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SEGUENDO I SASSOLINI DI POLLICINO
Un piccolo libro di Daniele Lugli raccoglie le “briciole di verde” di una storica rivista ferrarese

Pollicino non è solo una favola

C’era una volta Pollicino, il piccolo protagonista di una delle favole più famose. Scritta da Charles Perrault, e tradotta in italiano anche da Carlo Collodi, narra la brutta avventura di sette fratelli abbandonati nel bosco dal padre, così povero da risultare incapace di provvedere al loro sostentamento. Come risaputo, Pollicino salverà sé stesso e i suoi fratelli grazie allo stratagemma dei sassolini con cui ritroverà la strada di casa e le braccia della madre, contraria alla scelta del marito, ma costretta da lui a questa terribile decisione. Recidivo, il padre li abbandonerà una seconda volta e Pollicino, finiti i sassolini, proverà con le briciole di pane, che però risulteranno inutili. Gli uccellini se le mangeranno, beffando così lo scaltro bambinello.
La favola prosegue fino al lieto epilogo, che però non mi sembra particolarmente interessante ripercorrere qui, perché il rimando mi serve solo come assist per ricordare perché oltre trent’anni fa, da responsabile del Circolo ferrarese di Legambiente, decisi di ispirarmi proprio a questa favola per battezzare il giornalino locale dell’associazione.

Nasceva così “Pollicino. Briciole di verde, supplemento aperiodico della più prestigiosa rivista culturale Luci della città, il cui direttore, il vecchio amico Stefano Tassinari, assunse per cortesia e condivisione culturale, anche la sua direzione editoriale, non essendo io un giornalista e quindi non potendo, per legge, farlo in proprio.
Anche la grafica, intesa come persona che si occupa dell’impaginazione della rivista, veniva da Luci della città ed era Laura Magni. Il primo numero di “Pollicino” fu scarno, come le risorse di cui disponeva l’associazione: solo due fogli, che da patito di fumetti, ebbi l’idea di illustrare con le tavole di un racconto di Moebius. Testi e immagini erano disaccoppiati, anche se le tavole erano tratte da una storia in qualche modo ispirata all’ambientalismo: il viaggio futuribile in un pianeta lussureggiante, abitato da piante e animali fantastici.

Non sarò il mediano di Ligabue, ma questo è un ulteriore assist, per parlare di un bellissimo libretto, piccolo come Pollicino, uscito da poche settimane per Le edizioni La Carmelina. Simpatica copertina di Giulia Boari e prefazione di Elena Buccoliero, che di Pollicino. Briciole di verde fu una delle più importanti collaboratrici, insieme all’autore del libro, l’instancabile Daniele Lugli.

Pollicino ha avuto sette vite, come si dice abbiano i gatti. Al primo numero, regolarmente ‘tipografato’, come le riviste serie, succedettero fasi di semplice ciclostile, come si conveniva alle riviste alternative, ma povere. Il salto editoriale si ebbe però dalla fine degli anni novanta al 2005-6, quando Pollicino divenne inserto di Terra di nessuno, la storica rivista della Associazione Ferrara Terzo Mondo, diretta dal vulcanico Luca Andreoli. Sarebbe ingeneroso non ricordare questa importante Associazione da cui negli anni novanta nacque la Cooperativa Commercio Alternativo, la seconda centrale italiana operante nell’ambito dell’equo e solidale, ovvero nell’import di prodotti realizzati in Paesi del Sud del mondo, rendendo protagonisti, a casa loro, del loro futuro, coloro che anche oggi non vogliamo accogliere nei nostri Paesi.

Il libro di Daniele Lugli raccoglie in modo ragionato e ordinato gli articoli scritti per Pollicino durante la sua storia.  Una storia ricca perché, sempre grazie a Commercio Alternativo e quindi a Ferrara Terzo Mondo, venne costituito in un ampio appartamento su Viale Cavour, il Centro Alex Langer, una bellissima esperienza di condivisione di sede e attività tra diverse Associazioni cittadine, con annessa biblioteca ed emeroteca.
Il Centro, che non a caso era stato unanimemente intitolato ad Alexander Langer, il “viaggiatore leggero”, era votato ad iniziative centrate su ambiente, pace, nonviolenza, sviluppo sostenibile, vera cooperazione internazionale tra Nord e Sud del mondo.

Gli articoli – scrive giustamente nella sua introduzione Elena Buccoliero – hanno retto bene gli anni e a distanza di qualche decennio ci parlano ancora.” (vedi sotto il testo integrale n.d.r.)

La ricchezza di temi affrontati nel libro da Daniele è anche frutto della fortunata formula editoriale di Pollicino, che costruiva le sue pagine, partendo da una parola, da una suggestione, da un concetto, non necessariamente legato all’attualità, ma che a questa spesso tornava attraverso i contributi dei tanti, valenti amici che per Pollicino hanno scritto. Ricorderò i più assidui, in rigoroso ordine alfabetico: Franco Cazzola, Roberto Dall’Olio, Michele Fabbri, Andrea Malacarne, Marzia Marchi, Giangaetano Pinnavaia, Luigi Rambelli, Mario Rocca, oltre ai già citati Elena Buccoliero e Daniele Lugli e naturalmente al sottoscritto.

Impossibile dar conto della varietà dei temi toccati da Daniele, con una scrittura brillante, profondamente ironica e a tratti divertente, capace di sorprenderci, con incipit fulminanti o citazioni illuminanti. Il consiglio è di comprarlo e leggerselo con parsimonia, sorseggiandolo come un vino d’annata.

Per incoraggiarvi, rileggiamo insieme l’incipit del pezzo I nomi della guerra  (gennaio-febbraio 2002). Sembra scritto ieri, invece che vent’anni fa. Buona lettura dunque.
Conflitto
“Così la guerra si viene a situare nel contesto, più ampio e diluito, dei conflitti che la vita privata e pubblica quotidianamente ci propone. In fondo non è che un duello su vasta scala… una continuazione della politica con altri mezzi aveva detto von Clausewitz. È un’opzione tra le altre, disponibile per raggiungere gli scopi della politica, che infatti non ha mai preso sul serio il ripudio della guerra previsto dalla Carta dell’ONU e dalla nostra Costituzione. Per sapere se si deve o no fare la guerra basta applicare la formula di Rosen. Se P = probabilità di vincere la guerra, C = costi della guerra, CT = costi tollerabili, la decisione sarà per la guerra se CT per P maggiore di C. Certo ci sono valutazioni non semplici da compiere, ma se C e CT si guardano bene dal ricadere sui decisori questi hanno un compito facilitato. Un’accorta aggettivazione, a seconda dei popoli e del momento storico, aumenta il consenso: guerra santa, giusta, inevitabile, umanitaria…

Daniele Lugli, Sassolini di Pollicino, Ferrara, edizioni La Carmelina, 2022

Introduzione di Elena Buccoliero

I fratellini procedevano nel bosco
In coda Pollicino spargeva sassolini.
Li seguiva uno struzzo dall’impercettibile sorriso.

È un piccolo libro prezioso quello che abbiamo tra le mani.

Gli articoli che vi sono raccolti – scritti da Daniele Lugli per “Pollicino”, rivista del circolo ferrarese “Il raggio verde” di Legambiente, in un arco di tempo compreso tra il 2000 e il 2005 – hanno retto bene gli anni e a distanza di qualche decennio ci parlano ancora. Lo fanno a più livelli, come l’autore sa fare, con quello strabismo invidiabile che in uno stesso testo, o conversazione, accosta in un lampo il molto lontano con l’incredibilmente vicino e in quel transito ci riporta a quello che siamo, ripulisce le nostre lenti affinché possiamo capire più profondamente noi stessi e ciò che stiamo vivendo. Tra i temi: le diseguaglianze crescenti, la guerra, la crisi ambientale, l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, le religioni, e poi la violenza sulle donne, i diritti dei bambini, le migrazioni, il traffico, la città, la felicità, il futuro…

Alcuni eventi vengono in risalto in modo particolare: la marcia Perugia-Assisi “Mai più eserciti e guerre” organizzata dal Movimento Nonviolento e dal Movimento Internazionale della Riconciliazione il 24 settembre 2000 nell’anniversario della prima, indetta da Aldo Capitini nel 1961; il G8 di Genova di cui prevede lucidamente ciò che si sarebbe poi verificato in quelle ore drammatiche; l’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001 e la guerra che ne seguì. Ma ci sono anche eventi cittadini, quali i cicli di incontri che la Scuola della Nonviolenza andava proponendo settimanalmente, al Centro “Alexander Langer” che allora era sede anche per Legambien-te e per il Movimento Nonviolento.

Già si è detto di uno strabismo invidiabile. È lo stesso che da sempre Daniele esercita nel suo guardare il mondo. Non è solo la capacità di ragionamenti glocal, come forse si diceva in quegli anni per indicare il tener nto del contesto globale e della realtà locale. Strabica è anche la dimensione del tempo, grazie alla cultura onnivora e profonda che gli consente di parlarci con la stessa familiarità della tradizione ebraica o della Rivoluzione Francese, della cultura greca o del nostro tempo, del tempo che verrà.

Sono tanti i luoghi della prossimità. C’è indubbiamente la città, la comunità, ma c’è anche una dimensione più intima, quella che riguarda i desideri e i bilanci del presente o del passato, il rapporto con il tempo e con chi non c’è più. Si abbandona qualche volta al ricordo, dedica più di un pensiero ai giovani con la stessa tenerezza che manifesta a ogni incontro nelle scuole o nei luoghi che li riguardano, e sfiora in diversi pas-saggi l’infanzia. Lo fa splendidamente con “I diritti negati delle bambine e dei bambini” ma ci ritorna in più punti, parlando di diseguaglianze, di inquinamento, di guerra.

Erano anni, quelli, in cui l’autore esercitava con crescente passione gli impegni di nonno, e nei suoi scritti traspare la meraviglia di scoprire il mondo accanto a una piccolina, rievocando i primi anni della paternità e ricomponendo frammenti della propria infanzia, anche solo per misurare quello che è cambiato. Dall’esperienza intima agli equilibri e squilibri collettivi, ancora una volta.

Una proposta lega tutto questo ed è la nonviolenza che Daniele ha conosciuto accanto a Aldo Capitini ma studiato, sperimentato e corteggiato si potrebbe dire ancor prima di quel rapporto così importante e certamente nei decenni a venire. È questo il filo che tiene insieme temi apparentemente distanti ma, in fondo, facce possibili di quel prisma che è la condizione umana. L’autore ce le mostra di volta in volta in modo sempre competente, profondo, non scontato.

Dalla nonviolenza le sue riflessioni traggono il fiato e danno indicazioni anche al nostro presente nonostante i cedimenti, di tanto in tanto, al pessimismo della ragione.

Questo piccolo libro prezioso è piacevole da leggere per come è scritto. L’autore usa una lingua limpida, scevra di retorica, affinata nella ricerca dell’essenziale. Nello iato tra ideali e realtà apre un terzo tempo che attraversa ogni pagina ed è il gioco, l’ironia, la passione per il linguaggio, il gusto per il rovesciamento. È, qualche volta, una lama che squarcia il velo rapida ed efficace più di tante parole, ma in altri momenti concede una via di fuga, indica una possibilità.

Nello spiazzamento Daniele Lugli si salva e ci salva. Ci tiene con sé per arrivare a concludere, con l’intelligenza di uno Sherlock Holmes: La violenza – che ben conosciamo – è dunque una soluzione impossibile. Ciò che resta, esclusa la violenza, per quanto improbabile, è la nonviolenza

Per contrastare il Progetto Fe.Ris. nasce Forum Ferrara Partecipata: le prime adesioni

 

A seguito della positiva discussione avuta il 24 settembre scorso, intendiamo, come Associazioni, Organizzazioni sociali e cittadini, dare vita al Forum Ferrara Partecipata.

Tale Forum prende le mosse dall’intenzione, in primo luogo, di bloccare il progetto FERIS: esso è radicalmente sbagliato, privo di utilità pubblica, ambientalmente non sostenibile, regressivo rispetto ad un’idea di città che guarda al futuro.

La nostra iniziativa di contrasto di tale progetto, per fermarlo e modificarlo in termini sostanziali, vuole basarsi su un lavoro di informazione e coinvolgimento della cittadinanza, sui necessari approfondimenti tecnico-giuridici collegati ad esso e sulla pressione nei confronti delle istituzioni e della politica.

Nello stesso tempo, Forum Ferrara Partecipata vuole intervenire per elaborare anche ipotesi alternative rispetto all’idea di ridisegno della città e del suo futuro. In questo senso, riteniamo necessario cogliere il nesso ( e le contraddizioni) tra il progetto FERIS e il Piano Urbanistico Generale, di cui è iniziata la discussione, promuovere un dibattito largo in città in proposito, affermarne un’idea di luogo di condivisione, socialità e solidarietà, contrastare le logiche di privatizzazione degli spazi pubblici.

Infine, a differenza del percorso individuato dall’attuale Amministrazione Comunale, vogliamo far leva sull’idea della partecipazione diffusa e dal basso, ingrediente fondamentale per far avanzare le nostre idee per il futuro della città.

Forum Ferrara Partecipata vuole essere uno spazio inclusivo e largo, partendo dai presupposti sopra delineati, con la consapevolezza che esistono molte forze ed energie che possono lavorare ed unirsi per produrre un progetto per gli anni a venire della nostra città.

L’adesione è aperta a tutti i cittadini, le associazioni, le organizzazioni sociali che condividono la necessità di opporsi e contrastare il progetto Fe.ris. e che comunicheranno la loro adesione alla mail: forumferrarapartecipata@gmail.com

LE PRIME ADESIONI

Associazioni: 

Associazione Evangelica CERBI di Ferrara

Associazione Ferrara Sostenibile 2030

Associazione Fiumana

Circolo Laudato si’

Comitato Acqua Pubblica di Ferrara

Donne per la Terra

Extinction Rebellion Ferrara

Italia Nostra

Legambiente Ferrara

Parents For Future Ferrara

Pirati del Po

Plastic Free Ferrara

Pontegradella in transizione

Teachers For Future Ferrara

UISP

WWF

Singoli cittadini

Gianpaolo Balboni

Antonio Barillari

Andrea Bregoli

Lorenza Cenacchi

Francesca Cigala Fulgosi

Andrea De Vivo

Stefano Diegoli

Marco Falciano

Romeo Farinella

Laura Felletti Spadazzi

Andrà Firrincieli

Claudio Fochi

Giovanna Foddis

Sergio Foschi

Lidia Goldoni

Alessandra Guerrini

Alessandra Guidorzi

Adriano Lazzari

Andrea Malacarne

Marzia Marchi

Simona Massaro

Cinzia Mastrorilli

Ornella Menculini

Francesco Monini

Michele Nani

Corrado Oddi

Michele Pastore Cinzia Pusinanti

Marcella Ravaglia

Patrizia Ronchi

Michele Ronchi Stefanati

Gabriella Sabbioni

Santo Scalia

Davide Scaglianti

Georg Sobbe

Milena Stefanini

Alessandro Tagliati

In copertina: Il grande spazio della Cavallerizza nella ex Caserma Pozzuolo del Friuli, per la quale il Progetto Fe.Ris. prevede un intervento privatistico.

Ma non erano solo 4 gatti? Invece a Roma sfilano in più di 100.000: un grande movimento pacifista chiede alla politica di fermare l’invio di armi e propone una agenda di pace

Ma non erano solo 4 gatti? Invece a Roma sfilano in più di 100.000:
un grande movimento pacifista chiede alla politica di fermare l’invio di armi e propone una agenda di pace

C’è differenza tra un camion di mele e un chilo di patate?
Eppure giornali e telegiornali, con pochissime eccezioni, hanno dato insieme la notizia delle 2 manifestazioni per la pace di Roma e Milano, come fossero due cose paragonabili: tutte mele o tutte patate.

Rifaccio la domanda.

Che differenza passa tra un imponente corteo pacifista di più di 100.000 persone (Roma) e un raduno di 4.000 aderenti al Polo di Centro di Calenda e Renzi (Milano) che invece continua ad appoggiare l’invio di armi e la linea atlantista e bellicista dei governo?  Aritmeticamente la differenza tra le due iniziative è più o meno di 96.000 persone, numeri impietosi che già qualcosa ci dicono. Ma tra “pace subito” (Roma) e “ancora guerra” (Milano) la differenza è ancora più radicale, e tutta politica.

Lo dice bene Rosy Bindi, anche lei in marcia a Roma, in un intervista su Il Fatto Quotidiano: “Qualcuno diceva che il pacifismo era finito, mentre questa straordinaria manifestazione dimostra che c’è una maggioranza sociale che vuole fermare le armi e chiede alla politica di ravvedersi”.

Dal basso, appunto.  La coalizione Europe for Peace non è stato solo l’organizzatore ma il collettore di tantissime realtà locali, nazionali e internazionali. Alla fine, alla marcia per la pace hanno aderito circa 600 gruppi, organizzazioni, associazioni, cristiane e laiche. Un altro numero importante, la prova di quanto sia diffuso, in tutto il paese e in tutti gli strati sociali, il sentimento pacifista. Un No alla guerra e alle armi, e un No alla insensata e guerrafondaia politica filoatlantica del governo Draghi, sostenuto da tutti i partiti, tranne Fratelli d’Italia, e ribadita dal governo della Destra con le prime dichiarazioni di Giorgia Meloni a Bruxelles.

Dunque,  il primo dato di cui tener conto è il seguente. Il variegato popolo pacifista, sfottuto e da tanti decritto come minoritario e marginale, o peggio, disfattista e filo putiniano, ieri a Roma si è preso una clamorosa rivincita contro le menzogne. Di più,  il movimento si è preso prepotentemente, anche se pacificamente la scena, ed è diventato un attore politico che vuole contare.

In secondo luogo, questo montante movimento per la pace è riuscito a unificare realtà e sensibilità diverse e a costruire una piattaforma (politica, serve ripeterlo) comune. Tutta la grande costellazione di gruppi e associazioni cattoliche fedeli al messaggio di Papa Francesco. Tantissime associazioni e movimenti espressione del mondo laico, come Arci, Anpi, Libera, eccetera. Le Ong nazionali e internazionali impegnate nel soccorso in mare dei migranti. Infine, altro dato importante, l’adesione convinta della Cgil, il più grande sindacato d’Italia con oltre 5 milioni di iscritti.

Inoltre, al contrario di quanto sostengono i commentatori delle grandi testate padronali e governative,  la manifestazione del 5 novembre, e i centomila partecipanti (più uno, se consideriamo Papa Francesco in viaggio apostolico in Bahrein e quindi assente giustificato) al grande corteo sono arrivati in piazza San Giovanni senza bandiere di partito e con obiettivi condivisi e richieste molto precise.

Hanno gridato contro Putin il dittatore, ma anche contro la Nato e la voglia espansionistica degli Usa. Hanno solidarizzato con il popolo Ucraino sotto le bombe e in fuga in milioni, ma anche contro tutte le vittime della guerra, compreso il popolo russo. Hanno chiesto ai soldati di gettare le armi e disertare.
Hanno manifestato contro l’invio di armi che servono solo a prolungare all’infinito la guerra e la scia di morti innocenti.

