Un giovedì di metà novembre ci troviamo presso una nota birreria della zona io, il direttore e Marco Belli, per una sana chiacchierata tra amici. Sembriamo un po’ il Corsaro Nero, l’Olonese e Michele il Basco che tra i fumi di una bettola delle Tortue organizzano l’assalto a Maracaibo.
Marco, oltre a essere un grande amico, è insegnante, fotografo, sommelier e direttore artistico di Elba Book festival, collabora con l’editore Millebattute e organizza workshop di scrittura e fotografia per l’Europa ed è parte integrante del collettivo di scrittori spallini L.A.P.S. Nel 2015 esordisce con “il romanzo dell’ostaggio” (Koi Press), nel 2018 “Adagio polesano” (Babbo morto editore) e con Edicola Edizioni ha scritto “Uno sbaffo di cipria” e “Canalnero”. Un intellettuale eclettico, un misto tra Gramsci e Costante Tivelli, uno scrittore che conosce i tempi del romanzo e gioca con le parole come un autore consumato; insomma, l’è fòrt. Quello che segue è il resoconto, vagamente fedele, di quella serata.
Periscopio: perché il giallo? Hai seguito la scia del Montalbano di Camilleri?
Marco: intanto perché ho sempre amato il genere, dal tenente Colombo a Derrick in TV, la Signora in Giallo, ecc. Inizio a leggere tardi, verso i sedici anni. Oltre alla poesia sono attratto dai gialli.
Periscopio: Quindi ora la poesia non la “pratichi” più?
Marco: diciamo che di tanto in tanto ci ricasco, mi piace inserirla nei miei romanzi, alle volte anche come forma enigmistica nei miei gialli. Il “negativo” leopardiano l’ho inserito anche nel mio primo romanzo. La mia passione per il giallo è il motivo per cui da esordiente ho iniziato da lì. Quando ho una storia spesso mi capita che inizi da un cadavere. In Italia forse il genere non è ancora stato del tutto sdoganato, ma io, frequentando gli amici di Giallo Garda, ho avuto la fortuna di confrontarmi con magistrati e studiosi che mi hanno fatto crescere molto. Negli Stati Uniti e in Inghilterra si studia il genere.
Periscopio: ho conosciuto Oreste del Buono, padre del genere giallo in Italia. Quali sono i tuoi autori preferiti?
Marco: Se mi chiedi i tre giallisti che mi hanno segnato in qualche modo ti dico che sono partito dai racconti di Poe, che continua ad essere un punto di riferimento importante per me. Poi sicuramente Dürrenmatt, (Il Giudice e il Boia) e Manuel Vasquez Montalban, un autore che mette insieme il giallo e la mia passione per l’enogastronomia, un autore fondamentale per la mia formazione.
Periscopio: Montalban parla anche di calcio…
Marco:Calcio, cibo e militanza politica mi avvicinano molto a Montalban, oltre al fatto che lui è uno dei massimi esponenti del giallo classico, il genere che io prediligo. Mi piace meno il giallo che vira verso il thriller. Sono un giallista che utilizza i tempi classici, con accelerazioni magari improvvise, senza essere adrenalinico e frenetico.
Periscopio: Perché hai utilizzato la figura di Elizabeth come personaggio dei tuoi romanzi? E’ vero che hai ritagliato la figura di Vivian prendendo spunto da Elizabeth?(ndr: Elizabeth Rose Alper è una famosa clochard che viveva a Ferrara, deceduta di recente)
Marco:Elizabeth l’ho vissuta intimamente, in quanto fondatore assieme ad altri amici del Circolo “La Resistenza” posso dire di essere stato suo amico. Mi occorreva una donna, un personaggio un po’ particolare, curiosa, magari un po’ logorroica, ma allo stesso tempo raffinata, a suo modo. Ero alla Resistenza, Elizabeth era lì, mi stressava, mi faceva un milione di domande, io ero stanco, ero appena tornato da scuola; cominciai allora a scrivere di lei, avevo voglia di un personaggio un po’ marginale, fuori dalle righe, originale, senza armi, che non fosse uno sbirro. E ce l’avevo lì davanti. Mi domandai a un certo punto: ma lei può avere le caratteristiche che mi servono? Si, è un personaggio che vede, che guarda, ha tempo per guardare, in un ipotetico pedinamento può passare inosservata in quanto “barbona”. In più lei è un medico, nel senso che è realmente laureata in medicina. Alla fine, pensandoci, quanti detective sono meno dotati di lei. Da lì sono partito e sono andato fuori a cena con lei, anche perché non era per nulla scontato che accettasse di essere ritratta fra le pagine di un libro, anzi di esserne il personaggio principale. All’inizio avevo scritto un personaggio molto simile a Elizabeth, molto spigoloso, poco empatico, paranoico, ma l’editore mi ha suggerito che occorreva smussarne gli angoli. Ne ho parlato con lei, ha letto i libri e alla fine ci ha preso gusto.
Periscopio: tra l’altro lei partecipava alle riunioni, andava all’università, alle manifestazioni…
Marco: e abitava alla Resistenza…
Periscopio: Hai lavorato con un editor?
Marco: La casa editrice con cui collaboro, non lo dico io, ha uno dei migliori editor della micro editoria italiana. Per un libro di Vivian occorre il lavoro di quasi un anno.
Periscopio: Ho notato che nei tuoi libri i cattivi sono molto cattivi e i buoni sono molto buoni, mancano le sfumature e i grigi. E’ una tua scelta?
Marco: Nel primo romanzo esiste un taglio abbastanza netto tra il bene e il male, nel secondo il cattivo sembra “buono” per quasi tutto il libro; nel terzo, che sto scrivendo in questo periodo, i grigi sono toni ben presenti nel romanzo. Sono partito da una situazione di bene contro male, nel secondo abbiamo visto che l’omicida è un misto, nel terzo le responsabilità saranno più condivise.
Periscopio: Il terzo sarà quindi il più “taoista” dei tre?
Marco: Sì, come viene naturale ambientando la vicenda in un territorio come quello del Polesine, dove vi è una grande predominanza di acqua, di fango, dove le cose si mischiano continuamente, dove l’acqua non è mai limpida e dove la terra non è mai solo terra. Sostanzialmente nel terzo romanzo questi intrecci saranno ben presenti. Ho cercato di fotografare i luoghi e metterli sulla pagina scritta, credo di essere più bravo a raccontare la psicologia dei luoghi rispetto a quella delle persone. Grazie al cielo ho una compagna psicoterapeuta, che nella terza indagine di Vivian dovrà darmi una mano.
Periscopio: Quando ci si può definire scrittore? Ad esempio io credo che chiunque abbia giocato con una maglia bianca e un numero scritto sulla schiena col pennarello può definirsi un calciatore, è la stessa cosa per chi scrive?
Marco: credo le due cose siano in parte sovrapponibili, anche se non possono essere fatte insieme: nel senso, se fai una non fai l’altra… il gioco, l’odore della canfora, il rumore dei tacchetti, mi manca come a un tossico manca la roba. Anche se, forse, mi sono disintossicato. Ho giocato fino al 2013, ho fatto una partita di calcetto all’Elba quest’estate, ma di solito dico sempre di no.
Abbiamo avuto tantissimi scrittori che facevano altro: operai, impiegati, esempi che io adopero molto spesso a scuola, per cercare di ricompattare la figura dell’intellettuale organico a chi fa qualcosa con le mani. Spesso chiedo ai miei ragazzi di immaginarsi un contadino che può fare lo scrittore, così come uno scrittore può arare la terra. Alcuni nostri vecchi insegnanti in maniera sprezzante e offensiva dicevano al meno bravo della classe “vai a zappare”, non sei buono per lo studio, creando quella frattura di cui parlavamo all’inizio tra il mondo del lavoro e quello intellettuale: una frattura che va ricompattata. Questo concetto cerco di trasmetterlo ai ragazzi a scuola.
Periscopio: La “missione” del Pci fino a quaranta anni fa era anche quella, insegnare ai cafoni a leggere, per avere opinioni, per poter aumentare la propria conoscenza, per poter ribattere al padrone…
Marco: Mao diceva che l’uomo doveva lavorare con le braccia e con la mente, l’immagine dell’intellettuale odierno è quella di una persona distaccata dalla realtà, in un salotto bene, gente che ha i soldi… ecco perché la cultura è ancora appannaggio delle classi privilegiate. I Wu Ming sono un esempio di intellettuali che cercano di ricomporre questa frattura, atavica, tra mondo del lavoro e cultura.
Periscopio: in conclusione, due parole sul rapporto tra letteratura e calcio.
Marco:forse vi deluderò, ma non mi sento un esperto di calcio. Non conosco i giocatori, i moduli, gli schemi, ma ho giocato tanto al calcio, sono stato un eroinomane di calcio, ho girato molto col pallone, ed stata per me una scuola, ho letto poco di calcio perché lo praticavo.
E la Spal? Non è calcio: è un’utopia in pantaloncini corti, ammantata dai colori del cielo.
In questi lunghi giorni passati all’ospedale di Cona per curare una forma non consueta di sarcoma, ho potuto osservare, apprezzare e condividere il delicato e spesso non appagante lavoro degli addetti: dal primario, ai medici, agli infermieri ai tecnici, fino a coloro che tengono puliti gli ambienti.
Vengo accolto da una gentile signora, che cambia aspetto a seconda dell’età che s’intuisce sotto la mascherina e ne ho ammirata una che esibiva con fierezza una capigliatura integralmente tosata ai lati e fieramente svettante sul cocuzzolo.
Immediatamente, proprio per combattere l’ansia che mi divora, cerco di trasformare in racconto ciò che sperimento. La prima volta sono ammesso alla presenza del ‘capo’, che cortesemente mi fa accomodare e rivela subito la conoscenza del mio lavoro e delle mie inclinazioni culturali.
Mi chiede senza ambagi se l’aiuto a montare una mostra di pittura ferrarese da esibire nei corridoi del reparto, che accompagni i pazienti-fruitori nel loro percorso al luogo dell’irradiazione. Accetto entusiasta, promettendo di interessare gli amici della LILT e delle altre associazioni medico-culturali, però (non smentendo la mia natura contrattuale) chiedo anch’io un grande favore, ovvero quello di essere spostato alla mattina invece che nel pomeriggio.
Gli racconto che il sonnellino post-prandium è così connaturato alla mia natura che, ai tempi dell’Università non ho mai frequentato le lezioni di latino che si tenevano alle 15, osando sfidare il grande studioso, divenuto poi collega e amico, cercando di arrampicarmi sugli specchi fino a buscare un “ritirato”, che avrebbe potuto macchiare il mio impeccabile libretto e la possibilità di mantenermi a Firenze con le borse di studio. Così per un anno dormii su Tito Livio, ma alla fine riscattai la dormitina con un altro 30 e lode.
Vengo fatto accomodare nella sala d’attesa; mi si assegna un numero che, una volta scandito al microfono, mi avrebbe condotto alla sala radiazioni. Nella sala d’attesa troneggia uno scaffale pieno di libri. Un cartello indica che si possono leggere, portarli a casa e sostituirli con altri e allora mi si apre il cuore. C’è un Arbasino che non avevo. L’ho cambiato con altri sei testi.
Infine risuona il mio numero. Trepidante m’avvio alla stanza accompagnato da una giovane allegra che mi chiama Giannantonio. La interrompo spiegandole che rifiuto quel nome e che avrei apprezzato di venir chiamato Gianni. Allegramente annuisce. Ora, dopo molte sedute, le ragazze e i ragazzi nel reparto fanno echeggiare un “ciao Gianni!” che mi inorgoglisce.
Infine, arrivo e mi si presenta quella che chiamo ‘la maschera di ferro’. Tumultuosi si affacciano i ricordi dei libri letti sull’argomento, specie quello di Dumas, che da ragazzetto mi intrigava al punto di tentare di leggerlo in francese nei miei primi anni giovanili.
Vengo sdraiato su un lettino sotto un tetto luminoso che fotografa un bellissimo ramo fronzuto con le foglie autunnali. Attorno a me si stringono diverse persone, tra cui un gigante dalla voce profonda dotato di meravigliosi zoccoletti di lavoro gialli.
Si appresta la maschera che già mi era stata confezionata: imponente, bianca, un poco mostruosa. Ma già alla prima seduta comincio ad averne fiducia, mentre interpellanze gentili chiedono cerotti e nastri adesivi; la musica in sottofondo trasmette le più recenti canzoni canticchiate da chi attorno procede alla sua collocazione. Dal basso profondo del gigante in zoccoli, alle voci femminili che rivelano provenienze regionali diverse.
Chiudo gli occhi e un gelido sacchetto mi viene posto sul cranio mentre il medico, come una partita di calcio, dà il via. Da lontano un misterioso rumore annuncia l’irradiazione, si fa più vicino, scarica i suoi benefici raggi e s’allontana, mentre un affrettato trapestio m’annuncia ciò che vien detto con affetto “Gianni, ora lo liberiamo”.
Così con delicatezza mi mettono in piedi e di nuovo insciarpato raggiungo l’uscita, pronto per il giorno dopo. È un’esperienza che potrebbe essere traumatica se non fosse per la preparazione, la cura di tutti che sfiora l’amore e mi rende orgoglioso di far parte di quella istituzione che è il servizio nazionale pubblico e che così vergognosamente viene trattato dalla politica.
Non dimenticherò questa esperienza e ancora dico grazie a chi svolge il proprio lavoro con consapevolezza e orgoglio.
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“E’ nella natura dei mortali calpestare ancora di più chi è caduto”
Eschilo
La vicenda che ha investito Aboubakar Soumahoro e la sua immagine è un autentico lavacro per tutti i maneggioni italiani, i puttanieri, i trafficoni, i piccoli o grandi delinquenti con il colletto bianco o l’appellativo di onorevoli o amministratori segnalati al casellario giudiziale. Ed è una mangiatoia anche per i loro prezzolati cantori a mezzo stampa. In un paese, dal Parlamento alle circoscrizioni, immerso nel malaffare, nelle malversazioni, con un livello di evasione fiscale unico al mondo, segnato dai patti con la criminalità siglati da chi ha influenzato il governo e il costume italiano negli ultimi trent’anni, poter infamare il nero paladino dei diritti equivale ad un pantagruelico banchetto in cui tutti si possono abbuffare, con liberatorio corollario di rutti e pernacchie all’indirizzo dell’impostore.
L’indifferente se ne frega della sorte di quelli che stanno sotto di lui. Non gli interessa nulla di nessuno, a meno che non riguardi lui e la sua famiglia, percepita spesso come fosse una famigghia. Tutti gli altri possono andare a farsi fottere.
Se la coscienza ogni tanto gli manda una puntura di spillo, casi come quello delle cooperative della famiglia Soumahoro, che dichiara una vocazione al riscatto degli oppressi mentre (forse) essa stessa li sfrutta, tacitano ogni morso interiore: lovedi? Siamo tutti uguali. Anzi, io sono meglio di loro, perchè non sono un ipocrita impostore.
Per questo la debolezza umana, l’errore, la superficialità sono imperdonabili per chi si erge o viene erto a simbolo di lotta contro l’ingiustizia. Soprattutto se la lotta prevede un impegno di riscatto degli ultimi dalla loro condizione. Se emerge la possibilità di mostrare che il difensore degli sfruttati è uno sfruttatore, l’amoralità dell’indifferente esulta. Se poi il difensore degli oppressi opprime proprio coloro che dovrebbe liberare, l’indifferente trionfa, banchettando sulle sue spoglie. Non parliamo poi dei trafficoni, dei delinquenti, dei puttanieri. In questo caso, ad essere legittimate non sono le intime amoralità, ma le loro azioni.
L’esempio conta più delle parole. Enrico Berlinguer, come lui era, per un militante contava molto più della parola “comunismo”. Sandro Pertini, come lui era, contava per un cittadino più della parola “partigiano”. Se l’esempio è negativo, le parole (e persino le azioni) più oneste e condivisibili vengono irrimediabilmente sporcate dal fango. Che un Berlusconi abbia corrotto giudici, pagato parlamentari, messo su un giro di prostitute, alcune minorenni, non è percepito così grave da una parte della popolazione, perchè coerente con l’idea intima che si ha della persona. Che poi la stessa parte della popolazione provi ammirazione per quel tipo di persona, è un fatto che Ennio Flaiano descrive in maniera insuperabile a proposito del carattere degli italiani.
Vicende come questa inquinano e devastano il territorio dell’immaginario molto più nel profondo di quanto appaia. Il fango schizza addosso a tutti coloro che, coi loro limiti, le loro imperfezioni e debolezze, lavorano per una qualche forma di “giustizia sociale” – e il fatto che, nello scriverla, trovi l’espressione retorica, restituisce lo strame che è stato fatto di certe idee.
Da questa vicenda si ricavano due (inascoltate) lezioni.
La prima: chiunque, anche il migliore dei rivoluzionari, dovrebbe schivare come il demonio l’ipotesi di diventare il totem di un culto, anche il più nobile. I totem hanno un destino comune: quello di essere abbattuti.
La seconda: chi fa propaganda della sua lotta, deve essere più irreprensibile degli altri. Altrimenti, più viene portato in alto, più la caduta sarà rovinosa.
L’ombra sta alla ferialità dei giorni come la luce alla festività. Ombra della luce è allora l’avvento, come pure la poesia: il dono di una benedizione attesa, un seme nella mano da sparpagliare nei solchi del quotidiano.
