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Ferrara film corto festival

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PERICOLO TASER

 

Sabato scorso alla stazione di Ferrara un ragazzo è caduto per terra e si è ferito dopo essere stato colpito da un poliziotto con un taser (acronimo dell’inglese Thomas ASwift’s Electric Rifle, “fucile elettrico di Thomas A. Swift”, chiamato anche pistola elettrica o storditore) ed è stato quindi portato in ospedale in ambulanza.

Nonostante la confusione mediatica sulle dinamiche dell’episodio (difficile capire come il ragazzo potesse essere sia in coma etilico che capace di aggredire) ciò che emerge è che il taser, definito come “arma non letale”, è comunque uno strumento molto pericoloso, il cui utilizzo non può essere sdoganato a cuor leggero.

Le morti legate al taser nei paesi dove è in uso da anni sono centinaia: molto spesso persone di colore. Fra i tanti casi, c’è quello di Dalian Atkinson, calciatore inglese, che nel agosto 2016 è morto per arresto cardiaco dopo essere stato colpito da un taser.

Da quando il taser è stato introdotto in Italia, nel marzo di quest’anno, i media riportano un numero sproporzionato di casi nei quali è stato usato contro persone di origine straniera.
Ai cittadini delle nostre comunità, fermati molto frequentemente dalle forze dell’ordine per controllo documenti, l’introduzione del taser non porta sicurezza, ma paura: la paura che qualcosa di molto grave possa accadere a noi o ai nostri figli.

Nell’esprimere la nostra piena solidarietà alle forze dell’ordine della nostra città nello svolgimento del loro difficile lavoro, riteniamo importante segnalare la grande pericolosità di questa arma.

Associazione Cittadini del mondo – Ferrara

Gli spari sopra /
A.A.A. Cercasi Terapeuta Politico

 

Io dovrei parlare con qualcuno di bravo, sicuramente esistono professionisti ottimi e molto competenti, ma i terapeuti di cui abbisogno sono, purtroppo, tutti morti. Si. Perché io avrei necessità di una rinfrescata, un aggiornamento da parte di professori del calibro di Karl Marx, Antonio Gramsci, magari Giuseppe Di Vittorio, certamente Enrico Berlinguer e Pietro Ingrao, ma anche mio padre o a limite mia bisnonna.

Vorrei chiedere a loro come posso ancora, testardamente, ostinatamente, definirmi comunista in questo assurdo blob futuristico del primo ventennio del XXI secolo. Vorrei sul serio sentire la loro posizione, perché alle volte mi imbatto in compagni più stalinisti di Stalin, incontro posizioni talmente lontane da me che mi fanno venire dei dubbi sul mio sesso politico. Certo, direi che è inutile sottolineare la mia abissale lontananza politica da ogni forma di pensiero di destra, anche il più moderno e moderato, il mio assoluto anti moderatismo, la certezza di non essere rappresentato da qualsivoglia forma di centrismo, dall’essere molto lontano dal centrosinistra, ma spesso non mi rappresenta neppure più la sinistra radicale, di cui io sono elettore.

E allora? Proprio per questo motivo vorrei essere preso in carico da qualcuno dei professori che ho sopra nominato, ma pure da altri, Ernesto Guevara De La Serna, Jean Paul Sartre, Pablo Neruda, Nazim Hikmet, Pier Paolo Pasolini, Rosa Luxenburg, Lucio Magri, solo per citarne una minima parte.

Cosa vorrei dire in queste mie cicliche turbe sul chi sono, cosa mi rappresenta … un fiorino? Vorrei scavare nel significato antico delle parole, essere un compagno, un comunista (per sintetizzare) del secondo millennio cosa significa? Credo di essermi imbattuto in un percorso dattilografico irto di spine.

Nel secolo scorso, questi termini avevano una accezione univoca, ben identificabile da circa un terzo della popolazione italiana e da milioni di persone nel mondo. Ora questa nostra vituperata bandiera è sbrindellata in tanti sfilacci ed esposta ai venti dell’oblio.

