Vorrei che fossimo
Come gli alberi
Divorare il veleno
Della terra
Rilasciare
L’aria per la vita
Ospitare i leggeri
Natanti del cielo
Mani verdi
Mani gialle
Ocra
Rosse
Marroni
Farfalle
Sibilare il vento
Crescere nel silenzio
Che parla
Con voce
Inaudita
Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio. Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]
Benedikt aveva un modo tutto suo di vivere il Natale. Cominciava a prepararsi la prima domenica di Avvento mettendosi in cammino verso i monti. L’obiettivo era di ritrovare le pecore smarrite, quelle che erano sfuggite in autunno ai raduni dei pastori. Pecore perdute nel gelido e buio inverno islandese: «La vita, diceva, è un servizio imperfetto sostenuto dall’attesa, dalla speranza e dalla preparazione».
Nessuno osava andare con lui eccetto due fedelissimi amici: il suo cane Leó e il montone Roccia. A volte lo cercavano anche i mandriani di cavalli quando ne perdevano qualcuno tra i monti. Lo seguivano nella tormenta, certi che, con la sua guida, li avrebbero ritrovati. Stavano con lui per un tratto, finché, ritrovati gli animali se ne tornavano; ma lui proseguiva salendo più in alto oltre le colline innevate verso il suo scopo: ritrovare le pecore smarrite.
Lungo quel tortuoso cammino verso l’imprevedibile come verso l’ignoto, sostava nelle gelide notti prima in una baita di contadini alle pendici dell’altipiano, poi a mezza via in un rifugio che era anche un bivacco di pastori con una stalla per gli armenti ritrovati; e infine lassù dove nessuno osava, appena un buco, giusto una rientranza nella roccia, come una grotta per un pastore, il suo cane Leó e il montone Roccia.
In paese, quei tre, che si avventuravano in una regione diventata a dir poco inospitale e proibitiva, erano chiamati la “santa trinità”. Erano come un mondo, un sodalizio di amici, una benedizione anche, che entrava benefica in un altro mondo fatto di tormente di vento, spilli di ghiaccio e di neve che accecavano. Alleandosi poi con il vento la neve inghiottiva e annullava ogni punto di riferimento, ogni certezza esteriore ed interiore, cancellando ogni traccia di sentiero e finanche la speranza.
Un mondo fatto di vite sgretolate da riunire, esistenze perdute da ritrovare, con il rischio di perdere sé stessi in quel mescolarsi e rimescolarsi, sprofondare e riemergere, nel continuo scomparire ricomparire di orizzonti capovolti del cielo e della terra.
Erano stranieri in terra straniera; e tuttavia, non senza la compagnia di una fragile eppur indomabile speranza in una provvidenza, nascostamente presente, che custodendo i loro sogni, calcava le loro orme facendo silenziosamente strada con loro. Yhwh, Benedetto egli sia, non aveva forse detto all’amico Abramo che sognava una discendenza come le stelle del cielo: «Cammina davanti a me?» (Gn 17,1).
La storia del pastore d’Islanda inizia così: «Se il tempo lo permetteva, la prima domenica d’Avvento, si metteva in viaggio. Riempiva una bisaccia di provviste, calzettoni di ricambio, varie paia di scarpe di cuoio nuove e un fornelletto da campo; prendeva con sé una latta di petrolio e una bottiglietta d’alcol e se ne andava tra le montagne, che in quel periodo dell’anno erano popolate solo dagli uccelli predatori più resistenti, dalle volpi e da qualche pecora sperduta.
Proprio di queste Benedikt andava in cerca, bestie sfuggite ai tre raduni regolari dell’autunno. Dovevano morire di freddo e di fame solo perché nessuno aveva la voglia o il coraggio di cercarle e riportarle a casa? Erano pur sempre esseri viventi. E Benedikt aveva una specie di responsabilità nei loro riguardi.
Il suo scopo era semplice: trovarle e ricondurle a casa sane e salve, prima che la grande festa portasse la sua benedizione sulla terra, e pace e gioia nel cuore degli uomini di buona volontà… Avvento. Negli anni quella parola era arrivata a racchiudere tutta la sua vita. Perché cos’era la sua vita, la vita degli uomini sulla terra, se non un servizio imperfetto che tuttavia è sostenuto dall’attesa, dalla speranza, dalla preparazione?» (Gunnar Gunnarsson, Il pastore d’Islanda, Iperborea, Milano 2020, 8; 10).
Benedikt lavorava in una fattoria d’estate e d’inverno. Badava al gregge in cambio di vitto e alloggio. Aveva iniziato quei viaggi in montagna, quei pellegrinaggi d’Avvento a ventisette anni e aveva già attraversato la regione montuosa per ventisette volte.
I suoi sogni erano sepolti in quegli anni. Ma quali sogni? «Quelli che solo lui e Dio conoscevano. E le montagne, a cui li aveva urlati nella sua disperazione. Ma già al primo viaggio li aveva lasciati lassù. Ben nascosti. O forse no? Non comparivano a volte nella solitudine dei monti, come spiriti inquieti che vivono la loro vita effimera e distorta in un deserto di neve e pietre sgretolate? Era a causa loro che doveva tornare lì ogni inverno? Per vedere se ancora non s’erano dissolti e la terra non li aveva inghiottiti?» (ivi, 12-13).
Il loro cammino in salita, faticoso e rallentato dalla neve era ritmato di filastrocche, salmi e canzoni, e Benedikt aveva la sua:
Landa petrosa, neve e tempesta
Fanno piede sicuro e gamba lesta Chi al riparo sempre resta La sua vita perderà.
Piano piano, con prudenza,
lentamente e senza affanno.
Dopo la notte il giorno verrà
Quando lampeggia poi tuonerà.
(ivi 21-22).
Essi «avanzavano lentamente, si muovevano con prudenza, come viene naturale dopo diciotto ore di cammino, anche se avrebbero cavalcato volentieri una folgore, sfidando il pericolo, pur di risparmiarsi l’ultimo tratto di strada» (ivi, 22).
L’unica certezza era che loro tre camminavano insieme, sostenendosi l’un l’altro, uniti nella notte e al chiaro di luna, tra le montagne silenziose. E avevano uno scopo. Uno scopo che tutti e tre conoscevano e a cui acconsentivano ad ogni passo e con un altro passo ancora. Umile, forse, ma pur sempre uno scopo. Far diventare i sogni realtà, farli crescere concreti nella vita: “ritrovare ciò che si era perduto”, portare alla vita ciò che stava per morire.
Spesso, a Benedikt le montagne tenevano il broncio. La neve cancellava ogni traccia, ma «la fortuna che lo aveva tradito il giorno prima, sotto un cielo sereno, tornò ad assisterlo nella bufera. Ne trovò due già di primo mattino, una terza verso sera e un altro paio nel viaggio di ritorno, per cui alla fine erano cinque in tutto.
Cercare pecore nella bufera era come gettare le reti in un mare torbido, ma quella volta la pesca diede i suoi frutti. Perché quando si conosce ogni dettaglio del terreno e i rifugi prediletti dagli animali, e per di più si ha un cane che è un vero papa, si trovano pecore anche alla cieca. Il che non toglie che fu una gran fatica, per Benedikt, Roccia e Leó, avere a che fare con quel gruppo di viandanti.
Le due coppie se ne stavano ognuna per conto suo, rifiutando ogni contatto con altre creature. E un momento partivano di corsa verso punti cardinali differenti, e il momento dopo non c’era più verso di smuoverle, se non a forza di urla e latrati, quando non si dovevano portare di peso attraverso i cumuli di neve. Era spossante» (ivi, 35).
Giunse il momento in cui, sopraffatto dalla fatica, senza più viveri per sé e per gli animali, decise di scendere a valle e chiedere aiuto. Era ormai la vigila di Natale; così, messe al sicuro le pecore smarrite nel recinto del rifugio con il poco foraggio rimasto, le affidò alla custodia di Leo e Roccia per dirigersi silenzioso e mesto verso l’ultima fattoria da cui era partito ai piedi delle montagne.
Egli non sapeva ancora e non immaginava che i suoi sogni avrebbero contagiato altri. Sì, proprio il giovane figlio dei contadini della fattoria di Botn con cui conversava volentieri − pure lui di nome faceva Benedikt – anche in lui si era acceso uno scopo: quello di incamminarsi in cerca di chi si era perduto e provare a ritrovarlo.
Così il vecchio Benedikt, giunto alla baita, avrebbe voluto chiedere al giovane Benedikt di accompagnarlo ancora tra quei monti appena fosse schiarito; ma non lo trovò, perché questi era già partito e lo aveva preceduto andando a carcare proprio lui, insieme alle sue pecore e dopo di lui anche altri si erano messi in cammino.
Il finale della storia del pastore d’Islanda ha il sapore di una parabola evangelica: quella di una festa che è ancora capace di far germogliare i nostri sogni nascosti o andare in cerca di quelli perduti. Che essa continui dipenderà da noi, dai lettori e da quanti, narrandola di nuovo, faranno nascere da essa storie nuove.
Scrivere è andare in cerca di parole smarrite e far rivivere le parole morte con lo scopo di ritrovare i sogni nascosti sulle montagne. Come sementi, sotto la neve essi sono pane. Scrivere allora, −così credo − è essere “pastori dentro”.
Benedikt «raggiunse Botn a tarda sera, accolto come uno che è resuscitato dai morti. Tuttavia non badò alle molte parole di benvenuto – dov’era il giovane Benedikt? Ma il giovane Benedikt non si trovava in casa. Era partito verso le altre fattorie senza spiegare perché. “Sì, volevo chiedergli di venire lassù con me, quando la luna tornerà a farsi vedere”.
No, il giovane Benedikt non era in casa. Il mattino dopo arrivò a Botn la notizia che aveva riunito qualche coetaneo ed era partito per la montagna. E prima di sera era rientrato con il gregge – e avevano messo le scarpe a Roccia, avevano fissato una calzatura di cuoio agli zoccoli che si era ferito a sangue camminando sempre davanti a tutti e spezzando la crosta di neve tagliente.
Fu un vero spettacolo assistere al momento in cui s’incontrarono sull’aia di Botn, il vecchio Benedikt e il suo Roccia. E il giovane Benedikt. “Grazie, tu che porti il mio nome”, disse il vecchio Benedikt, che non era tipo da aggiungere molto di più. Quel giorno alcuni contadini del circondario, che erano in ansia per la sorte del vecchio e ignari del suo ritorno, si erano dati appuntamento a Botn per salire in montagna a cercarlo – e a cercare anche il giovane, naturalmente.
Quest’ultimo era adesso davanti a loro, con le spalle dritte e lo sguardo fermo: “I ringraziamenti vanno a chi li merita”, rispose a chi portava il suo nome da prima di lui. E così finì il cammino dell’Avvento. Il compito era stato portato a termine e Benedikt era tornato tra gli uomini – ancora per un po’» (ivi, 39).
Una piccola appendice gesuana: «Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta? Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli» (Mt 18,12-14).
La costellazione del Pastore
E nella notte fasciata di stelle, tra poveri pastori, venne il Pastore di costellazioni
Nostra vicenda
No, in misura nessuna e modo alcuno
a noi è dato raggiungerti:
sei tu che devi scendere e perderti
tu, pastore di costellazioni.
Tua natura non è la divina Indifferenza,
anche se presunzione che altera la mente
e fede inquina e devia, è credere
che umana colpa per quanto orrenda
ti possa offendere.
Tua natura è di essere Amore
inesauribile fonte
di ogni amore:
Amore che te rovina
e noi redime
***
Io sento i tuoi passi inseguirmi
di deserto in deserto, passi
infaticati e discreti
per non impaurire:
Tu, divino Inquieto
che rompe gl’incanti
e distrugge le paci
e non concede tregue …
* * *
E come peccato non te ma noi
– solo noi! – ferisce a morte
e tua pietà scatena, così
non vi è contrizione che valga
– pure se a cuori che piangono
ancor di più con noi tu piangi
d’un pianto che lava la terra –
e solo grazia ci salva!
A noi chiedi appena
volontà d’essere salvati:
il miracolo
di lasciarci amare.
(D. M. Turoldo, Ultime poesie, Garzanti, Milano 1999, 52-53).
Quella del Pastore (di “Boote”=pastore, mandriano di buoi) è una costellazione detta circumpolare, perché resta sempre al di sopra dell’orizzonte in un dato luogo. È visibile tutto l’anno nel cielo del nord, ed è molto ricca di stelle doppie a cui deve la sua visibilità. È facilmente individuabile perché vicina al grande carro come tirato da buoi, l’Orsa Maggiore, che le sta in alto a destra.
La costellazione del Pastore, vicinissima alle tre stelle che stanno alla fine della stanga del grande carro, sembra afferralo, come a volerlo orientare verso la stella polare. Almeno così a me pare, guardando una mappa del cielo stellato. Ma allora il suo lo scopo non è forse quello di indicare il cammino alla ricerca dei sogni e indirizzarli verso un compimento?
«C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia. E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2,8-9; 12-14).
Perché è apparso ai pastori per primi? Perché il loro sguardo è vicino alla terra, al gregge, dentro alla vita delle pecore; ma lo stesso sguardo è rivolto a scrutare il cielo e oltre, verso le costellazioni, e dunque verso i sogni dell’umanità, verso il suo futuro.
A loro il primo annuncio; loro per primi ad arrivare alla grotta, perché − ha ricordato papa Francesco − «ai pastori spetta il compito di alimentare i sogni della comunità, essi sono chiamati a far sognare altri… Pastori dentro alla vita delle persone, delle comunità, del Paese, dentro allo sguardo di chi è ferito ed escluso, di chi non smette di vedere il futuro da vivere con gli altri e per gli altri».
Così infatti si legge nel racconto di Luca: «E dopo averlo visto riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro» (2, 18-20).
Scrive Giovanni in una mirabile pagina, al capitolo 10 del suo vangelo, che il buon pastore dà la vita per le pecore: «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore, non è come il mercenario. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore». Ma il sogno di Dio sulla vita che vince la morte non è perduto perché «il Dio della pace ha tratto dai morti il grande pastore delle pecore, il nostro Signore Gesù» (Eb 13,20).
Dio nelle scritture è detto “Signore dell’universo”, che traduce l’ebraico Sabaoth “degli eserciti”, ma va compreso nel senso di schiere e costellazioni celesti, prima che di schiere angeliche. Poi nella Genesi il termine lo si trova riferito ai cieli e ad ogni creatura; «quando furono portati a compimento i cieli e la terra e tutte le loro schiere», come a dire tutto il creato e l’intero universo.
Tornare pastori per ritornare a sognare la vita
Ma quando facevo il pastore
allora ero certo del tuo Natale.
I campi bianchi di brina,
i campi rotti al gracidio dei corvi
nel mio Friuli sotto la montagna,
erano il giusto spazio alla calata
delle genti favolose.
I tronchi degli alberi parevano
creature piene di ferite;
mia madre era parente
della Vergine,
tutta in faccende
finalmente serena.
Io portavo le pecore fino al sagrato
e sapevo d’essere uomo vero
del tuo regale presepio
(D.M. Turoldo, Natale, in O sensi miei, Rizzoli, Milano 1997, 230).
Un Natale in compagnia di Benedikt; non solo una poesia, ma pure una benedizione e una preghiera, perché non sia ogni giorno un’abitudine, ma una benedizione:
Insegnami, mio Dio, a benedire e a pregare
sul mistero d’una foglia che muore, sul fulgore d’un frutto maturo,
su questa libertà: vedere, percepire, respirare,
conoscere, aspettare, fallire.
Insegna alle mie labbra alleluia e benedizione
al rinnovarsi del tuo tempo con mattino e notte buia,
perché oggi il mio giorno non sia come ieri,
perché non soffra il mio giorno assuefazione.
(Lea Goldberg, Lampo all’alba. Poesie, Giuntina, Firenze 2022, 92).
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]
Non sono Marino Moretti nella sua Cesena ma sì, mi trovo a Mantovanei giorni che precedono il Natale. Ho camminato fino a Piazza delle Erbe e a Piazza Sordello in cerca dell’albero grande con le decorazioni e le luci, e ora mi stupisco di non trovarlo; gli addobbi sono sobri anche davanti ai negozi del centro. Vengo regolarmente a Mantova nei giorni del Festivaletteratura e la conosco gremita di gente, perciò oggi mi sembra addormentata.
Tra poco raggiungerò il Teatro Sociale per prendere servizio; ho risposto alla chiamata degli organizzatori del Festival che per il lancio del tesseramento 2023 hanno invitato Alberto Angela a parlare qui oggi del suo ultimo libro, Nerone. La rinascita di Roma e il tramonto di un imperatore. Sono emozionata e curiosa di conoscerlo di persona, almeno per quel po’ di contatto che il servizio mi può consentire: vederlo arrivare un po’ prima delle 18 e seguire la fila al firmacopie per regolare il flusso dei lettori in coda.
La vitalità che manca nel centro della città la trovo qui, arrivando davanti al teatro due ore prima dell’evento. La gente in fila è tanta. La evito entrando nel foyer e facendomi riconoscere per avere il pass. Ritrovo facce note mentre ricevo le consegne: assegnare i biglietti numerati alle persone, che dalle 17 possono entrare e prendere posto in platea e nei palchi dei quattro ordini superiori.
Puntuale alle 18 Alberto Angela entra in scena e comincia a parlarci, armato solo di un telecomando per la proiezione delle immagini alle sue spalle. Alla sua sinistra un tavolino e sopra una bottiglia d’acqua e un bicchiere che non toccherà nemmeno. Affacciata a un palchetto che guarda direttamente sul palcoscenico – un privilegio – mi sembra naturale trovarmelo a pochissima distanza e ascoltarlo. Mi succede solo con i desideri forti nel momento in cui si avverano.
