Skip to main content

Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


RAPPORTO ONU: SFRUTTAMENTO SUL LAVORO E DIRITTI UMANI VIOLATI
Viaggio nell’Italia del caporalato e del lavoro senza regole

di Andrea Turco
(da valigiablu del 06.10.22)

“Siamo scioccati dal livello di sfruttamento sul lavoro in Italia. Parliamo di un paese avanzato e industrializzato, in cui la perdita di vite umane sul lavoro non è accettabile. Lo stesso vale per i conflitti ambientali, le imprese sembrano essere sorde rispetto alle richieste dei territori e non riescono a mantenere un contatto con quello che accade nella realtà”. Era il 6 ottobre 2021 quando il professor Surya Deva, presidente del working group sui diritti umani e lavoro delle Nazioni Unite, pronunciava queste dure parole, in occasione di una conferenza stampa che si era tenuta a Roma presso l’istituto Sturzo.

Come raccontava il quotidiano Domani, le dichiarazioni arrivavano al termine di un viaggio per l’Italia durato dieci giorni, con lo scopo di redigere un documento di indicazioni per imprese ed enti pubblici. Da Taranto a Foggia, passando per la Val d’Agri, Brindisi, Prato e Roma, i cinque relatori ONU erano stati in diversi luoghi sede di conflitti ambientali, dove avevano ascoltato sindacati, organizzazioni della società civile, istituzioni e imprese.

Ora, a distanza di un anno da quelle prime valutazioni, abbiamo potuto consultare in anteprima il rapporto del working group dell’ONU che sarà reso pubblico a breve. In 21 pagine dense di dati, riferimenti legislativi e valutazioni, il documento parla dello sfruttamento al limite della schiavitù delle persone provenienti dall’Africa subsahariana e dall’India che avviene nell’agropontino, in provincia di Latina; del mancato godimento dei più elementari diritti lavorativi da parte soprattutto di persone provenienti dalla Cina nel distretto di Prato; dell’inquinamento mai risolto dell’impianto di amianto dell’Isochimica ad Avellino; degli impatti nocivi della più grande acciaieria d’Europa a Taranto fino ad arrivare alle preoccupazioni sanitarie e sociali in Val D’Agri per via della presenza di ENI. 

Gli sforzi delle istituzioni e delle imprese per garantire i più elementari diritti umani vengono giudicati “insufficienti” dal working group delle Nazioni Unite, tanto che le raccomandazioni fornite allo Stato italiano sono lunghe ben quattro pagine su 21. Resta il fatto, come scriveva Domani già l’anno scorso, che “in assenza di vincoli normativi e meccanismi di sanzione economica, ad oggi quelle delle Nazioni Unite restano pure indicazioni, utili consigli a cui solo il governo potrà dare un’applicazione reale”. Ne terrà traccia il prossimo esecutivo guidato da Giorgia Meloni?

Il contesto

Il “gruppo di lavoro sulla questione dei diritti umani e delle società transnazionali e altre imprese commerciali” (d’ora in poi gruppo di lavoro) ha visitato l’Italia dal 27 settembre al 6 ottobre 2021, su invito del governo. “Durante la visita – si legge nel rapporto – il gruppo di lavoro ha valutato gli sforzi compiuti dal governo e dalle imprese per identificare, prevenire, mitigare e rendere conto degli impatti negativi delle attività commerciali sui diritti umani, in linea con i Principi guida su imprese e diritti umani”. In 10 giorni i cinque relatori e relatrici ONU hanno svolto un’attività molto intensa, spostandosi in territori anche distanti tra loro centinaia di chilometri nell’arco di una giornata e ascoltando complessivamente centinaia di persone con tutte le difficoltà legate all’emergenza pandemica.

Per quanto riguarda il quadro normativo e politico, la relazione delle Nazioni Unite riconosce che “l’Italia dispone di un ampio quadro legislativo in materia di imprese e diritti umani, compresi i diritti del lavoro, la lotta alla discriminazione, la salute e la sicurezza sul lavoro e l’ambiente, e ha un movimento sindacale forte e attivo”. Tuttavia le tante situazioni a rischio e le denunce raccolte nei vari territori, per i quali più di una volta nel report ricorrono parole come “segregazione” e “condizioni disumane” e “discriminazioni”, spingono i relatori ONU a sottolineare che le numerose criticità riscontrate “dovrebbero essere affrontate immediatamente per proteggere i diritti degli individui e delle comunità a maggior rischio di abusi”.

Il sistema del caporalato nel settore agro-alimentare

“Il gruppo di lavoro è venuto a conoscenza del sistema di “caporalato”: basterebbe questa prima fase per comprendere lo sconcerto con il quale i relatori e le relatrici delle Nazioni Unite hanno affrontato le assunzioni illegali e lo sfruttamento intensivo che avvengono nei settori dove viene richiesto lavoro stagionale, in particolar modo nel settore agro-alimentare, come denunciato da anni dall’associazione Terra!. “I lavoratori migranti e italiani sono preda di questo sistema, spesso a causa di circostanze disperate” si legge nel report: ricatti ed estorsioni in cambio di permessi di soggiorno per le persone migranti, baraccopoli e ambienti insalubri offerti come unici posti per dormire e mangiare, ritmi estenuanti di lavoro sotto il caldo afoso, esposizione continua a pesticidi e sostanze chimiche.

Condizioni di sfruttamento appurate in prima persona dall’ONU attraverso alcune visite – Latina, i ghetti pugliesi di Borgo Mezzanone e Gran Ghetto di Rignano – e che hanno “sconvolto” il gruppo di lavoro. “Tali condizioni estreme di esclusione e segregazione aggravano le già precarie condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori migranti – viene aggiunto – peggiorando le situazioni di vulnerabilità allo sfruttamento. Infatti, in assenza di alternative, questi lavoratori vedono i caporali come l’unica autorità presente sul territorio in grado di fornire un sostentamento e servizi di base”.

Con la legge n°199 del 2016 l’Italia ha stabilito il reato specifico di caporalato, con una norma giudicata ai tempi innovativa, e nel tempo si è dotata di una serie ampia di strumenti per contrastare il fenomeno, come accerta anche il “Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato 2020 – 2022”. In più società civile e sindacati mettono in campo una mole notevole di supporti per le vittime, con lo scopo di “rompere il circolo vizioso dello sfruttamento e dell’emarginazione”, come ha potuto appurare la stessa delegazione delle Nazioni Unite. “Sebbene queste iniziative costituiscano passi positivi, rimangono isolate e sporadiche” commentano i relatori ONU. “Il gruppo di lavoro osserva che una precedente iniziativa di regolarizzazione non ha raggiunto i suoi obiettivi”.

Lo sfruttamento nella moda, nel tessile e nella logistica

Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2020 il settore della moda italiana ha generato un export valore di quasi 900 miliardi di euro. Oltre a essere una delle industrie più inquinanti, nella denuncia dell’ONU “questo settore è caratterizzato da catene di fornitura radicate nel subappalto in cui prosperano gli abusi dei diritti umani e del lavoro, che colpiscono i lavoratori più vulnerabili. Si tratta di lavoratori con contratti precari e a chiamata, spesso gestiti da agenzie interinali, e dei lavoratori invisibili dell’economia informale”. In Italia la moda fa riferimento soprattutto ai distretti industriali, di cui uno dei più noti è quello di Prato, in Toscana. Un’eccellenza, dicono la politica e le associazioni di categoria, che però nasconde un’altra realtà dei fatti. Come dimostra questo passaggio del report che sembra arrivare direttamente dall’Ottocento:

“Il gruppo di lavoro ha incontrato le vittime di abusi sul posto di lavoro, che hanno sempre descritto il lavoro di 12-14 ore al giorno, sette giorni su sette, come una pratica standard nelle aziende italiane e cinesi. Questi lavoratori o non hanno un contratto o i loro contratti prevedono orari di lavoro in linea con gli standard legali nazionali. I lavoratori hanno anche descritto come i cicli di lavoro quotidiani impediscano loro di imparare la lingua italiana o di partecipare a qualsiasi attività che possa facilitare la loro integrazione nella società. I lavoratori hanno anche descritto minacce di licenziamento, tagli alla retribuzione, negazione dei documenti necessari per il rinnovo del permesso di soggiorno e persino episodi di violenza nei confronti di quei lavoratori che volevano esercitare il diritto di iscriversi, o si erano iscritti, ai sindacati. La mancanza di trasparenza nelle catene di fornitura impedisce di identificare l’azienda committente e i beneficiari di tali pratiche di sfruttamento del lavoro”.

Situazione simile a Milano, dove “il gruppo di lavoro ha incontrato i lavoratori del settore logistico (compresi quelli che lavorano nei magazzini, nei centri di distribuzione, nei call center e nei trasporti) e i loro rappresentanti sindacali”. Sotto esame soprattutto i siti da dove partono poi le consegne garantite in 24 ore. Qui i lavoratori vengono “reclutati attraverso agenzie o cooperative che adottano pratiche di reclutamento illegali o non etiche”, con la costante minaccia del licenziamento, e capita sovente che siano costretti a lavorare di notte o comunque per più di 10 ore, anche se poi vengono “assunti con contratti part-time, in modo tale da consentire alle aziende di trarre profitto ed evadere il sistema fiscale”.

A seguire vertenze così complesse sono soprattutto i sindacati di base, gli stessi che recentemente sono stati accusati dalla Procura di Piacenza di una lunga sfilza di reati per i metodi perseguiti nella tutela dei diritti e che invece i relatori e le relatrici dell’Onu, dopo averli incontrati, sostiene in maniera netta:

Il ruolo dei sindacati indipendenti è fondamentale per aiutare i lavoratori a spezzare il ciclo continuo di sfruttamento. Il gruppo di lavoro elogia le attività e il sostegno dei sindacati locali ai lavoratori altamente vulnerabili e osserva che i sindacati nazionali dovrebbero offrire maggiore assistenza ai lavoratori informali e migranti. Esprime inoltre preoccupazione per le rappresaglie e le intimidazioni contro i rappresentanti dei sindacati locali che si oppongono alle pratiche di sfruttamento del lavoro o che organizzano scioperi pacifici a Prato.

Tanti infortuni e poche ispezioni

Quel che accade nella moda e nella logistica è ormai di dominio pubblico, denunciato da decine di inchieste giornalistiche e vertenze sindacali. Una delle più note e significative è quella condotta ad esempio dai SI Cobas Prato e Firenze: si tratta della campagna “8×5” che chiede l’applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro e la possibilità di lavorare 8 ore per 5 giorni la settimana, con diritto a ferie, malattia, permessi. Mentre da anni si discute su principi come “lavorare meno lavorare tutti” e molti Paesi d’Europa sperimentano la settimana corta, in alcune parti d’Italia la rivendicazione di lavoratori e lavoratrici riguarda un diritto acquisito decine di anni fa. Dove sono le ispezioni dello Stato per garantire il contrasto a ogni forma di abuso? Se lo chiede anche la delegazione delle Nazioni Unite:

Le questioni relative alla salute e alla sicurezza sul lavoro sono state una delle preoccupazioni più gravi in materia di diritti umani che il gruppo di lavoro ha rilevato durante la visita. Il gruppo di lavoro ha appreso con grande preoccupazione che nei primi giorni della sua visita 10 lavoratori hanno perso la vita. Nel 2021, si sono verificati 555.236 infortuni, 1.221 dei quali hanno avuto esito fatale. Un sistema di ispettorati, anche nei settori del lavoro, della salute e della sicurezza sul lavoro, svolge funzioni essenziali per garantire che tutte le norme pertinenti siano rispettate sul lavoro. La capacità degli ispettorati di effettuare un numero adeguato di ispezioni in modo proattivo o di rispondere rapidamente alle denunce ricevute è uno strumento essenziale per lo Stato per garantire che le peggiori forme di abuso non rimangano incontrastate. Ispezioni e sanzioni efficaci sono anche un potente deterrente e strumento di prevenzione degli abusi da parte delle imprese. Tuttavia, il gruppo di lavoro ha appreso da molte parti interessate che i regolamenti e le sanzioni – quando imposte dagli ispettori – sono esigui rispetto agli enormi profitti che le imprese realizzano abusando dei diritti dei lavoratori.

I problemi di risorse e capacità in questo ambito sono noti. L’ultimo rapporto annuale dell’attività di vigilanza svolta dal personale ispettivo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, dell’INPS e dell’INAIL svela ad esempio che “il corpo ispettivo coordinato dall’INL (Ispettorato Nazionale Lavoro, nda) risulta complessivamente pari a 3.848 unità”, così suddiviso:

  • 2.294 ispettori civili dell’INL, dei quali 240 tecnici
  • 942 ispettori dell’INPS
  • 223 ispettori dell’INAIL
  • 389 militari dell’Arma, (il 10% del complessivo personale ispettivo) prevalentemente destinati a funzioni di polizia giudiziaria

A ciò va aggiunto che, come ribadisce lo stesso Ministero, “tenuto conto della persistente carenza di personale amministrativo adibito ad attività di supporto” almeno il 25% delle unità ispettive è impiegata in altri compiti. Difficile sorprendersi, dunque, se i controlli dello Stato risultano esigui e inefficaci. A ciò si aggiungono ulteriori complicazioni: da una parte, come hanno riferito gli ispettori di Prato al gruppo di lavoro Onu, “anche quando le sanzioni impongono il sequestro della proprietà e l’attività viene chiusa, il proprietario dell’azienda riprende l’attività sotto un’altra identità”; dall’altra “la mancanza di fiducia dei lavoratori nelle istituzioni statali e il timore di rappresaglie da parte dei datori di lavoro rendono difficile per l’Ispettorato ricevere le denunce”. Col paradosso che “di fronte a queste sfide, il gruppo di lavoro è rimasto stupito nell’apprendere che l’INL di Prato è composto da soli 11 ispettori, mentre secondo l’istituzione dovrebbe avere un numero almeno triplo”.

Le grandi industrie

Il capitolo dedicato alle grandi industrie è significativamente intitolato “inquinamento ambientale e cambiamento climatico”, con una correlazione evidente ma non sempre sottolineata tra i mega impianti industriali italiani, sorti dal secondo Dopoguerra, e la crisi climatica in atto. “Il gruppo di lavoro ha visitato diverse località che hanno rivelato uno scontro tra le priorità dello sviluppo economico-industriale e il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente” scrive la delegazione ONU, riproponendo l’antico e mai superato dilemma tra salute e lavoro.

La prima tappa di questa parte specifica della visita è stata ad Avellino, dove dagli anni ‘70 l’arrivo di una grande azienda come l’Isochimica avrebbe dovuto portare l’agognato sviluppo. E invece negli anni ‘80 giovani e giovanissimi campani vennero impiegati per togliere l’amianto dai vagoni delle Ferrovie dello Stato, anche a mani nude, ammalandosi e contraendo in gran parte le tipiche malattie associate a questo materiale (dichiarato fuorilegge nel‘92), vale a dire carcinoma polmonare e mesotelioma pleurico. Un dramma che non è ancora terminato, come riportato dalla relazione delle Nazioni Unite:

Dopo la chiusura dell’impianto di amianto, i membri della comunità hanno descritto pratiche di scarico dell’amianto nel fiume, di seppellimento dell’amianto in luoghi vicini all’impianto e altrove e di miscelazione dei rifiuti di amianto con il cemento per formare cubi che venivano lasciati deteriorare in luoghi pubblici. In un incontro con il gruppo di lavoro, l’amministrazione locale ha riconosciuto che la bonifica dell’amianto è stata solo parziale e che sono necessarie ulteriori misure.

Lo snodo successivo non poteva che passare da Taranto, forse la città simbolo degli impatti industriali nocivi: sede del più grande impianto di produzione di acciaio d’Europa, situato vicino al centro della città, Taranto fa parte dei 42 SIN, i Siti di Interesse Nazionale in cui lo Stato riconosce la contaminazione ambientale e indica la priorità delle bonifiche – in cui però gli esiti sono tutt’altro che risolti.

Data la complessità delle vicende tarantine, non sorprende che la relazione impieghi due pagine per provare a tirare le fila: cita gli studi epidemiologici dell’area che “evidenziano significativi eccessi di mortalità progressivamente estesi dal 2011 al 2020 in tutti i quartieri settentrionali”; i racconti nelle audizioni delle “giornate del vento” in cui “veniva consigliato di chiudere le finestre, annullare le attività, impedire ai bambini di andare a scuola ed evitare di stare all’aperto”, con il gruppo di lavoro che “ha assistito in prima persona ai depositi nocivi in questi quartieri e alla costante ansia della popolazione locale”; l’abbattimento dei capi di bestiame e il divieto di produzione delle tipiche cozze nelle aree adiacenti agli impianti nonché “la perdita economica dovuta al mancato sviluppo dell’industria turistica”; gli estenuanti iter giudiziari e le controversie a livello internazionale. Di inedito c’è, che di fronte a tale quadro consolidato, anche l’ingresso dello Stato nella gestione dell’acciaieria non cambia le rassicurazioni.

L’ultima tappa si è svolta in Basilicata, nel cuore della produzione petrolifera italiana. Sotto osservazione del working group dell’Onu è il COVA, il Centro Oli della Val d’Agri, gestito da ENI. Anche in questo caso divergono del tutto gli scenari prospettati dalle parti ascoltate. Da una parte:

La comunità ha sollevato preoccupazioni significative relative a questioni ambientali e sanitarie, nonché al più ampio impatto economico e sociale dell’industria sulla regione e sulla comunità. Al gruppo di lavoro è stato riferito che nell’area del COVA si sono verificati una serie di “non incidenti” (ufficialmente chiamati eventi) caratterizzati da fiamme, rumori improvvisi, fetori e presunte emissioni inquinanti nell’aria, nel suolo e nell’acqua. Dal 2001, le associazioni locali hanno registrato 163 non-incidenti. Alcuni di questi sono oggetto di indagini giudiziarie, come la perdita di 400 tonnellate di petrolio che ha portato alla chiusura del COVA nel 2017. Si tratta dell’unico non-incidente che, 4 mesi dopo la sua scoperta, è stato successivamente riconosciuto come incidente rilevante. Nonostante ciò, il Piano di Emergenza Esterno, in attesa di rinnovo dal 2009, non è apparentemente mai stato attivato.

Dall’altra:

L’azienda ha sottolineato i propri sforzi in materia di protezione ambientale e di coinvolgimento delle comunità. Tuttavia, sono necessari ulteriori sforzi da parte dell’ENI per condurre una due diligence significativa in materia di diritti umani e ambiente e per costruire un rapporto di fiducia tra l’azienda e la comunità, al fine di garantire la disponibilità di dati verificabili in modo indipendente per rispondere a qualsiasi preoccupazione legittima. Inoltre, le attività di monitoraggio devono essere svolte in modo trasparente dalle istituzioni competenti e i dati relativi agli sviluppi intorno al COVA devono essere resi ampiamente accessibili alla popolazione.

Le raccomandazioni dell’ONU

In quei dieci giorni del 2021, a cavallo tra settembre e ottobre, la delegazione delle Nazioni Unite scopre parecchie criticità del sistema italiano. E un anno dopo ne restituisce le sensazioni che, seppure a freddo, restano allarmanti:

“Il gruppo di lavoro è preoccupato per la mancanza di solidi meccanismi giudiziari e non giudiziari per cercare un rimedio efficace agli abusi dei diritti umani legati alle imprese. Ciò significa che le imprese spesso agiscono nell’impunità” denuncia il report, che poi fa notare come le controversie giudiziarie legate a questi specifici casi “a volte restano per anni senza una decisione finale”. È vero che la legge del 2016 sul caporalato ha fatto aumentare il numero di sentenze emesse dai tribunali ma “l’impatto della pratica in termini di protezione dei lavoratori dalle assunzioni illegali e sleali deve ancora essere valutato appieno”.

