 24 mesi.

Per questa scelta il dott. Anders Tegnell è stato a lungo criticato da molti dei nostri media anche se in patria pochi (tra cui il Re) hanno messo in discussione questa strategia. The New England Journal of Medicine ha pubblicato l’ennesimo studio che conferma come l’immunità naturale sia più efficace di qualsiasi vaccino. Chi ha avuto il contagio ha una protezione del 50,2%, mentre chi ha avuto l’infezione e fa (per es.) due dosi di Pfizer ha una protezione simile (51,7%). Gli svedesi avendo sviluppato nel 2020 un contagio di massa e si sono quindi protetti più delle altre popolazioni. Una conferma viene oggi dai dati sulla mortalità in eccesso che anche secondo l’OMS è il miglior indicatore per valutare il successo delle strategie anti-Covid.

L’OMS ha dichiarato che, a causa dei diversi sistemi di classificazione dei decessi, l’unico indicatore attendibile è l’eccesso di mortalità e l’Eurostat (Istituto di statistica europeo) pubblica on line i dati disponibili per chiunque li volesse elaborare.
La mortalità in eccesso è in assoluto il dato più significativo perché prescinde da come sono stati classificati i decessi dovuti alla Covid che, come sappiamo, hanno dato luogo in molti Paesi ad aspre discussioni perché in alcuni casi sono stati considerati morti per Covid, persone che invece erano morte per tutt’altre ragioni ma avevano avuto un tampone positivo o al momento dell’ingresso in ospedale o al momento del decesso.
E’ anche il caso dell’Italia che oggi dichiara in uno studio congiunto ISS-ISTAT che il 10% dei morti “per Covid” erano in realtà morti “con Covid” ma per altre ragioni, percentuale che secondo alcuni virologi ha raggiunto l’80% nel 2022.

I dati della mortalità in eccesso prescindono da tutto ciò e considerano quanti morti ci sono stati in quel periodo rispetto ad un periodo “normale” (media 2016-2019). Il confronto dei morti per Covid tra singoli paesi è meno attendibile in quanto incidono molti fattori: percentuale di anziani, densità abitativa, strategie di contrasto (per es.: domiciliari o meno), efficienza del singolo sistema sanitario (posti letto in area medica e terapia intensiva, numero di sanitari ogni 100mila ab.,…) e anche la classificazione degli stessi decessi. Ecco perché la comparazione per ciascun paese con la mortalità del periodo pre-Covid (2016-2019) è la più significativa.
Ed è infatti il criterio assunto anche (da tempo) dal nostro Istituto Europeo di statistica. Si pensi solo al fatto che un paese avrebbe potuto essere bravissimo nel contrastare la Covid ma ha trascurato di curare (e operare) altri malati gravi e/o oncologici.
La mortalità in eccesso cattura tutte queste variabili ed è quindi di gran lunga l’indicatore migliore e, da tale indicatore, la Svezia esce come il paese migliore insieme a Norvegia, migliore anche degli altri due vicini nordici Danimarca e Finlandia che hanno una minore densità di popolazione. Non bisogna infatti dimenticare che Stoccolma (la capitale della Svezia) ha una densità abitativa doppia di quella di Roma. Compito della scienza è approfondire in base a dati reali e non per narrazioni di parte. Un esempio di come l’informazione in una democrazia sia importante se corretta.

Un indice che non è influenzato dalle notevoli differenze tra Paesi tra cui la percentuale di anziani (per esempio l’Italia aveva 1.050 decessi per 100mila abitanti contro i 780 della Svezia nel periodo pre-Covid). In una fase di emergenza occorre infatti considerare molti aspetti tra cui i danni che un eccesso di attenzione alla Covid possono determinare nelle cure per altre gravi patologie. Istat e Agenas oggi ci dicono che nel 2020 i ricoveri in Italia sono diminuiti di 1,3 milioni (-20,1%; -24,5% al Sud) nei reparti ordinari e del -29,4% in day hospital creando non solo enormi problemi di cura per i malati di altre patologie e rinvii di operazioni e prevenzioni, ma anche molti decessi aggiuntivi.

Ebbene nel periodo da marzo 2020 a dicembre 2020 (primi 10 mesi della pandemia), la Svezia ha avuto una mortalità in eccesso rispetto al suo standard normale (2016-2019) di +8,5% a fronte di +17% dell’Italia, quindi la metà.
La Svezia fu però criticata, nonostante fosse sotto la media Europea, in quanto i 3 paesi limitrofi (che avevano adottato misure restrittive, anche se non come l’Italia, anzi 2 di essi -Norvegia e Finlandia- non hanno mai raccomandato mascherine all’aperto né fatto forti restrizioni dopo il primo lockdown) avevano avuto una mortalità minore: Norvegia +0,2%, Danimarca +2,4%, Finlandia +3,5%. Solo l’Olanda andava peggio (+12,5%). Era quindi comprensibile che ci fossero critiche verso una strategia che produceva da un lato meno danni alle libertà e all’economia ma, dall’altro, più morti (almeno nel confronto coi 3 paesi limitrofi).

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Ma Tegnell, a differenza di uno spaventato Boris Jhonson (un politico che ha cambiato linea), ha mantenuto ferma la sua scelta, forte delle sue conoscenze medico-scientifiche, e da gennaio 2021 a luglio 2022 i fatti gli hanno dato ragione.

Mentre la Svezia ha avuto un crollo nella mortalità, i Paesi confinanti (per non dire degli altri) hanno iniziato ad avere una forte crescita della mortalità. I dati relativi agli ultimi 19 mesi (appunto da gennaio 2021 a luglio 2022) sono eloquenti: Svezia +0,9%, Norvegia +5,8%, Danimarca +7,3%, Finlandia +8,7%, (per memoria Italia +9,8% e media Europa +12,2%).
Questa minore mortalità dal gennaio 2021 in poi ha fatto si che nell’intero periodo della pandemia (da marzo 2020 a luglio 2022) la Svezia fosse il paese con la più bassa mortalità (+4%) insieme alla Norvegia (+3,8%) e probabilmente a fine 2022 la sua mortalità sarà minore anche di quella della Norvegia.

Arrivati i vaccini nel gennaio 2021 la Svezia ha vaccinato come tutti (anche se non ha imposto l’obbligo “di fatto” come l’Italia con l’introduzione del green pass al lavoro e per gli studenti e le multe). Avendo tutti i Paesi usato i “vaccini”, tale variabile non inficia il confronto (per memoria in Svezia sono vaccinati il 10% in meno dell’Italia).

Come mai è accaduto questo cambiamento dal 2020 al 2021?
L’ipotesi più probabile è quella (sostenuta dal dott. Anders Tegnell). E cioè: poiché la pandemia sarebbe stata lunga (almeno 24 mesi), in mancanza di un vaccino efficace era conveniente un contagio di massa delle persone sane (proteggendo i fragili e gli anziani) perché avrebbe prodotto una diffusa immunità naturale nella popolazione giovanile e adulta. E così è stato.
Il fatto che oggi i virologi si dividano tra loro molto più di un anno fa è anche frutto di una riflessione su quanto avvenuto nella realtà, oltre al fatto che oggi Omicron è 44 volte meno pericolosa di Delta.

Una conferma di quanto avvenuto in Svezia viene anche dagli altri paesi europei: chi è stato colpito poco nel 2020 ha poi avuto forti incrementi di mortalità nel 2021 (e viceversa).
Ciò è avvenuto anche nelle province italiane. Le più colpite nel 2020 con una altissima mortalità in eccesso (Bergamo +60,6%, Piacenza +37,2%; media Italia +15,6%), hanno poi avuto nel 2021 un crollo di mortalità in eccesso (Bergamo +2%, Piacenza +0,4%), mentre al contrario le province che avevano avuto pochissimi decessi nel 2020 (Reggio Calabria +3,1%, Siena +1,4%) hanno poi avuto nel 2021 maggiori e alti livelli (Reggio C. +13,4%, Siena +6,7%). Anche Ferrara che nel 2020 aveva avuto quasi la metà dei morti in eccesso della media nazionale (7,9% vs 15,6%), nel 2021 ha raggiunto la media nazionale (9,8%).
A conferma che i Paesi e le province dove il contagio si era maggiormente diffuso hanno sviluppato una sorte di immunità naturale nel 2020 che ha poi prodotto nel 2021 e 2022 minori ricoveri e decessi. Del resto oggi tutti gli studi confermano che l’immunità naturale acquisita dopo una guarigione vale come due dosi di vaccino. In sostanza gli svedesi nel 2020 si sono “immunizzati” senza vaccino, lasciando correre il contagio.

Se l’Italia avesse adottato la strategia “svedese” i morti sarebbero stati nel 2020, anziché 102mila, 54mila e nel 2021 anziché 54mila solo 4.750 (10 volte meno).

Può sembrare paradossale, ma l’abc della genetica spiega che l’immunità naturale è da sempre più efficace di un vaccino. Tra l’altro, quello che è stato ottenuto, dati i tempi ristretti, è un vaccino sperimentale e a bassa efficacia (comincia a ridursi dopo 4-6 settimane), almeno per giovani e adulti, dove non c’è più certezza che (come avviene per gli anziani) i benefici superino i rischi.

Ci saremmo risparmiati danni ingenti all’economia e all’occupazione (un milione di licenziati), molte limitazioni alle libertà, molti error tra cui l’invio di anziani positivi nelle RSA, isolati da ogni parente (con un terzo in più di decessi solo per solitudine) e quello dei funerali senza parenti, lo stress di 700mila sanitari con pronto soccorso e ospedali super intasati dalla mancanza di cure domiciliari (sconsigliate ai medici di base) e un clima di divisione sociale senza precedenti creato con il capro espiatorio dei no-vax, accusati di essere “untori”, scoprendo poi che anche i vaccinati potevano contagiare e contagiarsi.

Il successo della Svezia non è confermato solo da Eurostat , ma da Economist, World Mortality Dataset e OMS.
I media evitano di parlare oggi della strategia svedese in quanto dovrebbero ammettere di aver veicolato informazioni errate, anche se ogni tanto qualcuno cerca di sviare i lettori come nel caso della grande rilevanza data dai nostri media in aprile scorso ad uno studio (Evaluation of science advice during the COVID-19 pandemic in Sweden) pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature, che demoliva la strategia della Svezia e che in realtà non è stato mai pubblicato su Nature, ma su una rivista online e in open access, “Humanities and Social Sciences Communications”

Nel corso della pandemia sono usciti circa 300mila studi da parte di esperti e “scienziati” che hanno sentenziato tutto e il contrario di tutto. Come ha detto Ioannidis, uno dei maggiori epidemiologici al mondo [leggi Qui]. Chi ci ha rimesso di più in questo periodo è stata la scienza (quella vera), in quanto molti studi sono sospettati di finanziamento aziendale e quindi non totalmente al di sopra degli interessi commerciali e la stessa ricerca universitaria è finanziata spesso da budget privati.

Ora esce in inglese il libro di Johan Anderberg “The Herd” (Il gregge), Scribe Publications, dove si racconta questo caso di successo e di un famoso ammonimento paterno inviato nel 1648 dallo statista svedese Axel Oxenstierna per rassicurare il figlio preoccupato di reggere i negoziati con i leader stranieri: An nescis, mi fili, quantilla prudentia mundus regatur (Non sai, figlio mio, con quanta poca saggezza è governato il mondo?).