Angela ha l’eloquio che tutti conosciamo per averlo seguito chissà quante volte sullo schermo tv, ma dal vivo emana da lui un valore aggiunto. Ci guarda mentre parla, punta lo sguardo verso la platea e poi ai palchi alla sua sinistra e alla destra, come riconoscendo a ognuno dei presenti la titolarità a essergli interlocutore. Siamo una somma di preziosissimi addendi, non una massa di 750 ascoltatori senza volto.
Presenta il terzo volume della trilogia dedicata all’Imperatore Nerone. Il libro è uscito in dicembre presso Harper Collins e ho già seguito la presentazione che ne ha fatto a Che tempo che fa l’11 dicembre, eppure scrivo appunti su appunti mentre parla distesamente della figura di Nerone e delle tante fake news che si sono diffuse nel tempo sulla sua persona.
Cita fonti antiche e moderne, fa riferimento ai collaboratori che lo hanno supportato nella ricostruzione rigorosa dell’operato di Nerone, suggerisce paragoni tra il primo secolo dell’Impero e il tempo presente. Che vita è stata quella di un Imperatore salito al potere a diciassette anni e morto quando ne aveva 31! Ce lo avvicina così, usando parole della colloquialità quotidiana.
Tra gli intercalari che usa più spesso c’è il verbo “pensiamo”. Vale anche per la tesi su cui si regge l’intero libro: a scatenare l’incendio di Roma nel 64 dopo Cristo è stato presumibilmente un incidente domestico, una lucerna caduta su qualcosa di infiammabile da cui si è propagato il fuoco che ha distrutto interamente tre circoscrizioni cittadine, ne ha danneggiate seriamente sette, lasciandone intatte solamente quattro. Quattro come gli anni di vita che restano a Nerone dopo il disastro, sono pochi ma esiziali per lui e per noi.
Cito dalla Introduzione: “E’ un breve periodo per la Storia, eppure vi accadono fatti di enorme portata, con conseguenze che arrivano fino a oggi. Nerone scatenerà la persecuzione contro i cristiani, mandando al martirio centinaia di fedeli, compreso l’apostolo Pietro”. E via a costruire una catena di eventi che sono conseguiti alla caduta casuale di una lucerna, chiama in causa la Basilica di San Pietro e il Colosseo. Esisterebbero oggi senza l’incendio dell’Urbe?
Passa in rassegna i ‘tanti volti’ di Nerone, le abilità e le follie, il difficile rapporto col senato e la vicinanza al popolo, la sanguinaria repressione delle rivolte e la passione per le arti. Fino a concludere: “Eppure… paradossalmente Nerone non era più malvagio di tanti altri imperatori”. Fino all’ultima frase: “Al di là della lucerna caduta dobbiamo pensare a qualcuno che l’ha posata malamente. Intendo dire che siamo sempre noi a determinare il nostro destino”.
Parla senza sosta per un’ora e quaranta ed è subito firmacopie. Insieme agli altri volontari mi avvio al foyer e subito mi rendo conto che è gremito di persone, è la sala intera che attende una sua firma. Riesco a raggiungere il tavolo a cui siede e prima di cominciare a firmare lo vedo bere, finalmente.
Due assistenti gli porgono una copia dopo l’altra e suggeriscono il nome del dedicatario. Serve a sveltire l’attimo iniziale, cui segue una frase scritta per bene col pennarello e il disegno di una faccina sorridente. Accanto al nome proprio la parola “sogni”. Per commiato una stretta di mano occhi negli occhi a ciascuno dei lettori, anche a chi come me è retrocesso diligentemente in coda e ha atteso un paio di ore.
Esco dal teatro e la piazza è di nuovo deserta, sono quasi le 22 del resto. Per fortuna mi aspettano una cena veloce e una stanza d’albergo a due passi da qui. Poco fa, stanca di fare la fila, ho dubitato di potercela fare, ho pensato ma perché sono venuta qui. Ora non più.
Ho una esperienza toccante da aggiungere alle altre che Mantova continua a darmi dal 1999 e un libro la cui dedica dice così. “A mio padre, amico che manca, che mi ha trasmesso l’entusiasmo di viaggiare tra le stelle della conoscenza con la semplicità delle parole e la profondità del pensiero”.
Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di carta, clicca [Qui]
Come ogni mattina sono andata a cercarlo. In cucina, in sala, nello studio.
Oggi l’ho scovato appoggiato al muro, semi-nascosto — si fa per dire — dalla gamba del tavolo bianco.
— Ma che ci fai, lì? — l’ho interrogato.
Naturalmente, non ha risposto. Cosa può rispondere un palloncino a forma di stella?
Sono impazzita? Fate voi.
Vi presento il mio palloncino Charlie. Fu gonfiato dalla figlia con bomboletta all’elio per il compleanno del papà. Quasi due mesi fa.
Questo palloncino è dunque l’esempio di un ottuagenario tenace e in ottima forma.
O meglio, “in ottima forma” fino a poco tempo fa. Oggi, infatti, è floscio, raggrinzito, come ci si può aspettare da un vecchio parecchio in là con gli anni. Eppure resiste. E ha resistito fino ad ora. E fino ad ora, si è sempre dato da fare per palesarsi, in modo più o meno evidente, durante la giornata.
Quando era gonfio e turgido se ne stava lassù, tronfio della sua forza, quasi arrogante, a guardare tutti dall’alto. E noi, i “tutti”, a non considerarlo. Nel senso che, conclusi i festeggiamenti, l’avevo relegato insieme ai suoi fratelli palloncini di diversa forma e misura, di fianco al camino spento. Ormai lo, anzi “li” davamo per scontati. Solo il marito, talvolta, a insistere a liberarli e lasciarli librare nell’etere, all’esterno, e io a fare resistenza.
Il tempo passò — il tempo, si sa, sfilaccia anche i più indomiti.
Ad uno ad uno, i suoi simili si afflosciarono, alcuni di colpo, altri meno celermente, nella sorte che tutti noi consideravamo “naturale”.
Questi, no. Lui, no.
Assistette impassibile alla dipartita dei suoi compagni, senza un moto, un’oscillazione finanche del filo argentato di cui era fornito. Anzi: più i suoi compagni si svilivano, riducendosi, appiattendosi, aggrumandosi, più lui sembrava prendere forza, rimpolpare la propria tracotanza, giungendo a aderire a ventosa — ma sempre ben panciuto — contro il soffitto. Quasi a voler creare maggior divario tra la sua virilità e il decadimento degli altri.
Passarono i giorni, le settimane.
L’alterigia del palloncino sembrò scendere — nel vero senso della parola — a più miti consigli. Ma solo talvolta e per pochi istanti. Come infatti il suo lungo filo ci passava davanti al naso — mentre guardavamo la televisione, seduti sul divano, la sera — facendosi sussultare, subito egli s’inorgogliva per l’attenzione suscitata, e con un guizzo si riposizionava lassù, irraggiungibile.
Il tempo, però, non fa sconti a nessuno.
Per quanto non demordesse, un giorno non gli riuscì più di raggiungere le sue massime vette.
Comprendevo la sua frustrazione. Mi accorgevo che tentava di risalire (magari aiutato dall’aria calda del camino ormai in funzione) per giungere a lambire il suo cielo (il soffitto), ma più che restargli a due spanne di distanza, non gli riusciva.
Con rincrescimento scese, di quel poco per non infierire troppo sulla sua anima fiera, e trovò conforto, assestandosi a posizioni via via inferiori, nel poter fluttuare con più agio per l’intera casa — e gli architravi delle porte non gli furono più d’ostacolo.
Ecco, qualcuno non ci crederà, ma man mano che abbandonava la sua posizione privilegiata, accettando compromessi, anche noi incominciammo ad affezionarci a lui, a considerarlo con rispetto, quasi a farcelo amico. E gli affibbiammo un nome.
È proprio vero che l’umiltà paga…
La sua presenza, talvolta inquietante (specie se, voltandoci all’improvviso, ci trovavamo a tu per tu con il suo faccione sornione) ci divenne consueta. Quasi ricercata.
Sì, perché da quando si abbassò al nostro livello, e ancor più quando, compreso il filo, divenne alto quanto un bambino, fu considerato la “terza” presenza in casa.
E il suo giocare a nascondino ci induceva a cercarlo allegri nelle stanze del piano terra, e poi nelle camere del piano superiore, che raggiungeva salendo silente la scala, e ad essere un divertimento anche per i nipoti, che gli regalavano strilli, risate e non indolori strattoni di filo.
Ormai, però, non si muove più di tanto.
Specie dopo essersi bruciato, l’altro ieri, avvicinandosi incautamente al vetro rovente del camino chiuso, in cui ardeva crepitante la legna. Quel giorno, per fortuna, ero presente in sala e, percepito il suo lamento sfrigolante, mi precipitai a scollarlo a forza dalla trappola mortale.
Temetti il peggio. Che esalasse l’ultimo respiro… Invece no.
Malconcio, tutto una ruga, parzialmente ustionato, aveva continuato, frastornato, pencolante, ad esplorare l’ambiente, come ad imprimerselo nella mente. Anche se talvolta mi sembrava che perdesse l’orientamento…
Oggi l’ho trovato appoggiato al muro, dietro la gamba del tavolo bianco. Sembra un gatto. E non so più se impaurito o in attesa, perché i felini domestici sono insondabili. So solo che se ne sta lì. Tra il tavolo bianco (di plastica, orribile, ma posto in sala perché ospita una serie infinita di mattoncini da costruzione, divertimento per eccellenza dei nipoti) e la vecchia credenza di mia suocera dove, sul ripiano, mio marito ha allestito il Presepe.
E non so neppure se per questa storia ci sia una morale. E, se esiste, quale possa essere.
Se ci sia una morale per questo mondo così abituato al dolore e all’ingiustizia. E se ci sia una morale per chi cerca di comportarsi bene, nonostante tutto. E magari di scrivere con leggerezza un raccontino che narra di un palloncino e della sua assurda umanizzazione, mentre poco tempo prima ha ascoltato notizie di guerre, prepotenze e reati di ogni genere per televisione.
Buon Natale. Buon Anno. Buone Feste. Comunque. Per continuare a credere che possa esistere un mondo e un modo migliore per vivere.
Ecco: penso che sia questa, la morale.
Atmosfera degna di un romanzo di Agatha Christie, ambientazione teatrale estremamente colorata e curata, qualche brivido e tanta ironia. Il momento e il luogo? La Vigilia di Natale in una villa antica dal sapore e gusto un po’ retro. E in essa sette donne (c’è pure l’Ornella, la simpaticissima e perfetta Vanoni, in un ruolo che non ti aspetti) riunite per festeggiare ma che, invece, scoprono che l’uomo di casa, Marcello, è stato ucciso, accoltellato.
Gli ingredienti del mistero ci sono tutti: la bufera di neve, i fili del telefono recisi, il cancello bloccato da un catenaccio, la macchina che non parte per un sabotaggio al motore, la luce che va e viene, le candele. Tutto girato rigorosamente in interno in una piccola cittadina dagli orribili delitti di una provincia francese un po’ malata, alla Claude Chabrol.
Questo strano e strambo gineceo dovrà capire chi è l’assassina, che è sicuramente tra loro, manca solo il Tenente Colombo che sbuchi ad interrogare serratamente le (poco) intimorite sospettate. Margherita, la padrona di casa (Margherita Buy) è diventata un’estranea per il marito Marcello, ancora invaghito dell’amore di sempre Veronica (Micaela Ramazzotti), amante segreta.
La figlia maggiore di Margherita, Susanna (Diana Del Bufalo), arriva da Milano con una sorpresa e la figlia minore Caterina (Benedetta Porcaroli) contesta sia la sorella che la madre. La zia Agostina (Sabrina Impacciatore) è una zitella da sempre innamorata di Marcello, e Rachele (Ornella Vanoni), la suocera del defunto, in sedia a rotelle, gli ha sempre nascosto quei titoli che lo avrebbero potuto tirare fuori dai guai finanziari. L’unica a sembrare dotata di buon senso è Maria (Luisa Ranieri), la domestica venuta dal Sud e cuoca eccezionale.
Intreccio di caratteri e personalità, con i loro segreti e vizi, di gag, segreti, silenzi e battute che rendono il film piacevole e divertente, fra comico e grottesco.
Una storia al femminile, dove l’unica figura maschile è ridotta al silenzio, anche se tutto ruota intorno a lui. Il messaggio? Intrattenimento e divertimento puri.
7 donne e un mistero, di Alessandro Genovesi, con Margherita Buy, Ornella Vanoni, Sabrina Impacciatore, Luisa Ranieri, Diana Del Bufalo, Micaela Ramazzotti, Benedetta Porcaroli, Italia, 2021, 90 mn.
“Scrivere non è niente più di un sogno che porta consiglio.”
(Jorge Luis Borges)
siamo persone semplici
siamo disertori
non amiamo le competizioni
e
la meritocrazia
nemmeno
i giovani artisti
non vendiamo mozzarelle
al museo
e
non sopportiamo
il punk da balera
come jack e allen
seguiamo i consigli
di william burroughs
denton welch
joseph conrad
carson mccullers
djuna barnes
jane bowles
louis-ferdinand celine
oswald spengler
passeggiamo
per le vie della città
con lou reed
nelle orecchie
e alla domenica mattina
siamo consapevoli
di quanta fortuna
abbiamo avuto
nello scoprire
nick drake
da ragazzi
quasi un’autobiografia
Questa poesia fa parte della prossima raccolta poetica di Alberto Ronchi dal titolo “quasi un’autobiografia” che vedrà presto la luce. Alberto Ronchi è nato a Ferrara l’1 ottobre del 1961. E’laureato in filosofia. Ha svolto diversi mestieri: operaio, operatore culturale, amministratore pubblico. Attualmente è un insegnante (precario). Ha pubblicato due piccoli libri di poesia: “Catastrofi naturali” (2017) e “Anni meravigliosi” (2019), entrambi nella Collana fotocopie, editi da Modo Infoshop di Bologna.
In Parole a capo sono state pubblicate altre poesie di Alberto Ronchi il 14 maggio 2020 e il 6 maggio 2021. La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]
Negli incubi notturni mi riappare l’immagine di una donna che si faceva largo dietro Bruno Vespa alla prima della Scala: terribile! Con sorriso sadico ammiccava alle telecamere vestita come una marziana, mostrando per colmo di autoesaltazione gambe da vecchia.
Mi sveglio di soprassalto e ricordo che è tutto ‘vero’. Ma quale vero? Quello costruito dai media nell’universo parallelo? Quello che in realtà crea la nostra esistenza? Si va alla Scala per ascoltare Boris Godunov o per esercitare l’impellente bisogno di esserci?
A riprova di ciò che è e come si fa cultura leggo non capacitandomi a ciò che veniva prospettato nella classifica del Sole 24 ore [Qui] che a Ferrara la cultura langue. Anzi scende nei parametri tanto da essere all’ultimo posto in Emilia-Romagna.*
Leggo sulla cronaca di Ferrara del Qn Il Resto del Carlino del 13 dicembre 2022 a p. 3 “Cultura. Il territorio sembra perdere terreno anche su quella che per vocazione dovrebbe essere la sua forza propulsiva: la cultura. Infatti, nella posizione della cultura, Ferrara sprofonda al numero quarantacinque.”
Non va dimenticato poi che nella classifica generale Ferrara occupa il cinquantunesimo posto. Certo va tenuto conto degli ‘indicatori’ che regolano il giudizio e che tengono conto non solo della città ma dell’intera provincia. Ma che nell’indicatore “cultura e tempo libero” si sia raggiunta solo il quarantacinquesimo posto non è certo confortante.
Da cosa dipenderà? Sappiamo che il sottosegretario alla cultura e presidente di Ferrara arte si adopera a restituire la centralità di Palazzo dei Diamanti attraverso la programmazione di mostre. Che il programma del teatro Abbado è di primaria importanza. Che le associazioni culturali svolgono un lavoro encomiabile e che la Biblioteca Ariostea registra fino ai primi mesi del 2023 il pieno della sala Agnelli.
Della volubilità del pubblico, di ogni pubblico in ogni città, abbiamo riscontri oggettivi; eppure, si dovrebbe tentare una spiegazione meno superficiale e la prima, la più evidente, è che si risolve in un affaire politico. La maggioranza odierna rimprovera la dittatura culturale della sinistra in 50 anni di amministrazione, e da sinistra si sottolineano le ultime imprese, secondo loro sbagliate, tra cui il concerto al parco Bassani di Springsteen.
Ovviamente le voci meno allineate sia da una parte che dall’altra vengono definite, come massimo di rimbrotto, radical chic! E che, nonostante il mio ritiro dalla politica culturale attiva, sia da molti – se non da tutti – definito con questo termine è per me motivo d’orgoglio.
Un grande amico quale è Fiorenzo Baratelli, già presidente dell’Istituto Gramsci, che ora impavidamente continua a tenere sui media una rubrica di altissima qualità, mi esorta a ragione che la cultura si fa sui libri e solo dai libri otteniamo risposte degne.
È evidente che una specie di stanchezza sia calata sulla città; ma la radice di questa stanchezza dove si trova? Nei cittadini? Nelle istituzioni? Oppure è connessa alla forma stessa della cultura? Un problema certo non di poco conto. E Ferrara ne prova gli effetti anche nelle sue più ingenue manifestazioni, a cominciare dal diradamento dei crocchi degli umarel che commentavano i fatti del giorno in piazza.
Il tempo e solo quello potrà dare ragione di svolte, apparentemente incomprensibili, ma che si situano nel concetto di evoluzione/involuzione di ogni forma di espressione, prima fra tutte quella della cultura.