Non è un movimento che spera in una vaga idea di pace, ma che propone con forza un’agenda politica precisa per uscire da questa guerra fratricida. La strada della pace subito, la scelta giusta è anche l’unica opzione possibile, dopo il clamoroso fallimento della linea bellicista che gli Stati Uniti hanno imposto all’Europa.
L’agenda è molto semplice: stop all’invio di armi, immediato cessate il fuoco, avvio del negoziato.

Senza gli USA, aggiungo io. E senza la NATO. Può e deve essere l’Europa a trovare una soluzione ai problemi dell’Europa.  Invitando al negoziato l’ONU come garante internazionale.

In copertina: immagine dal Corteo di Roma del 5  novembre 2022 – foto Dario Lo Scalzo, pressenza

Per certi versi /
Vidi la pace

Vidi la pace

La pace
Divenne corpo
La vidi
Nel naufragio di Efeso
Uscire stremata
Perfettamente nuda
E stravolta
Dal disastro
Dei morti
In mare
Si diresse al tempio
Eraclito era là
Lui e la guerra
Padre e re di tutte le cose
Io sono la madre
Disse la pace
Lui
Ribadì altero
Senza opposti
Senza conflitto
Non ci sarebbe nulla
Ma io sono la madre
a sua volta disse
la pace
Senza di me
Nulla potrebbe nascere

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

PRESTO DI MATTINA /
Non ti scordar di me

Ognissanti: Non-ti-scordar-di-me

Solo da pochi giorni siamo transitati per il valico di Ognissanti; crinale che accorda e rincuora cuori fuori di sé, scordati; valico tra alte cime in cui si danno appuntamento e si incontrano i vivi e i viventi, così sono i nostri cari in noi.

A Ognissanti escono dall’ombra come grappolo d’uva dopo la vendemia, racimoli rimasti nascosti tra le foglie della vigna del tempo interiore. Resta la memoria a guida del cuore.

Così a Ognissanti si prega che la memoria non ci abbandoni, che resti viva nei vivi e nei viventi. Marco e Luca sono concordi nel ricordare le parole di Gesù ai Sadducei: «Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

A Ognissanti la promessa del salmista si annuncia nell’intimità più profonda di ciascuno e dice: «Si abbracceranno verità e fedeltà amorosa, si baceranno giustizia e pace, la fedeltà salirà dalla terra, si affaccerà dai cieli la vita nuova» (Sal 85, 12-13). Non si deve scordare allora che il cielo è già in me ed io in coloro che l’abitano già.

A Ognissanti il cielo sconfina nella terra e la terra è attratta verso il cielo; a Ognissanti non solo ricordiamo ma pure siamo ricordati, custodiamo e siamo custoditi, abitiamo e siamo abitati: i vivi nei viventi e questi in noi. Questo florilegio scaturisce da un perseverante confidare gli uni negli altri ed ha nome, tra i cristiani, di comunione dei santi.

Scrive Antonia Pozzi [Qui]:

Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.
Tu sai tutti i segreti,
come il sole:
potresti far fiorire
i gerani e la zàgara selvaggia
sul fondo delle cave
di pietra, delle prigioni
leggendarie.
Ho tanta fede in te. Son quieta
come l’arabo avvolto
nel barracano bianco,
che ascolta Dio maturargli
l’orzo intorno alla casa.
(Confidare, in Parole. Tutte le poesie, Àncora, Milano 2015, 175).

Attivare la memoria: una guida del cuore

Ferdinando Bandini [Qui] – (Vicenza, 1931-2013), poeta, scrittore e docente di stilistica e metrica all’Università di Padova – è stato definito dal critico letterario Giorgio Luzzi un “attivatore di memoria”.

Il suo poetare è infatti atto comunicativo più che di provocazione, volto a ricollocare le parole dimenticate, i nomi innominati; portarli alla luce, renderli di nuovo in dialogo non solo con la quotidianità, ma con l’umanità.

Dai microcosmi quotidiani, ristretti e celati, le parole salgono attraverso gli occhi stupefatti del poeta, dilatandosi a misura dell’universo e oltre, fino a provar di nominare le stelle, una da una:

In quest’azzurro di settembre che si dilata
oltre i confini dei miei occhi verso
regioni dove non arriverò mai
ci sono chicchi d’uva che altre bocche
schiacceranno tra i denti ignorando
questo mio torrido angolo di sete.

Presenze minime e ignorate, come acini spremuti, trovano grande risonanza nei testi di Bandini, che sono composti non solo nella lingua italiana, ma pure in quella latina e dialettale.

I suoi versi, come pagine di dizionario in cui ritrovare i nomi smarriti, significati nascosti e anche le parole indecifrabili a colpo d’occhio, indugiando su quelle degli specialisti di botanica, entomologia, ornitologia.

Uuno spazio, una radura per seminare o far dischiudere le parole ignote come, nel giorno di Ognissanti, si aprono gli spazi eccelsi dei beati e santi sconosciuti: «La poesia è distacco: non una fuga ma la scelta di uno spazio dove ci si colloca per vedere se il proprio “esserci” (dentro quelle cose) ha una qualche parvenza o conforto di trascendente verità» (Le ragioni della poesia, cit. da G. B. Beccaria, in Fernando Bandini, Tutte le poesie, Mondadori, Ebook, Milano 2018, 6).

Ma una volta la vita trascorreva più dolcemente
e della memoria ancora non sentivamo il peso.
Le cose che furono non sembravano lontane,
come ora, dalle presenti,
anzi a lungo ci parve che il passato e il futuro
si divertissero a tessere insieme con lo stesso filo
la tela ingegnosa dei giorni.
Il cumulo degli anni ha lacerato quella trama.
Ma dove è finita la maggior parte del tempo?
Ora, purtroppo, giace soltanto nel profondo del cuore!
Nel cuore allora la nostra memoria va a cercare
i ricordi sepolti del passato,
ed è felice di averne trovato uno: come quando un bambino
vagando solo per i campi a novembre
dopo la vendemmia trova – che gioia! –
un grappolo maturo che era rimasto nell’ombra.
Nessun pensiero del futuro ci preoccupa,
E per le vigne vendemmiate del tempo
ama vagare il nostro tardo autunno.
Memoria, non abbandonarci, per lungo tempo
sii guida preziosa del cuore!
(ivi, 506).

La origini della festa di Ognissanti

La collocazione di Ognissanti, il primo novembre, ha radici antiche, risalenti ai Celti, che celebravano il capodanno per una decina di giorni, a partire dal 1° novembre, quando le sementi sono ormai sepolte nelle viscere della terra da dove attendono di rinascere a nuova vita al risveglio della primavera.

I Celti consideravano i morti come “morituri”, separati mai del tutto da noi e dunque ancora in grado di comunicare con i vivi. Moriturus è infatti participio futuro dal verbo mori/morire: stare per morire; il termine preso a sé ha valore di sostantivo e di aggettivo.

Anche nascituri, è participio futuro di nasci/nascere, parola che si addice anche ai nostri cari quando li ricordiamo nel cono di luce della fede di Ognissanti, o anche solo nell’intimità trafitta e dolente della nostra coscienza e memoria separate.

E tuttavia anche così l’incredula fede è spiraglio di un tenue riflesso di luce al tramonto, barlume fumigante di speranza, aurora in statu nascendi, vita promessa, in gestazione di una futura comunione. Dies natalis, fin dalle origini cristiane, è ricordato come il giorno della morte dei martiri, santi o semplici cristiani, il giorno del loro nascere in Cristo: «vita è nascosta con Cristo in Dio» (Col 3, 3).

L’uomo si ricorda, ma anche Dio

Nella Bibbia Zaccaria è nome ‘teoforico’, al pari di molti altri nomi delle Scritture che sono portatori di Dio: nel senso che dicono qualcosa di lui. Il nome deriva dal verbo ebraico zakàr (circa 250 ricorrenze) da cui provengono i sostantivi zéke (= ricordo, 22 ricorrenze) e zikkaròn (= memoriale, 23 ricorrenze) e significa: “Dio si ricorda”.

Ricordare imita il mestiere della levatrice. In esso si cela quel dinamismo dello spirito per cui, rientrando in se stessi, si fa venire alla luce un fatto o una persona del passato, perché possano rivivere nel presente.

Nelle attestazioni bibliche tuttavia ricordare non è semplice evocazione, un perdersi nel passato, ma costituisce un esercizio spirituale del presente, che si proietta nell’avvenire, radicandolo nell’esperienza di relazione e di alleanza del passato.

Ricordare è legare, trasformare e portare a compimento, è tenere aperta la vita alla promessa nascosta in essa. Ricordare è seminare nuovamente ciò che si è raccolto. Ricordare chiama ad un coinvolgimento attivo, un esserci, un agire entrando nelle situazioni e prendendo posizione.

Nell’alleanza biblica, come nel memoriale eucaristico, si crea una relazione biunivoca, un reciproco dare ed avere. Entrambi, Dio e l’uomo si ricordano vicendevolmente, e quando ricordano parlano l’un l’altro, dicono: “eccomi”.

Il fiore di Ognissanti: “Myosotis alpestris”

Dev’esser proprio questo il fiore di Ognissanti: ho pensato con meraviglia stupita e grata, vagabondando bracconiere tra le 790 pagine di tutte le poesie di Bandini. Pagina dopo pagina è un universo arboreo e fiorito, vasto come una foresta, curato come una riserva protetta, catalogato come un orto botanico, cosmo abitato da un andirivieni di insetti e di uccelli di ogni specie, di volti e ricordi familiari e ignoti:

«Alberi molti gli alberi, acacie, olmi, catalpe, mandorli, meli, il cotogno, il carpine, il platano, frassini, l’ontano, il faggio, l’acero, il bagolaro, cembri, peschi, mirti, ligustri, il caco, il pino, l’agave, l’araucaria, le còrnole o cornioli, l’uvaspina, il prùgnolo…

E tanti fiori e tante erbe: la genziana, il bucaneve, e miosotidi, campanule, pervinche, aquilegie, e fucsie, primule, la rosa selvatica, il rododendro, i settembrini, il tarassaco, il dente-di-leone, l’alchechengi, la lunaria, l’aquilegia, l’erbaspagna, il croco, l’agèrato, il calicanto, la cicuta, il fiore del piretro, la bardana, i gialli fiori del topinambùr e delle forsizie, la dalia curva sul suo peso di grazia, le pulsatille, la filipendola, lo spanavìn o pancuco (acetosella), le campanele (campanule), i pissacani (tarassaco), le galinele (valerianella)» (ivi, 18).

Così è anche l’universo di Ognissanti, una moltitudine immensa, differenziata ed unita, innumerabile come le piante e i fiori sulla terra: «Apparve poi una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani» (Ap 7,9).

Ad un certo punto fu dalla poesia in latino Ranus aureus, come da una radura, illuminata a poco a poco dalla luce del mattino, che, inattesa, si è mostrata ai miei occhi, una “miosotide”.

In “Ramo d’oro” è il ricordo della madre che vien raccontato, quando il poeta aprendo il libro d’ore materno, suo “codice dell’anima”, scopre come segnalibro un “Non-ti-scordar-di-me”.

Quieta presenza che riaccende il lume su altre presenze e così prende forma nella memoria con il ricordo di quei fiori anche quello della festa di Ognissanti: «Quanto li avevi amati! Ricordo un anno lontano:/ era tornato il giorno (il primo di novembre)/ quando secondo il rito si celebra la festa/ di tutti i santi».

Pianta dai molti fiori, azzurri e con fauci gialle a cinque petali, uniti insieme si fanno compagnia; una comunione che salta subito agli occhi, quando l’incontri cammin facendo ai bordi dei fossi. Comune nelle zone montane può ben figurare come umile florilegio della comunione dei santi.

La comunione dei santi

Il poeta immagina così un dialogo con la madre sul significato di Ognissanti, giorno in cui si ricordano tutti i santi; proprio tutti, anche coloro di cui non si ha memoria nel calendario.

Santi ignoti, quelli della porta accanto o in lontane terre sperduti, quelli nascosti “da un’ininterrotta oscurità” nel quotidiano vivere, che non sono ricordati sugli altari, ne dipinte le loro effigi.

Questi santi sconosciuti assomigliano – dice il poeta – ai non-ti-scordar-di-me «che nei margini erbosi / delle strade aprono i loro piccolissimi occhi celesti», e guardano e vigilano sui viandanti, anche qualora non si accorgessero di loro. Questi fiori come i santi senza nome Dio li cinge «di un’altra luce», che solo lui conosce.

Mentre sfoglio il vecchio libretto di preghiere
che vedevo spesso tra le tue mani,
dalle pie carte è scivolata fuori
una miosotide.
Quanto a lungo, madre, per quanti anni in silenzio
questo codice della tua anima aveva
racchiuso nel suo buio le fragili corolle
del fiore rinsecchito?
Ma il colore del fiore, sebbene sbiadito,
ancora ricordava la stagione di un’antica
primavera e i cieli che il tempo portò via
con sé mentre fuggiva.
I fiori che nei margini erbosi
delle strade aprono i loro piccolissimi
occhi celesti e che i poeti chiamano
non-ti-scordar-di-me
quanto li avevi amati! Ricordo un anno lontano:
era tornato il giorno (il primo di novembre)
quando secondo il rito si celebra la festa
di tutti i santi.
Nei viali cittadini cadevano a volo
le ultime foglie, risuonava cavo
il vento d’autunno entrando nei camini
con la sua voce opaca
e tu parlavi dei santi al bambino:
«Il cielo annovera numerosi beati
del tutto sconosciuti e sono loro
che questo giorno venera.
Non li onorano frequentati altari,
non è dipinto in qualche antico quadro
il loro volto: sono morti e nessuno
sa come si chiamino.
Questi, la cui vita è trascorsa in una
ininterrotta oscurità, Dio li accoglie
tra gli stessi santi più grandi e li cinge
di un’alta luce.
Il mondo è sordo e non riesce a capire
e si chiede a che serva quest’avaro
tesoro di virtù che nessuno attesta,
sepolto nel segreto del cuore.
Lo chieda al Creatore dell’Universo
che ha sparso i cieli d’astri non ancora scoperti
e colora il silenzio dei deserti
d’innumerevoli fiori.
Lui sa perché il fiore della miosotide
che nessuno vede mostri la sua bellezza
in terre desolate fino al giorno
in cui morirà».
(ivi, 313-314)

Ognissanti: “un azzurro fiorire di misotidi” nel “singhiozzo rattenuto, incessante, della terra” (Antonia Pozzi).

Non monti, anime di monti sono
queste pallide guglie, irrigidite
in volontà d’ascesa. E noi strisciamo
sull’ignota fermezza: a palmo a palmo,
con l’arcuata tensione delle dita,
con la piatta aderenza delle membra,
guadagnamo la roccia; con la fame
dei predatori, issiamo sulla pietra
il nostro corpo molle; ebbri d’immenso,
inalberiamo sopra l’irta vetta
la nostra fragilezza ardente. In basso,
la roccia dura piange. Dalle nere,
profonde crepe, cola un freddo pianto
di gocce chiare: e subito sparisce
sotto i massi franati. Ma, lì intorno,
un azzurro fiorire di miosotidi
tradisce l’umidore ed un remoto
lamento s’ode, ch’è come il singhiozzo
rattenuto, incessante, della terra.

Madonna di Campiglio, 13 agosto 1929
(Dolomiti, in Parole. Tutte le poesie, Àncora, Milano 2015, 24).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

La sanità che verrà: arrivano le multinazionali

 

L’Italia spendeva per la salute pubblica prima del Covid (2019) il 6,4% del Pil (un terzo in meno di Germania e Francia, e meno anche di Spagna e Portogallo). Con il Covid siamo risaliti al 7% del Pil (com’era in passato, periodo in cui la sanità italiana era tra le migliori al mondo), ma eminentemente per spese di emergenza e vaccini.
Il precedente Governo indicava un 6,1% di spesa sul Pil al 2025, inferiore a quello del 2019. Crescono così le spese per prestazioni private (40 miliardi nel 2019). E poiché gli anziani aumentano di numero, è evidente che ciò comporterà una spesa maggiore e un servizio pubblico sempre peggiore per tutti noi, il che farà crescere la sanità privata.

Il personale è calato di 40mila unità negli ultimi 10 anni col blocco del turn over inaugurato dal governo Berlusconi nel 2005 e proseguito per 14 anni fino al Governo Conte 1, che ha aumentato le assunzioni del 10%.
Uno studio di Milena Gabanelli mostra come nel periodo 2022-2027 dei 103mila medici oggi occupati nel SSN ne andranno in pensione 29mila e altri 13mila ne mancano per il blocco del turn over (totale 42mila), mentre in teoria dalle scuole di specializzazione ne arriveranno 42mila.
Sulla carta sono sufficienti, in realtà ne mancheranno moltissimi. Basta guardare a ciò che accade in Lombardia coi medici di famiglia: i posti sono in teoria 626, ma chi li frequenta di fatto sono 331 (la metà). La realtà è che ne mancheranno moltissimi, specie tra i medici di famiglia. Per gli infermieri vale lo stesso discorso.

Questo spiega i continui allarmi di Anaao (il sindacato dei medici). Così si spiega anche il fenomeno delle cooperative di medici “a gettone”, soprattutto nei pronto soccorso, che percepiscono il doppio o triplo di quelli standard ma generano gravissime disfunzioni in quanto si tratta di medici con minore esperienza. Si stima che nei week end e di notte la possibilità di trovare un medico “a gettone” sia ormai nei pronto soccorso del 50%.

Le cause di tutto questo vanno individuate in gravissimi errori di programmazione, sia del Ministero della Salute sia del Ministero dell’Università.

Il blocco del turn over spiega perché oggi oltre la metà dei medici ha più di 55 anni, la percentuale più elevata d’Europa, superiore di oltre 16 punti alla media Ocse.
Ovviamente in sanità c’è una correlazione diretta tra personale e servizi reali al cittadino, anche se l’apologia mediatica del digitale e della telemedicina vorrebbe convincerci del contrario.

La crisi del personale porta poi ad abbandonare per primi proprio i servizi meno ambiti, che sono quelli territoriali (rispetto agli ospedalieri) e quelli periferici rispetto a quelli cittadini. Per questo, in una situazione di emergenza, è necessario andare oltre l’immatricolazione aggiuntiva degli iscritti a Medicina (pur necessaria), che avrà però effetti tra 6-9 anni. Risorse professionali in tempi brevi possono essere reperite solo attingendo a due bacini:

  1. L’assunzione di laureati in Medicina abilitati all’esercizio della professione e degli specializzandi nell’ultimo anno di formazione con contratti libero-professionali o a termine – una sorta di praticantato retribuito, che non è una misura tampone ma un modo di apprendere dalla esperienza che favorisce il completamento della formazione.
  2. Il part-time senior: la possibilità per chi (infermiere o medico) si trova negli ultimi 3 anni di lavoro, di svolgere un part-time (con contributi integrali per la pensione) e di poter poi proseguire nel lavoro anche oltre il termine pensionistico. L’assunto è che lavorando part-time, moltissimi lavoratori anziani siano disponibili a lavorare più anni di quanto previsto dalla scadenza naturale, garantendo all’azienda la parte più importante delle loro professionalità ma facendola risparmiare, in modo che l’azienda stessa abbia le risorse economiche per assumere in prospettiva un giovane a full time.