L’Italia, inoltre, resta uno dei pochi Paesi dell’Unione Europea a non avere un’istituzione nazionale per i diritti umani (NHRI) e ciò equivale a “una grave lacuna”. Allo stesso tempo poco conosciuto, e poco efficace, resta il Punto di Contatto Nazionale (PCN) dell’OCSE, situato all’interno del Ministero dello Sviluppo Economico: in teoria costituisce “un importante meccanismo non giudiziario per affrontare le violazioni dei diritti umani legate alle imprese”, in pratica dal 2004 al 2020 “il PCN ha preso in carico 24 casi, alcuni dei quali riguardano presunti abusi da parte di aziende italiane all’estero. Sebbene il numero di denunce sia aumentato dopo il 2016, rimane molto basso se si considerano i casi di abusi che il gruppo di lavoro ha riscontrato durante la visita”.

Oltre a rafforzare gli strumenti esistenti, il working group “incoraggia l’Italia a emanare una legge sulla due diligence obbligatoria in materia di diritti umani, in linea con la proposta di direttiva della Commissione europea sulla due diligence di sostenibilità delle imprese, e a impegnarsi attivamente nei processi internazionali per stabilire norme vincolanti per le imprese, al fine di creare condizioni di parità a livello globale”. Sarebbe necessario, spiega ancora il report, che il governo avviasse “una discussione con tutte le parti interessate” perché “ciò aiuterebbe l’Italia, così come le sue imprese, a rimanere all’avanguardia e a prepararsi ai cambiamenti del panorama normativo”.

VIALE DEL TRAMONTO
Lo star system che non cambia mai

 

I meccanismi perversi non cambiano mai, l’uomo non migliora i suoi atteggiamenti e comportamenti nel tempo, non muta. La storia si ripete e da essa non impariamo. Cinema e star system non fanno eccezione.

Dai tabloid patinati apprendiamo spesso di come questo o quell’artista non si rassegni a non essere più sulla cresta dell’onda, di attori un tempo famoso precipitati nell’oblio e, spesso, nella miseria più nera e tragica. Dimenticati e abbandonati, è durissima non essere più nessuno e non trovarsi più assaliti da paparazzi impudenti o da fan impazziti che cercavano solo te, il tuo sorriso, un tuo cenno o un tuo semplice autografo.

A riproporre questo tema oggi arriviamo con un capolavoro della storia del cinema, Viale del tramonto, di Billy Wilder, del lontano, ma sempre attuale, 1950.

Ricordiamo solo che il film ricevette 11 candidature agli Oscar, vincendone tre per la migliore sceneggiatura originale, la miglior colonna sonora e la miglior scenografia e che, nel 1989, venne scelto per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.

Gloria Swanson e William Holden

Protagonisti sono Norma Desmond, interpretato da una magnifica Gloria Swanson, e Joe Gillis-William Holden, in un ruolo che era stato scritto e pensato per Montgomery Cliff che rifiutò la parte, si dice intimoritone. Altri grandissimi attori sfilano man mano sullo schermo, in una sorta di meta-cinema, dove in un’ambigua alternanza tra realtà e finzione, qualcuno interpreta anche sé stesso. La Swanson era davvero una celebre attrice del cinema muto ritiratasi dalle scene dopo l’avvento del sonoro (grazie a questo film ritorna al successo) ed Erich von Stroheim (il maggiordomo Max von Mayerling) era stato uno dei registi che l’avevano diretta. Durante una scena viene poi proiettato uno spezzone di Queen Kelly, kolossal di Stroheim interpretato proprio dalla Swanson, mentre il regista Cecil B. De Mille interpreta sé stesso, quando, durante le riprese di Sansone e Dalila, la vecchia diva gli piomba sul set, così come la cronista Hedda Hopper compare in un breve cameo nel ruolo di sé stessa. Per non dimenticare l’apparizione di Buster Keaton, convitato a un tavolo di poker.

Buster Keaton

Ma torniamo alla trama. Morto che parla, flashback, sei mesi prima. La voce fuori campo del protagonista, lo squattrinato sceneggiatore Joe Gillis, ripercorre la tragica storia del suo incontro con la ex diva del muto Norma Desmond, mentre il suo cadavere, trapassato da terribili pallottole, galleggia nella piscina della villa gotica della donna. Sono le cinque del mattino e una folla di poliziotti è accorsa a recuperare quel corpo. Codazzo di cronisti, i soliti. Ciak, sempre buio.

Joe per sfuggire agli esattori si ritrova in una vecchia casa lugubre e decadente, ma dagli antichi splendori, che pare abbandonata e buia. Lì, invece, nella piena oscurità, isolata dal mondo, abita Norma, la vecchia gloria del cinema muto che vive del suo passato, protetta dal suo maggiordomo Max, che si scoprirà essere stato il suo primo marito, e dalle ombre dei suoi film continuamente proiettati nella sua sala cinematografica esclusiva. La donna vive immersa nel culto di sé stessa, null’altro.

Gloria Swanson, William Holden e Erich von Stroheim

Norma chiede a Joe di rivedere un terribile copione che lei stessa sta scrivendo, un testo con cui la donna spera di poter tornare alle glorie passate, protagonista di un ultimo e clamoroso film. Le luci della ribalta. Quella ribalta che il terribile arrivo del sonoro le aveva negato, un sonoro che fa dire a Norma “noi eravamo grandi, è il cinema che è diventato piccolo”. In una vita che ormai, per lei, è diventata in bianco e nero (d’altronde da lì veniva…), con immensa sottintesa angoscia.

Siamo appieno nel mondo del cinema, tutto parla di lui, immersi nella sua bellezza ma anche nella sua terribile crudeltà e, a volte, spietatezza. Ci sono gli sceneggiatori a caccia di successo, alcuni più sognatori e visionari di altri, gli studios della Paramount con il suo mitico cancello d’ingresso, gli attori e le comparse, le macchine per le riprese, le luci, gli oggetti, le scenografie e i sipari. Gli oggetti che vorrebbero essere anche l’Isotta Fraschini di Norma ma che non si può.

Joe è in crisi tanto economica che di ispirazione e accetta quel lavoro che lo porterà a divenire amante e mantenuto della vecchia diva (vecchia si fa per dire, capiamo che Norma ha cinquant’anni …). Mentre il giovane inizia a frequentare Betty, con la quale lavora a una sceneggiatura, nelle sue fughe notturne, e che si innamora di lui, la convivenza con Norma, accecata dalla gelosia, diventa impossibile e porterà alla tragedia, fino ad una sua ultima passerella ormai in preda alla follia.

Viale del tramonto è un capolavoro a metà tra thriller, noir e melodramma. Un cinico, grottesco e sarcastico ritratto del lato oscuro di Hollywood e del mondo degli attori che vivono, con melanconia e malinconia, fuori della ribalta di un tempo che fu.

Spietate regole del successo. Quelle che non perdonano. Magistrale davvero, originale, ferocemente ironico, da (ri)vedere.

 

 

 

 

Viale del tramonto (Sunset Boulevard), di Billy Wilder, con William HoldenGloria SwansonErich von StroheimNancy OlsonFred ClarkLloyd GoughJack WebbAnna Q. NilssonSidney SkolskyRay EvansBuster KeatonHedda HopperRuth CliffordCecil B. DeMilleH.B. WarnerJay Livingston, USA, 1950, 110 min.

Trailer 

 

ULTIMO ROSSO 2022
Una poesia e tutte le foto della festa

Ultimo Rosso 

Un nastro rosso come l’amore
che unisce giovani vite
respiranti poesia. Questa
può dirsi salvezza?
Sì, salvezza nel conoscere
mondi di parole
e trasmetterle all’altro.
Questo io ricordo a Ferrara
in una mattina di sole.

Franco Stefani
Ferrara, 8 ottobre 2022

Al mattino in piazza Municipale

    

     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

     

Pomeriggio al Parco del Montagnone

 

 

Tutte le foto, compresa quella di copertina, sono di Valerio Pazzi

GLI SPARI SOPRA /
55 Anni oggi: una poesia per il Comandante


Dove sei comandante?
I miserabili, gli ultimi, gli oppressi,
ti stanno cercando,
dicono tu sia morto, ma non è vero.
Non si uccide la rivoluzione,
le gocce del tuo sangue
diverranno fiumi,
i fiumi sboccheranno in mare.
Lo sappiamo che ci sei,
hai solo cambiato corpo
l’utopia è immortale
il sogno non ha tempo,
I nemici del mondo sono ancora qui
non ci danno tregua
mandano soldati alla morte
e la morte per mano dei soldati.
Il tuo esercito ora sarebbero i disertori
i non conformi, i diversi,
tutti coloro che hanno fame,
d’amore, di vita, di cibo.
Tante brigate di donne
martiri della follia dell’uomo,
donne che si strappano il velo,
dall’Iran, a Cobane, in Palestina.
Dove sei comandante?
Il tuo spirito ribelle
deve piovere su di noi,
il tuo braccio libertario
deve essere il nostro.
Fino a sempre Comandante
fino alla fine
non possono vincere loro
il vermiglio dell’alba tingerà il cielo.

(Questa poesia è stata letta dall’autore durante Ultimo Rosso, il festival della poesia errante, a Ferrara, l’8 ottobre 2022) 

In copertina:  Il Cristo morto e le tre donne, il celebre dipinto di Andrea Mantegna (Wikimedia Commons)

Per leggere gli altri interventi di Cristiano Mazzoni, che lui chiama “sfoghi”, clicca sul suo nome su Gli spari sopra, la rubrica da lui curata.

Manifestazione nazionale per la pace… e dopo? La politica faccia mea culpa e spezzi il suo fucile.

 

Una manifestazione di piazza per la pace? Benissimo. Ai leader di partito, politici, associazioni che si agitano e la invocano, suggeriamo di organizzarla con il titolo “Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa”.

La guerra c’è. È guerra mondiale. Le armi sono state costruite e consegnate agli eserciti. I missili sono stati lanciati. Le bombe sono state sganciate. Le città e le case sono state distrutte. I morti si contano a migliaia. Gli ordigni nucleari sono pronti al loro utilizzo.

Bisognava pensarci prima. Questa guerra è in corso e non saranno parole e striscioni a fermarla.
Bisognava lavorare per la pace in tempo di pace, bisognava fare politiche di disarmo anziché votare i bilanci militari. Bisognava non costruire le armi che oggi sparano. Bisognava sostenere le proposte preventive della nonviolenza, unica alternativa alla guerra.
Dopo la seconda guerra mondiale, dopo la caduta del Muro di Berlino, dopo le guerre nel Golfo e nei Balcani, dopo le Torri Gemelle, dopo le guerra in Iraq e in Afghanistan, il tempo c’era per fare vere politiche di pace e disarmo. Ma è stato sprecato.

La strada da percorrere è già tracciata da tanti anni:
– Adesione al Trattato per la messa al bando della armi nucleari
– Approvazione legge istitutiva della Difesa civile non armata e nonviolenta
– Istituzione dei Corpi Civili Europei di pace
– Riduzione spese militari, restrizione sull’export di armi
– Istituto di ricerche sulla pace e risoluzione nonviolenta dei conflitti

Questo è il programma per una politica di pace che abbiano sempre proposto nel nostro calendario delle festività civili, inascoltato dalle istituzioni:
Ogni 2 giugno, abbiamo chiesto di festeggiare “la Repubblica disarmata che ripudia la guerra”.
Ogni 4 novembre, abbiamo invocato “Non festa ma lutto” per ricordare l’inutile strage.
Ogni 25 aprile abbiamo rinnovato: “La Liberazione oggi si chiama disarmo; la Resistenza oggi si chiama Nonviolenza”.

Il movimento pacifista parlava alla politica, ma la politica aveva altre priorità e la pace è rimasta fuori dall’agenda dei partiti e del Palazzo.

La speranza però è ancora viva. Possiamo iniziare a disarmare oggi per costruire la pace di domani.

Se ci sarà un “mea culpa” e un’assunzione di responsabilità collettiva per iniziare concretamente a fare le politiche di pace che non si sono fatte nel passato, ben venga anche la manifestazione di piazza.
Nel frattempo, con la Rete italiana Pace e Disarmo continueremo a lavorare quotidianamente in particolare sostenendo gli obiettori di coscienza, i disertori, i renitenti alla leva, i nonviolenti e i pacifisti in Russia e in Ucraina, come abbiamo fatto con la Carovana di Pace “Stop The War Now”: sono loro che concretamente possono fermare la guerra.
Come facciamo dall’inizio della guerra, saremo presenti tutte le domeniche in Piazza San Pietro all’Angelus con le bandiere della nonviolenza per sostenere il magistero di Papa Francesco che ci ha chiesto di “fare di tutto per fermare la guerra”.

Nei giorni 21, 22, 23 ottobre parteciperemo alla mobilitazione dal basso, in tutte le città in cui siamo presenti, con la rete “Europe for Peace” verso una Conferenza internazionale di pace.

A chi è preoccupato, angosciato, disorientato per il pericolo di una deflagrazione mondiale della guerra in corso, e vuole “fare qualcosa” per fermarla, diciamo che ci rimane una sola strada, quella della nonviolenza: né un uomo né un soldo per la guerra, iniziamo spezzando il nostro fucile.

Movimento Nonviolento
Redazione Azione nonviolenta

Per certi versi /
All’Appia antica

All’ Appia antica

Tutto
Il silenzio vivace
Dell’Appia antica
Scorre
Nelle nostre braccia
I pini marittimi
Piegati
tra ombre e flebo
Di tutto il loro
Unico e stesso
silenzio
Ancora entra
Vivace
Nelle nostre vite
e i passi
Aggiunti
Umidi di tenerezza
Risaccano
Nella asciutta
Grandezza
Della Storia

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

 

FANTASMI / Destino

 

a sua zampa rovente sul mio viso.

Sono bloccata, schiacciata contro il muro di cinta.

Poi la sua mano come cartavetrata percorre la guancia e la inchioda per girare il mio sguardo dall’altra parte.

Una punta gelata preme la gola.

Sento solo questi due punti: il caldo e il freddo.

Il resto del corpo completamente dimenticato.

Un alito colpisce l’orecchio . Un vento vischioso di alcol in tetra pack biascica:

“Non dimetterla. Non dimettere la mia Teresa.”
Il pensiero corre ai bambini. Chissà che spavento se mi trovassero a terra. Non deve succedere. Devo proteggerli.
La pressione del suo corpo sul mio si allenta e sento che ho altro, ho delle gambe. Me ne accorgo perché stanno tremando.  E poi non mi sostengono più. Scivolo sostenuta dal muro. Scivolo giù.
Quella presenza cosi vicina ora sbiadisce in un’ombra sbilenca che si allontana.
Il cuore come un batterista batte le tempie. Il batterista esagera batte sempre più forte distraendo la mia attenzione dal calore rosso che scivola lungo la gola imbevendo il colletto della camicetta ciclamino.

“Dobbiamo correre ai ripari. Mettere almeno un metronotte. Chiederemo aiuto alla regione. Tu prenditi qualche giorno” il supervisore del centro accoglienza per ragazze madri, conclusa la frase con fare materno, mi osserva. Scuoto la testa “L’urgenza è invece quella di far traslocare al più presto Teresa lontano da qui”

“Ma tu sei pazza. Ma pazza vera. Dobbiamo far credere all’ubriacone che ti sei spaventata e che  lo stai assecondando. Non posso far correre rischi né a te né a lei. Una guardia fuori la struttura basterà per il momento”

Quella pressione sul collo non mi abbandona. È sempre presente e fiammante. Quel senso di soffocamento mi sveglia nel pieno delle notti. Soffoco. Poi mi sveglio. Non sto soffocando ma i polmoni non respirano più a pieno come prima.

Il progetto con Teresa era andato bene. Avevamo individuato insieme una sua qualità che sorprese anche lei. “Sono sicura che mia nonna Adele ha voluto salvarmi e rendermi indipendente” parole che scintillavano dal suo sorriso “è stata lei ad insegnarmi a cucire e a ricamare: quando ero bambina nei giorni dei grandi diluvi passavamo il tempo così. Me ne ero completamente dimenticata e non sapevo di esserne ancora capace”
Immaginai le spalle ricurve protette dal drappeggio dello scialle rovesciato indietro e che tende il braccio verso noi con in mano una chiave di cristallo.
“Bè grazie ad Adele tu avrai domattina alle 10:30 in via dei condotti un colloquio presso questo atelier” le diedi il biglietto da visita verde Tiffany.

Tornò con le guance in fiamme, mi abbracciò. L’atelier l’attendeva  per un contratto a tempo indeterminato nella loro sartoria e io avevo il petto gonfio d’orgoglio. “Bene possiamo preparare le carte per il cambio della tua destinazione”

“Cambio del Destino” con gli occhi persi nell’infinito proseguì “ Noi in Sudamerica non diciamo destinazione ma Destino”.

Quella pressione sulla gola, quel senso di soffocamento ha aumentato l’empatia con Teresa.
Entrambe claustrofobiche eravamo vittime di chi si era messo in testa  di congelare il nostro sguardo rivolto al nostro futuro.

Quel passe-partout, che Adele le aveva teso, lo vedevo rimbalzare sul selciato tra le foglie rosse d’acero, tintinnando cadendo a terra. Non potevo permettere che andasse in frantumi.

Sono riuscita a trovare un atelier  in un’altra cittadina a 103 km da noi. All’alba di questo sabato l’ho salutata da sotto il finestrino di un treno.  Appena tornata a casa ho svuotato sul tavolo della mia cucina il tulle che racchiudeva mucchietti di confetti di mille sacchetti. Domani lascerò coi fiori in mano colui che da tempo tesseva la sua ragnatela in quel mio destino. Mentre in questo, la pressione sul collo è già scomparsa.

Racconto inedito, proprietà dell’autore.

Per leggere tutti gli articoli, saggi, racconti, divagazioni della rubrica FANTASMI clicca [Qui]

OGGI A FERRARA “ULTIMO ROSSO”
Torna il Festival della poesia errante

È tutto pronto per la Seconda Edizione di Ultimo Rosso,,,

I poeti di Ultimo Rosso della prima edizione, Ferrara, ottobre 2021

I poeti di Ultimo Rosso della prima edizione, Ferrara, ottobre 2021

Il Collettivo Ultimo Rosso è stato fondato da un gruppo di poete e poeti (di Ferrara e di altre città italiane) nella primavera del 2021. Il Collettivo è aperto a tutti, poeti e sostenitori della poesia, Non ha il compito di promuovere questo o quel poeta del gruppo, ma di diffondere la poesia come strumento di liberazione. Ecco il suo marchio, che riprende uno storico simbolo anarchico del secolo scorso.

 

 

Ma quali e quanti saranno i poeti di quest’anno?  E quanti “non poeti” leggeranno in pubblico poesie di autori contemporanei o del passato?  Lo scopriremo solo quando comincerà la festa della poesia errante. Tutte e tutte sono invitati a poetare: in italiano, inglese, francese, iraniano, afgano, nigeriano…

Ecco il programma con gli appuntamenti di Sabato 8 ottobre 2022 

Al mattino, dalle 10.00 alle 11.30, in Piazza Municipale

flash mob  (performance poetica) dove il Collettivo Poetico Ultimo Rosso leggerà  poesie proprie o di autori/autrici secondo le affinità stilistiche, emozionali e affettive di ognuno. Sarà anche il momento in cui diverse studentesse e studenti leggeranno le loro composizioni, frutto di un laboratorio di poesia svolto in classe, coordinati dalla prof.sa Cecilia Bolzani, seguendo la traccia del testo di Bob Dylan “Blowin’ in the wind”.

Il flashmob inizierà con la lettura del testo del cantautore premio Nobel. Ognuno dei partecipanti leggerà le poesie tenendo una lunga corda di canapa, formando un grande cerchio (la corda ci è prestata per l’occasione dal Museo della Civiltà Contadina di  Bentivoglio che ringraziamo per la disponibilità).