Scambio occhiate nervose
con l’uomo che vende
semi di cocomero a mia figlia.
L’ombra di un uccello passa
sopra le nostre mani.
Il venditore alza la frusta e
parte in fretta, dietro il vecchio cavallo
in direzione di Beersheba.
Mi offri di scegliere i semi che voglio.
Hai già dimenticato l’uomo
il cavallo
e anche i cocomeri e
l’ombra era qualcosa non vista
tra me e il venditore.
Accetto il tuo dono qui
sulla strada asciutta.
Allungo la mano per ricevere
la tua benedizione.
(Semi, Orientarsi con le stelle. Tutte le poesie di Raymond Carver, minimum fax, Roma 2016, 463)
Un feriale, quotidiano avvento − ho pensato − quello tutto dispiegato nell’opera poetica di Raymond Carver(1938-1988).
La quotidianità è il luogo in cui esso ha preso forma: un attendere a parole e a racconti fissando l’attimo passante nello scorrere dei giorni, senza pretese di stupire. Sulle prime si ha l’impressione siano parole radenti la banalità. Giorno dopo giorno, quelle stesse parole paiono invece segnate dal mistero latente in ogni cosa, oggetti, persone e avvenimenti raccolti nel momento del loro accadere.
Perché dire ‘quotidiano’ è come dire usuale, prevedibile, dimesso, proprio come paiono le poesie di Carver. Del resto, per dirla con le parole di madonna Fiammetta, in un racconto del Boccaccio, una poesia «semplicemente è di feriali vestimenti vestita». Una poesia in compagnia delle sue più nobili compagne, che «rifiutando li già voluti onori», trovi «umile, ne più bassi luoghi». Tale è stata anche l’esperienza poetica ed esistenziale dello scrittore Carver.
Fu segnato dall’inquietudine fin dalla giovinezza per le difficoltà materiali dovute alla povertà. Ciò non gli impedì tuttavia di coltivare la sua passione per la letteratura. Leggeva testi di Isaak Babel, Ernst Hemingway e Anton Čechov, ma anche Thomas Mann, Hermann Broch, Elias Canetti. All’inizio scriveva in qualunque posto si trovasse: in cucina, in garage, nella macchina parcheggiata. Poi ovunque la solitudine gli facesse compagnia.
Nel 1963 tra molte difficoltà riuscì a laurearsi. Passò attraverso l’alcolismo, ma ne uscì grazie all’incontro con la poetessa Tess Gallagher che divenne in poi sua moglie. Grazie a lei ottenne la cattedra di Letteratura inglese presso la Syracuse University, così da potersi dedicare anche alla scrittura. Arte che insegnò pure a molti apprendisti scrittori.
Suo è il testoIl mestiere di scrivere, un’iniziazione alla scrittura creativa attraverso il racconto della sua breve esperienza umana e letteraria (morì ancora giovane a 50 anni per una grave malattia). Nell’introduzione di Tess al libro leggiamo: «Quando soffriamo, torniamo sulle sponde di certi fiumi» (Czesław Miłosz). E secondo me, per Ray anche le poesie, come i fiumi, erano luoghi dove riconoscersi e guarire:
[…] A un certo punto mi sono sdraiato sulla sponda
e ho chiuso gli occhi per ascoltare il rumore che faceva l’acqua
e il vento che fischiava sulla cima degli alberi. Lo stesso vento
che soffia giù nello Stretto, eppure è diverso.
Per un po’ mi son lasciato immaginare che ero morto
e mi stava bene anche quello, almeno per un paio
di minuti, finché non me ne sono ben reso conto: Morto.
Mentre me ne stavo lì sdraiato a occhi chiusi,
dopo essermi immaginato come sarebbe stato
se non avessi davvero potuto più rialzarmi, ho pensato a te.
Ho aperto gli occhi e mi sono alzato subito
e son ritornato a esser contento.
È che te ne sono grato, capisci. E te lo volevo dire»
(ivi, 26).
Essenzialità, sobrietà, povertà del tracciato testuale non sono sinonimi di improvvisazione e trascuratezza. Nascono al contrario dalle continue rifiniture, cambiamenti che egli apportava ai testi per toglierne il superfluo e risaltare la prossimità, più prossima, tra parole e l’accaduto.
Come nella luna calante la limpidezza del cielo notturno fa intravedere anche la parte in ombra del disco lunare, così l’atto di scrittura che riduce al minimo la realtà per farla stare nelle parole, in un certo modo la eclissa, la oscura, sino a manifestarne non tanto la luminosità, ma la forma d’ombra.
Chissà cosa avranno pensato i vicini
vedendo una famiglia lasciare la casa
nel cuore della notte?
La lanterna che si muoveva dietro le finestre
senza tendine. Le ombre che si spostavano di stanza
in stanza raccogliendo le proprie cose in scatoloni.
L’ho visto di persona
come può ridurre un uomo la frustrazione.
Può farlo piangere, può fargli sfondare
una parete a pugni. Può fargli sognare
una casa tutta sua
alla fine di una lunga strada. Una casa
piena di musica, agio e generosità.
Una casa che non è stata ancora vissuta
(ivi, 124)
Così si sta nella poesia di Raymond Carver: come nell’ombra della luce. Il sublime della luce è presente attraverso e nella sua ombra, come la festività è presente nella ferialità del quotidiano quale suo principio e alimento.
Così lo ricorda la moglie e curatrice dei suoi testi Tess Gallagher: «Ray voleva innestare la lingua all’esperienza in tutta la sua tenace vitalità, nella sua crudezza» (ivi, 21).
Come eravamo saliti.
Strisciando alla cieca tra gli arbusti, scavalcando i tronchi caduti,
inoltrandoci tra i cespugli. Le ombre scendevano dagli alberi
ormai sulle rocce piatte ancora calde di sole. E anche i serpenti.
(ivi, 135)
E prosegue: «Ricordo un commento sulla vita e l’opera di Emily Dickinson in cui le sue poesie venivano descritte come scaturite in modo così diretto dalle esigenze dell’anima da infrangere persino il concetto stesso di poesia come prodotto strutturato della lingua…
Ray faceva sembrare ciò che è estatico una cosa comune, alla portata di tutti. Sapeva anche qualcosa di essenziale, che troppo spesso viene sacrificato a preoccupazioni minori: che la poesia non è semplicemente reticenza servita al posto di ciò che intendevamo dire. È un luogo dove essere aperti e riconoscenti, per fare spazio e accogliere quegli avvenimenti e quelle persone che più sono vicine al nostro cuore. “Te lo volevo dire”. E lo ha fatto» (ivi, 18; 26).
Così, seguitando la lettura, scopri l’ombra della luce vivente
Per addentrarti nel mistero dell’Avvento, come dentro una Poesia, occorre l’ostinazione di continuare a provare: perché leggere come scrivere, credere come sperare equivale a disegnare una finestra su un muro d’ombra, per poi provare ad aprirla.
“L’ombra della luce vivente” è una espressione molto cara alla monaca e mistica medievale Ildegarda di Bingen, dotata di una rara qualità visionaria. Nella sua simbologia l’ombra della luce è l’umanità, e viene utilizzata non già per affermarne l’inconsistenza davanti a Dio, ma per esprimere la sua origine. L’ombra non ha pertanto valenza negativa; piuttosto l’umanità e la mistica sono per Ildegarda ombra della luce vivente perché originate dalla luce increata, create e informate dalla luce inaccessibile in cui abita Dio:
«Si chiama ombra della luce vivente, e come il sole, la luna e le stelle si vedono nell’acqua, così le sacre scritture, i sermoni, le virtù e certe opere degli esseri umani mi si manifestano risplendendo come immagini in essa… Non posso assolutamente vedere che forma abbia questo splendore, allo stesso modo in cui non passò guardare fissamente la sfera del sole.
Tuttavia qualche volta riesco a scorgere in esso una luce diversa, che per me si chiama luce vivente. E quando vedo questa luce mi si sgombra la memoria di ogni tristezza e dolore e allora mi comporto come una ragazzina nella sua semplicità, e non come una donna anziana» (Michela Pereira, Ildegarda di Bingen, Verona 1917, 20).
L’assist a seguitare il cammino nell’ombra nei testi di Carver mi è venuto dal gesuita Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica e studioso del poeta, che in un’intervista ha dichiarato: «La poesia di Carver è una poesia che usa un linguaggio assolutamente ordinario, e quindi mi parvero all’inizio abbastanza banali. Cominciai perciò a leggere, un po’ stupito, quasi infastidito.
Però, continuando a leggere, mi resi conto che lì c’era vera poesia, cioè mi resi conto che i miei occhi, la mia mente, la mia attenzione erano incollati alla pagina: sentivo l’emozione che scaturiva da quel linguaggio tanto ordinario.
Rimasi sorpreso dalla forza che percepivo leggendo, da quei versi e dalla assoluta semplicità della parola, quello che Carver definisce understatement of emotion. (Eufemismo: quando qualcosa o qualcuno, un sentimento. un’emozione, un fatto vengono minimizzati rispetto al loro valore intrinseco per facilitare la comprensione della parola). Proprio questo patto profondo, direi quasi biografico, si stabilisce tra il lettore e lo scrittore, grazie a un linguaggio che non fa infrazione rispetto alla norma ordinaria né è particolarmente sperimentale. Sentivo che lì c’era della vita» (Pangea, Dialoghi, 22.5. 2022).
Scrivere per essere pronti alla tenerezza
Questa mattina c’è neve dappertutto. Lo notiamo entrambi.
Mi dici che non hai dormito bene. Ti confesso
che nemmeno io. Hai passato una nottataccia. «Anch’io».
Siamo straordinariamente calmi e teneri l’un con l’altra
come se avvertissimo il nostro traballante stato mentale.
Come se ognuno sapesse cosa prova l’altro. Anche se,
naturalmente, non lo sappiamo. Non lo si sa mai. Non importa.
È la tenerezza che mi preme. È questo il dono
che mi commuove e mi prende tutto questa mattina.
Come tutte le mattine
(ivi, 337).
Proseguendo ancora tra le righe de Il mestiere di scrivere. Esercizi, lezioni, saggi di scrittura creativa, (Einaudi Torino 1997) la finestra nell’ombra ha dischiuso ancora il lume della tenerezza; si è aperta sopra: Meditazione su una frase di Santa Teresa, che fu l’ultimo discorso di Carver tenuto in pubblico, il 15 maggio 1988, in occasione della cerimonia in cui gli fu conferita la Laurea in Lettere honoris causa dall’Università di Hartford, Connecticut:
«C’è una frase negli scritti di Santa Teresa che, nel preparare questo discorso, mi è sembrata via via sempre più adatta all’occasione. È stata usata come epigrafe per una recente raccolta di poesie di Tess Gallagher, la mia cara amica e compagna che oggi è qui con me, ed è dal contesto di questa epigrafe che cito la frase.
Santa Teresa, questa donna straordinaria vissuta 373 anni fa, ha detto: “Le parole conducono ai fatti […] Preparano l’anima, la rendono pronta e la portano alla tenerezza”. Così espresso, questo pensiero è limpido e bellissimo. Lo ripeterò un’altra volta perché, in un sentimento portato alla nostra attenzione a questa distanza, in un’epoca che è sicuramente meno disponibile a sostenere questo importante collegamento tra ciò che diciamo e ciò che facciamo, c’è anche qualcosa di strano, di esotico: «Le parole conducono ai fatti […] Preparano l’anima, la rendono pronta e la portano alla tenerezza.
C’è qualcosa che è più che misterioso, per non dire – perdonatemi – addirittura mistico, in queste parole… di “Tenerezza” – ecco un’altra parola che non sentiamo tanto spesso oggigiorno e specialmente in un’occasione pubblica e gioiosa come questa. Pensateci un attimo: quando è stata l’ultima volta che l’avete usata o l’avete sentita usare?
È altrettanto rara quanto l’altra parola, “anima”. Nel racconto di CechovII reparto n. 6, c’è un personaggio di nome Mojsèjka, stupendamente delineato, che per quanto ricoverato nel settore dell’ospedale riservato ai malati di mente, ha assunto l’abitudine di praticare una particolare specie di tenerezza. Ecco cosa scrive Cechov: «A Mojsèjka piace rendersi utile. Porta l’acqua ai suoi compagni, li copre quando s’addormentano; promette a ciascuno di portargli un copeco o di fargli un berretto nuovo; ed è lui che imbocca con il cucchiaio il suo vicino di sinistra, che è paralizzato».
Parole che rimangono nell’aria come azioni: un lavoro da compiere
Così sorpreso e ammirato di questo supplemento di coscienza e di lume ho esclamato dentro: “Avvento, cammino di tenerezza; avvento: passante di valico dal dire al fare, al modo dell’ombra che risale alla sua luce vivente“.
Alla scuola di scrittura di Raymond Carver, questo sabato.
In dono: l’aura del suo lavoro.
Il mio lavoro
Alzo lo sguardo e li vedo incamminarsi
giù per la spiaggia. Il giovanotto
ha sulle spalle uno zaino con il bambino.
Questo gli lascia le mani libere
per poter prendere la mano della moglie
nella sua e dondolare l’altra. Chiunque può vedere quanto sono felici. E intimi. E costanti.
Sono più felici di chiunque altro e lo sanno.
La cosa li rende allegri e modesti.
Vanno fino alla fine della spiaggia
e scompaiono alla vista. Ecco fatto, penso,
e ritorno a questa cosa che governa
la mia vita. Ma dopo qualche minuto
ecco che tornano a passeggiare sulla spiaggia.
L’unica differenza
è che hanno cambiato lato.
Lui è dall’altra parte ora rispetto a lei,
dalla parte dell’oceano. Lei, da questa parte.
Ma si tengono ancora per mano. Ancor più
innamorati, se possibile. E lo è. Lo sono stato anch’io per tanto tempo.
La loro è stata una modesta passeggiata, quindici minuti
all’andata, quindici al ritorno.
Hanno dovuto farsi strada
tra gli scogli e aggirare grossi tronchi
sbattuti qui quando il mare ha fatto il matto. Camminano in silenzio, lentamente, tenendosi per mano.
Sanno che l’acqua è lì, a due passi,
ma sono così felici che la ignorano. L’amore sui loro volti giovani. La sua aura.
Magari durerà davvero per sempre. Se sono fortunati,
e buoni, e tolleranti. E attenti. Se riusciranno
a continuare ad amarsi senza risparmio.
E a essere sinceri l’uno con l’altro – soprattutto questo.
E lo saranno, naturalmente, lo saranno,
sanno benissimo che lo saranno. Torno al mio lavoro. Il mio lavoro torna a me. E il vento si alza un po’ sull’acqua.
(ivi, 209-220).
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Andiamo, forza! Basta esitare, avere dubbi, andiamo avanti per le nostre strade, pur con tanta fatica, perché le cose vanno molto diversamente da come ce le siamo immaginate. Proseguiamo, allora, testa alta e schiena dritta, in questo incredibile viaggio chiamato vita.
“Quando pensi al tuo futuro, come te lo immagini”? Questa la domanda che Johnny (un meraviglioso Joaquin Phoenix, lo ricordiamo da Joker…), noto giornalista radiofonico dal cuore tenero, pone ai bambini americani durante molteplici interviste realizzate spostandosi attraverso gli Stati Uniti. Imprevedibilità dell’esistenza, futuro non proprio idilliaco…
Eccoci proiettati nel bellissimo film C’mon c’mon, di Mike Mills, un racconto on the road rigorosamente in bianco e nero, alla scoperta delle vite dei più giovani e della loro visione del mondo e del futuro. Che fa restare a bocca aperta, avvolti dalla meraviglia e dallo stupore del tenero e delicato legame che si instaura fra il giornalista e il giovane nipote Jesse (la rivelazione Woody Norman), al quale la sorella Viv (Gaby Hoffmann) chiede di badare mentre lei si prende cura del marito che soffre, da tempo, di disturbi mentali.
Johnny è perso per la morte della madre e l’abbandono della donna amata, fatica ad aprirsi. Jesse ha solo otto anni ma è incredibilmente intelligente e sensibile, curioso e iperattivo ama giocare al fingersi orfano. Strano gioco. Durante il loro viaggio fra Los Angeles, New York, Detroit e New Orleans, tra zio e nipote si viene a creare un legame inaspettato e tenero, fatto di comprensione e complicità oltre che di grande affetto e amore. Un’esperienza unica che cambierà profondamente entrambi.
Un viaggio che tocca i temi della paternità mancata, dell’importanza e difficoltà di essere figli, amici o genitori (nella sua bellezza entusiasmante, perché non esistono regole per essere bravi genitori), dei giganteschi punti interrogativi sul futuro nostro e del pianeta.
Tutto in un bianco e nero brillante che amplifica il senso di intimità della storia donandogli un’atmosfera senza tempo e confini. Una quotidianità che resta poetica, fatta di due anime che si vedono e ascoltano, pur faticando a raccontarsi, a volte quasi invertendo i ruoli.
Un affresco da sfiorare in punta di dita e di pensieri, un racconto intimo dai caldi toni d’acquerello da vedere con il fiato sospeso e pure con qualche lacrimuccia.