Partirei, tanto per non farmi mancare nulla, dalla infame guerra in Ucraina. I perché sono molti, spesso camuffati, le ragioni di un conflitto che cova dal 2014 con migliaia di morti, prima dell’invasione, non possono essere nascosti. Ma ciò non toglie che esiste un invasore e un invaso, Putin non può essere scusato da una parte seppur minoritaria dei Partiti Comunisti nel mondo. Il Partito Comunista Russo farnetica in un suo documento, facendo una analisi storica limitata e semplificatoria delle ragioni che debbono risalire addirittura ai tempi dell’Unione Sovietica. L’imperialismo russo è un atto che va contro ogni tipo di concezione socialista di internazionalismo e abbattimento dei confini e delle frontiere.

“Non più confini, non più frontiere, ma solo al mondo rosse bandiere”.

Ho citato un esempio eclatante di estremismo di un gruppo politico che a mio avviso non può fregiarsi della parola compagno. Nulla centrano con me, come nulla ha mai centrato Stalin, dittatore sanguinario e il più grande sterminatore di comunisti nella storia del mondo. Lenin lo considerava poco intelligente e persona pericolosa, tra i suoi collaboratori non era per nulla un elemento di spicco, peccato che alla sua morte sia divenuto suo erede con la violenza. Poi, tanto per rimanere nella patria del socialismo realizzato (non quello reale che è rimasto chiuso nelle pagine del Capitale), l’odio che una parte della sinistra radicale nutre per la figura, per me rivoluzionaria, di Gorbaciov.

Un esponente comunista/sovranista (a parere mio pure reazionario) di casa nostra ha postato la sua felicità per la morte dell’ultimo segretario del PCUS con l’immagine di una bottiglia che si stappava, dicendo che era in fresco dal 1991. E quindi, per l’esimio proto comunista de noartri quale era la colpa di Gorbaciov? L’aver voluto riformare un sistema irriformabile? Avere voluto rendere trasparente un sistema torbido dove il Politburo decideva la sorte di milioni di cittadini? Avere reso più liberale un sistema liberticida? E quindi, proseguo con le domande al vento, in tanti compagni ritengono l’Unione Sovietica di allora la patria dell’uomo nuovo (mai nato, se non in casi singoli di persone eccezionali) e della libertà? E quindi Putin, figlioccio di Eltsin, reazionario e capital iper liberista è per qualcuno il paladino dell’antiamericanismo? Dimenticando il fatto che furono gli stessi americani e l’occidente tutto a brindare alla salute dello zar, in quanto aguzzino e killer del morente socialismo sovietico.

Perché al mondo non esiste un imperialismo buono e uno cattivo.

Fortunatamente sono 42 i partiti comunisti nel mondo che criticano aspramente l’intervento armato Russo in Ucraina, mentre pochi sostengono l’indifendibile posizione del Partito Russo che abbraccia la tesi della denazificazione dell’Ucraina con le armi. E’ uno scontro fra reazionari dove ovviamente, indipendentemente dai se e dai ma, chi invade uno stato sovrano ha torto. A nessuno questa invasione ricorda le mille guerre imperiali degli Stati Uniti per decomunistizzare l’America Latina, l’Indocina e svariate parti del mondo?

Giuro, mi sento una particella di sodio nell’acqua oligominerale della pubblicità.

Certo che lo so che ora in Italia ha appena giurato il governo più a destra dei tempi in cui c’era lui. Ma nel mio essere fuori tema per vocazione, stavo parlando d’altro.

Credo fermamente che il professarsi comunista nel mondo d’oggi, non ci connoti più come popolo, o come masse lavoratrici, ma ci disperda in mille rivoli, che abbracciano i due estremi dell’arco parlamentare, fino a diventare, in taluni casi, più realisti del re, con posizioni talmente contrapposte da mettere dalla stessa parte della barricata progressisti e reazionari, mentre occorre essere da una parte o dall’altra della barricata, se non si vuole diventare la barricata (Vladimir Ilʹič Lenin).