*N.d.A.: Nella discussione sul contenuto di questo diario una persona competente m’informa sulle modalità con cui vengono elaborati i modelli a cui si conforma l’indagine del Sole 24 0re e mi comunica inoltre che:
L’amministrazione di destra s’insediò a giugno 2019. In quell’anno come Ranking Generale Ferrara era 64esima passando poi al 34esimo posto nel 2020 e scendendo al 45esimo nel 2021. Per quel che riguarda invece l’indice CULTURA E TEMPO LIBERO andrebbero esaminati anche i sottoindici che lo compongono perché ci sono i ristoranti, i bar, lo sport per i bimbi, ecc. ecc. Di alcuni sottoindici relativi alla “cultura” Ferrara nel 2022 è: 17esima per indice di lettura, 37esima per patrimonio museale e 14esima per offerta culturale e che Ferrara era: 72esima nel 2015 e 78esima nel 2016.
Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubricaDiario in pubblicoclicca[Qui]
Cover: Ferrara – Labirinto verde di Palazzo Costabili
Natale si avvicina, resta ancora qualche giorno per mettere libri sotto l’albero. Due parole magiche per me (e scusate se sono noiosa), connubio perfetto: libri e alberi. E se sotto l’albero addobbato a festa mettessimo libri che parlano proprio di alberi e giardini?
“Per fortuna esiste qualcosa che non si può abbattere”.
L’albero azzurro, dell’iraniano Amin Hassanzadeh Sharif(Kite Edizioni, 2015), sarà il primo a finire fra i pacchetti colorati all’ombra morbida e caldamente profumata dei dolcetti appesi dalle mille forme (ghiottonerie che si spera sempre arrivino al 25…). Il libro narra la storia di un ostinato albero che rivendica solo il diritto di esistere, testimone e spettatore muto della storia delle persone, un gigantesco albero azzurro al centro di una città, così grande che i suoi rami attraversavano le case. Tutti lo amavano e molto. Tutti eccetto il re, uomo ciecamente tiranno che ne era invidioso – la bellezza di quell’essere vivente accecava la fama del palazzo reale -, tanto che un giorno ordinò di abbatterlo e sostituirlo con una sua statua. Soldati sull’attenti a vigilare. Ma i rami tagliati, rimasti nelle case, non ci stavano: ce n’era sempre uno che sfuggiva e si riproduceva altrove, piano piano, con tenacia, ostinazione e perseveranza. E allora iniziarono a crescere ovunque per divenire, ciascuno a sua volta, un albero azzurro (il colore del cielo, dell’acqua, della purezza, della vita, della creatività e dell’anima). Oggi l’intera città è una bellissima foresta.
Con una bella tecnica dello scratch che segna come ferite le figure, i muri e le strade, Amin Sharifdisegna una potente metafora sulla libertà, un atto di lotta per mantenerla, di coraggiosa e potente ribellione contro l’ingiustizia. Perché pur in un mondo dove il male continua a imperversare, il bene non finirà mai di crescere. Quale messaggio più bello in questo Natale di guerre e crudeltà?
La speranza non si può abbattere. Quella speranza che è felicità. Di un dono, di un sorriso, di una caramella tanto aspettata. Regali, regali e ancora regali allora! Magari al buio, il buio dietro l’abete! Potere all’immaginazione! Eccovi, allora, un bel racconto di Natale, L’incanto del buio, di Francesca Scotti e Claudia Palmarucci,Orecchio Acerbo Editore (2022), che riporta all’infanzia spensierata.
Oggi è Natale. In attesa di scambiarsi i regali, Pietro e Giulia, amici da sempre, giocano al buio, di cui non hanno affatto paura: il loro gioco preferito che può occupargli interi pomeriggi, uno scambio di immaginazione, fantasia e sensazioni. Nell’oscurità della camera, al tatto, gli oggetti che hanno raccolto e sparso sul pavimento diventano altro nelle loro parole, si trasformano: una forchetta può essere la chiave di un forziere, una scarpa è forse il letto elegante di una fata. Quando le loro mani s’incontrano al buio, viene naturale per Giulia e Pietro dare un nome anche ai loro sogni reciproci: un’archeologa e un airone sta per dire Pietro, un pilota d’aereo e un cervo, sta pensando Giulia. Qualcuno apre la porta e accende la luce. Il buio svanisce e l’incanto s’interrompe, i loro sogni tornano svelti svelti a nascondersi, ma non spariscono, perché è nel domani la chiave per diventare realtà. La magia di una storia che, non solo a Natale, vogliamo possa essere vera. Quando intendersi è un gioco da ragazzi.
Un viaggio tra scienza e arte, un ritratto delicato di un giardino e dei suoi abitanti, una storia di intrecci di vite dal 1821 in avanti. È il magico giardino dei nonni di Nicolas, artista visivo e grande viaggiatore, che, per tutto il 2020, ha studiato piante e animali, dal vero. Un taccuino di viaggio, che però ha riguardato una parte del mondo, il suo, per raggiungere la quale non è stato necessario nessun cammino, se non quello attraverso il tempo e le stagioni. Stando semplicemente fermi ad osservare.
Tutto comincia con il primo ricordo nel giardino dei nonni: un convolvolo in fiore che sembra volergli parlare e che l’artista non esita a definire come “una delle cose più belle del mondo”. Consapevole che il giardino continuerà a vivere e cambiare, con tutte le sue creature, il libro percorre anni e stagioni, con colori appassionanti e avvolgenti, degni della fiaba più bella, che immortalano il moto perpetuo della Natura.
Attraversando piene dell’impetuosa Loira, sorprese da colorate scatole di legno scoperte in cantina, episodi della Prima e Seconda guerra mondiale, pagine di quaderni di giardinaggio, bagnetti fatti nelle tinozze di zinco, scorci romantici di finestre quasi alate, abbaini curiosi, merli e poi vasi, orti, siepi, fiori, rose, cespugli e ancora fiori, il volume percorre gli anni, anch’esso impetuoso come un fiume, e si conclude con una dedica a coloro che verranno: nuovi bambini che faranno le loro prime scoperte del mondo e nuovi genitori che lo cureranno. Mille avventure. Sempre giocando, al ritmo del soffio del vento.
Il compito di artista finisce qui: aver trasmesso il piacere di osservare la vita, la natura. Duecento pagine di assoluta meraviglia, in cui luci, suoni, tintinnii, cinguettii, sospiri, piccoli animali, piante, insetti, fiori, persone vivono, si sfiorano e passano.
Libri che mettono in pace con l’Universo. Consigliati per un Sereno Natale. E non solo.
Immagine in evidenza, Viaggi nel mio giardino, Nicolas Jolivot
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreriaTestaperariadi Ferrara.
In memoria dell’Avvocato Paolo Ravenna dieci anni dopo la sua morte
“Assenza, più acuta presenza”; quella famosa sentenza poetica di Attilio Bertolucci vale anche in occasione della memoria di Paolo Ravenna, dieci anni dopo la sua morte. L’avvocato di Via Palestro ci manca, oggi, per orientarci in un mondo che è molto cambiato negli anni della sua assenza.
Cosa avrebbe detto, lui, su un Sindaco Leghista a Ferrara o sul successo enorme di un Partito come ‘Fratelli d’Italia’ (forse fascista, quasi-fascista, un pò fascista ma sicuramente rappresentante di una Destra nell’epoca digitale), in una città come Ferrara per decenni colorata di rosso, quasi rosso, ma decisamente sempre antifascista.
Per chi ha avuto la sua formazione culturale e politica negli oggi leggendari e molto discussi anni Sessanta, non è poi cosi difficile trovare un modello di cultura in grado di dare un orientamento alla propria vita e di maturare la visione di una città colta, vivace, civile.
Ci sono, per dare solo qualche esempio, nel mondo culturale, sia dell’Italia che della Germania, uomini come Benedetto Croce, Thomas Mann, i fratelli Scholl, Piero Gobetti, Bertoldt Brecht, Rita Levi Montalcini o Norberto Bobbio.
Ma, ricordando Paolo Ravenna, si può nominare come un modello anche Fritz Bauer, in Italia quasi sconosciuto, un giurista ebreo molto importante per la cultura democratica della Germania del dopo guerra. Odiava come l’avvocato Ravenna l’antifascismo retorico e preferiva un lavoro concreto e sobrio contro i responsabili della Shoa, per difendere lo Stato democratico fondato sui valori antifascisti.
Ma non sono certo che questi orientamenti, questi fari intellettuali abbiano ancora qualche peso culturale per i discendenti del passato. Speriamo di si, ma per essere realistici, bisogna ammettere che il mondo di quei grandi vecchi non trova più un eco clamorosa fra i viventi attuali.Il loro mondo non c’e più.
“Basta la lamentazione del passato!” avrebbe detto l’Avvocato secco e sobrio a modo suo. Viviamo oggie dobbiamo fare oggi le nostre battaglie per un mondo più giusto e per una città più umana e vivibile per tutti. Come architetto, artista, avvocato o giornalista, per parlare della mia categoria, si deve continuare con il lavoro di ogni giorno, ma in un modo ‘kantiano’, come ci hanno insegnato sia Fritz Bauer sia Paolo Ravenna.
Ci si deve aspettare dagli altri (professori, artisti, giornalisti ecc.) un lavoro serio, competente, pieno di coscienza ed anche di fantasia e curiosità; reciprocamente siamo anche noi responsabili per il nostro lavoro, per la nostra vita come cittadini d’Europa: un’appartenenza questa che era per l’Avvocato un titolo d’onore e non di vergogna, come urlano oggi sempre di più i bulli del populismo più sciocco.
“Resistere, resistere, resistere” come slogan contro il degrado della vita pubblica e della responsabilità per la “res pubblica”: ecco la spinta per “fare una battaglia civile”, sopratutto per salvare la famosa mura di Ferrara. Purtroppo, finora, uno dei grandi sogni dell’Avvocato giace dimenticato nella città di GiorgioBassani, maestro ed amico di Paolo Ravenna: si tratta del monumento di Karavan in memoria del ‘Giardino dei Finzi Contini’, il romanzo che ha portato il nome della città di Micol in tutto il mondo.
Paolo Ravenna ha avuto sempre in mente la biografia molto contraddittoria del suo padre Renzo, rappresentante di una vecchia famiglia ebrea e contemporaneamente e per tanti anni amico stretto di Italo Balbo. Non voleva rompere il rapporto personale con suo padre ma, sapendo della grande colpa dei fascisti, voleva decisamente rompere con la cultura fascista ferrarese dopo la guerra.
Mai come oggi abbiamo bisogno di una “Vita attiva” (Hannah Arendt), di una creatività umana, di un senso profondo per l’urgenza di un nuovo ‘Impulso civile’. Oggi non si può parlare o scrivere solo sulla cultura dentro le mura di Ferrara nemmeno d’Europa.
Dobbiamo aprire le finestre delle nostre case per ravvivare l’aria, talvolta soffocante e piena di polvere culturale, ma anche piena di una storia civile, umana e di grandi valori per i quali si deve lavorare e confrontarsi con quelli passatisti conservativi dei fratelli populisti d’oggi. Non dobbiamo solo difendere il nostro gran tesoro di cultura, d’arte, di valori democratici, dobbiamo anche aprire le nostre finestre per nuovi orizzonti culturali.
In questi giorni di cash & carry e dell‘elogio della irresponsabilità come virtù ci mancano uomini che rappresentano altri valori di vita. Ci servono, come ha scritto una volta lo scrittore triestino Claudio Magris, “valori freddi, i quali stabiliscono condizioni di partenza uguali per tutti, che permettono a ognuno di coltivare valori caldi, di inseguire la propria passione“.
Anche oggi la città di Ferrara ha un grande bisogno dei cittadini che difendono con “valori freddi”, ma con una “passione calda” l’identità urbana di una città come Ferrara.
Ecco perché, oggi, l’assenza di un uomo civile come Paolo Ravenna è la più acuta presenza.
Danza la neve
Collegando terra e cielo
Con fili sottili
E occhi di vento
In leggero
Ritmato movimento
lascia
Cristalli di perfezione
Incantando
Di vera illusione
quel suono
Di oboe
Che appena vibra
Posandosi
Sul grigio asfalto
Gli abeti resistenti
Abbottona i monti
Di cobalto
Pattinando luce
Impercettibile
La sua idea
Di Magia
Ricrea il mondo
Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio. Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]
La speranza, l’ironia e l’ottimismo restano sempre le migliori alleate di ogni situazione difficile. Semplice a dirsi per chi si trova in situazioni di serenità e agio, ma la regola resta. La società moderna è spesso crudelmente impietosa, non scorge le violenze nascoste, le fragilità dell’essere umano, i suoi momenti up and down, l’incapacità di essere ascoltati e, spesso, semplicemente di essere visti. Molti sono gli invisibili. Oggi più che mai.
Dopo Discount (2015), con cui aveva affrontato la lotta di cassiere sottopagate contro l’introduzione della cassa automatica che minacciava il loro lavoro con una soluzione alquanto alternativa e Carole Matthieu (2016), che affrontava il tema dello sfruttamento sul luogo di lavoro, il regista francese Jean-Louis Petit affronta ancora importanti temi sociali, con la sensibilità e il tatto di sempre.
Non parliamo di SìChef – La Brigade, appena uscito al cinema (che andremo a vedere) ma della toccante e coinvolgente pellicola Le invisibili (2018), storia di Lady D, Edith Piaf, Brigitte Macron, Beyoncé, Salma Hayek e di tante altre, che scalpitano davanti all’Envol (che, forse non a caso, significa “prendere il volo”), centro di accoglienza diurno di un uggioso nord della Francia che accoglie donne senza fissa dimora. Si nascondono dietro pseudonimi celebri per preservare l’anonimato e fra quelle mura protette e accoglienti trovano conforto, calore e riparo. Un percorso: perché non si nasce senza fissa dimora, ma ci si arriva, dopo aver vissuto, anche amando e lavorando.
Una brillante commedia sociale – la dramedy che per certe ambientazioni e tematiche ci ricorda Samba– con protagoniste quattro donne (le bravissime Audrey Lamy, Corinne Masiero, Déborah Lukumuena e Noémie Lvovsky) che, con una dozzina di attrici non professioniste, non si arrendono allo sfratto da quel luogo in cui, fra una doccia di venti minuti al massimo, una chiacchierata e un caffè, si trova ancora uno po’ di calore umano e di empatia. Ecco allora che, con un autentico atto di disobbedienza civile, si allestiscono clandestinamente un laboratorio terapeutico e un dormitorio dai quali ottenere una rivalsa e uno spazio nel mondo, anche del lavoro. In quel mondo dove lo scarto non ha spazio. Quella cultura dello scarto che tanto preoccupa Papa Francesco.
Ci sono tanti temi diretti ma anche sottintesi e insinuati: la violenza della strada ma anche dei compagni di vita, l’aggressione sessuale, l’emarginazione, la fragilità, la sofferenza, la paura, l’intolleranza, l’isolamento, la solitudine. E la ricerca di una bellezza perduta.
Ispirato dal libro di Claire Lajeunie, Sur la route des invisibles: Femmes dans la rue, Petit ha trascorso un anno nei centri di accoglienza per raccogliere testimonianze e realizzare un film che dà voce alle donne dimenticate dal mondo e, con loro, a quelle che le sostengono, accogliendole senza condizioni e alleviando la loro angoscia quotidiana.
Una cronaca di tragedia quotidiana trasformata in una commedia sensibile e toccante, che lascia spazio alla solidarietà, all’umanità e alla speranza, dove la vittoria finale sarà semplicemente quella dei valori, quella di individui nell’ombra, esclusi, umiliati, ignorati e dimenticati che ritrovano la propria dignità denunciando un sistema sociale iniquo e asettico che spesso non perdona. Con il sorriso. E per prendere davvero il volo.
Le invisibili, di Louis-Julien Petit, con Audrey Lamy, Corinne Masiero, Noémie Lvovsky, Déborah Lukumuena, Sarah Suco, Francia, 2018, 102 mn
Come ogni sera entrò a passo lento nel lussuoso caffè – ristorante appoggiandosi al bastone e si diresse al tavolo in fondo a destra che occupava sempre, da dove poteva osservare gran parte della splendida sala. Erano le nove e mezza, l’ora in cui il centro di Porto si animava. Coppie, gruppi di turisti e di giovani entravano nel locale per cenare, salutati cerimoniosamente da camerieri in giacca bianca.
Il vecchio gettò sul divano coperto di velluto rosso il bastone e si sedette pesantemente senza togliersi il cappotto di cammello un po’ spiegazzato. Il cameriere sapeva cosa avrebbe ordinato e portò sul tavolo un caldo verde e una bottiglia d’acqua, non prima di aver mostrato che non era fredda.
Il vecchio lo liquidò con un gesto nervoso e secco e cominciò lentamente a sorbire la zuppa di cavolo, gettando ogni tanto occhiate oblique in giro. Controllare. Questo aveva fatto per molte volte nella sua vita: controllare per poi arrestare e far torturare.
Era stato un dirigente potente e temuto del regime di Salazar prima a Lisbona, poi a Porto, con alti incarichi nella Pide, la polizia politica, poi nella Dgs, la Direção Geral de Segurança, fino all’ultimo, sino alla fuga di Marcelo Caetano, dopo la rivoluzione dei garofani del 25 aprile 1974.
Guardava, infastidito dal brusio e dal chiacchiericcio che proveniva da un gruppo di turisti seduti ad un tavolo vicino. Allontanò sgarbatamente il giovane cameriere che gli chiedeva se avesse bisogno d’altro.
Non aveva fretta di tornare nella sua casa di Porto, dove abitava dopo quindici anni di prigionia a Caxias, nelle stesse celle dove aveva fatto rinchiudere tanti oppositori politici.
Viveva solo, tra i simulacri di un passato potere. Era riuscito a conservare un po’ di denaro e con questo campava. Sua moglie e i suoi due figli lo avevano abbandonato poco prima della rivoluzione, stanchi di lui e impauriti, emigrando negli Stati Uniti, nel Rhode Island, dove avevano trovato accoglienza nella comunità portoghese. Con loro non aveva più contatti.