Nel 2026 dovrebbero partire mille case di Comunità finanziate dal PNRR, ma i rischi che non abbiano personale a sufficienza sono altissimi. Ciò spinge chi se lo può permettere verso i privati.

A fianco dell’aumento costante delle spese per prestazioni sanitarie erogate dai privati, si assiste ad un’evoluzione del ruolo delle farmacie, che stanno diventando erogatrici di servizi una volta  appannaggio dei medici di famiglia o dei servizi territoriali pubblici.

Ciò spiega l’espansione delle multinazionali americane (Boots ha già oltre 70 farmacie, Penta Investment e Dr. Max ne hanno 32,  McKesson Corp ha acquistato nel 1999 quote in AFM  di Bologna, Lloyds è già presente con 260 punti vendita) e di altri grandi gruppi (come quello nazionale di Farmacie Italiane con 47 farmacie e 20 parafarmacie), consentita dalla legge 124/2007 per il “mercato e la concorrenza” del governo Gentiloni.

Queste corporate hanno già acquisito in Italia il 10% del mercato, dove operano 19mila farmacisti.
Anche in questo caso tra riduzione dei laureati in farmacia, vendita delle vecchie farmacie, entrata nel mercato dei grandi gruppi, si profila una profonda modifica del ruolo antico del farmacista che consigliava e del presidio sanitario che garantiva, specie nei piccoli Comuni e si passa direttamente al “business as usual”, cioè ad una logica prevalentemente commerciale. Con tanti saluti a quel servizio personalizzato che le farmacie garantivano sul territorio (in Francia esiste una legge che impedisce ai grandi gruppi di avere più del 49% delle farmacie).

Non si trascuri poi la micidiale combinazione data dalla riduzione di personale sanitario abbinata allo sviluppo della telemedicina.
Amazon (con Amazon Health Services) ha comprato per 3,9 miliardi One Medical, catena di assistenza sanitaria di base che opera sotto la rete di cliniche Healthcare.
Amazon punta così a diventare il primo operatore privato, dall’assistenza di base alle farmacie online e ai servizi di teleassistenza.

Benvenuti nel nuovo mondo sanitario digitale.

Cover: Immagine tratta dal sito di Altroconsumo

Storie in pellicola / La bellezza delicata di essere fratelli

Corti, che passione!

Debutto natalizio in grande stile per Disney che, il 2 novembre, ha presentato il nuovo, magico cortometraggio di Natale, Il Dono, in supporto del partner di beneficienza di lunga data Make-A-Wish, una onlus il cui scopo è realizzare i desideri di bambini e bambine con gravi patologie. Il lancio è avvenuto sui vari profili social Disney in 46 Paesi tra Europa, Nord America, Sud America, Africa e Asia.

Il corto rappresenta il capitolo conclusivo della trilogia di Natale, Una famiglia, infinite emozioni, con quella stessa famiglia che si prepara al periodo delle festeall’arrivo di un nuovo bambino.
Il Dono racconta una storia di unici legami tra fratelli, vissuta attraverso gli occhi della più piccola, Ella, che deve adattarsi alle nuove dinamiche familiari create dal nuovo arrivo. Al cuore della storia troviamo un adorato peluche di Topolino che unisce presente, passato e futuro. All’inizio del corto Max, il fratello maggiore, dà il peluche di Topolino a Ella per regalarle un po’ di conforto durante la notte. Sarà poi lei a donare il peluche al nuovo arrivato in segno di benvenuto. Il tutto, nella versione italiana, con la bella colonna sonora Tutto e ancor di più, interpretata da Diana Del Bufalo, attrice e cantante che ha già collaborato con Disney prestando la propria voce a Isabela Madrigal in Encanto, film vincitore dell’Oscar nel 2021 e ambientato tra le montagne colombiane.


Il Dono
segue il corto iniziale del 2020, Lola, che parte nel 1940, mostrandoci la bambina Lola ricevere un peluche di Topolino. Prosegue con Lola diventata ormai anziana, che negli anni continua a preparare le decorazioni di Natale con sua nipote Nicole, e si conclude ai nostri giorni, con Nicole ormai adulta e madre di una famiglia che si allargherà ulteriormente in quest’ultimo capitolo. Bella storia di un legame profondo nonna-nipote, rafforzato anche dalle tradizioni natalizie tramandate di generazione in generazione.
Un Nuovo Papà è invece il secondo capitolo arrivato nel Natale 2021.
Qui si seguivano Nicole, cresciuta e diventata mamma, e i suoi bambini Max ed Ella mentre davano il benvenuto in famiglia al nuovo papà adottivo Mike. Al centro della narrazione, uno speciale libro di favole per celebrare la magia che si crea quando si trascorre del tempo insieme. Perché favole, famiglia, magia e Natale vanno assolutamente insieme.

I corti di Natale 2020 e 2021 hanno superato i 184 milioni di visualizzazioni in tutto il mondo.
Ci aspettiamo lo stesso successo per questo terzo appuntamento.
Perché questi corti restano delicati e una grande passione di grandi e piccini.

FERRARA E LE CITTÀ INVIVIBILI
Addenda apocrife alle Città di Calvino

 

Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World.

E Marco Polo: Puoi aggiungerne altre di città invivibili e maledette, o una sola, addormentata sopra una gran pianura, che ne riassume molte.

Cangiascutmai è la città che cambia nickname, detta pure Camàlea, Da rossa che si fa faticosamente all’inizio del secolo XX, in armonia con i mattoni delle sue case, diventa nera in un batter d’occhio – e di legnate – per oltre un ventennio, per tornare rossa. Da poco è nuovamente nera. I cittadini si bastonano da sé, con pesanti schede elettorali.

Si è detta Bicicléta, il solo mezzo di trasporto che può portare al socialismo. Fa procedere alla giusta velocità, trasporta pesi incredibili, accompagna, in luogo del bastone, il passo che con gli anni si fa insicuro.

Ora è Màkina: tutti in auto, i pedoni sono automobilisti provvisoriamente appiedati. L’auto segna il passaggio all’età adulta, spesso anche a miglior vita e lo stesso concepimento. Qualche parte della città ne era faticosamente risparmiata. Ora non più da nessun mezzo, per quanto ingombrante.
Occorrono però interventi radicali per trasformarla nella mitica Tiro, la città dei TIR, come pure si vorrebbe.

E’ detta pure Nèbia,  Calìgo la dicono i visitatori goranti, Fumàna, i quasi mantovani. È indescrivibile perché non si vede niente. Lo spasso consiste nell’appoggiarsi al muretto – circonda il fossato del grande Castello, al centro della città – e dire “Vedi che non si vede. Si taglia con il coltello. Ci puoi appoggiare la bicicletta…”. 

Pandèmia è un nome che condiviso con altre città. Si stava molto in casa. Balli e canti dai balconi ora sono cessati. Quancuno esce ancora mascherato e con i guanti, per non lasciare impronte.

È anche chiamata  Sgàrbia, da un mecenate, generoso con i soldi di tutti. Invita gli amici a prendere posti di rilievo in città. Sono spesso persone stimate nei campi loro. Al suo tocco si trasformano. Una sorta di re Mida al contrario, lo si direbbe. I suoi ammiratori si salutano dicendosi “Capra, capra,  capra”,

Bàlbia è uno scutmai che pure si sente. Onora un grande trasvolatore, caro al mecenate esteta, forse perché raccomanda “A quel prete dategli delle bastonate di stile”. Ed era solo un prete di campagna.

Naòma è nome popolare. Non so se il Naomo locale – taluno lo vede bene emulo di Pietro Gonnella – abbia preso lo scutmai da un personaggio del comico Panariello, abituato a umiliare i suoi interlocutori.
Le sue gesta sono molte e quasi leggenda. Noto solo che sia Panariello che Gonnella sono un dono della città di Fiorenza alla quale la Ferrara Cangiascutmai ha dato Savonarola e il più noto degli Aldighieri.

La città, o almeno una sua parte, è detta Fòbia: ama il nero, ma non il negro, soprattutto se nigeriano.
Ha soppiantato, nel rigetto, il sempreverde zingaro e l’albanese, che ha ultimato la sua breve stagione.
La Nigeria, leggo, prende il suo nome dal fiume Niger. Questo però non deriverebbe dal latino niger ma dal portoghese negro o preto, che vogliono dire appunto nero.
È la differenza tra la zuppa e il pan bagnato. Ma se sono portoghesi si spiegherebbe l’aspirazione – proclamata a gran voce dai fobici – di condividere il nostro benessere senza pagare.
Mi piace di più che il nome derivi dal Tuareg gber-n-igheren (il fiume dei fiumi), abbreviato in ngher, un nome locale utilizzato lungo il medio corso nei pressi di Timbuctù. e, aggiungo, lungo il Po: negher, negar.

Infine Pentàgona, per la forma benaugurante della città, ispirata agli studi del grande Pellegrino Prisciani.
Molto ci sarebbe da dire, Gran Kan, a questo proposito. Forse sarebbe la risposta alle domande sullo scopo dei miei viaggi: “Rivivere il passato, ritrovare il futuro”. Così la città può farsi Tetràgona, pur restando Pentàgona. Non si restringe al quadrangolo del castrum, che l’ha generata. Si fa ferma, costante, resistente a ogni urto e contrarietà; irremovibile di fronte alle odierne sciagure. Lo dice un suo figlio, che ha avuto altrove fortuna: “avvegna ch’io mi senta Ben tetragono ai colpi di ventura”. Allora, Gran Kan, non sarà più tra le città minacciose e maledette.

In copertina: Dettaglio del sarcofago di Prisciano Prisciani,  commissionato dal suo “pio figlio Pellegrino”, come sottolineato nell’iscrizione.  

Parole a capo /
Rita Bonetti: “D’amore e di altre storie”

IL BACIO

A dire il vero non so dirti nient’altro
potrei dirti che c’ero
nell’ombra di quella sera

La tua bocca di fianco
e dopo
più dentro di me

il tuo bacio

Una fossa scavata
nell’anima mia bambina

Bello inventare parole
che mai saranno fra me e te
il giardino che ho dentro
profuma di parole taciute
che non è di parole
che io t’amo

Questa bella ed intensa poesia è inserita nell’ultima fatica letteraria di Rita Bonetti “D’amore e di altre storie (Bertoni Editore, 2021). In una recente conversazione, nella rubrica web settimanale “Circolare poesia”, diretta da Mattia Cattaneo, Rita Bonetti ha parlato dell’amore come “una ricerca su più piani di lettura, per conoscere se stessa sempre meglio. Uno scavo interiore per conoscere, per capire”. C’è una ricerca di un codice amoroso scritto con frammenti della propria storia.
“L’amore, dice Rita, ci salva sempre perché è l’unica cosa a cui aspiriamo e noi nasciamo dall’amore.” Scrivere dell’amore cercando di non essere mai banali, cercando di riconquistare continuamente l’originalità della relazione.
“La maggior parte delle ferite d’amore me le procura lo stereotipo” (anticamera della banalità, ndr.), scrive Roland Barthes in “Frammenti di un discorso amoroso“, (…) “ma quando la relazione è originale, lo stereotipo viene sconvolto, superato, evacuato”. Un antidoto a questo rischio è, per la poetessa bolognese, che la poesia sia strettamente connessa alle proprie emozioni. Come se si cercasse una originalità sempre imprevedibile, inclassificabile, atopica.

L’AMORE

Da un nascondiglio mai dischiuso
riaffiorano i graffi
su cui si è posato il bianco dell’inverno
punge ancora la spina
lascia labbra di sangue

Beato l’amore
che sopravvive agli amanti
e non s’annuvola nel tempo
che appassisce la pelle

La rugiada che specchia la luna
spegne il brivido alla rosa d’inverno
e il dolore si consegna muto
alla profondità di un pozzo
all’ombra spessa che ci trova nudi
senza il coraggio di amare ancora

Tra le cosiddette ‘altre storie’, ci sono poesie che mi hanno colpito per la loro intensità descrittiva ed emotiva. Ad esempio “Al parco una sera“: una sera di primo autunno in malinconica solitudine, camminando tra foglie e pensieri. Oppure frammenti di vita quotidiana ‘tagliata’ da voci giudicanti fuori quadro come “Una bambola“, una poesia che sceglie parole efficaci per evidenziare il contrasto stridente (e purtroppo reale) tra pietas e ignoranza.

UNA BAMBOLA

E’ un’alba livida
di calze smagliate
rimmel colato
e dolore nero

Incespica su tacchi stanchi
non lascia impronte sulla strada
la bambola rotta

Appese ai balconi
le malinconie della miseria
dietro le persiane
un’ombra curva urla “poveraccia!”

Uno spicchio di cielo vira al turchino
oppure
sono occhi brilli di bambino

Appiccicosa e calda
si stringe la mano

All’inizio del suo libro, come una porta d’ingresso, Rita Bonetti mette dei “dettagli“,  come fossero delle indicazioni sulla propria scrittura.

DETTAGLI

Mi è difficile descrivere.
I dettagli
si perdono per strada
come bottoni
di un vecchio cappotto

Scritti spaiati
scatti rubati
bozzetti accennati
di pittura astratta

Qualche segno
e la parola urgente
si stringe forte
all’emozione di vivere

Durante la lettura del libro, ti accorgi spesso che le poesie lasciano aperti orizzonti (davanti al mare in ascolto dei suoi suoni, andando indietro nei ricordi dell’adolescenza e gioventù, in un cielo magico anche senza stelle) quasi volando sopra l’infinito e da lì esplorare ‘nuove profondità’ o con la voglia di staccarsi dalle cose della vita quotidiana che ogni giorno mandano in onda lo stesso copione ma, nonostante tutto, seminano “granelli di poesia in frammenti di carta sottile”.  Sono come fotografie in movimento.

NESSUNA ORMA

Sono sempre le stesse
le cose del mondo

Della gente
i rumori corrotti
i lamenti e brusii

Sulla battigia
nessuna orma rimarrà

La tragedia scolpirà i volti
nelle ore cupe che ci separano
dalla vista del sole
e nessuno ne uscirà liscio

Dal nero dell’inchiostro assorbita
vorrei confondermi con un gabbiano
per la durata di un volo

Un’ultima annotazione sulla bella copertina. Una foto fatta dal figlio Ivan Selva durante un viaggio in Nepal nel 2020. L’Everest di notte in lontananza, un cielo stellato, quasi un sogno. Un’immagine che rimanda un desiderio di spiritualità. Un aspetto che è presente a più riprese in questo bel libro che consiglio.

Rita Bonetti nasce e vive a Bologna. Da sempre innamorata di romanzi e letteratura.
Dopo la laurea in Archeologia presso l’Università di Ferrara, inizia una stretta collaborazione di scrittura creativa con due amiche storiche e nel 2017 pubblica la prima opera narrativa, una raccolta di racconti scritti a tre mani Le Regine di Quadri. Contemporaneamente, l’autrice approfondisce la passione per la poesia e nel mese di Febbraio 2019 esce la sua prima raccolta di liriche “Persiane Blu”, Armando Siciliano Editore. Nel settembre 2019, questa raccolta di poesie si classifica al secondo posto al Concorso Internazionale POETIKA LAB. Il 18 Maggio 2019 la sua poesia Dettagli e l’11 Gennaio 2020 la sua Poesia “Scrivi per me” vengono pubblicate nella rubrica La bottega della Poesia del quotidiano Repubblica di Bologna. La sua poesia Il bacio si classifica sesta tra i dieci vincitori del PREMIO WILDE Concorso Letterario Europeo sezione POESIA D’AMORE. Nel 2020 l’autrice inizia la sua collaborazione con il sito web Lo Scrigno di Pandora, per la pagina della poesia. Nel 2021 viene pubblicato “D’amore e di altre storie”, Bertoni Editore.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopioPer leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Vite di carta /
Gigi Proietti e La mandragola di Machiavelli

Vite di carta. Gigi Proietti e La mandragola di Machiavelli

E’ da ieri dopo il consueto giretto al mercato del mio paese che mi frullano nella mente dei flash da La Mandragola, la celebre commedia che Machiavelli compose molto probabilmente nel 1518. Devo mettere a fuoco cosa abbia scatenato queste associazioni che continuano anche oggi, brevi ma insistenti, a mettere in collegamento piccoli fatti della vita quotidiana e pagine della nostra letteratura.

Ho conosciuto Sofia, nata tre settimane fa, mentre dormiva beatamente nella sua carrozzina sgargiante. Ci tenevo a incontrarla e proprio ieri è successo, stando prudentemente all’aperto, in una giornata mite e con un po’ di sole; l’incontro è avvenuto vicino alla chiesa piccola, a due passi dalla piazza, vero crogiolo di avventori, regolarmente dotati di mascherina, che fanno acquisti e chiacchiere vicino alle bancarelle.

E’ nata una bambina, è una gioia. E se anziché essere stata concepita dai genitori che conosco fosse la figlia tanto desiderata da Lucrezia e Nicia? Madonna Lucrezia e l’anziano marito messer Nicia Calfucci vivono agiatamente nella Firenze del primo Cinquecento; il loro grande cruccio è che non riescono ad avere figli. Siamo alla situazione iniziale della commedia; per completarla dobbiamo introdurre il terzo vertice del triangolo amoroso che domina lo svolgimento dei cinque atti.

Si chiama Callimaco ed è giovane e aitante; soprattutto è innamorato pazzo della bellissima Lucrezia; è venuto appositamente per conoscerla da Parigi a Firenze e dopo che l’ha veduta ammette: “Sommi acceso in tanto desiderio d’esser seco, che io non truovo loco”. Non sa dove stare, lo si dice ancora oggi per indicare il massimo del pathos.

Callimaco vuole a tutti i costi conquistare Lucrezia, per appagare il proprio desiderio e per assecondare il suo temperamento intraprendente: se la ‘Fortuna’ lo ha messo davanti a questa passione totale egli impiega ogni suo risorsa, la sua ‘virtù per conseguire lo scopo. Per esempio sa circondarsi di persone che possono aiutarlo fattivamente, a partire dall’amico Ligurio che conosce bene il marito di Lucrezia e assume la regia della beffa con cui raggirarlo.

Vorrei dire a Sofia: pensa, piccolina, in quali aggrovigliate vicende ti sto trasportando. Per far nascere una bimba come te, o un maschietto, lo sciocco messer Nicia si lascia convincere da Callimaco, nei panni di un luminare della medicina, che la moglie rimarrà incinta se berrà una pozione prodigiosa fatta con l’erba chiamata mandragola.