In questo mio articolo che consapevolmente ritengo patologico, vorrei concludere affermando che il marxismo non è morto: ha avuto un blocco dello sviluppo a causa di una grave mancanza di teste. Dalla morte del filosofo di Treviri e per quasi tutto il secolo breve la classe operaia, le masse lavoratrici hanno avuto una dignità rappresentativa, individuata nei tanti partiti comunisti e socialisti, anche in occidente e soprattutto in occidente, lottavano per il popolo. Ora quella dignità non c’è più. Il percorso evolutivo di un ideale, che ci saremmo pure accontentati fosse rimasta un’idea, muore a Padova nel 1984. Da quel giorno in poi, non solo in Italia, il proletariato e le sue evoluzioni hanno smesso progressivamente di essere rappresentate. Poi, mi rivolgo agli studiosi marxisti o marxiani di oggi, perché avete fatto diventare il pensiero del ragazzone di Treviri un dogma? Lui certamente non avrebbe gradito.

Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”
(A.G.)

PRESTO DI MATTINA /
Gente di cantiere, pietre vive

 

Gente di cantiere: pietre vive

Si fa un gran parlare in questo periodo di cantieri aperti, e non solo in senso metaforico. Il cantiere richiama l’idea del lavorare insieme, e questo implica un progetto comune, una lettura condivisa del progetto e l’attuazione di processi di corresponsabilità, condivisione e coordinamento per affrontare le problematiche che di volta in volta si presentano in fase realizzativa.

Gente di cantiere: vite condivise

Ai miei occhi il cantiere assomiglia a una melagrana brulicante di sementi che premono per uscire fuori e farsi alberi: «la pianta è un cantiere sempre aperto/ a chi vi torna senza averne memoria» (Biancamaria Frabotta [Qui] ).

È parola che rimanda a una pluralità di immagini, di significati e di applicazioni, e si declina forgiandosi con tutti gli aspetti e gli ambiti del vivere umano: dal suo iniziare, prendere forma e infine compiersi. Non può sorprendere allora che all’immagine del cantiere si sia ricorsi pure per rappresentare il cammino sinodale della Chiesa italiana.

In una città e chiesa antiche come la nostra, più che costruire dal nulla, viene da pensare a un cantiere di ristrutturazione. Il rinnovamento passa attraverso un’opera di custodia e salvaguardia, volta ad aggiornare l’antico, a rendere attuale, per l’oggi, quanto di prezioso ricevuto dal passato. La tradizione è tale solo se continua a farci vivere, arricchendosi con noi.

Vetera novis augere et perficere” era il detto di Leone XIII [Qui], volto a sottolineare la necessità di attuare il pensiero di Tommaso d’Aquino nella chiesa dell’epoca: “accrescere e migliorare le cose vecchie con le nuove”. Rendere la tradizione viva, incarnare il vangelo di sempre per comprenderlo e viverlo nella situazione dell’oggi.

Rerum novarum (Delle cose nuove) recita l’incipit della sua enciclica sulla questione operaia, prima pietra del pensiero sociale della chiesa. Con essa iniziò il cammino di apertura della chiesa verso la società e il mondo del lavoro, segnato dalle trasformazioni e dai molti problemi legati al capitalismo industriale.

Il Papa sollecitava così la formazione di organizzazioni sindacali basate sulla solidarietà cristiana, sottolineando la necessità della mediazione statale nei conflitti tra lavoro e capitale.

«L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto».

Il cantiere della sinodalità: un cantiere nel cantiere

La sinodalità è tema centrale e determinante per comprendere la visione e lo stile di Chiesa voluto da papa Francesco. Con il suo magistero, egli ha inteso riaprire quel cantiere del Concilio progettato da papa Giovanni XXIII come aggiornamento pastorale nelle mutate situazioni della cultura e della società in cui la vita della chiesa si esprime.

Certo, tutti desiderano chiudere un cantiere al più presto; ma quando i lavori restano incompiuti occorre avere il coraggio e la pazienza di riaprirlo: e questo è avvenuto attraverso il cantiere della sinodalità aperto al contributo di tutti, soprattutto della base, al fine di attuare finalmente quelle istanze ed esigenze di riforma e rinnovamento rimasti sulla carta al tempo del Vaticano II.

Come nella parabola degli operai della vigna, tutti sono così chiamati a fare la loro parte nel cantiere di un nuovo umanesimo solidale, in quello della fraternità, dell’evangelizzazione e della missione ecclesiale, collaborando anche con coloro che hanno a cuore la costruzione di un futuro sostenibile sulla terra.