Festival Internazionale Ferrara: sul post del Senatore Alberto Balboni

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L’intervento censorio del senatore Alberto Balboni sul Festival Internazionale Ferrara (vedi il post del 3 ottobre sulla sua pagina Facebook) mi ha provocato non poco. Quasi tutti gli anni, a partire dal 2007, ho partecipato al Festival negli ultimi giorni di  Settembre ed inizio Ottobre.
La nostra ONG (www.journalistenhelfen.org), di cui sono segretario generale, nata per aiutare i giornalisti in tutto il mondo quando i loro paesi sono in guerra, o loro stessi si trovano in carcere, è in contatto con tantissimi giornalisti africani, europei, asiatici, americane, ucraini, bielorussi, russi ecc.
Abbiamo avuto anche contatti diretti con Anna Politikowskaja, assassinata qualche anno fa; in sua memoria la redazione di Internazionale ha dedicato per tanti anni un premio speciale.
Il Premio ed anche tutto il Festival Internazionale era, è, e speriamo sarà anche in futuro, un patrimonio culturale della città di Ferrara.
Con la posizione del senatore Balboni contro il Festival, Ferrara la città amata in tutto il mondo per la sua storia rinascimentale, ma anche per le opere di Giorgio Bassani e Michelangelo Antonioni (artisti ambedue aperti in tutti i sensi al mondo), diventa un luogo di provincia chiuso in se stesso. Ferrara first..!
Detto da un Non-Ferrarese che ama molto la città per la sua identità locale, ma anche per la sua apertura verso l’altra Italia e verso il mondo, Ferrara ha perso molto durante gli ultimi anni.
Un po’ durante gli anni governati dalla Sinistra, ma sopratutto da quando una Destra confusa, populista, senza una visione urbana dirige la città. Un negozio dopo l’altro chiude, uno streetbar o fast food-location apre e dopo alcune mesi chiude a sua volta.
Ovviamente non tutto è colpa della Destra dei Fabbri, Lodi, Balboni e company. Ferrara non è fuori dal mercato globale, che impone sacrifici anche alla cultura urbana in tutto il mondo.
Ma si possono fare anche piccoli progetti innovativi per difendere la cultura umana, urbana, storica. Su tutto questo si poteva parlare, discutere, talvolta anche litigare, durante il Festival Internazionale.
In passato ho partecipato a manifestazioni dove erano presenti giornalisti del Guardian, del New York Times, del El Pais o della rivista Spiegel.  Ogni anno la liberta di stampa a livello mondiale ha trovato ospitalità per tre giorni a Ferrara.
Un sogno per tutti quei partecipanti, che venivano da paesi senza quella esperienza di democrazia‚ di liberta di stampa e difesa dei diritti umani, e da tanti anni ammirato da militanti, elettori e dirigenti di partiti che sono stati più volte al governo in Italia.
Saranno davvero Las Vegas, Dubai, Disneyland i modelli per il futuro di Ferrara?
Sarebbe un incubo…

Parole e figure /
L’amico Gattolaio

 

Sgattarabam! E il gatto è fatto, su misura per ogni bambino.

Una strada un po’ storta, le auto parcheggiate in doppia fila (a Roma ne sappiamo qualcosa…): qui c’è una bottega colorata di un signore strambo che ha (e fa) tanti gatti. Il campanello suona in continuazione, allegro e tintinnante, un viavai incredibile di bambini, piccoli clienti alla ricerca del gattochefaperloro. Il Gattolaio è l’unico essere umano al mondo in grado di soddisfare le richieste di ogni bambino.

Eccoci allora entrare, dalla vetrina cui si sta appiccicati come a quella di una cremosa pasticceria, nel mondo fatato di Stella Nosella e Evelise Obinu con il loro bellissimo Il Gattolaio, Terre di Mezzo editore, nuovo di zecca (uscito in libreria a settembre). Stella, giovane autrice veneta di narrativa per l’infanzia, ne scrive i testi, Evelise, sarda, li illustra.

L’attrazione per i numerosi barattoli multicolori allineati armonicamente sulle mensole è immediata. Si sente il profumo di borotalco, di crocchette e di rose, l’erba gatta ci sembra uscita da una scatola delle meraviglie. Ci sono tutti gli ingredienti per d(f)are il gatto giusto a ciascun bambino, il Gattolaio, che si aggira per la sua bottega con un gatto nero in testa mentre un altro lo osserva giocherellando con una matita, è un vero maestro in questo.

Servono poi pizzichi di morbidezza, di furbizia, un poco anche di caratteraccio, colori, musetti di tante forme e gommini diversi, qui non manca davvero nulla.

Gatti piccoli, medi, grandi, pelosi. Mille creazioni speciali, ogni volta diversi. Nessuno è mai uscito scontento da quel luogo incredibile, tanto meno a mani vuote. Almeno non fino a quel giovedì 23. Un bambino entra quatto quatto, con il suo foglietto scarabocchiato, spiegazzato e stropicciato: sbavature, cancellature, correzioni e revisioni senza fine. Una grande indecisione? O forse segno di grande impazienza? Un gatto grande ma non troppo, ma decisamente non piccolo, peloso ma non troppo, con la coda lunga e le orecchie arricciate, bla bla bla… insomma non UN gatto qualsiasi ma il SUO gatto.

Serve più tempo del previsto ma voilà, sgattarabam! Un gatto con il corpo grande e le zampe corte, un orecchio dritto e uno arricciato… un gatto molto molto strambo, tenuto conto delle tante indicazioni imprecise e confuse…

Il bambino resta perplesso, prima è indeciso ma poi diventa triste, davvero tanto, piange e scappa via singhiozzando. Aveva sognato un gatto perfetto, lo volevo come il suo Pallino. Il gatto strambo rimane lì impietrito, il Gattolaio è confuso, non gli era davvero mai successo di non accontentare un giovane cliente. Che disastro!

Ma il gatto si era già affezionato a quel bambino. Allora forza, a correre lungo le vie per ritrovare quell’amico. Quel bambino era alto ma non troppo, con le unghie né lunghe né corte, ma della misura giusta per fare i grattini, quelli che lui adorava. Pareva una promessa di lunghi pisolini insieme, sapeva di latte e di prati, era un bambino proprio come lo voleva lui! Al bimbo meravigliato che quel morbido e tenero animale lo avesse ritrovato, scappa un sorriso e una carezza, se lo stringe e se lo porta a casa. Due giocherelloni si ritrovano.

Il Gattolaio è felice: “forse non aveva ridato a quel bambino il suo gatto, ma aveva dato a qual nuovo gatto il suo bambino”. Finale delizioso e delicato. Fra coccole e fusa.

Una favola che mischia umorismo e tenerezza e racconta quanto sia difficile e importante accogliere i cambiamenti, e quanto imprevedibili siano i percorsi dell’amore.

Stella Nosella, Sebastians Chronicles foto Veronica Santellan

Stella Nosella è sceneggiatrice e autrice di programmi TV, con i due romanzi d’esordio dedicati ai bambini, Sebastian’s Chronicles, i libri che non esistono (Capponi Editore, 2018) e Sebastian’s Chronicles, la leggenda del lago sotterraneo (Capponi Editore, 2019), il successivo romanzo storico, sempre dedicato ai bambini, La Bambina dal nastro rosso (L’Orto della Cultura, 2019), candidati tutti al Premio Strega Ragazzi 2019-20, l’autrice si è guadagnata un posto nel panorama italiano degli autori per ragazzi. Con Verde Speranza, illustrato da Marianna Balducci (Orto della Cultura) sostiene la Croce Rossa di Amatrice. È il direttore artistico del festival di letteratura per bambini e ragazzi PortoImmaginario (Portogruaro-Venezia) e, nel 2021, approda alla casa editrice Orto della Cultura come responsabile editoriale ragazzi Italia – Estero.

Evelise Obinu

Evelise Obinu, nata a Cagliari, è illustratrice, bibliotecaria esperta in processi laboratoriali e formazione rivolti a tutte le di età con particolare attenzione alla fascia 0-3 anni. La collaborazione con la Galleria Comunale d’Arte del Comune di Cagliari le ha permesso di studiare e costruire connessioni tra arte moderna e contemporanea e letteratura per l’infanzia. Si è occupata di processi creativi e artistici all’interno di un’equipe multidisciplinare rivolta alla salute mentale. Il Gattolaio è il suo primo albo illustrato.

 

 

 

 

 

Stella Nosella, Evelise Obinu, Il Gattolaio, Terre di Mezzo, 2022, 40 p

Sabato15 ottobre: 24 ore per Assange
Un programma variegato e ricchissimo, 50 città coinvolte

 

Mancano meno di due giorni alla 24 ore per Julian Assange del 15 ottobre e la risposta arrivata da attivisti, poeti, registi, musicisti, pittori, giornalisti, film-makers e politici è entusiasmante. Un chiaro segno che tanta gente in tutto il mondo ha capito che la posta in gioco non è solo la liberazione di un giornalista coraggioso e perseguitato, ma la libertà di stampa e i diritti di ognuno di noi, primo tra tutti quello a essere informati.

Il programma si preannuncia variegato e ricchissimo: sono previsti eventi – presidi, flash mob, concerti, proiezione di film e documentari di approfondimento e denuncia, dibattiti – interviste – tra cui spiccano quella a Noam Chomskya Stella Assange, Fidel Narváez, l’ex console dell’Ecuador che ha accolto Assange nell’ambasciata a Londra e a John Rees, organizzatore della catena umana che l’8 ottobre a Londra ha circondato il Parlamento per chiedere la liberazione del fondatore di Wikileaks – e moltissimi video con canzoni, poesie e performance artistiche. Tutte queste attività avranno uno spazio nella diretta – necessariamente breve, per lasciare posto a tutti – con un collegamento emozionante che mostrerà quel mondo solidale e generoso di cui Julian Assange è un simbolo.

Eventi si svolgeranno in oltre 50 città del mondo (vedi qui il calendario e la mappa). Ecco alcuni esempi. Nel Regno Unito gruppi di attivisti manifesteranno a Piccadilly Circus, a Londra e davanti alla prigione di Belmarsh, dove Julian Assange, appena risultato positivo al covid, è rinchiuso da oltre tre anni, mentre a Manchester si organizzerà un evento artistico. In Australia è previsto un presidio a Sydney, davanti all’ufficio del primo ministro e collegamenti con l’amico di Julian Niraj Lal da Melbourne e con il regista e poeta Kym Staton da Byron Bay. Gli studenti della National Chengchi University di Taipei, a Taiwan, organizzeranno una marcia dal titolo Free Julian Assange. In Spagna sono previsti la proiezione di un film a Barcellona e un presidio nel centro di Madrid. La Francia si unirà con un’iniziativa a Tolosa e il Belgio con un evento a Namur. In Canada un gruppo di attivisti manifesterà davanti al Municipio di Regina, nel Saskatchewan. Dalla Germania arriverà un video della deputata di Die Linke Żaklin Nastić e dal Cile interverrà il deputato umanista Tomás Hirsch, intervistato da Pia Figueroacondirettrice di Pressenza.

A tutto questo si aggiungeranno moltissime città italiane: parteciperanno attivisti di base, giornalisti come Stefania Maurizi del Fatto Quotidiano, Simona Maggiorelli di Left, Francesca Fornario, Dale Zaccaria, Giuseppe Giulietti della FNSI e Vincenzo Vita di Articolo 21, il vignettista Vauro, l’attore Moni Ovadia, il comico Alessandro Bergonzoni, il portavoce di Amnesty International Italia Riccardo Noury, il sindaco di Pinerolo, che ha concesso la cittadinanza ad Assange e il medico e attivista Vittorio Agnoletto.

Lanciamo un appello a tutti quelli che hanno contribuito a costruire con entusiasmo e creatività questa maratona per concentrarsi nei prossimi giorni nella sua diffusione, informando e coinvolgendo il maggior numero di persone. Come abbiamo ripetuto fin dall’inizio, solo la pressione dell’opinione pubblica mondiale potrà salvare Julian Assange dall’estradizione negli Stati Uniti, dove lo attendono un processo iniquo e una condanna a vita. Non possiamo permetterlo!

La diretta del 15 ottobre si potrà seguire a partire dalle ore 9 CET sulle piattaforme: Pressenza ItaliaTerra Nuova Edizioni su YouTube e Ottolina TV su Twitch.