Terminò la cena continuando a gettare occhiate in tralice a destra e sinistra. Quando venivo qui molti anni fa, ricordò, ero riverito, tutti si facevano in quattro per me. Avevano paura, mi temevano. Guarda adesso, pensò ancora, sembra quasi che mi sopportino. Non mi cacciano via perché ho aiutato i proprietari a salvare questa baracca.
Senza di me la Pide avrebbe fatto chiudere il locale e i padroni sarebbero finiti in galera, a Caxias o a Peniche. Non ho fatto nulla perché ho avuto il mio tornaconto. Pagavano bene la mia protezione. Poi i militari traditori, i comunisti con la divisa hanno mandato all’aria l’Estado Novo, le nostre colonie e tutto il resto. Una rovina.
Uscì a fatica e si diresse verso il quartiere vicino, dove abitava in un vecchio palazzo. Entrò nell’androne e dietro di lui il massiccio portone si chiuse lentamente. Non prima di impedirgli di udire che nella casa di fronte, un vecchio edificio popolare, dall’ultimo piano uscivano le note di Grândola vila morena, la canzone operaia di José Afonso che da Radio Renascença diede il via alla rivoluzione.
La conosceva bene, quella canzone proibita dal regime di Salazar, ma sentirla ancora una volta gli procurò un accesso di rabbia impotente. I sovversivi sono sempre tra noi, si disse, ed io non posso più farli tacere. Non posso fare più nulla.
Poi il buio lo inghiottì.
(Da “Tre sguardi in uno” ed. Pendragon, Bologna, 2015)
“Nelle radici delle parole, nell’origine dei termini linguistici si nasconde una rappresentazione del mondo, una forma di pensiero e perfino un destino”.
Inizia così l’articolo Le radici della pace di Gianpaolo Caprettini sull’Indipendente.
E non potrei essere più d’accordo.
Da diverso tempo mi occupo di maternitàsurrogata e mi batto contro questa pratica che considero aberrante. Proprio su Ferraraitalia ad aprile 2020 avevo scritto un articolo sul perché sono contro la maternità surrogata, e dimostravo come le parole contenute nei contratti e dunque promosse dalla legge che regolamenta tale pratica, sono parole disincarnate, perdono le loro radici originarie, causando la crisi del linguaggio e contribuendo a distruggere il senso stesso di essere umano.
Quando scrissi questo articolo eravamo nel pieno del primo lockdown e da allora lo stravolgimento delle parole è aumentato in maniera esponenziale. La narrazione della pandemia è stata segnata dalla perdita di senso delle parole. Come se vivessimo in una babele, parole di senso comune sono diventate parole che acquistavano significati diversi a seconda di chi le ascoltava, creando scompiglio e incomunicabilità.
Questo processo, che sembra appunto molto recente, in realtà è in azione da parecchi decenni e, a mio modo di vedere, è stato costruito a tavolino con grande pazienza e determinazione dall’ideologia neoliberista, mondialista, globalista e finanziaria, che fonda i suoi principi sul transumanesimo, che punta a trasformare il senso stesso di umanità e, in nome della cancellazione della sua fragilità, a farne una macchina onnipotente grazie all’intelligenza artificiale.
Basti pensare al fatto che oggi la differenza dimoformica, quella differenza ontologica biologica dei corpi, viene cancellata in nome di un sentire – io sono ciò che mi sentonel pensiero – rinnegando la realtà biologica e le parti di corpo invisibili (quelle interne a noi).
La famosa dicotomia “cogito ergo sum” di Cartesio contrapposta al ”sum ergo cogito” di Anna Maria Van Shurman, (poeta, filosofae scienziata eccellente, poco conosciuta, ma contemporanea a Cartesio) invece di trasformarsi in una olistica visione dell’umano raggiunge, ai giorni nostri nelle democrazie occidentali, l’apice a favore della tesi cartesiana e cancella il sapere ancestrale dei corpi, proprio come vuole il transumanesimo.
Ora, durante la pandemia, questo assioma cartesiano è diventato un diktat. È della settimana scorsa il comunicato della Corte Costituzionale che anticipa la decisione sul dibattimento sull’ammissibilità dell’obbligo vaccinale decretato durante il periodo pandemico.
La Consulta ha prontamente ribadito che le decisioni prese dal governo Draghi non sono incostituzionali. Ora come semplice cittadina ho seguito il dibattimento (per fortuna visibile in diretta). Le argomentazioni scientifiche ma anche quelle a carattere logico e di diritto, portate dagli avvocati che avevano impugnato le leggi che decretavano l’obbligo vaccinale per certe categorie, mi sono parse molto chiare.
Con dati alla mano, argomentazioni legate al diritto naturale, di senso logico, anche una profana e non preparata nel campo giuridico, quale sono io, ha potuto seguirne la traccia senza trovarci alcuna contraddizione, mentre le argomentazioni degli avvocati a sostegno delle azioni del governo sono state fumose, astratte e tutte caratterizzate dal ridondante ribadire il dovere della collettività a perseguire un bene collettivo più alto, di cui il Padre Stato, o forse meglio dire lo stato padrone, è il decisore.
Non stupisce la celerità del comunicato della Corte Costituzionale a difesa dell’operato del governo. Fa male, però constatare che per l’ennesima volta le istituzioni non sono più garanti dei diritti delle cittadine e dei cittadini. La celerità delle decisione a mio parere mette in risalto quanto il potere si senta braccato dal dilagare della verità e tenti in qualsiasi modo di fermarne la corsa.
Eppure resta importante che il dibattimento sia registrato e che tutti possano ascoltare le ragioni portate da ambo le parti. Forse per la prima volta da anni ho sentito forte e chiaro chi usava una lingua che aveva radici comuni con la mia e in questa babele ho ritrovato casa nella lingua madre, una parola che risuona nelle mie viscere.
Come femminista so quanto il principio di autodeterminazione sia alla radice del mio sentire e faccia parte di un sentire non solo legato al logos, ma anche a quello materico. Sono le femministe che, nel loro enorme lavoro di disvelamento delle parole che riguardano le donne e i loro corpi, sono riuscite a rendere sempre più concreto e semplice da comprendere il diritto inalienabile e naturale all’autodeterminazione.
La legge 194 è un esempio dell’enorme lavoro fatto. Allora, al contrario di oggi, il dibattimento sui corpi delle donne ha portato alla conclusione che nessuna autorità esterna può entrare nel campo del sentire biologico e biografico dell’individuo fino ad obbligarlo a un agire sul suo corpo che non corrisponda alla sua coscienza profonda.
Questa consapevolezza è una conquista dell’umanità che spaventa il transumanesimo, perché riconosce all’individuo un ortus conclusus, uno spazio di libertà che appunto nessuna ‘ragione collettiva’ può invadere senza che questo sia vissuto come un abuso.
Il sistema patriarcale, che ha fondato il suo potere sulla legiferazione dei corpi delle donne, subì, allora, un colpo quasi mortale, e come reazione ha perseguito una propaganda di mistificazione dei significati della parola, che è causa della babele che oggi ci avvolge.
Eppure la lingua madre è una lingua che nasce dalle viscere e che oggi muove le pance di moltissimi. Come un vulcano in procinto di eruttare ribolle sotto le nostre membra ed è pronto a fuoriuscire con tutta la sua lava incandescente. Ci hanno provato, in pandemia, a zittire quella voce interiore, ma hanno fatto male i conti.
Troppe le parole disincarnateche continuano a circolare e che oggi, superata la grande paura, cozzano con la vita dei più. E così, nonostante la pressante propaganda, qua e là si aprono dei varchi a un ripensamento delle narrazioni main stream, all’uso delle parole e dunque alla rappresentazione del mondo.
L’enorme lavoro di ricerca di quegli avvocati per affrontare il dibattimento ne è la dimostrazione, ma non è l’unica. Penso ad esempio allo sconvolgente ma garbato documentario di Paolo CassinaInvisibili, che raccoglie le testimonianze dei danneggiati dal vaccino contro il Covid-19. Un documentario carico di umanità, di un’umanità sofferente, che con enorme dignità chiede di essere riconosciuta.
Viviamo tempi estremi, siamo a un bivio epocale, come dice bene Susanna Tamaro, ma siamo in tempo ancora per dire no alla parola disincarnata, e riattivare l’energia nascosta ma miracolosa della parola sacra.
“Il verbo si è fatto carne” non è una trovata letteraria dell’evangelista San Giovanni, ma è una “forma pensiero” e il destino dell’umanità.
“È sempre così, per tutta la vita sono arrivato alle cose dopo averle incontrate nei libri.”
(Jorge Luis Borges)
LA MIA NON È POESIA
la mia non è poesia
è una strada sterrata
una nebbia che s’infittisce
un incedere a tentoni
la mia non è poesia
è il suono del diapason
un abito di seta
una figura a metà cancellata
in fondo cerco solo d’imprimere
i miei versi sulla carta
la mia non è poesia
L’ANIMA È NUDA
l’anima è nuda
ruota in un’orbita
di plasma e cartilagini
ad ogni sorso d’acqua
a me sembra più viva
CARTILAGINI DI FIATI E D’INCHIOSTRO
è virginale il segreto
di ogni poesia
parola femminea
stretta nei versi
lavora a fondo la materia
e accoglie nel suo morbido grembo
cartilagini di fiato e d’inchiostro
IL MIO POETARE
ha maturato con forza
il caldo seme del mio poetare
involucro verbale
nato per sorprendere e incantare
involucro di dettagli
rarefatti e profondamente vivi
involucro che nasce
da un accordo di incensi e resine
involucro che resiste
nel tempo immobile del presente
non esiste confine più puro
UN LUNGO INVERNO
un non-sguardo
mescola il suo vedere
a strappare dall’oblio e dal nero
il proprio vissuto
sensi e carne raggelati
nel disordine del loro grafismo
lembi di un tempo lontano
ognuno nel proprio alfabeto
che sembra non avere mai fine
una pagina bianca
intorno al corpo
e al centro del foglio
uno schizzo frettoloso
di mani colme di neve
quel nascere insieme
di fogli di carta sparsi
segnerà l’inizio
di un lungo inverno
QUALCOSA IN LONTANANZA
qualcosa in lontananza
ruota il palmo della mano
e sembra dirci qualcosa
su cosa sia questa mia preghiera
tra carne e carne
a mani giunte
(Le poesie che pubblichiamo, su autorizzazione dell’autrice, fanno parte della raccolta “La mia non è poesia” uscita nel 2017 per Aljon Editrice. Nella prefazione leggiamo che “le poesie di Floriana Porta incarnano i percorsi interiori che ognuno di noi vive nel suo io più profondo, dove la natura, il surreale e il sogno coesistono in maniera sorprendente. (…) una poesia dallo stile ermetico, che fa a meno della punteggiatura, e lontana dalla retorica e dal sentimentalismo.”)
Floriana Porta è nata a Torino nel 1975, vive a Vinovo e fin da piccola ho avuto la necessità di scrivere, comporre e disegnare. Si presenta con forme espressive di rara intensità e la sua opera – poetica e figurativa – si dispiega fra la natura e la bellezza, l’introspezione e il sogno, elementi imprescindibili della sua riflessione esistenziale. Uno stile, il suo, caratterizzato da raffinatezza, contemplazione e armonia. Ha esposto nel Torinese e nell’Astigiano le sue opere ad acquerello; attualmente collabora con diversi siti culturali e artistici. Titoli delle sue principali pubblicazioni: Verso altri cieli (Edizioni REI, 2013), Quando sorride il mare (AG Book Publishing, 2014), Dove si posa il bianco (Sillabe di Sale Editore, 2014), L’acqua non parla (Libreria Editrice Urso, 2015) Fin dentro il mattino (Fondazione Mario Luzi Editore, 2014), La mia non è poesia (Aljon Editrice, 2017), I nomi delle cose (Edizioni L’Arca Felice, 2017), In un batter d’ali (AG Book Publishing Editore, 2018), Offro respiro ai versi (La Ruota Edizioni, 2018), Il Giappone in controluce (AG Book Publishing Editore, 2020), L’infinito è in me (AG Book Publishing Editore, 2021).
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]
QUANDO I POLLI AVEVANO I DENTI E LA NEVE CADDE NERA…. …bimbi state bene attenti, c’era allora c’era c’era…
Così esordiva Guido Gozzano nel meraviglioso grande libro blu di Fiabe, il mio preferito di quando ero bambina.
Mai più mi sarei aspettata di dover rispolverare quel vecchio, ma sempre meraviglioso incipit dopo quasi 60 anni di vita e in particolare per dare avvio ad un discorso su ambiente, energia e paesaggio. Su chi lo difende davvero e su chi lo vuole deturpare, in nome di una “salvezza” che di salvifico non ha proprio niente, se non vogliamo definire “salvifici” gli affari, gli interessi e gli ultraprofitti di un gruppo di industriali dell’energia e di alcune associazioni che in questo business intravedono la propria speranza di successo, che ben nascondono dietro la nostra comune e umana speranza di futuro.
Certo, non siamo noi cittadini di un comprensorio limitato della Toscana, che si estende a sud e lungo l’ Appennino tosco-emiliano e tosco-romagnolo che va dal passo della Futa fino alle pendici del Falterona, un po’ boscaioli, un po’ agricoltori, un po’artigiani e artisti..(senza offesa, sia chiaro, per I nostri progenitori: Giotto, Beato Angelico, Benvenuto Cellini.. per citare solo i più noti ai molti), chi siamo noi per criticare la scelta tardo industrialista e cementificatrice di associazioni note a tutti e di livello nazionale come: Legambiente, il Fai, il WWF, tra le più anziane, o come Ecolobby tra le
più giovani, già compromesse nel nome …e di fatto?
Le posizioni e poi le scelte in materia di energie rinnovabili, e di conseguenza d’impianti industriali per la loro produzione, verso cui queste associazioni si sono dirette e spesso sulle quali si sono arroccate, aborrendo qualsiasi pensiero libero, approfondito e comunque critico hanno veramente qualcosa di favolesco e fantastico, ma non nel senso positivo del termine, anzi, diciamo meglio, di mostruoso e incredibile, raccontano davvero brutte brutte storie!
La diffusione dell’eolico industriale a tutti i costi e ovunque, anche sui crinali delle montagne, è stata favorita dagli editti usciti dalla “bocca fiammeggiante con lingua biforcuta” del Re Draghi, che con immenso diletto delle Grandi Imprese ha eliminato (giusto in tempo prima che Mago Conte gli scagliasse l’anatema e lo facesse dipartire) tutta una serie di passaggi tecnici, di approfondimenti e di controlli ambientali (leggi V.I.A.) che la legislazione prevedeva a tutela dell’ambiente e del paesaggio italiani.
Tant’è che oggi, quest’ “inganno verde” e viene ora caldeggiato ampiamente e addirittura promosso dal fior fiore dell’intellighenzia ambientalista italiana in testa, associazioni che si sono associate pure con gli industriali, le finanziarie e le imprese che realizzano gli impianti, giusto per autofinanziarsi un po’, per il bene e il futuro dell’umanità tutta.
Ma questi signori, singoli e associati, non vedono che l’interesse. E il proprio interesse non è certo lo stesso di coloro che nelle aree naturali che vorrebbero industrializzare, ci vivono, lavorano, crescono I figli, si riposano e si distraggono dal lavoro, e parlo delle persone che abitano questi luoghi da sempre, ma anche di piante, alberi, muschi che qui hanno trovato il loro habitat ideale, di animali, mammiferi, artropodi, uccelli.. di acqua che scorre, di vita, nel suo complesso straordinario e denso di biodiversità.
Ormai sono rimasti soltanto pochi specialisti e storici dell’arte a difendere l’ ambiente, la natura e il paesaggio? Ringraziamo Tomaso Montanari, Vittorio Sgarbi, Franco Tassi e tante associazioni come Italia Nostra, la LIPU, il CAI, IDRA, Mountain Wilderness International, Amici della Terra, Altura, Pro Natura, GRIG, Atto Primo (e potrei citarne molte altre) per il loro impegno nel combattere l’avanzare degli orrendi mostri, alti anche 170/200 m, che paiono palazzi, grattacieli di 40 piani, che sventolano, talvolta, quando c’è un po’ di vento, si perché I climatologi confermano come il vento stia diminuendo in frequenza e intensità, nel nostro Belpaese.
Noi, per parte nostra, continuiamo imperterriti e continueremo fino alla fine a lottare: NO EOLICO INDUSTRIALE SUL CRINALE DEL GIOGO DI VILLORE E CORELLA|
Per contatti:
Comitato per la Tutela del Crinale Mugellano
libericrinali@gmail.com Vicchio
Mina era la più giovane delle tre sorelle Viscioli, l’unica che aveva studiato. Faceva la professoressa di disegno alla scuola media di Casalrossano e di vacche da squartare non ne voleva proprio sapere.
Da giovane era stata in convento, voleva prendere i voti e consacrare la sua vita al Signore ma, la malattia e la conseguente morte del padre, l’avevano convinta a tornare a casa e a contribuire, con la sua presenza e il suo stipendio, alla sussistenza della famiglia e della proprietà.
Pregava, disegnava, leggeva libri, preparava le lezioni per i suoi studenti e non entrava in macelleria nemmeno per sbaglio. Ciò che succedeva in negozio non le importava minimamente, anzi credo che le facesse schifo tutto quell’odore di carne cruda, di interiora, fegato e reni di bovino, venduti come prelibatezze.
Non si occupava nemmeno di faccende domestiche se non per spolverare e pulire vetri e pavimenti, faccende che le permettevano di stare lontano dal sangue, quanto un palombaro dalla luna.
Mina era alta, bionda e magrissima. Tutt’altro che brutta, ma inavvicinabile. I maschi fiutavano subito che quella signorina non era disponibile e la sua aurea ghiacciata intimoriva anche i conquistatori più avventati.