Rispetto a questa parabola, noi siamo gli operai dell’ultima ora, gente di cantiere, chiamati ad attuare quel progetto di vita – perché il vangelo tale è − del grande cantiere dell’umanità.

Costruttori solidali si diventa

Mio papà Giacomo era muratore − eravamo dopo la metà degli anni ’60 − e qualche volta l’ho aiutato a costruire la nostra casa. Lavoretti da poco, tanto per darmi soddisfazione: mettere a bagno le pietre, tenere il filo a piombo, passargli gli attrezzi, reggere la staggia sull’intonaco, aggiungere acqua alla calce rappresa, far salire e scendere dall’impalcatura il secchio con la corda e la carrucola. Scoprii allora quanto fosse fondamentale, anche in un cantiere così piccolo come il nostro, l’ascolto reciproco.

Quando fu in pensione venne poi a lavorare a santa Francesca: era la fine anni ’80, e con qualche volontario – fra cui don Sandro, suo fratello Antonio, Gian Franco e Claudio − prese parte ai lavori di ristrutturazione della parrocchia.

Era il nostro un lavoro di bassa manovalanza, dopo il quale intervenivano gli operai dell’impresa. Lavori che proseguirono per anni, imponendomi di vivere molti anni in parrocchia come fosse un cantiere aperto, con impalcature dentro e fuori: prima la casa canonica, poi i tetti, il campanile e infine il consolidamento delle fondamenta della chiesa.

Nonostante questa esperienza sul campo, prima di scrivere di cantieri ho voluto comunque interrogare un amico muratore che è divenuto anche capo cantiere: Lorenzo.

Così gli ho domandato: “Qual è la prima parola che ti viene in mente se io dico cantiere?”. “Sicurezza”, è stata, senza esitazioni, la sua risposta. “Si deve iniziare ogni giornata verificando se siamo sicuri, altrimenti bisogna fermarsi”.

L’etimologia della parola sicuro dice ‘senza preoccupazione’, composto di ‘se’, che indica separazione o privazione, e ‘cura’, (‘preoccupazione’). Si è sicuri perché prima ci si è presi cura di mettere al riparo da rischi e pericoli. “Costruire è prima di tutto custodire”; è capire il valore delle relazioni e della responsabilità; gli altri ci sono affidati per crescere e migliorare insieme.

“Si fa il punto, si valuta insieme”, dice poi Lorenzo. “Io chiedo agli altri se nell’esecuzione del lavoro hanno proposte o idee per una migliore attuazione soprattutto da chi può avere più esperienza. Il progetto stesso va poi valutato in cantiere: vengono studiati i criteri di fattibilità, adattandolo alle situazioni che si incontrano.

La suddivisione dei lavori e il loro coordinamento sono poi essenziali. Un cantiere è un insieme differenziato e molteplice, che comporta e combina articolazioni e mansioni diverse”.

“Ancora è importante l’ascolto di tutti, e il farsi ben comprendere da tutti: saper valorizzare anche mezza idea e poi adattarla con un’altra come con le pietre. Oltre all’ascolto è importante prevedere e provvedere agli approvvigionamenti dei materiali; vedere oltre, mentre si è ancora in corso d’opera”.

“Avere cura delle persone che lavorano è come porre la calce tra le pietre. Si cresce insieme anche in professionalità, perché si impara gli uni dagli altri. Un cantiere nel cantiere è allora anche lavorare con le persone, loro stesse sono un cantiere in costruzione.

È così importante affidarsi a loro con fiducia, dare consigli e soprattutto gratitudine, ringraziali per il loro lavoro, riconoscere la fatica e i sacrifici che comporta. Il cantiere cresce se uno sa trasmettere amore per quello che sta facendo, se ama il suo lavoro diventa contagioso per gli altri”.

Un salmo che dà sicurezza

La sicurezza nei cantieri sinodali può contare sul Salterio − e in particolare sul salmo 127 − come se fosse il suo manuale. Nel suo commento al salmo citato Gianfranco Ravasi [Qui] ricorda che esso introduce uno spaccato «di vita urbana e sociale fatto di case, di città, di architetture, di porte cittadine, di turni di guardia, di figli, di cibo, di lavoro, di sonno».