Informazioni in continuo aggiornamento su:

https://www.24hassange.org/it/
https://www.facebook.com/julianassangelibero/

Comitato promotore della 24 ore per Julian Assange
Organizzazioni e testate in ordine alfabetico:

Amnesty International

Articolo21

Atlante delle guerre

Comitato di solidarietà con Leonard Peltier di Milano

Ecomapuche

Free Assange Italia

Italia che Cambia

Left

L’indipendente

Media Alliance

Periscopio

Pressenza

Presidio Europa NoTav

Terra Nuova

transform! Italia

Sostenitori di Julian Assange

Sovranità Popolare

Unimondo

Voci d’Europa: dal gregoriano ai giorni nostri.
Concerto corale di oltre 40 voci nella Chiesa di Santo Stefano

 

Venerdì 14 ottobre alle ore 21, nella chiesa di Santo Stefano (via Cortevecchia 40) si terrà il concerto corale “Voci d’Europa: dal gregoriano ai giorni nostri”, che conclude l’esperienza del progetto per coristi e direttori organizzato negli ultimi mesi dal Dipartimento di teoria e analisi, composizione e direzione del Conservatorio Frescobaldi di Ferrara. Si esibiranno Officina delle Voci e dei Direttori, la Classe di Direzione di coro e Composizione corale e il Coro Ad Maiora di Bologna di Michele Napolitano.

Sono in programma le musiche di J. S. Bach, B. Bettinelli, M. Baumann, T. L. De Victoria, R. Dubra, E. Elgar, C. Gentilini, P. Hindemith, J. MacMillan, F. Mendelssohn Bartholdy, A. Pärt, C. Saint-Saëns e I. Stravinskij. L’ingresso è gratuito.

Michele Napolitano, docente di Direzione di coro e Composizione corale del Conservatorio Frescobaldi di Ferrara

Il Coro Ad Maiora è formato da ragazzi tra i 20 e i 35 anni e, proprio come una piccola e artigianale “bottega della voce”, coltiva il suo amore per la coralità attraverso lo studio, prova dopo prova, di brani di epoche e stili diversi, dal medioevo ai giorni nostri, dal repertorio colto alla musica etnica.
Al concerto partecipano oltre 40 coristi e si alterneranno 8 direttori, tutti allievi, oltre al docente, Michele Napolitano. “Tra questi – spiega il docente – 5 provengono dal percorso di quest’anno di Officina dei Direttori, e gli altri 3 dalla Classe di Direzione di Coro e Composizione Corale del Conservatorio. Sono previsti anche due brani a cori uniti, sempre diretti da allievi, per un finale dal sicuro bell’effetto?”

Il Coro Ad Maiora

Speciale Parole a capo
Tre poesie inedite per Ultimo Rosso

Cecilia Bolzani (Ferrara) del Collettivo Ultimo Rosso

LEGGERA NEL VENTO
Dedicata a Mahsa Amini

Un ciuffo di capelli
Sfuggito al velo
Una giovane donna
Se ne va nel vento.
Il suo sorriso
Il suo coraggio
Il suo futuro
Se ne vanno nel vento.
Una mano di pietra
L’ha redarguita
Colpita
Violata.
Rintoccano
Quei colpi
Svegliano la rabbia
Chiamano
Ogni donna
Leggera
Libera
Sincera
Nessun velo
Nessuna legge
Lei ora è nel vento
Lei è il nostro vento.
(Cecilia Bolzani )

 

Rita Bonetti (Bologna) del Collettivo Ultimo Rosso

STREET POETRY

Street Poetry
ricoprite di poesia
i portici imbrattati di sgorbi
i pali dei lampioni feriti
i muri dei cessi pubblici
i cestini stradali
rivestite di rime
le insegne sbiadite dei bar
le saracinesche dei negozi morti
le colonnine dei carburanti fai da te
i portoni dismessi
seminate di versi
i banconi dei take away
i tavolini degli aperitivi
gli ingressi degli alberghi a ore
gli uffici interinali
appendete canti
alle grucce del lavasecco
ai fili dei terrazzi dove nessuno stende più
agli alberi dimenticati delle periferie
alle altalene mute
gettate nell’aria semi di parole
fate risuonare l’alfabeto
di melodie vergate nei diari dell’anima!
(Rita Bonetti)

 

Pier Luigi Guerrini, presidente del Collettivo Poetico Ultimo Rosso

AUTUNNO

Cadono lentamente
guardandosi attorno
le foglie
alla fine della loro vita
cadono le bombe
con occhi ciechi
alla fine della loro morte
(Pier Luigi Guerrini)

Pubblichiamo alcune poesie inedite lette a Ferrara l’8 ottobre scorso al Reading di poesia nell’ambito della Seconda Edizione di Ultimo Rosso

Poesia e Musica: la Festa di Ultimo Rosso 2022 con gli amici della band Statale 16

Tutti gli scatti del servizio fotografico di Ultimo Rosso 2022 sono di Valerio Pazzi

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopioPer leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

A Ferrara la prima nazionale di “The Tree” della Carolyn Carlson Company 

 

“Il fuoco è l’elemento ultra-vivente. È intimo ed è universale. Vive nel nostro cuore. Vive nel cielo. Sorge dalle profondità della materia e offre sé stesso come un amore. Oppure può riscendere nella sostanza e nascondersi lì, latente e represso, come l’odio e la vendetta. Tra tutti i fenomeni, è davvero l’unico a cui possono essere attribuiti così nitidamente i valori opposti del bene e del male. Brilla in Paradiso. Brucia all’Inferno. È dolcezza e tortura […]. Può contraddirsi: dunque, è uno dei principi per comprendere l’Universo.”
Gaston Bachelard, estratto da La psicoanalisi del fuoco, 1938

Grande attesa al Teatro Comunale “Claudio Abbado” di Ferrara per la prima nazionale di The Tree (Fragment of poetics on fire) di Carolyn Carlson, venerdì 14 ottobre alle ore 20.30, nell’ambito del Festival di Danza Contemporanea 22.

L’icona della danza porta nella città estense la sua ultima meravigliosa creazione, The Tree, una riflessione poetica sull’umanità e la natura sull’orlo del naufragio quasi inevitabile, che, dopo Eau, Pneuma e Now, chiude il ciclo delle coreografie ispirate a Gaston Bachelard (1884-1962), grande filosofo della scienza francese.

Partendo da Des Fragments d’une poétique du feu, opera postuma di Bachelard (1988), la Carlson ha scelto il prorompente potere poetico e simbolico delle fiamme e, più in generale, la complessità degli elementi naturali come originale ispirazione per la sua nuova creazione. Si rinnova poi la collaborazione con il light designer Rémi Nicolas (dopo Hidden, Inanna e Dialogue with Rothko), che per The Tree crea paesaggi immaginari che invitano a un immersivo viaggio interiore e alla contemplazione. L’artista visivo Gao Xingjian sublima le scene con i suoi dipinti astratti realizzati con la china e proiettati in diverse sequenze.

Nell’unione tra il virtuosismo dei ballerini e la visione onirica di Carolyn Carlson, The Three è una dichiarazione d’amore potente e vitale nei confronti di una natura sull’orlo del collasso, nella speranza che, come una Fenice, possa rinascere dalle proprie ceneri. Nulla di più attuale, peraltro, e che sarà possibile solo se l’Uomo ridisegnerà propriamente il proprio ruolo di ospite della Terra.

“Non siamo estranei all’Universo; così come i cambiamenti delle stagioni governano ogni creazione, noi siamo semi che si evolvono in cicli, nel ritmo”, spiega Carolyn Carlson. Siamo un tutt’uno, aggiungerei, una fusione cosmica che ci rende inseparabili dalla Natura stessa, che necessita di profonda empatia e rispetto.

“I dipinti di The Tree”, continua Carolyn,sono tante visioni metaforiche della natura, effimere, misteriose e intangibili, poste su diversi livelli, scoperte a poco a poco …, con l’idea di fondo che anche noi, come la Natura, ci trasformiamo. Questi sogni a occhi aperti vogliono ricordarci i paesaggi e figure mitologiche nordiche dei secoli passati, in particolare quelli dell’epopea finlandese Kalevala, fiorita a partire da una ricchissima tradizione orale le cui radici affondano in epoca preistorica.

Costumi bianchi, neri, l’energia di corpi scolpiti, braccia scattanti che paiono i rami di alberi, una musica potente che avvolge e dona un ritmo sostenuto a respiri che volgono all’unisono con una natura ferita che aspetta e che non ha più tempo.

I nove interpreti rappresentano gli istinti primari da cui ci siamo irrimediabilmente e terribilmente allontanati: la consapevolezza senza tempo dell’armonia incessante nel vuoto lasciato dai nostri sospiri, i fuochi interiori che alimentano e consumano l’anima umana, la fiamma universale dell’amore. Siamo intimamente e universalmente legati alla natura e agli elementi, siamo gli alberi, il vento, l’acqua, la terra, l’aria, le stelle, il fuoco, la cenereSiamo l’armonia del tutto”. E in pace e armonia ci apprestiamo a vedere questo immenso spettacolo.

Teaser video

Crediti artistici – The Tree (Fragments of poetics on fire) – Carolyn Carlson Company

Coreografia e Scenografia: Carolyn Carlson, Assistente coreografica: Colette Malye, Interpreti: Chinatsu Kosakatani, Juha Marsalo, Céline Maufroid, Riccardo Meneghini, Isida Micani, Yutaka Nakata, Alexis Ochin, Sara Orselli, Sara Simeoni; Musiche: Aleksi Aubry-Carlson, René Aubry, Maarja Nuut, K. Friedrich Abel; Luci: Rémi Nicolas, assistito da Guillaume Bonneau; Proiezioni pittoriche: Gao Xingjian; Oggetti di scena: Gilles Nicolas e Jank Dage; Costumi: Elise Dulac e Atelier del Théâtre National de Chaillot. Grazie a Chrystel Zingiro; Produzione: Carolyn Carlson Company, coproduzione : Théâtre National de Chaillot, Théâtre Toursky Marseille, Ballet du Nord / Centre Chorégraphique National Roubaix Hauts-de-France, Equilibre Nuithonie Fribourg.

Carolyn Carlson è nata in California e si definisce una nomade. Dalla Baia di San Francisco all’Università dello Utah, dalla compagnia di Alwin Nikolais a New York a quella di Anne Béranger in Francia, dall’Opéra di Parigi al Teatrodanza La Fenice di Venezia, dal Théâtre de la Ville a Helsinki, dal Ballet de l’Opéra di Bordeaux al Cartoucherie di Parigi, dalla Biennale di Venezia a Roubaix, è una viaggiatrice instancabile, sempre in cammino per sviluppare e condividere il suo universo poetico. Approdata in Francia nel 1971, con Rituel pour un rêve mort, firma il suo manifesto poetico, con un approccio che da allora non ha più abbandonato: una danza volta alla filosofia e alla spiritualità. Al termine “coreografia”, preferisce quello di “poesia visiva” per descrivere il suo lavoro. Ha realizzato oltre cento pièce, molte delle quali costituiscono le pagine più importanti della storia della danza, da Density 21,5 a The Year of the horse, da Blue Lady a Steppe, da Maa a Signes, da Writings on water a Inanna. Nel 2006, la Biennale di Venezia le ha conferito il primo Leone d’Oro mai assegnato a un coreografo. È Comandante delle Arti e delle Lettere e Ufficiale della Legion d’Onore. Fondatrice dell’Atelier de Paris-Carolyn Carlson alla Cartoucherie nel 1999, è stata, con la sua Carolyn Carlson Company, artista associata al Théâtre National de Chaillot dal 2014 al 2016. Nel 2017, dà vita a nuove forme di creazione, tra cui una mostra e un lungometraggio danzato.

Crediti fotografici: foto di scena © Frédéric Iovino / foto ritratto © Jean-Louis Fernandez 

Così andava il mondo, in molte fabbriche

 

uella mattina andò al lavoro con una copia dell’Unità, il giornale del Partito comunista italiano, infilata nella tasca dei pantaloni. In quella fabbrica, lo sapeva, tutti avrebbero notato il suo gesto. I padroni erano due fascisti, uno dichiarato e tracotante, l’altro subdolo e vendicativo, che parlava poco e non ti guardava mai in faccia. Due che si circondavano di un gruppo di yesmen che non li contraddicevano mai. Gli altri operai e impiegati tacevano e subivano, oppure facevano un po’ di resistenza passiva, obbedendo il più lentamente possibile agli ordini dei capi.