C’mon c’mon, di Mike Mills, con Joaquin Phoenix, Woody Norman, Gaby Hoffmann, Jaboukie Young-White, Elaine Kagan, Scoot McNairy, Mary Passeri, Brandon Rush, Kate Adams, Molly Webster, Deborah Strang, USA, 108 min.
Immagine in evidenza Joaquin Phoenix, Woody, Norman Courtesy of A24
L’uomo camminava incerto tra le macerie, era legato ai polsi e il suo carceriere lo seguiva puntandogli il kalashnikov alla nuca. L’uomo non pensava a nulla, solo a ciò che gli sarebbe accaduto di lì a poco.
Sapeva che la sua vita era alla fine, che non avrebbe più rivisto sua moglie e suo figlio. Sapeva che avrebbero gettato il suo corpo in una fossa comune e che non l’avrebbero più trovato.
Sapeva già tutto anche se nessuno gli aveva detto nulla.
In questa guerra maledetta se ti fanno prigioniero sei finito, e la cosa migliore che ti può capitare è quella d’essere ammazzato in fretta. Questo sapeva.
Ma lui era stato torturato.
I suoi aguzzini erano due ragazzi dell’età più o meno di suo figlio. Lo torturavano e se la ridevano tra loro mentre ascoltavano musica metal a tutto volume così da coprire le urla dell’uomo.
Per due giorni gli martoriarono le carni con un rasoio e con una tenaglia gli strapparono le unghie delle mani, poi passarono ai genitali colpendoli con un martello. L’uomo era svenuto più volte sopraffatto dal dolore, e ogni volta era stato svegliato con una doccia d’acqua gelida.
Non cercavano informazioni e non lo sottoposero ad alcun interrogatorio, la tortura non serviva a questo scopo, era solo uno sfogo d’odio, nulla di più di questo.
Trascorsi due giorni le torture cessarono: un ufficiale anziano era entrato nella stanza e, dopo aver constatato le condizioni del prigioniero, aveva ordinato ai due giovani soldati di smetterla.
I suoi carcerieri non volevano che morisse al chiuso di una camera della tortura per un banale infarto: la sua morte doveva essere pubblica e la sua esecuzione doveva servire da esempio e da monito per tutti i nemici della patria.
L’uomo camminava verso il suo patibolo e lo sapeva. Ciò che non sapeva era come sarebbe morto, del resto gl’importava poco, sperava solo che fosse una cosa rapida…
Biondo, occhi azzurri, ad appena sedici anni ti ha già superato in altezza. Somiglia a sua madre ed è un bravo ragazzo. Ancora non sa bene cosa vuol fare ma gli piace lavorare il legno, e magari potrebbe darti una mano in bottega quando tornerai… però non tornerai.
Ma lui e sua madre sono al sicuro oltre confine e per te questa è l’unica cosa che conta.
Da quando ti hanno catturato non hai mai chiesto pietà. Non è stato per l’onore o per stupido orgoglio, è stato per un semplice senso di pudore. Hai ammazzato tanti uomini senza nemmeno sapere chi erano, se avevano figli, genitori o mogli. Erano semplici nemici e questo t’è bastato.
In guerra uccidere è normale, è come prendere l’autobus per andare a lavorare. È necessario, punto!
E nel conto ci metti pure la tua morte. Lo sapevi quando hai accettato di andare a combattere in una terra non tua. Conoscevi il rischio.
T’hanno convinto perché dicevano che la tua stessa famiglia era in pericolo, che se non fossi andato tu a casa del nemico sarebbe venuto lui da te a violentare tua moglie e ammazzare tuo figlio. Questo dicevano.
T’hanno insegnato un odio che non avevi, più efficace di qualunque arma.
E ora, a un passo dalla morte, hai perso tutto: le armi, il coraggio, persino l’odio per i tuoi carnefici.
«T’ammazzeremo come un cane!» gli gridò alle spalle il soldato col kalashnikov. Era la prima volta che qualcuno gli rivolgeva la parola. Tutti s’erano sempre limitati a guardarlo, picchiarlo e torturarlo parlando soltanto tra loro. E lui leggeva il loro disprezzo ma non ricambiava.
L’uomo arrivò in un grande spiazzo circondato da case semidistrutte, con un calcio sopra il polpaccio il suo carceriere lo bloccò facendolo inginocchiare. Altri tre uomini lo sdraiarono a terra legandogli polsi e caviglie con delle funi collegate a due argani…
Schiena a terra e occhi al cielo. È la prima volta dopo tanti giorni passati legato a una sedia che ti senti quasi comodo. Le ferite sparse in tutto il corpo bruciano ma, in qualche modo, il freddo ne affievolisce il dolore. Resta il tempo di guardare le nuvole grigie che si trasformano nei volti di tua moglie e di tuo figlio. Ti sorridono.
Scopri che almeno per loro sei stata una brava persona. Scopri che almeno per loro è valsa la pena d’aver vissuto. Scopri che la cosa più bella che hai provato è stato l’amore ricambiato.
E ora i tuoi nemici ti augurano l’inferno senza sapere che dall’inferno, finalmente, ti stanno liberando. Così guardi il cielo, sorridi e chiudi gli occhi.
I carnefici azionarono gli argani elettrici e le funi si tesero velocemente divaricando e distendendo le gambe e le braccia dell’uomo. Pochi secondi e tutti gli arti s’allungarono fino a dislocarsi, muscoli e tendini si strapparono, la pelle si lacerò. Pochi secondi e, con uno schiocco sordo, braccia e gambe si staccarono dal tronco.
Ma lo spettacolo riesce a metà: nessuno dei carnefici presenti sentì l’uomo urlare.
Lui era già morto prima che le macchine lo smembrassero. E sul suo volto non videro nessuna smorfia di terrore, solo un sorriso.
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“Le stelle sono buchi nel cielo da cui filtra la luce dell’infinito.”
(Confucio)
Cercarti nel silenzio del sonno
quando l’aria notturna accompagna
parole che hai lasciato ad altri.
Inseguo piccoli risvegli
lucidi istanti di confine
del tempo che ci separa.
Sapessi il tuo nome potrei
dipingere tra i lini il tuo corpo
baciare piano le tue labbra.
Nuvole alte svaporano dal cielo
un’alba ancora incerta del giorno
si consuma in un vocio d’esistenze.
***
Perdo ogni notte
tempo come avessi tempo
dimentico
mendico
gioia non mia
cerco tra voci la tua,
calda marea d’agosto.
Sosto d’amore accaldato
ai piedi di cento finestre,
accento da gatto randagio
rincaso adagio
scrivo ancora e ancora
pur di tenerti con me.
***
Momenti rubati
ai tuoi occhi scuri
nell’intreccio lucente
di capelli raccolti.
Un fermaglio
ultimo cade
lasciandoti nuda
al mio sguardo,
quando la mano
sognando sfiora
la tua pelle d’estate
un pensiero d’amore profondo
tra di noi quieto rimane.
***
Persiane socchiuse
sul finir dell’estate
un frinir di aduse
cicale beate.
Tra fresche lenzuola
di ruvido lino
dal tepore del vino
accaldato
l’intrecciato dono
due corpi sfiniti
in odor d’abbandono.
***
Lasci un sentore d’amaro
pomeriggio ruvido e vuoto.
Bruciano pensieri riarsi
non calore, ma luce
taglia il giorno che suda
nebbia dai cortili deserti.
Né spero, né vivo oggi
soltanto rido
folle di tedio.
***
Pianura
Campi di grano, vicini frutteti
maceri, d’alberi attorniati
stradoni e fossati
di nebbie a pareti
come sposi vestiti
esausti riposano,
ultimi superstiti
d’un giorno lontano.
Poi
Danzano sotto il sole cocente
al suono di mille fisarmoniche.
Zirlano armoniche
cinque merli dal niente,
la tristezza lontana
scopre strade d’asfalto
e la sera matana
nella piana fa salto.
Stefano Agnelli è nato a Codigoro (FE) nel 1964. Si è laureato in Storia Contemporanea presso l’Università degli Studi di Bologna. Attualmente insegna nella scuola secondaria di secondo grado e collabora con “Il giornale di Rodafà, rivista online di liturgia del quotidiano”. Ha pubblicato due libri di poesie: “La stagione del sonno fecondo”, Corbo, Ferrara, 2007 e “Turno di notte”, Albatros, Roma, 2011. La rubrica di poesiaParole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina superiscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca[Qui]
Ne parla diffusamente Marzio Breda, giornalista del Corriere della Sera da oltre quarant’anni, nel saggio con cui ha vinto in settembre la 58ª edizione del Premio Estense. Capi senza stato è il titolo “furbo”, come lo definisce lui, con cui ha sbaragliato concorrenti importanti come la scrittrice Dacia Maraini e il direttore di LaRepubblicaMaurizio Molinari.
Caso davvero raro per me, negli ultimi due mesi l’ho incontrato due volte, prima e dopo la sua proclamazione come vincitore del Premio, in più ho seguito su Youtubel’incontro che ha avuto giovedì 24 novembre al Teatro Nuovo di Ferrara, dal titolo Premio Estense Scuola – Marzio Breda incontra gli studenti.
Ho anche letto Capi senza stato e ho diligentemente preso appunti, soprattutto durante la diretta dal Teatro Nuovo che è durata due ore. Breda non è stato zitto un minuto, non ha bevuto un sorso d’acqua e non ha perso il filo del discorso nemmeno una volta, immerso nei meandri degli aneddoti o delle considerazioni che andava facendo con andamento spiraliforme.
La mia senza dubbio è stata un’esperienza di lettura diversa dalle altre: il libro resta al centro del circuito comunicativo a cui ha dato vita, ma nell’incontrare l’autore altri due aspetti sono diventati oltremodo importanti.
Il primo riguarda l’aspetto umano. Breda si è rivelato, oltre che un giornalista o meglio un quirinalista di prim’ordine, anche una persona generosa di sé nel dialogo, gli è bastato un la per aprire l’immenso scrigno delle sue conoscenze e farle defluire con convinzione verso gli ascoltatori.
Che brio, però, la seconda volta, quando poteva parlare da vincitore del Premio. La soddisfazione di avere vinto l’Aquila D’oro ha agito come un lievito. Che ricchezza di aneddoti sui cinque ultimi presidenti della Repubblica Italiana, da Cossiga a Mattarella, e sulle mogli, ove ci fossero episodi curiosi. Come nel caso di Franca Ciampi, prima assoluta per vivacità relazionale negli incontri ufficiali del marito, al Quirinale o all’estero.
Capisenza stato è un saggio non facile. Per quanto ne conoscessi già la struttura, cinque parti dedicate ognuna a un Presidente, per quanto sapessi quale tesi intendesse sostenere l’autore, ho faticato ad avere chiaro davanti a me il quadro così complesso della vita politica italiana che ciascun Capo di Stato ha avuto attorno a sé.
Il quadro è quello della crisi di sistema che ha investito l’Italia da almeno trent’anni. La tesi del libro è esposta con chiarezza già nel capitolo introduttivo e ruota intorno a questo: il ruolo del Presidente è profondamente cambiato da Cossiga in poi; con lui è finita “l’epoca dei presidenti taglianastri, certificatori silenziosi delle scelte dei partiti”.
Cossiga e i suoi successori, dovendo fronteggiare la “transizione politica, economica e sociale” che ha preso avvio nel 1990 e che risulta “ancora irrisolta”, hanno di fatto allargato la “fisarmonica” delle prerogative riservate loro dalla Costituzione, assumendo una funzione cruciale nei confronti del Paese, con obiettivi e modi diversi.
Cito ancora dalla introduzione: “C’è chi ha fatto il profeta della catastrofe, come Francesco Cossiga, e chi l’antagonista delle prime forme di populismo e sovranismo, con l’avvento di Berlusconi e della Lega, come Oscar Luigi Scalfaro.
Chi ha voluto rianimare il patriottismo costituzionale, come Carlo Azeglio Ciampi, e chi è stato sollecitatore di riforme impossibili perché imposte dall’alto, come Giorgio Napolitano. Infine, chi ha predicato un’idea di Stato-comunità in un paese tormentato dalle divisioni, come Sergio Mattarella”.
Ora che gli istituti superiori di Bologna, Ferrara e Modena possono mettersi al lavoro e predisporre un elaborato originale da inviare alla giuria del 28° Premio Estense Scuola, mi interrogo su quante e quali difficoltà potranno incontrare nella assimilazione dei contenuti di Capi senza Stato. Nel concepire le logiche dei comportamenti assunti negli ultimi trent’anni dai partiti e dagli altri soggetti che incarnano le nostre istituzioni.
Andrea Pizzardi, che presiede la giuria ed è vicepresidente di Confindustria Emilia, ravvisa nella lettura di questo libro un’ottima opportunità che gli studenti hanno di scavalcare la cronaca sul presente per accedere all’orizzonte più ampio della storia politica del nostro paese.
Lo stesso Breda ha indicato come obiettivo del saggio la volontà di dare un valore sistematico ai passaggi storico politici a cui ha assistito come giornalista. Essere consapevoli di ciò che si verifica oltre la dimensione del presente, crescere come cittadini dotati di senso critico: questa la finalità che i ragazzi devono perseguire aderendo alla edizione 2022-23 del Premio.
Vengo allora al secondo aspetto della presentazione del libro che mi ha colpita. Ed è la profondità delle riflessioni emerse nel dibattito al Teatro nuovo, soprattutto grazie alle domande che hanno rivolto a Breda alcuni studenti di Istituti della provincia, come il Montalcini di Argenta, e di Ferrara, come il Dosso Dossi. Niente a che vedere con le richieste di aneddotica avanzate in precedenza dal pubblico ‘adulto’.
Ragazzi e ragazze sono saliti a uno a uno sul palco, si sono presentati e con uno studiato linguaggio formale hanno posto una o più domande del tipo: “Quale aggettivo sceglierebbe per definire con una sola parola ognuno dei cinque presidenti di cui tratta il suo libro?” “Un Capo di Stato deve leggere ‘opere politico-morali’ come il Principe di Machiavelli e possedere una cultura vasta?” “Sarebbe applicabile il semipresidenzialismo oggi in Italia?”
Breda si compiace del tenore delle domande, le sue risposte sono oro per me, che ho bisogno di rinforzare la mappa dei contenuti dopo una sola lettura del suo libro. Chiarisce che a ogni Presidente si può associare una espressione-chiave che ne riepiloghi l’operato e riprende i brevi titoli contenuti nel libro in ognuna delle cinque parti.
Un esempio: Ciampi è stato “il defibrillatore della crisi di sistema” col suo “carisma passivo” e la “lotta a colpi di passato”, perché gli Italiani si ritrovassero “in una storia comune”. Dice che sì, i Presidenti sono uomini di vasta cultura, in particolare Cossiga e Ciampi; fino dagli anni del liceo hanno bruciato le tappe del loro percorso scolastico e hanno acquisito nel tempo una cultura sterminata.
Per rispondere al quesito sul semipresidenzialismo riprende i momenti salienti della grande crisi italiana: la spietata guerra contro la mafia dal 1992 e l’inchiesta di Mani pulite che, a partire dallo stesso anno, porta allo scoperto la corruzione dilagante del sistema politico, il crollo dei vecchi partiti nel 1993 e la nascita l’anno dopo di nuovi soggetti politici, dai primi anni 2000 la grave crisi economica e il difficile rapporto dell’Italia con la Unione Europea.
Breda suggerisce alle scuole che vogliano partecipare al Premio Estense di cominciare dal quadro di questa crisi e dal guado in cui ancora il paese è impantanato. È necessario domandarsi come mai non ne siamo ancora usciti e dà la sua risposta: è mancata la capacità di riformare le istituzioni per mettere in sicurezza il paese. Dunque il semipresidenzialismo va affrontato con avvedutezza istituzionale e con attenzione al bilanciamento dei poteri.
Se i cinque Presidenti, di cui parla il libro, hanno sopperito al vuoto lasciato dalla inconsistenza della politica dei partiti, lo hanno fatto nel tentativo di “garantire la stabilità, e in qualche caso la salvezza dell’Italia, come ha fatto Mattarella, alle prese con i disastri della pandemia e della crisi economica”. Spesso contrastati dagli altri poteri.
Il titolo Capi senza stato mi pare che riveli allora, non solo la profonda conoscenza del quirinalista, che si onora di avere intrattenuto rapporti di amicizia personale con i presidenti, ma anche la sua amarezza. Siamo ancora nel guado e la figura di garanzia che ci dà un po’ di stabilità, Mattarella che va a Genova e abbraccia i parenti delle vittime del ponte Morandi (per dirne una) vive e opera in solitudine.
Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di carta, clicca [Qui]
Da circa quattordici anni è vietato portare anche un solo gambo di sedano sugli spalti di Stamford Bridge, stadio del Chelsea. Può sembrare un’assurdità, eppure la proibizione di tale ortaggio è stata l’inevitabile conclusione di una vicenda cominciata più o meno a metà degli anni ’80, cioè quando gran parte della tifoseria del Chelsea iniziò a lanciare gambi di sedano sul terreno di gioco. L’origine di quest’abitudine è ancora discussa: c’è chi sostiene che sia opera del settore più a sud dello stadio, ossia lo Shed End, e chi, invece, associa il lancio dell’ortaggio a un coro piuttosto goliardico, la cui versione originale era intitolata Ask Old Brown to Tea [Qui].