Pozione miracolosa, che presenta il conto però. Il primo uomo che giacerà con Madonna Lucrezia attirerà su di sé il veleno e molto probabilmente ne morirà, e allora bisogna mettere nel letto della signora un “garzonaccio” qualunque che ci lasci la pelle al posto di Nicia.

Cosa non è disposto ad architettare un innamorato! Infatti è Callimaco travestito da povero diavolo a intrufolarsi nel letto, sotto l’attenta supervisione del beffato Nicia nel ruolo di cerimoniere. Ora dobbiamo considerare le donne e Fra’ Timoteo, se vogliamo conoscere per intero il sistema dei personaggi.

Le donne sono due: Lucrezia, che è una donna devota e irreprensibile e rimane sconvolta dalla prospettiva di tradire il marito commettendo un peccato mortale; sua madre Sostrata, che al contrario è donna dai costumi assai liberi e ben volentieri si presta a partecipare alla beffa ai danni del genero. Se con Sostrata entra in scena una figura femminile dai tratti licenziosi, il culmine della corruzione si raggiunge con Fra’ Timoteo, che è spinto a entrare nella macchinosa beffa dalla sola sete di denaro.

L’azione si sposta dalla piazza e dalle case dei protagonisti alla chiesa che è poco distante. Qui il frate dice di avere studiato a lungo il caso e qui riceve Lucrezia e la madre. Vediamo il punto in cui con il suo argomentare astuto egli scardina le convinzioni della donna: è un bellissimo esempio di eloquenza, dove la forza delle parole ottiene effetti straordinari. Dal momento che “madonna Lucrezia è savia e buona – pensa il frate – io la giugnerò in sulla bontà” per prenderla in trappola.

E allora la prima argomentazione riguarda la coscienza e un principio generale: “dove è un bene certo ed un male incerto non si debbe mai lasciare quel bene per paura di quel male”. Il bene certo è che la donna, rimanendo gravida, darà una nuova creatura a Dio; il male che ciò procurerà al garzonaccio che ha giaciuto con lei non è certo, alcuni in questi casi si salvano.

La seconda motivazione riguarda l’atto peccaminoso, che tale non è – continua il frate – “perché la volontà è quella che pecca, non el corpo”, semmai è peccato dispiacere al marito, ma Lucrezia sta invece procurando una gioia a messer Nicia.

Infine l’argomentazione che esce dalla bocca di Fra’ Timoteo ma potrebbe essere pronunciata dal Principe e provenire dalle pagine dell’omonimo trattato, l’opera più conosciuta di Machiavelli, è:  “El fine si ha a riguardare in tutte le cose: el fine vostro si è riempire una sedia in paradiso, e contentare el marito vostro”. Là il bene dello Stato e qui la felicità della famiglia motivano le azioni umane.

Nella bella versione televisiva della commedia uscita alla fine degli anni Settanta per la regia di Roberto Guicciardini, Duilio Del Prete interpreta Fra’ Timoteo e il suo stile è impeccabile, elegante. Totò ha invece vestito i panni del frate nel film girato da Alberto Lattuada nel 1965 e che ha lo stesso titolo della commedia: il suo eloquio è più marcato, i gesti sono ampi e la scena assume un’impronta macchiettistica.

Immagino davanti alla figura di Lucrezia un terzo irresistibile Fra’ Timoteo interpretato da Gigi Proietti. Tra le opere teatrali a cui ha lavorato nella sua lunga carriera non ho trovato La mandragola e, anche se la mia indagine richiede un approfondimento, la lascio per lavorare con l’immaginazione: ora che con la sua morte è uscito dal tempo, lo proietto all’indietro e ne faccio un personaggio della nostra commedia.

Due anni fa, il 5 novembre, al suo funerale l’attore Edoardo Leo ha omaggiato il maestro con parole lucidissime, ha riconosciuto in lui la capacità straordinaria di coniugare maestria nella recitazione, professionalità e leggerezza. Ho capito che erano le parole giuste per definire Gigi Proietti come artista. Grazie ai servizi televisivi sulla sua carriera, in questi giorni così frequenti da competere con i continui aggiornamenti sulle elezioni americane, mi pare di sentirlo più presente di prima nel nostro immaginario.

Me lo vedo già avvicinare Lucrezia con un’aria assorta, lo sento sciorinare le ragioni che alleviano la sua coscienza e la condurranno a scoprire i piaceri dell’amore grazie al giovane e focoso Callimaco. La modulazione della voce è straordinaria e attraversa i toni più diversi, dai più suadenti a quelli perentori; la mimica del volto si piega a rendere evidente il senso di ogni singola parola.

Mi pare meno stupefacente, ora, il finale della commedia. Posso abituarmi al cambiamento repentino di madonna Lucrezia, che dopo la notte trascorsa con l’amante si dichiara pronta a continuare a fare “sempre” con lui “quel che’l mio marito ha voluto per una sera”.

Se la Fortuna è donna, come pochi anni prima Machiavelli ha affermato nel Principe, l’intraprendenza e la forza della giovinezza di Callimaco hanno saputo batterla. Lucrezia è sua. D’altra parte anche lei rivela di sapersi adeguare all’evolversi delle situazioni, è disponibile a mutare seguendo il corso della Fortuna.

Si riconosce nella sua decisione finale una sana concretezza che viene da lontano, almeno dalla visione laica del Decamerone, affermatasi quasi due secoli prima, dalla logica mercantile che vi ha già trovato il suo trionfo, per cui Lucrezia trova il proprio piacere e il proprio tornaconto nel promettersi a Callimaco.

E il beffato Nicia? Non trova di meglio che mostrarsi riconoscente a Ligurio e Callimaco, che come medico ha risolto il suo problema, dando loro “la chiave della camera d’in su la loggia, perché possino tornarsi quivi a loro comodità”. Beffato e felice, viene da concludere.

In realtà lascio concludere la commedia a Fra’ Gigi, che con aria ammiccante saluta gli spettatori, non li trattiene più a lungo, perché la funzione che egli va a dire ora in chiesa alla presenza dei protagonisti è lunga. Ognuno tornerà al proprio posto dopo la messa e il pranzo: lui in chiesa, gli altri a casa.

E’ trascorso un giorno da quando Ligurio ha messo in piedi la complicata beffa e una gaia relatività, che, a conoscere meglio il pensiero di Machiavelli, diviene sempre meno gaia e più amara, ci ha fatto conoscere non uomini e donne ideali, ma colti nella loro concretezza, implicati nei casi della vita, immersi  nella “realtà effettuale della cosa”.

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Inflazione e Bce: l’operazione è perfettamente riuscita, il paziente è morto

 

Inflazione: aumento dei prezzi. Fenomeno economico sulla bocca di tutti, ma che non produce i medesimi effetti nelle tasche di tutti.

Banca Centrale Europea (BCE): istituzione che, quando l’inflazione sale troppo, aumenta il costo del denaro.

In una memorabile scena del film Philadelphia, Tom Hanks – che interpreta il ruolo di un avvocato di successo – dopo essere stato licenziato dal prestigioso studio legale in cui lavora perchè sieropositivo, va da Denzel Washington, anch’esso avvocato nel film, per farsi rappresentare nella causa che vuole intentare al suo studio. Denzel Washington, avvocato meno in carriera del suo cliente, gli si rivolge ad un certo punto con le seguenti parole: “Ok. Adesso spiegamelo come se avessi soltanto due anni”.

Bene. Ci provo anch’io.

Se il mondo richiede un miliardo di mascherine ffp2 ogni giorno, e il sistema produttivo riesce a fabbricarne solo 800 milioni al giorno, ci sono troppe richieste di mascherine – e troppi soldi per acquistarle – in rapporto alla quantità disponibile. Visto che non ce ne sono abbastanza per tutti, chi se le aggiudicherà? Chi è disposto a pagarle di più.

Altro esempio. Covid 19, prima ondata. Lockdown. Il mondo si ferma. Per restare in contatto e non sentirsi totalmente escluse dalla socialità, le persone incrementano l’uso degli strumenti per interagire da remoto: personal computers, webcam, consolle, smartphone. Nel contempo, però, anche la produzione dei chip che servono a far funzionare pc, webcam, consolle, smartphone si ferma. In alcune delle nazioni dove il Covid ha colpito per primo – come la sconfinata Cina –  hanno sede alcune tra le maggiori industrie di chip o semiconduttori. La domanda si impenna, la produzione (quindi l’offerta) dei chip addirittura diminuisce. Risultato: i prezzi decollano.

Questi sono due classici esempi in cui la causa dell’inflazione è l’eccesso di domanda rispetto all’offerta dei beni.

Per rallentare l’aumento dei prezzi, la Banca Centrale fa costare di più i soldi, aumentando gli interessi da pagare per prenderli in prestito. Se ad una famiglia o un’azienda avere i soldi a credito costa di più, ne prenderà meno. Proiettando la cosa su grande scala, il sistema avrà meno soldi da spendere per comprare i beni relativamente “scarsi” rispetto alla loro richiesta (mascherine e chip), con il risultato che il loro prezzo si stabilizzerà, anzichè continuare a crescere.

Questi esempi, tuttavia, raccontano una verità molto parziale sull’attuale crisi dei prezzi. La verità completa la sa e la dice (un po’ in camuffa) anche Christine Lagarde, attuale Presidente della BCE: “Poiché molte delle fonti di inflazione oggi sono dal lato dell’offerta, le politiche del governo che aumentano l’offerta e reindirizzano gli investimenti sono necessarie per sostenere la crescita…Il modo in cui le politiche fiscali sosterranno le imprese e le famiglie nel difficile inverno che ci attende avrà un ruolo importante nella dinamica dell’inflazione. Sono necessarie misure mirate, temporanee e su misura per proteggere i redditi dei più vulnerabili”.

Ok. Adesso rispiegamelo come se avessi soltanto due anni.

Ci riprovo. Christine Lagarde e il suo board si percepiscono come un chirurgo e la sua equipe: hanno uno scopo, quello di rendere stabile la dinamica dei prezzi, così come il chirurgo e la sua equipe devono estirpare il male dal corpo del malato con gli strumenti che hanno: il bisturi. Lagarde si muove rigidamente nell’alveo dei compiti istituzionali della Banca Centrale Europea: allentare o stringere i cordoni della borsa (il costo del denaro) per non far decollare i prezzi. Quando Lagarde afferma che molte delle fonti di inflazione sono “dal lato dell’offerta”, sta dicendo due cose.

Primo: io Lagarde so perfettamente che l’inaudita impennata dei prezzi di gas, elettricità, petrolio non dipende da una penuria di questi beni, ma da una furiosa speculazione sui prezzi, che li ha fatti alzare ben prima dello scoppio della guerra in Ucraina. Quindi il problema della attuale crescita dei prezzi è molto legato ad una distorsione dell’offerta, non ad un eccesso di domanda.

Secondo: quello che io Lagarde posso fare è agire sulla domanda (quanto costano i soldi), non sull’offerta. Quindi non chiedetemi quello che non mi compete. Chiedetelo ai governi.

Il meccanismo distorsivo che sta alterando il normale rapporto tra domanda e offerta, creando prezzi stratosferici sull’energia pur senza penuria dei beni energetici, è agito dai grandi fondi americani che si sono impadroniti (in termini proprietari e funzionali) della Borsa del Gas di Amsterdam (leggi qui sul non paper con cui l’Unione Europea ammette il clamoroso “errore” che ha aperto le porte alla speculazione).

L’equivalente, per la BCE, del paziente per il chirurgo, sono famiglie e imprese. Siamo noi.

Ok. Adesso rispiegamelo come se avessi soltanto due anni.

Nella tua famiglia le entrate sono fisse: stipendio, che è fermo (anche perchè nel 1985 la maggioranza degli italiani stabilì che era giusto non aumentare automaticamente i salari all’aumentare dei prezzi, NdA). Invece le uscite sono cresciute, e cresceranno ancora, per due ragioni fondamentali: la prima è che le bollette continuano a non rispecchiare il rapporto tra domanda e offerta, ma riflettono un prezzo virtuale, basato in massima parte sulle scommesse su quello che varrà l’energia domani. Un prezzo virtuale che diventa reale. Una follia. La seconda ragione è che c’è una parte della popolazione che può ricaricare sul proprio prezzo l’aumento dei propri costi, facendolo pagare almeno in parte a te, quando vai a fare la spesa. Sempre con lo stesso stipendio di prima. Come beffa finale: se vai in banca a chiedere soldi perchè le tue entrate correnti non ti bastano più per vivere, il denaro ti costa (per ora) il doppio di prima. Questa ultima conseguenza dipende da quello che ha fatto la BCE.

Quanto al ruolo della BCE nel calmierare i prezzi, potremmo quindi trovarci in una situazione del tipo: “l’operazione è perfettamente riuscita, il paziente è morto”. Ma il chirurgo Lagarde potrà sempre discolparsi dicendo: io ho fatto il mio lavoro, e tecnicamente l’ho fatto anche bene. Il paziente è morto? Non per colpa mia. E la cosa buffa è che non ha tutti i torti.

Per quanto tempo l’Unione Europea continuerà a trattare i suoi cittadini come quegli specialisti che si occupano della malattia e non del malato? Il dermatologo dà la pomata, l’otorino dà le gocce, lo pneumologo dà l’ossigeno, l’oncologo dà la chemio, il chirurgo taglia. E nessuno che si preoccupi di ascoltare quello che dice l’altro, e soprattutto nessuno che si preoccupi di ascoltare il paziente. Anche Christine Lagarde si occupa della malattia, non del malato. E così fanno i principali organi dell’Unione, e così fanno i singoli governi di questa Europa che non è mai nata. Ed esattamente come nelle strutture sanitarie, a morire prima sono i più poveri.

 

LUCCA COMICS & GAMES 2022
Dopo due anni in sordina, un’edizione da record

 

Sono da sempre affezionato alla storica, gloriosa Fiera del fumetto di Lucca, o Festival, o come oggi preferisce chiamarsi Lucca Comics & Games.. Dopo due anni in cui la manifestazione, causa le restrizioni Covid, si è svolta in forma ridotta, il 2022 è stato l’anno della rinascita e io non potevo certo mancare l’appuntamento. E forse proprio per il forzato stop, la ‘ripartenza’ è stata davvero eccezionale, un’edizione record.

Un’affluenza altissima, 36 mila presenze per la sola giornata di apertura, per arrivare (secondo La Nazione) a un totale di   500.000 visitatori per le 5 giornate del Festival, dal 28 ottobre al 1 novembre 2022: oltre 300.000 biglietti venduti, numeri da vero primato per questa 56° edizione.

Protagonisti indiscussi i fumetti, autori di manga e strisce di fama internazionale, videogame, cosplayer e appassionati di cinematografia. Tantissimi gli ospiti, gli spettacoli, le mostre di Palazzo Ducale e gli incontri a tema.

Le vie della città si animano di appassionati e di cosplayer, persone che si trasformano come in un sogno reale nei loro personaggi preferiti, indossando costumi spesso realizzati minuziosamente con le proprie mani fin nei più piccoli dettagli, riportando in vita i protagonisti dei film, dei cartoni animati, dei fumetti e dei giochi e calandosi in questo fantastico mondo fantasy.

La manifestazione ha inizio nel 1966. Ma mentre le successive edizioni proseguirono nella città di Roma fino al 2005, nel 1993 il Comune di Lucca, tramite l’ente autonomo Max Massimino Garnier, decise ugualmente di continuare con una nuova manifestazione denominata “Lucca Comics”. Nel 1995 viene inaugurato il “Lucca Comics & Games” come lo conosciamo oggi e da allora è stato un crescendo di fama a livello mondiale.

Per me, appassionato della fotografia, stare a Lucca per tutta la durata del festival è un piacevole motivo di incontro con altri fotografi e cosplayer, amici e conoscenti. In giro per Lucca ci sono  diversi punti di incontro e set fotografici dove poter scattare e scambiarsi saluti e consigli:  lo splendido giardino e l’interno di villa Pfanner, l’orto botanico, i bastioni, e la gettonata fontana con il caratteristico sotto mura presso porta San Pietro. 

Andare a Lucca, al di là del Festival, vale sempre una visita. La città è bellissima. con le sue tante torri e le sue cento chiese: uno scenario altrettanto fantastico dei mille personaggi di fantasia che anche quest’anno l’hanno popolata

Ecco qualche scatto dell’ultima edizione di Lucca Comics & Games 2022 intitolata: “HOPE”.

 

 

 

 

 

 

 

 

Testo e reportage fotografico di Valerio Pazzi

Da Amnesty alla Rete Studenti: “il decreto ‘anti rave’ mette a rischio il diritto di protesta”

da Agenzia DIRE del 1 novembre 2022


RETE STUDENTI e
UNIONE DEGLI UNIVERSITARI:  UN DECRETO LIBERTICIDA

“In questo modo si limita libertà di manifestare. Inaccettabile dare il via a repressione in scuole, atenei e piazze. Governo ritiri l’articolo del Decreto”. Così in una nota Rete Studenti e l’Unione degli Universitari che definiscono il decreto legge anti rave “liberticida”.
“Il Decreto Legge discusso nel Consiglio dei Ministri rischia di essere soggetto a interpretazioni che limitano fortemente la libertà di manifestazione”, scrivono gli studenti. “In particolare, sia per la vaghezza del testo che per il suo contenuto, il rischio per gli studenti e le studentesse è l’applicazione di misure fortemente repressive che non colpiscono solo i rave ma anche le manifestazioni, le occupazioni scolastiche e universitarie e potenzialmente qualsiasi forma di manifestazione. Un testo scritto male e in fretta- commentano da Rete Studenti e Udu- Il Governo non faccia l’errore di approvare un testo pericoloso solo per dare un segnale politico su sicurezza e restrizioni. C’è ancora tempo prima della conversione in legge definitiva per modificare il comma che contestiamo. Governo e Parlamento agiscano e evitino la limitazione delle libertà di manifestare e dissentire”.

RAVE, AMNESTY ITALIA: CON DL A RISCHIO DIRITTO PROTESTA PACIFICA

“Il ‘decreto rave party’, che introduce il nuovo articolo 434 bis del codice penale, rischia di avere un’applicazione ampia, discrezionale e arbitraria a scapito del diritto di protesta pacifica, che va tutelato e non stroncato”. Così Amnesty Italia su twitter.

SAVIANO: PIANTEDOSI CONTRO ‘VERI CRIMINALI’, ONG E RAVE PARTY

“Mentre il governo propone di alzare il tetto al contante (che gran favore alle mafie!) il ministro #Piantedosi ferma i ‘veri criminali’: imbarcazioni ONG e rave party. Non c’è che dire, siamo in una botte di ferro”. Lo scrive su twitter Roberto Saviano.

MANNOIA: QUESTO DECRETO SUI RAVE PUZZA, SPERO DI SBAGLIARE

“Questo decreto sui Rave puzza. Spero di sbagliare”. Lo scrive su twitter Fiorella Mannoia.

Cover: Rave a Modena (foto Agenzia DIRE)

5 Novembre: convergiamo e rilanciamo

Redazione Italia di pressenza

 

Evitare una guerra nucleare e una catastrofe umana e ambientale sono le priorità assolute. Per questo ci auguriamo che centinaia di migliaia di persone manifestino con i colori arcobaleno della Pace, in Italia, come nel resto d’Europa e del mondo.