Entrò nell’ufficio tecnico con il quotidiano che posò sul tavolo. Aveva di fronte un tecnigrafo e un foglio da disegno. Indossò un camice bianco e stette a pensare un po’.

Aveva da poco cominciato a frequentare la sezione locale del PCI e ad assistere alle riunioni che si tenevano il tardo pomeriggio, a fine lavoro, e soprattutto di sera, frequentate da militanti anziani e da operai e operaie stanchi e assonnati.

C’era uno, un benzinaio, che pronunciava interventi infiammati; un altro che sillabava le parole come se cesellasse il discorso, una donna che si esprimeva un po’ in dialetto e un po’ in italiano… Giovani pochissimi. Qualche apprendista dallo sguardo un po’ vacuo, una ragazza che lavorava da parrucchiera, un’altra impiegata in un magazzino frigorifero che stavano zitti e ascoltavano.

Lui si sedeva fra i giovani e qualche volta interveniva, tentando ragionamenti nei quali finiva per perdersi. Il funzionario che presiedeva la riunione lo ascoltava con un’espressione di disappunto. Lui non era molto in linea, come si diceva allora, e lo sapeva. Non era molto devoto al comunismo in versione emiliana, che spesso, almeno dalle sue parti, gli sembrava non indicare altre strade, nuove idee per cambiare la società, amministrando l’esistente. Le riunioni si concludevano quasi sempre con una sorta di cerimonia rituale, con qualche indignata frase contro i padroni e il capitalismo; ci si salutava e alla prossima.

Si riscosse e cominciò a disegnare sul foglio che aveva davanti. Doveva completare le fasi lavorative di un pezzo, per ognuna delle quali aveva rilevato i tempi. Una mansione odiosa, il rilevatore: quando andava in officina, gli operai controllati rallentavano apposta i loro ritmi. Lui se ne accorgeva ma non diceva nulla e segnava i tempi allungati, mandando dentro di sé il taylorismo a farsi fottere.

Disegnava e a un certo punto cominciò a cantare, a mezza voce. Così, d’acchito. L’impiegata, che aveva la scrivania di fianco alla sua, sgranò gli occhi. Cantare, in ufficio, in quella fabbrica? Dove se ci si fermava un minuto si veniva apostrofati dal padrone fascista prepotente, con voce stentorea, alla Mussolini?

Beh, lui cantava, una versione moderna di una canzone antica, che andava molto di moda. Gli altri dell’ufficio stavano zitti. La ragazza lo fissava, sempre più meravigliata. Fino a quando, da dietro l’ultimo tecnigrafo, sbucò uno dei due padroni, quello che non guardava mai in faccia, e gli passò davanti, senza dire nulla.

Passarono alcune settimane e lo licenziarono, senz’altra motivazione di aver avuto un incidente sul lavoro: aveva toccato una presa elettrica scoperta collegata ad una linea a bassa tensione; per fortuna la scarica lo aveva sbalzato in terra, dentro uno scatolone pieno di lana di vetro. Se la cavò con una bruciatura ad un dito.

Si aprì un’indagine, il pretore comminò una forte multa all’azienda. E dopo pochi giorni dagli uffici un dirigente venne a dirgli che non avevano più bisogno di lui, che non se ne facevano nulla della sua intelligenza.

Nessuno protestò, nessuno intervenne a sua difesa, neanche il sindacato a cui era iscritto.

Più o meno così, negli anni Sessanta, in molte fabbriche girava il mondo.

Racconto inedito, proprietà dell’autore

Speciale Parole a capo
Le ragazze e i ragazzi di Ultimo Rosso (seconda parte)

Nessuno ascolta

Quante orecchie deve avere un uomo
prima che ascolti la gente piangere?
ci suggerisce tristezza,
apatia,
egoismo.
Come chi abbandona un figlio.
Vicino o lontano,
il pianto non è stato ascoltato.
È come la guerra:
un capo dittatore,
il pianto delle vittime.
È come chi subisce un torto
senza ricevere alcuna assistenza.
Tu urli, piangi, sempre di più,
sempre più forte.
Per amore, o per reclamare la tua libertà.
Ma nessuno ti sente, nessuno ti ascolta.

(di Marianna Volta 3G)

 

Poesia 

La risposta se ne va nel vento
tanto leggera quanto importante
come la vita di molti,
spezzata, dal brusco fare della guerra
e del suo bellico commento
La risposta se ne va nel vento
come la pesante palla che dall’empireo vien flottante richiamata dagli stolti,
presto colpirà i soldati e i cadaveri a terra trasformando la Roccia in un piccolo frammento
Pace non trovo e non ho da far guerra,
tra sospiri, urla e pianti
a chi ha perso le speranze,
porgo calma, amore e conforto con questi miei canti

(Elena Badiale 3^G)

 

per quanto tempo

per quanto tempo si dovrà fare finta che sia tutto ok
prima di accettare la verità?

per quanto tempo si dovrà mostrare la parte migliore di noi
prima di essere accettati per ciò che si è?

quante guerre ci dovranno essere
prima che il mondo sia in pace?

La risposta amico mio vola via nel vento, la risposta, vola via nel vento

per quanto tempo dovrà esistere la discriminazione
prima di capire che siamo tutti uguali?

per quanto tempo dovremmo sentirci dire che non siamo abbastanza
prima di sentirci meglio?

per quanto tempo dovremo fare finta di non sentire nulla
prima di cadere a terra?

La risposta amico mio vola via nel vento, la risposta, vola via nel vento

(Francesco Mancini 3G)

 

Quante volte 1

Quante strade deve percorrere un uomo
prima di esser chiamato uomo?
Quante lacrime dal suo maturo viso sgorgheranno prima di poter essere felice?
Quante volte verrà giudicato lo stesso,
per una sconfitta fra mille vittorie?
Quante volte cancellerà se stesso
per reinventarsi in nuove storie?
E una donna?
Quante volte piangerà ma
mostrerà un sorriso?
Quante volte coprirà con il trucco
le belle smagliature del suo viso?
Quante volte verrà soggiogata
da un bell’uomo con la doppia faccia girata?
In questo mondo non importa chi sia,
donna o uomo, non basta più una poesia
Lacrime verran versate
Non badando a gesti ma a parole
Con questi canti spero di far ragionare molte persone
per ricordare che l’uomo non può rifare se stesso senza soffrire
perché lui è sia il marmo che lo scultore

(di Maikol Musacchi 3^G)

 

Quante volte 2

Quante volte devo cadere
prima di trovare la felicità?
Quanti errori commetterà un uomo
Prima di cambiare?
Quante sofferenze deve affrontare un ragazzo
Prima di diventare uomo?
La risposta, amico mio, se ne va nel vento
Quanto tempo manca
Prima della fine di ognuno di noi?
Quanto tempo ci vorrà
Prima che un uomo diventi veramente maturo?
Quanto ci vuole
Prima che un uomo capisca i suoi errori?

(di Andrea Stabellini 3^G)

 

Quanti errori?

Quante disavventure deve subire un ragazzo
Per essere chiamato uomo?
Quanti tramonti vedrà un albero
Prima di morire?
Quanti errori farà un malfattore
Prima di capire?
La risposta, caro amico, sfugge col vento
La risposta, sfugge col vento
Quanti incidenti causerà la nebbia
Prima di sparire?
Quanti incendi appiccheranno i piromani
Prima di cambiare?
Quante persone moriranno
Prima che l’uomo capisca?
La risposta, caro amico, sfugge col vento
La risposta, sfugge col vento.

(di Enrico Da Col 3^G)

 

Resistere a stento

Quante armi bisogna distruggere
per poter lasciare ogni famiglia professare la propria religione?
Quanta rabbia può accumulare un uomo prima di comprendere
i danni che può provocare?
Quanta sofferenza dovranno ancora subire i piccoli paesi prima di riposare?
Quanto dovrà sacrificare un padre prima di vedere i propri figli felici?
La risposta se ne va nel vento
Quanto un ragazzo deve vedere prima di pensare di aver visto tutto?
Quanto cibo dobbiamo ancora sprecare
prima di renderci conto che qualcuno ucciderebbe per averlo?
La risposta se ne va nel vento.
Quanto dovremmo ancora vedere prima di considerare
questo periodo finito?
La risposta se ne va nel vento.

(di Manuel Turco 3G)

 

Sacrificio

Per quanti anni alcuni possono vivere prima che sia concesso loro di essere liberi?
Per quanti anni si può vivere
Prima che sia concesso di essere liberi?
molte persone non hanno la libertà
Non sempre qualcuno ha la possibilità
Per sopravvivere
Sono costretti a fare cose che non piacciono
Questo loro “sacrificio”
Magari
In futuro sarà ripagato.

(di Erika Manzoli 3^G)

 

Scelte

La libertà dell’essere umano
vincolata, ostacolata
da scelte
difficili, tristi
Ma scelte
anche belle
scelte migliori
Ma nonostante, per alcuni
La Morte
sarà libertà…

(di Mia Esposito Marraffa  3^G)

 

Uccello migratore

dopo quanti anni un uomo
imparerà
ad accettare i problemi degli altri?
dopo quanto tempo un uomo
imparerà
a gestire le proprie paure?
dopo quanto tempo potrà un uomo
aver la consapevolezza
di essere egoista?
la risposta amico mio se ne va nel vento
la risposta se ne va nel vento.

per quanto tempo la timidezza dell’uomo
potrà diventare una visione?
dopo quanto tempo un uomo
potrà trovare la forza di avere coraggio?
quanti posti vedrà un uccello migratore nel corso della sua vita?
la risposta amico mio se ne va nel vento
la risposta se ne va nel vento.

(di Federico Barillari 3^G)

 

Un lungo cammino chiamato vita

Per quanto tempo un uomo deve guardare in alto
prima che riesca a vedere il cielo?

Per quanto tempo un uomo si imbatte nei propri limiti
per raggiungere i propri obbiettivi?
Quante volte si cade?
Quante volte si pensa di non farcela?
E ci si rialza.

Quanta forza ci vuole per credere in se?
Tanta…
Ognuno di noi ne ha.
Bisogna riuscire a tirarla fuori,
nonostante le proprie insicurezze,
le proprie paure.
Bisogna crederci
Sempre.

Per quanto tempo un uomo si imbatte nei propri limiti?
Per un lungo cammino
Chiamato VITA…

(di Giulia Marisaldi 3G)

 

Una persona

Può una persona
Spegnere un altro simile
Come una lampadina
In una giornata d’estate?

Può una persona impedirti
Di sognare
E non farti vedere
L’orizzonte del mare?

Non fatevi calpestare
Come le foglie d’autunno

Può una persona
Esser schiava del suo corpo
Come un personaggio
Di un videogioco?

Può un uomo
Accecato dal suo odio
Rendere deserto
Dove prima c’era civiltà?

Non fatevi calpestare
Come le foglie d’autunno.

(di Nunziata Federica 3^G)

 

Vedere il cielo

Per quanto tempo un uomo deve guardare in alto per vedere il cielo
Così infinitamente grande ma così vuoto
Talmente vasto che sembra infinito
Come un foglio di carta si riempie di disegni che sembrano veri
Come una persona cambia umore da un momento all’altro
Di notte esprime il meglio di sé
Mostrando a tutto il mondo le sue stelle
Sembra che scappino all’impazzata
Di tanto in tanto l’uomo osserva il cielo,
Ci parla come se venisse ascoltato
A volte sembra anche che venga davvero ascoltato

(di Christian Tamascelli 3^G*

 

Per alcuni giorni, pubblicheremo le poesie lette a Ferrara l’8 ottobre scorso al Reading di poesia nell’ambito della Seconda Edizione di Ultimo Rosso.
I ragazzi e le ragazze della 3 G dell’Istituto Tecnico Luigi Einaudi – indirizzo Grafica e Comunicazione hanno lavorato in classe ispirandosi al testo “Blowin’ in the wind” di Bob Dylan, coordinati dalla professoressa di Lettere Cecilia Bolzani (anche lei componente del Collettivo P0etico Ultimo Rosso).na poesia a tutti.