“Ask old Brown to tea, and all his family,
if he don’t come, we’ll tickle his bum with a lump of celery.”
Insomma, pare che qualche tifoso abbia preso spunto da queste parole per introdurre l’attuale e popolarissimo Celery, Celery, coro che, tra l’altro, contiene un evidente riferimento sessuale [Qui]. Al di là di queste ipotesi, sta di fatto che il lancio del sedano dagli spalti è stato il segno distintivo della tifoseria del Chelsea fino al 2007, anno in cui il club londinese lo vietò in seguito a un paio di episodi tutt’altro che edificanti, verificatisi peraltro in trasferta – non a Stamford Bridge, quindi. Il primo episodio risale alla semifinale di FA Cup del 14 aprile 2002, durante la quale cinque tifosi del Chelsea vennero arrestati per aver lanciato dei gambi di sedano all’indirizzo dell’allenatore del Fulham Jean Tigana. Qualche anno più tardi, invece, l’ortaggio in questione colpì il centrocampista dell’Arsenal Cesc Fàbregas nel bel mezzo di un altro derby londinese, cioè la convulsa e lunghissima finale di League Cup 2006/2007, conclusasi sul 2-1 in favore dell’undici di Mourinho. Così, il 16 marzo del 2007 il Chelsea pubblicò il seguente comunicato.
“The throwing of anything at a football match, including celery, is a criminal offence for which you can be arrested and end up with a criminal record. In future, if anyone is found attempting to bring celery into Stamford Bridge they could be refused entry and anyone caught throwing celery will face a ban.”
Tuttavia, il lancio del sedano è proseguito, e prosegue tutt’oggi, al di fuori di Stamford Bridge, e in particolare ai raduni pre-partita o ai festeggiamenti per le strade di Londra. Per farsi un’idea di tutto ciò, basta dare un’occhiata aquesta breve intervista, nella quale è possibile ascoltare un ulteriore aneddoto sulla nascita del coro Celery, Celery.
Parigi, quartiere variopinto di Pigalle, i tetti parigini che tanto hanno ispirato cinema e letteratura. Una luce soffusa illumina l’ambiente, un tepore che invita all’ozio. Qui un bambino timido, gracile, delicato ma curioso e a volte euforico, legge per ore intere, per non far rumore, per non disturbare. È François. Con i libri, la sua immaginazione viaggia, vede luoghi lontani, paesaggi meravigliosi, personaggi strampalati. Ama tre libri in particolare, ne mescola storie e finali, un modo per passare da una vita a un’altra.
Quando esce di casa esplora strade e viali, con l’amicoamicoamico Robert, la città dalle mille luci gli appartiene. Magari, invece di andare a scuola, meglio infilarsi in un cinema e perdersi nella profondità dello schermo, tanto più che proiettano Les visiteurs du soir(in italiano L’amore e il diavolo, film ambientato nel tardo Medioevo e sceneggiato niente di meno che dal grande Jacques Prévert). Siamo nel 1942.
Il nostro François, che è François Truffaut, ha dieci anni e si ammala, prende una malattia contagiosa che si chiama Cinema. Da essa non si guarisce, mai.
“Un uomo si forma tra i sette e i sedici anni. Poi vivrà di tutto ciò che ha assimilato tra queste due età”, ha detto lo stesso Truffaut. E niente più del cinema illuminò quel periodo di crescita e di formazione oggi raccontato in una delicata biografia illustrata del grande regista francese maestro della Nouvelle Vague, François Truffaut. Il bambino che amava il cinema, Kite Edizioni, scritto da Luca Tortolini e illustrato da Victoria Semykina.
L’albo illustrato è vincitore del Premio Andersen 2021,“per illustrazioni briose ed eleganti, nervose e musicali, sempre contrassegnate da un sicuro possesso delle tecniche. Per un dialogo avvincente e serrato che pagina dopo pagina si dipana fra la storia e le immagini. Per l’efficacia narrativa di un testo sincopato e incisivo”.
Il volumetto ripercorre, con delicatezza, le fughe del piccolo François al cinema, nelle cui sale cariche di sogni e segreti si intrufola, con l’inseparabile e fedele amico Robert, accedendovi dalle finestre del bagno o nascondendosi tra gli spettatori che escono, perché ahimè quei curiosi ragazzini non hanno i soldi per il biglietto d’ingresso. Libri e pellicole sono un rassicurante rifugio.
Quell’imparare a memoria le battute dei film, ricordarne le trame e i costumi e raccogliere ritagli di giornali che parlano di cinema sono e diventano la sua linfa vitale quotidiana. “Era un mondo che andava formandosi articolo dopo articolo. La vita era diventata schermo”, si legge nel libro, e d’un fiato. Quella vita era complessa, pochi soldi e tante difficoltà, molte contraddizioni, molti ostacoli, la necessità di cavarsela da soli, di essere liberi e indipendenti. Ma anche dal terreno più difficile sboccia un fiore.
Da quella difficile infanzia, fatta anche di punizioni per un’indole caparbia, François emerge: inizia a scrivere di cinema su giornali e riviste, inizia a guadagnarsi da vivere, difendendo film ma anche criticandoli, con forza ed eloquenza si costruisce una solida reputazione.
Finché, a ventisette anni, nel 1959, dirige il suo primo lungometraggio Les quatre cents coups, con protagonista l’alter ego Antoine Doinel (I quattrocento colpi. Non a caso, quest’espressione francese faire les quatre centscoups corrisponde al modo di dire italiano “fare il diavolo a quattro”, o meglio ancora, in questo caso, “combinarne di tutti i colori”, “esser turbolento, ribelle”).
Non può fallire, ha paura ma è un grande giorno. E qui inizia tutta un’altra storia. Quella di un inconfondibile e impareggiabile Maestro.
Luca Tortoliniè scrittore, sceneggiatore e docente, e vive a Macerata. Oltre a François Truffaut. Il bambino che amava il cinema, è autore di diversi libri, tra cui Le case degli altri bambini (Orecchio acerbo, Menzione Speciale Opera Prima al Bologna Ragazzi Award 2016) e Il giardino più bello (Il Castoro). Ama i gatti, i giardini e i libri. Scrivere, leggere e ascoltare storie lo rende felice. I suoi libri sono tradotti in diverse lingue.
Victoria Semykina è un’illustratrice nata a Mosca nel 1980 ma dopo tanti viaggi ha deciso di fermarsi e ora vive a Bologna, dove si è laureata all’Accademia di Belle Arti. Quando viveva a Mosca, la sua casa si trovava in un quartiere industriale, l’ambiente era caratterizzato dal grigiore delle fabbriche e da nove mesi d’inverno. Quando a cinque anni visita per la prima volta il Mar Nero scopre un’atmosfera soleggiata e profumata che le torna alla mente. Dal suo studio di Bologna realizza le illustrazioni pubblicate in libri, riviste e pubblicità. Ha lavorato, tra gli altri, per Penguin, Anderson Press, Walker Books, De Morgen, Oxford University Press, Bonnier. In ogni sua immagine si trova un intricato miscuglio di acquerello, tempera, inchiostro, collage e, talvolta, digitale
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreriaTestaperaria di Ferrara.
– Il 1 aprile 1933, il regime nazista organizzò la prima azione coordinata contro gli ebrei in Germania, che divenne nota come il “Judenboykott”, il boicottaggio a gli stabilimenti di proprietà ebraica. Secondo i portavoce nazisti, i tedeschi “puri” non dovevano frequentare negozi, ristoranti, studi medici, avvocati o altri studi professionali ebrei.
Secondo l’Holocaust Memorial Museum degli Stati Uniti, il boicottaggio era basato sull’idea che gli ebrei avessero “troppa influenza” nell’economia e che fossero i colpevoli della Grande Depressione. Per tutta la giornata, con le liste delle vittime in mano, i nazisti hanno marciato scandendo slogan antiebraici, disegnando sulle vetrine la stella di David e la parola “jude”, appendendo cartelli e intimidendo proprietari e clienti.
Ottantatré anni dopo, quel tragico episodio trova un’eco familiare dall’altro lato dell’Atlantico, con nuovi attori e nuove tecnologie. Alcuni giorni dopo la vittoria di Luís Inácio Lula da Silva al secondo turno delle elezioni presidenziali, la BBC Brasile ha denunciato la diffusione di una serie di “liste di elettori del PT” (Partito dei Lavoratori), cioè elenchi di professionisti, stabilimenti e istituzioni che presumibilmente sostengono Lula. Le liste, create e diffuse da militanti bolsonaristi, vengono condivise in gruppi su Whatsapp, Telegram o sui profili Twitter e Instagram, al fine di boicottare gli elettori di Lula.
Dai bar a chirurghi plastici e a dipendenti pubblici, il servizio della BBC Brasile ha denunciato casi come quello di Monika Ganem, parrucchiera a Maringá (stato del Paraná) che ha ricevuto una telefonata da una cliente chiedendole se stesse “lavorando per Lula”. “Mi sentivo come se fossi nell’inquisizione o nella dittatura militare”, ha detto Monika. Il reportage ha raccontato anche storie come quella di un ristorante di San Paolo che ha avuto le sue foto pubblicate su un social network filo-bolsonarista insieme a dei messaggi di odio e numerose offese.
Il fenomeno delle “liste del PT” non è un fatto isolato e si accompagna ad altre forme di manifestazioni e violenze di carattere politico, razzista, xenofobo e classista, da omicidi durante delle discussioni a sfondo politico agli attacchi ai lavoratori del Movimento Senza Terra da parte di gruppi della estrema-destra. In uno di essi, hanno inciso sui muri del Centro di Formazione Paulo Freire a Caruaru (stato del Pernambuco) il simbolo della svastica e hanno dato fuoco alla casa della coordinatrice dello spazio.
Nelle città di Porto Alegre e San Paolo, nell’ultimo mese, sono diventate note le dichiarazioni di studenti sui social che prendevano di mira la popolazione del nord-est del paese (regione decisiva per la vittoria di Lula) e gli studenti neri. “Voglio che questi nordorientali muoiano di sete”, ha condiviso uno dei membri di un gruppo Whatsapp di una scuola di Valinhos (SP), in cui anche gli altri partecipanti hanno inviato foto e meme di Adolph Hitler. Il gruppo è stato chiamato “Fundação Anti Petismo” e ha organizzato una protesta addirittura nella scuola contro i risultati del secondo turno delle elezioni presidenziali.
Allo stesso tempo, dal 31 ottobre si verificano atti antidemocratici sulle autostrade e nelle prossimità delle caserme delle forze armate in tutte le regioni del Brasile. I manifestanti rifiutano il risultato delle elezioni e chiedono “un intervento militare”, alcuni con passeggiate pacifiche, altri con metodi violenti come bombe fatte in casa, olio versato sulle autostrade, pietre lanciate e pneumatici in fiamme. In una di queste proteste, i sostenitori del presidente uscente, nel mentre bloccavano una strada a Santa Catarina, sono stati ripresi mentre facevano il saluto nazista. Secondo un reportage del quotidiano Estado de São Paulo, politici, agenti di polizia, sindacalisti e capi dell’agro-business incoraggiano le proteste e le finanziano.
L’idea di un intervento delle forze armate e il sentimento di un patriottismo violento, bianco, cristiano e patriarcale contro minoranze, nordorientali, antifascisti, donne e neri, hanno trovato risonanza e si sono nutriti dell’ideologia bolsonarista negli ultimi quattro anni. Le enormi campagne di disinformazione orchestrate dall’estrema destra hanno diffuso i principali messaggi di questa ideologia attraverso le reti sociali creando grandi bolle informative.
Gli studi rivelano una crescita significativa di gruppi, comunità virtuali e manifestazioni di carattere neonazista in tutto il paese. Secondo una delle principali ricercatrici sull’argomento, l’antropologa Adriana Dias, le cellule neonaziste sono più che raddoppiate, passando da 530 nell’ottobre dello scorso anno a 1.117 a novembre 2022. I gruppi sono presenti in 298 città brasiliane e lo stato di Santa Catarina, nel sud, è quello che concentra maggiormente questo movimento, con 320 cellule.
La ricercatrice riferisce di aver individuato 55 tipologie di correnti di pensiero e linee di azione. “C’è un gruppo brasiliano che difende il ritorno dell’apartheid in Sudafrica. Ci sono cellule di sostenitori del Ku Kux Klan e persino neo-confederati, movimenti degli Stati Uniti che hanno ripercussioni in Brasile. La maggior parte dei gruppi sono hitleriani e negazionisti dell’Olocausto”, afferma.
La maggior parte di questi gruppi, dice Dias, opera via internet. Tuttavia, in alcuni casi, le sue attività vanno aldilà dei limiti del virtuale. Il 14 novembre, un’operazione di polizia a Santa Catarina ha interrotto una riunione in cui otto uomini facevano apologia di nazismo. Uno degli arrestati indossava una cavigliera elettronica perché era già stato responsabile per la morte di un cittadino di origine ebraica. Successivamente, il gruppo avrebbe inviato una lettera alle autorità locali chiedendo l’annullamento di una fiera culturale con immigrati haitiani, l’espulsione di neri ed ebrei dallo stato e la liberazione degli otto arrestati – altrimenti, minacciavano, avrebbero compiuto un attacco terroristico, che fino ad ora non è avvenuto.
Secondo Adriana Dias,il neonazismo ha iniziato ad avere registri statistici in Brasile negli anni ’80 ed è cresciuto negli anni 2000 con gruppi revisionisti dell’Olocausto, principalmente nel sud del paese, che è stato in gran parte colonizzato dai tedeschi. Nel 2021, è stata la stessa antropologa a trovare una lettera di Jair Bolsonaro pubblicata su pagine neonaziste nel 2004. Nel 2011, i neonazisti di San Paolo hanno organizzato un atto pro-Bolsonaro. Per l’antropologa e altri specialisti, il bolsonarismo ha una forte relazione con la forte crescita di questi gruppi, in particolare negli ultimi quattro anni.
La strategia di comunicazione di Bolsonaro, sostiene Dias, oscilla tra due livelli. Da un lato, un discorso cristiano e fondamentalista rivolto al suo elettorato evangelico e conservatore, che crede in un Israele apocalittico e al secondo arrivo di Cristo. Dall’altro, un reiterato revisionismo storico segnato da messaggi pro-dittatura, antisemiti e pro-Hitler, e una chiara intenzione di creare un’identità nazionale. Nel 2020 è scoppiata una polemica quando l’ex segretario addetto alla Cultura, Roberto Alvim, ha proferito un discorso con dei frammenti chiaramente plagiati dell’ex ministro nazista Joseph Goebbels, con sottofondo un’opera di Richard Wagner. “Tutto questo non mi suona più come una serie di fatti casuali, ma come un progetto”, dice Adriana.
Sebbene esista, nel Codice Penale brasiliano, il reato di razzismo e di pregiudizio, esperti affermano che la mancanza di una legislazione chiara contro l’apologia del nazismo e l’incitamento all’odio è ancora il principale ostacolo per affrontare questo tipo di crimine
Siamo in molti nel movimento a voler supportare Aboubakar Soumahoro e la sua azione parlamentare a favore degli esclusi.
Denunciamo con indignazione la gogna mediatica che vuole distruggere la sua figura.
Non avrà altro effetto che quello di avvicinare ancora di più a lui la gente comune.
Lui è uno di noi. E noi conosciamo e condividiamo profondamente i suoi valori, la sua storia, le sue lotte.
Condividiamo una storia che non è storia qualsiasi, ma è storia dei tanti che lui deve continuare a rappresentare e che con lui vogliamo continuare a sostenere, al di là degli errori che ciascuno di noi può commettere in una realtà complessa.
Quelli che non riconoscono i valori di Aboubakar Soumahoro, valori di solidarietà umana e giustizia sociale, volutamente, solo per continuare ad avvalorare la propria politica tutta basata sui piccoli e grandi egoismi, cercano e usano le contraddizioni nelle persone della grandezza di Soumahoro per allontanare da lui noi gente di base.
Aboubakar Soumahoro resterà in campo a testa alta e noi ci saremo.
Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio. Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]
Avvento: attesa del vento che porta segrete parole
Da lontani orizzonti viene il vento
e scrive parole segrete
su l’erba:
le rimormorano i fiori
tremando nelle lievi
corolle.
…
Tu venivi fra noi, col tuo tormento
tutto chiuso negli occhi: avevi un viso
bianco e ridente, come di fanciullo.
Ci chiamavi fratelli, ma nessuno
conosceva il tuo pianto;
ci parlavi di luce, ma nessuno
si sbiancava nel volto.
Tu venisti fra noi quando eravamo
ancora delle gemme scure, informi,
chiuse accanitamente.
E quando il lavorìo della tua fiamma
già snidava le nostre anime in boccio,
non ritornasti più. Furono giorni
attutiti di nebbia,
giorni color d’opale e d’ametista,
grigi vezzi di lacrime.
Milano, 16 ottobre 1929
(Antonia Pozzi, Parole. Tutte le poesie, Àncora, Milano 2015, 185; 308).
Mani di levatrice sono le mani del poeta, come di chi annuncia la Parola. Levatrice di parti difficili, di chiuse parole, di larve di parole, di parole da snidare, caparbiamente chiuse.