La corda è il simbolo di molte cose. Significa il legame con la nostra terra e la nostra storia, ma anche l’importanza delle relazioni dirette, la bellezza dello stare assieme. Infine la corda può diventare catena e prigionia: infatti, alla fine della performance, i partecipanti butteranno a terra la corda. Sarà la forza della poesia a liberarli.

Pomeriggiodalle 15.30 alle 17.30

La piccola carovana poetica si trasferirà nello spazio verde al Montagnone, accanto al bar Paradiso Verde (Viale Alfonso D’Este). Qui il reading sarà aperto a tutti. Ogni spettatore potrà leggere una poesia o un brano del suo autore preferito o portare le proprie poesie per condividerle. Verrà distribuito a tutti un foglietto bianco, dove scrivere una poesia a scelta. I biglietti verranno piegati, messi in un grande cesto e mescolati come un mazzo di tarocchi. Poi ognuno pescherà una poesia a caso scritta da un autore sconosciuto.

Lo abbiamo chiamato Libero Scambio Poetico. Un altro mondo per mescolare emozioni e diffondere ovunque il seme della poesia. Un antidoto all’apatia e all’omologazione, un invito alla  pace tra le persone e tra i popoli.

Al termine del reading poetico le amiche del  bar Paradiso Verde offriranno ai partecipanti un piccolo rinfresco.

Ultimo Rosso 2022 locandina
Locandina di Ultimo Rosso. Festa della poesia errante, II Edizione, Ferrara 8 ottobre 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Post Scriptum
Ti aspettiamo a Ultimo Rosso. E se credi nel valore della poesia, diffondi e condividi questo post.

Cover: il marchio del Collettivo Poetico Ultimo Rosso

PRESTO DI MATTINA /
La vita buona

 

Il bene comune, cuore della vita buona

Scrive il filosofo Charles Taylor [Qui] che l’orizzonte e la meta a cui tendono il nostro vivere non è solo quello di una vita buona in senso aristotelico. Non basterebbe, infatti, per la felicità di ogni cittadino, raggiungere il culmine dei valori a cui ciascuno aspira nelle loro giuste proporzioni.

Nell’età moderna, l’umanità scopre una nuova tappa del proprio cammino, nella quale acquista consapevolezza, che la vita buona trova nel “bene comune” la propria sorgente.

«È solo con la Riforma che si impone l’idea di ispirazione cristiana che la vita comune è il nucleo stesso della vita buona… e – prosegue Taylor – credo che questa affermazione della vita comune, per quanto tutt’altro che pacifica e spesso svolta in termini non religiosi, sia diventata una delle idee più potenti della civiltà moderna…

La percezione dell’importanza della quotidianità e, conseguentemente, della sofferenza colora di sé l’intera nostra concezione di che cosa voglia dire veramente rispettare la vita e l’integrità umana» (Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1993, 27-28).

Non è un’intuizione, quella di Taylor, ma una constatazione difficilmente refutabile. Non si può giungere alla vita buona senza consapevolezza del bene comune o prescindendo dall’esercizio della condivisione come suo strumento di ricerca ed attuazione.

Il bene comune è così il bene stesso della vita buona: che è un bene per sua natura relazionale, in quanto si forma, cresce e matura solo dall’incontro della nostra libertà con quella dell’altro. Si verifica solo nelle relazioni interpersonali e trova il suo fine adeguato nella loro maturazione.

Già per Tommaso d’Aquino [Qui], del resto, il bene comune è il bene di tutti e di ciascuno, un bene che non sottrae l’essenziale alla persona, né impoverisce l’ambiente o la società. È quel bene che si attua negli individui per il fatto stesso della loro unione, e a cui tutti sono chiamati a partecipare.

Nel contesto dell’esperienza cristiana si esprime e si attua nell’orizzonte di una comunione e nello stile di un camminare insieme, sinodale appunto: «Il bene comune – così si esprime il Concilio − si concreta nell’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani, nelle famiglie e nelle associazioni il conseguimento più pieno e più rapido della loro perfezione» (Gaudium et spes 74 b; cfr. anche 26; pure la Dichiarazione Dignitatis humanae, 6).

Con gli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020, Educare alla vita buona del Vangelo la Conferenza episcopale intendeva offrire «alcune linee di fondo per una crescita concorde delle Chiese in Italia nell’arte dell’educazione».

Nel mezzo di questo cammino papa Francesco si è inserito facendo emergere un’ulteriore consapevolezza: quella che si educa alla vita buona del vangelo se si educa alla sinodalità, vivendola come stile permanente di chiesa in una convivialità delle differenze e comunione nelle diversità.

Il Cristo in noi è così speranza di vita buona, il bene comune, come pure la sua “pro-esistenza”, il suo esistere per la vita buona degli altri diventa quel bene comune a cui partecipare.

Se si fa proprio lo stesso sguardo di Gesù, questo sarà capace di aprirci ad una umanità nuova e piena: «Nel gesto della moltiplicazione dei pani e dei pesci è condensata la vita intera (vita buona) di Gesù che si dona per amore, per dare pienezza di vita (vita comune). Neppure il suo corpo ha tenuto per sé: “prendete”, “mangiate”» (EVBV, 18).

Emblematico, come uno scossone, fu l’intervento di papa Francesco nel gennaio del 2021, cinque anni dopo il Convegno ecclesiale di Firenze, in cui espresse l’urgenza di non fermarsi a quell’evento.

Egli sprona ad essere anzi solleciti nel ripartire da quell’evento per avviare un processo di conversione in stile sinodale, che testimoni la gioia di vivere, quella vita buona che scaturisce dall’annuncio e dalla pratica vicendevole del vangelo negli ambiti decisivi del proprio vivere.

Così papa Francesco: «Cruciale risulterà la sfida dell’annuncio del Vangelo in un’Italia in continuo cambiamento che fatica a incontrare la gioia di credere. Una sfida che passa dalla liturgia, dalla famiglia, dai giovani, dalla carità: tutti ambiti (quelli emersi al convegno) che entreranno nel processo sinodale. Lo sguardo verrà rivolto anche alla società: il che significa, ad esempio, toccare i temi della cultura, delle povertà, delle fragilità, della cittadinanza, del lavoro.

E idealmente il Sinodo congiungerà quasi un ventennio di vita ecclesiale italiana, recependo gli ultimi due Convegni nazionali: quello di Firenze nel 2015 e quello di Verona nel 2006 (con i suoi cinque ambiti: affettività; lavoro e festa; fragilità; tradizione; cittadinanza)».

Come realizzare questo? a partire da dove?

Questa la risposta del papa: «Al centro del cammino sinodale ci sarà l’ascolto, che vuol dire primato delle persone sulle strutture, corresponsabilità, attenzione ai variegati volti della Chiesa italiana. La CEI è ben consapevole che la comunità ecclesiale del Paese ha storie e sensibilità non uniformabili che sono, anzi, una ricchezza e lo specchio della “convivialità delle differenze” che caratterizza la vita di fede nella Penisola».

Un debito di ascolto

«Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole» (Rm 13, 8).

Nel suo libro La vita comune, Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) [Qui] scriveva: «Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo. Come l’amore di Dio incomincia con l’ascoltare la sua Parola, così l’inizio dell’amore per il fratello sta nell’imparare ad ascoltarlo. Chi non sa ascoltare il fratello ben presto non saprà neppure più ascoltare Dio; anche di fronte a Dio sarà sempre lui a parlare» (La vita comune, Brescia, 1969, 147-149).

Dopo l’intervento del papa, nella 75ª Assemblea generale straordinaria della Conferenza episcopale italiana, il 22-25 novembre 2021, la decisione unanime fu quella di mettersi in ascolto del popolo di Dio, di tutti i battezzati, e di «aprire il cuore e l’orecchio a quanti (…) sono rimasti ai margini della vita ecclesiale», di colmare «la distanza che separa il Vangelo dalla vita», di «riorganizzare la speranza, in una società che corre veloce lasciando spesso indietro i più deboli, che subisce il fascino mutevole delle mode, che parla linguaggi nuovi e fa dell’individuo il suo centro».

Così iniziò il primo tratto di quel processo di consultazione del cammino sinodale con la consapevolezza di dover dare spazio alla creatività di ciascuno, sino a consentirgli di travalicare i confini già tracciati.

La strada da percorrere, per quanto sconcertante possa sembrare, è quella dell’ascolto, del sostegno e della vicinanza, anche da parte dei pastori al popolo di Dio: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca, sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi lo riceve» (Ap 2,17).

Verso chi siamo in debito d’ascolto?

La risposta è venuta ai pastori dalle riflessioni e dagli interventi emersi nei 50.000 gruppi sinodali delle chiese e comunità cristiane, per un totale di 219 testi pervenuti alla CEI. Una cartina di tornasole che ha fornito un quadro delle aspirazioni di rinnovamento più avvertite tra i cristiani, senza risparmiare critiche al panorama ecclesiale italiano.

Così nella Sintesi nazionale della fase diocesana del cammino sinodale, pubblicata il 18 agosto 2022, si è evidenziato il fatto che la Chiesa italiana soffre di “un debito di ascolto” nei confronti di diversi soggetti, tra cui soprattutto i giovani, le vittime di abusi sessuali e di coscienza, i poveri.

È detto pure che la prassi dell’accoglienza dovrà ripartire innanzitutto dalle differenze, specie da quelle nei confronti delle quali le chiese e le comunità si sono mostrate più impermeabili. Differenze generazionali, nate da storie ferite, di genere, d’orientamento sessuale, culturali, sociali o legate alla disabilità.

Forte la sottolineatura sulla necessità di puntare alle relazioni, perché l’incontro con le persone diventi il centro stesso dell’azione pastorale, capace poi di avviare anche una trasformazione degli ambiti e dei soggetti che compongono le stesse istituzioni ecclesiali.

È proprio il lasciarsi permeare dalle differenze intra ed extra ecclesiali, che porterà alla luce il nuovo e indicherà le vie per realizzare quella “riforma della chiesa in uscita missionaria”, auspicata da papa Francesco nella Evangelii gaudium (n. 17).

In questa direzione si muove a non per caso l’intervento di apertura di papa Francesco al Congresso dei leader religiosi del mondo riuniti a Nur-Sultan in Kazakhstan a metà settembre:

«Ma come intraprendere una missione così ardua? Da dove iniziare? Dall’ascolto dei più deboli, dal dare voce ai più fragili, dal farsi eco di una solidarietà globale che in primo luogo riguardi loro, i poveri, i bisognosi che più hanno sofferto la pandemia, la quale ha fatto prepotentemente emergere l’iniquità delle disuguaglianze planetarie».

Ancora e sempre dall’ascolto verrà così la capacità di lavorare insieme nei cantieri di casa nostra: i “Cantieri di Betania”, così titola il testo che raccoglie le proposte e le indicazioni pastorali dei vescovi per il secondo anno della fase narrativa del sinodo.

Avevo già ricordato in precedenza che i cantieri sono tre: “cantiere della strada e del villaggio”, che implica l’ascolto dei diversi “mondi” in cui i cristiani vivono e lavorano, con la connessa questione dei differenti linguaggi da apprendere.

Poi quello “dell’ospitalità e della casa” (Betania casa degli amici): è questo il cantiere delle relazioni e delle strutture comunitarie da riformare e rendere vive, mettendo a tema, senza reticenze, ricchezze e limiti degli organismi ecclesiali di partecipazione.

Infine il cantiere “delle diaconie e della formazione spirituale”, che unisce la questione della corresponsabilità femminile nella comunità cristiana e l’ambito dei servizi e ministeri ecclesiali.

I Centri di ascolto

Nella proposta dei Cantieri di Betania vi è pure da svolgere un tema libero, da scegliersi in ciascuna chiesa; vedremo quale emergerà dalla nostra diocesi. Nel frattempo mi sono messo di buona lena e, dall’esperienza fatta in questi ultimi quattro anni nell’Unità pastorale di Borgovado, ho pensato che quello dei Centri di ascolto e del loro coordinamento sia un tema emergente e urgente, da focalizzare, perché capace di dare voce e fotografare non solo l’emergenza, i bisogni delle persone, la loro vita non buona e non condivisa, ma pure in grado di aprire le comunità a quel bene comune che si estrinseca in una cittadinanza solidale quale segno tangibile dell’annuncio evangelico.

Nei Centri di ascolto si prova a mettere in pratica un “ascolto attivo”, un’attitudine dialogica, in cui il momento emotivo si apre all’esperienza di un vero incontro empatico che continua nel tempo, capace di avvicinare le persone rendendole meno rigide e più permeabili di fronte alle differenze che caratterizzano questo nostro tempo.

L’ascolto attivo permette anche quelle connessioni formative e pastorali capaci di far interagire persone, ambiti e realtà diverse e di far emergere non solo la vita buona, ma pure il bene che hanno in comune.

Chiesa e territorio, parrocchie e città, visti come un unico “ecosistema” fatto di diversità che interagiscono nella ricerca e nello scambio, in vista di una vita buona per tutti.

Per le nostre comunità parrocchiali proprio la città nella sua complessità e diversità, con i suoi problemi e le sue periferie esistenziali, ma pure con le sue risorse, diventa spazio e scuola di umanità.

Ogni suo ambito, dalle università ai quartieri più poveri e marginali, può diventare uno spazio per la formazione e maturazione della coscienza personale, comunitaria ed ecclesiale, cantiere che pratica la cittadinanza e la mondialità.

Così i centri di ascolto, nella più ampio e attuale contesto del cantiere ecclesiale, possono diventare quello spazio pastorale di ospitalità, di scambio vitale che il concilio aveva indicato come luogo di evangelizzazione da attuarsi con una duplice apertura di ascolto: di Dio e dell’uomo.

Mi ha sorpreso e soprattutto incoraggiato a proseguire su questa strada l’ultimo numero dell’Osservatore di Strada, supplemento mensile dell’Osservatore Romano, voluto da papa Francesco come giornale che nasce dalla strada: “il giornale dell’amicizia sociale e della fraternità”. Il numero di ottobre è infatti tutto dedicato all’ascolto. L’editoriale di strada titola: Se non ascolti, l’elemosina la fai solo a te stesso.

«Ascolto le parole» dice il poeta Daniele Mencarelli [Qui]: «lì sta il senso della vita»; c’è un bene comune da trovare insieme perché dice ancora il poeta: «Tutto chiede salvezza».

Un volto d’uomo, un anziano che si affaccia sulla prima pagina come ad una finestra: ha preso la parola e anche le mani raccontano la sua storia.

E, appuntato lì vicino, un post-it con una poesia:

Si ascolta con gli occhi. Si parte da lì. Guardando.
Guardare chi si ha di fronte, e accogliere quello che ci sta dicendo,
ancora prima che abbia aperto bocca.
Ascoltare la sua figura, quello che ci dice il suo corpo.
Perché i corpi parlano infinite lingue.
Infine, ascoltare la sua voce.
La voce è un suono di carne.
E se la carne, o lo spirito, di chi ci sta parlando
è schiacciato dal peso del dolore, quel suono ne risente,
si incurva, spesso sprofonda,
altre volte diventa sottile come la punta di un ago.
E dice. Racconta. Rivela. O Mente. Fugge.
Ascoltare chi non ha parole, chi ne urla all’infinito,
chi ce le dice odiandoci, piangendo, chi scappando via.
Il dono, senza l’ascolto,
non è che un dare per annullare,
senza nulla aver dato veramente.
(D. Mencarelli in OdS, ottobre 2022)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

La libertà di Julian Assange è la libertà di tutti
Intervento di Fidel Narváez, ex Console dell’Ecuador a Londra

24 Stunden für Assange

La redazione di Pressenza ha chiesto questo articolo a Fidel Narváez, ex Cónsul del Ecuador en Londres per il libro su Julian Assange pubblicato dalla rivista Left in collaborazione con Pressenza. Fidel Narváez parteciperà alla 24 ore per la libertà di Julian Assange del prossimo 15 Ottobre.

Nell’estate del 2012 ho aperto la porta dell’ambasciata ecuadoriana a Londra per proteggere Julian Assange dalla persecuzione del più grande impero economico e militare della storia. Gli Stati Uniti e, più specificamente, il cosiddetto “complesso militare industriale” che è il vero potere, vogliono la testa di Julian come trofeo di guerra. Lo vogliono perché è la persona che più li ha messi in imbarazzo con le rivelazioni dei loro crimini di guerra, della tortura sistematica come pratica di Stato e dei panni sporchi della loro diplomazia nel mondo. Non è possibile avere un nemico più potente, né più vendicativo. Per questo motivo, da quando Julian Assange, attraverso WikiLeaks, ha osato pubblicare ciò che la stampa corporativa ha paura di pubblicare, il suo destino era segnato. I criminali di guerra che Julian ha smascherato lo perseguiteranno fino alla fine dei suoi giorni.

Quando Julian ha bussato alla porta dell’Ecuador, tutte le altre porte gli erano già state chiuse. Il suo stesso Paese, l’Australia, lo aveva abbandonato. E il Regno Unito, l’alleato più remissivo degli americani, ha agito chiaramente per compiacere la grande potenza. Qual è il dovere degli uomini di buona volontà quando un giornalista viene minacciato di ergastolo e di morte, torturato psicologicamente, diffamato e perseguitato per aver pubblicato la verità? Qual è il dovere delle nazioni che affermano di difendere i diritti umani e la giustizia, quando un innocente ha un disperato bisogno di protezione? Perché nessun altro paese ha osato proteggere Julian Assange?

Julian non ha scelto a caso la porta dell’ambasciata ecuadoriana. Nel 2012, il mio Paese aveva il governo più progressista della sua storia. La nostra politica internazionale aveva mostrato solidi segni di sovranità. Il governo del presidente Rafael Correa aveva già rimosso la più grande base militare statunitense in Sudamerica; aveva espulso diversi diplomatici americani per il loro diretto coinvolgimento con i nostri servizi di polizia e di intelligence; ci eravamo opposti con fermezza alle imprese transnazionali. L’Ecuador aveva espulso l’ambasciatore americano dal Paese, in seguito alle rivelazioni di WikiLeaks che hanno rivelato la sua mancanza di rispetto per il nostro Paese.

All’epoca, il mio Paese aveva una solida stabilità politica e il suo presidente godeva di grande popolarità e legittimità democratica. L’Ecuador è stato l’unico Paese a chiedere a WikiLeaks di pubblicare tutti i cablogrammi diplomatici che lo riguardano, senza eccezioni, in una dimostrazione di trasparenza che ha sicuramente contribuito a far sì che Julian vedesse l’Ecuador come un alleato fidato.

Quando i sistemi giudiziari non funzionano per proteggere i diritti, l’ultima risorsa è quella di chiedere asilo politico, un diritto sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. L’Ecuador, fin dall’inizio, ha cercato di ottenere garanzie da Svezia e Regno Unito che Julian non sarebbe stato estradato negli Stati Uniti. Nessuno degli sforzi compiuti dall’Ecuador e dagli avvocati di Julian nei sette anni successivi ha avuto alcun effetto positivo, poiché nessuno di questi Paesi aveva il minimo interesse ad agire con giustizia.

L’ex relatore delle Nazioni Unite contro la tortura, Nils Melzer, dopo aver analizzato rigorosamente il caso di Julian Assange, ha dichiarato: “In 20 anni di lavoro con le vittime della guerra, della violenza e della persecuzione politica, non ho mai visto un gruppo di Stati democratici organizzarsi per isolare, demonizzare e abusare deliberatamente di una singola persona per così tanto tempo e con così poco riguardo per la dignità umana e lo stato di diritto”.