In copertina: Le ragazze e i ragazzi della Einaudi al Reading di piazza Municipale (foto Valerio Pazzi)

L’appello della Assemblea Popolare alla ex Gkn:
“Nasce la Società Operaia di Mutuo Soccorso”.

 

Gkn: oltre trecento persone riunite per lanciare la fabbrica pubblica e integrata con il territorio.
Il collettivo di fabbrica: “Nasce la Società Operaia di Mutuo Soccorso. Il nostro appello è a tutto il territorio, ai movimenti di autorecupero, al movimento studentesco, ambientalista, a tutte e tutti coloro che sono scese e scesi in piazza numerose volte a difendere Gkn”

Campi Bisenzio, 9 ottobre 2022.  In uno stabilimento fermo, immobile, sottoposto a un corpo di accordi fatti con Melrose secretato e tutt’altro che trasparente con un’enfasi dell’attuale proprietà su cassa integrazione e svuotamento stabilimento, senza un piano industriale vero e proprio e quel poco che è stato presentato è insufficiente, una comunità di oltre trecento persone e decine di realtà sindacali e di movimento ha dato gambe al progetto della fabbrica pubblica e integrata con il territorio. Molti gli interventi, dalla Mutua Autogestione di Firenze alla Rete Italiana di Economia Solidale, dalla Rete italiana delle fabbriche recuperate al Movimento aziende recuperate argentine. Un atto dovuto considerato che, come sottolinea il Collettivo di fabbrica, “l’attuale proprietà dopo dieci mesi di irresponsabili telenovele” chiarisce il Collettivo, “ha perso il diritto unico di proposta. Continui pure ad approfondire e dettagliare il suo piano industriale. Ma tale piano non è più l’unica proposta in campo. Anzi, chiediamo con forza che cessi immediatamente di fare da tappo a tutte le proposte alternative”.
In un documento presentato all’assemblea, il Collettivo presenta il nuovo piano che tra le diverse direttrici proposte, lancia la nascita di un soggetto giuridico: “come strumento di mutualismo, autorecupero, progettazione del piano industriale alternativo, sviluppo di un Cral, collegamento con il territorio, riferimento di azionariato popolare e assemblee di territorio” –  sottolinea il Collettivo di Fabbrica ex Gkn – “nasce l’associazione Società Operaia di Mutuo Soccorso Insorgiamo. E’ un’occasione per tutte e tutti, il tempo non gioca a nostro favore”.
Una proposta inserita in un processo di lungo periodo che prevede una campagna per la fabbrica pubblica, per reclamare fondi pubblici che siano collegati a pubblica utilità e a un controllo pubblico, esercitato da una struttura societaria pubblica e dalla possibilità di assemblea permanente, Rsu, Collettivo di Fabbrica, oo.ss. di incidere sul diritto di proposta, verifica e gestione della reindustrializzazione. La possibilità di sviluppare una ricerca autonoma del core business che permetta la ripartenza dello stabilimento. Lo sviluppo di attività economiche in autoproduzione che permettano da subito la riattivazione produttiva, affiancata dal mutualismo per consolidare la comunità interna, prepararsi a una lotta di lunga durata e stringere legami con il territorio. Tutto ciò può essere reso possibile affiancandolo con una spinta per il cambiamento dei rapporti di forza attraverso lo sviluppo della mobilitazione generale e della convergenza.
I prossimi passi vedranno la costituzione di vari gruppi di lavoro tematici, tra cui comunicazione, area reindustrializzazione e soggetto giuridico, presenza territorio, ma anche riorganizzazione del presidio, che dovrà essere aggiornato alle nuove sfide che il Collettivo ex Gkn ha lanciato nella sua terza fase che vedrà, tra l’altro, la mobilitazione del 22 ottobre a Bologna e del 5 novembre a Napoli.

Alberto Zoratti – 3496766540
Valentina Baronti – 339 4632863
Benedetta Rizzo – 3493331724

Sotto, il documento presentato in assemblea

Per la fabbrica pubblica e sociamente integrata
  1. Lo stabilimento è fermo, immobile. L’attuale proprietà non possiede brevetti, core business e ricerca propria nel settore. Il corpo di accordi fatti con Melrose è secretato e la situazione societaria è stata resa tutt’altro che trasparente e socializzata con Rsu, Oo.ss e Collettivo di Fabbrica. Tutta l’enfasi dell’attuale proprietà è su cassa integrazione e svuotamento stabilimento. I corsi di formazione proposti sono generici e non collegati specificatamente a nessun piano industriale. Di linee di produzione si è appena accennato e comunque si tratterebbe di linee di conto terzi, temporanee. Tutto fa pensare che i timidi accenni di progetto industriale servano semplicemente come leva per completare la delocalizzazione.
  1. L’attuale proprietà non ha ancora presentato un piano industriale vero e proprio. E quel poco che ha presentato è insufficiente: tra cinque anni 340 persone a pieno regime, un fatturato di 95 milioni di euro, una fabbrica contoterzista, senza brevetti e ricerca. Ma soprattutto l’attuale proprietà ha dichiarato che un accordo di sviluppo, e i fondi pubblici, sono “presupposto” essenziale per il proprio piano industriale. Il tema della fabbrica pubblica e della progettazione di un “piano b” rispetto a quello proposto dall’attuale proprietà si pone quindi in ogni caso.
  1. L’attuale proprietà, dopo dieci mesi di irresponsabili telenovele, ha perso il diritto unico di proposta. Continui pure ad approfondire e dettagliare il suo piano industriale. Ma tale piano non è più l’unica proposta in campo. Anzi, chiediamo con forza che cessi immediatamente di fare da tappo a tutte le proposte alternative.
  1. Abbiamo chiaro che la strada per individuare un core business che sostenga l’intero stabilimento è tutta da scrivere. E’ aperto il tavolo permanente sulla reindustrializzazione, strumento dell’assemblea permanente e che si riunisce al centro dello stabilimento. E’ accessibile a chiunque abbia idee, progetti, possibilità reali da apportare alla ripartenza produttiva dello stabilimento.
  1. Senza fondi pubblici, la società e lo stabilimento non possono che andare verso forme di crisi, dalla cessazione d’attività al fallimento. Dato l’attuale contesto societario, legislativo e politico non è affatto scontato che tali fondi vengano dati. In seconda battuta, il rischio è che vengano dati a babbo morto e a fondo perduto. In questo caso lo scenario di crisi sarebbe solo rimandato e i fondi pubblici sarebbero finalizzati solo a prendere tempo, per logorarci, e riaprire la crisi più avanti quando saremo più deboli.
  1. L’arrivo dell’ondata di carovita da un lato, l’abbruttimento della cassa integrazione e di una società che prova a trasformarci in “mantenuti” dell’ammortizzatore sociale, la pressione dell’attuale proprietà a farci perdere tempo con ogni stratagemma plausibile e con l’uso dei fondi pubblici, ci obbligano a intraprendere da subito e da oggi attività di autoproduzione e autorecupero.
  1. La fabbrica è stata difesa dal territorio e va immediatamente “restituita” al territorio rafforzando non solo i legami politici ma aprendo lo stabilimento ad attività solidali con le esigenze territoriali.
  1. Il nostro piano quindi si muove sulle seguenti direttrici:

– campagna per la fabbrica pubblica. Per reclamare fondi pubblici ma anche che siano collegati a pubblica utilità e a un controllo pubblico, esercitato da una struttura societaria pubblica e dalla possibilità di assemblea permanente, Rsu, Collettivo di Fabbrica, oo.ss. di incidere sul diritto di proposta, verifica e gestione della reindustrializzazione
– ricerca autonoma del core business o delle attività produttive industriali che permettano la ripartenza dello stabilimento. Va da sé che alludiamo a attività in stretta simbiosi con la convergenza con l’ambientalismo radicale e antisistemico che è il nostro punto di riferimento.
–  di autorecupero immediate, attraverso attività economiche in autoproduzione che ci permettando da subito di riattivarci produttivamente, di combattere l’abbrutimento, di consolidare la nostra autodisciplina e autorganizzazione e che siano strumento per coltivare ulteriori legami sociali
– mutualismo; per consolidare la comunità interna, prepararsi a una lotta di lunga durata e stringere legami con il territorio
– continuare a cambiare i rapporti di forza attraverso lo sviluppo della mobilitazione generale e della convergenza (Insorgiamo a Bologna il 22 Ottobre, Insorgiamo a Napoli il 5 novembre).

  1. Come strumento di mutualismo, autorecupero, progettazione del piano industriale alternativo, sviluppo di un Cral, collegamento con il territorio, riferimento di azionariato popolare e assemblee di territorio, nasce l’associazione Società Operaia di Mutuo Soccorso Insorgiamo. Siamo chiamati a vecchi principi in un contesto completamente differente. Siamo perciò chiamati a qualcosa di completamente nuovo. Partiamo per un viaggio mai tentato, risultato di peculiarità di questa lotta ma anche di processi generali del capitalismo. Concepiamo tale viaggio come strettamente connesso al mondo che ci si muove attorno. Questo è uno spiraglio dove praticare l’errore e la sperimentazione, dove costruire una vicenda che sovverta completamente le modalità con cui vengono affrontate le crisi industriali e non solo. E’ una occasione per tutte e tutti, ma non è una occasione eterna. Il tempo non gioca a nostro favore. Il tempo è qui ed ora.
  2. Il nostro appello è a tutto il movimento di classe, radicale, al sindacalismo organizzato, a tutte le attività di autorecupero, all’intellettualità radicale, ai movimenti di autorecupero, al movimento studentesco, ambientalista, a tutte e tutti coloro che sono scese e scesi in piazza numerose volte a difendere Gkn, ad ogni competenza solidale, a integrarsi nella campagna, nelle attività della fabbrica pubblica e socialmente integrata e a farne uno strumento di cambiamento dei rapporti di forza a favore di tutte e tutti.

DIARIO IN PUBBLICO
Nel nome di Georgia/Giorgia

 

Lentamente ritornando alla ‘normalità’ dopo incidenti e malattie rifletto al futuro (politico) che mi/ci aspetta e dall’inconscio emerge una vecchia canzone che qualcuno ha regalato a mia madre: Georgia on my mind.

La ricerco ed ecco le notizie di base legate al cantante che la portò al successo mondiale negli anni Sessanta del Novecento, Ray Charles [Qui]:

Georgia on my mind (La Georgia nei miei pensieri) è la traccia numero due del quarto album di Ray Charles, The Genius Hits The Road (concept album ispirato a diversi luoghi degli Stati Uniti), pubblicato nel settembre del 1960. Il brano è stato scritto nel 1930 da Stuart Gorrell (testo) e Hoagy Carmichael (musica). È la canzone ufficiale dello Stato della Georgia, negli Stati Uniti.

Ma quel nome e quella canzone sono ormai legati alla futura Presidente del Consiglio a cui dovrebbe essere applicato il senso dell’ultimo verso:
“Ho detto solo una vecchia canzone
tiene la Georgia nei miei pensieri”

Certo qual è la vecchia canzone? Quella che la distribuzione degli incarichi nel nuovo governo possa ripetere (non so se in peggio o in meglio) l’andazzo degli ultimi anni tra politica ed esigenze espresse del Paese.

E il su e il giù nel favore popolare di personaggi francamente mediocri (e non parlo solo della parte a cui non va la mia convinzione politica, ma anche di quella a cui è andato – più per un dovere che per una partecipazione sentita – il mio voto).

L’età, quella che per una perversione medica è diventato un abborrimento linguistico e morale, la fragilità, mi induce a ricordare non solo figure politiche estremamente carismatiche fino a quel Berlusconi che ora è un pupazzo mediatico di cui si ricordano solo dentiere, pseudo mogli e cagnolini bianchi, ma che un tempo ebbe il suo peso politico di straordinaria importanza.

E ora la Georgia/Giorgia che farà? Ripeterà gli stessi modelli da lei combattuti appoggiandosi alle sue originali convinzioni tra Vox e Orbàn? Oppure accoglierà in forma prudente i suggerimenti che gli arrivano dall’Europa e dal mondo?

Al di là della deprecabile uscita della ministra francese, a cui Mattarella da par suo ha tappato la bocca, mi turba la possibilità fattasi quasi certezza nei sondaggi e commenti di oggi di affidare a un ‘tecnico’ il ministero della Cultura.