A differenza delle sue sorelle non consumava amori piccanti, ma nutriva un amore platonico per il preside della sua scuola, amore mai corrisposto e nemmeno conosciuto dall’interessato che viveva una vita tranquilla con moglie e figli, senza occuparsi di quella professoressa di disegno, che arrivava tutti i giorni in bicicletta da Cremantello.
La bicicletta e il mal di schiena
Mina andava a scuola con una biciletta nera dalla sella di pelle e dal passo veloce, come facevano tutte le pendolari in quegli anni. La patente era prerogativa di pochi maschi ricchi, la macchina possibilità di pochi temerari. La Fiat 500 era già stata brevettata da alcuni anni, ma nessuno a Cremantello sapeva della sua esistenza, il boom avvenne nei primi anni ’60 cambiando molte abitudini e molte aspettative.
La signorina era freddolosa e d’inverno si metteva addosso un cappotto di cavallino a chiazza bianche e marroni che le aveva conciato e confezionato un’amica di famiglia. Il cappotto era duro e rigido, se lo appoggiavi in terra restava “in piedi” e ne potevi ammirare la forma esattamente come se contenesse una persona. Ma sta di fatto, che quel cappotto scaldava molto e le permetteva di arrivare a scuola in condizioni ottimali per insegnare, anche d’inverno.
Camminava un po’ piegata in avanti perché spesso le veniva mal di schiena, a volte era perfino costretta a passare intere giornate a letto senza riuscire nemmeno a muoversi. In quelle occasioni sua sorella Carolina saliva nella sua camera, situata all’ultimo piano della grande casa rossa, e le portava il pranzo e la cena su un vassoio di peltro, senza dire nemmeno una parolaccia. Cosa strana per lei che insultava chiunque per un nonnulla, probabilmente le sofferenze fisiche della sorella le bloccavo un po’ la lingua, oppure considerava la malattia uno stato umano degno del massimo rispetto.
Caròla, come la chiamavano a volte, aveva perso la falange di un dito grazie a un pesante coltello da macelleria e sapeva quanto la sofferenza imbruttisca le persone e possa diventare un tarlo che impoverisce l’anima. Si sentivano i suoi pesanti passi sulla scala centrale della casa e si vedeva la sua traballante figura scomparire un pezzetto alla volta. Chi stava giù guardandola salire, si chiedeva come facesse a fare le scale dondolando a quel modo, senza rovesciare il vassoio con la minestra. Eppur ci riusciva.
Il dottore aveva detto che qualche vertebra di Mina era spostata, oppure schiacciata, oppure aveva qualche piccola ernia al disco. Non si seppe mai quale di queste alternative fosse quella giusta, sta di fatto che la povera signorina si tenne il mal di schiena fin che visse e quando morì era talmente incurvata che si fece fatica ad adagiarla nella bara.
Mina e i colori
A Mina piaceva particolarmente il colore azzurro. Forse perché le ricordava il cielo e il paradiso, sicuramente perché era l’antitesi del rosso, il colore preferito da Gemma.
Portava spesso vestiti e cappellini di quel celestiale colore e le piacevano i foulard di seta da mettere al collo con sfumature tra il verde e il blu. Sempre per quella sua indole freddolosa e forse perché doveva fare chilometri in biciletta tutti i giorni, i foulard erano il suo capo di abbigliamento preferito e ne conservava un bel numero impilati nel primo cassetto del suo comò.
“Questo è un bell’azzurro, è come il mare in burrasca” la si poteva sentir dire. Non si sa come facesse a sapere che quello era il colore di un mare agitato, visto che al mare non c’era mai stata, l’aveva solo visto dipinto e ciò le bastava. Tutti prendevano le sue considerazioni sui colori come veritiere, perché lei era un’insegnante di disegno e una delle poche persone istruite del paese.
A lei erano delegati tutti gli aspetti artistici della manutenzione casalinga: restaurava i mobili, li dipingeva e addobbava, smaltava le inferriate ed era l’unica autrice dei quadri impressionisti che caratterizzavano l’ingresso di casa Viscioli.
Lezioni di musica
Mina sapeva anche suonare il pianoforte e cercò per molto tempo di insegnare a mia madre quella meravigliosa arte. La faceva sedere davanti ai tasti con i libri sotto le ascelle per tenere le braccia “in posizione” e le faceva fare le scale musicali utilizzando i tasti bianchi e neri. Per ottenere una scala musicale, è necessario suonare in successione un tasto dopo l’altro. Ogni scala musicale (scala di Do maggiore, scala di Do minore, scala di Do# maggiore, scala di Do# minore, scala di La maggiore, ecc.) ha un suo schema rigido da seguire.
Così ripeteva Mina a mia madre: “Se noi suoniamo la successione di tasti bianchi che va da un Do più basso a un Do più acuto, otteniamo la scala di Do maggiore. Se noi invece suoniamo la successione di tasti bianchi che vanno dal Re più basso a quello più acuto, non otteniamo la scala di Re maggiore e nemmeno quella di Re minore.
Per conoscere gli “schemi” sui quali sono costruite le scale musicali, bisogna prendere come riferimento una sola scala maggiore e tre scale minori. Esiste un unico modello per la costruzione di una scala maggiore e tre modelli per le scale minori.” Tutto questo a mia madre non interessava e non si è mai spiegata perché Mina continuasse a ripeterglielo.
A differenza dei conti della macelleria, che imparò a fare con precisione e che le davano soddisfazione, tutte queste storie sulle scale musicali la stufavano e, mentre la signorina gliele spiegava, lei guardava fuori dalla finestra per vedere cosa stessero facendo Gemma e Gianin. Gli sforzi di Mina furono comunque in parte ripagati e, ancora adesso, mia madre possiede un pianoforte che ogni tanto suona con una discreta abilità. Questa è la prova di quanto la costanza e la determinazione paghino e di quanto la convinzione di un risultato positivo orientino l’agire verso la ripetitività. Mia madre non divenne però una grande musicista e Mina visse questo come un parziale fallimento della sua attività didattica.
La signorina ogni tanto vagheggiava. Tali vagheggiamenti erano una sua caratteristica, il suo senso di realtà non era di certo allineato con quello delle sue sorelle che la consideravano spesso una presenza inutile. E così a tavola, quando le altre due parlavano di vacche da macellare, lei taceva o le guardava con sufficienza. Allo stesso modo, quando lei parlava delle sfumature del cielo, le sue sorelle la guardavano senza commentare e poi si guardavano tra loro alzando gli occhi.
Gli occhi di Carolina e Gemma rovesciati verso l’altro erano uno spettacolo un po’ inquietante, uno scambio tra loro due, da cui tutti gli altri erano esclusi. Essendo abituate l’una all’altra non si facevano impressione da sole e a Mina non importava nulla di quegli sguardi furtivi, strabici e stralunati perché la gioia, l’amore e l’aldilà erano verità che le sue povere sorelle non sapevano cogliere nella loro vera essenza e di cui, solo lei, conosceva i segreti e le prospettive.
Natale 1959, ovvero addobbi di carta e marubini
Si arrivò così al Natale del 1959 con Mina che fece un bellissimo presepio sul pianoforte, adagiato su un tappeto di muschio morbido e felci appena raccolte nel lato nord del loro orto. Decorò un alberello con palline rosse e nastri di raso, che venne posizionato all’ingresso e fece una strana fila di angeli di carta gialla che aprì una feroce discussione sul suo collocamento più idoneo.
Le signorine avevano anche un grammofono che fu posizionato all’ingresso, lucidato e rimesso in funzione da Gianin. Musica natalizia si diffuse nella casa e coprì la ricorrente lite delle tre sorelle su come fare i marubini da mangiare il giorno di Natale.
Nessuna di loro tre sapeva fare la pasta e la nonna Adelina, che di solito non amava molto le visite al vicinato, in quell’occasione andava aldilà del muro e le aiutava a tirare la sfoglia leggera e senza grumi. Una pasta gustosa e fresca che si accartocciava intorno al ripieno di ogni singolo marubino, fatto con carne di prima qualità, uova, formaggio e spezie.
Ma il vero problema arrivava quando si trattava di cuocerli. A Carolina e Gemma piacevano in brodo e a Mina asciutti. La lite su come cuocere i marubini si ripeteva uguale ogni Vigilia di Natale, ed era coperta dalla musica che usciva un po’ gracchiante dal grammofono e dalla voce della gente che entrava e usciva dal negozio per acquistare la carne da cucinare e per fare gli auguri a quelle tre signorine che a Cremantello erano una vera istituzione. La vita del paese ci avrebbe rimesso senza quel pittoresco trio.
La prova ci fu quando, parecchi anni dopo, morirono tutte e tre. Nessuno se le è mai potute dimenticare e, a Natale, mia madre dice sempre: “Le mie vicine di casa. Mi vengono sempre in mente, non sono mai riuscite a mettersi d’accoro su come cucinare i marubini”.
Ma siamo al 1959, le signorine sono là che litigano per gli addobbi di carta e i marubini e il mondo sorride a loro e a quel Natale che, tutto sommato, sta per consumarsi sereno. Gli angeli gialli sono posizionati sulla porta del negozio e strappano un sorriso a tutti coloro che arrivano. Un bel Natale rosso, azzurro e giallo,dove c’è spazio per la parentela, il vicinato e anche per una complicità che, come quasi sempre, funziona a fasi alterne.
N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.
Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore o sulla sua rubrica Le storie di Costanza.
Altri libri, altri consigli per Natale. Questa volta possono essere racconti per la buonanotte, capaci di rasserenare grandi e piccini, prima di essere avvolti dalle delicate braccia di Morfeo. Un augurio di tranquillità per tutti.
Iniziamo con un albo che ci porta tra gli animali della foresta, in una vivace atmosfera fiabesca, per raccontare come anche un topino che si sente inutile possa rivelare talenti inaspettati. Si tratta de La danza del topino della foresta, della finlandese Pirkko-Liisa Surojegin, Iperborea (2022), un’autrice e illustratrice nota per il tratto fine e preciso con cui ritrae la natura e il folklore del suo paese.
È arrivato l’autunno e gli animali della foresta hanno passato l’intera giornata a raccogliere funghi. Lunghe camminate nel verde che sa di muschio. Il tasso, la lepre, la volpe ne trascinano cesti stracolmi con cui prepareranno una deliziosa zuppa e faranno una grande festa. Sono esausti e sfiniti ma tutti molto felici. Tutti tranne il topino, che, mogio mogio, è di cattivo umore fin dalla mattina (ha davvero la luna storta) e ora, seduto in cima alla montagna di funghi che trasporta l’orso, chiede di scendere a terra e abbandona la comitiva. Non ha voglia di festeggiare né tantomeno di preparare una zuppa, anzi, lui è l’unico così piccolo da non aver raccolto nemmeno un fungo e adesso che è rimasto solo e si guarda intorno nell’immensità della foresta si sente una vera nullità. Finché non nota le foglie che cadono leggere dagli alberi e che il vento fa volare tutt’intorno. La foresta è davvero bella!
Un’atmosfera degna di una fiaba. Una foglia gli passa sopra il musetto e lui prova ad afferrarla senza riuscirci. Allora comincia a saltare e volteggiare in aria inseguendo le foglie e giocando con loro, sempre più agile, leggero, euforico, mentre canticchia spensierato. “Non ho mai visto una danza più bella in vita mia”, dice la lepre quando lo vede, rimanendone incantata. Felice e affamato, il topino raggiunge così la festa, dove tutti gli altri animali si mettono a ballare cercando di imitare la sua danza. Con una storia di delicata semplicità poetica e illustrazioni evocative e divertenti nel ritrarre la vita degli animali, questo libro incoraggia tutti i topini danzerini a credere in loro stessi. Saltellando e sorridendo, tanto. Sempre ed imperterriti.
Continuiamo con Le cose che passano, della bolognese Beatrice Alemagna, Topipittori (2019), un piccolo libro illustrato, raffinato, ironico, delicatissimo dedicato a tutti i lettori, da zero o cento anni. Ci sono poi le pagine trasparenti che introducono il momento successivo a rendere la lettura accattivante. Quasi aprano alla curiosità.
Perché nella vita, sono molte le cose che passano. Si trasformano, se ne vanno. Il sonno finisce. Una piccola ferita guarisce (quasi) senza lasciare traccia… La musica scivola via, con le sue delicate e avvolgenti note che si disperdono nell’aria (proprio come le bolle di sapone sulle quali si soffia con impeto sperando spazzino via il buio e la malinconia), i pensieri neri svaniscono come si asciugano le lacrime (magari modellando un pupazzetto con una morbida argilla o con il Pongo di un tempo), il fumo evapora dalla tazzina di caffè, il cielo schiarisce sempre dopo la pioggia (e torna il sereno con il suo arcobaleno) e la paura se ne va. Le foglie secche cadono così come, a volte, i capelli e i dentini da latte, quelli a cui il topino curioso porta il soldino sotto il bicchiere sul comodino. La polvere torna ma poi, puff, sparisce di nuovo. Tutto passa, trascorre, cambia e magari (ri)torna. Ma in questa continua e spesso sorprendente metamorfosi delle piccole cose, in questo flusso inarrestabile di cambiamenti, c’è una sola cosa che non cambierà mai e che resterà per sempre. Scopritelo!
Finiamo (per ora) con Il meraviglioso Cicciapelliccia, di Beatrice Alemagna, Topipittori (2015), perché, come diceva Pippi Calzelunghe, “è assolutamente necessario, per i bambini piccoli, avere una vita organizzata; specialmente nel caso che se l’organizzino da sé”.
Un albo colorato dal sapore un po’ retrò, avvolto dai toni del rosa, quasi fossimo immersi in una profumata cipria che sa di eleganza. C’è poi il romantico tono francese. Edith, Eddie per gli amici, ha cinque anni e mezzo, ha i capelli lisci e dritti come spaghetti e non sa fare niente (almeno così lei dice). Il padre parla cinque lingue, la madre canta benissimo e la sorella è un astro nascente del pattinaggio. Ma lei non sa fare nulla o almeno così credeva fino a una bella mattina dove sente la sorella dire “compleanno-mamma-ciccia-pelliccia”.
Serve un regalo unico per la mamma, il suo compleanno si avvicina. Un cicciapeloso che troverà forse da Monsieur Jean il panettiere? O una cicciamolliccia da Wendy, la fioraia più carina del quartiere? Forse un cicciapiumino nel negozio dai mille oggetti della gentile Mimì? Ermett l’antiquario dai grandi occhiali fucsia potrebbe avere qualcosa in stile ciccione, un francobollo rarissimo della Marina inglese. No, no, di male in peggio.
Eddie chiede a tutti coloro che incontra per strada, serve un’idea brillante e super originale. Lo scorbutico macellaio Theo non ha certo tempo per un ambarabaccicicciottò (e qui la pagina si apre a libro su una lunga fila di clienti al bancone della macelleria…). Oh no, brrrr, inizia a nevicare, non ci voleva davvero, serve un riparo. E qui Eddie, meraviglia delle meraviglie, sente dei meravigliosi rumorini e scorge su un tetto un adorabile Cicciapelliccia rosa. Il regalo dai mille usi (scopriamo quali). Ci siamo allora, finalmente. Aspettiamo solo di vedere che faccia farà la mamma…
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandriin collaborazione con la libreriaTestaperaria di Ferrara.
Leggera, riconoscibile e alla portata di tutti: la lingua del calcio in Italia è figlia del linguaggio comune, e negli ultimi settant’anni si è avvalsa di espressioni e figure retoriche già in uso, nonché dei più accattivanti forestierismi e neologismi. Che ci piaccia o meno, il racconto giornalistico della “cosa più importante tra le cose meno importanti” si mischia con il lessico quotidiano da almeno tre generazioni, e, seppur con altri mezzi, continuerà a farlo.
Insomma, il linguaggio che utilizziamo quando parliamo di calcio è uno spaccato della nostra identità, ed è per questo che ho riflettuto su alcuni cliché che abbiamo sdoganato e con i quali conviviamo più o meno tacitamente. È stato un po’ come guardarsi allo specchio e domandarsi il perché di un’abitudine che è sempre stata lì, ma alla quale non avevo mai prestato attenzione.
Cominciamo dall’intramontabile fascinazione per le metafore belliche: basti pensare che una partita può diventare unabattaglia, una squadra può essere una corazzata e ci si difende con la cara e vecchia retroguardia. L’epica guerresca ci ha inoltre consegnato espressioni quali “espugnare lo stadio avversario”, “infilare il portiere” o “sentire l’odore del sangue”, mentre per gli scontri al di fuori dello stadio viene spesso utilizzato il termine “guerriglia”.
Un’altra tendenza è quella di utilizzare, o addirittura italianizzare, i già citati forestierismi: dal più stagionato forcing all’attuale surplace, senza dimenticare le espressioni spagnole che nell’ultimo decennio hanno influenzato qualsiasi discussione, sia al bar che nelle interviste post-gara. Di matrice ispanica è anche l’esotico “uruguagio” di Gianni Brera, così come la famigerata garra charrúa di Daniele Adani e i nomignoli sudamericani di Federico Buffa. Infine, ci sono delle parole utilizzate perlopiù nei titoli o nei trafiletti che mi fanno sempre un po’ sorridere: “tegola” in caso di infortunio o problema societario di varia natura, “blitz” in caso di presunte operazioni di calciomercato – anche quest’espressione, tra l’altro, è di origine bellica – e “bum bum” in caso di doppietta.
Probabilmente gran parte di questo linguaggio dipende dalla necessità di spettacolarizzare l’evento calcistico e dall’innata passione per la drammaticità che un po’ ci contraddistingue. Se è efficace o meno, non spetta a me dirlo; ciò che vorrei fare, invece, è pormi delle domande per osservare un’abitudine che diamo per scontata.
Utilizzeremmo quel lessico in altri contesti? Non è un po’ troppo machista? Lascia spazio a un’interpretazione che non sia quella della sopraffazione dell’avversario?
Alla lunga, l’incessante spettacolarizzazione appiattirà la percezione dell’evento sportivo?