Tuttavia riteniamo necessario sottolineare che chi sceglie PACE E NONVIOLENZA, chi rifiuta la logica della guerra e si propone di creare «le condizioni per avviare negoziati capaci di condurre a soluzioni non imposte con la forza, ma concordate, giuste e stabili», d’accordo con il Papa, non si erge a giudice che condanna, e rifiuta l’interpretazione lineare e semplicistica della struttura vittima-aggressore, per andare a cercare sin dalle origini del conflitto la complessa rete di bisogni, aspirazioni, interessi da ascoltare e comprendere per poter avviare un processo di riconciliazione tra popoli riconoscendo le molteplici responsabilità. Un groviglio di fattori culturali, sociali, religiosi, economici e politici che nel crocevia storico dell’ultimo secolo ha creato muri e irrigidimenti nazionalistici, piuttosto che reciproca accoglienza e co-esistenza nella prima civiltà planetaria della storia.

Alla luce di una rinnovata sensibilità che avanza nella convergenza delle diversità, contro qualsiasi discriminazione e nell’ambizione ad una vita degna, giustizia e progresso per tutte, tutti e tutto sul pianeta, è evidente quanto siano fallimentari e anacronistiche questa guerra, questa polarizzazione NATO-Russia, questo sistema economico e poi politico basato su armi, consumo e fonti non sostenibili e soprattutto che punta all’arricchimento e la selezione di pochi, affamando e privando di progettualità e futuro una percentuale sempre maggiore della popolazione mondiale.

Questo sistema disumano e violento è fallito e nell’ultimo colpo di coda rischia di creare danni irreparabili, per questo è necessario rilanciare con fermezza la necessità di risoluzioni che possano portare realmente e rapidamente a tavoli di negoziato, per arrestare subito la follia della guerra e prima che un incidente o una provocazione di troppo degeneri in un disastro nucleare.

Per questo INVITIAMO TUTTE E TUTTI A IMPEGNARSI A SOSTENERE QUESTE ESIGENZE:

  • Cessate il fuoco immediato e ritiro delle forze militari dai territori coinvolti sotto la supervisione ONU e dislocamento dei Corpi Civili di Pace per il monitoraggio del cessate il fuoco, il supporto a tutte le vittime del conflitto e il contributo alle attività di costruzione della pace.

  • Stop immediato all’invio di armi e all’aumento delle spese militari, perché una risposta violenta alla violenza non porta la Pace, perché alimentare il conflitto non è mai giustificabile, né creerà le condizioni del dialogo necessarie a raggiungere soluzioni concordate e soprattutto perché LE POPOLAZIONI CIVILI COINVOLTE NON VOGLIONO PIÙ NÉ MORTI NÉ FERITI.

  • Ritiro delle sanzioni che solo alimentano una guerra economica che colpisce le popolazioni.

  • Impegno concreto dei governi europei per aprire il dialogo nei tavoli diplomatici, aperti a tutte le parti sociali e soprattutto al contributo delle donne nello spirito della Risoluzione ONU 1325 (2000).

  • Firma e ratifica del Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari da parte di tutti i governi, ad iniziare da quello italiano e quelli europei.

  • Contrastare e risolvere le conseguenze economiche, energetiche, alimentari, migratorie scaturite dalla guerra e dalle speculazioni finanziarie, sollecitando la conversione ecologica ed eliminando a priori ipotesi di gas liquido/rigassificatori e nucleare civile.

  • Scioglimento della NATO, un’alleanza che obbliga i Paesi membri ad essere complici delle guerre e degli interessi dell’industria bellica e lotta contro le basi e le servitù militari presenti nel nostro Paese, già troppe volte usate come piattaforma di lancio di guerre in giro per il mondo.

Per sottoscrivere convergenzanonviolenta@gmail.com

L’appuntamento per tutte/i coloro che vorranno sostenere questo appello a CONVERGERE E RILANCIARE è alle 13,00 in Piazza dell’Esquilino per dare l’opportunità a chi può di partecipare all’ASSEMBLEA NAZIONALE PER LA PACE,LA GIUSTIZIA SOCIALE E AMBIENTALE, CONTRO LE DISEGUAGLIANZE E L’ESCLUSIONE alle 11,00 in Piazza Vittorio Emanuele II (www.5novembreinpiazza.it). Invitiamo tutte/i a venire con bandiere della Pace e cartelli che riportino le suddette ESIGENZE.

Iniziativa Convergenza:
Fronte Umanista Europe for Peace; La Comunità per lo Sviluppo Umano; W.I.L.P.F. Italia; ManifestA; Mondo Senza Guerre e Senza Violenza; Energia per i Diritti Umani – Onlus; Lista Civica Italiana; Rete Sociale in Movimento; Associazione Per i Diritti Umani; Pressenza – Agenzia stampa internazionale per la pace, la nonviolenza, l’umanesimo e la nondiscriminazione; Ecoistituto del Veneto Alex Langer; Michele Boato direttore rivista Gaia; ODISSEA, Blog di cultura, dibattito e riflessione diretto dallo scrittore Angelo Gaccione; Gianmarco Pisa (operatore di pace); Tina Napoli (esperta politiche dei consumatori); Marco Palombo (attivista contro la guerra); Giuseppe Bruzzone (obiettore di coscienza); Elio Pagani (attivista contro la guerra e promotore della ricerca sullo statuto giuridico delle armi nucleari in Italia); Patrick Boylan (attivista contro la guerra e nel comitato Free Assange Italia);Silvia Nocera (Multimage, casa editrice per i diritti umani); Valentina Ripa (attivista per i diritti umani e membro del Direttivo del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli); Vincenzo Brandi, (Rete NO WAR Roma); Norma Bertullacelli (insegnante pacifista, Ora di Silenzio contro la guerra, Genova); Diego Pertile (amministratore pagina FB No armi in Ucraina – Vicenza); Flavia Lepre (Comitato Pace, Disarmo e Smilitarizzazione del territorio-Campania); Silvia Galiano ( Silvia Galiano, attivista eco-femminista di Catanzaro); Ireo Bono (medico attivista contro la guerra); Bruna Bianchi (scrittrice, ex Docente di Storia delle donne e Storia del pensiero politico e sociale contemporaneo all’Università Ca’ Foscari di Venezia); Annapina Ciminelli; Federico Zenga; Rita Venturi

Cover: Palermo, manifestazione per la pace

INFORMAZIONE E DEMOCRAZIA
Eliminare i giornalisti per eliminare le notizie

 

I/le giornalisti/e sono persone che operano nel settore dell’informazione. Si occupano di scoprire, scegliere, analizzare e descrivere eventi per poi comunicarli. In questo processo intervengono attività di rielaborazione e costruzione dell’informazione che permettono ad eventi in successione, a causalità ed a  serie di dati longitudinali (nel tempo T0-Tn) o verticali (insistenti sullo stesso tema andando in profondità “time in time”), di diventare delle vere e proprie notizie.

Il Newsmaking non è un processo cognitivo neutro. Le modalità di costruzione delle notizie risentono delle variabili socio-culturali di chi identifica la notizia e la propone come tale, pur garantendo, grazie alla professionalità e al rigore procedurale, quel minimo di autorevolezza e di eticità necessaria per far sì che un evento diventi a tutti gli effetti una notizia attendibile.

Questo processo è complicato, caratterizzato da variabili difficili da prevedere e potenzialmente pericoloso. Attribuisce a chi lo compie molta visibilità e gli garantisce sia autorevolezza sia pericolo di eccessiva esposizione. Questa eccessiva esposizione può dipendere dalla rilevanza dell’informazione, dalla sua curiosità, dal suo peso politico, dal grado di innovazione che porta con sé. Il tema dell’innovazione è rilevante. Più una notizia è “nuova” più è “destabilizzante” perché idonea a sovvertire un ordine già costituito. Aumenta così la responsabilità professionale del giornalista, che diventa un professionista dell’informazione esposto pubblicamente e sempre un po’ a rischio, come tutti coloro che, ricoprendo un ruolo importante, dicono ciò che pensano.

Attualmente l’attività dei giornalisti non si collega più solo a tutto ciò che interessa l’elaborazione dell’informazione e la sua successiva pubblicazione tramite la stampa. In molti casi è stata abbandonata la consuetudine di macchiarsi le dita d’inchiostro e si sono cominciati ad utilizzare altri canali di trasmissione delle informazioni, si pensi alla televisione e a tutto il panorama, in forte crescita, del giornalismo online. Secondo il “Digital News Report” del Reuters Institute for the Study of Journalism, le fonti online (inclusi i social) hanno sorpassato nel 2020 la televisione. Parallelamente, si è assistito all’ascesa dell’uso dello smartphone come dispositivo di accesso alle notizie [si veda qui].

Trattare le notizie significa utilizzare dati e altri elementi  –  ad esempio, testimonianze – che consentono di avere conoscenze più o meno esatte di fatti, situazioni, modi di essere; inoltre significa occuparsi anche della trasmissione dei dati stessi e dell’insieme delle strutture che lo consentono [si veda qui].

Fare il comunicatore con rigore, competenza e professionalità è molto impegnativo e sottopone l’agente della comunicazione a una riflessione costante sulle convinzioni (spesso sovvertite dai fatti) e sul livello di condizionamento che l’essere in quel tempo, in quello spazio e in quell’ancoraggio etico, veicola. In molti casi quella che potremmo definire la “professionalità del comunicatore” ha portato giornalisti a esposizioni mediatiche pericolose e le conseguenze sono state più che tangibili (denunce, minacce, ritorsioni, licenziamenti, fino a casi estremi in cui si sono verificati arresti e uccisioni). Un bravo giornalista è un soggetto che si muove in un’ arena pericolosa dove la circoscrizione del perimetro di quel che può fare e dire dipende prevalentemente da lui, dalla sua voglia di rischiare in prima persona in nome della missione comunicativa per eccellenza: “raccontare agli altri quello che succede”.

Secondo RSF (Reporters Sans Frontieres) nel 2021 sono stati assassinati in tutto il mondo 46 giornalisti mentre svolgevano il loro lavoro – per fortuna, il numero più basso degli ultimi 20 anni. Il Messico detiene il triste record del numero di reporter assassinati, in tutto 7. Seguono l’Afghanistan con 6, l’India e lo Yemen con 4. Dei 46 giornalisti assassinati, tra i quali 4 donne, 18 sono stati uccisi in zone di conflitto, 16 mentre lavoravano e altri 30 sono stati presi di mira in quanto giornalisti. Purtroppo, RSF registra anche un numero record di cronisti incarcerati: 488 (tra cui 60 donne). Si registrano infine 65 sequestrati e due “desaparecidos”. Da quando RSF ha cominciato ad occuparsi del problema (1995) non si era mai registrato un numero così alto di giornalisti imprigionati. La Cina si conferma, per il quinto anno consecutivo, la Nazione con il numero più alto di giornalisti incarcerati: 127. Seguono il Myanmar con 53, la Bielorussia con 32, il Vietnam con 43, e l’Arabia Saudita con 31 [Si veda qui].

In Francia, RSF ha osservato un aumento della violenza contro i giornalisti. Diversi giornalisti sono stati feriti da pallottole di gomma, granate lacrimogene o colpi di manganello. Altri reporter sono stati oggetto di arresti arbitrari durante l’esercizio della propria professione.

La situazione è peggiorata anche in Grecia. Più di 130 casi di violazione di tale libertà sono stati registrati negli ultimi anni. L’anno scorso due giornaliste si sono dimesse denunciando pubblicamente la censura e il controllo del governo conservatore di Kyriakos Mitsotakis sulla stampa libera. Inoltre, la Grecia ha assistito all’omicidio (Atene, 9 Aprile 2021) del giornalista Giorgos Karaïvaz che si occupava di cronaca giudiziaria. È il secondo omicidio di un giornalista ad Atene in undici anni.

Anche in Italia (quarantunesima su 180 Nazioni analizzate nel rapporto RSF) sono state ravvisate numerose violenze ai danni di giornalisti che presenziavano a eventi e manifestazioni, oltre al consueto numero di giornalisti minacciati dalla mafia o sotto scorta per aver pubblicato inchieste e servizi sulla criminalità organizzata.

A morire per raccontare, riflettere, selezionare informazioni, ricodificarle e renderle notizie sono spesso donne che fanno le giornaliste e le fotoreporter.  “La nostra missione è raccontare gli orrori della guerra con accuratezza e senza pregiudizi… abbiamo il dovere di darne testimonianza.” Così diceva, in un discorso tenuto in un’università londinese, Marie Colvin, reporter statunitense uccisa in Siria il 22 febbraio 2012. Ad uno studente che le aveva chiesto se valesse la pena rischiare la propria vita per fare la giornalista, aveva risposto: “Molti di voi ora si staranno chiedendo: possiamo davvero fare la differenza? Ho affrontato questa domanda quando sono stata ferita in un’imboscata in Sri Lanka. La mia risposta oggi come allora è: sì, possiamo farla.”

Ma perché tutto questo? Perché raccontare ciò che succede è pericoloso, perché documentare gli eventi porta con sé la genesi di una possibile ribellione che spaventa, perché la trasparenza toglie vita a tutte quelle organizzazioni che sulla falsa ideologia e appartenenza prosperano, perché nella costruzione della notizia esiste una componente interpretativa forte che permette l’emersione dell’originalità e del pensiero divergente. Pensiero che sa essere tanto utile quanto pericoloso nella misura in cui pone nuovi orizzonti e sa far luce su nuove strategie che mostrano strade diverse per la risoluzione di problemi divenuti atavici. Credo che la capacità interpretativa e creativa, agita attraverso la costruzione delle notizie, sia un forte agente di indipendenza e di pensiero critico che il professionista può attuare, spaventando chi non lo possiede o l’ha perso grazie a reiterate azioni di prevaricazione. Credo infine che, pur essendo mediata socialmente e condizionata dal tempo, una notizia che si fonda su: premesse rigorose, una raccolta di dati da fonti attendibili e un processo di codifica che poggia le sue fondamenta su un principio di etica e deontologia professionale radicata, sia uno dei più forti strumenti di illuminazione e progresso.

Detto questo, sicuramente le notizie sono causa ed effetto di molti processi politici, sociali ed economici; influenzano le proposte legislative e la parità dei soggetti; influenzano i processi gestionali e il marketing; influenzano e sono influenzate dal cambiamento digitale in corso. La loro quantità e qualità può essere messa in relazione alla qualità dei processi decisionali agiti. Per tutto questo, e forse per molto altro ancora, le fake news sono una schifezza, una delle distorsioni che un sistema democratico deve provare ad arginare se vuole sopravvivere. Può esistere un mondo virtuale in cui anche una fake new diventa verità (la definizione di esistenza non è univoca e dipende dai corollari che le si attribuiscono), ma non è questo che deve interessare. Nemmeno deve preoccupare che qualunque verità porti con sé il germe della sua negazione. I germi sono germi, la notizia ha molta più dignità. La deve avere. Il rapporto fra informazione e democrazia è centrale.

Fantasmi /
La Notte dei Doni

 

ella Italia contadina – e ancora oggi in alcune contrade isolate, se è mai possibile immaginare ancora una contrada isolata – in qualche luogo fuori dal nostro mondo, forse solo come un pallido ricordo o un vuoto omaggio alla tradizione, i doni dei bambini – provate a pensare a qualche biscotto, due canditi, poche caramelle, un mandarino e quattro noci – non li portava Gesù Bambino, né Santa Claus, sbarcato com’è noto nella nostra penisola nel golfo di Bari e sotto falso nome. E neppure San Silvestro allo scoccare del nuovo anno, o la celebre Befana, o il Befanone San Giuseppe. In alcune parti della Sicilia, sfruttando la lunghissima notte del 13 dicembre, se ne occupava ancora Santa Lucia, siracusana doc. Eppure nei tempi andati, prima di tutti i santi e gli eroi ricordati, gli ufficiali incaricati alla consegna erano altri. Portare i doni ai bambini era un appuntamento importante, una data da segnare sul calendario appeso in cucina. Allora, sconosciuti gli ipermercati e prima dell’era delle svendite online, a questa meritoria e ora negletta occupazione, si applicavano i morti. Cioè i trapassati. Cioè i fantasmi.

Tanto tempo fa, e anche questo è difficile da immaginare, i bambini erano davvero tanti, tantissimi, e per tanti di loro erano tempi di miseria. Si può pensare che un pur valente e superorganizzato Babbo Natale potesse soddisfare tutta la richiesta? E per di più in un tempo contingentato, dal tramonto della Vigilia all’alba del Santo Natale? Via, non scherziamo. Per questo, e per una sola notte, il grande esercito dei defunti veniva richiamato in servizio.

Bisogna però dire che i morti, pur volenterosi, avevano un grande difetto. Erano inesperti. Dei semplici dilettanti. Di contro avevano un pregio rispetto alle imprese individuali di Gesù Bambino e Babbo Natale. I morti erano tanti. Tanti quanto i bambini, forse qualcuno in più piuttosto che qualcuno in meno. Così ogni morto, dopo aver dormito in santa pace – e alcuni di loro, immaginiamo, dopo essersi rivoltati un anno intero nella tomba per i peccati commessi – doveva tirarsi su, scrollarsi la polvere di dosso e mettersi al lavoro. Ma solo la notte del 2 novembre, e non era poi un grande impegno, ché ogni morto doveva occuparsi soltanto dei bambini suoi diretti discendenti, dividendoseli tra gli altri avi legittimi e aventi diritto. Tra nipoti, pronipoti e bisnipoti si arrivava al massimo a una decina di bambini per ogni morto. Morto sì, ma richiamato in servizio effettivo in quella Notte dei Doni.

Anche quella notte, era il 2 novembre del 1932, tutto sarebbe filato liscio, se non si fosse presentato un imprevisto, un inconveniente molto raro eppure così tipico di quella particolare operazione. Un incarico semplice ma delicato e a cui Tano, il nonno protagonista di questa storia – protagonista in quanto regolarmente morto da quasi sessant’anni – si era preparato alla bell’e meglio, ma con una gran voglia di far bene.

Tano il brigante, si capisce subito, non era stato in vita né un padre esemplare, né un bravo marito, né tantomeno un onesto cittadino del neonato Regno d’Italia. C’è di peggio, Tano non era stato neppure un buon brigante. Accusato di tradimento, era stato “sputato”, processato e quindi giustiziato dai suoi stessi compagni d’arme. I quali compagni, nemmeno ora, morti e stramorti che erano, gli rivolgevano il saluto. Ma le regole della Notte dei Doni valgono per tutti e anche a uno stinco di santo come Tano toccava l’onere e l’onore di distribuire biscotti, noci e dolcetti ai suoi piccoli discendenti.