Se pensiamo alla ‘tecnicità’ della cultura il campo diventa un’immensa landa di offerte, proposte e soluzioni diversissime. Si pensi solo al ruolo del Museo o alla conservazione e uso delle biblioteche, degli archivi, di tutto quell’immenso patrimonio che fa l’unicità dell’Italia e della sua cultura.

Ecco allora che il ministro non può essere che un politico, che affiderà a seconda della competenza a tecnici la risoluzione dei problemi o le proposte da attuare. Non lasciamoci ingannare dal duraturo o effimero successo di una ricerca!

E nella mia ‘Ferara’ è capitato che si sia svolto di recente un convegno su Ariosto, autore a cui ho dedicato parte del mio lavoro scientifico. Sembra però che negli ambienti universitari – spesso causa di molti mali o scelte francamente non condivisibili – non sia stato giudicato abile a tenere una conferenza o una presidenza di seduta. Helas!

Non vorrei che un tecnico al ministero della Cultura si organizzasse secondo la tecnica universitaria (e parlo per cognizione di causa…). Di ‘tecnici’ ne abbiamo a iosa e alcuni di gran nome; ma io credo che qui si potrebbe veramente rafforzare e giustificare il ruolo dei politici finalmente in rapporto con le esigenze del suo ‘popolo’.

 

Speciale Parole a capo /
I ragazzi e le ragazze di Ultimo Rosso (prima parte)

BASTA DAVVERO POCO

Basta Davvero Poco,
per comprendere una persona,
Basta una spalla su cui piangere,
Basta una persona che ti ascolti,
senza giudicare,
Basta Davvero Poco,
Basta un aiuto,
Basta saper ascoltare,
Basta Davvero Poco,
Basta saper vivere la situazione,
Basta Davvero Poco.

(di Alberto Vuocolo 3^G)


BLOWING IN THE MIND

Quanti millenni vivrà il sole
Prima di scomparire?
Quante burrasche deve subire una scogliera
Prima di scalfirsi?
Quanto ancora dovrò imparare
Prima di considerarmi acculturato?
La risposta amico mio, vola nel vento
La risposta, vola nel vento
Quanto peso dovrò ancora portare sulle spalle
Prima di poter dormire?
Quanto dovrà essere ripulito il mare
Prima che i pesci possano vivere in tranquillità
Quanto dobbiamo lottare
Prima che ci consideriamo uguali?

(di Fabio Vanini 3^G)

 

LA COLOMBA BIANCA

E quanti mari deve superare una colomba bianca prima che si addormenti sulla spiaggia?
Una colomba bianca come le nuvole
Attraversa molti mari
Per superare le sue paure
Vola da una parte all’altra
Da una spiaggia all’altra
E sempre sola
Non si stanca mai di volare.
Come una donna
Piena di coraggio
Forza e umiltà.
Arriva sempre al suo obiettivo
Superando tutti gli ostacoli
Che le impediscono di volare.

(di Francesca Bini 3^G)

 

LE DONNE E GLI UOMINI

Un uomo percorre molte strade
prima di diventare un uomo colto
capace di capire
di provare emozioni
di amare.
Una donna percorre molte strade
prima di diventare una donna
deve affrontare più difficoltà
perché verrà sempre sminuita,
i suoi passi
la portano lontano
ma la via è lunga e tortuosa.
Le persone giudicano sempre
sminuendoci per quello che siamo
insultandoci
e questo può abbattere
ma non bisogna cadere nella tentazione:
per nessun motivo
arrendersi.
Bisogna credere in se stessi
in quello che si è
e come si è
ma mai credere a quello che dicono gli altri.
Prima bisogna amare se stessi .

(di Andrada Hojda 3^G)

 

MAESTRA DI VITA

L’esperienza
è il secondo nome che diamo ai nostri errori,
non la si può avere gratis ma
è la migliore maestra di vita,
perché ci aiuta a crescere.
Di conseguenza,
non ci serve solo
il coraggio
per diventare ciò che siamo
e per maturare
anche gli errori servono,
poiché una persona non va giudicata
per gli sbagli che compie,
ma per la sua volontà di rimediare
e imparare.

(di Sara Biondi 3G)

 

GUARDO CON GLI OCCHI CHIUSI

Guardo con gli occhi chiusi.
Riflessione, tristezza, inconsapevolezza.
Le persone vedono quello che vogliono vedere
non come stanno realmente le cose.
L’inquinamento crea un velo sugli occhi della gente
non riescono a vedere la bellezza del mondo che le circonda.
Più il tempo passa, più abbassiamo lo sguardo.
E’ triste quando ti accorgi che non ti stai godendo la natura.
Come con la natura così con le persone:
guardiamo oltre l’apparenza
per sentire quanto possono essere belle e interessanti.

(Martina Lo Basso 3G)

 

L’UOMO CON GLI ALTRI

Quante guerre ci dovranno essere prima che l’uomo capisca
Quanti pianti ci dovranno essere prima che l’uomo capisca
Quante volte dovremmo ignorarli prima che l’uomo capisca
Capisca che la gente ha bisogno di pace
Capisca che la gente ha bisogno di essere ascoltata
Capisca che la gente ha bisogno di speranza
Quante persone saranno ancora tristi prima che l’uomo capisca
Quante volte dovremo fingere che va tutto bene prima che l’uomo capisca
Quante volte dovranno soffrire prima che l’uomo
Capisca che la gente deve fare ciò che crede meglio
Capisca che la gente ha bisogno di essere aiutata
capisca che la vita è questa

(Matteo Minelli 3G)

 

LA GENTE

La gente che piange esprime tristezza
La gente che piange esprime solitudine
La gente
La gente che ascolta esprime pazienza
La gente che ascolta esprime aiuto
La gente
La gente che piange esprime paura
La gente che ascolta esprime gratitudine
La gente

(di Rouadi Mohammad 3^G)

 

LA GUERRA NON DOVREBBE ESISTERE

quanto tempo serve ad un uomo
prima di capire di aver spento
troppe vite ?
quanto dovrà soffrire un popolo
prima di trovare
la pace ?
quanto sangue dovrà ancora essere versato
prima che lui capisca
che è troppo tardi?
quanti bambini dovranno nascondersi
e avere paura
prima di poter uscire
ed essere felici?
quante madri dovranno
vedere le vite dei propri figli spegnersi
tra le proprie mani ?
quanto tempo servirà ancora
prima che l’uomo impari a fare la pace
invece che la guerra?
queste domande non hanno risposta
perché in fondo
la guerra non dovrebbe esistere.

(di Nezar Mahboul 3^G)

 

LA GUERRA

un film horror, con un orrore reale
una politica propensa solo all’espansione
un terrore vicino, reale

nel silenzio riecheggia il fischio della distruzione
nell’aria solo rumori detriti e un gran polverone
con città di cui è rimasta solo la devastazione

campi in cui non cresceranno più fiori
dove l’unico suono udibile è quello di
astio, odio e discriminazione

 (di Jacopo Palazzi 3^G 2022/23)

 

LE DOMANDE DI UNA VITA

Quante onde devono infrangersi sulle scogliere
prima di scomparire.

Quanto dovrà soffrire un uomo
prima di trovare se stesso.

La risposta, amico mio sta soffiando nel vento
La risposta, sta soffiando nel vento.

Per quanto tempo un uomo deve soffrire
prima di trovare la sua via.

Quante volte un uomo deve cadere
prima di trovare il suo equilibrio.

E quante volte un essere umano dovrà guardare avanti
lasciandosi il passato alle spalle

La risposta, amico mio, sta soffiando nel tempo
La risposta sta soffiando nel vento.

(di Francesco Pennetta 3^G)

 

LE SFIDE DELLA VITA

Quante sfide dovremo affrontare,
quanti problemi dovremo superare nella vita.
Dove sono le persone disposte ad aiutarmi in questo brutto periodo?
Chi mi darà momenti di pace
e di tranquillità?

Quanto tempo possiamo vivere senza poter prendere una decisione
ed essendo sempre controllati dagli altri?
Quanto tempo possiamo restare chiusi in una bolla
prima che scoppi?

La risposta, amico mio, sta nel cambiare se stessi in meglio,
sta nell’essere se stessi.
La risposta, amico mio, sta nelle persone a te care,
sta nelle persone che tengono a te.

(Martina Caselli 3G)

Per alcuni giorni, pubblicheremo le poesie lette a Ferrara l’8 ottobre scorso al Reading di poesia nell’ambito della Seconda Edizione di Ultimo Rosso.
I ragazzi e le ragazze della 3 G dell’Istituto Tecnico Luigi Einaudi – indirizzo Grafica e Comunicazione hanno lavorato in classe ispirandosi al testo “Blowin’ in the wind” di Bob Dylan, coordinati dalla professoressa di Lettere Cecilia Bolzani (anche lei componente del Collettivo P0etico Ultimo Rosso).
Buona poesia a tutti.

In copertina: Le ragazze e i ragazzi della Einaudi al Reading di piazza Municipale (foto Valerio Pazzi)

RAPPORTO ONU: SFRUTTAMENTO SUL LAVORO E DIRITTI UMANI VIOLATI
Viaggio nell’Italia del caporalato e del lavoro senza regole

di Andrea Turco
(da valigiablu del 06.10.22)

“Siamo scioccati dal livello di sfruttamento sul lavoro in Italia. Parliamo di un paese avanzato e industrializzato, in cui la perdita di vite umane sul lavoro non è accettabile. Lo stesso vale per i conflitti ambientali, le imprese sembrano essere sorde rispetto alle richieste dei territori e non riescono a mantenere un contatto con quello che accade nella realtà”. Era il 6 ottobre 2021 quando il professor Surya Deva, presidente del working group sui diritti umani e lavoro delle Nazioni Unite, pronunciava queste dure parole, in occasione di una conferenza stampa che si era tenuta a Roma presso l’istituto Sturzo.

Come raccontava il quotidiano Domani, le dichiarazioni arrivavano al termine di un viaggio per l’Italia durato dieci giorni, con lo scopo di redigere un documento di indicazioni per imprese ed enti pubblici. Da Taranto a Foggia, passando per la Val d’Agri, Brindisi, Prato e Roma, i cinque relatori ONU erano stati in diversi luoghi sede di conflitti ambientali, dove avevano ascoltato sindacati, organizzazioni della società civile, istituzioni e imprese.

Ora, a distanza di un anno da quelle prime valutazioni, abbiamo potuto consultare in anteprima il rapporto del working group dell’ONU che sarà reso pubblico a breve. In 21 pagine dense di dati, riferimenti legislativi e valutazioni, il documento parla dello sfruttamento al limite della schiavitù delle persone provenienti dall’Africa subsahariana e dall’India che avviene nell’agropontino, in provincia di Latina; del mancato godimento dei più elementari diritti lavorativi da parte soprattutto di persone provenienti dalla Cina nel distretto di Prato; dell’inquinamento mai risolto dell’impianto di amianto dell’Isochimica ad Avellino; degli impatti nocivi della più grande acciaieria d’Europa a Taranto fino ad arrivare alle preoccupazioni sanitarie e sociali in Val D’Agri per via della presenza di ENI. 

Gli sforzi delle istituzioni e delle imprese per garantire i più elementari diritti umani vengono giudicati “insufficienti” dal working group delle Nazioni Unite, tanto che le raccomandazioni fornite allo Stato italiano sono lunghe ben quattro pagine su 21. Resta il fatto, come scriveva Domani già l’anno scorso, che “in assenza di vincoli normativi e meccanismi di sanzione economica, ad oggi quelle delle Nazioni Unite restano pure indicazioni, utili consigli a cui solo il governo potrà dare un’applicazione reale”. Ne terrà traccia il prossimo esecutivo guidato da Giorgia Meloni?