Siamo consci che informazione e formazione vanno di pari passo?
Possiamo fare di meglio?
La danza per sua natura porta bellezza ed è sinonimo di grazia e leggerezza. E non solo dal periodo neoclassico. Da sempre.
Se, a duecento anni esatti dalla morte, ripercorriamo parte dell’eredità storica e artistica del più grande scultore di quel periodo, vedremo subito come lo studio del movimento e di quella grazia che una danza armoniosa porta con sé sono un tratto meraviglioso di un’anima sensibile e curiosa. Possagno, Antonio Canova e marmo: il trinomio perfetto.
Basti ricordarela Danzatrice con i cembali(1809-1812), la Danzatrice con le mani sui fianchi (1806-1812) che si innalza sulle punte e si volge e solleva con le mani la lunga veste mentre sembra voler richiamare un compagno per unirsi a lei nella danza, affascinato dalla sua seduzione, per capire come quel marmo, pur dalla sua solidità, diventi anima e dia luce ad una vera bellezza in movimento. Anche la Danzatrice col dito al mento (1809) mostra una figura composta, in atteggiamento di riflessione, impegnata in un movimento intermedio in cui un piede poggia sul collo del piede opposto. Se nella prima lo scultore coglie il ritmo qui si sofferma sull’espressione della danza. Per arrivare al meraviglioso triplice abbraccio delle Tre Grazie (1812 – 1817), tre figure stanti, con le braccia intrecciate che circondano i corpi come in una danza leggera. Ma la lista sarebbe ancora lunga.
Ecco allora che, dopo Roma, Bologna e Trieste, il Teatro Nuovo di Ferrara, sabato 10 dicembre, ha ospitato un’originale e potente creazione ispirata a Canova: la Compagnia RBR Illusionisti della Danza, con la firma dei coreografi Cristina Ledri e Cristiano Fagioli, ha portato in scena un’originale interpretazione delle opere del Maestro di Possagno. Lo spettatore ha potuto assistere ad una vera e propria traslazione: le opere d’arte hanno preso forma e vita nel mondo contemporaneo. Il muro della convenzione viene abbattuto, è necessario saper guardare oltre: anche le sculture, i maestri del passato, l’Arte stessa possono insegnare a prendersi cura del nostro Mondo e solo un teatro intriso di evocative illusioni può essere il luogo di partenza per questa “canoviana” esperienza.
Potente la fusione fra l’energia della danza contemporanea e dei corpi scolpiti e le più moderne tecnologie visive e del light design. La musica e la voce narrante di Michele Vigilante sono anch’esse fonte di grande empatia. Ma è la luce la grande protagonista e complice dei corpi e dei loro movimenti in essa fluttuanti, in uno spazio senza tempo o limiti e dai contorni indefiniti. E come il marmo prende vita dalle mani dell’artista, così le sculture più famose del Canova prendono vita attraverso il corpo di questi splendidi ballerini e la loro forza espressiva. Scorgiamo, tra atmosfere oniriche e surreali, Amore e Psiche, le tre Grazie gioiose e lievi, una bellissima Venere, Perseo trionfante, Teseo mentre lotta contro il minotauro. Ogni gesto è sorprendentemente scultoreo e magico. Emozionante.
Canova svelato – Gli illusionisti della Danza – Regia: Cristiano Fagioli, Coreografie: Cristiano Fagioli e Cristina Ledri, Danzatori: Cristina Ledri, Alessandra Odoardi, Francesca Benedetti, Michela Moretti, Daniele Bracciale, Riccardo Tosi, Musiche originali: Diego Todesco, Direttore creativo: Gianluca Magnoni, Costumi: Raffaele Diligente per Diverso, Produzione: RBR Dance Company. Spettacolo prodotto in collaborazione con il Museo Gypsotheca Antonio Canova di Possagno
Dopo un’intensa esperienza di formazione e di perfezionamento a New York e Parigi, Cristiano Fagioli e Cristina Ledri, anima e cuore della Compagnia, fondano nel 1999 la RBR Dance Company illusionistheatre, dal nome delle linee metropolitane di New York che conducevano da Brooklyn, dove i due risiedevano, a Manhattan. Una Compagnia quindi che è anche omaggio ai grandi maestri e luoghi, della danza contemporanea.
Da allora non si sono mai fermati producendo spettacoli innovativi di danza contemporanea utilizzando diversi linguaggi. Con lo spettacolo Bicycle 2000/2001, la compagnia si fa conoscere al grande pubblico e alla critica. Tra il 2002 e il 2004, al palcoscenico la Compagnia alterna le presenze artistiche in televisione, soprattutto per alcuni programmi RAI. Seguono anni di intenso lavoro e numerose produzioni in Italia e all’estero: Abyss, Open Space (con il tour in Messico), Blue Two in co-produzione con il Teatro Bellini di Catania, Statuaria, Show System e Pericle Principe di Tiro rappresentato in prima nazionale al Teatro Romano di Verona, 4 (Aria, Acqua, Fuoco e Terra) in prima regionale al Teatro Petruzzelli di Bari, la Natura e l’Amore con i Virtuosi Italiani, Varietas Delectat rappresentato al Teatro dell’Hermitage di San Pietroburgo, Mosaico creato per il prestigioso Premio Michelangelo, Giulietta e Romeo, l’amore continua… e Il Circo di Zeus” spettacolo commissionato da Arteven Circuito Teatrale Regionale.
Il 2015 è l’anno di due grandi produzioni, Indaco e gli illusionisti della Danza, racconto danzato sull’ambiente come anima del mondo per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul tema del rispetto ambientale e The Man in co-produzione con la Camerata Musicale Barese. Nel 2021 debuttano con Boomerang gli illusionisti della Danza, dove danza e sensibilità a tematiche ambientali si fondono in una magica illusione scenica, una ricerca artistica già iniziata con lo spettacolo Indaco, molto amato dal pubblico, qui ampliata e intensificata. La Compagnia ha ricevuto premi e riconoscimenti come: il Premio Hesperia, il Premio Internazionale Re Manfredi, il Riconoscimento Premio Michelangelo. Nel 2021 viene riconosciuta dal Ministero della Cultura come Organismo di Produzione della Danza.
Non mi nasconderò sotto un nome, ma anch’io, al momento di dire la maledetta parola “cancro”, ho svicolato. Ecco allora “sarcoma”, che vela la crudezza di un nome fino a poco tempo fa non dicibile e che ora s’avvia a prendere il suo posto tra i tanti mali che ci affliggono senza remore di sorta, anche nel pronunciarlo. E la risposta – tanta dei lettori – mi ha confortato.
Baldanzosetto, m’avvio alla sala radiazioni, accolto dall’affettuosissimo “ciao Gianni” di tutto il reparto, mentre mi giunge una mail di plauso dal ‘capo’ che m’aspetta la settimana prossima.
A rendere più eccitante questo momento ecco mi si annunciano libri importanti: dalla nuova edizione della Antologia di Spoon River (La nave di Teseo, 2022) a I presocratici di Sergio Givone (Il Mulino, 2022).
Di entrambi e di altri darò opportuno rilievo nelle settimane a venire, ma non posso dimenticare come il libro di Edgar Lee Masters sia stato tra le pietre miliari della mia attività di critico entro lo studio ‘ matto e disperatissimo’ di Pavese.
Una nota d’amarezza però disturba questo momento: la risposta di Michela Murgia intervistata a Di martedì da Giovanni Floris. In un mio articolo ero partito proprio da lei per commentare la parola impropria di Saviano – “bastardi” – sull’operato di Salvini e Meloni e mi ero schierato con la Murgia sul ruolo degli scrittori/intellettuali in rapporto alla politica.
Ma ora che ho recuperato il pezzo televisivo della trasmissione di Floris, che non avevo visto in diretta, sono decisamente contrario alle affermazioni della scrittrice sarda. Così afferma Michela Murgia a Di Martedì: “Due entità perseguitano Saviano in questo momento: una è la camorra e l’altra è la presidente del Consiglio”. “Questo parallelo le verrà rinfacciato”, commenta Floris. Ed ha ragione da vendere.
Per anni abbiamo criticato certi atteggiamenti. Ora non si può né è lecito né è giusto avventurarsi in giudizi sbagliati e non coerenti. Peccato! Ma è caratteristica anche degli intellettuali riuscire a sbagliare per avventatezza o per prese di posizione.
Altrettanto contrario ad un’affermazione di Vittorio Sgarbi, che pretende un sovrintendente italiano alla guida della Scala. Così commenta il noto critico a proposito del sovrintendente Dominique Meyer della Scala:
“Sarà opportuno quindi – ha detto il sottosegretario – ripensare al rapporto tra il teatro, la creatività e il popolo, e anche valutare l’indicazione di un nuovo sovrintendente. Attenzione: nulla contro gli stranieri. Ma per quel che riguarda due simboli assoluti dell’Italia davanti al mondo, due valori nazionali, gli Uffizi, dove pure ha operato un ottimo direttore tedesco, e la Scala, non s’intende perché non si possa, anzi non si debba, indicare un italiano”.
Mi dispiace dover contraddire Sgarbi, ma questa affermazione mi sembra in totale contrasto con quanto ha sempre sostenuto e diffuso: il carattere internazionale della cultura che non ha bisogno di essere italiana o straniera.
Ier sera quindi con legittima curiosità mi appresto alla visione televisiva dell’opera alla Scala. La conoscevo nella versione Abbado, ma non è stata mai tra le mie preferite. Sono rimasto folgorato! Non solo per l’attualità dell’argomento e per il suo indubitabile rapporto con la situazione storica attuale dilaniata tra potere e ingiustizia.
E mi meraviglia l’opposizione di una parte, seppur non rilevante, degli ucraini, ma forse si può spiegare col fatto che non credo che l’attuale zar renderà accessibile ai russi le ragioni di questa scelta. Anche lui novello Boris farà di tutto per nascondere la verità.
Concludo con un accorato appello cioè di quanto sia o potrebbe essere pericolosa la rimozione della sublime arte russa che è fondamentale non solo per l’Europa ma per tutto il mondo. Chi potrebbe dirsi colto se non ha letto Tolstoj o Dostoevskij?
Perché la vera arte è semplicemente verità.
Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubricaDiario in pubblicoclicca[Qui]
Cover: Teatro alla Scala di Milano (su licenza Wikimedia Commons)
Un film documentario dedicato al fotografo Luigi Ghirri viene presentato a Ferrara. Vedo la locandina al cinema Apollo, passando in bicicletta da piazzetta Carbone, tra le viuzze del centro storico. Ovviamente per me è una grande notizia. Amo la fotografia di Ghirri che ho scoperto come una folgorazione, uno strumento per sdoganare un modo diverso di guardare il paesaggio che ci circonda, per apprezzare cose piccole, dei particolari che fino a ieri sarebbero sembrati non fotografabili o di poco conto. Invece quelle immagini rivelano un occhio attento a situazioni emblematiche che – senza di lui – si tendeva a catalogare tra quelle irrilevanti. Senza le sue foto sarebbe stato difficile affermare la poesia dei nostri paesaggi piatti, delle nostre spiagge adriatiche di fine stagione, con le loro vecchie giostrine come uniche protagoniste del paesaggio un po’ sbiadito, o la forza lirica delle colonne di una cancellata aperta quasi sul nulla, davanti a un viottolo di campagna velato di nebbia. E poi quegli scorci di mondo aperto, affacciato su cieli, piazze o scale dove campeggiano solitari bambini o bambine. Nella bacheca esposta davanti al cinema annunciano anche la presenza degli autori in sala. Vado!
Lido di Spina
Il famoso portale
Polignano
È martedì sera, il tema riguarda un fotografo che credo di nicchia e mi sorprende trovare l’atrio d’ingresso stracolmo di gente. Penso che ci sarà qualche altro film hollywoodiano nella stessa serata. Noto diversi amici tra il pubblico in attesa, i soci di un circolo, ma anche tanti volti che ho visto in cerimonie istituzionali o presenti a eventi più mondani. Un’amica mi dice: muoviti a fare il biglietto, se non ce l’hai, io l’ho prenotato tre settimane fa. Fortunatamente alla cassa ci sono ancora disponibilità, per il semplice motivo che il grande afflusso ha convinto gli organizzatori dell’Apollo cinepark a predisporre una seconda sala dove proiettare lo stesso film, con una differita di venti minuti.
Un ragazzo, che ha l’aria di essere uno studente universitario, commenta: “Ma cosa ci fa qui tutta questa gente? Forse anziché Ghirri hanno pensato che stasera ci fosse Ghirr, Riciard Ghirr”. Rido tra me e me, confortata dalla constatazione che qualcun altro condivide il mio stupore.
Ho letto che questo documentario esce a trent’anni dalla scomparsa di Luigi Ghirri per la regia di Matteo Parisini con la voce narrante di Stefano Accorsi ed è un omaggio al grande fotografo emiliano che sta facendo tappa in moltissime città italiane, da nord a sud. È stato già presentato alla Festa del Cinema di Roma 2022, poi ovviamente a Reggio Emilia, dove Ghirri è nato (1943-1992), ma anche a Fano, Polignano, Prato, Carpi, a Milano in occasione del Design Film Festival, a Santarcangelo di Romagna e a Cesena.
In sala la proiezione è preceduta da una breve chiacchierata con la figlia minore, Agnese Ghirri, che sottolinea: “Il regista ha avuto l’idea di fare il film a partire dai testi. Ed è proprio dalle sue parole, da quello che ha scritto durante tutto il suo percorso che si può intuire la profondità del suo pensiero e della sua ricerca artistica. Per questo noi, come eredi, abbiamo fatto ripubblicare tutti i suoi scritti l’anno scorso con il titolo ‘Niente di antico sotto il sole’ per Quodlibet. Le foto parlano già molto bene da sole, ma spesso sono viste come immagini semplici, ingenue. Invece traducono con un linguaggio semplice una complessità del reale e una profondità di pensiero basate su ricerca, letture e uno studio continuo fatto soprattutto da autodidatta”.
Il documentario affianca alle parole del fotografo le testimonianze delle figure fondamentali che lo hanno accompagnato nel suo percorso.
Lo stampatore Arrigo Ghi ad esempio racconta: “Quando mi sono trovato per la prima volta le sue immagini tra le mani, mi sono chiesto: ma che razza di foto fa questo qua? Veniva a seguito di Franco Fontana e Francesco Vaccaro, che facevano foto pittoriche, belle, che ti colpiscono subito. Ho chiesto a mia moglie cosa ne pensasse e lei mi ha detto che non sapeva perché, ma queste foto le toccavano il cuore. E mi sono reso conto che anche a me facevano questo effetto”.
La sorella della compagna di vita e di lavoro Paola Borgonzoni, che aveva 19 anni quando conobbe Ghirri 31enne, racconta che lei si era innamorata di lui non per il suo aspetto tutto sommato dimesso, con le giacche indossate senza attenzione, ma per il suo sguardo, per la curiosità infantile che aveva dentro e in cui anche lei si ritrovava.
Il fotografo pugliese Gianni Leone sottolinea: “Ghirri è riuscito a produrre una cultura nuova del vedere, ha cambiato il modo in cui si poteva guardare e rappresentare non solo l’Emilia-Romagna, ma tutto il nostro Paese”.
Per lo storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle “Ghirri dà un’iconografia a un mondo che un’iconografia non aveva. Noi vediamo quello che conosciamo. L’immaginario è determinato dal tempo e anche dalla storia”.
Il musicista, compositore e cantautore Massimo Zamboni ricorda l’incontro nel casolare dove i Cccp suonavano e dove Ghirri era andato a trovarli. “Guardando le cose che guardava lui – racconta – non capivamo cosa vedesse. Osservava, non spostava mai le cose. Al massimo faceva accostare o aprire le finestre. Vedendo le foto che ha fatto, poi, abbiamo capito la sua visione. E, come accade quando esci da una mostra o dopo che hai visto il film di un autore come Herzog, ti trovi in strada a guardare il mondo con il suo punto di vista”.
Copertina disco Cccp
Piero della Francesca
Il pittore Davide Benati fa notare che “Ghirri cercava la luce, una luce pittorica, che rende una scena apparentemente banale simile a un’opera di Vermeer o di Piero della Francesca”.
Casa Benati per Ghirri
Lattaia di Vermeer
Donna che scrive di Vermeer
La figlia Ilaria Ghirri conclude: “Diceva che lo pagavano per fare ciò che più amava, cioè guardare il mondo. C’è stato un periodo che ogni giorno usciva dicendo che andava a fotografare il cielo. Per lui, il cielo era qualcosa di non trascrivibile, che non è mai uguale. Diceva che non c’è nulla di vecchio sotto il sole. Le sfumature di blu e di azzurro sono sempre diverse. Tutti i giorni è infinito”.
Come le 365 fotografie di cieli diurni, scattate una per ogni giorno dell’anno. Come il titolo del docu-film “Infinito: l’Universo di Luigi Ghirri”. E come l’unicità, la singolarità, la differenza infinita che ci sono in ogni veduta.
La malinconia
Soffia muta
E forte
Che non torneranno
Più
Non
Torneranno
Le foglie rosseggianti
Il rorido acero
Che ancora brilla
Come ventimila lumache
In scia
Che no
Non torneranno
Le viti americane
Più rosse
Del sangue di una madre
Che quel giallo
Del gelso
Strattona la gelosia
Che sento
Per la sua fantasia
Monocolore
Non tornerà
Neppure il limone
Del dolcissimo acacio
Francobolli del vento
Quel beige
Delle querciole
Tra le dune
I funghi
E un paletot
Fuori moda
Non torneranno
Dice la malinconia
Il vestito più
Delicato
Del cuore
Il suo romanzo
Verso la fine
Occhi di civetta
La ragione
In prosa
Aggiunge
Che tra un anno
Tornerà
Tutto tornerà
E sarà
Rosa
Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio. Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]
«Da più di duemila anni Signore
I tuoi passi sanguinano incessantemente
Ai margini dei nostri cuori»
(Pierre Emmanuel, Evangeliaire, ed. Du Seuil, Paris 161, 158).