Mi permetto di parlare in prima persona del ruolo del mio Paese, che alla fine è diventato anche il Paese di Julian, che ha vissuto nella nostra ambasciata per quasi sette anni. L’ambasciata è un piccolo appartamento che non era stato progettato per essere abitato. Si tratta di non più di 200 metri quadrati in totale, di cui a Julian sono stati assegnati solo un paio di spazi ad uso esclusivo: una stanza che fungeva da camera da letto, un bagno che è stato dotato di doccia e un ambiente di lavoro che condivideva con altri diplomatici. Inoltre, Julian condivideva con tutto il personale dell’ambasciata un piccolo spazio adattato a cucina e un bagno di uso comune. Non c’è un cortile interno, né un luogo dove prendere aria fresca. La già scarsa luce solare di Londra era praticamente inesistente. Sempre sottoposto alla luce artificiale, Julian paragonava la sua permanenza in quell’appartamento alla vita all’interno di un’astronave. È difficile immaginare una reclusione così lunga in tali condizioni.

Per i primi tre anni, l’ambasciata è stata circondata dalla polizia all’esterno e nell’atrio dell’edificio. Per i quattro anni successivi, la sorveglianza è stata segreta, ma non meno invasiva. Gli inglesi avevano sempre telecamere e microfoni ad alta potenza dislocati negli edifici circostanti, cercando di cogliere il nostro minimo sussurro. I nostri telefoni erano sempre sotto controllo. La nostra ambasciata era, senza dubbio, il luogo più sorvegliato del mondo. In un primo momento siamo stati sorvegliati dagli inglesi e da altre agenzie di intelligence, ma nell’ultimo anno di asilo, quando è cambiato il governo dell’Ecuador, anche dai servizi segreti ecuadoriani che, oltre a proteggerci, hanno finito per diventare un meccanismo di spionaggio contro Julian.

Con il passare del tempo, per Julian cominciarono a manifestarsi problemi di salute. La mancanza di sole e delle vitamine che esso fornisce ha influito sul colore già pallido della sua pelle. Una delle sue spalle aveva bisogno di essere esaminata con apparecchiature mediche impossibili da ottenere in ambasciata. Né è stato possibile risolvere tutti i suoi problemi dentali. A causa della reclusione, Julian mostrò presto problemi di vista, non riuscendo più a distinguere facilmente i colori. Gli inglesi non ci hanno mai permesso di portarlo in un centro sanitario per un controllo adeguato. Uno dei medici che lo hanno visitato, Sondra Crosby, ha inviato una diagnosi al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, affermando che, in termini di assistenza sanitaria, la situazione di Julian nell’ambasciata era peggiore di quella di una prigione convenzionale e che il suo confinamento indefinito e incerto aumentava il rischio di stress cronico, nonché di rischi fisici e psicologici, compreso il suicidio. Il medico ha detto che alla fine del suo asilo Julian aveva “un trauma psicologico acuto, paragonabile a quello dei rifugiati che fuggono da zone di guerra… È ad altissimo rischio di suicidio se venisse estradato… È nello stesso stato psicologico di chi è stato inseguito da un uomo con un coltello e poi si chiude in una stanza e non ne esce”.

In queste condizioni, il livello di resistenza di Julian, sia fisica che psicologica, è incredibile, così come la sua forza di volontà di non arrendersi e consegnarsi alle grinfie della polizia britannica. Per i primi sei anni, quando l’Ecuador lo proteggeva davvero, il suo rapporto con il personale diplomatico e gli altri funzionari è sempre stato di reciproco rispetto. Insieme abbiamo condiviso innumerevoli feste, compleanni, addii, pasti o semplicemente un caffè per discutere di politica e delle ingiustizie di questo mondo. Julian è sempre stato grato all’Ecuador.

In tutti gli anni in cui l’Ecuador lo ha protetto, con le limitazioni della reclusione, Julian ha potuto esercitare il suo diritto al lavoro e ad esprimersi liberamente. Non ricordo una sola occasione in cui ho visto Julian annoiarsi o non sapere cosa fare. Era sempre occupato, sempre al lavoro. Durante il suo soggiorno, ha curato diversi libri e WikiLeaks ha continuato a pubblicare con la stessa veemenza di sempre. Ha ricevuto quasi mille visitatori da tutto il mondo, di tutti i profili possibili: intellettuali, artisti, dissidenti, giornalisti, politici, attivisti… Ha rilasciato centinaia di interviste e decine di conferenze via internet.

Nel 2015, il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria si è pronunciato contro il Regno Unito e la Svezia, definendo la situazione di Julian come detenzione arbitraria, chiedendo a questi due Paesi di consentire il suo rilascio e persino di risarcirlo per i danni causati.

Nel dicembre 2017, l’Ecuador gli ha concesso la cittadinanza ecuadoriana, a cui aveva diritto dopo aver vissuto nella nostra giurisdizione per più di 5 anni come persona sotto protezione internazionale. Nel maggio 2018, la Corte Interamericana dei Diritti Umani (l’equivalente della Corte Europea dei Diritti Umani) ha istruito l’Ecuador sui suoi obblighi di asilo diplomatico, stabilendo che il mio Paese non può consentire l’estradizione di un rifugiato politico.

Ma l’Ecuador sovrano e progressista sotto la presidenza di Rafael Correa è cambiato radicalmente quando è stato tradito dal nuovo presidente, Lenin Moreno. Gradualmente, Moreno iniziò a distruggere tutto ciò che era stato costruito dal suo predecessore e cambiò la politica internazionale di 180 gradi, arrendendosi completamente agli Stati Uniti. Julian divenne così un “sassolino nella scarpa” e la sua testa oggetto di una squallida contrattazione.

La strategia di Moreno era tanto rozza quanto crudele. Per otto mesi, a partire da marzo 2018, Julian è stato in completo isolamento. Niente internet, niente telefono e niente visite, a parte i suoi avvocati. Lenin Moreno trasformò l’ambasciata in una prigione. Noi diplomatici siamo stati gradualmente cambiati, a partire da quelli di noi che erano incompatibili con la nuova politica del governo, e siamo stati sostituiti da nuovi funzionari che avevano l’incarico di molestare e provocare Julian, al fine di generare incidenti che sarebbero serviti al governo come pretesto per espellerlo dall’ambasciata.

L’ultimo anno di Julian all’ambasciata, sotto il governo di Lenin Moreno, fu un inferno. L’unica nazione che lo aveva protetto fino a quel momento divenne il suo persecutore. Poiché la strategia di spezzare Julian per costringerlo a partire di sua spontanea volontà è evidentemente fallita, il governo ha avviato segretamente trattative con gli americani e gli inglesi per la consegna del richiedente asilo. In uno dei capitoli più vergognosi della storia del mio Paese, l’11 aprile 2019 Lenin Moreno ha permesso a una forza straniera di entrare nella mia ambasciata per sequestrare, con la forza, il più importante rifugiato politico del mondo e consegnarlo ai suoi persecutori.

Se estradato, Julian verrebbe processato in base alla legge sullo spionaggio e diventerebbe il primo giornalista della storia a essere processato in base a tale legge. L’ufficio del procuratore generale degli Stati Uniti ha anche avvertito che, in quanto cittadino straniero, Julian Assange non può invocare il Primo Emendamento degli Stati Uniti. In altre parole, negli Stati Uniti a uno straniero si applicano le sanzioni, ma non le tutele della legge. Il processo si svolgerà presso la “Corte di Spionaggio”, in cui rientrano i casi di “sicurezza nazionale”. Si tratta dello stesso tribunale che nel 2010 ha aperto l’indagine “segreta” contro Julian, per la quale ha chiesto asilo politico in Ecuador. Il tribunale si trova nel distretto orientale della Virginia, dove hanno sede la CIA e i principali appaltatori della sicurezza nazionale. La giuria proviene quindi dal luogo con la più alta concentrazione di “comunità di intelligence” statunitense, dove Julian non avrà alcuna possibilità di avere un processo equo. In effetti, nessun imputato di spionaggio è mai stato assolto in quel tribunale.

Se accusato di spionaggio, Julian Assange verrebbe imprigionato in isolamento, sotto le cosiddette “misure amministrative speciali”, il che significa praticamente nessun contatto umano. Queste condizioni sono una condanna a morte vivente. Gli Stati Uniti chiedono una pena di 175 anni di carcere, non per un criminale, ma per chi ha smascherato i criminali.

Il famoso professore Noam Chomsky, nella sua testimonianza scritta, ha dichiarato alla corte di Londra: “Julian Assange… ha reso un enorme servizio a tutte le persone del mondo che hanno a cuore i valori della libertà e della democrazia e che quindi chiedono il diritto di sapere cosa fanno i loro rappresentanti eletti. Le sue azioni, a loro volta, lo hanno portato a essere perseguitato in modo crudele e intollerabile”.

Un mondo in cui i criminali restano impuniti e i coraggiosi che svelano i crimini vengono puniti è un mondo che va combattuto. E Julian ha sacrificato la sua libertà perché vuole che tutti noi possiamo vivere in un mondo diverso. Pertanto, la libertà di Julian è la libertà di tutti.

Ora che nessuna nazione protegge più Julian Assange, egli dipende soprattutto dalla nostra solidarietà.

Fidel Narváez, ex Console dell’ Ecuador a Londra

Tradotto dallo spagnolo da Thomas Schmid per équipe traduttori Pressenza

LE DONNE, LA POLITICA E GIORGIA MELONI

In Italia, come in gran parte del mondo, le vicissitudini delle donne in politica sono recenti e caratterizzate da una forte asimmetria nei confronti degli uomini. Il cammino delle donne in politica data più di un secolo e non si è certo concluso.

Le donne nella politica italiana: una lunga storia

Nonostante la scarsità di partecipazione femminile alla politica almeno fino agli inizi degli anni 2000, ci sono diverse figure femminili che possono essere ricordate per l’impegno e l’apicalità dei ruoli ricoperti.
La prima donna ministro italiana è stata Tina Anselmi, che nel 1976, fu ministro del lavoro nel governo Andreotti III.  Tina Anselmi ha dedicato tutta la vita alla democrazia e ai destini delle donne diffondendo i principi di partecipazione e parità nella scuola, nel sindacato, nel movimento femminile della Democrazia Cristiana, in Parlamento. Deputata per sei legislature, è stata ministro della Sanità e del Lavoro. Ha inoltre presieduto due importanti Commissioni Parlamentari. Una sulle Pari Opportunità e una sulla loggia massonica P2.  Una donna determinata e impegnata che è riuscita a lasciare il segno nella politica italiana, allora più pervasa di oggi da logiche maschiliste. Di Tina Anselmi si veda la sua biografia sulla Enciclopedia delle Donne .

Nilde Iotti, forse la più importante politica italiana di sempre. Nel 1946 fece parte del gruppo incaricato della scrittura dei testi della Costituzione. Dal 1948 al 1999 fu deputato e nel 1979 divenne la prima donna a ricoprire la carica di presidente della Camera, dove rimase per tre legislature.

Lina Merlin, nata nel 1887, che iniziò la carriera come insegnante ma che ben presto finì per ricoprire un ruolo di primo piano in politica. Componente dell’Assemblea Costituente, fu la prima donna a essere eletta al Senato della Repubblica. E’ stata promotrice prima firmataria della  legge 20 febbraio 1958, n. 75 che impose la chiusura delle case di tolleranza, nota appunto come  Legge Merlin.

Lidia Ravera, amica di Antonio Gramsci, dirigente del Partito Comunista in clandestinità, arrestata, imprigionata e quindi mandata al confino a Ventotene. Parlamentare dal 1948 al 1958, fu nominata senatrice a vita da Sandro Pertini nel 1982.

Rosa Russo Iervolino che oltre a essere stata sindaco di Napoli, è stata più volte ministro. Ministro senza portafoglio per gli affari sociali dal 13 aprile 1991 al 27 giugno 1992 (Governo Andreotti-VII), Ministro della pubblica istruzione dal 28 giugno 1992 al 27 aprile 1993 (Governo Amato-I), Ministro della pubblica istruzione dal 28 aprile 1993 al 9 maggio 1994(Governo Ciampi-I).

Liliana Segre, nata il 10 settembre 1930 e superstite dell’Olocausto. Nel 2018 è stata nominata “senatrice a vita” dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella “per aver servito la Patria con altissimi meriti nel campo sociale”.

Maria Elisabetta Alberti Casellati, classe 1946, politica e avvocato, la prima donna italiana a ricoprire, da marzo 2018, la carica di Presidente del Senato della Repubblica (che è la seconda più importante della Repubblica Italiana, dopo quella del Capo di Stato).

Ci sono molte altre donne che hanno ricoperto ruoli politici importanti garantendo, a loro stesse e ai loro partiti visibilità, ad esempio: Emma Bonino, Laura Boldrini, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini, Virginia Raggi, Maria Elena Boschi, Anna Finocchiaro, Rosy Bindi, Irene Pivetti, Annamaria Cancellieri e Federica Mogherini.

Ciò non toglie che l’esiguità della rappresentanza femminile nell’arena politica sia restata evidente, nel nostro paese, fino agli inizi di questo secolo.

Una importante tappa per il cammino delle pari opportunità in ambito politico avvenne nel 1993 quando, durante il Governo Amato I, si fecero i primi tentativi per aumentare il numero di donne in politica, soprattutto per quanto riguarda le cariche elettive, attraverso l’introduzione di quote di genere. Tale novità riguardò inizialmente solo le elezioni locali. La legge del 25 marzo 1993 n. 81 prevedeva una modifica nell’elezione dei Sindaci e degli Assessori comunali che impediva di presentare liste in cui i candidati maschi superassero di due terzi il totale. Nel 1994 la medesima legge fu estesa a livello nazionale per le elezioni parlamentari di quell’anno. Tuttavia, con la legge n. 422 del 6 settembre 1995, la Corte costituzionale emise una sentenza di illegittimità che vanificò gli sforzi fatti. I progressi verso la parità sono sempre circolari e si caratterizzano per momenti di grande impulso e per successivi momenti di implosione.

Nel 1995, anno storico per il cammino verso la parità, ci fu un importante evento che accelerò alcune tendenze paritarie: La conferenza delle Donne di Pechino. In tale sede sono state introdotte due parole chiave per accrescere il protagonismo delle donne: empowerment e mainstreaming.
Il primo termine
fa riferimento alla conquista della consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni, sia nell’ambito delle relazioni personali sia in quello della vita politica e sociale.
Il secondo fa riferimento al processo attraverso il quale, innovazioni sperimentate in un ambito circoscritto (sociale, economico o istituzionale), vengono trasposte a livello di sistema diventando leggi, prassi ecc.

Due anni dopo con la Direttiva CPM del 7 marzo 1997 (Prodi-Finocchiaro) si recepiscono anche in Italia tali indicazioni denunciando la marginalità femminile e sollecitando una maggiore presenza delle donne nelle sedi decisionali, nelle professioni, nelle aziende, nella pubblica amministrazione e nelle istituzioni politiche.

Circa dieci anni fa, il 28 giugno 2011, il Parlamento italiano approvava la legge Golfo-Mosca, che impone quote di genere nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali delle società quotate in Italia.

Infine il Parlamento Italiano ha approvato nel 2012 nuove norme che obbligano gli statuti degli enti locali a promuovere la parità nelle giunte, negli enti e nelle aziende/istituzioni da essi dipendenti, a garantire che ciascuno dei due generi sia rappresentato per almeno un terzo nelle liste elettorali e a introdurre la doppia preferenza di genere per i candidati al Consiglio comunale: l’elettore può esprimere due preferenze, purché siano di genere diverso. [Vedi qui]

Le ultime elezioni.

Il 25 settembre 2022 si è votato per eleggere la Camera e il Senato Italiani.  La legge elettorale attuale prevede una serie di misure volte a garantire la rappresentanza di genere. In particolare, erano previste le seguenti tre condizioni:
– ogni partito o coalizione non poteva avere  più del 60% di candidati dello stesso genere nei collegi uninominali: questo valeva a livello nazionale per la Camera e a livello regionale per il Senato
– ogni partito non poteva avere più del 60% di capi-lista dello stesso genere nella parte proporzionale: anche qui il criterio è stato nazionale alla Camera e  regionale al Senato
– i candidati nelle liste plurinominali dovevano essere alternati per genere.

I risultati in termini di partecipazione femminile possono essere riassunti in alcune considerazioni di sintesi: i partiti con la minore presenza di donne sono quelli della coalizione vincente, mentre i partiti più virtuosi da questo punto di vista sono Italia Viva/Azione e il M5S rispettivamente con il 47% e il 46%.
Il partito che peggiora maggiormente rispetto alle politiche precedenti è Forza Italia.

Tra i meccanismi che hanno maggiormente contribuito alla penalizzazione delle donne c’è lo stratagemma delle pluri-candidature usato da diversi partiti tra i quali: Fratelli d’Italia, Lega e PD. Attraverso questo meccanismo i partiti hanno messo le candidate in più collegi plurinominali possibili. Siccome la persona poteva essere eletta in un solo collegio, negli altri subentravano candidati uomini (secondi in lista secondo la regola dell’alternanza di genere).  L’espediente delle pluri-candidature, ha portato a un sensibile calo delle donne elette in parlamento. [Vedi qui]

Giorgia Meloni, il suo passato e un futuro da scrivere

Il partito cha ha avuto il maggior numero di voti è Fratelli D’Itala la cui Leader è Giorgia Meloni. La Meloni è stata dal 2006 al 2008 vicepresidente della Camera dei deputati e, dal 2008 al 2011, ministro per la gioventù nel quarto governo Berlusconi.
È stata presidente della Giovane Italia, dopo aver ricoperto la medesima carica in Azione Giovani e Azione Studentesca. Non condividendo il supporto dato dal Popolo della Libertà al governo Monti, ne è fuoriuscita e ha fondato, insieme a Ignazio La Russa e Guido Crosetto, il partito Fratelli d’Italia, di cui è presidente dall’8 marzo 2014.

Giorgia Meloni insegue valori di destra, nazional-conservatori e nazionalisti. 

È contraria al matrimonio omosessuale, all’adozione per le coppie gay e anche alle misure di contrasto e prevenzione dell’omo-transfobia.
Si oppone alla concessione della cittadinanza ai figli minorenni di stranieri regolari nati e cresciuti in Italia, ovvero allo ius soli.
È contraria alla legalizzazione dell’eutanasia.
È contraria al reddito di cittadinanza.
Propone l’elezione diretta del presidente della Repubblica.

A livello internazionale ha rapporti positivi con vari politici di destra europei: con l’ungherese Viktor Orbán (Fideszcon), lo spagnolo Santiago Abascal (Vox), con esponenti del partito polacco Diritto e Giustizia, con esponenti del Partito Repubblicano statunitense. È inoltre presidente del Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei di orientamento nazional-conservatore, di cui fanno parte anche gli spagnoli di Vox, i polacchi di Diritto e Giustizia, i bulgari del Movimento Nazionale Bulgaro.

Buon lavoro quindi a Giorgia Meloni, sperando che il tema della parità dei diritti e della rappresentanza femminile non venga relegato all’ultimo piano di una agenda politica già molto ricca.

Verificheremo se partendo da una ideologia di destra, sia comunque possibile trovare lo spazio per una riflessione sulla parità e la giustizia sociale che si ricordi di tutte le battaglie fatte per la “pari dignità” di tutti i cittadini.
E’ sempre utile, e su questo credo che non ci siano opposizioni che tengano, continuare una riflessione sul significato di progresso e civiltà.

Fermate la guerra: negoziato e Conferenza di Pace subito.
Dal 21 al 23 ottobre Europe for Peace in piazza. Anche in Italia.

(Ancora da definire la data della manifestazione nazionale in Italia)

Fermate la guerra: negoziato subito. L’ONU convochi una Conferenza Internazionale di Pace 

Ritorna la mobilitazione diffusa di Europe For Peace: dal 21 al 23 ottobre di nuovo nelle piazze di tutta Italia

La coalizione Europe for Peace, formata dalle principali reti per la pace in Italia con l’adesione di centinaia di organizzazioni, profondamente preoccupata per l’escalation militare che ha portato il conflitto armato alla soglia critica della guerra atomica, torna di nuovo nelle piazze italiane per chiedere percorsi concreti di Pace in Ucraina e in tutti gli altri conflitti armati del mondo.