È come un far rinascere nel presente, con l’annuncio, mormorando tremanti, la prossimità di Dio e il suo futuro. Perché così è il vangelo: un già e non ancora; piccola speranza come la semente della senape caduta nella terra, mite lievito nella molle e informe pasta. Ma pure crescendo e lievitando, è una parola che non passa; anzi che passa sempre, oltre tutte le parole che vorrebbero imprigionarla, rifiutarla, negarla.
Una fedeltà di parola, una parola data che non si ritrae più. Parola abbreviata nei vangeli eppure nulla può limitarne l’annuncio, la semina, la crescita, il camminare verso la meta, che è il cuore umano, portando frutto.
Ostinazione di un amore irrevocabile, spazio sicuro, solida cengia sullo strapiombo dell’insensatezza; fondamento di una stabilità irremovibile cui ancorarsi nella quotidianità frammentaria e fragile, tumultuosa e fluttuante del nostro presente.
Una parola inesausta: ancora sempre un passo avanti che dischiude all’oltre, ma che segretamente ritorna vicina anche solo nelle nostre parole, quelle più vere rivolte agli altri, e in quelle dei poeti pure, anche quando non l’attendiamo o non speriamo più nel Suo ritorno («non ritornasti più»).
Proprio nei giorni resi muti dalla nebbia e silenti – «giorni color d’opale e d’ametista, grigi vezzi di lacrime» − proprio allora sentiremo ancora il vento, scrivere per noi parole segrete da lontani orizzonti che annuncia il Veniente.
Il vangelo, il giornale, la poesia
Nei primi anni in cui ero parroco avevo imparato dal teologo e pastore riformato Karl Barth (1886-1968) a «tenere in una mano il vangelo e nell’altra il giornale». Il che significa tenere insieme e far incontrare l’annuncio di una buona notizia con coloro che attendono buone notizie, così rare da trovare nei giornali.
Sempre in quegli stessi anni continuavo tuttavia a avvertire che questa strategia non era sufficiente. E così, zoppicando, sono andato, come a tentoni, tra gli scaffali delle biblioteche, questuando poesie e storie da mettere a mo’ di passerelle tra il vangelo e il giornale, per fare di coloro che ascoltano dei contemplativi e dei profeti.
Papa Francesco parla della poesia come l’ingrediente per comunicare bene il buon annuncio: «Quando a una persona manca quella dimensione poetica, manca la poesia, la sua anima zoppica». La poesia scaturisce dalla capacità di ascolto: «se oggi c’è povertà di poesia, non è perché sia venuta meno la bellezza, ma perché è venuta meno la nostra capacità di ascolto».
Poesia, compagnia e guida d’Avvento anche quest’anno. Non solo perché sono in poesia gli inni liturgici, l’annuncio dei profeti, la preghiera dei salmi, il Cantico dei cantici, il Magnificat di Maria: il vangelo stesso è poesia e questa, come il vangelo, è una continua interrogazione del silenzio e dell’espressione del sentire umano che cerca e trovando non smette di cercare ancora; ricettacolo e scrigno pure di parole e significati infiniti: un vangelo nascente dal silenzio e dal desiderio degli uomini e delle donne.
Con Mario Luzi dico allora che la poesia è luogo “di misteriosa salvezza”: attesa di nuova natività. Mario Luzi trova nel dire poetico l’estrema concretezza della parola. Basti dire che il Poeta, non diversamente da Gesù nel vangelo, parla in prima persona, non in astratto:
«Basterebbe vedere come arruola i suoi fedeli, i suoi discepoli: sono due, tre parole e basta. La sua vittoria è immediata e qualche volta assomiglia a una rapina, perché effettivamente porta via le persone, porta via dietro di sé i titubanti, oppure gli incerti senza dare respiro».
E parla con assolutezza Gesù nel vangelo, perché è la sua stessa vita messa in parola: parola fatta carne, verità nella vita, la sua che fa spazio e accoglie la verità racchiusa in ogni vita. Ma non è così anche del poeta? Non è così di ogni uomo quando, senza saperlo, narra con la sua vita come fa la poesia?
Il Vangelo è Poesia: fa sentire vivo il mondo
«Il dramma del Vangelo che uccide per dar vita, si ripete in ogni vero poeta che deve far giustizia di tanta lettera morta perché lo spirito trionfi: nell’ideazione, nell’espressione. Nella parola dunque che è testimone non del Creatore e del Padre, come nel Vangelo di Gesù, ma della creatura; mentre comune è l’amore dell’uomo.
Non sto ora a dirvi altro, dico che in fondo tutta la poesia moderna, che sia veramente moderna, che non sia un “opus oratorium” che può vivere anche di altri ingredienti, ma sia invece una caccia alla verità, un inseguimento della verità, – perché questo è la poesia moderna da Baudelaire a Hölderlin – non potrebbe prescindere dal Vangelo, non solo da parte del Manzoni, faccio per dire, che è un cattolico, che quindi ha elevato il Vangelo a sua norma, ma anche da Leopardi che diceva di non essere credente.
Ma non essere credente era anche questo un acquisto interno a questa spiritualità; e così fino a noi. Il Vangelo è poesia esso stesso nel senso di “poiesis” che crea l’esigenza di pensieri, crea pensieri nuovi, esalta l’esistente e l’essente nello stesso tempo. Fa sentire così vivo il mondo, così drammatico; ed è poi il paragone, manifesto o subiacente, di tutto quello che in questo campo si fa nell’ideare o nel dibattere moderno» (Poesia come interrogazione e silenzio, luogo di misteriosa salvezza, in Il Regno/Attualità, 22/2004, 15/12/2004, 731).
Avvento: l’infinita speranza di un ritorno.
Le montagne, così care ad Antonia Pozzi, al suo sguardo «occupano come immense donne la sera/ sul petto raccolte le mani di pietra/ fissan sbocchi di strade, tacendo/ l’infinita speranza di un ritorno». Esse vedono la confluenza, lo sfociare o l’immettersi di una strada nell’altra, ma non conoscono il loro diuturno e tortuoso percorso, non conoscono la grazia e le sue vie quando si tratta dell’infinita speranza di chi attende l’amato.
Per Bernardo di Chiaravalle, che commenta con ardore contemplativo il Cantico dei cantici e nella Divina Commedia rappresenta la via mistica, unitiva per poter vedere Dio, egli ricorda pure un triplice avvento del Cristo: una venuta nell’umiltà e debolezza umana alla sua nascita; l’altra venuta sarà alla fine della storia non più nell’umiltà ma in una gloria visibile a tutti.
Vi è tuttavia un avvento intermedio, una venuta del Cristo occultata, nascosta, taciuta. È l’incontro per vie misteriose con ciascuno nell’oggi della sua vita: «Ma perché ad alcuno non sembrino per caso cose inventate quelle che stiamo dicendo di questa venuta intermedia, ascoltate lui: “Se uno mi ama, – dice – conserverà la mia parola: e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui (cfr. Gv 14, 23). Ma che cosa significa: Se uno mi ama, conserverà la mia parola? Dove si deve conservare? Senza dubbio nel cuore, come dice il Profeta: «Conservo nel cuore le tue parole» (Disc. 5 sull’Avvento, 1-3).
All’amato che giunge inatteso, ad un tratto, la sera
Tu sei tornato in me
come la voce
d’uno che giunge,
ch’empie a un tratto la stanza,
quando è già sera.
Qui c’era
soltanto il peso
delle ore irrigidite
in grigiore di pietra,
il passo lento
dei fossati in pianura
sotto nudi archi di pioppi. C’erano
al termine delle case
le povere strade
di novembre, straziate di solchi
…
Allora sei tornato
tu – in me –
come la voce
d’uno che giunge,
che nessuno più attende
perché è già sera.
Sei ritornato in me
come un fedele
stormo di rondini
che riappendon nidi
al tetto oscuro del cuore.
Sei ritornato come uno sciame
d’api che cercano
i loro fiori – e indorano
l’orto nativo.
Ora nell’orto io sento
crescere i nuovi
miei fiori per te. Sento spuntare
sui pascoli, dove
la neve si è sciolta,
gli anemoni gialli
e dal suolo del cielo
le stelle – che a quelli somigliano –
le stelle – dopo che il gelo
del vespro è scomparso
e la notte è la terra feconda –
il monte
primaverile
di Dio.
6 novembre 1933
(Antonia Pozzi, Montagne e All’amato, in Parole. Tutte le poesie, Àncora, Milano 2015, 259; 144; 308).
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Vjačeslav Ivan’kov, mafioso. Boris Berezovskij, oligarca. Sergej Savele’ev, carcerato. Nikita Kuzmin, criminale informatico. Attraverso le vicende della vita di questi quattro personaggi (reali, non inventati) Federico Varese, docente di Criminologia e direttore del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Oxford, ha acceso i riflettori sulla storia recente della Russia, facendoci capire come sono andate le cose dalla deposizione (diciamo così) di Michail Gorbačëv all’avvento di Vladimir Putin, passando per l’interregno di Boris El’cin.
Il suo “La Russia in quattro criminali” presenta un approccio singolare, ma non per questo meno serio e calzante perché adopera la tecnica dei campioni sociologici: ognuno dei quattro personaggi rappresenta un mondo, che ovviamente si interseca con gli altri. Ne esce un ampio quadro, ricco di particolari, che spiega come sia avvenuta la transizione al mercato e alla “democrazia” di un paese precedentemente dominato da una dittatura fondata sul cosiddetto “socialismo reale”.
La transizione, a giudicare dagli eventi, non si è affatto compiuta. L’invasione dell’Ucraina dal 24 febbraio di quest’anno è il portato ultimo di questo processo, caratterizzato da repressione del dissenso, corruzione, intreccio tra politica e criminalità, sviluppo delle mafie.
Federico Varese (ferrarese di nascita, collaboratore tra l’altro di questo giornale e profondo conoscitore dell’ex Unione Sovietica) ha descritto e documentato con rigore le imprese dei quattro personaggi.
La carriera di Ivan’kov, che inizia facendo il ladro e il borseggiatore fino a diventare un potente mafioso, ha dato modo a Varese di spiegare come nell’ex Unione sovietica esista un universo criminale molto complesso (3.000 organizzazioni nel 1993, secondo il ministero dell’Interno russo) al cui vertice stanno i capi, detti vory-v-zakone(letteralmente: ladri in legge). Una galassia che nei primi anni ’90 fu protagonista di una sanguinosa guerra di mafia, che coinvolse, oltre ai russi, criminali ceceni, azeri e sbandati di ogni tipo (100 omicidi nel 1992, 250 nell’anno successivo, 500 nel 1994, sempre secondo dati ministeriali).
Ivan’kov – morto a Mosca nel luglio 2009 dopo essere stato colpito da un cecchino mentre usciva da un locale elegante – rappresenta in modo esemplare l’espansione della criminalità organizzata nell’ultimo quarantennio in Russia.
Boris Berezovskij, nato nel 1946, per aver realizzato insieme al giornalista Valentin Jumasev la pubblicazione di un libro sulle memorie di Boris El’cin – “Diario di un presidente”, uscito nel 1994 – ne divenne uno stretto collaboratore, diventando un personaggio di rilevanza nazionale. Come tale, si integrò perfettamente nel disegno politico di El’cin, che non solo sostituì un regime autoritario con un altro, il suo (infatti sciolse il Parlamento mandando in piazza i carri armati) ma diede il via alla privatizzazione spinta dell’economia.
Uomo di notevoli capacità, Berezovskij assecondò in vari modi il disegno di El’cin, concorrendo in pochi anni a svendere l’intero patrimonio industriale e coronando il proprio sogno di diventare padrone di settori importanti dell’economia sovietica (ad iniziare da quello automobilistico) sino a quando il delfino di El’cin, Vladimir Putin, andò al potere nel 2000 e decise di liberarsi della tutela degli oligarchi. Per Berezovskij fu l’inizio della fine: emigrò in Inghilterra e dopo alcuni rovesci finanziari, ridotto pressoché in miseria, nel 2009 fu trovato cadavere in una casa nella campagna inglese.
Il terzo personaggio, Sergey Savele’ev, è stato vittima della repressione di Putin, che Anna Politkovskaja denunciò sin dai primi anni 2000, e che si manifestò con numerose leggi, dall’abolizione delle elezioni dei governatori regionali e dei senatori (che venivano nominati da funzionari locali) alla limitazione, dal 2013, delle attività di quotidiani, televisioni, siti internet, organizzazioni non governative. Seguiranno altre misure repressive, ad esempio contro i culti religiosi non riconosciuti dallo Stato.
Savele’ev, nato in Bielorussia, ha scontato sette anni di galera nelle carceri russe, è fuggito in modo rocambolesco dalla Russia e coraggiosamente ha registrato e fatto arrivare in Occidente centinaia di video che testimoniano l’inferno dei penitenziari: torture, stupri dei detenuti, violenze, condizioni subumane dei prigionieri. Sergej – scrive Varese – è l’unica persona nel sistema penitenziario russo che è stata capace di trafugare e far conoscere materiale esplosivo, visibile su YouTube dal 2021 nel canale Gulag.net. A seguito di queste denunce, le autorità russe e lo stesso Putin hanno dovuto in qualche modo correggere alcune misure carcerarie, reprimendo nel contempo ancor più le attività criminali.
Nikita Kuzmin è il quarto personaggio. Nato nel 1984, figlio di un cantante famoso, Vladimir Kuzmin, è diventato un genio dell’informatica, ed è il creatore del pericolosissimo virus bancario Gozi, realizzato assieme a due complici, Deniss “Miami” Calovskis e Mihai “Virus” Păunescu.
Le imprese di Kuzmin fanno parte del vasto mondo del cybercrime russo, di cui Varese offre uno spaccato ricco di dettagli. “Da anni – scrive Varese – esiste un accordo di fatto tra Stato russo e criminali informatici, basato sul principio: ‘ Voi potete agire liberamente a patto che non attacchiate istituzioni e clienti russi e, quando richiesto, ci aiutate nella nostra guerra ibrida contro l’Occidente’”. Due gruppi – noti con le sigle Apt 28 e Apt 29 – sono accusati di varie intrusioni e aggressioni a diversi siti, da quello del Pentagono a quelli del ministero degli Esteri della Norvegia, del Partito laburista inglese, del ministero della Difesa olandese.
Il lavoro di Varese è estremamente interessante per comprendere meglio cosa accade nella Russia di Vladimir Putin. Un libro agile e istruttivo, del quale consiglio vivamente la lettura.
Il volume: Federico Varese, La Russia in quattro criminali, Torino, Einaudi, 2022
di Lara Ghiglione
da Collettivadel 25 novembre 2022)
Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: una ricorrenza che ha lo scopo di continuare a sensibilizzare rispetto a un’inaccettabile condizione che, non possedendo più i connotati dell’episodicità, è purtroppo diventata un drammatico fenomeno ordinario che colpisce e affligge ancora troppe donne. Una giornata che non deve essere vissuta come una ritualità, ma come l’opportunità per discutere, confrontarsi, fare un bilancio e trovare strumenti nuovi affinché non si debba ancora una volta arrivare quando è troppo tardi. L’eliminazione della violenza maschile contro le donne, infatti, è un obiettivo ancora lontano da essere raggiunto visto che anche in Italia, ogni 72 ore, avviene un femminicidio.
Da sempre la Cgil è impegnata a prevenire e contrastare la violenza contro le donne a partire dal diritto a ottenere e svolgere un lavoro stabile, adeguatamente retribuito e tutelato: l’autonomia economica, infatti, è lo strumento basilare per esercitare la propria libertà e il diritto di scelta quando ci si trova ingabbiate all’interno di un rapporto violento o di una relazione abusante.
Non meno importante è, da questo punto di vista, il ruolo svolto dalla formazione, in entrata e durante tutto l’arco della vita lavorativa, sia come possibilità di coltivare e incrementare la propria professionalità, e quindi la propria “spendibilità” nel mondo del lavoro, ma anche come elemento in grado di affermare la cultura del rispetto, contro ogni tipo di discriminazione e a discapito di quella patriarcale del possesso. Tra le altre opportunità, la formazione può servire a far emergere e contrastare fenomeni diffusi di svilimento del ruolo, bullismo offensivo e aggressione verbale esercitati sulle lavoratrici.
Lavoro e formazione si qualificano attraverso la contrattazione, strumento fondamentale nell’attività sindacale quotidiana, che deve essere agita a tutti i livelli – nazionale, sociale/territoriale, aziendale – e avere, rispetto al tema della violenza di genere, obiettivi e prerogative specifiche. Anche perché gli stessi contesti lavorativi non sono esenti da situazioni violente e da episodi di molestie e abusi nei confronti delle lavoratrici, specie di quelle particolarmente ricattabili: un fenomeno sommerso che l’Istat ha indagato nel 2018 evidenziando, al momento dell’indagine, che nel nostro Paese 1 milione e 400 mila donne avevano subito molestie fisiche e ricatti nell’arco della loro vita lavorativa.
Un numero importante ma anche sottodimensionato se consideriamo che una parte delle vittime di abusi e molestie tende a non far emergere il problema, per paura di giudizi e discriminazioni da parte dei colleghi. Per questa ragione è necessario pianificare una formazione specifica destinata a rsu/rsa e rls/ rlst/ rlssa e percorsi di formazione aziendali obbligatori su molestie e “ambiente” lavorativo anche per prevenire e contrastare la criminalizzazione delle donne che denunciano questi abusi.