Il contesto

Il “gruppo di lavoro sulla questione dei diritti umani e delle società transnazionali e altre imprese commerciali” (d’ora in poi gruppo di lavoro) ha visitato l’Italia dal 27 settembre al 6 ottobre 2021, su invito del governo. “Durante la visita – si legge nel rapporto – il gruppo di lavoro ha valutato gli sforzi compiuti dal governo e dalle imprese per identificare, prevenire, mitigare e rendere conto degli impatti negativi delle attività commerciali sui diritti umani, in linea con i Principi guida su imprese e diritti umani”. In 10 giorni i cinque relatori e relatrici ONU hanno svolto un’attività molto intensa, spostandosi in territori anche distanti tra loro centinaia di chilometri nell’arco di una giornata e ascoltando complessivamente centinaia di persone con tutte le difficoltà legate all’emergenza pandemica.

Per quanto riguarda il quadro normativo e politico, la relazione delle Nazioni Unite riconosce che “l’Italia dispone di un ampio quadro legislativo in materia di imprese e diritti umani, compresi i diritti del lavoro, la lotta alla discriminazione, la salute e la sicurezza sul lavoro e l’ambiente, e ha un movimento sindacale forte e attivo”. Tuttavia le tante situazioni a rischio e le denunce raccolte nei vari territori, per i quali più di una volta nel report ricorrono parole come “segregazione” e “condizioni disumane” e “discriminazioni”, spingono i relatori ONU a sottolineare che le numerose criticità riscontrate “dovrebbero essere affrontate immediatamente per proteggere i diritti degli individui e delle comunità a maggior rischio di abusi”.

Il sistema del caporalato nel settore agro-alimentare

“Il gruppo di lavoro è venuto a conoscenza del sistema di “caporalato”: basterebbe questa prima fase per comprendere lo sconcerto con il quale i relatori e le relatrici delle Nazioni Unite hanno affrontato le assunzioni illegali e lo sfruttamento intensivo che avvengono nei settori dove viene richiesto lavoro stagionale, in particolar modo nel settore agro-alimentare, come denunciato da anni dall’associazione Terra!. “I lavoratori migranti e italiani sono preda di questo sistema, spesso a causa di circostanze disperate” si legge nel report: ricatti ed estorsioni in cambio di permessi di soggiorno per le persone migranti, baraccopoli e ambienti insalubri offerti come unici posti per dormire e mangiare, ritmi estenuanti di lavoro sotto il caldo afoso, esposizione continua a pesticidi e sostanze chimiche.

Condizioni di sfruttamento appurate in prima persona dall’ONU attraverso alcune visite – Latina, i ghetti pugliesi di Borgo Mezzanone e Gran Ghetto di Rignano – e che hanno “sconvolto” il gruppo di lavoro. “Tali condizioni estreme di esclusione e segregazione aggravano le già precarie condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori migranti – viene aggiunto – peggiorando le situazioni di vulnerabilità allo sfruttamento. Infatti, in assenza di alternative, questi lavoratori vedono i caporali come l’unica autorità presente sul territorio in grado di fornire un sostentamento e servizi di base”.

Con la legge n°199 del 2016 l’Italia ha stabilito il reato specifico di caporalato, con una norma giudicata ai tempi innovativa, e nel tempo si è dotata di una serie ampia di strumenti per contrastare il fenomeno, come accerta anche il “Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato 2020 – 2022”. In più società civile e sindacati mettono in campo una mole notevole di supporti per le vittime, con lo scopo di “rompere il circolo vizioso dello sfruttamento e dell’emarginazione”, come ha potuto appurare la stessa delegazione delle Nazioni Unite. “Sebbene queste iniziative costituiscano passi positivi, rimangono isolate e sporadiche” commentano i relatori ONU. “Il gruppo di lavoro osserva che una precedente iniziativa di regolarizzazione non ha raggiunto i suoi obiettivi”.

Lo sfruttamento nella moda, nel tessile e nella logistica

Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2020 il settore della moda italiana ha generato un export valore di quasi 900 miliardi di euro. Oltre a essere una delle industrie più inquinanti, nella denuncia dell’ONU “questo settore è caratterizzato da catene di fornitura radicate nel subappalto in cui prosperano gli abusi dei diritti umani e del lavoro, che colpiscono i lavoratori più vulnerabili. Si tratta di lavoratori con contratti precari e a chiamata, spesso gestiti da agenzie interinali, e dei lavoratori invisibili dell’economia informale”. In Italia la moda fa riferimento soprattutto ai distretti industriali, di cui uno dei più noti è quello di Prato, in Toscana. Un’eccellenza, dicono la politica e le associazioni di categoria, che però nasconde un’altra realtà dei fatti. Come dimostra questo passaggio del report che sembra arrivare direttamente dall’Ottocento:

“Il gruppo di lavoro ha incontrato le vittime di abusi sul posto di lavoro, che hanno sempre descritto il lavoro di 12-14 ore al giorno, sette giorni su sette, come una pratica standard nelle aziende italiane e cinesi. Questi lavoratori o non hanno un contratto o i loro contratti prevedono orari di lavoro in linea con gli standard legali nazionali. I lavoratori hanno anche descritto come i cicli di lavoro quotidiani impediscano loro di imparare la lingua italiana o di partecipare a qualsiasi attività che possa facilitare la loro integrazione nella società. I lavoratori hanno anche descritto minacce di licenziamento, tagli alla retribuzione, negazione dei documenti necessari per il rinnovo del permesso di soggiorno e persino episodi di violenza nei confronti di quei lavoratori che volevano esercitare il diritto di iscriversi, o si erano iscritti, ai sindacati. La mancanza di trasparenza nelle catene di fornitura impedisce di identificare l’azienda committente e i beneficiari di tali pratiche di sfruttamento del lavoro”.

Situazione simile a Milano, dove “il gruppo di lavoro ha incontrato i lavoratori del settore logistico (compresi quelli che lavorano nei magazzini, nei centri di distribuzione, nei call center e nei trasporti) e i loro rappresentanti sindacali”. Sotto esame soprattutto i siti da dove partono poi le consegne garantite in 24 ore. Qui i lavoratori vengono “reclutati attraverso agenzie o cooperative che adottano pratiche di reclutamento illegali o non etiche”, con la costante minaccia del licenziamento, e capita sovente che siano costretti a lavorare di notte o comunque per più di 10 ore, anche se poi vengono “assunti con contratti part-time, in modo tale da consentire alle aziende di trarre profitto ed evadere il sistema fiscale”.

A seguire vertenze così complesse sono soprattutto i sindacati di base, gli stessi che recentemente sono stati accusati dalla Procura di Piacenza di una lunga sfilza di reati per i metodi perseguiti nella tutela dei diritti e che invece i relatori e le relatrici dell’Onu, dopo averli incontrati, sostiene in maniera netta:

Il ruolo dei sindacati indipendenti è fondamentale per aiutare i lavoratori a spezzare il ciclo continuo di sfruttamento. Il gruppo di lavoro elogia le attività e il sostegno dei sindacati locali ai lavoratori altamente vulnerabili e osserva che i sindacati nazionali dovrebbero offrire maggiore assistenza ai lavoratori informali e migranti. Esprime inoltre preoccupazione per le rappresaglie e le intimidazioni contro i rappresentanti dei sindacati locali che si oppongono alle pratiche di sfruttamento del lavoro o che organizzano scioperi pacifici a Prato.

Tanti infortuni e poche ispezioni

Quel che accade nella moda e nella logistica è ormai di dominio pubblico, denunciato da decine di inchieste giornalistiche e vertenze sindacali. Una delle più note e significative è quella condotta ad esempio dai SI Cobas Prato e Firenze: si tratta della campagna “8×5” che chiede l’applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro e la possibilità di lavorare 8 ore per 5 giorni la settimana, con diritto a ferie, malattia, permessi. Mentre da anni si discute su principi come “lavorare meno lavorare tutti” e molti Paesi d’Europa sperimentano la settimana corta, in alcune parti d’Italia la rivendicazione di lavoratori e lavoratrici riguarda un diritto acquisito decine di anni fa. Dove sono le ispezioni dello Stato per garantire il contrasto a ogni forma di abuso? Se lo chiede anche la delegazione delle Nazioni Unite:

Le questioni relative alla salute e alla sicurezza sul lavoro sono state una delle preoccupazioni più gravi in materia di diritti umani che il gruppo di lavoro ha rilevato durante la visita. Il gruppo di lavoro ha appreso con grande preoccupazione che nei primi giorni della sua visita 10 lavoratori hanno perso la vita. Nel 2021, si sono verificati 555.236 infortuni, 1.221 dei quali hanno avuto esito fatale. Un sistema di ispettorati, anche nei settori del lavoro, della salute e della sicurezza sul lavoro, svolge funzioni essenziali per garantire che tutte le norme pertinenti siano rispettate sul lavoro. La capacità degli ispettorati di effettuare un numero adeguato di ispezioni in modo proattivo o di rispondere rapidamente alle denunce ricevute è uno strumento essenziale per lo Stato per garantire che le peggiori forme di abuso non rimangano incontrastate. Ispezioni e sanzioni efficaci sono anche un potente deterrente e strumento di prevenzione degli abusi da parte delle imprese. Tuttavia, il gruppo di lavoro ha appreso da molte parti interessate che i regolamenti e le sanzioni – quando imposte dagli ispettori – sono esigui rispetto agli enormi profitti che le imprese realizzano abusando dei diritti dei lavoratori.

I problemi di risorse e capacità in questo ambito sono noti. L’ultimo rapporto annuale dell’attività di vigilanza svolta dal personale ispettivo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, dell’INPS e dell’INAIL svela ad esempio che “il corpo ispettivo coordinato dall’INL (Ispettorato Nazionale Lavoro, nda) risulta complessivamente pari a 3.848 unità”, così suddiviso:

  • 2.294 ispettori civili dell’INL, dei quali 240 tecnici
  • 942 ispettori dell’INPS
  • 223 ispettori dell’INAIL
  • 389 militari dell’Arma, (il 10% del complessivo personale ispettivo) prevalentemente destinati a funzioni di polizia giudiziaria

A ciò va aggiunto che, come ribadisce lo stesso Ministero, “tenuto conto della persistente carenza di personale amministrativo adibito ad attività di supporto” almeno il 25% delle unità ispettive è impiegata in altri compiti. Difficile sorprendersi, dunque, se i controlli dello Stato risultano esigui e inefficaci. A ciò si aggiungono ulteriori complicazioni: da una parte, come hanno riferito gli ispettori di Prato al gruppo di lavoro Onu, “anche quando le sanzioni impongono il sequestro della proprietà e l’attività viene chiusa, il proprietario dell’azienda riprende l’attività sotto un’altra identità”; dall’altra “la mancanza di fiducia dei lavoratori nelle istituzioni statali e il timore di rappresaglie da parte dei datori di lavoro rendono difficile per l’Ispettorato ricevere le denunce”. Col paradosso che “di fronte a queste sfide, il gruppo di lavoro è rimasto stupito nell’apprendere che l’INL di Prato è composto da soli 11 ispettori, mentre secondo l’istituzione dovrebbe avere un numero almeno triplo”.

Le grandi industrie

Il capitolo dedicato alle grandi industrie è significativamente intitolato “inquinamento ambientale e cambiamento climatico”, con una correlazione evidente ma non sempre sottolineata tra i mega impianti industriali italiani, sorti dal secondo Dopoguerra, e la crisi climatica in atto. “Il gruppo di lavoro ha visitato diverse località che hanno rivelato uno scontro tra le priorità dello sviluppo economico-industriale e il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente” scrive la delegazione ONU, riproponendo l’antico e mai superato dilemma tra salute e lavoro.

La prima tappa di questa parte specifica della visita è stata ad Avellino, dove dagli anni ‘70 l’arrivo di una grande azienda come l’Isochimica avrebbe dovuto portare l’agognato sviluppo. E invece negli anni ‘80 giovani e giovanissimi campani vennero impiegati per togliere l’amianto dai vagoni delle Ferrovie dello Stato, anche a mani nude, ammalandosi e contraendo in gran parte le tipiche malattie associate a questo materiale (dichiarato fuorilegge nel‘92), vale a dire carcinoma polmonare e mesotelioma pleurico. Un dramma che non è ancora terminato, come riportato dalla relazione delle Nazioni Unite:

Dopo la chiusura dell’impianto di amianto, i membri della comunità hanno descritto pratiche di scarico dell’amianto nel fiume, di seppellimento dell’amianto in luoghi vicini all’impianto e altrove e di miscelazione dei rifiuti di amianto con il cemento per formare cubi che venivano lasciati deteriorare in luoghi pubblici. In un incontro con il gruppo di lavoro, l’amministrazione locale ha riconosciuto che la bonifica dell’amianto è stata solo parziale e che sono necessarie ulteriori misure.