Un nuovo passo comune che avviene dopo l’importante mobilitazione dello scorso 23 luglio (con 60 città coinvolte) e l’invio di una lettera al Segretario Generale ONU Guterres in occasione della Giornata della Pace per un sostegno ad azioni multilaterali, le uniche capaci di “portare una vera democrazia globale, a partire dalla volontà di pace della maggioranza delle comunità e dei popoli”. E dopo la quarta Carovana “Stop The War Now” recentemente rientrata dal Kiev dove ha portato il sostegno della società civile italiana ad associazioni ed obiettori di coscienza ucraini, oltre che nuovi aiuti umanitari.

L’appuntamento è per il weekend dal 21 al 23 ottobre (ad otto mesi dall’invasione russa e alla vigilia della Settimana ONU per il Disarmo) ancora una volta con l’invito – rivolto ad associazioni, sindacati, gruppi che già sono attivi da mesi – ad organizzare iniziative di varia natura per rilanciare l’appello già diffuso a luglio con la richiesta di cessate il fuoco immediato affinché si giunga ad una Conferenza internazionale di Pace.

Nel testo sottoscritto dalle aderenti di Europe for Peace si sottolinea come “l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha riportato la guerra nel cuore dell’Europa ed ha già fatto decine di migliaia di vittime e si avvia a diventare un conflitto di lunga durata” portando conseguenze nefaste “anche per l’accesso al cibo e all’energia di centinaia di milioni di persone, per il clima del pianeta, per l’economia europea e globale”. Ribadendo la vicinanza alle popolazioni colpite dalla guerra si ricorda poi come occorra cercare “una soluzione negoziale, ma non si vedono sinora iniziative politiche né da parte degli Stati, né da parte delle istituzioni internazionali e multilaterali” sottolineando come invece sia necessario “che il nostro Paese, l’Europa, le Nazioni Unite operino attivamente per favorire il negoziato avviando un percorso per una Conferenza internazionale di pace che, basandosi sul concetto di sicurezza condivisa, metta al sicuro la pace anche per il futuro”. Anche alla luce delle rinnovate ed inaccettabili minacce nucleari.

Rilanciata anche la posizione di base del movimento pacifista italiano fin dall’inizio del conflitto ucraino: “Le armi non portano la pace, ma solo nuove sofferenze per la popolazione. Non c’è nessuna guerra da vincere: noi invece vogliamo vincere la pace” e per tale motivo viene proposta una nuova occasione nazionale di mobilitazione per la pace, con uno chiaro obiettivo: “TACCIANO LE ARMI, NEGOZIATO SUBITO! Verso una Conferenza internazionale di pace”.

Che la guerra non sia la soluzione ma sia una delle principali cause delle crisi da cui il nostro sistema e la nostra società non riescono più a liberarsi è sempre più evidente. La guerra scatena l’effetto domino in una società globalizzata, interdipendente, invadendo ogni ambito e spazio: crollano i mercati ed il commercio, aumentano i costi delle materie prime e di ogni unità di prodotto, l’inflazione galoppa ed i salari perdono potere d’acquisto, ritornano la fame, le carestie e le pandemie nel mondo. Dire basta alle guerre ed alla folle corsa al riarmo e nell’interesse di tutti e di tutte. E’ l’unica strada che ci può far uscire dalla crisi del sistema.

Le iniziative che verranno definite e programmate nei prossimo saranno comunicate e rilanciate da tutte le organizzazioni parte di Europe for Peace

guerra

Vedi anche su periscopio l’articolo di Corrado Oddi “Guerra e page”

Don Giovanni va in Corea

Il Teatro Comunale Claudio Abbado di Ferrara è pronto per il debutto in Oriente. Lo spettacolo sarà in scena all’Opera House di Daegu, la capitale della lirica in Corea del Sud.

Il cast del Don Giovanni di Mozart, la produzione del Teatro Comunale di Ferrara con cui per la prima volta il teatro intitolato a Claudio Abbado arriva in oriente: è pronto per esibirsi in Corea del Sud, venerdì 7 e sabato 8 ottobre, nel prestigioso Daegu Opera House, primo teatro del Paese che si occupa esclusivamente d’opera. Costruito a inizi degli anni Duemila, il teatro può ospitare 1490 persone e, con i suoi sei piani (quattro esterni e due sotterranei), incarna la curva di un pianoforte a coda.

L’opera mozartiana, ambientata nel mondo di un circo della Belle Époque, aveva debuttato il primo luglio scorso a Ferrara, coinvolgendo un cast vocale di giovani talenti, tutti under 35, selezionati tra oltre 350 candidature arrivate da tutto il mondo da Leone Magiera, già scopritore di nuove voci e preparatore musicale di grandi protagonisti del bel canto come Luciano Pavarotti e Mirella Freni.

Nella metropoli coreana, sono giunti il regista argentino Adrian Schvarzstein, l’aiuto regista Jurate Sirvyte Rukstele, il direttore d’orchestra Daniel Smith e il cast vocale, composto da Giovanni Luca Failla nel ruolo di Don Giovanni, Alessandro Agostinacchio (Il Commendatore), Yulia Merkudinova (Donna Anna), Lorenzo Martelli (Don Ottavio), Marta Lazzaro (Donna Elvira), Giulio Riccò (Leporello), Valerio Morelli (Masetto) e Silvia Caliò (Zerlina), oltre all’acrobata Angela Francavilla. Insieme al cast artistico, parte del team del Teatro Comunale di Ferrara è volato a Daegu, fra i quali il direttore tecnico Andrea Carletti, il capo elettricista Marco Cazzola (light designer per la produzione Don Giovanni), Chiara Tarabotti, direttore di scena, e Mattia Mazzini, maestro collaboratore alle luci. Li hanno raggiunti, in rappresentanza della città di Ferrara e del teatro, Anna Rosa Fava e il direttore artistico Marcello Corvino.

La Corea del Sud è una nazione in forte espansione, sensibile alla cultura e all’arte in tutte le sue sfaccettature. Con il suo cinema e la sua musica pop sta ricevendo apprezzamenti e riconoscimenti da tutto il mondo. Anche nella musica lirica c’è originalità che incontra la curiosità: per questo il Teatro ospiterà Ferrara la nuova Turandot prodotta da Daegu, in programma a novembre 2023. Il filo rosso continua.

 

Foto di Marco Caselli Nirmal, cortesia ufficio stampa Teatro Comunale di Ferrara. Immagine in evidenza Daegu Opera House (Corea del Sud)

UNA STORIA DIMENTICATA
Cadde nella ghisa incandescente e sparì: ecco cosa rimane dell’Operaio Ignoto

 

(Taranto 29 settembre 2022)
Cadde in un carro siluro. E subito si liquefece nella ghisa incandescente.

Era un operaio dell’Italsider di Taranto.

I funerali si celebrarono con una bara in cui furono posti settanta chili di ghisa.

Per anni il carro siluro, con l’operaio dentro, fu parcheggiato in un binario morto della fabbrica. Perché nessuno se la sentiva di rimetterlo in produzione.

Poi se ne è persa memoria.

Nessuno più si ricorda il suo nome e cognome.

Si è perso anche l’anno della morte.

Nessuna strada è mai stata intitolata a lui.

Ma i vecchi operai ancora in vita si ricordano questa storia, ed è uno di loro che la raccontò dieci anni fa in piazza Masaccio, nel quartiere Tamburi di Taranto. Gli altri ex operai aggiunsero in quell’occasione alcuni particolari, a conferma dell’accaduto.

Oggi decido di scriverne, prima che la già sbiadita memoria si sbiadisca del tutto.

(Taranto, 4 ottobre 2022)

Come il Milite Ignoto se ne sono quasi perse le tracce, la storia sembra finita nell’oblio. Ma lanciando una condivisione sociale della memoria stanno emergendo i dettagli di una storia tramandata solo oralmente. Una storia finora mai scritta, chissà perché.
Il 29 settembre scorso ho scritto un post su Facebook per ricordare l’Operaio Ignoto.

Ed è bastato lanciare una gara di cooperazione fra persone che ne vogliono recuperare la memoria, per far emergere i dettagli di una storia tramandata oralmente ma mai scritta, chissà perché. Molti ricordano quei settanta chili di ghina nella bara, dato che il corpo dell’operaio non venne mai recuperato.

Qui di seguito riporto i ricordi che tentano di ricostruire la storia. A volte i ricordi non combaciano, ma qui di seguito ne cito alcuni.

Una signora ha scritto: “Ricordo perfettamente quel giorno in cui mio padre di ritorno dal lavoro ci raccontò di quell’operaio, un suo lontano parente! Se ricordo bene i suoi colleghi misero il suo casco su quei 70 chili di ghisa! Sua moglie fu indennizzata e nessuno ne parlò più!”

Alla domanda “che anno era?” l’ex operaio Peppe Roberto risponde: “Era il 1981”. E aggiunge: “Non so con precisione se il carro siluro fosse pieno o parzialmente, comunque la ghisa lì aveva una temperatura di 1520 gradi”.

Francesco scrive riportando i ricordi di suo padre, testimone dell’accaduto: “Quando cadde nel siluro si vide una fiammata, lo vaporizzò. Sicuramente non ebbe nemmeno il tempo di capire quello che stava per capitargli. Tutto avvenne in un lampo. E così pure in un nulla svanì la faccenda”.

Silvia scrive: “E’ incredibile che un fatto cosi’ grave sia passato completamente sotto silenzio”.

Un’altra testimonianza: “Mio padre fu testimone di questo episodio drammatico avvenuto in un periodo in cui gli incidenti là dentro erano il pane quotidiano. Mi ha raccontato che gli operai, tra cui lo sfortunato che morì, lavoravano vicino a un macchinario dotato di volano ad avviamento manuale. Questo volano, di fatto un grosso manubrio metallico, era dotato di un asse saldato di traverso al manubrio, asse che serviva per muoverlo. Per fare sì che potessero impugnare l’asse più operai, era stata fatta una “prolunga” saldando all’asse un pezzo di tubo più lungo e in questo modo due o tre operai affiancati potevano impugnare il tubo e far forza assieme per avviare il volano. Una volta avviato, il volano girava assieme al motore e questo, purtroppo, assieme all’asse che gli operai avevano modificato allungandolo, e occorreva prestare attenzione a quel tubo che roteava con il manubrio. In pratica proprio quel tubo agganciò la tuta del malcapitato e lo catapultò in aria. Finì così nel carro siluro. Mio padre me ne ha parlato qualche volta di questo episodio. Ma in generale l’epoca Italsider la ricorda come caotica, con moltitudini di operai ovunque e rottami dappertutto. E tanti, troppi incidenti”.

Peppe Roberto interviene: “Sì, confermo la dinamica dell’incidente, me lo raccontarono gli altri operai presenti”.

Altra conferma: “Il tubo che girava lo agganciò da dietro alla cinta della tuta e lo lanciò in aria sotto gli occhi dei suoi colleghi, nessuno ebbe modo e tempo di fare nulla!”

E una signora aggiunge una storia inquietante: “Due mesi dopo capitò anche a mio marito la stessa caduta ma ebbe la fortuna di cadere sulla parte meccanica portando solo una frattura al piede”.

Molto articolato l’intervento di Francesco Caiazzo: “Ho svolto una tesi in storia delle donne sulla fabbrica di Taranto. Le donne c’erano! Qualcuno si ricorda lo sciopero delle impiegate ad inizio anni Settanta? Sarebbe interessante discuterne insieme. E ho registrato diverse storie di vita raccontate da operai, cittadini ecc. Un operaio entrato nel 1974 mi ha raccontato: «Credo che non eravamo ancora usciti e sentimmo che Capone [nome fittizio] era caduto nel carro siluro. Oddio, un amico, un collega. Era successo che… i carri siluri contengono circa 240 tonnellate di ghisa e quello quando doveva andare in colata. . . e c’erano due comandi, quello pneumatico che stava giù e poi a due metri stava quello manuale nel caso in cui [quello pneumatico] si bloccava […]. C’erano due operai, ci fu un malinteso senz’altro, che poi lì non si capì niente, imbrogliarono un po’ le carte. Uno stava sopra alla manovella e dato che quando tu usavi il pneumatico, le due assi laterali che giravi automaticamente facevano un giro: o non si capirono o quello che stava giù non vide, come successe non lo so. Azionò il pneumatico, prese l’operaio e lo butto nel carro siluro e scoppiò, era bollente, era rosso, scoppiò e recuperarono solo l’elmetto e niente più. Anzi poi ho saputo che l’azienda lo diede per disperso perché non si trovò traccia. Fu dato per disperso, il resto non lo so come è andato […]. La potenza che c’aveva a quell’epoca l’Italsider imbrogliava tutto. Pure oggi si camuffa un po’ tutto. La moglie fece causa, pero i magistrati lo diedero per disperso». Credo sia molto importante quello che richiama il professore Alessandro Marescotti, cioè la necessità e insieme il bisogno di registrare anche queste memorie del lavoro in fabbrica. Io ho utilizzato la storia orale, cioè una storia ricostruita anche con l’uso delle fonti orali, vale a dire storie di vita raccontate dalle persone coinvolte. Credo sia una possibilità per arricchire la memoria pubblica di cosa ha significato la siderurgia per Taranto e soprattutto per i tarantini. Un abbraccio e buon lavoro a tutte e a tutti”.

La storia è stata rilanciata da Made in Taranto. Il social network è molto seguito. E riesce a raccogliere altre storie connesse a quella principale. Daniela scrive: “Ricordo che andavo a scuola, forse era il quarto o il quinto liceo. Sopraggiunse la notizia che un dipendente dell’ilva era caduto nella colata di ghisa. Molti di noi non riuscirono più a concentrarsi nella giornata di studio avendo il padre che lavorava li. Ricordo il freddo che provai quel giorno fino al ritorno a casa e il sollievo di sapere che non era toccata a mio padre”.

Leanardo Capobianco segnala: “Mi sia consentito citare il mio libro ‘Italsider, Lavoro e Paura’, un libro di oltre 300 pagine e circa 200 foto dello stabilimento dove si narra di tutto, incidenti compresi. Si trova su Amazon”.

Mimma ricorda: “Era un collega di mio zio! Lo ricordo benissimo! E ricordo la disperazione di mio zio, poi morto di tumore, grazie al luogo dove lavorava!”

Girolamo riceve 17 like per questo commento: “Quel carro siluro doveva essere posizionato in un luogo della città di Taranto. Doveva essere l’emblema degli operai morti in quella fabbrica”.

Ma Grazia annota mestamente: “Mio marito me l’ha raccontata tante volte questa storia, lui era lì vicino. Quanti fantasmi si portano dentro gli operai in pensione dell’Italsider/Ilva!!”

Marcella: “Ricordo quella storia… ce la raccontò disperato mio padre quando tornò dal turno… c’era molta solidarietà fra il personale che rischiava la vita per portare il pane a casa ogni giorno…”

La segue a ruota Donata: “Me ne ha sempre parlato mio padre di questo incidente, ha lavorato all’Ilva per tanti anni… Agghiacciante”.

Rosanna: “Purtroppo era lo zio di mia madre”.

Carlo: “Ricordo perfettamente quell’infortunio, come ricordo quello dell’acciaieria in cui morì un capo turno, caduto nell’acciaio incandescente e di cui trovarono solo il casco che galleggiava sulle scorie!!”

Antonio: “Mio padre era presente e ha visto tutta la scena dell’incidente, rimase solo l’elmetto, bruttissima storia”.

Annalisa: “Un mio zio era tra gli operai che assistettero a questa tragedia. Il non poter far nulla per questo collega lo sconvolse tantissimo. Io ero piccola, ma ricordo ancora le sue parole nel raccontarlo in famiglia”.

Franco: “Mio suocero era presente e mi ha sempre raccontato questa triste storia con tutti i dettagli dell’incidente: 70 chili di ghisa nella bara ecc. ecc.”.

Mario: “C’ero in quel periodo, fu sotto l’altoforno 2, scivolò nella bocca del carro siluro mentre lavorava, fu una delle morti più brutte in quella Italsider”.

Fabio interviene in qualità di testimone: “Quel giorno ero a pochi metri dal punto dove si è verificata la disgrazia… Una serie di coincidenze raccapriccianti”. Rodolfo gli chiede di raccontare e Fabio scrive: “Non è affatto bello dover ricordare certi tragici incidenti… In poche semplici (e tristi) parole: all’apertura della grata di sicurezza che copre il foro di colata sotto il quale si posizione la bocca del carro siluro, il poverino è stato urtato dal gancio della gruetta, perdendo così l’equilibrio e… (il carro siluro è rivestito internamente da materiale refrattario che viene preriscaldato a circa 900°C per evitare lo shock termico, quando viene introdotta la ghisa fusa arriva a circa 1150°C)”.

Sergio: “Io me lo ricordo bene attraverso i racconti di mio padre che lì dentro c’è rimasto trent’anni. Quello fu forse l’episodio più brutto ma solo uno dei tanti”.

Michele ci lavora lì, e scrive: “Mio nonno mi ha raccontato spesso quest’episodio ed ogni giorno che passo affianco a quei carri siluro mi viene in mente per ricordarmi di fare sempre attenzione”.

Gaetano: “Io c’ero, cadde dal piano di colata dell’altoforno nella bocca del carro siluro”.

Francesco: “Ricordo perfettamente, quel giorno eravamo nelle vicinanze a lavorare”.

Qualcosa nel racconto per Luana non torna, e scrive: “Scusate, il povero cristo è stato dato per disperso, non per morto, perché nessun collega vide cadere giù nel carro l’operaio. Ora leggo i commenti e quasi tutti i presenti videro precipitare giù il collega… boh…”

Salvatore: “Se non sbaglio l’operaio si chiamava Sabino Sernesi”. Mia obiezione: “Mi hanno dato altri due nominativi diversi…” E Francesco risponde: “Mi ricordo che quando entravi nella vecchia direzione c era una bramma di acciaio che portava questo nome”.

Gabriele: “Se vuole contatti mio fratello e si faccia raccontare la morte: Marco era il migliore amico di mio fratello”.

Peppe Roberto prova a ricordare: “L’anno era il 1981, il cognome non sono sicuro ma mi pare che facesse Gagliardi”.

Michele conferma: “A futura memoria si chiamava Antonio Gagliardi, ex emigrato lucano. In Germania e poi nell’Italsider. Lavorava al mio fianco quel giorno”. Ma secondo Michele l’anno è il 1978, non il 1981.

Giuseppe viene contestato ma vuole scrivere la sua: “Sono gli effetti collateri di una Storia, di un vissuto comunitario e personale che d’altro giornal online diretto dallo stesso Acanto ha salvato molte molte più vite di quante ne sono trapassate a causa sua, di una Storia che ha sollevato la dignità e retto la vita di innumerevoli persone fino a cambiare la storia di un intero territorio”.

Se hai informazioni su questa storia scrivimi inviando una email a:
a.marescotti@peacelink.org

Nota: Il testo presente compone 2 articoli dell’amico Alessandro Marescotti usciti il 29 settembre e il 4 ottobre su Peacelink

Parole a capo
Arianna Vartolo: “Domenica” e altre poesie

“E vivo della poesia come le vene vivono del sangue”
(Antonia Pozzi)

Nel bere la gola si muove veloce

Nel bere la gola si muove veloce
quasi a dire qualcosa ad alta voce e invece
– invece – non parla. Ha sete e ingoia
acqua spiriti, cose segrete di varia matrice
rimaste sospese a farla lavorare.
Il moto ondulatorio produce pressione
appena sotto il punto d’adesione tra faringe
e laringe. È il processo respiratorio a rischiare
la compromissione: prestare dunque attenzione
a che nulla vi sia a stringere il canale.
A soffocare un corpo
con un altro estraneo che spinge.