Aveva un’unica consegna da fare, visto che i parenti si erano accaparrati tutti gli altri nipoti e pronipoti. Ma uno è meglio di zero, pensava Tano tra sé, e facendosi buio, la tensione si mescolava all’entusiasmo. Da vero bestione quale era, non aveva neanche pensato a darsi una ripulita. Indossava ancora gli stracci del giorno dell’esecuzione, con tanto di buchi dei pallettoni sul panciotto e copioso spargimento di sangue. Nella mano destra, sporca e pelosa, stringeva un piccolo involto di carta con i doni per suo nipote. Aveva appena compiuto sette anni e si chiamava Gaetano, cioè Tano, proprio come lui.

Entrò in casa passando attraverso il muro, come vuole il regolamento, e cercò subito il vecchio camino per appoggiare sulla mensola il cartoccio di dolciumi. Solo una scaldatina, poi sarebbe filato via, una cosa di cinque minuti al massimo. Si era dimenticato quanto fosse piacevole scaldarsi le ossa – e chi l’ha detto che uno spettro non possa apprezzare certi piccoli agi. Così rifletteva Tano, sfregandosi una mano sull’altra e allungando le braccia verso le braci ancora rosse. Ma ecco affacciarsi il maledetto inconveniente: dietro di lui senti una vocetta giovane e impertinente: “Tu chi sei? Da dove vieni? Sei venuto a rubare?”

Tano il brigante fu preso da un fulmine e si sentì svenire. E sarebbe svenuto sicurissimamente se solo ne avesse avuto la facoltà. Ma essendo morto, si limitò a voltarsi su se stesso e vide il nipote Tano. Si diede una riassettata alla giacca sporca e sdrucita, si grattò la barbaccia ispida, appoggiò in terra il fucile a due canne, con la poca cautela di cui era capace. Abbassò gli occhi. La situazione era a dir poco imbarazzante e, in quanto spettro, non gli era neppure concesso di arrossire. Scappare? Lui? Davanti a un bambino? Mai! Sarebbe stato un disonore, peggio della fucilazione. Tanto valeva scambiare due chiacchiere.

Era venuto per regalare a suo nipote due dolcetti – questo cominciò a dire il brigante Tano: “E naturalmente per conoscerti, e per dirti di onorare il nome di tuo nonno”. Il nipote lo guardava fisso, un tacito invito a continuare la storia. E il brigante la continuò la storia, permettendosi anche qualche licenza, qualche piccola deviazione dalla verità dei fatti. Tano il nipote ascoltava le mirabolanti imprese del nonno brigante, il suo alto senso della giustizia e dell’onore, l’impegno strenuo a difesa dei poveri e delle vedove. Mano a mano che il vecchio Tano parlava, il giovane Tano, scacciava dal suo olimpo Robin Hood – primo ed unico libro letto – e metteva sul trono Tano il Brigante.

“Ma è sangue quello che hai sui vestiti?”. Certo che era sangue, quello dei perfidi nemici uccisi in battaglia: “Sai ragazzo, il mio era il Tempo dei Giganti, mentre il vostro è il tempo dei nani.”. Gli piacque assai quell’ultima frase, peraltro incomprensibile per un bambino sveglio fin che si vuole, ma pur sempre di sette anni. Ma a un tratto si ricordò del “suo tempo”, il tempo da fantasma in missione che, in effetti, era scaduto da un pezzo. Allora quel brigante da due soldi, quello splendido fanfarone, decise per un’uscita di scena che il nipote potesse ricordare a distanza di anni. Alzò lentamente il braccio destro facendolo dondolare come una bandiera accarezzata da una brezza leggera, impostò la voce a un tono grave e cavò fuori da chissà dove le parole più astruse del vocabolario: “Nipote amatissimo, cui toccò l’avventura di recar teco il nome vetusto del tuo vetusto avo, tieni sempre dianzi ai tuoi occhi l’onore e la virtù.” Sbirciò il nipote e aggiunse: “E ora corri a letto senza voltarti e lasciami solo”. Il nipote Tano non comprese la metà della metà di quel pistolotto di commiato, ma ubbidì e abbandonò il campo. Si voltò un’ultima volta prima di imboccare di corsa le scale: il grande uomo era ancora fermo davanti alle braci morenti del camino.

La mattina seguente si mangiò i dolcetti e tenne per sé il suo segreto.
Quando Tano, non il brigante ma il nipote, raccontò per la prima volta nella sua vita quella storia, erano passati sessantasette anni da quella notte. Nel frattempo era diventato nonno a sua volta e rimbambito a sufficienza. Intanto, quel Secolo terribile e interminabile stava davvero per finire. Ma com’era stato possibile dimenticare tutto? Eppure quello straordinario incontro gli era evaporato dalla mente. Anche lui però ora aveva un nipote. E i bambini non la smettono di fare domande. Quella sera, era il 2 novembre del 1999, gli tornò in mente come d’incanto tutta la storia, ogni parola, ogni minimo particolare di quella notte della sua infanzia, e la raccontò tutta, per filo e per segno al nipote Luigi. Luigino aveva sette anni ed era sveglio, perfino più sveglio di lui alla sua età. Ma sentendo quello strano racconto si turbò per un attimo, e chiese: “Allora nonno hai visto un fantasma?”
Il nonno, sembrava così mite, si arrabbiò: “Che sciocchezza. Ma che fantasma e fantasma, i fantasmi non esistono. Era proprio lui, mio nonno Tano, il brigante, in carne e ossa.”

Proprietà dell’autore, tutti i diritti riservati

Diario in pubblico /
Con-vivere con la Tivù

 

Sembra un destino a cui immancabilmente si va incontro consci della inutilità dell’opposizione e nello stesso tempo della sottile perfidia della mente che – sostiene lei – rende necessaria la constatazione del (de)grado delle scelte degli italioti. Sì! Mi si accusi di essere radical-chic, di preoccuparmi, ormai a tempo pieno, dei programmi tv; ma ormai l’età e il ‘disio’ della conoscenza mi rendono partecipe e succube di ciò che si vede e si percepisce.

Certo! Continuo a registrare e delibare le parole dell’unica Liliana Segre; ad organizzare un commento sulle sue parole e scritti che, spero a breve, consegnerò alla lettura dei miei 25 lettori, ma frattanto guardo, tra ammirazione e repulsione, Ballando con le stelle perché viene annunciata la presenza di un vero attore che seguo con interesse: la signora Coriandoli alias Maurizio Ferrini.

Le sue partecipazioni recenti a programmi quale Che tempo che fa di Fazio hanno mostrato, attraverso l’ironia pressante che lo rende necessario al tavolo della trasmissione, che non tutto è perduto nell’inesorabile evolversi del gusto degli italiani schiavi o sottomessi al diktat del modo più recente di conoscere: vale a dire la tv.
Questo attore sembra destinato ad appaiarsi agli spettacoli strepitosi che il Berlusca concede – bontà sua – nel suo rientro nella politica attiva. Come non avvicinare ‘gli smumi’ della Coriandoli a quelli del cavaliere?

Un altro personaggio trasferitosi dalla politica al teatro, vale a dire il fiorentino Matteo Renzi, gli può stare al paro direbbero i miei, un tempo, concittadini.

Non dico nulla di nuovo se ormai la politica-spettacolo non certo nuova o appannaggio della destra viene assunta quale cuneo preferito nello sfondare o rimuovere l’indifferenza dei votanti. Riguardo con stupore misto a rabbia gli emergenti della parte che con senso del dovere ho di nuovo votato. Vale a dire i Giani, i Nardella, tra quelli che meglio conosco, che reggono la scelta politica della regione toscana e della mia amata Firenze.

Ma il tempo passa e devo ritornare comunque ai miei interessi che coinvolgono nomi solenni: Canova, Bassani di cui cerco con onestà e umiltà di commemorare e ricordarne la lezione senza spettacolarizzazioni che ne abbasserebbero l’insegnamento e il valore. Ma è difficile! Sempre più difficile.

E ancora una volta diventa necessarissimo riappropriarsi di quel detto che siglò la nostra lontana giovinezza: “resistere, resistere, resistere.”. E ai troppo coccolati giovani trattati come se fossero una materia ideologico-politica informe rivolgo ancora quella raccomandazione che suona ancora utile per chi ne vuole cadere nella trappola del merito.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Laura Tussi: “Caro Assange, non ti dimentichiamo”

Tratto da pressenza del 30 ottobre 2022

Durante la maratona mondiale di pensiero e azione per la libertà di Assange organizzata da varie associazioni e realtà pacifiste il 15 ottobre 2022, l’attivista italiana Laura Tussi ha diffuso il testo della lettera inviata a Julian Assange. L’avvocato di Assange, Jodie Harrison, l’ha fatta pervenire al padre.

Caro Julian,

sei incarcerato e osteggiato dai poteri forti per aver indagato e denunciato i crimini e i criminali di guerra in Afghanistan, in Iraq, nel carcere statunitense di Guantanamo.

Grande parte dei mainstream tradizionali, dei mass media convenzionali ti hanno dimenticato.

Ma noi no.

Noi non ti dimentichiamo e non ti abbandoniamo.

Oggi, 15 ottobre 2022, abbiamo realizzato da parte di varie realtà pacifiste una maratona mondiale di pensiero e azione di 24 ore non stop, con performances, messaggi, spettacoli, articoli, webinar per sostenerti e incoraggiarti, caro Julian, per sostenerti e incoraggiarti ad andare avanti, a resistere come con te facciamo tutti noi in questa macabra congiuntura di guerra e oscurantismo.

Julian, sei incarcerato nel Regno Unito.

I poteri forti ti vogliono estradare negli USA, dove hanno chiesto 175 anni di carcere, ossia l’ergastolo: una prematura morte certa, viste anche le tue precarie condizioni psicofisiche.

Julian, tu sei il simbolo mondiale della libertà di stampa.

Sei il simbolo mondiale della libertà di espressione, di pensiero, di azione.

Sei il simbolo mondiale della libertà.

Sei il simbolo mondiale della verità: il nuovo Prometeo.

E noi ti siamo vicini.

Noi stravaganti giornalisti e attivisti che non siamo considerati dai media ortodossi, ma scriviamo per siti come WikiLeaks, siti che hanno a cuore i temi della pace, del disarmo, dell’ambientalismo, della nonviolenza, della cooperazione internazionale e della riconciliazione tra popoli, genti, minoranze.

Riconciliazione, ma mai con fascismo e nazismo.

Perché nel mondo lo strapotere degli Stati Uniti è una dittatura persecutoria, autoritaria, criminale. Ossia senza mezzi termini fascista.

Noi con i nostri siti, i nostri libri, il nostro impegno ti siamo vicini per continuare una nuova resistenza.

La nuova resistenza degli anni 2000.

La resistenza del Terzo millennio.

Contro le superpotenze e i padroni guerrafondai e i signori della guerra che si contrappongono ai partigiani della pace.

I signori della guerra che costruiscono, producono e mercanteggiano armi per fomentare la guerra, la terza guerra mondiale, la potenziale e molto probabile apocalisse nucleare.

Caro Julian, noi siamo convinti che pacifismo è anche sperare che i delegati italiani non vadano alla Cop27 in Egitto, perché recarsi in Egitto significa omaggiare un regime che ha massacrato Giulio Regeni e tiene in ostaggio Patrick Zaki. Simboli anche loro della libertà.

Pacifismo significa anche boicottare i mondiali di calcio in Qatar, che è complice con i Saud e gli emirati arabi del massacro e della guerra civile in Yemen.

Il Premio Sacharov per la libertà di pensiero è stato assegnato dal Parlamento Europeo al popolo ucraino, ma per noi eri TU il destinatario più meritevole.

Per tutto questo e molto altro ancora noi ti siamo vicini.

Un caro saluto,

Laura Tussi
Docente, giornalista e ricercatrice, si occupa di pedagogia nonviolenta e interculturale. Ha conseguito cinque lauree specialistiche in formazione degli adulti e consulenza pedagogica nell’ambito delle scienze della formazione e dell’educazione.

In copertina: Foto di https://www.facebook.com/FREEASSANGEREGGIOEMILIA

Parole e figure /
Che bello avere la Testaperaria!

 

A noi sognatori con la testa fra le nuvole e gli occhi sempre rivolti al cielo, certi di poter spazzare via paure e dubbi con la tenerezza, la bellezza e la fantasia, piacciono i luoghi magici. Siamo talmente attratti dalla magia che non abbiamo quasi più bisogno di cercarli, perché quei luoghi si mettono da soli sulla nostra strada.

Ci basta girare l’angolo e puff quel posto è proprio lì. Ci attende, porge il benvenuto e apre la porta. Gentilmente. Di solito – quasi sempre – si tratta di librerie, ma le mie eccezioni stanno diventando molte. Se la libreria è poi specializzata in letteratura per bambini o ragazzi o si occupa di natura, giardini o alberi che siano, la formula magica è completa.

Nella nostra città alcuni luoghi profumano di serenità al caramello.

Testaperaria è uno di questi, uno di quei posti dove recarsi se, come noi, si amano le parole, i disegni e le figure che incantano.

Ovviamente questi luoghi non sono fatti solo di libri ma, soprattutto, di librai o libraie, come in questo caso, capaci di capire subito cosa si sta cercando, di accompagnarvi gentilmente quasi prendendovi per mano.

Vi presento allora Rita e Paola, che accolgono sempre con un sorriso.

 

Rita e Paola (versione 1)
Paola e Rita (versione 2)

Qui si legge ma, soprattutto, si gioca e ci si diverte tutti insieme, duranti incontri e laboratori dove i grandi trovano il tempo per i loro piccini. Entriamo. Con tanta(e) curiosità.

Ragazze (mi permetto), come è nata Testaperaria e il suo nome?

Testaperaria è nata nel dicembre del 2017 da un’idea maturata nel tempo. In passato entrambe abbiamo lavorato come libraie in una libreria specializzata per ragazzi per circa sette anni. Abbiamo intrapreso poi strade lavorative differenti ma coltivando sempre la passione per l’editoria per ragazzi e l’idea di riuscire, un giorno, ad aprire una libreria tutta nostra. All’inizio del 2017 si sono verificate alcune condizioni che ci hanno portato a considerare il progetto con più concretezza… e siamo partite, con qualche punto interrogativo sul futuro ma molto entusiasmo. È stato un passo importante e impegnativo ma condiviso dalle nostre famiglie, che ci hanno dato il supporto decisivo per intraprendere questa avventura.

Trapezista, Martapesta

Il nome Testaperaria è un piccolo tributo all’albo illustrato di Claude Ponti: Catalogo dei genitori per i bambini che vogliono cambiarli, edito da Babalibri, che racconta di varie tipologie di genitori, tra i quali i Testaperaria appunto, capaci di lasciarsi ispirare da idee nuove e vecchie storie. Ci piace pensare che la lettura permetta a tutti di “avere la testa un po’ per aria” nel senso costruttivo del termine, cioè dia ottimi strumenti per guardare le cose da una prospettiva “altra”: libera, creativa, personale, consapevole.

Perché venire proprio da voi? Io un motivo ce l’avrei, quale pensate che possa essere?

Perché abbiamo cercato di rendere Testaperaria un luogo accogliente e stimolante, dove riempirsi gli occhi di parole dense e belle immagini e, perché no, dove sentirsi un po’ a casa. L’editoria per ragazzi è un mondo sempre più articolato. Pensiamo che Testaperaria rifletta il nostro tentativo di scegliere, tra tante proposte, le letture e i giochi realizzati con più cura ed attenzione. E poi crediamo che i libri offrano spunti per affrontare tutti i piccoli grandi temi della vita, perciò abbiamo scelto di ragionare sulla loro collocazione in modo che anche l’organizzazione dello spazio in libreria fosse funzionale alle richieste dei lettori piccoli e grandi. A Testaperaria ci sono libri che propongono percorsi sulle tematiche più differenti (le emozioni, il rispetto, l’accoglienza, la natura, la crescita, le relazioni, il cinema) e ci sono libri semplicemente belli, eloquenti ed evocativi, che vanno sfogliati, assaporati e assimilati.

A mio avviso gli albi illustrati per bambini e i libri per ragazzi non sono affatto solo per loro. Ne sono la prova proprio io che ormai ne leggo a bizzeffe… Pensate di voler e poter coinvolgere sempre di più un pubblico adulto di lettori?

Gli albi illustrati sono il frutto del lavoro di artisti della parola e dell’immagine.
Sono un piacere dal punto di vista figurativo e spesso sanno restituire, nel rapporto tra testo e illustrazione, tutta la complessità dei sentimenti e delle esperienze della vita in modo immediato, vivido, evocativo, poetico oppure ironico. E questo presuppone un profondo lavoro di ricerca.
Secondo noi gli albi illustrati non solo arricchiscono e stimolano l’immaginario di adulti e bambini, indifferentemente, ma denotano una forma di rispetto del mondo interiore di ciascuno di noi, perché sanno veicolare BELLEZZA, ciò di cui tutti abbiamo bisogno.
Spesso capita che i nostri clienti scelgano di regalare ad un adulto un albo illustrato per la sua capacità di trasmettere un messaggio efficace, limpido, ricco di sfumature e allo stesso tempo intenso e sintetico. Concordo!

La narrativa per bambini e ragazzi è in forte espansione, gli illustratori sono ogni giorno più bravi e, anche per questo, diventano sempre più importanti alcuni Festival di letteratura e fiere del libro nazionali e internazionali. Quali ritenete più interessanti?

La Fiera del libro per Ragazzi di Bologna è, sicuramente, l’evento più significativo e ricco di stimoli per la letteratura per bambini e ragazzi. Non è solo un’occasione per scoprire i progetti editoriali in uscita o le case editrici emergenti, ma è un momento prezioso per ascoltare dalla voce degli autori e degli illustratori quali esperienze e riflessioni stanno alla base del loro lavoro.
E questo aiuta anche il nostro lavoro di libraie, perché ci dà nuove chiavi di lettura e ragioni più profonde per comprendere e amare le storie che leggiamo.
C’è poi un’altra realtà che ci sta molto a cuore pur non essendo una fiera del libro ma un festival dedicato al giornalismo: il Festival di Internazionale, che oggi più che mai è un’occasione per avere uno sguardo consapevole su ciò che accade nel mondo e prendere coscienza di temi urgenti come la giustizia, la legalità, la libertà di informazione, la tutela dei diritti.

Quali sono i vostri Editori (quelli preferiti, che amate e consigliate) e perché?

Forse, più che preferire delle case editrici, potremmo dire che abbiamo un’attenzione particolare nei confronti del lavoro di alcuni autori e illustratori.
Cerchiamo comunque di dare spazio, tra le nostre proposte, a case editrici di qualità, che hanno un’identità e fanno un costante lavoro di ricerca, come ad esempio (solo per ricordarne alcune): Babalibri, Carthusia, Clichy, Lapis, Gallucci, Kite, Glifo, Terre di mezzo, Topiptttori, Orecchio Acerbo, Zoolibri, Camelozampa, Pulce, L’ippocampo.

Abbiamo chiamato la nostra rubrica “parole e figure”, potete spiegare il perché ai nostri lettori?