Il progetto di edificare la vita buona è benedetto da Dio; il salmo canta «la felicità comunitaria (città) e domestica (famiglia)» che nasce dalla sua benedizione. Ci ricorda che l’attività umana, come l’agire sinodale, portano frutto, si accrescono e si attuano a condizione che Lo si prenda o meno come “co-costruttore”.

Infatti, in questo salmo «Dio non si limita a benedire, ma partecipa al lavoro, costruisce egli stesso la casa, ne è egli stesso il custode». E lo fa con stile di gratuità. Quasi a dire che questa è alla base di ogni costruzione e progetto di umanità fraterna, sociale e familiare. Usando la seconda persona plurale, il “voi”, il messaggio del salmo si apre come proposta rivolta non solo all’individuo ma all’esperienza di tutti.

In altre parole si è chiamati nelle nostre comunità cristiane, comunità provvisorie e cantieri aperti, a costruire le nostre relazioni sulla grazia e nella reciprocità del dono.

Se il Signore non costruisce la casa,
invano si affaticano i costruttori.
Se il Signore non vigila sulla città,
invano veglia la sentinella.
Invano vi alzate di buon mattino
e tardi andate a riposare,
voi che mangiate un pane di fatica:
al suo amico egli lo darà nel sonno.

Dio quando costruisce, edifica granai. Così viene da pensare poiché il verbo ebraico che esprime l’atto del «costruire» (qrh) alla lettera significa ‘mettere un solaio, gettare il basamento di un granaio’. Del resto in ugaritico qrjt e in accadico qarflu significano appunto «granaio» (Ravasi).

Senza di Lui, c’è infatti sempre il rischio di costruire ragnatele, anziché edificare comunità. Ce lo ci ricorda la sura XXIX del Corano: «Coloro che prendono per sé dei padroni all’infuori di Dio sono simili al ragno che si costruisce un’abitazione. E chi non lo sa che la casa-ragnatela del ragno è ciò che di più fragile esiste sulla faccia della terra?».

L’apostolo Paolo è nel cantiere della comunità di Corinto come un capomastro ed esorta quei cristiani come fossero operai di cantiere dicendo: «Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio. Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo» (1Cor 3,9-11).

Cantiere navale e comunità di destino

Tra i simboli della Chiesa in età patristica vi è quella della nave come comunità di destino, costruita con tutte le forze: “il colpo d’ascia rimbombi attraverso tutto” e con tutto il cuore “a vele spiegate dal vento”. Siamo tutti sulla stessa barca: coloro che costruiscono la nave, sono gli stessi che con essa navigheranno verso un porto sicuro.

Scrive Hugo Rahner [Qui] in Simboli della chiesa (ed. San paolo Milano 1995, 339): «La teologia dei Padri della Chiesa ha avviluppato tutto ciò nei concetti simbolici in voga sin dai primordi, concetti che vedevano nella Chiesa quella grande nave, a cui è affidata la nostra salvezza.

La Chiesa è navigazione verso il portus salutis. Chiesa è viaggio pericoloso e, allo stesso tempo, meraviglioso: pericoloso, perché non è ancora giunto in porto; meraviglioso, perché è luogo unico di sicurezza, in mezzo al mare procelloso. Questa nave della Chiesa è costruita con il legno della Croce, e il suo ritorno in patria è garantito dall’ albero con il quale il pennone della vela, postogli di traverso, forma la  croce: antenna crucis».

Gregorio Nazianzeno [Qui] descrive come dovrà essere quella fortunata nave, capace di raggiungere un destino di salvezza, e la descrive come Seneca: «Non sia la tua nave colorata con graziosi colori, né brilli di bellezza civettuola, se deve sopportare le forti scosse del mare. No, una buona nave è ben inchiodata ed è a prova di mare e solidamente connessa dal costruttore: soltanto così essa taglierà le onde».