La contrattazione che si occupa di fornire tutele e rispondere alle esigenze delle lavoratrici (contrattazione di genere) deve essere un patrimonio di tutta la nostra organizzazione e deve avere una sua dignità nelle piattaforme rivendicative a tutti i livelli, anche al fine di promuovere accordi territoriali, protocolli e tavoli permanenti. Nella maggior parte dei contratti nazionali sono state inserite misure specifiche per la prevenzione e il contrasto alla violenza di genere e in numerosi accordi aziendali e territoriali sono state recepite le intese sottoscritte da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil e da altre associazioni datoriali; servono ovunque accordi specifici, procedure di gestione e regolamenti che garantiscano l’anonimato e la tutela della dignità lavorativa della donna vittima di violenza e molestie, anche con la collaborazione dei Centri Antiviolenza.
Fondamentale, ad esempio, è l’estensione del congedo retribuito per le donne vittime di violenza -oltre i tre mesi attuali previsti- il diritto alla flessibilità oraria, al part time reversibile, al trasferimento, su richiesta della vittima, presso altra sede aziendale in caso di violenza famigliare, all’esclusione dai turni disagiati: obiettivi da raggiungere con la contrattazione a tutti i livelli.
Queste sono e devono essere prerogative di tutto il gruppo dirigente diffuso della Cgil, senza distinzione di genere, perché se è vero che la violenza la subiscono le donne è assolutamente necessario definire e condividere percorsi e obiettivi di cui anche gli uomini del sindacato devono farsi carico, con una rinnovata e convinta condivisione e assunzione di responsabilità. Le panchine rosse fuori dalle nostre sedi nazionali, che inaugureremo in una staffetta ideale tra categorie nazionali e confederazione, venerdì 25 novembre, serviranno anche a rammentarci ogni giorno, entrando e uscendo dai nostri uffici, che siamo chiamati quotidianamente, tutte e tutti, a fare la nostra parte.
In questo modo la Cgil potrà ancora, e meglio, fare la differenza nel difficile percorso verso l’eliminazione della violenza contro le donne, in un Paese che potrà davvero definirsi civile solo quando l’obiettivo sarà raggiunto.
Il 25 e 26 novembre al Teatro Comunale di Ferrara, un convegno internazionale fa il punto sull’accessibilità degli archivi fotografici teatrali. A confronto le esperienze dei più interessanti archivi teatrali italiani e stranieri e dei più importanti fotografi di teatro
Venerdì 25 e sabato 26 novembre, al Ridotto del Teatro Comunale “Claudio Abbado” di Ferrara, si tiene il convegno internazionale La fotografia di teatro: attualità e potenzialità degli archivi fotografici, organizzato dalla Biblioteca della Fondazione Teatro Comunale di Ferrara e curato da Giuseppina Benassati, studiosa esperta di catalogazione fotografica, che metterà a confronto le esperienze dei più interessanti archivi teatrali italiani e stranieri.
L’obiettivo delle due giornate di studio è tracciare lo stato dell’arte sull’accessibilità degli archivi fotografici teatrali, a partire dall’esperienza di catalogazione e digitalizzazione realizzata dall’Archivio fotografico del Teatro di Ferrara, apripista nel settore e che, a oggi, conserva più di 350.000 immagini fotografiche.
A discuterne sono i rappresentanti dei più interessanti archivi teatrali italiani e stranieri e dell’ICCU – Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche.
Le varie esperienze di catalogazione e di inventariazione saranno messe a confronto e verranno proposti possibili punti unificati di aggregazione e consultazione.
Coinvolti per l’occasione sono i rappresentanti degli archivi del Dipartimento delle arti e dello spettacolo della Biblioteca Nazionale di Francia a Parigi, del Centro di documentazione delle arti sceniche e della musica del Ministero della Cultura di Spagna a Madrid, dell’Archivio Fondazione Teatro alla Scala di Milano, dell’Archivio Ravenna Festival, dell’Archivio del Piccolo Teatro di Milano, dell’Archivio Teatro delle Albe di Ravenna, dell’Archivio Emilia Romagna Teatro di Modena, dell’Archivio Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, del Centro Studi Teatro Stabile di Torino, il Museo Biblioteca dell’Attore di Genova, dell’Istituto del Teatro e del Melodramma della Fondazione Cini di Venezia, della Biblioteca Museo Teatrale SIAE di Roma e dell’Università Roma Tre.
Nella seconda giornata, il convegno offre un’occasione di incontro e confronto con i più illustri fotografi di teatro. Il critico teatrale Massimo Marino coordina la tavola rotonda con Massimo Agus, Vasco Ascolini, Marco Caselli Nirmal, Tiziano Ghidorsi e Silvia Lelli. Moni Ovadia, direttore generale del Teatro Abbado, leggerà per l’occasione una dichiarazione del fotografo di teatro Maurizio Buscarino.
Il convegno presenta infine il nuovo catalogo della mostra La pelle del teatro. Sguardi diretti e inconsuete trame di Marino Pedroni, e inaugura l’esposizione Volti della regia, con le fotografie di Marco Caselli Nirmal dell’Archivio del Teatro Comunale di Ferrara.
L’evento, realizzato grazie al contributo della Direzione generale Educazione ricerca e istituti culturali del Ministero della Cultura, si svolge venerdì 25 novembre (dalle ore 10 alle 13 e dalle 14.30 alle 19) e sabato 26 novembre (dalle ore 9.30 alle 13) nel Ridotto del Teatro Comunale di Ferrara. L’ingresso è libero, su prenotazione online.
Immagini ufficio stampa Teatro Comunale di Ferrara
Accanto ad Alessio Boni, Duccio Camerini, Ana Caterina Morariu, Aurora Ruffino (che ha già lavorato con Campiotti in Bianca come il latte, rossa come il sanguee inBraccialetti rossi), Flavio Parenti, Marco Foschi, Lucrezia Guidone, Martina Stella, Luigi Diberti e Giuseppe Antignati. Poche le notizie che trapelano…
Martina Stella, foto CDA Studio Di Nardo
Flavio Parenti, foto CDA Studio Di Nardo
Alessio Boni, foto CDA Studio Di Nardo
Sceneggiata da Franco Bernini,Bernardo Pellegrini, con la consulenza alla sceneggiatura dello stesso regista e la consulenza storica di Pasquale Chessa, la serie narra le tre settimane precedenti la notte tra il 24 e il 25 luglio 1943 in cui si svolse l’ultima riunione del Gran Consiglio del Fascismo, organo supremo presieduto da Benito Mussolini, che sancì la fine del regime fascista, con 19 voti favorevoli, 7 contrari e 1 astenuto.
Saranno quindici le settimane di ripresa dedicata alla narrazione dei fatti che condussero a quel momento fatale, raccontando la Storia unitamente alle storie di uomini e donne che agirono da protagonisti e misero in gioco il loro destino personale oltre a quello del Paese.
Molte splendide location della Capitale si avvicenderanno con luoghi altrettanto evocativi nell’hinterland romano e si fonderanno con i costumi e auto d’epoca per richiamare con potenza narrativa i tormenti di Dino Antonio Giuseppe Grandi, Presidente della Camera dei fasci che decise di opporsi alle scelte di Mussolini in maniera legittima, convocando il Gran Consiglio, per rimettere il Paese nelle mani dei Savoia. Accanto alle sue vicende, quelle della famiglia Reale, di Edda e Galeazzo Ciano e di Claretta Petacci.
Perché, come ha indicato in un’intervista, Giacomo Campiotti, che ha avuto come maestro il grande Mario Monicelli, di cui è stato assistente e poi aiuto regista in Il marchese del Grillo (1981), Speriamo che sia femmina (1985) e I picari (1987), da regista ama raccontare storie di valore e aprire varchi.
Foto in evidenza Di Benedetto, ufficio stampa Eliseo entertainment
L’abbiamo sperimentato tutti, tante volte. L’attesa per qualcosa che deve accadere – sia essa un incontro o la prossima vacanza – è quasi sempre più bella e ricca di quanto poi ci si ritrova a vivere realmente. Insomma il sabato, con la sua aspettativa del dì di festa, è molto meglio della domenica.
Anche per questo, ladonzelletta che vien dalla campagna di leopardiana memoria, si è incamminata infinite volte con il suo fascio d’erba. Perché, come in un racconto di Borges: la reinterpretazione di un concetto vecchio quanto il mondo è capace di generare ancora poesia.
E quella che vorrei qui ricordare, mi rimanda ad un negozio di dischi sotto la torre dell’orologio a Ferrara, sul finire degli anni Settanta. Un negozio che non esiste più, come Nick Drake, l’autore di questa ennesima rilettura del Sabato del villaggio.
Quarant’anni fa mi capitò tra le mani “Five leaves left”, un rimasuglio di magazzino, invenduto, come, allora, tutti e tre i dischi di questo cantautore inglese. Ne avevo letto anni prima una entusiastica recensione su Musak, la rivista alternativa fondata da Gaime Pintor, il figlio del più famoso Luigi Pintor. Oltretutto il vecchio long playing era ad un prezzo scontato e per uno studente come me, la cosa non era indifferente.
Dieci stupende tracce, con quell’ultima perla “Saturday sun”, il cui testo avevo in parte colto, anche con la mia scarsa conoscenza dell’inglese.
Saturday sun came early one morning In a sky so clear and blue
Il sole del sabato è arrivato presto una mattina in un cielo così limpido e azzurro
Fu un amore al primo ascolto. Un amore travolgente come tutte le passioni giovanili.
Volevo ascoltare altri dischi di Drake, ma in giro non si trovava nulla. Sembrava che il nostro non esistesse proprio: nessun Lp, nessuna notizia. Vuoto assoluto. Poi, per caso, citato in un articolo sui cantautori inglesi degli anni Settanta, la tragica notizia: Nick era morto, nella notte del 24 novembre 1974.Ucciso dal male oscuro. Un’overdose di antidepressivi, non si sa se assunti consapevolmente o meno, se l’era portato via.
Parecchi anni dopo, Stefano Pistolini, noto critico musicale, ne aveva scritto. Un libro a metà tra l’indagine e l’autobiografia: Le provenienze dell’amore. Vita, morte e post-mortem di un cantautore inglese misconosciuto, molto sexy, rieditato, con un nuovo capitolo, qualche anno fa.
Leggendolo, mi ci ero specchiato. La donzelletta era arrivata al capolinea, come i versi finali della canzone di Nick:
but Saturday sun has turned to Sunday’s rain
ma il sole del sabato si è trasformato nella pioggia della domenica.
“Nelle città senza Mare… chissà a chi si rivolge la gente per ritrovare il proprio equilibrio… forse alla Luna…”
(Banana Yoshimoto)
solo dopo
avevo capito
che potevo accendere la luna
senza arrampicarmi
la scala rotta
il vino versato per sbaglio
sulla tovaglia pulita
e un panno umido
per togliere i peccati
attendere l’estate
per cercare i grilli e prendere il sole
non so scrivere poesie
ma ne cerco il senso imperfetto
***
poi presi
la tinozza d’acqua
immergendoci
un giocattolo
a capofitto
come si fa con le sere isolate
dove nemmeno un tram
lascia tracce sull’asfalto
notte liquefatta
in un’altra città
sarebbe uguale
parlerei piano
per non svegliare le rondini
fisserei
la croce verde lampeggiante di una farmacia
per rendermi conto
di un tempo sciolto.
***
in un diagramma ascensionale
mi sono arreso alla fatica
di guardare da fuori
quel che mi è dentro
poi sradica
pulisce
e tratta con i tormenti
addolcendoli
come mangiasse
un filamento di nuvola
secante la luce della luna
ho posato le chiavi di casa
al solito posto di domani
ricordandomi di scrivere questa poesia.
(Poesie tratte da “Partiture di pelle“, Architetti delle parole, 2021)
Mattia Cattaneo è nato a Trescore Balneario (BG) il 31-07-1988, abita a Treviolo ed è laureato in Scienze della comunicazione.
Adora la montagna e la natura. Lavora come assistente educatore presso una cooperativa. Poeta e scrittore, ha pubblicato una trilogia poetica tra il 2016 e il 2018. Tra il 2018 e il 2019 ha pubblicato il romanzo “E le stelle brillano ancora” e “Dove sento il cuore”. Tra il 2021 e il 2022 invece una raccolta di poesie “Partiture di pelle” e il romanzo, edito a settembre, “Tra le onde dei ricordi”. Entrambi editi da Architetti delle Parole, associazione culturale fondata assieme all’amico Carlo Arrigoni col quale fa numerose letture teatrali in tutta la Lombardia e non solo.
Durante la pandemia e il lockdown 2020 ha dato vita al gruppo FB Circolare Poesia volto alla condivisione e lettura poetica , gruppo che conta quasi 1600 membri.
Contatti SOCIAL: Mattia Cattaneo – Mattia Cattaneo autore (FB e INSTAGRAM) – La rubrica di poesiaParole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina superiscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca[Qui]
Ho realizzato quanto mi mancasse Valencia e quanto desiderassi tornarci solo quando, a sorpresa, domenica 25 settembre, dopo un bellissimo concerto nella stupenda Sala delle Carte Geografiche del Museo Archeologico di Ferrara, alcuni amici della Corale Veneziani mi hanno proposto di aggregarmi al loro viaggio, previsto per il ponte di fine ottobre.
Mi sono attivata immediatamente per le prenotazioni di volo e hotel e ho cominciato a sognare, ho comprato la Cartoville del Touring Club, ho cercato, senza trovarli, romanzi contemporanei ambientati in quella città (ma ho trovato un interessante saggio di Vittorio Caratozzolo dal titolo VALENCIA – Una città mondo, che presenta una panoramica antologica dei romanzi di Blasco Ibáñez da una prospettiva particolare, un punto di vista urbanistico, architettonico, topografico, spaziale) e mi sono messa ad aspettare ansiosa il 29 ottobre, giorno della partenza.
Sapevo che avremmo assistito a due concerti in due luoghi diversi di Valencia e dei dintorni e anche questo mi rendeva particolarmente felice perché adoro la musica, qualunque musica, e, in più, faccio parte anch’io di un coro e so quanta emozione dà cantare lontano da casa, far conoscere i nostri brani all’estero e realizzare scambi con altri cori.
Ma per ora la protagonista voglio che sia Valencia, avremo tempo per parlare dei cori e del motivo per cui la Veneziani ha viaggiato fino a qui per cantare…
A Valencia abbiamo pure guardato, visitato, ammirato posti nuovi e altri conosciuti, abbiamo gustato tapas e paellae bevuto tanta buona cerveza, da soli o in piccoli gruppi; e, in più, il programma comune prevedeva una escursione di un giorno intero a Gandìa, nel nome dei Borgia!
Io qui racconterò prevalentemente la mia Valencia, quella delle architetture modernissime, che desideravo assolutamente rivedere (Calatrava), o scoprire per la prima volta (Chipperfield, Foster) e quella del centro storico e dei palazzi antichi, di cui avevo solo un ricordo sfocato, visto che la volta scorsa, alcuni anni fa, ero in viaggio di istruzione con una classe, con la responsabilità di docente organizzatrice ed accompagnatrice, il che mi ha reso difficile fare “la turista”.
Tra le scoperte voglio assolutamente citare il Giardino Botanico, fondato nel 1567 e collocato, a cura della Università, nel 1802 nell’attuale sede in Carrer de Quart, non lontano dalle due imponenti Torres de Quart. Ospita specie di tutto il mondo; comprende anche una serra tropicale in ferro bianco del 1859 e un giardino (Umbràculo) in ferro grigio del ‘900. Ci hanno colpito particolarmente le tante palme altissime e le canne di bambù enormi.
Io sono appassionata di mercati, soprattutto quelli in ferro battuto dei primi del Novecento e nelle città spagnole ce ne sono di veramente belli; al Mercato Centrale siamo andati in orario di pranzo appena arrivati il primo giorno; abbiamo ammirato i coloratissimi banchi di generi alimentari di ogni tipo e le cupole, vetrate e ceramiche che arricchiscono la struttura, tipico prodotto di Art Nouveau risalente al 1928.
L’ultima sera, con la nostra preziosa tour-operator Marta, abbiamo raggiunto, per l’aperitivo, il Mercato Colón, ora centro commerciale e sede di baretti e ristoranti molto pittoreschi; è un vero gioiello Art Nouveau, adorno di trecadís, frammenti di ceramica alla Gaudí, in voga all’inizio del Novecento.
Amo moltissimo anche le stazioni ferroviarie, piccole e grandi, antiche e moderne. Il nostro hotel, per una felice combinazione, si trova vicino alla Estació del Nord, opera del 1917 di Demetrio Ribes, ancora un gioiello dell’Art Nouveau, con una sorprendente facciata decorata con ceramiche e un ancor più sorprendente atrio delle biglietterie, per non parlare della sala d’attesa!!!
Il centro storico è ricco di monumenti di altissimo rilievo: la Cattedrale col bellissimo campanile ottagonale denominato Micalet; la Lonja de la Seda, vale a dire la Borsa della seta, capolavoro in stile gotico civile della fine del Quattrocento; una serie di bellissimi palazzi di Ottocento e Novecento di cui ho ammirato gli angoli arrotondati, i decori, i balconi, le finestre.