 

A poggiare il viso sulla spalla si rischia

A poggiare il viso sulla spalla si rischia
di marchiarla a fuoco – di macchiarla
con il sangue. Ché il dolore si sa
lascia traccia, cambia i tratti
fisionomici; assegna i nomi fin allora
conosciuti all’usuale senso della foratura.
Ne rimane concreto sedimento,
sentimento di concrezione. E terra
si rende per quel che cresce e si tende
nella vertigine tra perpendicolarità
nucale e parallelismo clavicolare.

 

Il battito intuito dal moto della fossetta del giugulo sul collo

Il battito intuito dal moto della fossetta del giugulo sul collo
– quella proprio appena sopra la forchetta dello sterno –
suggeriva uno stato di veglia del corpo.
Quasi a dirne sottovoce la soglia, l’essere estremo
creato, non generato secondo un credo sacro
tutto carne – tutto umano.
Dal profilo la vena pulsante diceva
quel che ancora esitante rimaneva di un male antico:
il tuo forzarti sotto al limite
minimo delle funzioni vitali.
Uno stato di fatto durato nel tempo
il non credersi animati, animali degni o presunti
tali. Tolto tutto a lasciare giusto lo spazio
dello strazio calcolato tra le ossa del costato.

 

La debolezza che spezza le unghie

La debolezza che spezza le unghie
nel togliere la buccia ai mandarini
somiglia a certi mattini d’inverno:
è gennaio con il sole che basso
passa sotto lo sterno; segue passo
passo un respiro mancato, quel battito
infermo che nulla trova tra sistole
e diastole. Si direbbe forza
quella che manca – priva di ossa o scorza
a protezione; del frutto che lascia
è l’ultima forma di assoluzione.

 

Domenica

Hai grigliato la carne il documento
di testo quel frammento di cielo terso
ripreso entro il diaframma fotografico.
Hai provato
il dramma del tempo perso per estremi
punti o disteso misurato in denti
stretti in morsi dati o ricevuti;
in ricevute di pagamento a prova a testamento
dell’esser stati (chissà cosa dove quando).
Intanto il dolore tiene svegli
quel tanto che basta all’acqua della pasta
per arrivare a bollire.

Tutto esiste con un proprio rumore.

Arianna Vartolo è nata nel 1998 a Roma, dove vive. L’aiuto a non morire (Cultura e Dintorni Editore, 2019) è la sua opera prima in versi. Compare nell’antologia Abitare la parola: poeti nati negli anni Novanta per Giuliano Ladolfi Editore (2019). Di lei è stato scritto, tra gli altri, su ClanDestino, Pangea, Laboratori Poesia – della cui redazione fa inoltre parte dal 2021. Alcuni suoi inediti e lavori sono apparsi su riviste cartacee e online tra cui Atelier e Inverso (nella cui redazione fa ingresso a marzo del 2022), nonché su La bottega della Poesia del quotidiano La Repubblica – Roma.
Nel 2021 è rientrata tra i finalisti del Premio di Poesia Città di Borgomanero – Achille Marazza e del XXII Concorso Nazionale di Poesia e Narrativa “Guido Gozzano”.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopioPer leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Incontro con l’autore: VERDE ELDORADO di Adrián N. Bravi
7 ottobre, ore 21

Biblioteca Popolare Giardino

Venerdì 7 ottobre 2022 – ore 21

Presso la Sala Polivalente

Viale Cavour 189 Ferrara –Ai piedi del grattacielo

presentazione del romanzo

VERDE ELDORADO
di Adrián N Bravi

Dialoga con l’autore Maria Calabrese

Accompagna l’evento la Band “Statale 16”

La migrazione, il radicamento, la ricerca di un luogo d’adozione, un luogo che può essere anzitutto una lingua: sono i temi della scrittura di Adrián Bravi, autore argentino che da anni ha scelto di scrivere in italiano. E qui, i suoi temi si fondono in un romanzo di formazione, in una cronaca di viaggio, in una parabola esistenziale o, più semplicemente, nella storia di un ragazzo del XVI secolo di nome Ugolino che, dopo aver perso il suo posto nel vecchio mondo, sa trovarne un altro nel nuovo. Ugolino racconta la traversata insieme al leggendario Sebastiano Caboto, e racconta soprattutto la convivenza con una tribù di indios che è scoperta di una natura, di una cultura, di un’umanità da imparare e da comprendere. Perché nelle Indie Occidentali, territori che figurano appena sulle mappe europee di allora, c’è tutta una vita da apprezzare, a patto di rovesciare le proprie abituali prospettive sul mondo.

Adrián Nazareno Bravi è nato a San Fernando (Buenos Aires), in una casa accanto al fiume Luján che si allagava spesso per via delle inondazioni.
Ha vissuto in vari quartieri di Buenos Aires e alla fine degli anni ’80 si è trasferito in Italia per proseguire i suoi studi. Si è laureato in Filosofia all’Università degli Studi di Macerata e attualmente lavora come bibliotecario presso la stessa università. Nel 1999 ha pubblicato il suo primo romanzo in lingua spagnola e dopo alcuni anni ha iniziato a scrivere in italiano. 

Ha pubblicato romanzi, articoli e racconti su varie riviste e antologie : il reportage, Left, Robinson di Repubblica, L’accalappiacani, In pensiero, Crocevia, Almanacco Quodlibet, ecc.). In un suo saggio, La gelosia delle lingue, affronta con costanti raccordi autobiografici il tema dello scrivere in una lingua diversa da quella di nascita.

Ha vinto alcuni premi tra cui la prima edizione del Premio Bookciak, Azione! (2012), il Premio Bergamo (2014)  ed è stato due volte finalista al Premio letterario Giovanni Comisso (nel 2011 e nel 2020). I suoi libri sono stati tradotti in inglese, in francese, in spagnolo e in arabo.Vive a Recanati

La “Statale 16” è una band che prende il nome dalla strada più lunga d’Italia e così come quella strada unisce luoghi e culture apparentemente lontani ugualmente il gruppo ,nel proprio repertorio,  mette in relazione autori, generi e sonorità diversi fra loro.

Mahsa Amini

 

Molti anni fa ho pubblicato, nell’introduzione al libro di Teresa Forcades Siamo tutti diversi (Castelvecchi Editore) il racconto Il mio nome è Farkunda, poi pubblicato nel 2018 su questo quotidiano [leggi Qui]

Dopo pochi anni ho pubblicato un romanzo che tratta il tema spinoso e controverso della maternità surrogata dal titolo Il mio nome è Maria Maddalena (Marlin Editore).

Non ricordavo di avere intitolato il racconto in questo modo e quando sono andata a ricercarlo, in occasione della tragica morte  di Mahsa Amini,  mi sono accorta della curiosa similitudine tra i  due titoli.

Il mio nome è Farkhunda è dedicato alla giovane musulmana Farkhunda Malikzada, linciata a morte a Kabul, per aver predicato per ore nel cortile del santuario denunciando i traffici di finti amuleti.

Farkhunda studiava diritto islamico e lavorava come maestra volontaria, mentre Maria Maddalena, la protagonista del mio romanzo, è una giovane occidentale, che avventatamente si presta come madre surrogata per scoprire poi, a contatto con le popolazioni indigene dell’Amazzonia, quanto sia importante il sapere ancestrale che appartiene ai nostri corpi, che da millenni passa di generazione e in generazione.

Maria Maddalena si rende conto che abbandonare questo prezioso sapere nella mani della scienza e dei laboratori sia l’errore più grave che l’umanità possa fare, perché equivale a perdere per sempre il senso stesso di umanità.

Mi sono chiesta: “Perché dunque la somiglianza nel titolo se le storie che li hanno ispirati  sono così diverse?” La risposta è semplice, dare il nome è il primo atto che facciamo quando nasce un bambino o una bambinaIl nome riconosce all’altro o all’altra la sua unicità.

Con il nome si entra nella comunità e si acquista lo status di autodeterminazione. Nelle mie ricerche femministe ho compreso che il concetto di autodeterminazione è alla radice di ogni pratica e ragionamento filosofico femminista.

L’autodeterminazione per le donne, in tutte le società, da sempre, però è sempre fortemente condizionata a comportamenti ‘morali’ dettati dal sistema patriarcale.

La lunga storia della liberazione femminile si muove in questo ambito ed è continuo oggetto di ricerca e di comprensione ancora oggi, proprio perché coniugare libertà e amore, libertà e comunione è una continua sfida.

Cosa significa autodeterminarsi? Per me agire in sintonia con il proprio essere  all’interno della comunità in cui viviamo. Dunque autodeterminarsi è un atto in continuo divenire ed è sempre legato al dialogo che da dentro si sviluppa con  il fuori: la famiglia, la comunità, la società, la nazione, il mondo.

Per le donne il dialogo con il fuori, con ciò che è pubblico, è sempre  stato mediato dalla legge del Padre. Ecco dunque che le donne fanno parte dell’umanità ma sono ‘figlie di un dio minore’.

Il fatto di ricevere un nome alla nascita, però, ci ricorda che siamo unici e distinti e che c’è un confine inviolabile, quello della nostra coscienza, che appartiene solo a noi, neanche la legge lo può invadere. È quell’afflato dell’anima che, quando raggiunge la via della sua espressione attraverso l’incarnazione, guida le nostre azioni.

Mi chiederete dunque perché sono partita dai miei scritti per giungere a parlare di quanto sta avvenendo in Iran e di come la sua narrazione stia facendo il giro del mondo. Perché la tragica storia di  Mahsa Amini, il cui nome questa volta ha fatto il giro del mondo, non è altro che la storia di moltissime donne alle quali non è permesso esprimersi in conformità al loro sentire.

Ciò che mi ha lasciato perplessa nella narrazione di Masha è stato il fatto che, in questa occasione, il suo nome è echeggiato in tutti i social, in tutti i media, nei telegiornali di tutto il mondo.

Ho ascoltato donne femministe islamiche felici di portare lo hijab, e non erano meno femministe di chi non lo vuole portare. Il tema non è lo hijab si o lo hijab no, ma il vero punto è se portare lo hijab ti corrisponda, a te singola donna, sia che tu sia iraniana, afghana, americana.

E il fatto, che qualunque sia la tua scelta, questa non comporti la perdita di diritti inviolabili quali l’autodeterminazione, perché l’autodeterminazione non è staccata dalle radici della terra madre che ci ha viste nascere, come ci insegna il lungo percorso, ancora in corso, della lotta all’autodeterminazione dei popoli indigeni.

Noi siamo figlie dell’ambiente che ci ha viste crescere, della storia e della cultura di quell’ambiente, ma siamo anche la spinta verso il nuovo mondo che contribuiremo a costruire e, in questo ‘nuovo’, rientra proprio la forza dell’atto di autodeterminarsi.

Non è dunque la verità occidentale ‘la verità assoluta’, ma è lo stare dentro le propria storia e cultura con la creatività delle nuove generazioni, che fa la differenza.

Per Farkunda avevo scritto ma, all’epoca, le era stato dedicato un trafiletto o poco più, e la lotta per l’abolizione universale della maternità surrogata conta tantissime storie di donne che hanno subito violenze inenarrabili nel silenzio più assoluto.

Ricevere da diversi amici e amiche che, poco o quasi mai, si sono interessati alle mie battaglie femministe il video di una giovane iraniana che parla di Mahsa Amini per attaccare direttamente il governo iraniano mi ha insospettito.

Quando l’occidente si muove compatto per condannare un governo attraverso l’uso strumentale della storia di una donna, io vedo in azione il patriarcato e non la difesa dei diritti delle donne.

Spero di non essere fraintesa; la storia di Mahsa Amini e dei milioni di ragazzi e ragazze iraniane schiacciati da un potere disumano, mi tocca nel profondo, ma l’ipocrisia del potere patriarcale occidentale, che utilizza una storia tragica a suo uso e consumo e contemporaneamente ti vende la maternità surrogata come un atto di amore e altruismo, quando è solo immettere sul mercato la maternità, senza la minima autocritica, mi pare ancora più disumano.

È da tempo che noto che, nelle democrazie progressiste, la rivendicazione dei diritti delle donne viene sempre ribadita quando è strumentale a certe logiche di potere.

D’altronde non c’è da stupirsi, il patriarcato appartiene anche alla nostra cultura e come dice bene la Guzmanil patriarcato è IL SISTEMA che produce tutte le oppressioni, tutte le discriminazioni e tutte le violenze che vive l’umanità e la natura, ed è costruito storicamente sopra il corpo delle donne!

Per leggere gli altri articoli di Roberta Trucco clicca [Qui]

GUERRA e PACE

Mentre l’Italia svolta pesantemente a destra, con il forte risultato di Fratelli d’Italia, nubi minacciose si affacciano nel panorama internazionale, in particolare con l’intensificazione della guerra.
Penso che vada presa molto sul serio la dichiarazione di Putin sul poter ricorrere all’uso di armi nucleari tattiche, non foss’altro perché gli Stati Uniti l’hanno fatto, dicendo, per bocca del consigliere alla sicurezza Sullivan, che tale scelta si porterebbe dietro conseguenze devastanti per la Russia, mettendo in campo risposte conseguenti.

Purtroppo si conferma il punto di vista, inascoltato dalle grandi potenze, che l’alternativa alla ricerca della pace comporta un’intensificazione del conflitto e il coinvolgimento sempre maggiore della Nato e degli USA.

La Nato e USA hanno seguito la stessa strada della Russia e dell’Ucraina: per i primi come per i secondi (i paesi direttamente coinvolti) non esiste altra possibilità se non la vittoria, e non invece una mediazione tra le parti. Questa strada conduce solamente ad un prolungamento sine die della guerra o ad un suo inasprimento, con conseguenze veramente rischiose per le popolazioni coinvolte e vicine.

Non può non colpire la sostanziale inesistenza di soggetti realmente impegnati ad aprire una via per una soluzione negoziata del conflitto – se si eccettua la Turchia di Erdogan, chiaramente poco influente a questo scopo, o le posizioni di Papa Francesco, che però viene trattato dai Grandi della Terra come ‘voce spirituale’, cui si può riconoscere un’autorità morale tanto ossequiata quanto facile da ignorare. In particolare, risulta essere veramente inaccettabile e, per certi versi, stupefacente, la completa assenza di ruolo dell’Europa, del tutto schiacciata sulla lettura della guerra avanzata dall’Ucraina e sostenuta dagli USA.

Ci si maschera dietro la considerazione che “per fare la pace bisogna essere in due” e che da Putin non proviene alcuna volontà in questo senso, o si avanza il ragionamento che l’invasione russa ha violato l’integrità nazionale di una nazione e il diritto internazionale, per concludere che non si può parlare con chi si è macchiato di tale colpa. Come se l’Occidente non avesse fatto altrettanto nel recente passato (basta pensare alla guerra con l’Iraq nel 2003, motivata dalla menzogna, costruita ad arte dal Regno Unito e dagli USA, del possesso dell’arma atomica da parte di quest’ultimo) e bastasse a salvare l’anima la narrazione, altrettanto falsa e propagandistica, per cui saremmo in presenza di un inevitabile contrasto e conflitto, anche guerreggiato, tra “mondo libero” e autocrazie. Salvo poi smentirsi, nel momento in cui si patteggia tranquillamente con Erdogan e lo si considera un pilastro fondamentale della NATO.

Oppure, da parte dell’Europa, si usano pesi e misure diverse nel giudicare il grado di democrazia esistente in Ungheria e in Polonia, due paesi che applicano praticamente le stesse misure liberticide in materia di libertà di stampa, della magistratura e di diritti delle donne e delle diverse identità di genere, ma solo la prima, e non la seconda, viene sanzionata dal Parlamento europeo.
Viene da pensare, maliziosamente, che l’una, a differenza dell’altra, sia schierata dalla “parte giusta della storia” e che c’entri poco l’effettivo livello di diritti e libertà esistenti.

Questa situazione, per cui la guerra è tornata ad essere lo strumento normale di intervento nelle controversie internazionali, trova le sue radici in guasti profondi e non di breve periodo.
Non basta a dare ragione del conflitto tra Russia e Ucraina – e di tanti altri, spesso dimenticati, che ci sono nel mondo, da quello in Siria alle vicende libiche – l’intenzione imperialistica ed espansionistica della Russia o il progressivo allargamento della Nato verso l’Europa Orientale degli ultimi decenni, questioni peraltro entrambe reali e che hanno a che fare con la guerra in corso.

Siamo, però, in presenza di dati più strutturali, che vanno guardati e affrontati per poter dare risposte non solo contingenti e tornare a fare della pace una possibilità concreta e non puramente un’esigenza astratta.
Il primo punto è che il ricorso alla guerra è uno degli esiti del tipo di globalizzazione che ha preso forma negli ultimi decenni e che ha di fatto prodotto un mondo multipolare, non più dominato dall’unica grande potenza, gli USA, rimasta dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1989.
La globalizzazione, originata per ridare fiato al capitalismo occidentale in crisi sia sul versante della diminuzione dei margini di profitto sia su quello degli sbocchi di mercato, ha creato un unico grande mercato mondiale, ma ha prodotto anche l’emergere di nuove grandi potenze mondiali e regionali, in primis la Cina, ma anche l’India, il Brasile, la stessa Russia ed altre ancora, che si affiancano agli Stati Uniti e a quella strana creatura, a metà tra entità statuale e area mercantile unificata, che è l’Europa.

La globalizzazione ha prodotto anche un nuovo capitalismo globale, con tratti differenti tra i diversi Stati, in quanto a regimi di governo e nel rapporto tra ruolo dello Stato e del mercato – dagli USA improntati al primato delle logiche ‘pure’ di mercato al capitalismo di Stato della Cina – ma tutti accomunati dalla ricerca del profitto economico come leva fondamentale del modello produttivo e sociale. Ma anche in competizione tra loro, alla ricerca di posizioni maggiormente vantaggiose e di supremazia nello scenario mondiale, sempre misurate in termini di rapporti di forza economici e politici.

Una situazione inedita, sopportata malamente dai diversi attori: dagli Stati Uniti, che fanno fatica a rassegnarsi a non essere più l’unica superpotenza mondiale, agli altri Stati emergenti, a partire dalla Cina, che reclamano un ruolo più significativo e che lo rivendicano mettendo in campo forti spinte nazionalistiche.

In questo quadro maturano scontri commerciali, ricerca di maggiore influenza nelle aree meno sviluppate, dall’Africa al Sud America, corsa all’accaparramento delle materie prime strategiche e anche potente spinta al riarmo. Testimoniata dal fatto che nel 2021 la spesa militare mondiale (USA e Cina in testa, rispettivamente con 801 e 293 miliardi di $) ha superato per la prima volta il record storico di 2.000 miliardi di $, raggiungendo precisamente la quota di 2.113 miliardi, con una crescita dello 0,7% rispetto al 2020 e un aumento del 12% in 10 anni.

Per certi versi, sembra di essere tornati a dinamiche che ricordano vagamente quelle dei conflitti interimperialistici degli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale. Con la differenza di fondo che oggi il mercato è su scala globale e non solo europea, che la superpotenza declinante sono gli USA e non il Regno Unito e che gli Stati in campo sono ben altri.

Ad accentuare gli squilibri e i conflitti potenziali connessi alla globalizzazione, paradossalmente, si è aggiunta la crisi della stessa. Sono 2 le date spartiacque.

La prima è la crisi del 2008, che ha segnato contemporaneamente la fine del ciclo espansivo della finanza e dell’egemonia economica-industriale degli USA. A questo proposito, basta menzionare che, a partire dal 2012, il valore aggiunto del settore manifatturiero della Cina ha superato, e non di poco, quello degli Stati Uniti e dell’Europa a 28 stati (più di 2.500 miliardi di $ a prezzi costanti della Cina a fronte di poco più di 2.000 miliardi di $ sia degli USA che dell’Europa).