Il nome della rubrica contiene un riferimento al saggio: Guardare le figure, nel quale Antonio Faeti indagava il mondo degli illustratori italiani dei libri per l’infanzia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, e riconosceva nelle “figure” che essi accostavano ai testi il valore di un immaginario che prendeva forma e di un’identità che si delineava e si esprimeva. 

Inoltre, il nome della rubrica richiama la caratteristica fondamentale dell’albo illustrato: il rapporto tra testo e illustrazione, inscindibile, complementare, dialogico. Ed è proprio questo rapporto che contraddistingue l’albo illustrato come mezzo espressivo che ha strutture, caratteristiche, modalità narrative proprie. Una sua grammatica, si potrebbe dire.

Sempre pensando a questo titolo della rubrica, mi vengono in mente i “silent book”, molto belli. Ne avete e li consigliate? Sono noti al pubblico e richiesti? Credo che per stimolare la fantasia e il pensiero costruttivo siano davvero eccezionali…

Il mondo dei “silent book” è straordinariamente ricco. In libreria abbiamo molti libri senza parole e sempre più spesso ci vengono richiesti.
La bellezza dei “silent book” sta, secondo noi, nei possibili livelli di lettura che il linguaggio figurativo lascia aperti: ogni lettore, senza il condizionamento del testo, scorge nelle immagini frammenti, sfumature, interpretazioni del tutto personali e rimodella il racconto secondo il proprio vissuto, immaginario, bagaglio esperienziale.
Proprio per questo i “silent” non conoscono barriere né vincoli legati all’età, alla cultura, alla lingua o al livello di alfabetizzazione.

Solo per ricordarne alcuni: L’onda di Suzy Lee, Professione coccodrillo di Giovanna Zoboli, S’alza il vento di Anna Paolini, Gita sulla luna di John Hare, Costruttori di stelle di Soojin Kwak, Fiori di città di JonArno Lawson, Via della gentilezza di Marta Bartoli, Il pappagallo di Monsieur Hulot di David Merveille (adoro questo libro, NDR), Un’estate di Ji-Hyun Kim.

 

Nell’era digitale, cosa cerca oggi un giovane lettore “cartaceo”? Come lo riavviciniamo al profumo, al fascino e alla bellezza della carta?

Secondo noi – e il cuore del progetto Nati per Leggere è proprio questo – il libro è fondamentale per lo sviluppo cognitivo, emotivo e relazionale del bambino, fin dai primi anni di vita.
Se fin da piccolissimi il libro è compagno di gioco, occasione di esplorazione tattile e visiva, momento di lettura condivisa con un genitore e strumento per consolidare una relazione affettiva, allora il rapporto con l’oggetto libro difficilmente potrà essere sostituito da uno schermo.
Da parte nostra, la scelta di intraprendere il lavoro di libraie si fonda proprio sulla bellezza del rapporto con il libro cartaceo, che è un’esperienza emotiva, è costruzione di relazioni, ma è anche l’odore e la consistenza della carta, il fruscìo delle pagine da sfogliare e risfogliare, e – perché no?- è la libertà di annotare, di prendersi il tempo di leggere e ascoltare, insieme o da soli.

Un’ultima curiosità: amo moltissimo gli illustratori francesi, come Delphine Perret per citarne solamente una; pensate vi sia spazio, a Ferrara, per albi e libri in questa lingua?

La distribuzione dei libri in lingua nel mercato editoriale italiano non è al momento una realtà strutturata. C’è però, per quanto riguarda i libri in lingua francese (non gli autori francesi ma la lingua), un esempio molto interessante: Passepartout, un marchio che pubblica in francese alcune opere selezionate dal catalogo Kite.

Qualche esempio: L’écrivain di Davide Calì, illustrazioni di Monica Barengo; C’est maintenant ou jamais di Davide Calì, illustrazioni di Cecilia Ferri; L’inventaire des jours di Luca Tortolini, illustrazioni di Daniela Tieni; Les invités de Madame Olga di Eva Montanari; Un jour, sans raison di Davide Calì, illustrazioni di Monica Barengo.

 

Per finire davvero… Si avvicina Halloween e poi Natale (durante questa bella festa, leggere, al calduccio, è un grande regalo a sé stessi e ai propri cari). Quali letture suggeriamo ai nostri affezionati lettori?

Per quanto riguarda Halloween, un libro che amiamo in modo particolare è Una strana creatura nel mio armadio di Mercer Mayer (Kalandraka), che racconta il rapporto tra un bambino e un mostro nascosto nell’armadio, secondo una prospettiva del tutto nuova: qui il mostro ha bisogno di essere consolato e il bambino lo accoglie a dormire nel proprio letto. Fantastico, dico io.

 

Un altro libro intramontabile, capolavoro di Raymond Briggs, è Babbo Natale (Rizzoli), vincitore della Kate Greenaway Medal nel 1973, che racconta la consegna dei regali durante la notte della Vigilia da parte di un Babbo Natale irriverente e un po’ scorbutico, pieno di humor, capace di tenerezza e lontano da ogni cliché. Mi piace molto, dico sempre io.

Ma la lista è lunga, concludo… Andiamo da Testaperaria a curiosare allora. Perché curiosando s’impara. Buona lettura a tutti!

Fotografie di Simonetta Sandri e Libreria Testaperaria. La bella acrobata in negozio è di Martapesta

 

 

 

 

 

 

La libreria Testaperaria si trova a Ferrara, in via de’ Romei 19/A

 

Eliane Brum: “Se vince Bolsonaro, l’Amazzonia è finita”

Dopo aver ricevuto proprio questa settimana il premio Vladimir Herzog per la pubblicazione del suo libro Banzeiro òkòtó, un viaggio in Amazzonia, centro del mondo, la prestigiosa giornalista e scrittrice brasiliana Eliane Brum ha lanciato un commovente appello a votare per Lula (PT) alle elezioni presidenziali di domenica prossima in Brasile. Di seguito la trascrizione e il video originale del suo discorso.

Ieri ho lasciato la mia casa di Altamira, in piena deforestazione amazzonica, per essere qui con voi. Ho lasciato la mia casa dopo aver visto giorno dopo giorno il sole insanguinato prodotto dagli incendi. È un sole rosso, un sole sinistro di crudele bellezza, un sole terrificante prodotto da fuochi criminali. Non c’è niente di più orribile – credetemi – che vedere una foresta che brucia e migliaia di esseri viventi che bruciano con essa. Quest’anno, per la prima volta nella mia vita, non ho seguito l’incendio come giornalista. Ho visto l’incendio da ogni finestra della mia casa.

Questo è il Brasile di Bolsonaro. Il fuoco si avvicina sempre di più e un giorno potrebbe raggiungere tutti noi. Voglio dire in modo molto esplicito che se Bolsonaro sarà eletto domenica, l’Amazzonia è finita. Ha ucciso 2 milioni di alberi in meno di 4 anni. Si è già raggiunto il 20% di deforestazione, quando il punto di non ritorno previsto dagli scienziati è tra il 20 e il 25%.

Se l’Amazzonia finisce, i figli di tutti noi qui avranno un futuro ostile. I figli dall’altra parte del mondo avranno un futuro ostile! Non si tratta della scelta più importante nella vita dei brasiliani, ma di una scelta cruciale per il pianeta. È un’elezione ancora più decisiva per i non umani, che non possono nemmeno votare per fermare la distruzione.

La democrazia brasiliana non ha mai raggiunto i più poveri, i neri, le donne, i popoli della foresta e altri popoli della natura. Ha infastidito troppo poco i bianchi, gli uomini, le classi medie e le persone più ricche di questo Paese. Ed è anche perché non li ha disturbati abbastanza che ci troviamo in questa situazione.

Ormai dovremmo parlare di una democrazia capace di raggiungere non solo tutti, ma anche i diritti della natura. Invece, stiamo lottando per non svegliarci il 31 ottobre in una completa dittatura.

Se Bolsonaro vincerà, l’orrore sarà di un ordine che nemmeno quelli di noi che hanno assistito allo spargimento di sangue sono in grado di concepire. La vittoria di Lula è la nostra migliore possibilità, ma anche così sarà molto difficile. In queste elezioni siamo tra la catastrofe e il molto difficile.

La cosa più importante che posso dire in questa sede è che, a prescindere dal risultato, la lotta non finisce il 31. Quelli di noi che sono vivi stanno affrontando una guerra contro la natura, una guerra planetaria che non finirà finché vivremo. La lotta è eterna e non si può scegliere se essere in guerra o non esserlo. La guerra è già qui e Bruno Pereira e Dom Philips, sette indigeni uccisi in soli 10 giorni a settembre e molti altri solo quest’anno, sono vittime di questa guerra. Ciò che esiste è la scelta di combattere o lasciare che il fuoco ci raggiunga.

Un’amica, quasi paralizzata come tanti dall’orrore di queste elezioni, mi ha chiesto: “Dove troviamo l’aria per respirare?” E io le ho risposto: “Nella lotta, nella lotta collettiva”. In queste elezioni, e ben oltre, l’omissione non è un’opzione.

 

 

A BOLOGNA IL GRANDE CORTEO DEI MOVIMENTI: “I beni comuni vanno affrancati dal dominio del mercato”

 

Sabato 22 ottobre un corteo molto partecipato – i numeri, al solito, si sprecano, ma non si sbaglia di molto a dire almeno 20.000 persone – ha attraversato le strade e la tangenziale di Bologna per dire che occorre, in generale e anche nella nostra regione, cambiare radicalmente le politiche ambientali e quelle del lavoro.

La manifestazione, indetta inizialmente dal collettivo di fabbrica GKN, dal Comitato Nopassante di Bologna, dai Fridays for Future e dalla Rete sovranità alimentare, ha visto coagularsi attorno ad essa un insieme di comitati, movimenti e associazioni sociali – dal comitato contro il rigassificatore a Ravenna alla Rete per l’emergenza climatica e ambientale, dai collettivi studenteschi ai sindacati di base, solo per citarne alcuni tra i tanti. Non mi pare, però, si possa semplicemente derubricare quell’appuntamento sostenendo, come ha avuto modo di dire il sindaco di Bologna Lepore, che “quella di sabato era la prima grande manifestazione nazionale dove si ritrovavano tutte le aree radicali e antagoniste dopo la nascita del governo Meloni….persone da tutta Italia si sono ritrovate a Bologna per motivi politici nazionali”.

Capisco che il sindaco di Bologna faccia di tutto per non sentirsi chiamato in causa, ma, così facendo, non coglie uno dei punti di novità che sono emersi con forza dalla manifestazione del 22 ottobre: la consapevolezza diffusa che il modello di sviluppo, anche della nostra regione, è giunto ad un punto di crisi molto seria, che si manifesta, prima di tutto, nell’insostenibilità delle politiche ambientali praticate e nella regressione dei diritti del lavoro e che, dunque, occorre misurarsi con il fatto di pensare ad un altro e alternativo modello sociale e produttivo.

La buona riuscita della manifestazione fa sorgere almeno altri due elementi di riflessione: il primo è che si è prodotta una convergenza di soggetti e movimenti sociali diversi tra loro che, dopo anni di frammentazione e, per certi versi, di autoreferenzialità, hanno iniziato a ritrovarsi e connettersi. Il secondo è che probabilmente siamo di fronte ad una ripresa della conflittualità e della mobilitazione sociale, dopo un silenzio dovuto anche alla sospensione spazio- temporale e sociale della pandemia.

Lo conferma la buona risposta della settimana precedente alla manifestazione promossa ad Ancona ad un mese dall’alluvione, oppure la partecipazione alle iniziative per la pace, che culmineranno il 5 novembre in una giornata che si preannuncia importante e partecipata.


Certo, questi sono ancora processi tutt’altro che compiuti: c’è, anzi, la necessità di lavorare perché essi si consolidino, ma non c’è dubbio che segnalano una potenzialità presente e da cogliere. Anche per quanto riguarda l’iniziativa in regione, dove occorre rafforzare i contenuti e le mobilitazioni dei movimenti, e fare in modo che il processo di convergenza iniziato prosegua con uno sguardo ampio e inclusivo.

Per non scadere nell’astrattezza, provo ad esemplificare ragionando sul rapporto tra mercato e beni comuni, e come questi devono essere affrancati dal suo dominio e dalle sue logiche. Prendo spunto da un articolo apparso su queste pagine a firma di Andrea Gandini (leggi qui) decisamente interessante nell’analisi, meno condivisibile (a mio avviso) nelle conclusioni.
Interessante nell’analisi, perché viene bene evidenziato come lasciare la gestione dei servizi pubblici che garantiscono beni comuni fondamentali, dal gas all’energia elettrica, dall’acqua al ciclo dei rifiuti, ad aziende di natura privatistica, che si muovono cioè con un orientamento alla massimizzazione dei profitti, come Hera, multiutlity quotata in Borsa, significa promuovere gli interessi degli azionisti (privati e pubblici) e del management, non certo dei cittadini.

A cui però si può ovviare non con il fatto di fare entrare nei Consigli di Amministrazione rappresentanze dei lavoratori e dei cittadini, cosa “incompatibile” con la natura privatistica della proprietà, a meno che ciò non si riduca ad un elemento marginale e subalterno. Occorre, invece, aggredire la questione alle radici, affrontando il nodo della proprietà e quindi facendo la scelta della ripubblicizzazione di queste aziende, non riducendola solo ad un cambio di natura giuridica, ma, anzi, prevedendo appositamente un ruolo fondamentale per l’assunzione delle decisioni di fondo ai lavoratori e ai cittadini e alle loro rappresentanze.

Il tema è di attualità anche in Regione e a Ferrara. Per quanto riguarda il livello regionale, sono state depositate da RECA (Rete per l’Emergenza Climatica e Ambientale) e da Legambiente 4 proposte di legge di iniziativa popolare regionale su rilevanti temi ambientali con più di 7000 firme, tra cui una che riguarda l’incentivazione alla pubblicizzazione delle aziende che gestiscono il servizio idrico e quello dei rifiuti, che dovrebbero prossimamente iniziare l’iter di discussione nell’Assemblea regionale.

A Ferrara è aperta da tempo, sin dalla scadenza della concessione a Hera avvenuta alla fine del 2017, la discussione sul soggetto cui dovrà essere assegnata la gestione del servizio dei rifiuti per il Comune.

Poi, in tempi non biblici, la stessa questione riguarderà la gestione del servizio idrico. Per quanto riguarda il servizio di gestione dei rifiuti, dopo una battaglia che è partita già nel 2018, l’Università di Ferrara è impegnata, su indicazione dell’Amministrazione Comunale, a studiare un piano di fattibilità per la gestione pubblica del servizio stesso.

Discuteremo i suoi esiti, ma sin d’ora è possibile avere un’opinione su quali sono gli interessi perseguiti nel caso della gestione di tipo privatistico o di tipo pubblico-partecipato: basti pensare che a Hera, nella gestione in proroga dei rifiuti a Ferrara, viene erogato un profitto garantito, la cosiddetta remunerazione del capitale “investito”, pari inizialmente al 3% del capitale ed ora innalzato al 6%, che è passata da circa 400.000 € nel 2020 a circa 700.000 € nel 2021 e nel 2022. Inoltre, viene riconosciuto al soggetto gestore (e non agli utenti) una quota relativa al raggiungimento di risultati positivi relativi alla raccolta differenziata.

Ecco, quest’esempio può ben rappresentare il percorso che si tratta di compiere per dare continuità e forza alla mobilitazione che si è espressa con la manifestazione del 22 ottobre.

Si tratta, cioè, contemporaneamente, di sviluppare vertenze nei territori e a livello regionale, che possano essere riconosciute dai vari soggetti e movimenti sociali interessati al processo di convergenza, e di unificarle progressivamente in un orizzonte comune, capace di proporre un’alternativa di fondo alle scelte in materia ambientale e del lavoro.
Sapendo che, con quest’approccio, parliamo di un intero modello sociale e produttivo che va messo in discussione: operazione certamente difficile, ma, in realtà, l’unica possibile e realistica se vogliamo guardare e progettare il futuro.

Per certi versi /
Ballata di Cleopatra

Ballata di Cleopatra

nuova Cleopatra
che seduci
con mani
di limoni
nei saloni degli specchi
ti ammiri
con l’arte
di incatenare i cuori
degli uomini
tu comandi
l’amore
tuo schiavo
potresti essere
un cardinale
giovinetta
nella Parigi di Richelieu
avresti forse ucciso
anche tu Marat
bevendogli il sangue
con Napoleone
ti saresti infilata
tra le sue refurtive
egizie
di Cesare lo sappiamo
eri il gatto col topo
il tuo cuore
inaccessibile
forse l’avresti dato
ai pellerossa
sparando assieme a loro
vestita da cowboy
qualcuno dice
di averti vista
trafiggere le nuvole
con una sigaretta
in bocca
ma il tuo meglio
è la danza
dell’orchidea nera
sei notturna
dalla pelle di luna
liscia e perfetta
come voleva Aristotele
le tue movenze
studiate
le getti via
tutta sola
pallida
di terre anemiche
ti basta
la treccia
per sedurre
anche gli angeli

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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PERICOLO TASER

 

Sabato scorso alla stazione di Ferrara un ragazzo è caduto per terra e si è ferito dopo essere stato colpito da un poliziotto con un taser (acronimo dell’inglese Thomas ASwift’s Electric Rifle, “fucile elettrico di Thomas A. Swift”, chiamato anche pistola elettrica o storditore) ed è stato quindi portato in ospedale in ambulanza.

Nonostante la confusione mediatica sulle dinamiche dell’episodio (difficile capire come il ragazzo potesse essere sia in coma etilico che capace di aggredire) ciò che emerge è che il taser, definito come “arma non letale”, è comunque uno strumento molto pericoloso, il cui utilizzo non può essere sdoganato a cuor leggero.

Le morti legate al taser nei paesi dove è in uso da anni sono centinaia: molto spesso persone di colore. Fra i tanti casi, c’è quello di Dalian Atkinson, calciatore inglese, che nel agosto 2016 è morto per arresto cardiaco dopo essere stato colpito da un taser.

Da quando il taser è stato introdotto in Italia, nel marzo di quest’anno, i media riportano un numero sproporzionato di casi nei quali è stato usato contro persone di origine straniera.
Ai cittadini delle nostre comunità, fermati molto frequentemente dalle forze dell’ordine per controllo documenti, l’introduzione del taser non porta sicurezza, ma paura: la paura che qualcosa di molto grave possa accadere a noi o ai nostri figli.

Nell’esprimere la nostra piena solidarietà alle forze dell’ordine della nostra città nello svolgimento del loro difficile lavoro, riteniamo importante segnalare la grande pericolosità di questa arma.

Associazione Cittadini del mondo – Ferrara

Gli spari sopra /
A.A.A. Cercasi Terapeuta Politico

 

Io dovrei parlare con qualcuno di bravo, sicuramente esistono professionisti ottimi e molto competenti, ma i terapeuti di cui abbisogno sono, purtroppo, tutti morti. Si. Perché io avrei necessità di una rinfrescata, un aggiornamento da parte di professori del calibro di Karl Marx, Antonio Gramsci, magari Giuseppe Di Vittorio, certamente Enrico Berlinguer e Pietro Ingrao, ma anche mio padre o a limite mia bisnonna.