E veniamo all’architettura modernissima. Quello stesso pomeriggio del giorno dedicato al centro storico e ai grandi viali, me ne sono andata, da sola, a cercare di raggiungere, prima a piedi, poi, quando ho capito che si trovava decisamente in periferia, in taxi, il Palau de Congressos realizzato nel 1998 da Norman Foster, un altro dei miei architetti preferiti; è un palazzo a forma di pesce inclinato, pensato per ricevere la massima luce possibile.
Una giornata intera ho poi dedicato, insieme a una coppia di amici, alla passeggiata nel Jardí del Turia, un parco naturale di 7 chilometri realizzato sul letto dell’omonimo fiume, deviato nel 1957; la “giornata Calatrava” era in realtà iniziata in metropolitana, per raggiungere, anche se con una sola fermata dal nostro hotel, quella disegnata appunto dal famoso archistar valenciano: Alameda, che si caratterizza all’esterno per la curvatura che anche in Italia riconosciamo come suo tipico disegno: il Ponte della Costituzione a Venezia, la Stazione dell’Alta Velocità di Reggio Emilia…
La passeggiata, rallegrata dalla vista di tantissimi Valenciani a piedi, in bici, famiglie con bimbi festanti, ci fa ammirare la “cupola” di vetro del Palau de la Música costruito su progetto di José María Paredes nel 1987 e ci conduce, uno dopo l’altro, ai capolavori di Calatrava: la Città delle Arti, concepita sul tema della natura e dell’acqua e dominata, all’ingresso, dal giardino sospeso dell’Umbracle i cui 55 archi evocano le lische di un pesce; l’Hemisfèric, il cinema detto “l’occhio” che riflette in una vasca la sua semisfera contornata da una “palpebra” in metallo; il Museo delle Scienze “Principe Felipe”, un edificio che assomiglia a una colonna vertebrale e che accoglie un museo interattivo su tre livelli.
Terminata la visita al Museo delle Scienze, ci “tuffiamo” nello straordinario Oceanogràfic, un parco marino disegnato da Felix Candela che riproduce i mari freddi e caldi, offre emozioni fantastiche nell’acquario-tunnel lungo 70 metri e “regala” tre volte al giorno una spettacolare esibizione di delfini.
Siamo giunti quasi al mare e, col Bus 95, arriviamo in prossimità di una sorta di ‘padiglione minimalista’ di 10.000 mq, Veles e Vents, disegnato nel 2006 da David Chipperfield per offrire alle personalità intervenute per assistere all’America’s Cup la migliore vista sulle regate e altre manifestazioni marittime: quattro piani di piattaforme che affacciano sull’orizzonte.
E ora, musica!
Per presentare, a chi non la conosce, la Corale Veneziani, riporto, dal sito web, la sua “storia”.
La costituzione dell’Accademia Corale “Città di Ferrara” risale al 1955 e ha visto come promotori Mario Roffi, presidente dell’istituzione per delega del Sindaco fino alla sua morte, avvenuta nel 1995, Renzo Bonfiglioli vice presidente e il maestro Vittore Veneziani, rientrato nella città natale dopo un trentennio trascorso a Milano come direttore del coro scaligero.
Veneziani portò la sua esperienza e il suo entusiasmo nella nuova attività, assumendone la direzione e l’organizzazione artistica. Da allora l’Accademia, che nel 1958 prese il suo nome per celebrarne la memoria, ha svolto un’intensa, ininterrotta e qualificata attività concertistica in centinaia di concerti, tournée, convegni e rassegne in Italia e all’estero.
Fu per diversi anni diretta dal maestro Emilio Giani. Gli successe, negli anni dal 1980 al 2000, il maestro Pierluigi Calessi, sotto la cui direzione sono state eseguite tre incisioni discografiche e numerose tournée all’estero.
Per l’attività musicale e culturale promossa e realizzata fin dalla sua formazione, l’Accademia ha ottenuto nel 1988 il Premio Willaert e nel 1989 il Premio Stampa. Dal settembre 2000 al 2019 si sono poi succeduti alla guida della Corale V. Veneziani i maestri Giuseppe Bonamico, Stefano Squarzina, Giordano Tunioli, Maria Elena Mazzella; dal settembre 2020 la direzione artistica dell’Accademia è stata assunta dal maestro Teresa Auletta.
Ed è alla direttrice Teresa Auletta che chiedo di parlarmi del progetto che ha portato ai due concerti “valenciani”. La intervisto sul bus che ci riporta a Valencia da Gandía, a conclusione di una giornata di storia, arte e musica. A Gandía sono nati i Borgia, anche Lucrezia, che a Ferrara ha vissuto e sofferto e concluso in convento la sua esistenza e questo particolare legame è all’origine del gemellaggio tra città che ha portato al gemellaggio tra cori.
La storia è questa: Bologna e Valencia sono gemellate dal 1980; quarant’anni dopo, a seguito di un incontro virtuale tra imprenditrici e professioniste bolognesi dell’Associazione Fidapa e donne valenciane dell’Asociazione Evap per condividere esperienze imprenditoriali in tempo di Covid, si è pensato di aderire ad un programma di iniziative turistico-culturali lanciato da due agenzie di viaggi, una bolognese e una valenciana.
In questo ambito, la sezione di Ferrara della Fidapa ha immaginato un gemellaggio di carattere artistico-musicale, coinvolgendo l’Accademia Corale Veneziani, nota come “il coro di Ferrara”; nel contempo, l’assessorato alla cultura di Gandía procedeva all’organizzazione di una giornata di incontro “nel nome dei Borgia” culminata con un concerto serale con il coro Orfeo Borja de Gandía e, per allargare al capoluogo, si individuava nell’importante Studium Vocale San Nicolás il coro gemello, che nella primavera del 2023 ricambierà la visita e sarà ospitato a Ferrara.
I due direttori, della Corale Veneziani e dello Studium Vocale, una volta accettato questo “incontro in amicizia”, si sono spesso sentiti e visti online per concordare gli aspetti musicali, mentre i due tour operator agivano sul piano della organizzazione turistica; ben ventiquattro coristi hanno dato la loro disponibilità ad affrontare, a proprie spese, questa nuova avventura che si è aggiunta agli eventi già in corso di programmazione e di realizzazione.
Per questo, afferma Teresa, per quanto riguarda il repertorio da eseguire, ci si è accordati sulla libertà reciproca di proporre ambiti diversi, ma individuando anche due canti da interpretare insieme, ognuno scelto da ciascuno dei due direttori. La Corale ferrarese, nello specifico, ha portato brani di Vittore Veneziani, tratti dalla raccolta dei “Canti Spirituali di Israele”, più alcuni pezzi di autori del Novecento che erano in corso di preparazione quando si è cominciato ad organizzarsi per il viaggio a Valencia, scelti prevalentemente perché ‘a cappella’ quindi eseguibili senza la necessità di accompagnamento strumentale.
Il coro valenciano, che fa servizio liturgico nella omonima, magnifica chiesa di San Nicolás, ha preferito portare brani del Cinquecento e del Seicento, per cui l’intero concerto ha abbracciato un tempo lungo e molto significativo; l’accordo è culminato nei due brani eseguiti insieme, per i quali si è scelta la caratteristica della ‘notorietà’ accompagnata alla facilità di armonizzazione fra voci che cantavano unitamente per la primissima volta.
I due cori, precisa Teresa, sono abbastanza simili perché entrambi amatoriali e anche come vocalità, nel senso che sono voci ‘non impostate’ seppur formate con lo studio e via via migliorate, grazie ad un lavoro sulla respirazione, sulla emissione, sul controllo della muscolatura e l’attenzione alla postura.
Per quanto riguarda alcune anticipazioni su quello che succederà ad aprile 2023, nella settimana dal 13 al 16, si prevede di organizzare un concerto dei due cori gemelli a Ferrara e un altro, che verrà realizzato col supporto di AERCO, l’Associazione Emiliano-Romagnola Cori, a Bologna.
Col coro di Gandía l’incontro è stato più estemporaneo, ma ugualmente interessante per la evidente diversità del repertorio eseguito; si è concordato anche in questo caso un brano finale da cantare insieme e, trattandosi di Va’ pensiero, l’apprezzamento del pubblico si è manifestato in scrosci di applausi molto sentiti.
Il bilancio complessivo della direttrice sull’esperienza è decisamente positivo, perché molto stimolante è stato ogni momento; è stato importante gustarsi il tempo della quotidianità (pur in versione “vacanza” ) condiviso, è stato utile e stimolante incontrare altri cori, formati da persone allo stesso modo appassionate della musica, è stato divertente pranzare e cenare insieme e scoprirsi turisti curiosi e appassionati delle stesse cose, ma anche desiderosi di scambiarsi preferenze e passioni e curiosità diverse.
Chiudo l’articolo dedicando un’altra immagine alla magnificenza del Palau Ducal di Gandía, visitato in mattinata e mirabile cornice del concerto serale in una delle grandi sale e ringraziando l’Accademia Corale Veneziani per l’opportunità offertami di partecipare ad un’esperienza in cui il piacere del viaggio si è intrecciato con la condivisione di momenti di socializzazione, di arte, di musica, di cultura.
Libri e siti web consultati:
Cartoville VALENCIA, Edizioni Touring Club Italiano, Milano 2020
Vittorio Caratozzolo, VALENCIA. Una città mondo, Edizioni UNICOPLI, Milano 2007
Da un po’ di tempo volevo parlare di Idda, il romanzo di Michela Marzano uscito presso Einaudi nel gennaio del 2019. L’autrice è venuta a parlarcene all’Ariosto nell’anno scolastico seguente, sulla mia copia ho la sua dedica con la data del 2 febbraio 2020: pochi giorni ancora e saremmo stati presi in pieno dalla pandemia.
La scuola chiusa e le lezioni svolte da casa col computer. Quel giorno eravamo tutti lì, i ragazzi erano pronti a porle tante domande, alcuni ancora ricordavano l’impressione forte lasciata in loro dall’altro romanzo psicologico uscito nel 2017, L’amore che mi resta.
Non so distaccarmi dai ricordi della mia attività scolastica che è finita due anni fa. Credo di non dovere nemmeno. Se penso a Marzano sento di avere accumulato attorno a lei e ai suoi libri un’aura felice: il folto gruppo di lettura formato dagli studenti e dalle colleghe, la presenza all’incontro, organizzato alla Sala Estense per motivi di capienza, di un’altra sensibile autrice, Nadia Terranova, col suo romanzo Addio fantasmi uscito sempre presso Einaudi nel 2018.
La chiacchierata al Brindisi davanti a un piatto di superbi cappellacci con la zucca, commentando la bella mattinata di scuola fatta insieme come se ci conoscessimo da tempo e con le isoipse delle nostre psicologie vicine tra loro, molto vicine.
Marzano è piena di energia dialogica, parla di sé con ricchezza senza sforare nel protagonismo. Pone davanti a chi l’ascolta un paesaggio interiore sviscerato da lei in chissà quanti anni di introspezione e lo mette a disposizione del confronto.
Poi, alcuni giorni fa Idda viene discusso dal gruppo di lettura della biblioteca del mio paese: vengono fuori sul libro opinioni molto diverse, almeno tre persone lo bocciano in toto. Il motivo: è costruito su temi piuttosto sfruttati dalla narrativa, come il tema della memoria della propria infanzia e il recupero del vissuto come momento imprescindibile della propria identità.
Penso alla trama del racconto: Ale, la protagonista che è anche voce narrante, vive a Parigi insieme al suo compagno Pierre e nell’assistere la madre di lui che si è ammalata di Alzheimer è presa da una inattesa pulsione a conoscerne il passato.
A comprendere il rapporto tra la madre, il cui nome è Annie, e il figlio Pierre; tra lei e il marito Jean. Soprattutto, sente la spinta a tornare indietro alla sua vita in Italia, nel Salento. Alla famiglia d’origine, funestata da un drammatico incidente d’auto in cui ha perso la vita Giulia, madre di Ale, ed è rimasto gravemente ferito il padre, da quel momento condannato sulla sedia a rotelle.
Mentre ci mostra la sua vita quotidiana a Parigi, in quel che ha di abituale e rassicurante, Ale si focalizza sui pensieri nuovi che la occupano, sulle emozioni furtive che prova mettendo in ordine i documenti di una vita trovati in casa di Annie.
Le tornano come flash i ricordi di quando era bambina, le parole del dialetto per cui Annie ora nei pensieri di Ale diviene idda, lei, identificata dal pronome salentino. Torna il rapporto tra i suoi genitori prima così affettuoso e poi segnato dal conflitto.
Ricorda la fuga. Dice di essere scappata in Francia dopo l’incidente mortale di cui ritiene responsabile il padre e si ripromette di mantenersi coerente con il taglio netto che ha dato al suo passato. Da anni non risponde alle telefonate che arrivano dall’Italia, si rifiuta di parlare con lui e con la zia che lo assiste.
Mi domando se il parere negativo che ho appena sentito, un parere che salva lo stile della scrittura di Marzano ma non i contenuti della storia, può modificare il mio. Mi colpiscono le osservazioni di questi adulti che sono lettori di lunga data e che aspettano ora da me la mia risposta.
Ammetto che nel mio giudizio sul libro, del tutto positivo, entra la conoscenza personale con la scrittrice e racconto brevemente come è avvenuta. Riconosco che l’impianto della autobiografia rimanda a un genere piuttosto collaudato nella narrativa di ogni tempo e dunque anche nel nostro, tuttavia trovo che il racconto sia toccante e che siano efficaci lo stile e il ritmo narrativo.
Mi piace che nella parte finale la protagonista ritrovi il nesso tra i due tronconi della sua vita e sappia compiere nuove importanti scelte piene di futuro. Intanto mi incalzano i commenti all’intorno: ci sono altri modi più convincenti di raccontare la propria vita, modi meno personalistici, meno insistiti sui meandri dell’io.
Quando riprendo la parola mi sforzo di spiegare da dove proviene il mio sì al racconto contenuto in Idda. Viene dalla propensione che ho verso i racconti sulla vita esperita nella quotidianità, verso le parole che tracciano la parabola del vivere e sanno anche tirare le somme.
Davanti a libri così raccolgo l’invito a misurarmi. A riflettermi davanti alle sinuosità di una biografia, ai picchi di dolore verso il basso, ai punti più in alto e più belli. Niente discorso della scala stavolta, sento che le cose che devo dire mi escono adesso.
Dico cosa vado cercando nei libri fin da quando ho cominciato a leggere con assiduità negli anni della adolescenza: la possibilità di solidarizzare con altre vite e di misurarmi con esse, l’opportunità di stabilire un legame di sorellanza, io che non ho avuto fratelli né sorelle in famiglia.
Aggiungo esempi di autori che nella adolescenza mi hanno dato la rotta da seguire e le parole per metabolizzarla, come e più delle persone che stavo incontrando nella vita.
Mi taccio. Potrei anche tirare diritto con altre considerazioni, dire che la narrativa degli ultimi due secoli ha riportato il fuoco su protagonisti comuni e sulla loro quotidianità diseroicizzata. Che il romanzo ha preso il posto del racconto epico. proprio mettendo in campo la singolarità del personaggio protagonista nel suo contrastato rapporto col mondo.
Ma non corro il rischio di farla sembrare una lezione di storia letteraria, non è questa l’occasione per rivestire i soliti panni. Qui siamo adulti che si scambiano libere opinioni, e infatti mi si imprime bene nella mente l’idea che i gusti di lettura sono proprio diversi.
Per alcuni le storie più belle sono ammantate di fantasia e leggere vuol dire estraniarsi dalla realtà presente. Mi pare legittimo. Dico sempre che la letteratura occupa un piano parallelo rispetto a quello reale. Tuttavia quello che cerco nei libri non è solo un’evasione, una parentesi pur utile che mi riporta intatta alla mia realtà e non ha cambiato i miei pensieri. Semmai si è limitata a interromperli, senza deformarne la mappa come è avvenuto con Idda.
Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di carta, clicca [Qui]
Un’ondata di bombardamenti turchi ha investito le regioni della Siria nord-orientale causando decine di vittime e danni strutturali, a partire dal Covid Hospital di Kobane. La città, famosa per aver resistito a Daesh nel 2014, è obiettivo simbolico di Erdogan assieme ai campi profughi di Aleppo (Sheeba) dove vivono i rifugiati di Afrin cacciati dall’invasione turca del 2018. I bombardamenti hanno ucciso anche diversi militari siriani.
L’attacco è stato giustificato come risposta alla strage di Istanbul del 13 novembre. Una donna siriana ha lasciato, a volto scoperto di fronte alle telecamere di sorveglianza, una borsa con esplosivo nella via più affollata della città, tornando poi a casa per esservi immediatamente arrestata. Il suo nome è Ahlam Albashir e sarebbe originaria delle aree tra Aleppo e Afrin sotto il controllo dei jihadisti usati da Ankara come supporto alle proprie truppe, ma anche di un’altra fazione jihadista – Hayat Tahrir as-Sham – branca siriana di Al-Qaeda. Secondo le indagini Albashir avrebbe ricevuto l’esplosivo da un uomo chiamato Husam, arrestato nella città siriana di Azaz, anch’essa sotto controllo turco-jihadista. È stato interrogato anche un altro uomo, che ha telefonato alla sospettata prima dell’attacco: Mehmet Emin İlhan, dirigente del partito turco di estrema destra Mhp, principale alleato di Erdogan nel governo (subito rilasciato).