La seconda è la crisi pandemica di questi anni, che ha avuto come effetto assolutamente rilevante il blocco delle catene lunghe di fornitura dei semilavorati e dell’energia, che la guerra in Ucraina ha ulteriormente aggravato, e la stessa rinazionalizzazione delle produzioni.
Fa una certa impressione vedere, ad esempio, come le principali aree omogenee del mondo si stanno ciascuna attrezzando per incrementare la loro produzione interna di semiconduttori, dall’Europa agli USA, dall’India a Taiwan, per non parlare della Cina che, con il proprio Made in China 2025, prevede di portare la produzione domestica dal 7% al 70%. Oppure, per stare a vertenze emblematiche, guardare come la ‘delocalizzazione’ dello stabilimento triestino Wartsila, con 415 licenziamenti annessi, avviene per il rientro nella madrepatria finlandese.

Insomma, crisi e squilibri economici, guerre commerciali, nazionalismi e instabilità sono destinati ad ampliarsi nella prossima fase di “deglobalizzazione selettiva”, come è stata eufemisticamente definita, potenzialmente foriera del rafforzarsi delle tendenze alla guerra.

Per questo non possiamo rimanere inermi spettatori. E’ venuto il tempo di rilanciare un grande movimento per la pace e il disarmo, almeno su scala europea, come si è riusciti a fare in epoche passate.
Un’occasione importante può essere rappresentata dall’incontro dei movimenti sociali europei prevista per il 10- 13 novembre a Firenze, a vent’anni di distanza dal Forum Sociale Europeo tenutosi lì nel 2002.

Messa al bando delle armi nucleari, stop al riarmo e riduzione drastica delle spese militari, immediata cessazione del fuoco e tregua in Ucraina, rilancio di una Conferenza internazionale di pace e per la sicurezza internazionale sono gli obiettivi semplici, ma decisivi per provare a costruire un’inversione di tendenza in un mondo che già oggi, come dice Papa Francesco, vede svolgersi una Terza Guerra Mondiale a pezzi e che rischia di andare verso una vera e propria guerra mondiale.
Avendo peraltro presente che tale prospettiva non può essere disgiunta dall’idea di prospettare un nuovo ordine mondiale e di ragionare sul fatto che mercato, competitività, disuguaglianze non possono costituire le stelle polari della realtà odierna. Che, detto in altri termini, il capitalismo, nelle sue varie declinazioni, non può essere considerato l’unico orizzonte possibile per il futuro dell’umanità.

graffito murales poesia

Sabato 8 ottobre “Ultimo Rosso”: la poesia unica protagonista
Piazza Municipale ore 10 / Parco del Montagnone ore 15,30

Il prossimo 8 ottobre un gruppo di poeti lancerà una corda per un ‘salvataggio poetico’.

Fine estate 2022, una riunione Collettivo Poetico Ultimo Rosso

Nelle settimane scorse, il Collettivo Poetico si è riunito per preparare la Seconda Edizione di Ultimo Rosso. E nata lì , insieme a tanti altri suggerimenti, l’idea di una corda, una vecchia corda di canapa (Ferrara era un tempo la capitale della coltivazione della canapa) da usare durante una originale performance poetica.

Quindi, dopo l’esperienza positiva dello scorso anno, torna la poesia errante, con nuove idee e nuove location, un  programma e una visibilità differenti: invece di coppie di poeti in giro per le strade di Ferrara, quest’anno leggeremo tutti insieme in uno stesso luogo.

Franco Arminio, in una recente intervista, ha detto una cosa molto vera; “la poesia non ci salva. Ad alcune persone può far bene: se qualcuno ha un dolore, una ferita, legge una poesia e, magari, ci trova una risposta. Secondo me le persone del futuro useranno sempre di più la poesia. È giusto che i poeti prendano con forza e continuità la parola.
Dunque, credo assolutamente che avrà un ruolo maggiore, anche perché la poesia non scade mai. Puoi leggere un poeta contemporaneo e, allo stesso tempo, Leopardi; mentre ad esempio, un calciatore, una volta finito, non gioca più, Leopardi scende in campo sempre. È un patrimonio perenne dell’umanità e questa è la bellezza della poesia, si rinnova continuamente. Io sono ottimista. Lavoro perché c’è bisogno che arrivi a tante persone.
Non dico che questo salverà il mondo, ma ci sarà qualcosa a cui ci si potrà affidare. Usando una parola non poetica, dico che la poesia è un buon “affare”: chi si occupa di poesia ha l’anima pulita, aperta al mondo, ventilata; un po’ come aprire la casa per non farla ammuffire, ma farle prendere aria”.

Ultimo Rosso 2022 locandina
Locandina di Ultimo Rosso. Festa della poesia errante, II Edizione, Ferrara 8 ottobre 2022
Ultimo Rosso 2022: programma e appuntamenti  

Al mattino, dalle 10.00 alle 11.30, in Piazza Municipale si svolgerà un flashmob,  una performance poetica.  dove il Collettivo Poetico Ultimo Rosso leggerà  poesie proprie o di autori/autrici secondo le affinità stilistiche, emozionali e affettive di ognuno. Sarà anche il momento in cui diverse studentesse e studenti leggeranno le loro composizioni, frutto di un laboratorio di poesia svolto in classe, coordinati dalla prof.sa Cecilia Bolzani, seguendo la traccia del testo di Bob Dylan “Blowin’ in the wind”.
Il flashmob inizierà con la lettura del testo del cantautore premio Nobel. Ognuno dei partecipanti leggerà le poesie tenendo una lunga corda di canapa, formando un grande cerchio (la corda ci è prestata per l’occasione dal Museo della Civiltà Contadina di  Bentivoglio che ringraziamo per la disponibilità).
La corda è il simbolo di molte cose. Significa il legame con la nostra terra e la nostra storia, ma anche l’importanza delle relazioni dirette, la bellezza dello stare assieme. Infine la corda può diventare catena e prigionia: infatti, alla fine della performance, i partecipanti butteranno a terra la corda. Sarò la forza della poesia a liberarli.

Nel pomeriggio, dalle 15.30 alle 17.30, la piccola carovana poetica si trasferirà nello spazio verde al Montagnone, accanto al bar Paradiso Verde (Viale Alfonso D’Este).
Qui il reading sarà aperto a tutti. Ogni spettatore potrà leggere una poesia o un brano del suo autore preferito o portare le proprie poesie per condividerle. Verrà distribuito a tutti un foglietto bianco, dove scrivere una poesia a scelta. I biglietti verranno piegati, messi in un grande cesto e mescolati come un mazzo di tarocchi. Poi ognuno pescherà una poesia a caso scritta da un autore sconosciuto.
Lo abbiamo chiamato Libero Scambio Poetico. Un altro mondo per mescolare emozioni e diffondere ovunque il seme della poesia. Un antidoto all’apatia e all’omologazione, un invito alla  pace tra le persone e tra i popoli.

Al termine del reading poetico le amiche del  bar Paradiso Verde offriranno ai partecipanti un piccolo rinfresco

PAROLE e FIGURE /
Bruttina a chi? A me no di certo…

 

Quante di noi si sono sentite criticare, da ragazzine, per uno stile di abbigliamento particolare, per un dettaglio fisico non in linea con lo stereotipo, per una capigliatura scapigliata e ribelle o per un apparecchio a denti di troppo; un po’ il “non è bella ma è un tipo” (magari anche affascinante) di quando si è cresciute. Qualcuna si è sentita un poco strana, diversa e magari isolata, soprattutto quando i ragazzini ammiravano le più carine della classe, molte altre se ne sono letteralmente infischiate e, libere come l’aria e il vento, hanno continuato a testa alta il loro cammino. Con la testa all’insù, verso il cielo.

L’importante è come ci si vede, come ci si immagina proiettate nel futuro. Per rafforzare l’importanza di tale consapevolezza e della ricchezza della diversità, Antoine Dole e Magali Le Huche ci portano oggi a parlarvi del loro bellissimo e delicato albo illustrato, appena uscito, “Bruttina a chi?” edizioni Rizzoli.

Antoine Dole, classe 1981, è uno scrittore e sceneggiatore francese che pubblica anche sotto lo pseudonimo di Mr. Tan, Magali Le Huche, classe 1979, è un’autrice e illustratrice parigina, che organizza anche mostre e laboratori per bambini, vincitrice, fra l’altro, del Premio Sorcières 2006 nella categoria Album per Les Sirènes de Belpêchao, che ha scritto e illustrato. Ancora due francesi, lo ammetto nuovamente, sono quelli che preferisco.

In questo delizioso lavoro a quattro mani, incontriamo subito Claudia, in un cortile di una scuola che ricorda subito quelle parigine. Siamo sicuramente ai primi giorni di lezione, gli alberi hanno le chiome dai colori autunnali, giubbotti leggeri e collant a righe o a pois fanno pensare alla frescura di metà settembre. Qualche compagno saltella, gioca a mondo, qualcun altro calcia un pallone, si scambia figurine, bigliettini o semplicemente chiacchere. Altri, più cattivelli, la additano schernendola, chiamandola “Claudia Skiffer”, perché secondo loro, è davvero bruttina, anzi la più brutta di tutte. La prendono in giro, sciocchini, dipingendola anche come poco sveglia e impacciata. Nessuno la vuole come amica. Ma lei non perde mail il sorriso, sa di essere diversa da come la dipingono e guardandosi allo specchio vede mille altri modi per descriversi.

Si vede come scienziata geniale, degna del Premio Nobel, come una dottoressa scrupolosa, capace di fare miracoli e salvare vite umane o come un’astronauta provetta. Perché non un abile ninja, una coraggiosa esploratrice o un’inguaribile sognatrice, che guarda, libera, la luna e gli alberi, respirando l’aria pulita e tersa di un limpido lago?

Potrebbe benissimo essere una domatrice di belve feroci, un’esperta pasticciera, che crea mille e soffici delizie colorate degne del miglior chef al mondo, un’intrepida controfigura che si cala da un elicottero nella tempesta per salvare un leone dalle onde. Oppure una premurosa sorella maggiore, che legge favole al fratellino che non vuol dormire, una pittrice visionaria, che vive tra colori e morbidi gatti sulla poltrona.

Claudia si vede anche come un’atleta professionista imbattibile, un veloce acchiappa-fantasmi, una supereroina dai poter strabilianti o una presidentessa carismatica della galassia, che dice fortemente sì all’ecologia galattica.

Tutto è possibile, basta volerlo. Perché per Claudia, ma per tutti noi ragazzi e diversamente giovani, l’importante non è vere i capelli lisci o i denti perfetti, l’importante è non ascoltare gli sciocchi, in un mondo dove l’unica vera ricchezza è essere diversi. E la vita, quando sei Claudia Skiffer, non è niente male! Chiaro abbastanza?

 

 

 

Antoine Dole e Magali Le Huche, Bruttina a chi? Rizzoli, 2022, 48 p.

 

 

Parole e figure
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

2011-2021: COME CAMBIA LA CLASSIFICA DELLE MULTINAZIONALI

di Rocco Artifoni
Da pressenza del 03.10.2022

In dieci anni è cambiato il mondo: è la prima considerazione che si potrebbe trarre guardando i dati che mettono a confronto l’anno 2011 con il 2021, riportati nella 12° edizione di “Top 200”, il report realizzato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo relativo alle 200 più importanti multinazionali.
Nel 2011 tra le prime 10 posizioni della classifica si trovavano ben otto società dell’energia: Shell – Regno Unito, Exxon Mobil – Usa, BP – Regno Unito, Sinopec Group – Cina, China National Petroleum – Cina, State Grid – Cina, Chevron – Usa, Phillips – Usa.
Nel 2021 tra le prime 10 restano soltanto tre multinazionali del settore energetico, quelle con la sede principale in Cina. Tra le nuove entrate c’è anzitutto Amazon, che passa dal 206° posto del 2011 al 2° posto nel 2021. Apple in dieci anni sale dal 55° al 7° posto. China State Construction Engineering salta dal 100° al 9° posto.

Il cambiamento in atto si può cogliere anche dai numeri complessivi: tra le prime 200 multinazionali 64 sono cinesi e 59 americane. Al terzo posto il Giappone con 18, al quarto la Germania con 11 multinazionali.
L’Italia al decimo posto con 3 società: Assicurazioni Generali (72° posto), Enel (90°) ed Eni (111°).

La multinazionale che nel 2021 ha avuto l’utile più alto è la Saudi Aramco del settore energetico con sede in Arabia Saudita, salita al sesto posto nella classifica generale, che registra un profitto di oltre 105 miliardi di dollari.[Nel 2022 per Il più grande produttore mondiale di petrolio va ancora meglio, grazie alle ricadute della guerra in Ucraina, Aramco ha registrato un profitto record di $ 48 miliardi nel secondo trimestre N.D.R.]
Al secondo posto troviamo la Apple con 95 miliardi, seguita dalla Berkshire Hathaway con 90 miliardi di dollari.
Interessante notare che la prima in classifica delle multinazionali, l’americana Walmart, ha un fatturato di 573 miliardi di dollari, superiore al bilancio dello stato dell’Australia. Inoltre, la somma del fatturato delle prime 25 multinazionali (7.604 miliardi di dollari) è superiore alle entrate degli Usa (6.899 miliardi).

Oltre ai dati dettagliati sulle 200 più importanti multinazionali, il report del Centro Nuovo Modello di Sviluppo presenta alcuni approfondimenti di temi attuali: il Metaverso, i semiconduttori, la finanza e il gas liquefatto (LNG) in correlazione con la guerra in Ucraina.

Il report 2021 riporta dati prima delle esplosioni registrate lungo i gasdotti Nord Stream nel Baltico e fa una certa impressione leggere oggi che il secondo gasdotto è “rimasto sempre sospeso per espressa contrarietà degli Stati Uniti”, cioè il Paese che sta progressivamente incrementando l’esportazione di gas liquefatto verso l’Europa. L’ultimo grafico del report mostra infatti l’aumento dell’esportazione di LNG dagli Usa verso l’Europa in miliardi di metri cubi: 14,2 nel 2019, 18,7 nel 2020, 22,2 nel 2021 e con una previsione di 37,2 miliardi nel 2022.
Dati che fanno riflettere e sollevano interrogativi.

Questo report che annualmente viene predisposto dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo, coordinato da Francesco Gesualdi, è uno strumento prezioso per comprendere le tendenze dell’economia mondiale, che di fatto determina e condiziona fortemente ciò che ogni giorno accade. Esserne consapevoli è il primo passo per scegliere e agire di conseguenza.

Rocco Artifoni è nato a Bergamo nel 1960. È presidente nazionale dell’Associazione per la Riduzione del Debito Pubblico (www.ardep.it) e referente per la Lombardia dell’Associazione Art. 53 (www.articolo53.it).  Comitato bergamasco per la difesa della Costituzione (www.salviamolacostituzione.bg.it), Scuola di educazione e formazione alla politica We Care (www.scuolawecare.it), Redazione della rivista “L’Incontro”. Nel 2014 ha pubblicato insieme a Filippo Pizzolato “L’ABC della Costituzione” per le Edizioni Gruppo Aeper con prefazione di don Luigi Ciotti. Nel 2018, insieme a Francesco Gesualdi e Antonio De Lellis, per CADTM Italia ha pubblicato il dossier “Fisco & Debito. Gli effetti delle controriforme fiscali sul nostro debito pubblico”

Davanti al maestro e alla maestra passa sempre il futuro

Mi succede una cosa strana: in certi momenti, certe canzoni vengono a cercarmi; non sono io che le scelgo ma loro che scelgono me.
Non sono canzoni a caso ma brani che hanno capito come sto in quel momento.
Mi saltano addosso, mi entrano nella testa e non riesco più a togliermele di torno.
Le ascolto e le riascolto, le canto e le ricanto, le urlo mentre sono in macchina e mi sorprendo nel provare emozioni forti attenuate soltanto dallo stupore della coincidenza con i miei pensieri ancora confusi.
È come se mi volessero smuovere e provocare. È come se mi aiutassero a dare parola ai miei stati d’animo perché, avendo già capito come sto, mi alleviano il tormento.
C’è un lato positivo in questo “tormento”: quelle canzoni mi aiutano a non scordare la realtà e mi invitano a ripensarla.
Non sarà un caso quindi che, ad una settimana da un esito elettorale nero, certe canzoni dei Fast Animals and Slow Kids (un gran bel gruppo di rock alternativo di Perugia) mi interroghino su “Come reagire davvero al presente”, mi chiariscano che “Forse non è la felicità ciò che voglio ma un percorso per raggiungerla”, mi diano conforto per “Lenire un errore, capire un errore” e mi invitino a continuare a “Combattere per l’incertezza”.
Ai tanti che si chiedono come ripartire, ricordo che oggi “È già domani” e anche se bisognerebbe credere in un grande progetto, io “Non ci credo no ma ci proverò lo stesso, come un origami io mi piego e non mi spezzo” (che è un po’ quello che Antonio Gramsci scriveva benissimo in “Lettere dal carcere”: Sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista per la volontà).
So che siamo in tanti a sentirci così e allora la strada giusta ce la offre il maestro di tutti i maestri, Mario Lodi, che prima dell’anno scolastico 2010-2011 scriveva una lettera agli insegnanti che potrebbe essere un manifesto politico di incoraggiamento dedicato a tutti quelli e quelle che si sentono persi e perse, una sorta di invito a ricominciare dal proprio piccolo:
“[…] Forse qualcuno di voi ha la brutta sensazione di lavorare come dopo un conflitto: in mezzo a macerie morali e culturali, a volte causate dal potente di turno che pensa di sistemare tutto con qualche provvedimento d’imperio.

I vecchi contadini delle mie parti dicevano sempre che i potenti sono come la pioggia: se puoi, da essa, cerchi riparo; se no, te la prendi e cerchi di non ammalarti e, magari, di fare in modo che si trasformi in refrigerio e nutrimento per i tuoi fiori.
Il mio augurio è questo: non sentitevi mai da sole e da soli!
Prima di tutto ci sono i bambini e le bambine, che devono essere nonostante tutto al centro del vostro lavoro e che, vedrete, non finiranno mai di sorprendervi.
Poi ci sono altre e altri che, come voi, si stanno chiedendo in giro per l’Italia quale sia ancora il senso di questo bellissimo mestiere. […]Non dimenticate che davanti al maestro e alla maestra passa sempre il futuro.
Non solo quello della scuola, ma quello di un intero Paese: che ha alla sua base un testo fondamentale e ricchissimo, la Costituzione, che può essere il vostro primo strumento di lavoro.
Siate orgogliosi dell’importanza del vostro mestiere e pretendete che esso venga riconosciuto per quel moltissimo che vale. Un abbraccio grande.  Mario Lodi”


P.S. Le foto dei Fast Animals and Slow Kids che corredano il testo le ho scattate nei concerti di Bologna e Modena dell’estate scorsa (Mauro Presini)

Cover: Il disegno “Viaggio nel futuro” realizzato dai bambini di Quinta della scuola Settembrini di Varese, coordinati dall’insegnante Lucia Canneto, che ha ottenuto il primo premio al concorso nazionale Ecogame sulla Transizione Ecologica 

IL BOSCO DEL CORNIOLINO
e gli altri boschi: da comprare per conservarli intatti

La storia di un amore

È la storia di Anna, una moderna Heidi padana che, dalla città, sogna i monti. Li sogna tanto più intensamente da quella volta in cui, portata dalla provvidenza sul Cammino di Assisi, ha incontrato quelle che, da quel momento in avanti, sarebbero state solennemente nominate “Le Amate”.

L’oggetto d’amore corrisposto  – dunque il soggetto, perché ogni essere che ama, all’interno di una relazione d’amore, è sempre soggetto agente e mai oggetto – sono loro: “Le Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna”, oltre 36 mila ettari di Natura adagiata sul confine tosco-romagnolo ed eletta a Parco Nazionale dal 1993.