Vorrei chiedere a loro come posso ancora, testardamente, ostinatamente, definirmi comunista in questo assurdo blob futuristico del primo ventennio del XXI secolo. Vorrei sul serio sentire la loro posizione, perché alle volte mi imbatto in compagni più stalinisti di Stalin, incontro posizioni talmente lontane da me che mi fanno venire dei dubbi sul mio sesso politico. Certo, direi che è inutile sottolineare la mia abissale lontananza politica da ogni forma di pensiero di destra, anche il più moderno e moderato, il mio assoluto anti moderatismo, la certezza di non essere rappresentato da qualsivoglia forma di centrismo, dall’essere molto lontano dal centrosinistra, ma spesso non mi rappresenta neppure più la sinistra radicale, di cui io sono elettore.

E allora? Proprio per questo motivo vorrei essere preso in carico da qualcuno dei professori che ho sopra nominato, ma pure da altri, Ernesto Guevara De La Serna, Jean Paul Sartre, Pablo Neruda, Nazim Hikmet, Pier Paolo Pasolini, Rosa Luxenburg, Lucio Magri, solo per citarne una minima parte.

Cosa vorrei dire in queste mie cicliche turbe sul chi sono, cosa mi rappresenta … un fiorino? Vorrei scavare nel significato antico delle parole, essere un compagno, un comunista (per sintetizzare) del secondo millennio cosa significa? Credo di essermi imbattuto in un percorso dattilografico irto di spine.

Nel secolo scorso, questi termini avevano una accezione univoca, ben identificabile da circa un terzo della popolazione italiana e da milioni di persone nel mondo. Ora questa nostra vituperata bandiera è sbrindellata in tanti sfilacci ed esposta ai venti dell’oblio.

Partirei, tanto per non farmi mancare nulla, dalla infame guerra in Ucraina. I perché sono molti, spesso camuffati, le ragioni di un conflitto che cova dal 2014 con migliaia di morti, prima dell’invasione, non possono essere nascosti. Ma ciò non toglie che esiste un invasore e un invaso, Putin non può essere scusato da una parte seppur minoritaria dei Partiti Comunisti nel mondo. Il Partito Comunista Russo farnetica in un suo documento, facendo una analisi storica limitata e semplificatoria delle ragioni che debbono risalire addirittura ai tempi dell’Unione Sovietica. L’imperialismo russo è un atto che va contro ogni tipo di concezione socialista di internazionalismo e abbattimento dei confini e delle frontiere.

“Non più confini, non più frontiere, ma solo al mondo rosse bandiere”.

Ho citato un esempio eclatante di estremismo di un gruppo politico che a mio avviso non può fregiarsi della parola compagno. Nulla centrano con me, come nulla ha mai centrato Stalin, dittatore sanguinario e il più grande sterminatore di comunisti nella storia del mondo. Lenin lo considerava poco intelligente e persona pericolosa, tra i suoi collaboratori non era per nulla un elemento di spicco, peccato che alla sua morte sia divenuto suo erede con la violenza. Poi, tanto per rimanere nella patria del socialismo realizzato (non quello reale che è rimasto chiuso nelle pagine del Capitale), l’odio che una parte della sinistra radicale nutre per la figura, per me rivoluzionaria, di Gorbaciov.

Un esponente comunista/sovranista (a parere mio pure reazionario) di casa nostra ha postato la sua felicità per la morte dell’ultimo segretario del PCUS con l’immagine di una bottiglia che si stappava, dicendo che era in fresco dal 1991. E quindi, per l’esimio proto comunista de noartri quale era la colpa di Gorbaciov? L’aver voluto riformare un sistema irriformabile? Avere voluto rendere trasparente un sistema torbido dove il Politburo decideva la sorte di milioni di cittadini? Avere reso più liberale un sistema liberticida? E quindi, proseguo con le domande al vento, in tanti compagni ritengono l’Unione Sovietica di allora la patria dell’uomo nuovo (mai nato, se non in casi singoli di persone eccezionali) e della libertà? E quindi Putin, figlioccio di Eltsin, reazionario e capital iper liberista è per qualcuno il paladino dell’antiamericanismo? Dimenticando il fatto che furono gli stessi americani e l’occidente tutto a brindare alla salute dello zar, in quanto aguzzino e killer del morente socialismo sovietico.

Perché al mondo non esiste un imperialismo buono e uno cattivo.

Fortunatamente sono 42 i partiti comunisti nel mondo che criticano aspramente l’intervento armato Russo in Ucraina, mentre pochi sostengono l’indifendibile posizione del Partito Russo che abbraccia la tesi della denazificazione dell’Ucraina con le armi. E’ uno scontro fra reazionari dove ovviamente, indipendentemente dai se e dai ma, chi invade uno stato sovrano ha torto. A nessuno questa invasione ricorda le mille guerre imperiali degli Stati Uniti per decomunistizzare l’America Latina, l’Indocina e svariate parti del mondo?

Giuro, mi sento una particella di sodio nell’acqua oligominerale della pubblicità.

Certo che lo so che ora in Italia ha appena giurato il governo più a destra dei tempi in cui c’era lui. Ma nel mio essere fuori tema per vocazione, stavo parlando d’altro.

Credo fermamente che il professarsi comunista nel mondo d’oggi, non ci connoti più come popolo, o come masse lavoratrici, ma ci disperda in mille rivoli, che abbracciano i due estremi dell’arco parlamentare, fino a diventare, in taluni casi, più realisti del re, con posizioni talmente contrapposte da mettere dalla stessa parte della barricata progressisti e reazionari, mentre occorre essere da una parte o dall’altra della barricata, se non si vuole diventare la barricata (Vladimir Ilʹič Lenin).

In questo mio articolo che consapevolmente ritengo patologico, vorrei concludere affermando che il marxismo non è morto: ha avuto un blocco dello sviluppo a causa di una grave mancanza di teste. Dalla morte del filosofo di Treviri e per quasi tutto il secolo breve la classe operaia, le masse lavoratrici hanno avuto una dignità rappresentativa, individuata nei tanti partiti comunisti e socialisti, anche in occidente e soprattutto in occidente, lottavano per il popolo. Ora quella dignità non c’è più. Il percorso evolutivo di un ideale, che ci saremmo pure accontentati fosse rimasta un’idea, muore a Padova nel 1984. Da quel giorno in poi, non solo in Italia, il proletariato e le sue evoluzioni hanno smesso progressivamente di essere rappresentate. Poi, mi rivolgo agli studiosi marxisti o marxiani di oggi, perché avete fatto diventare il pensiero del ragazzone di Treviri un dogma? Lui certamente non avrebbe gradito.

Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”
(A.G.)

PRESTO DI MATTINA /
Gente di cantiere, pietre vive

 

Gente di cantiere: pietre vive

Si fa un gran parlare in questo periodo di cantieri aperti, e non solo in senso metaforico. Il cantiere richiama l’idea del lavorare insieme, e questo implica un progetto comune, una lettura condivisa del progetto e l’attuazione di processi di corresponsabilità, condivisione e coordinamento per affrontare le problematiche che di volta in volta si presentano in fase realizzativa.

Gente di cantiere: vite condivise

Ai miei occhi il cantiere assomiglia a una melagrana brulicante di sementi che premono per uscire fuori e farsi alberi: «la pianta è un cantiere sempre aperto/ a chi vi torna senza averne memoria» (Biancamaria Frabotta [Qui] ).

È parola che rimanda a una pluralità di immagini, di significati e di applicazioni, e si declina forgiandosi con tutti gli aspetti e gli ambiti del vivere umano: dal suo iniziare, prendere forma e infine compiersi. Non può sorprendere allora che all’immagine del cantiere si sia ricorsi pure per rappresentare il cammino sinodale della Chiesa italiana.

In una città e chiesa antiche come la nostra, più che costruire dal nulla, viene da pensare a un cantiere di ristrutturazione. Il rinnovamento passa attraverso un’opera di custodia e salvaguardia, volta ad aggiornare l’antico, a rendere attuale, per l’oggi, quanto di prezioso ricevuto dal passato. La tradizione è tale solo se continua a farci vivere, arricchendosi con noi.

Vetera novis augere et perficere” era il detto di Leone XIII [Qui], volto a sottolineare la necessità di attuare il pensiero di Tommaso d’Aquino nella chiesa dell’epoca: “accrescere e migliorare le cose vecchie con le nuove”. Rendere la tradizione viva, incarnare il vangelo di sempre per comprenderlo e viverlo nella situazione dell’oggi.

Rerum novarum (Delle cose nuove) recita l’incipit della sua enciclica sulla questione operaia, prima pietra del pensiero sociale della chiesa. Con essa iniziò il cammino di apertura della chiesa verso la società e il mondo del lavoro, segnato dalle trasformazioni e dai molti problemi legati al capitalismo industriale.

Il Papa sollecitava così la formazione di organizzazioni sindacali basate sulla solidarietà cristiana, sottolineando la necessità della mediazione statale nei conflitti tra lavoro e capitale.

«L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto».

Il cantiere della sinodalità: un cantiere nel cantiere

La sinodalità è tema centrale e determinante per comprendere la visione e lo stile di Chiesa voluto da papa Francesco. Con il suo magistero, egli ha inteso riaprire quel cantiere del Concilio progettato da papa Giovanni XXIII come aggiornamento pastorale nelle mutate situazioni della cultura e della società in cui la vita della chiesa si esprime.

Certo, tutti desiderano chiudere un cantiere al più presto; ma quando i lavori restano incompiuti occorre avere il coraggio e la pazienza di riaprirlo: e questo è avvenuto attraverso il cantiere della sinodalità aperto al contributo di tutti, soprattutto della base, al fine di attuare finalmente quelle istanze ed esigenze di riforma e rinnovamento rimasti sulla carta al tempo del Vaticano II.

Come nella parabola degli operai della vigna, tutti sono così chiamati a fare la loro parte nel cantiere di un nuovo umanesimo solidale, in quello della fraternità, dell’evangelizzazione e della missione ecclesiale, collaborando anche con coloro che hanno a cuore la costruzione di un futuro sostenibile sulla terra.

Rispetto a questa parabola, noi siamo gli operai dell’ultima ora, gente di cantiere, chiamati ad attuare quel progetto di vita – perché il vangelo tale è − del grande cantiere dell’umanità.

Costruttori solidali si diventa

Mio papà Giacomo era muratore − eravamo dopo la metà degli anni ’60 − e qualche volta l’ho aiutato a costruire la nostra casa. Lavoretti da poco, tanto per darmi soddisfazione: mettere a bagno le pietre, tenere il filo a piombo, passargli gli attrezzi, reggere la staggia sull’intonaco, aggiungere acqua alla calce rappresa, far salire e scendere dall’impalcatura il secchio con la corda e la carrucola. Scoprii allora quanto fosse fondamentale, anche in un cantiere così piccolo come il nostro, l’ascolto reciproco.

Quando fu in pensione venne poi a lavorare a santa Francesca: era la fine anni ’80, e con qualche volontario – fra cui don Sandro, suo fratello Antonio, Gian Franco e Claudio − prese parte ai lavori di ristrutturazione della parrocchia.

Era il nostro un lavoro di bassa manovalanza, dopo il quale intervenivano gli operai dell’impresa. Lavori che proseguirono per anni, imponendomi di vivere molti anni in parrocchia come fosse un cantiere aperto, con impalcature dentro e fuori: prima la casa canonica, poi i tetti, il campanile e infine il consolidamento delle fondamenta della chiesa.

Nonostante questa esperienza sul campo, prima di scrivere di cantieri ho voluto comunque interrogare un amico muratore che è divenuto anche capo cantiere: Lorenzo.

Così gli ho domandato: “Qual è la prima parola che ti viene in mente se io dico cantiere?”. “Sicurezza”, è stata, senza esitazioni, la sua risposta. “Si deve iniziare ogni giornata verificando se siamo sicuri, altrimenti bisogna fermarsi”.

L’etimologia della parola sicuro dice ‘senza preoccupazione’, composto di ‘se’, che indica separazione o privazione, e ‘cura’, (‘preoccupazione’). Si è sicuri perché prima ci si è presi cura di mettere al riparo da rischi e pericoli. “Costruire è prima di tutto custodire”; è capire il valore delle relazioni e della responsabilità; gli altri ci sono affidati per crescere e migliorare insieme.

“Si fa il punto, si valuta insieme”, dice poi Lorenzo. “Io chiedo agli altri se nell’esecuzione del lavoro hanno proposte o idee per una migliore attuazione soprattutto da chi può avere più esperienza. Il progetto stesso va poi valutato in cantiere: vengono studiati i criteri di fattibilità, adattandolo alle situazioni che si incontrano.

La suddivisione dei lavori e il loro coordinamento sono poi essenziali. Un cantiere è un insieme differenziato e molteplice, che comporta e combina articolazioni e mansioni diverse”.

“Ancora è importante l’ascolto di tutti, e il farsi ben comprendere da tutti: saper valorizzare anche mezza idea e poi adattarla con un’altra come con le pietre. Oltre all’ascolto è importante prevedere e provvedere agli approvvigionamenti dei materiali; vedere oltre, mentre si è ancora in corso d’opera”.

“Avere cura delle persone che lavorano è come porre la calce tra le pietre. Si cresce insieme anche in professionalità, perché si impara gli uni dagli altri. Un cantiere nel cantiere è allora anche lavorare con le persone, loro stesse sono un cantiere in costruzione.

È così importante affidarsi a loro con fiducia, dare consigli e soprattutto gratitudine, ringraziali per il loro lavoro, riconoscere la fatica e i sacrifici che comporta. Il cantiere cresce se uno sa trasmettere amore per quello che sta facendo, se ama il suo lavoro diventa contagioso per gli altri”.

Un salmo che dà sicurezza

La sicurezza nei cantieri sinodali può contare sul Salterio − e in particolare sul salmo 127 − come se fosse il suo manuale. Nel suo commento al salmo citato Gianfranco Ravasi [Qui] ricorda che esso introduce uno spaccato «di vita urbana e sociale fatto di case, di città, di architetture, di porte cittadine, di turni di guardia, di figli, di cibo, di lavoro, di sonno».

Il progetto di edificare la vita buona è benedetto da Dio; il salmo canta «la felicità comunitaria (città) e domestica (famiglia)» che nasce dalla sua benedizione. Ci ricorda che l’attività umana, come l’agire sinodale, portano frutto, si accrescono e si attuano a condizione che Lo si prenda o meno come “co-costruttore”.

Infatti, in questo salmo «Dio non si limita a benedire, ma partecipa al lavoro, costruisce egli stesso la casa, ne è egli stesso il custode». E lo fa con stile di gratuità. Quasi a dire che questa è alla base di ogni costruzione e progetto di umanità fraterna, sociale e familiare. Usando la seconda persona plurale, il “voi”, il messaggio del salmo si apre come proposta rivolta non solo all’individuo ma all’esperienza di tutti.

In altre parole si è chiamati nelle nostre comunità cristiane, comunità provvisorie e cantieri aperti, a costruire le nostre relazioni sulla grazia e nella reciprocità del dono.

Se il Signore non costruisce la casa,
invano si affaticano i costruttori.
Se il Signore non vigila sulla città,
invano veglia la sentinella.
Invano vi alzate di buon mattino
e tardi andate a riposare,
voi che mangiate un pane di fatica:
al suo amico egli lo darà nel sonno.

Dio quando costruisce, edifica granai. Così viene da pensare poiché il verbo ebraico che esprime l’atto del «costruire» (qrh) alla lettera significa ‘mettere un solaio, gettare il basamento di un granaio’. Del resto in ugaritico qrjt e in accadico qarflu significano appunto «granaio» (Ravasi).

Senza di Lui, c’è infatti sempre il rischio di costruire ragnatele, anziché edificare comunità. Ce lo ci ricorda la sura XXIX del Corano: «Coloro che prendono per sé dei padroni all’infuori di Dio sono simili al ragno che si costruisce un’abitazione. E chi non lo sa che la casa-ragnatela del ragno è ciò che di più fragile esiste sulla faccia della terra?».

L’apostolo Paolo è nel cantiere della comunità di Corinto come un capomastro ed esorta quei cristiani come fossero operai di cantiere dicendo: «Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio. Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo» (1Cor 3,9-11).

Cantiere navale e comunità di destino

Tra i simboli della Chiesa in età patristica vi è quella della nave come comunità di destino, costruita con tutte le forze: “il colpo d’ascia rimbombi attraverso tutto” e con tutto il cuore “a vele spiegate dal vento”. Siamo tutti sulla stessa barca: coloro che costruiscono la nave, sono gli stessi che con essa navigheranno verso un porto sicuro.

Scrive Hugo Rahner [Qui] in Simboli della chiesa (ed. San paolo Milano 1995, 339): «La teologia dei Padri della Chiesa ha avviluppato tutto ciò nei concetti simbolici in voga sin dai primordi, concetti che vedevano nella Chiesa quella grande nave, a cui è affidata la nostra salvezza.

La Chiesa è navigazione verso il portus salutis. Chiesa è viaggio pericoloso e, allo stesso tempo, meraviglioso: pericoloso, perché non è ancora giunto in porto; meraviglioso, perché è luogo unico di sicurezza, in mezzo al mare procelloso. Questa nave della Chiesa è costruita con il legno della Croce, e il suo ritorno in patria è garantito dall’ albero con il quale il pennone della vela, postogli di traverso, forma la  croce: antenna crucis».

Gregorio Nazianzeno [Qui] descrive come dovrà essere quella fortunata nave, capace di raggiungere un destino di salvezza, e la descrive come Seneca: «Non sia la tua nave colorata con graziosi colori, né brilli di bellezza civettuola, se deve sopportare le forti scosse del mare. No, una buona nave è ben inchiodata ed è a prova di mare e solidamente connessa dal costruttore: soltanto così essa taglierà le onde».

È così la simbolica della nave della vita umana, che va a rappresentare anche quella della chiesa. Comunità di destino è la chiesa come la vita umana dalla cui bontà e dalla cui buona tenuta dipendono la vittoria contro il mare tempestoso.

Gregorio di Nissa [Qui] descrive la costruzione di una buona nave frutto della buona collaborazione di tutti: «Uno mette insieme la chiglia, un altro si dà da fare per erigere le assi. Chi costruisce la prua e chi la poppa. Questi si affatica attorno all’albero e quegli intorno all’antenna».

E se torniamo sulla terra ferma è Ignazio di Antiochia [Qui] che ci offre la descrizione più bella della gente di cantiere, paragonandola a pietre vive: «Voi siete davvero le pietre del Padre preparate per la costruzione che egli compie, elevate con l’argano di Gesù Cristo che è la croce, usando come corda lo Spirito Santo.

La fede è la vostra leva e la carità la strada che vi conduce a Dio. Siete tutti compagni di viaggio, portatori di Dio, portatori del tempio, portatori di Cristo e dello Spirito Santo, in tutto ornati delle parole di Gesù Cristo». (Lettera agli Efesini, 9)

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