È così la simbolica della nave della vita umana, che va a rappresentare anche quella della chiesa. Comunità di destino è la chiesa come la vita umana dalla cui bontà e dalla cui buona tenuta dipendono la vittoria contro il mare tempestoso.

Gregorio di Nissa [Qui] descrive la costruzione di una buona nave frutto della buona collaborazione di tutti: «Uno mette insieme la chiglia, un altro si dà da fare per erigere le assi. Chi costruisce la prua e chi la poppa. Questi si affatica attorno all’albero e quegli intorno all’antenna».

E se torniamo sulla terra ferma è Ignazio di Antiochia [Qui] che ci offre la descrizione più bella della gente di cantiere, paragonandola a pietre vive: «Voi siete davvero le pietre del Padre preparate per la costruzione che egli compie, elevate con l’argano di Gesù Cristo che è la croce, usando come corda lo Spirito Santo.

La fede è la vostra leva e la carità la strada che vi conduce a Dio. Siete tutti compagni di viaggio, portatori di Dio, portatori del tempio, portatori di Cristo e dello Spirito Santo, in tutto ornati delle parole di Gesù Cristo». (Lettera agli Efesini, 9)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

IL BRASILE SPACCATO IN DUE: LULA O BOLSONARO?
156 milioni al voto per scegliere tra 2 futuri opposti

 

Fra meno di due giorni il Brasile – lo stato grande come un continente – saprà il suo futuro. Il ballottaggio tra Luiz Inacio Lula da Silva, il leader storico delle tante Sinistre presenti nel paese e Jair Bolsonaro, presidente uscente e campione della Destra autoritaria e tradizionalista, non è una semplice elezione presidenziale. Domenica 30 ottobre, i 156 milioni di brasiliani chiamati al voto (in Brasile il voto è obbligatorio) dovranno decidere tra bianco e nero, tra un Brasile che attenua le enormi diseguaglianze sociali e un Brasile comandato dai grandi latifondisti, dal blocco finanziario e dalle potenti multinazionali, soprattutto americane, da decenni insediate nel paese.
Gli ultimi sondaggi danno i due contendenti alla pari,  o comunque divisi da una forbice percentuale irrilevante. Si prevede quindi una vittoria al fotofinish. Da qui il clima di attesa, la tensione e la paura che scorre nelle vene del Brasile – paese guida di tutta l’America Latina.

Per chi non è mai stato in Brasile è difficile capire come in quel “continente” ogni manifestazione, individuale e collettiva, assuma un carattere tutto particolare… grandioso, passionale, musicale: Maravilha. Una campagna elettorale per esempio. Pensate alla noia mortale della nostra ultima italiana. E prima di proseguire la lettura, guardate cosa è successo una ventina di giorni fa a  Salvador de Bahia, la città nera, l’antica capitale del Brasile.

Carnevale popolare della speranza con Lula a Salvador (ottobre 2022)

 

Oppure guardate e ascoltate l’inno che un gruppo di artisti petisti hanno creato per sostenere la campagna di Ignazio Lula da Silva.

Vou pedir pra voce votar (Lula, 2022)

Un corteo elettorale che sembra una sfilata di Carnevale, un inno elettorale da cantare e da ballare: Il Brasile fa meraviglia ma nulla toglie alla drammaticità del momento. Si aspetta, si ride, si scherza.  E si prega.

Ho chiesto a Mauro Furlan, un amico nato a Treviso, ma carioca (abitante di Rio de Janeiro) da vent’anni, operatore socio educativo con gli adolescenti, di tracciare per i lettori di Periscopio un quadro sintetico della situazione.  Lascio a lui la parola.
Francesco Monini

8 punti in gioco e 2 giorni per decidere

Sono in Brasile da 20 anni e questa è la sesta elezione a cui assisto. Scrivo questo breve articolo a due giorni dal ballottaggio per le elezioni presidenziali. Si potrebbero scrivere fiumi di parole, io mi limito ad alcuni cenni che presentano le forze e i fattori in campo e fanno forse capire il complesso e drammatico appuntamento a cui è chiamato il popolo brasiliano.