Nonostante questo, già il 14 novembre il ministro dell’Interno turco Suleyman Soylu dichiarava che l’arrestata aveva agito su ordine delle Unità di protezione del popolo curde (Ypg), che combattono proprio l’invasione turco-jihadista della Siria nel Rojava (Kurdistan siriano). Le Ypg non hanno mai agito su suolo turco né utilizzato tattiche terroristiche, e hanno negato il loro coinvolgimento. Sono parte del grande esercito rivoluzionario e interetnico delle Forze siriane democratiche: difendono l’unica regione siriana che sia riuscita, a oltre un decennio dalla primavera del 2011, a instaurare una forma di autogoverno autonomo dalla Turchia e dal regime di Assad, l’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est (Aanes).
L’Aanes si fonda su assemblee e commissioni popolari dette Comuni, animate dalla parte della popolazione che si riconosce nei principi egualitari ed ecologisti promossi dal Partito di unione democratica (Pyd). Riconosce alle donne autonomia e un ruolo strategico di direzione politica. Nelle sue istituzioni ogni organo è co-presieduto da un uomo e una donna, ogni consiglio prevede quote di genere (40%) e una rappresentanza prestabilita è assegnata ai giovani e alle minoranze religiose e linguistiche.
Molti, tra la popolazione turca e soprattutto a Istanbul, non sono persuasi dalla goffa ricostruzione governativa della strage. Contano, come in Siria e ovunque, le contrapposizioni politiche nella società. Almeno metà della popolazione vorrebbe farla finita con Erdogan, vuoi per la gestione disastrosa dell’economia, vuoi per la cappa oscurantista che negli anni ha fatto calare sul paese. Lo scontro tra tendenze alla secolarizzazione e reazioni tradizionaliste (o fondamentaliste) è trasversale alla Siria e alla Turchia, fino all’Iran e all’Afghanistan. È attrattore di tutte le istanze, da quelle socio-economiche a quelle concernenti la giustizia e il patriarcato.
La repressione in Turchia, dove centinaia di funzionari eletti sono in carcere, o in Iran, dove il governo ha lanciato un’operazione contro il dissenso nel Rojhelat curdo nelle stesse ore in cui la Turchia bombardava il Rojava, ha certo a che fare con il decennale rifiuto delle potenze regionali di risolvere la questione curda, ma si inserisce in un quadro più ampio. Le donne iraniane (curde e non) stanno tentando di cambiare il proprio paese negli stessi mesi in cui quelle afghane affrontano in piazza i Talebani. Le donne del Rojava costituiscono un elemento di ispirazione ben presente, al punto da disseminare il proprio slogan: “Jin, Jiyan, Azadi” (Donna, vita, libertà). Esistono diretti contatti politici tra il Kongra Star (Congresso delle donne del Rojava) e gruppi organizzati di donne attive in Iran e Afghanistan.
I governi turco, iraniano e afghano, al di là delle loro differenze confessionali e di politica estera, dipingono le rivolte come manovrate dagli stati occidentali, ma si tratta di contraddizioni interne a quelle società, per sostenere le quali da occidente, a livello governativo e non, si fa in realtà ben poco. I bombardamenti turchi avvengono in uno spazio aereo controllato da Russia e Stati Uniti, che acconsentono concretamente alle continue stragi di civili e militanti del Rojava. I media occidentali minimizzano o silenziano in modo inquietante le operazioni turche (la Turchia è paese Nato). L’abitudine della sinistra sociale o radicale a considerare, incredibilmente, un argomento di destra la denuncia delle imposizioni nelle società e nelle comunità islamiche, può spiegare esitazioni o reticenze maggiori rispetto ad altri temi.
E dopo, niente, Caruso l’avevo visto una volta, alla festa dell’unità. Era lì a fare il servizio d’ordine, alla festa dell’unità, nazionale. L’avevo salutato, un po’ imbarazzato. Che, più che altro, mi imbarazzava il fatto di farmi vedere alla festa dell’unità, nazionale, l’ultimo giorno, che non so neanche perché c’ero andato. Che mi aveva fatto un effetto.
Che io, quando andavo in giro, alla mia età, mi veniva da pensare che le cose che vedevo, e che sentivo, non andavano fatte e dette così come erano fatte e erano dette, andavano fatte e dette così come si facevano e si dicevano quando io ero giovane.
Per esempio la festa dell’unità, secondo me, non avrebbero dovuto chiamarla festa del PD, perché si chiamava festa dell’unità; e le bandiere che c’erano alla festa dell’unità, non dovevano essere bandiere tricolori, dovevano essere bandiere rosse. E i cappellini e le bandiere che avevano quelli che ascoltavano i comizi, non avrebbero dovuto darglieli all’ultimo minuto quelli dello staff, avrebbero dovuto portarseli loro da casa. E la canzone Bandiera rossa non doveva finire, come l’avevo sentita cantata dai volontari in un ristorante della festa del PD con la strofa “Evviva il PD e la libertà”, doveva finire con la strofa “Evviva il comunismo, e la libertà”. Che poi, in origine, diceva sempre mia mamma, era “Evviva il socialismo, e la libertà”.
Ma forse ero io, che ero così, che volevo che, anche i comizi, io volevo che si parlasse come dicevo io, che secondo me, ma perché ero vecchio, io quando avevo sentito, alla festa del PD, il comizio del segretario che cominciava dicendo “Care democratiche, cari democratici”, ma come si fa, dopo un inizio del genere, a dire qualcosa di sensato?, mi ero chiesto, e come si fa ad ascoltare qualcuno che inizia il suo discorso non dicendo “Buongiorno”, non dicendo “Benvenuti”, non dicendo “Cari amici”, non dicendo “Compagne e compagni”, non dicendo “Signore e signori”, ma dicendo: “Care democratiche, cari democratici”? Non si ascolta, secondo me non si ascolta, ma perché ero vecchio, e allora scappavo, e andavo a cercare le cose che riconoscevo, negli angoli, i ristoranti, le facce e i vestiti della gente che ballava, e quelli che guardavano, e i bambini che giocavano ai giochi che facevamo una volta, che mi sembrava che eran sempre quelli, e i bagni, che i bagni alle feste dell’unità eran fatti in un modo che c’erano solo lì, e a veder quelle cose mi veniva in mente quel passo del libro Cronosisma dello scrittore americano Kurt Vonnegut, quel passoche diceva “Mio zio Alex Vonnegut, un assicuratore che aveva studiato ad Harvard e che abitava al 5033 di North Pennsylvania Street, mi insegnò una cosa molto importante. Disse che quando le cose vanno davvero bene dovremmo fare in modo di accorgercene.
“Non parlava di grandi trionfi bensì di semplici epifanie: bere una limonata all’ombra in un pomeriggio afoso, sentire il profumo di una panetteria vicina, pescare e fregarsene se si pesca qualcosa o no, ascoltare qualcuno che suona bene il piano nell’appartamento accanto al nostro.
Zio Alex mi suggeriva, in tali occasioni, di dire a voce alta: ‘Se non è bello questo, cosa mai lo è?’”
Paolo Nori, La Banda del Formaggio, Milano, Marcos Y Marcos, 2013, pp.215-217.
Si ringrazia Paolo Nori per aver acconsentito alla pubblicazione di un estratto dell’opera.
Ai miei affezionati lettori ormai è noto quanto gli alberi e la foresta siano per me importanti oltre che grande fonte di ispirazione, in quanto costante elemento di continuità con l’universo. Parte integrante di esso, noi con loro, imprescindibili l’un l’altro, avvolti in un legame indissolubile.
I bambini forse ne sono più consci degli adulti, nel loro girovagare libero e leggero per prati e boschi, capaci di abbracciare un albero o di accarezzarne teneramente e delicatamente la spessa corteccia. Loro sanno anche (e ancora) arrampicarsi spensieratamente sugli alberi, sicuri che i rami li sorreggeranno, magari attratti dal sogno di farvi sopra una bella casetta, il cui tetto non sia altro che la folta chioma del loro fedele amico. Bei tempi, quando anche noi abbracciavamo gli alberi o avevamo la voglia, la possibilità e la libertà di passeggiare a piedi nudi sull’erba.
A guidarci in questo mondo fatato, regno di una biodiversità che fa bene a tutti, pianeta in primis, ci sono tanti albi illustrati ma oggi due verranno regalati a voi, sensibili lettori.
Il primo è Alberi, di Tony Johnston, illustrato da Tiffany Bozic,Nord Sud Edizioni (2021), dedicato a tutti coloro che amano davvero gli alberi. I disegni di questo bellissimo e colorato volume sono stati possibili grazie agli stessi alberi: tutti dipinti, infatti, su tavole di legno d’acero, indica l’illustratrice in nota finale al libro, dalla sua casa di campagna in California, sotto alte e gigantesche sequoie. Tiffany ha un tratto elegante, deciso, colorato, caldo e magico. Coinvolgente, profondo e unico (scorrete il suo sito e ne resterete immediatamente conquistati…).
Nei disegni di Alberi ci sono i kapok, le querce, gli alberi della canfora, gli aceri palmati, le sequoie, i meli, le betulle, i pini di Jeffrey, i salici piangenti e varie foglie e rami. A tutti loro dobbiamo l’aria che respiriamo, le case in cui viviamo, i tetti che ci proteggono, i libri che leggiamo, la diversità che celebriamo, la bellezza che ci circonda. La vita, insomma.
Gli ingredienti sono tanti. Tratti delicati e avvolgenti, così come le parole che li accompagnano, che partono dalla credenza degli antichi greci che gli alberi fossero esseri viventi a testa in giù, con la testa nelle radici. Terra e aria, radici e foglie. Cuore ed energia. E poi la fotosintesi chesadimagia, tramite la quale gli alberi rilasciano ossigeno, fondamentale ed essenziale alla vita.
Gli alberi amano il cielo, tutto quell’azzurro che sta sopra di loro, immenso stupore attraversato dai raggi solari che illuminano cose e anime. Fitti fitti, zitti zitti, ne amano anche le multiformi nubi irriverenti e velate, alle quali si protendono, quasi a volerle toccare e accarezzare.
Durante il giorno assolato porgono i loro rami possenti ad accogliere il cinguettio degli uccelli, durante la notte argentina li tendono alle stelle ballerine che brillano e alla magica e trasparente luna. Verità, purezza e nobiltà, questo sono gli alberi.
Hanno foglie verdi che brillano, che luccicano al passaggio della rugiada e della pioggia, sono forti, sbocciano in fiori rosa o candidi come la neve, come la neve portano felicità.
Sono vecchi, antichi e secolari, con tanti faticosi anni negli anelli dei loro maestosi tronchi, tante storie vissute e viste vivere, tante estati, primavere, autunni e inverni. Anni e secoli. Sempre lì, coraggiosi, amici, come gli amici sanno essere e restare, disponibili a invitare ad arrampicarvisi sopra. Invito ben accetto e presto accolto, soprattutto dai bambini e da tanti simpatici animaletti, che ricordano i pelouche dei regali di Natale di un felice e spensierato tempo che fu.
Gli alberi offrono ombra ai passanti stanchi e a quelli meno stanchi, a chi è allegro e a chi è triste. Un refrigerio che fa bene. Bello leggere all’ombra di un albero, noi e lui, soli. Perché siamo foresta.
E qui arriva il secondo albo di oggi, dell’italiana Nadia Al Omari, per il testo, e del peruviano Richolly Rosazza, per le illustrazioni: Siamo foresta io e te, Kite Edizioni (2022), un volume sorprendente e delicato che parla di natura e deforestazione. Questo terribile mostro.
Una scimmietta dalla coda riccia sbircia fra gli alberi, ha gli occhi furbi e pare molto curiosa. Tanti fiori e piante intorno. Una bambina ama così tanto un albero da sognare l’incubo più tremendo, che venga abbattuto e portato via. Un rumore assordante, la foresta grida, gli uccelli scappano impauriti.
La bambina dai lunghi capelli lisci e con il suo bel vestitino bianco, corre nella foresta, va da lei, vuole vederla e sentirla, assicurarsi che tutto vada bene, è preoccupata. Fermandosi in quel luogo magico, respira aria, luce e verde, mentre una coccinella curiosa spunta fra le foglie.
Sente la geografia della corteccia, mentre una farfalla rossa le sorride. Il suo amico albero, dov’è? Dove sono i battiti del suo cuore? Dove porta il respiro del suo corpo caduto? Pesanti sono i temibili passi di chi, senza scrupoli, si aggira per la foresta e abbatte gli alberi per portarli via…
Ma la bimba si sveglia, è nel suo caldo lettino, per fortuna è un solo un brutto sogno: l’albero è proprio lì, dove è sempre stato, alto come non mai, imponente, vivo, eretto verso il cielo. Che bello capire che potrà di nuovo arrampicarvisi fino in cima e vedere il mondo, quella meraviglia vivacemente colorata, da lassù, sentire le voci della terra sussurrare segreti. Che sollievo!
Mentre il cielo si apre e il sorriso torna, bimba e albero restano ad aspettare la luna, a respirare uniti. In silenzio, insieme, all’unisono. Perché insieme sono foresta. Per sempre.
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreriaTestaperaria di Ferrara.
Venezia – Università Ca’ Foscari, 23 – 25 novembre 2022
nell’ambito di Destini Incrociati – Progetto Nazionale di Teatro in Carcere
a cura di Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere (C.N.T.i.C.)
e Teatro Universitario Aenigma in collaborazione con l’International Network Theatre in Prison (I.N.T.i.P.) e l’Università Ca’ Foscari di Venezia
con il Patrocinio del Ministero della Giustizia
e le collaborazioni di: Università degli Studi Roma Tre Associazione Nazionale Critici di Teatro (A.N.C.T.) AGITA Teatro Balamòs Teatro
incontri, conferenze, proiezioni video, performance, mostra fotografica sul Teatro in Carcere in Italia e nel mondo
Si terrà a Venezia, da mercoledì 23 a venerdì 25 novembre,Destini Incrociati, rassegna nazionale di teatro in carcere, con la direzione artistica di Ivana Conte, Grazia Isoardi, Vito Minoia, Valeria Ottolenghi, Gianfranco Pedullà, Michalis Traitsis.
“Giungendo alla sua nona edizione e alla luce del recente rinnovo del Protocollo d’Intesa triennale per la Promozione del Teatro in Carcere in accordo con il Ministero della Giustizia, nel 2022 la rassegna si conferma quale momento più alto di confronto tra le esperienze italiane di teatro in carcere ed apre operativamente le porte all’International Network Theatre in Prison con la presenza della Direzione Generale dell’International Theatre Institute dell’Unesco”
(Vito Minoia, Presidente del CNTiC e Coordinatore INTiP).
La IX edizione, che si svolgerà all’Università Ca’ Foscari, presenterà performance, frutto di laboratori produttivi realizzati con detenuti, una sezione dedicata alla proiezione di video, strumento indispensabile per documentare le esperienze di teatro in carcere, incontri, conferenze e una mostra fotografica. Un progetto in grado di restituire un ampio panorama delle nuove esperienze drammaturgiche sperimentate da registi e autori professionisti che, da anni, lavorano sul campo con detenute e detenuti, spesso direttamente coinvolti nel processo di scrittura e allestimento.
Balamòs Teatro, tra i promotori di questa edizione della rassegna, sarà presente con tre eventi:
Mercoledì 23 Novembre, alle ore 16.00 presso la Casa di Reclusione Femminile di Giudecca (ingresso riservato agli autorizzati), sarà presentato lo spettacolo voci e suoni da un’avventura leggendaria tratto dall’incredibile avventura di Odisseo e i suoi compagni all’isola dei Ciclopi, eroiche avventure, miti e leggende senza tempo raccontati con leggerezza e ironia, diretto da Michalis Traitsis con un gruppo composto da donne detenute della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca e alunni della scuola secondaria T. Tasso di Ferrara.
Mercoledì 23 Novembre, alle ore 19.00, presso la sede della Fondazione di Venezia (Sestiere Dorsoduro, 3488/U), verrà inaugurata la mostra fotografica di Andrea CasariScatti Sospesi, con un contributo video a cura di Marco Valentini (durata fino al 31 gennaio 2023). La mostra è composta da 40 foto stampate più altre 436 in una video proiezione che ripercorre le varie fasi del progetto Passi Sospesi di Balamòs Teatro negli Istituti Penitenziari di Venezia dal 2006 al 2022 (Casa Circondariale Santa Maria Maggiore, Casa Circondariale SAT di Giudecca, Casa di Reclusione Femminile di Giudecca). Durata della mostra 23 novembre 2022 – 31 gennaio 2023, visitabile da Lunedì a Venerdì dalle 10.00 alle 19.00, ingresso gratuito.
Venerdì 25 Novembre, alle ore 15.00, presso Ca’ Dolfin, Aula Magna Silvio Trentin (Calle de la Saoneria, 3829, Venezia), verrà presentato il video di Marco Valentini Passi Sospesi 2017 – 2021 dall’omonimo progetto teatrale di Balamòs Teatro alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca. Il video documenta il percorso e le metodologie del laboratorio teatrale, le prove e l’allestimento degli spettacoli, l’incontro e confronto con artisti e maestri del teatro contemporaneo, l’incontro e confronto con alunni delle scuole medie e dell’università, la presentazione di spettacoli provenienti dall’esterno.
In Copertina: foto di Passi Sospesi (Balamos Teatro, Ferrara)
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