Inutile dire che ad Assisi Anna non è mai, o non è ancora arrivata. Le zone, al di là o al di qua dei confini del Parco, sono talmente magiche che costringono sempre a nuovi ritorni, nuove esplorazioni, nuove scoperte.
È in una di queste che avviene l’incontro con il Bosco del Corniolino, in prossimità del paese di Corniolo, nel Comune di Santa Sofia (FC) e lungo il confine romagnolo del Parco, dove il fondovalle incontra Bidente di Campigna.

bosco corniolino
Il Bosco del Corniolino
bosco corniolino
Bidente di Campigna

Questo bosco, un ceduo invecchiato, circa 12 ettari di alberi (cerri, carpini, frassini, cornioli, ginepri e altre specie) ancorati alla roccia a protezione del ripido versante che in questo modo diventa più stabile, sta crescendo lentamente e libero da interventi umani da 40 anni.

Un lungo e paziente lavoro della natura che è a rischio di interrompersi e compromettersi a causa dei tagli commerciali di cui sarà oggetto una volta venduto. Ma l’ acquisto, da rischio, può trasformarsi in opportunità. Questo scenario apre le porte ad un sogno lucido che, da individuale, è già diventato un sogno collettivo: acquistare il bosco per conservarlo.

 

Viene lanciata una raccolta fondi, tutt’ora aperta fino al raggiungimento dell’obiettivo.  Come destinatario della donazione viene scelto il Fondo Biodiversità e Foreste, un’associazione di promozione sociale che acquista boschi per conservarli, lasciandoli alle dinamiche naturali e proteggendoli dall’azione dell’uomo.

Mentre le agende politiche ancora mancano di concretezza e incisività nella tutela della salute del pianeta e dei viventi tutti, un gruppo di cittadini si attiva per acquistare questa piccola porzione di foresta mettendola al riparo da interventi umani dannosi per l’intero ecosistema. Comprare per non usare, per prevenire il dissesto idrogeologico, per favorire la biodiversità e catturare la CO2, in un’epoca in cui l’umanità sta collassando sopra ai propri consumi e schiacciata dal culto della materia, non è solo un’azione in controtendenza, ma una piccola grande rivoluzione.

Una storia d’amore alle radici di un sogno

Questo sogno ha (anche) un valore economico, che è il prezzo di acquisto del bosco, 15.500 euro che comprendono costi notarili per la stipula del rogito e una targa commemorativa.

Sì, perché questa storia d’amore ne ha incontrata un’altra: quella di Agostino Barbieri, giovane Carabiniere Forestale mancato prematuramente all’affetto dei suoi cari circa un anno fa e a cui verrà dedicato il bosco di Corniolino. “Salvare un angolo di natura può essere un modo ideale per onorare la memoria di chi quella natura l’ha amata e protetta. Ora lo vogliamo pensare di guardia a questa giovane foresta, lui che in vita era una Guardia Forestale, nascosto tra le fronde come il Barone rampante, in compagnia degli animali selvatici, divertito nel prendersi gioco di noi ai piedi dei grandi alberi che verranno! La calma del bosco ci pervada”, scrivono i suoi amici.

Bosco del Corniolino
Bosco del Corniolino

Un sogno che contiene, come una scatola cinese, tanti sogni.
Chiunque può essere parte di questo progetto partecipando all’acquisto del Bosco di Corniolino e versando la propria quota. La formula è quella della “erogazione liberale” tramite bonifico bancario sul conto corrente del Fondo Biodiversità e Foreste, Monte dei Paschi di Siena, IBAN IT15F0103034070000001841057, riportando la seguente causale: “Erogazione liberale Bosco di Corniolino” seguito dal proprio Codice Fiscale.
Ringraziamo fin da ora tutti i visionari e i sostenitori che renderanno reale questo sogno.
Barbara Arcari

per saperne di più
Perché comprare foreste in Italia

Le foreste italiane, come tutte le foreste europee, sono a rischio. I tagli boschivi nel nostro Paese sono aumentati del 70% negli ultimi 15 anni, e con l’entrata in vigore della legge n. 34/2018 Testo Unico per le Filiere Forestali (più comunemente conosciuta con l’acronimo TUFF) che incentiva i tagli boschivi, la situazione andrà a peggiorare nei prossimi anni.
Gli incentivi pubblici a favore delle biomasse forestali per la produzione di energia hanno creato un mercato distorto, che nel tempo ha innalzato il prezzo del legno e accelerato di conseguenza i tagli anche in zone dove prima, senza gli incentivi pubblici, non sarebbe stato economicamente conveniente tagliare. 
Le foreste italiane sono in lenta ripresa dal secondo dopoguerra, periodo di massima deforestazione raggiunto dalla nostra penisola. Sono quindi foreste giovanissime, di neoformazione, che – se stanno aumentando in estensione – sono ancora composte da boschi “poveri”, con alberi giovani e piccoli, e una bassa quantità di biomassa per ettaro. Questi boschi avrebbero bisogno di crescere e così aumentare la biodiversità che è in grado di fornire i benefici ecosistemici propri delle foreste mature. L’aumentare dei tagli sta mettendo a rischio la piccola ripresa forestale degli ultimi 70 anni.
L’unico modo per rispettare davvero le foreste è far tacere le motoseghe. Troppe voci, infatti, cantano la melodia secondo cui le foreste hanno bisogno di essere periodicamente tagliate “per il loro bene”. Ma ecosistemi creati dall’evoluzione di centinaia di migliaia di anni prima della comparsa dell’uomo non hanno alcun bisogno di “manutenzione” per svilupparsi e prosperare ed evolversi: per una volta, limitiamoci ad osservare e ammirare le dinamiche naturali. Per questo il Fondo Biodiversità e Foreste compra boschi, tramite raccolte fondi, per restituire alla natura almeno una piccola parte di ciò che le spetta.

Il bosco del Corniolino

 

In località Corniolino, in prossimità di Corniolo, frazione del comune di Santa Sofia (FC), c’è un bosco che confina con il Parco Nazionale Foreste Casentinesi – Monte Falterona Campigna e dove il fondovalle confina con il fosso Bidente di Campigna. Questo bosco sta crescendo lentamente su un ripido versante, da circa 40 anni non viene tagliato, e le radici degli alberi si sono ancorate alla roccia, rendendo il versante più stabile. Inoltre, le foglie cadute e il legno morto stanno ricostituendo pian piano la lettiera, stoccando CO2 e creando suolo fertile. Ma questo bosco potrebbe ora subire un taglio che annullerebbe decenni di paziente lavoro
della natura e che peggiorerebbe il rischio idrogeologico nella zona.
Per fortuna, la persona giusta è passata a Corniolino nel luglio 2022, ha scoperto per caso la storia di questo bosco, e si è chiesta se non lo si potesse invece acquistare per conservarlo. Anna Zonari, questo il suo nome, ha lanciato quindi un appello su Facebook: “Ci uniamo per salvarlo?”. Il suo post ha ricevuto un centinaio di like, decine di condivisioni e 55 contatti da tutta Italia. Anna, il cui telefono comincia a suonare ininterrottamente, trova molte persone disposte a partecipare a questa iniziativa. Tra loro, un gruppo di amici che ha pensato di dedicare un bosco alla memoria di Agostino Barbieri, un Carabiniere Forestale che ha dedicato la sua vita alla protezione della natura, scomparso prematuramente un anno fa.
Anna decide che salvare il bosco è possibile, coinvolgendo il Fondo Biodiversità e Foreste che da statuto acquista boschi per conservarli e proteggerli dalla “gestione attiva”. L’Associazione viene scelta come destinataria della donazione del bosco, con l’incarico di conservarlo lasciandolo alle dinamiche naturali, come previsto dallo statuto dell’Associazione. Mentre le agende politiche non stanno trattando la crisi climatica per quella che è, ovvero il più grande problema che l’umanità si sia mai trovata ad affrontare, mentre la CO2 è aumentata del 65% da quando si parla di ridurla, un gruppo di cittadini è disposto ad acquistare questa piccola porzione di foresta per salvarla dal taglio e conservarla al riparo da interventi umani dannosi per l’ecosistema. Davvero un segnale in controtendenza, degno di attenzione, e che dà speranza.
Il bosco di Corniolino è costituito da poco meno di 12 ettari ed è identificato catastalmente dalle particelle 19/20/22/41 del foglio 87 del comune di Santa Sofia, e a 4 km in linea d’aria vi è la riserva integrale di Sasso Fratino. È un ceduo invecchiato composto da cerri, carpini, frassini, cornioli, ginepri e altre specie. Per acquistare il bosco occorre raggiungere la cifra minima di circa 15.500 €, comprensivi del prezzo del bosco, dei costi notarili per la stipula del rogito e di una targa commemorativa per il Carabiniere Forestale Agostino Barbieri.
FONDO BIODIVERSITÀ E FORESTE

Per Contatti:
Daniele Zavalloni, Segretario Fondo Biodiversità e Foreste
segreteria@fondobiodiversita.it | tel. 3355342213
www.fondobiodiversita.it

La foto di copertina e quelle nel testo sono di Barbara Arcari

Lampedusa

Lampedusa

Gli occhi dei vivi
Sono chiusi
Vedono le ombre
Dappertutto
Gli occhi dei morti
Sono spalancati
Vedono le ombre
Di cotanto lutto
Tutte le luci
Accese
Hanno i nomi
Degli uomini
Ignoti
Delle donne
Scomparse
Nei mari
Del tempo
Della storia
Del male di stato
I bambini
Sono pupille
A caccia di stelle

Arriva «Ultimo Rosso» seconda edizione
La poesia itinerante a Ferrara: Sabato 8 ottobre

Ritorna a Ferrara Ultimo Rosso, la festa della poesia itinerante. La poesia scende dai palchi, esce dai libri, abbandona le corone di alloro. Perché, come dice il murales nella fotografia di copertina: “La poesia, come il pane, è di tutti”. 

È la festa dei poeti, ma anche di tutti quelli che credono alla poesia come strumento di liberazione, individuale e collettiva. Perchéè la vera poesia non è solo bella, è utile. Anzi, indispensabile.

L’anno scorso, nella prima edizione, ci avevano accompagnato i grandi poeti. Che amiamo, ma con cui abbiamo un po’ giocato. Ricordate le cartoline?.

  

Quest’anno, invece, siamo andati in giro e la poesia – la poesia libera, popolare, anarchica – l’abbiamo incontrata ovunque. Nei campi, sulle montagne, sul ciglio delle strade, ma soprattutto sui muri. Qualche anonimo aveva scritto una frase, una poesia, una storia. 
Ecco quindi la locandina,
 o meglio, la prima delle locandine della seconda edizione di Ultimo Rosso.

Ma che possono fare dei poeti soldati senz’armi contro la guerra che incendia l’Europa, il freddo che arriva, l’ingiustizia, l’intolleranza, l’indifferenza? Tiziano Terzani, tra le ultime cose che ha scritto, parla di una sua fantasia, di una piccola isola e di un gruppetto di poeti.

Scrive Terzani: “Mi sono spesso chiesto, strada facendo, da dove sarebbe arrivata la soluzione al problema che affrontiamo, quello dell’umanità che mi sembra stia annaspando nella sua ricerca di una soluzione a quello che non va. Una volta, attraversando in nave lo stretto di Malacca, in una di quelle belle serate in cui si stava sulla tolda della nave a guardare il tramonto, vidi all’orizzonte decine di splendide isolette e mi venne la divertente idea che la soluzione sarebbe arrivata da una congiura di poeti. Perché soltanto la poesia mi pareva potesse ridarci una spinta di speranza. Identificai un’isola lontanissima, insignificante, che non era segnata su nessuna carta, ma in cui immaginavo crescesse una generazione di giovani poeti che aspettavano il momento di prendere in mano le sorti del mondo. Avevo in qualche modo il sentimento che non c’era una soluzione nei partiti, nelle istituzioni, nelle chiese, dove tutti ripetono le stesse cose.”

Ecco, il Collettivo Poetico Ultimo Rosso ha in mente una pazzia del genere. Una congiura di poeti che non accetta il mondo della finanza e della fame, che immagina e promuove la poesia e un mondo di uguali.

Se un poeta cerca gloria, aspira a qualche medaglia, si rode per i successi altrui, il Collettivo non è un posto per lui. Per Tutti gli altri e le altre, poeti e semplici lettori e amanti della poesia, le iscrizioni sono aperte.

Ma che succederà esattamente sabato 8 ottobre? Qualcosa ve la diremo domani. Per scoprire il resto l’unico modo è partecipare.

INTERNAZIONALE 2022
L’età e la vita nel cambiamento

Ho seguito tre incontri in questa prima giornata di Internazionale a Ferrara e in tutti e tre si è parlato di giovani o hanno parlato i giovani. E’ un ottimo segno.

Ore 11:00 – Cinema Apollo

Dell’evento delle 11 al cinema Apollo, dal titolo Le città visibili, ha già dato conto sul nostro giornale Maria Calabrese [Qui], con la quale ho condiviso durante l’incontro una palpabile empatia generale.

Un particolare della presentazione del Liceo Ariosto (foto Maria Calabrese)
Gli studenti del liceo Dosso Dossi illustrano il loro lavoro (foto Maria Calabrese)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Agli ospiti, intervistati da Federico Taddia sul tema della città come spazio di vita, sono subentrate le performance dei ragazzi di due licei cittadini, l’Ariosto e il Dosso Dossi, entrambe calate nella realtà di ogni giorno, entrambe piene di spunti operativi tesi a migliorare l’impatto degli adolescenti con la città.

Ore 15:30 – Palazzo Naselli Crispi

Nel pomeriggio piovoso di questo ultimo giorno di settembre è programmata l’intervista a Silvia Sciorilli Borrelli. A porle le domande sul suo recente libro L’età del cambiamento, uscito nel giugno di quest’anno presso Solferino, la vicedirettrice del quotidiano online Open, Serena Danna.

Silvia Sciorilli Borrelli presenta "L'età del cambiamento" dialogando con Serena Danna
Silvia Sciorilli Borrelli presenta “L’età del cambiamento” dialogando con Serena Danna (foto Valerio Pazzi)

Due giovani donne, da poco uscite dalla fascia d’età in cui l’ISTAT colloca i giovani fino a 34 anni. Anche il libro di cui si parla è diretto ai giovani, in particolare a quei ragazzi che in Italia sono usciti dai percorsi formativi e si affacciano al mondo del lavoro.
Serena Danna lo definisce un libro coraggioso, che restituisce attraverso i dati la fisionomia dei problemi più gravi che riguardano le ultime generazioni e tenta di suggerire soluzioni concrete. Lo sottolinea anche il sottotitolo del saggio, Come ridiventare un paese per giovani.

Osservo l’autrice mentre parla: è la stessa che ho ascoltato molte volte in tv, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo. Parla con prontezza e senza ombra di protagonismo.

Ha lo sguardo ampio di chi ha vissuto gli anni della propria formazione all’estero tra USA e Inghilterra e guarda ai problemi della sua nazione di origine, in cui è ritornata vivendo e lavorando a Milano come corrispondente del Financial Times, con l’ottica del raffronto. Ci sono problemi analoghi che toccano i paesi occidentali e ci sono soluzioni già tentate altrove da cui è utile prendere spunto.

I giovani in Italia. Accuratamente esclusi dai temi della recente campagna elettorale, descritti spesso come passivi e avulsi dalla politica, afflitti dalla disoccupazione più pesante in Europa (il 34% è senza lavoro e il 23% non lo cerca nemmeno), sembrano dividersi tra coloro che rinunciano a studiare e a cercare un lavoro e quelli che dopo l’università aumentano le fila dei “cervelli in fuga” all’estero, in cerca di una valorizzazione professionale che l’ Italia non offre.

In realtà all’autrice non risulta che i giovani in Italia siano così passivi, o almeno non lo sono a livello individuale, manca semmai il senso di una azione, di una ribellione comune.

Finora sono scesi in piazza per protestare contro il clima nei Fridays for Future, oppure contro l’alternanza scuola lavoro; anche se il loro impegno non si traduce in un voto partitico  i giovani sono interessati ai temi della politica e ne parlano attraverso i social.

Spaesamento rispetto agli slogan partitici da cui avvertono la distanza, difficoltà di dialogo tra generazioni in un mondo dell’informazione ancora legato a una cultura novecentesca che resiste  alla innovazione; inefficacia di un ascensore sociale quale potrebbe essere la scuola; piaga dilagante del lavoro precario e problema macroscopico dei salari, che solo in Italia sono in calo dagli anni ’90.

Silvia Sciorilli Borrelli (foto Valerio Pazzi)

Sono alcuni tratti del provincialismo culturale (dico io), che Sciorilli  ascrive alla situazione di precarietà dei diritti civili nel nostro Paese. A partire ancora una volta da quell’articolo 36 della Costituzione [Qui], che nella realtà attuale esclude non solo i giovani ma anche le donne dalla piena realizzazione di sé in chiave personale e sociale.

Quali possibilità ci sono per i giovani di prendere realmente parte al dialogo politico, saldando i rumors che già si muovono nei social o le mille istanze individuali cui si accennava di sopra?

Un cambio di passo potrebbe venire da quel PNRR che molti chiamano Recovery Fund, anche se il suo nome è Next Generation EU e dalle risorse che vi sono contenute per realizzare le riforme strutturali di cui l’Italia ha bisogno se vuole crescere come comunità non solo economica, a partire dalla valorizzazione delle nuove generazioni.

Le risposte che l’autrice offre alla fine di ogni capitolo nel suo libro non vengono svelate appieno nel corso della conversazione con Serena Danna. Devo accontentarmi di cenni sparsi nelle risposte di Sciorilli, qualcosa che lei dice sulla ridefinizione dei curricoli scolastici, sulla revisione dei meccanismi di passaggio dall’Università al mondo del lavoro, sulla utilità per i giovani e giovanissimi di fare esperienze lavorative negli anni di studio.

Colgo la sua determinazione nel fare appello al senso di responsabilità in ogni singolo interlocutore sociale, nell’auspicio insistito che la protesta dei giovani possa tradursi in dibattito politico.

Penso che stamattina all’Apollo gli studenti  hanno fatto proposte concrete per migliorare l’uso delle biciclette nel tragitto dalla stazione ferroviaria alla loro scuola. E’ un altro buon segno.

Ore 17:00 – cortile del Castello Estense

Nel cortile del Castello è lunga la coda che scansa la pioggia snodandosi sotto il loggiato. È stato spostato nelle sale dell’Imbarcadero l’incontro tra Daria Bignardi, che presenta il suo ultimo Libri che mi hanno rovinato la vita, e i ragazzi del gruppo di lettura Galeotto fu il libro del Liceo Ariosto.

Entro, saltando la coda come docente del Liceo (sono ormai ex ma non si vede), dentro trovo le ragazze già sedute al tavolo con Daria Bignardi, in attesa che il pubblico entri a prendere posto. Sembra una adolescente anche lei, per il sorriso fresco con cui saluta anche me e per la naturalezza con cui si pone mentre parla.

Internazionale Ferrara 2022, nel Cortile del Castello (foto Valerio Pazzi)

Mi dispongo ad ascoltare e penso che questi ragazzi sono più piccoli degli universitari a cui si rivolgevano Danna e Sciorilli Borrelli poco fa. Qui si parla della lettura come risorsa trasversale nella vita della scrittrice e giornalista, che è nata a Ferrara e ha frequentato lo stesso Liceo dei suoi intervistatori.

Si affrontano i temi della crescita interiore, del delicato rapporto con se stessi e con la famiglia. Qui è la vita interiore dei giovani che occupa il centro della riflessione. I libri letti e amati come paletti lungo il percorso di crescita.

La conoscenza di se stessi, la convivenza con se stessi come spazio propedeutico agli altri spazi dell’esistenza sociale di ognuno. Per vivere in comunità, si tratti dello spazio urbano o delle prospettive di vita civile come suggeriscono gli altri due incontri di questa fertile giornata ferrarese.

Cover: Il tabellone con il ricco programma di Internazionale Ferrara 2022 (foto Valerio Pazzi)