Una corona di rami di sempreverdi, il pino e l’agrifoglio, indicano l’immortalità; la forza vitale e la cura il cedro; l’alloro la vittoria su ingiustizie e crudeltà; le loro foglie appuntite ci ricordano la corona di spine del Cristo.
Una corona che è come il nostro mondo: luogo di itineranza dolente e sperante. Su di essa, come punti cardinali, quattro ceri e quattro luci che via via vanno accendendosi, rischiarando il cammino di avvento, le sue vie.
La prima luce, della profezia, invita alla vigilanza, perché Dio vigila sulla sua parola per portarla a compimento. La seconda luce induce la parola a germogliare fuori dal silenzio, come un pollone di radice, virgulto in terra arida.
La terza è quella della gioia, perché il germoglio sta per fiorire: «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca. Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti. Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa» (Is 35,10).
Questa terza luce ha l’intensità dell’Aurora al suo sorgere, perché è messaggera delle parole indirizzate da Gesù a Giovanni, prigioniero nella fortezza di Erode, desideroso di conoscere se fosse lui l’atteso dalle genti: «Dite a Giovanni quel che avete visto: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!» (Lc 7,22-23).
La quarta luce è quella di una donna, del sogno di Dio nel sogno di Giuseppe, e nei nostri sogni, cui intende dare compimento: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa “Dio con noi”. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva detto l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 123).
Le vie dell’Avvento come le Antiche vie
Il pensiero va subito alla storia di Tobia e al suo avventuroso viaggio da Ninive ad Ecbatana, nelle terre dell’Iran, accompagnato in incognito da Raffele, l’angelo il cui nome significa ‘Yhwh si prende a cuore e guarisce il cuore’. Il padre Tobia, rivolgendosi al figlio che parte e non sa ancora che incontrerà Sara la sua promessa, raccomanda: «In ogni circostanza benedici il Signore Dio e domanda che ti sia guida nelle tue vie e che i tuoi sentieri e i tuoi desideri giungano a buon fine» (Tb 4,19)
Le vie dell’Avvento sono le più svariate e molteplici, visibili invisibili, dritte o tortuose, si arrampicano sulle alture, attraversano altipiani, foreste, solcano i mari e i deserti; vie d’acqua e di boschi, infuocate o gelide, fangose o soleggiate, slavate o verdeggianti; infinite vie, cammini d’uomo e di donna come arterie, vene e capillari del corpo della terra in cui circola il sangue della vita, quella incontrata sulle strade del passato, come su quelle inesplorate nel futuro.
Vie non solo del nomadismo dei patriarchi, ma anche le invisibili orme tracciate sulla sabbia, il vagare di passi e passi per 40 anni nel deserto di dodici tribù per diventare un popolo, e giungere infine alla terra promessa.
Vie pure misteriose escono alla luce inaspettate, e anche quelle più oscure e impraticabili, sconosciute, si illuminano nella Galilea delle genti per tutti i popoli: «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta… I calzari dei soldati invasori e tutte le loro vesti insanguinate saranno distrutte dal fuoco. È nato un bambino per noi! Ci è stato dato un figlio! Gli è stato messo sulle spalle il segno del potere regale. Sarà chiamato: “Consigliere sapiente, Dio forte, Padre per sempre, Principe della pace”» (Is 9,1).
Così le vie dell’avvento assomigliano a quelle “antiche vie” descritte da Robert Macfarlane, alpinista e critico letterario, che narrò la sua itineranza fattasi, passo dopo passo, sempre più interiore nell’intento di connettere “storie e tradizioni”.
Continuando “il patto tra scrittura e cammino” egli ha trasformato per i lettori le strade e i sentieri in storie, i paesaggi in un viaggio nella memoria che ha trovato nella scrittura e nella letteratura un’antica via in cui altri possono inoltrarsi: «Se solo ci facciamo attenzione, vediamo che il paesaggio è ancora fittamente solcato di piste e sentieri, che seguono come un’ombra il moderno reticolo stradale, intersecandolo obliquamente o ad angolo retto: vie di pellegrinaggio, strade verdi, tratturi, fossi, vie dei morti, sentieri lastricati, redole, andane, camminamenti, viottoli, vie cave, ippovie, mulattiere, carreggiabili, strade rialzate, strade militari.
Molte regioni hanno ancora le loro antiche vie, che collegano luogo a luogo, che salgono ai valichi o aggirano i monti, che portano alla chiesa o alla cappella, al fiume o al mare…I sentieri e i loro segni mi attirano da sempre: catturano il mio sguardo e lo tengono avvinto. L’occhio è sedotto da un sentiero, e così pure la fantasia. Non si può fare a meno di proseguire con l’immaginazione una linea tracciata sul terreno: mentalmente, andiamo avanti nello spazio ma torniamo anche indietro nel tempo, ripercorrendo la storia di un itinerario e di chi prima di noi lo percorse.
Interrogarmi sulle loro origini, sui motivi che ne determinarono la creazione, sui viaggi ordinari di cui mostrano i segni, sulle avventure, gli incontri e le partenze di cui custodiscono il segreto» (Le antiche vie. Un elogio del camminare, Einaudi, Torino, 2013, 15; 17-18).
I sentieri dell’avvento sono come «le consuetudini di un paesaggio anche spirituale. Sono atti di creazione consensuale». Essi vanno percorsi e vissuti insieme attraverso l’esercizio di una comune responsabilità: «I sentieri sono consensuali anche perché senza manutenzione collettiva e collettivo impiego spariscono: sommersi dalla vegetazione, oppure arati e coltivati o magari edificati» (ivi, 19).
Percorrendoli i sentieri dell’Avvento alla fine sveleranno il segreto che custodiscono: la tua luce interiore: «Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, Cammineranno i popoli alla tua luce» (Is 60, 1;3).
Le quattro vie dell’Evangelo
Derisivo e sonante vuoto
Mentre il cielo se ne va
E un tempestoso nulla
Solo testimone di questo abbandono
Eppure mi alzerò
La mia fame sarà la mia bussola Passo dopo passo scriverò Il mio cammino verso la Parola
In questo cammino di verità Dio lascia la sua impronta
Piacque a lui aggiungere ad essa
La bellezza come grazia
(Pierre Emmanuel, Visage nuage, ed. du Seuil, Paris 1955, 34-35)
La bellezza è la grazia nascosta in ogni erranza, dentro l’impronta di ogni sentiero, anche il più tortuoso. Essa rialza e muove il passo, anche quando si è avvolti dal tempestoso nulla. La fame della parola, come stella polare, apre il cammino ad ogni scrittura, come passi una parola dopo l’altra: tanti cammini in un cammino solo verso l’unica Parola. Tetramorfo, quadriforme è la buona novella del regno dei cieli.
Così sarebbe bello sagomare le quattro candele della corona dell’avvento nelle forme simboliche con cui, nell’Apocalisse, sono rappresenti le quattro facce di quell’unica Parola: un leone, un bue, un uomo alato, un’aquila. I loro cammini, così diversi eppure consonanti, sono le vie antiche e sempre nuove che percorre inarrestabile l’unico Evangelo di Gesù, l’Errante.
Mosso dallo Spirito, Gesù ha una singolare predilezione per il cammino, passione ereditata da tutta le Scritture bibliche. Paradigmatica suona così la professione di fede che Mosè consegna al popolo di Israele, secondo il libro del Deuteronomio (26,5): «Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele».
L’archetipo dell’itineranza rivela il bisogno di uscire da sé, di centramento della persona sull’altro; come fu del popolo di Israele nel deserto sul suo Dio, e di Gesù in preghiera sul monte nel Padre suo, e dei discepoli nelle parole e nelle vie del Maestro. Ci si affida all’altro, alle sue mani, confidando in lui.
Gesù non era solo un itinerante, ma la struttura della sua prassi di vita e di parola hanno una logica che genera messaggi e azioni generativi di relazioni, che cambia i destini delle persone perché riapre alla fiducia nell’altro. La sua itineranza feconda la sterilità dei rapporti: in una parola è salvifica.
Nella lettura allegorica dell’Apocalisse proposta da Ireneo di Lione nel II secolo, i quattro esseri viventi posti intorno al trono di Dio diventano simboli dei quattro vangeli. L’apostolo Giovanni infatti nella sua visione aveva visto quattro esseri viventi: «il primo vivente era simile a un leone; il secondo essere vivente aveva l’aspetto di un vitello; il terzo vivente aveva l’aspetto di un uomo con ali da angelo; il quarto vivente era simile a un’aquila che vola» (4,7).
Così il simbolismo quaternario che già era riferito ai quattro punti cardinali, o ai quattro venti, finiva per rappresentare anche i messaggeri della provvidenza divina nelle avversità: la nobiltà il leone, la forza il bue, la sapienza l’uomo e l’agilità l’aquila.
Il leone è assegnato a Marco, perché il suo scritto – come sottolineò Girolamo – si apre con il deserto selvaggio ove lo stesso Gesù, dopo il Battista, è presente “in compagnia delle fiere” (1,13). Il vitello o toro rappresenta Luca, il cui Vangelo inizia nel tempio di Gerusalemme con i sacrifici. L’uomo alato designa il vangelo di Matteo la cui opera comincia con la genealogia terrena di Cristo, a partire da Abramo e Davide fino a Giuseppe e Maria, quale concretizzazione storica del Dio fattosi Uomo. Infine, Giovanni è rappresentato l’aquila, che scruta le profondità del mistero del Verbo incarnato, che vede oltre, contempla come aquila i sentieri dell’invisibile Spirito.
La via del leone, quella del bue, dell’uomo alato e dell’aquila non sono state scritte una volta per sempre. Nascondono ancora significati e paesaggi segreti. Esse, dunque, sono da percorre e da scrivere di nuovo e di continuo. Il che accade ogni qual volta passiamo dalla semplice lettura del vangelo alla sua meditazione: dal vangelo letto al vangelo pregato, contemplato ed infine agito nei nostri sentieri e nelle pratiche di ogni giorno.
«La poesia è una via al vangelo»: così insegnava il vescovo latinoamericano Pedro Casaldaliga (1928-2020), vescovo di Sào Felix do Araguaia, pastore e profeta nel Brasile del latifondo, tra i primi a denunciare le violenze arrecate alle terre delle popolazioni indigene.
Papa Francesco ha riportato una sua poesia nella lettera post-sinodale Querida Amazonia (n. 73) che ho ricordato già in un precedente mattutino. Così mi sono incamminato di nuovo nel fuoco, nella cenere e nel vento delle sue poesie che mettono in cammino l’acqua e la terra e i passi di ognuno, che anche senza saperlo procede «giorno dopo giorno,/ sopra la stessa palma della tua Mano».
Gli uomini che volano alto
hanno gran potere di sintesi,
dalle nubi distanti. Ma chi cammina a piedi analizza ogni passo e sintetizza nei suoi occhi questa pietra, quel fiore, gli occhi di ogni fratello.
Quando cammini
chiedi.
Rispondi
quando cammini,
se, camminando, ascolti. Tu sei la parola udita quando vivi camminando con tutti quelli che camminano.
…
E giungerò, di notte,
con la piacevole paura
di vedere,
infine,
che camminai,
giorno dopo giorno,
sopra la stessa palma della tua Mano.
(Fuoco e cenere al vento, Cittadella, Assisi 1985, 53-54; 88).
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]
Il meteo mette pioggia per tutta la domenica. Un watsapp di Miria mi salva: “C’è un open day del gusto al Museo di civiltà contadina di Bentivoglio.”
Arrivo senza prendere neppure una goccia d’acqua. Anzi sopra di me avanza sempre più il sereno.
Giro nei padiglioni tra i prodotti dei contadini e proposte di assaggi. Mi fermo in uno stand di un fornaio tentato da una tipica schiacciata bolognese.
Sembra molto soffice. E’ come piace a me, alta e morbida.
Qualcosa mi spinge più avanti verso un bancone tra i meno appariscenti. Dietro, gesticola simpaticamente con un cliente il titolare
“Guardi”, dice al cliente con voce gentile, “le lascio il mio bigliettino da visita. Prima di partire mi chiami, almeno cosi non viene per niente.
Ci sono due numeri di cellulare, il mio è quello sotto, l’altro da maggio non funziona più. È quello di mia moglie. È morta a maggio…”
Si fermano lì le sue parole, si volta, vede che ci sono anche io. “Mi sembra impossibile solo pochi mesi fa eravamo qui, lei di fronte a me …”
Poi ancora rivolto al cliente” …mi chiami e vedo se riesco ad accontentarla…”
“E per lei invece cosa posso fare? Qui ho una torta di mele con farina di castagne… Se compra una fetta le do pure la ricetta, cosi può rifarsela a casa quando vuole!
Questa è invece polenta con farina di castagne… non spetterebbe a me dirlo. ma è una cannonata. È affumicata. Accompagnata dai formaggi è la sua morte!
Ma qui la ricetta non gliela do. Ci metterei a spiegarla più di mezz’ora e poi a casa non riuscirebbe a farla…è complicata Troppo.
“Va bene “, dico io,”..due fette di entrambe signor…?” ” Carlo. Ma mi chiamano tutti Rose Rosse…. Da quando 53 anni fa partecipai con la canzone ROSE ROSSE ad una corrida canora tra esordienti. Ricordo ancora tutto… Vuole sentire queste? Queste non le trova a casa sua. Sono pere volpine annegate nel mio pinot, aggiungo cannella e chiodi di garofano poi tutto sul fuoco lento…”
“Si…va bene, aggiunga le pere volpine!”
“Sentirà… poi per due euro, soldi spesi bene. Ma faccia attenzione a tenerle diritte, se no esce tutto.
“Ok…e quanto costa la farina di castagne? “
” Eh ..beh…con la farina di castagne ma fa quello che vuole!
Le tagliatelle coi funghi champignon, e il cioccolato con la farina di castagne poi! E i cantucci!…mia moglie aggiungeva il …ma come si chiama…come si chiama…accidenti…
Lei era capace di fare tantissime cose…. La solitudine è una brutta bestia sa. Sono solo nella nostra casa adesso. Mi sembra impossibile. Aveva una ernia, si è strozzata…. Era un po’ robusta mia moglie. Siamo sempre stati insieme, è stato tutto molto veloce, molto veloce”
Gli occhi che fino ad ora avevano corso in qua e là a spiegarmi tutte le qualità dei suoi prodotti non guardano più nulla come volessero vedere lontano. Via. Lassù.
“Avete figli?”
“Si tre e dieci nipoti. Ma non conta, è un’altra cosa, è dentro… manca sempre dentro. È come se volessi appoggiarmi e non trovo nulla, e allora ti senti cadere e non finisce mai…
Adesso le do anche un po di questa roba qui, queste che sembrano ciliegie sono mele, provi a sentirle! Questo invece è corbezzolo ma mi raccomando non lo mangi di sera se no non dorme più.
Questa è corniola e queste azzeruole”.
“Bene, ho preso il mondo! Grazie Rose Rosse! Allora la vengo a trovare a Bologna al mercato …dove ha detto?”
“Certo, al giovedì alla tettoia Lucio Dalla, ma non tutti i giovedì. Prima mi chiami; qui c’è il numero, quello sopra è il mio non l’ho tolto l’altro è quello di mia moglie.
Mi raccomando prima mi telefoni così non viene per niente…”
Non è la canzone di Al Bano e Romina Power e nemmeno la “cara e celeste nostalgia” di Riccardo Cocciante. Anche se di amore sempre si parla. E pure se il titolo ricorda il celebre film di Andrej Tarkovskij del 1983, siamo in tutt’altro mondo e tutt’altra storia.
Certo è che la nostalgia di un tempo che fu, che, nei tempi, era diventata rimembranza per Giacomo Leopardi, spleen per Charles Baudelaire e nostalgia del futuro per Robert Musil, è spesso al centro dell’arte cinematografica, fin dal pluripremiato Nuovo Cinema Paradiso.
Il presente manca, è assente, deformato dai ricordi di un passato magari non sempre roseo ma fatto di forti legami e tanta gioventù. Nostalgia, di Mario Martone, ha tutti questi ingredienti ed è favoloso, per quanto spiazzante.
Adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo del 2016 di Ermanno Rea e con protagonista uno strepitoso Pierfrancesco Favino, il film è stato presentato in concorso al Festival di Cannes 2022, ha vinto 4 Nastri d’argento, il 26 settembre scorso, è stato selezionato per rappresentare l’Italia ai Premi Oscar 2023 nella sezione del miglior film internazionale ed è stato designato Film Europeo dell’anno al 27° Capri, Hollywood the International Film Festival, lo scorso 13 novembre.
Tutto ambientato nel Rione Sanità, un mondo sconcertante ma anche affascinante, come lo era stato recentemente ne Il bambino nascosto di Roberto Andò. È qui che il protagonista, Felice (Pierfrancesco Favino), torna, per riabbracciare la madre anziana, Teresa (Aurora Quattrocchi), dopo quarant’anni di assenza e lontananza, partito per sfuggire a un destino che poteva essere molto diverso.
Con l’allora inseparabile compagno di bravate, il quasi fratello Oreste Spasiano (un meraviglioso Tommaso Ragno, che recentemente abbiamo visto in Rapiniamo il Duce, Siccità, Il Cattivo poeta, per citarne alcuni) aveva commesso qualche piccolo crimine. Fino alla tragedia che lo aveva fatto fuggire all’estero, prima Libano e Sudafrica e poi Il Cairo dove vive, da ricco imprenditore felicemente sposato.