Lo snodo successivo non poteva che passare da Taranto, forse la città simbolo degli impatti industriali nocivi: sede del più grande impianto di produzione di acciaio d’Europa, situato vicino al centro della città, Taranto fa parte dei 42 SIN, i Siti di Interesse Nazionale in cui lo Stato riconosce la contaminazione ambientale e indica la priorità delle bonifiche – in cui però gli esiti sono tutt’altro che risolti.

Data la complessità delle vicende tarantine, non sorprende che la relazione impieghi due pagine per provare a tirare le fila: cita gli studi epidemiologici dell’area che “evidenziano significativi eccessi di mortalità progressivamente estesi dal 2011 al 2020 in tutti i quartieri settentrionali”; i racconti nelle audizioni delle “giornate del vento” in cui “veniva consigliato di chiudere le finestre, annullare le attività, impedire ai bambini di andare a scuola ed evitare di stare all’aperto”, con il gruppo di lavoro che “ha assistito in prima persona ai depositi nocivi in questi quartieri e alla costante ansia della popolazione locale”; l’abbattimento dei capi di bestiame e il divieto di produzione delle tipiche cozze nelle aree adiacenti agli impianti nonché “la perdita economica dovuta al mancato sviluppo dell’industria turistica”; gli estenuanti iter giudiziari e le controversie a livello internazionale. Di inedito c’è, che di fronte a tale quadro consolidato, anche l’ingresso dello Stato nella gestione dell’acciaieria non cambia le rassicurazioni.

L’ultima tappa si è svolta in Basilicata, nel cuore della produzione petrolifera italiana. Sotto osservazione del working group dell’Onu è il COVA, il Centro Oli della Val d’Agri, gestito da ENI. Anche in questo caso divergono del tutto gli scenari prospettati dalle parti ascoltate. Da una parte:

La comunità ha sollevato preoccupazioni significative relative a questioni ambientali e sanitarie, nonché al più ampio impatto economico e sociale dell’industria sulla regione e sulla comunità. Al gruppo di lavoro è stato riferito che nell’area del COVA si sono verificati una serie di “non incidenti” (ufficialmente chiamati eventi) caratterizzati da fiamme, rumori improvvisi, fetori e presunte emissioni inquinanti nell’aria, nel suolo e nell’acqua. Dal 2001, le associazioni locali hanno registrato 163 non-incidenti. Alcuni di questi sono oggetto di indagini giudiziarie, come la perdita di 400 tonnellate di petrolio che ha portato alla chiusura del COVA nel 2017. Si tratta dell’unico non-incidente che, 4 mesi dopo la sua scoperta, è stato successivamente riconosciuto come incidente rilevante. Nonostante ciò, il Piano di Emergenza Esterno, in attesa di rinnovo dal 2009, non è apparentemente mai stato attivato.

Dall’altra:

L’azienda ha sottolineato i propri sforzi in materia di protezione ambientale e di coinvolgimento delle comunità. Tuttavia, sono necessari ulteriori sforzi da parte dell’ENI per condurre una due diligence significativa in materia di diritti umani e ambiente e per costruire un rapporto di fiducia tra l’azienda e la comunità, al fine di garantire la disponibilità di dati verificabili in modo indipendente per rispondere a qualsiasi preoccupazione legittima. Inoltre, le attività di monitoraggio devono essere svolte in modo trasparente dalle istituzioni competenti e i dati relativi agli sviluppi intorno al COVA devono essere resi ampiamente accessibili alla popolazione.

Le raccomandazioni dell’ONU

In quei dieci giorni del 2021, a cavallo tra settembre e ottobre, la delegazione delle Nazioni Unite scopre parecchie criticità del sistema italiano. E un anno dopo ne restituisce le sensazioni che, seppure a freddo, restano allarmanti:

“Il gruppo di lavoro è preoccupato per la mancanza di solidi meccanismi giudiziari e non giudiziari per cercare un rimedio efficace agli abusi dei diritti umani legati alle imprese. Ciò significa che le imprese spesso agiscono nell’impunità” denuncia il report, che poi fa notare come le controversie giudiziarie legate a questi specifici casi “a volte restano per anni senza una decisione finale”. È vero che la legge del 2016 sul caporalato ha fatto aumentare il numero di sentenze emesse dai tribunali ma “l’impatto della pratica in termini di protezione dei lavoratori dalle assunzioni illegali e sleali deve ancora essere valutato appieno”.

L’Italia, inoltre, resta uno dei pochi Paesi dell’Unione Europea a non avere un’istituzione nazionale per i diritti umani (NHRI) e ciò equivale a “una grave lacuna”. Allo stesso tempo poco conosciuto, e poco efficace, resta il Punto di Contatto Nazionale (PCN) dell’OCSE, situato all’interno del Ministero dello Sviluppo Economico: in teoria costituisce “un importante meccanismo non giudiziario per affrontare le violazioni dei diritti umani legate alle imprese”, in pratica dal 2004 al 2020 “il PCN ha preso in carico 24 casi, alcuni dei quali riguardano presunti abusi da parte di aziende italiane all’estero. Sebbene il numero di denunce sia aumentato dopo il 2016, rimane molto basso se si considerano i casi di abusi che il gruppo di lavoro ha riscontrato durante la visita”.

Oltre a rafforzare gli strumenti esistenti, il working group “incoraggia l’Italia a emanare una legge sulla due diligence obbligatoria in materia di diritti umani, in linea con la proposta di direttiva della Commissione europea sulla due diligence di sostenibilità delle imprese, e a impegnarsi attivamente nei processi internazionali per stabilire norme vincolanti per le imprese, al fine di creare condizioni di parità a livello globale”. Sarebbe necessario, spiega ancora il report, che il governo avviasse “una discussione con tutte le parti interessate” perché “ciò aiuterebbe l’Italia, così come le sue imprese, a rimanere all’avanguardia e a prepararsi ai cambiamenti del panorama normativo”.

VIALE DEL TRAMONTO
Lo star system che non cambia mai

 

I meccanismi perversi non cambiano mai, l’uomo non migliora i suoi atteggiamenti e comportamenti nel tempo, non muta. La storia si ripete e da essa non impariamo. Cinema e star system non fanno eccezione.

Dai tabloid patinati apprendiamo spesso di come questo o quell’artista non si rassegni a non essere più sulla cresta dell’onda, di attori un tempo famoso precipitati nell’oblio e, spesso, nella miseria più nera e tragica. Dimenticati e abbandonati, è durissima non essere più nessuno e non trovarsi più assaliti da paparazzi impudenti o da fan impazziti che cercavano solo te, il tuo sorriso, un tuo cenno o un tuo semplice autografo.

A riproporre questo tema oggi arriviamo con un capolavoro della storia del cinema, Viale del tramonto, di Billy Wilder, del lontano, ma sempre attuale, 1950.

Ricordiamo solo che il film ricevette 11 candidature agli Oscar, vincendone tre per la migliore sceneggiatura originale, la miglior colonna sonora e la miglior scenografia e che, nel 1989, venne scelto per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.

Gloria Swanson e William Holden

Protagonisti sono Norma Desmond, interpretato da una magnifica Gloria Swanson, e Joe Gillis-William Holden, in un ruolo che era stato scritto e pensato per Montgomery Cliff che rifiutò la parte, si dice intimoritone. Altri grandissimi attori sfilano man mano sullo schermo, in una sorta di meta-cinema, dove in un’ambigua alternanza tra realtà e finzione, qualcuno interpreta anche sé stesso. La Swanson era davvero una celebre attrice del cinema muto ritiratasi dalle scene dopo l’avvento del sonoro (grazie a questo film ritorna al successo) ed Erich von Stroheim (il maggiordomo Max von Mayerling) era stato uno dei registi che l’avevano diretta. Durante una scena viene poi proiettato uno spezzone di Queen Kelly, kolossal di Stroheim interpretato proprio dalla Swanson, mentre il regista Cecil B. De Mille interpreta sé stesso, quando, durante le riprese di Sansone e Dalila, la vecchia diva gli piomba sul set, così come la cronista Hedda Hopper compare in un breve cameo nel ruolo di sé stessa. Per non dimenticare l’apparizione di Buster Keaton, convitato a un tavolo di poker.

Buster Keaton

Ma torniamo alla trama. Morto che parla, flashback, sei mesi prima. La voce fuori campo del protagonista, lo squattrinato sceneggiatore Joe Gillis, ripercorre la tragica storia del suo incontro con la ex diva del muto Norma Desmond, mentre il suo cadavere, trapassato da terribili pallottole, galleggia nella piscina della villa gotica della donna. Sono le cinque del mattino e una folla di poliziotti è accorsa a recuperare quel corpo. Codazzo di cronisti, i soliti. Ciak, sempre buio.

Joe per sfuggire agli esattori si ritrova in una vecchia casa lugubre e decadente, ma dagli antichi splendori, che pare abbandonata e buia. Lì, invece, nella piena oscurità, isolata dal mondo, abita Norma, la vecchia gloria del cinema muto che vive del suo passato, protetta dal suo maggiordomo Max, che si scoprirà essere stato il suo primo marito, e dalle ombre dei suoi film continuamente proiettati nella sua sala cinematografica esclusiva. La donna vive immersa nel culto di sé stessa, null’altro.

Gloria Swanson, William Holden e Erich von Stroheim

Norma chiede a Joe di rivedere un terribile copione che lei stessa sta scrivendo, un testo con cui la donna spera di poter tornare alle glorie passate, protagonista di un ultimo e clamoroso film. Le luci della ribalta. Quella ribalta che il terribile arrivo del sonoro le aveva negato, un sonoro che fa dire a Norma “noi eravamo grandi, è il cinema che è diventato piccolo”. In una vita che ormai, per lei, è diventata in bianco e nero (d’altronde da lì veniva…), con immensa sottintesa angoscia.

Siamo appieno nel mondo del cinema, tutto parla di lui, immersi nella sua bellezza ma anche nella sua terribile crudeltà e, a volte, spietatezza. Ci sono gli sceneggiatori a caccia di successo, alcuni più sognatori e visionari di altri, gli studios della Paramount con il suo mitico cancello d’ingresso, gli attori e le comparse, le macchine per le riprese, le luci, gli oggetti, le scenografie e i sipari. Gli oggetti che vorrebbero essere anche l’Isotta Fraschini di Norma ma che non si può.

Joe è in crisi tanto economica che di ispirazione e accetta quel lavoro che lo porterà a divenire amante e mantenuto della vecchia diva (vecchia si fa per dire, capiamo che Norma ha cinquant’anni …). Mentre il giovane inizia a frequentare Betty, con la quale lavora a una sceneggiatura, nelle sue fughe notturne, e che si innamora di lui, la convivenza con Norma, accecata dalla gelosia, diventa impossibile e porterà alla tragedia, fino ad una sua ultima passerella ormai in preda alla follia.

Viale del tramonto è un capolavoro a metà tra thriller, noir e melodramma. Un cinico, grottesco e sarcastico ritratto del lato oscuro di Hollywood e del mondo degli attori che vivono, con melanconia e malinconia, fuori della ribalta di un tempo che fu.

Spietate regole del successo. Quelle che non perdonano. Magistrale davvero, originale, ferocemente ironico, da (ri)vedere.

 

 

 

 

Viale del tramonto (Sunset Boulevard), di Billy Wilder, con William HoldenGloria SwansonErich von StroheimNancy OlsonFred ClarkLloyd GoughJack WebbAnna Q. NilssonSidney SkolskyRay EvansBuster KeatonHedda HopperRuth CliffordCecil B. DeMilleH.B. WarnerJay Livingston, USA, 1950, 110 min.

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