Chi parte e chi resta, chi cambia il proprio cammino per tentare di emergere da fango e pozzanghere che paiono non asciugarsi mai. Ma Felice non ha dimenticato il vecchio amico, colui che oggi tutto il quartiere teme, il terribile boss ‘O Malommo, che ricorda un po’ il colonnello Kurtz di Apocalypse Now. Lo vuole incontrare. Il faccia a faccia tra i due, in napoletano stretto, sarà magistrale. Lo spettatore resta però combattuto, un po’ smarrito: il momento è estremamente ricco di pathos e porta con sè sentimenti contrastanti.
Tutto è nostalgia: per la terra che si è dovuta lasciare, per quel sentirsi sempre un po’ straniero, per una lingua italiana biascicata che si mescola a una forte cadenza straniera, per la gioventù perduta, per quel che è stato e quel che poteva essere, per una Napoli intensa protagonista, per una madre che se ne è volata via, per una bellezza che se ne è andata, per un’amicizia che si è come sciolta al sole. Legami che furono.
Fare pace con il proprio passato non sarà facile, in un presente fatto di complesse ragnatele dove poco è cambiato ma dove qualcuno, come don Luigi Rega (Francesco Di Leva), cerca ostinatamente di modificare le carte in tavola e i giochi, di trasformare la disperazione in speranza. Una città che resiste a molte trasformazioni, quasi immobile, se non fosse per chi si divincola e danza al ritmo di musiche dal sapore orientale.
E se perdersi vuol dire trovarsi, in una città dove la casa e la strada sono spesso una cosa sola, quando si decide di rimanere si è deciso. Costi quel che costi.
Nostalgia, di Mario Martone, con Pierfrancesco Favino, Tommaso Ragno, Francesco Di Leva, Aurora Quattrocchi, Nello Mascia, Sofia Essaidi, Emanuele Palumbo, Salvatore Striano, Virginia Apicella, Italia, Francia, 2022, 117 mn.
La conoscenza è nella Nostalgia. Chi non si è perso, non ne possiede. Pier Paolo Pasolini
“Terrò per l’anima, come altri per il corpo, un’aggiornata cartella clinica.“
(Gesualdo Bufalino)
(Di seguito, alcuni testi poetici tratti dalla raccolta La memoria del dolore, Edizioni
Progetto Cultura, 2022, nella collana Le Gemme, a cura di Cinzia Marulli e alcune poesie inedite)
io maledico l’anno il mese il giorno
il suono della sveglia che ha spezzato
un tempo onirico ignaro del tormento
sia maledetta l’ora e anche il minuto
il flettersi del corpo di parola
l’innesto approssimato degli sguardi
lo scudo abbandonato senza fuga
e poi stramaledico quell’istante
il subitaneo crollo delle mura
la luce inabissata nei tuoi occhi
il taglio vivo dei punti di sutura
***
dammi la bocca
rimetto a posto tutte le parole
che non mi hai detto ancora
le mastichiamo insieme lentamente
nel buio caldo di un istante inesplorato
lo senti il nero liquefarsi dei fonemi?
e quanto è acerba ogni sillaba sconnessa?
il rosso strazio dei grafemi eviscerati
te lo passo con la punta della lingua
deglutisco in fondo agli occhi i tuoi silenzi
ogni singola omissione e reticenza
a te lascio il retrogusto dolceamaro
del trisillabo di cui non hai coscienza
***
non conosco la parola che stenografi il dolore
che coaguli in grafemi l’infezione dei pensieri
forse è nota di chiusura di volumi fuori stampa
un lessema desueto in idiomi che non parlo
resta vuota la casella, confessione non siglata
un silenzio raggrumato che ristagna tra le ossa
***
quanto pesano i riflessi della luce
sulla guerra che non abbiamo vinto?
vigiliamo disarmati le macerie
nel rifugio fatto campo di battaglia
nominandoci recisi e mutilati
deponiamo le vestigia del rancore
sulle nostre dita nude tutto il peso
dell’enigma che rimane indecifrato
cosa resta dei riflessi della luce
se la notte cala prima del tramonto?
siamo pallidi fantasmi in dissolvenza
il ricordo il solo limbo da abitare
(inedito)
***
non sarà una coordinata di distanza
questo farmi trasparenza quotidiana
la misura dell’amore che ti porto
sfugge al computo fallace dei mortali
decifrando l’alfabeto dell’assenza
saprai leggermi oltre il velo della carne
sarò polvere sospesa nella luce
l’ombra stanca che si allunga a mezzanotte
nuda pioggia che ti versa il cielo in faccia
la parola sulla punta della lingua
riconosci il mio vegliarti in filigrana
cingi il vuoto per non farti lontananza
accompagnami nel tempo senza spazio
lungo i sogni abbandonati sul cuscino
sappi amare questo essere imperfetto
stella spenta che non sa dove orbitare
(inedito)
***
e non dimenticare d’aver cura
di tutto ciò che accade con lentezza
della crisalide, del seme
del darsi vinti al sonno da bambini
del fuoco basso
del punto fine
della lievitazione naturale
datti il tempo
dei moti millenari:
fatti muta collisione d’orogenesi
deriva paziente di continenti
solenne processione di equinozi
recessione indomita di galassie
(inedito)
Maria Laura Valente (Campobasso, 1976), docente e poetessa, ha pubblicato tre raccolte poetiche (Giochi d’Aria, Rupe Mutevole Edizioni, 2010; Lustralia, LunaNera Edizioni, 2016; La memoria del dolore, Edizioni Progetto Cultura, 2022) e due sillogi di poesia haiku (La carezza del vento, LunaNera Edizioni., 2018; Hatsuyume, La Ruota Edizioni, 2019, Premio Speciale della critica nell’VIII edizione del Premio Nazionale di Poesia L’Arte in Versi, Jesi, 2019). Redattrice per i lit- blog Versante Ripido e Cinquesettecinque, è impegnata su un doppio fronte di ricerca e composizione poetica: poesia lirica in lingua italiana e haiku in lingua inglese. Attualmente, vive e lavora a Cesena. La rubrica di poesiaParole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina superiscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca[Qui]
Ho qui davanti a me i pieghevoli colorati di rosa e di rosso relativi a conferenze e incontri del 25 novembre e dintorni, i fogli con gli appunti che ho preso, le foto di alcuni libri usciti di recente: tutti dedicati al tema dellalotta alla violenza sulle donne. Uso la parola tema nella accezione di significato per cui credo stia andando tanto di moda sui media: “dal greco théma, argomento che si vuol proporre, soggetto di uno scritto, un ragionamento, una discussione” come recita lo Zingarelli.
Il tema della violenza sulle donne nei giorni scorsi ha riempito anche i palinsesti delle reti tv insieme agli spot sul Black Friday, è la ruota che gira nel percorso ciclico dei riti social(i). Voglio glissare però sull’appiattimento delle notizie a cui siamo condannati a rischio di assuefazione e valorizzare invece un paio di eventi a cui ho assistito. La loro qualità mi spinge a darne conto perché più li penso più mi restituiscono il valore di una battaglia di civiltà.
L’evento più recente è avvenuto mercoledì, ultimo giorno di novembre, alle Opere Parrocchiali di Poggio Renatico: su invito del Club Rotary locale sono intervenute in qualità di relatrici Giulia Trombelli e Nina Komadina, laureate in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Trieste, nonché impegnate nel direttivo di Koliba, un collettivo online composto da ragazzi sotto i trent’anni che si occupano di informazione e divulgazione culturale sui social.
Insieme hanno presentato il libro di Valeria FonteNe uccide più la lingua. Il sottotitolo Smontare e contestare la discriminazione di genere che passa per le parole spiega eloquentemente lo scopo del testo.
Preparatissime, hanno inondato la platea con slide piene di statistiche e con informazioni e considerazioni critiche sulla violenza ai danni delle donne, sulla retorica con cui sono costruiti gli stereotipi linguistici, allargando la visuale dal libro a una vasta letteratura dedicata alle discriminazioni di genere.
Si sono rivolte a una sala piena di persone di ogni età, sapendo coniugare al quadro esposto poco prima riferimenti concreti alla esperienza di tutti, suggerendo il confronto tra le mentalità delle diverse generazioni presenti.
In particolare hanno suscitato gli interventi su frasi tratte dal libro come queste: “E tu perché hai fatto questo video?”, “Potevi dire di no, “Le vere molestie sono altre”, “Sei troppo aggressiva, calmati”, evidenziando la violenza che vi è sottesa: la violenza che relega le donne dentro le sbarre degli stereotipi, che le vogliono sensuali, prive di rabbia, pronte a colpevolizzarsi e soprattutto subalterne.
In ottemperanza alla tesi del libro di Valeria Fonte hanno fatto i conti con la “misoginia dei discorsi”, mettendo sotto la lente di ingrandimento il potere di certe parole ed espressioni comeviolenzamaschile e patriarcato, paura e cultura dello stupro, che, liberate dalle incrostazioni semantiche degli stereotipi, vanno ricondotte al loro significato autentico e rivelatore.
Ora passo dal plurale donn-e al singolare, modificando la parte finale della parola mediante la desinenza –a. Resta intatto il tema della parola, che in linguistica si definisce come “ la forma ampliata o meno con cui si presenta la sua radice” (da Oxford Languages), ovvero la sua parte persistente nel sistema della lingua.
Armata di questa seconda accezione del termine entro nel bel romanzo di Viola Ardone, che ha per titolo un nome di donna, Oliva Denaro. Scelgo una pagina dove Oliva, dopo avere subito la violenza del suo” innamorato” al paese, deve decidere se accettare il matrimonio riparatore oppure se denunciare l’oltraggio che l’ha disonorata.
Si sente sola ed emarginata dal “coro paesano”, mai come ora che ha sedici anni ha ben compreso quale ingiusta discriminazione la penalizza rispetto all’altro sesso. Pensa al fratello gemello con cui è cresciuta: ”Se fossi nata maschio come Cosimino, avrei potuto restare con me stessa e non appartenere a un uomo. Invece sono nata al femminile e il femminile singolare non esiste”.
Proprio il 25 novembre son andata a incontrare la scrittrice Viola Ardone a Ferrara presso l’Aula Magna della facoltà di Giurisprudenza. Ho condiviso l’evento con circa duecento studenti del Liceo Ariosto venuti a incontrare l’autrice napoletana intervistata dai loro compagni del gruppo Galeotto fu il libro su Oliva Denaro, il suo ultimo romanzo. Le classi che si sono avvicendate in due turni hanno portato dei contributi originali: brevi filmati sui contenuti del libro, locandine e disegni coloratissimi che vengono proiettati nel corso delle interviste.
Ascolto gli interventi dei ragazzi “Galeotti” che stanno attorno alla scrittrice le rivolgono a turno le domande e le considerazioni che hanno condiviso tra loro e con le insegnanti: domande che sono andate in profondità sugli aspetti forti del romanzo, sul percorso di formazione della protagonista che vuole essere libera in un momento storico, la Sicilia degli anni ’60, in cui nascere donna è una condanna.
Sugli altri temi che vi si intrecciano, i rapporti dentro la famiglia, il valore della scuola; sulla struttura narrativa, sui personaggi e sul contesto culturale non solo siciliano del secolo scorso contrassegnato dalle battaglie per i diritti civili. Anche loro fanno molte osservazioni sul linguaggio, citano la maestra di Oliva che nel libro ripete “le parole sono armi non solo quelle difficili, anche quelle ordinarie, che ballano in bocca agli ignoranti”. Leggono passi in cui la protagonista prova su di sé il potere che hanno gli stereotipi, i retaggi culturali che le parole trasmettono come frecce acuminate.
Mi piacciono una volta di più questi giovani liceali che ho frequentato a centinaia facendo l’insegnante per quasi quarant’anni, una volta usciti dal Liceo fanno studi come quelli di Giulia e di Nina, leggono testi che non conosco e me ne trasmettono il valore. Mi domando quanto sia cresciuto il loro numero un anno dopo l’altro, quale incidenza possano avere sulla circolazione di idee più giuste. Quali visioni del mondo vadano ad aprire le loro parole tanto consapevoli.
Per finire l’incontro e salutare la loro ospite, si alzano in piedi ragazze e ragazzi della prima fila e pronunciano passandosi il microfono una frase ciascuno. Le frasi riprendono un modo di esprimersi di Oliva nei momenti decisivi della sua storia:
“Io sono favorevole al riscatto”
“Io sono favorevole al consenso”
“Io sono favorevole al rispetto reciproco”
“Io sono favorevole alla sorellanza tra le donne per affrontare ogni tipo di sopruso”
“Io non sono favorevole alla sottomissione”
“Io non sono favorevole alla vergogna”
“Io non sono favorevole alle ingiustizie”
“Io non sono favorevole alle libertà che si prende un uomo sul corpo di una donna”.
Infine tutti insieme “Il femminile singolare dipende da noi”.
Anche Viola Ardone è insegnante. Insegna Italiano e Latino in un Liceo della provincia di Napoli e qui oggi ha verificato quanto sia passata la sua lezione di grammatica. Mentre si alza per ringraziare e salutare a sua volta mi accorgo che si sta asciugando gli occhi.
Nota bibliografica:
– Valeria Fonte, Ne uccide più la lingua. Smontare e contestare la discriminazione di genere che passa per le parole, De Agostini, 2022
– Viola Ardone, Oliva Denaro, Einaudi, 2021
Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di carta, clicca [Qui]
Tempo di Natale, tempo di regali, quelli belli e delicati, tempo di strenne senza renne. Nella rubrica di oggi e nelle prossime fino a Natale (magari andiamo oltre, fino all’Epifania…)., vogliamo dare ai nostri lettori qualche consiglio di lettura e magari di dono attenzionato per gli amici, adolescenti curiosi o adulti rimasti un po’ bambini che siano.
Il primo albo illustrato è Parole, dello spagnolo Raul Nieto Guridi, Kite Edizioni (2022), un piccolo libro che andrebbe letto in tutte le scuole e proiettato all’ingresso di ogni mostra d’arte, perché le parole sono importanti, bisogna saperle pronunciare, quelle che servono, quelle che a volte non andrebbero nemmeno pensate. Le parole sono importanti nella vita, possono essere salvifiche o autentici macigni, sono quelle che ci siamo detti, quelle che non abbiamo avuto il coraggio di dire, quelle che abbiamo detto ad altri e non a chi si dovevano dire, quelle che ci siamo urlati addosso o che non sono state capite, quelle che abbiamo aspettato a dire e che magari abbiamo detto troppo tardi, quelle che non vogliamo dirci, quelle che abbiamo provato a dire ma che non ci sono (ri)uscite, quelle rubate dal vento. Questo albo ci ricorda che le parole sono quasi tutto quello che abbiamo per farci capire dagli altri, che sono connessioni e relazioni fondamentali. Un prezioso regalo per molti, soprattutto se tenute in serbo a lungo, un bisogno. D’altra parte, Jacques Prévert aveva scritto il suo meraviglioso Paroles… e non è così vero che verba volant…
Se le parole non volano, c’è invece un uomo con le ali che non sa nulla di sé stesso, che vuole imparare a volare, con o senza le sue parole o quelle degli altri. Solo con il pensiero.
Si tratta del primo titolo della collana Le voci che Kite Edizioni, dal 2013, dedica a lettori più adulti, dai 15 anni almeno. Le immagini sono forti per un pubblico troppo giovane, terribilmente realistiche. Guarda che la luce è del cielo, è un albo di Giulia Belloni(scrittrice, editor e giurata del premio Campiello Giovani) e dell’illustratrice Kaatje Vermeireche, fin dalla sua copertina grigio-azzurra, parla di differenza non richiesta e di identità. Con molta introspezione. Come gestire la differenza che a volte ci separa dagli altri? Patirla, nasconderla o trasformarla in un dono? Come osservare lo specchio, con amore e timore, e notare una stranezza nel proprio corpo? Starà al protagonista di questa storia capire, o meglio sentire, cosa deve farne, in un lungo viaggio verso sé stesso. “Ho sempre pensato che non fossi come gli altri”…, dice il protagonista alato. Ma lui non può più tornare indietro né confondersi con tutti gli altri e questo, almeno in principio, lo fa molto soffrire. Poi però riesce a capire perché quella differenza è stata destinata proprio lui e che cosa ne può fare. In fin dei conti non è da tutti avere le ali, no?
E poi l’amore è come il vuoto, non si vede.
Lo stesso amore che ci può far dire Grazie!, le bellissime pagine di Isabel Minhós Martins e Bernardo Carvalho (edizioni Kalandraka, 2022), nella collana Libri per sognare. Quel sentimento di gratitudine che ci insegna ad avere pazienza e ad aspettare, a valorizzare la disciplina e rispettare i più grandi, a saper vincere e perdere, integrarsi in una squadra, essere solidale con i compagni. A saper ascoltare e approfittare del silenzio, a riposarsi, ad affrontare dei rischi per superare le paure, anche pedalando in salita, a essere prudente e perseverante. Ad apprezzare la bellezza di certi momenti e delle cose che ci circondano… Incontri fatti di attimi. Insegnamenti fatti di sguardi e sorrisi.
L’albo illustrato è un potente messaggio rivolto a tutti coloro che attraversano la nostra vita e partecipano alla nostra educazione e crescita, aiutandoci a forgiare il nostro modo di essere e a vivere nella società: la famiglia, gli amici, i vicini di casa, gli animali domestici, la scuola… A tutti dobbiamo un immenso grazie. Essere grati è fondamentale e non poi tanto difficile. Saper ringraziare è la prima lezione della vita.
Narrato in prima persona con frasi brevi che descrivono la quotidianità del protagonista, l’albo porta il lettore a riconoscere vicende proprie o esperienze comuni. Le illustrazioni, contraddistinte da tratti delicati e colori luminosi che trasmettono positività, descrivono scene familiari vissute in campagna o in città, incontri con persone molto diverse con cui si interagisce ogni giorno, spazi per il divertimento e il gioco. Un insegnamento che inizia nell’infanzia e che durerà per sempre.
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura diSimonetta Sandri in collaborazione con la libreriaTestaperaria di Ferrara.
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