1 Bipolarismo

Queste elezioni sono diverse dalle altre, per la tensione, il bipolarismo portato agli estremi limiti che ha come conseguenza la divisione tra persone, che arriva all’odio anche tra persone della stessa famiglia. Mai si è visto un odio che divide le persone, o sei con me o contro di me. Questo clima è cominciato 4 anni fa e in questi ultimi mesi si è esasperato. Non sono idee, non è dialogo, ma odio, l’altro è il nemico e il male.

2 Chiese evangeliche

Bolsonaro è riuscito ad avere non solo la forza dell’esercito, della bancada militarista, della bancada degli allevatori, ma soprattutto l’appoggio delle chiese evangeliche che si sono schierate con Bolsonaro appoggiando con tutti i mezzi la sua elezione.  Le chiese Evangeliche si sono rivelate una forza grande, con un potere di aggregare enorme, e tutti i pastori agendo in unisono e diffondendo capillarmente notizie prodotte per la macchina bolsonarista stanno facendo la differenza in questa elezione. Senza questo numero alto della popolazione brasiliana apertamente defendendo bolsonaro  per lui sarebbe impossibile vincere. La chiesa cattolica praticamente muta, anzi paurosa, minacciata e con un passo indietro.

3 Dio patria e famiglia

Con il motto “Il Brasile in cima a tutto e Dio in cima di tutti” e con una chiara posizione tradizionale, una visione di destra e cavalcando la lotta contro la droga, la lotta contro l´aborto, la difesa della possibilità di avere armi, la lotta contro la ideologia di genere e la lotta alla corruzione Bolsonaro riesce a riunire molte persone che percepiscono questi valori importanti e che sono opposti alla ideologia della sinistra (che lui dice del comunismo) .

4 Gli alleati di Lula

Lula é riuscito ad avere come alleati i rappresentati della terza via che hanno perso al primo turno (Ciro Gomes e Tebet) oltre ad Alckmin che si è alleato fin dall’ inizio. Lula attira oltre al PT anche tutti i partiti che difendono la democrazia, anche se non sono d’accordo con Lula, ma che ritengono Bolsonaro una tragedia per la democrazia. La cultura con grandi nomi della musica e del mondo artistico per la maggioranza si é mossa in difesa di Lula. La difesa della democrazia, della Amazzonia e la capacità di dialogare internazionalmente, della difesa del sistema di protezione sociale e del combattere la povertà sono le bandiere usate.

5  la macchina delle fake news

Bolsonaro ha messo in piedi in questi 4 anni una macchina di comunicazione capillare di diffusione delle proprie idee e anche di messaggi falsi e montati a seconda del pubblico. Questo sistema capillare e moltiplicato nelle varie reti e sistemi ha creato una confusione e non si riesce neanche a scoprire quello che è vero e falso. Bolsonaro ha creato una forte narrativa contro la corruzione di Lula e del Pt molto forte e convincente.

6 Lo zoccolo duro del bolso

Tutte le ricerche di mercato hanno confermato che in Brasile il 30% della popolazione è bolsonarista alla radice, cioè difende Bolsonaro a tutti i costi e una parte di questi difende la dittatura e vuole occupare il potere anche in modo violento. Su questa parte della popolazione del Brasile che ha trovato voce in Bolsonaro si deve fare una analisi profonda, visto che riunisce varie posizioni e idee agglutinate dalla sua figura.

7 Deputati e senatori

Le elezioni di deputati e senatori sia a livello federale sia a livello statale realizzate nel primo turno sono state un successo di Bolsonaro, eleggendo la maggioranza di questi tra le file del partito di Bolsonaro e dei suoi alleati. Questo significa che se anche Lula vincesse sarà molto duro governare perché la base di governo non appoggerà il presidente e il suo potere esecutivo. Se vincesse Bolsonaro sarebbe un disastro totale per la difesa dei diritti, sarà porta aperta alla totale liberalizzazione delle ditte parastatali, un passo indietro per tutto il sistema delle garanzie sociali.

8  Previsioni

A due giorni delle elezioni le agenzie di previsione dicono che Lula ha il 52% e Bolsonaro ha il 47%. Ma non possiamo confidare in questi numeri perché ancora non si capisce quanto sarà l’astensione, anche se in Brasile votare è obbligatorio, ma in molti stati non ci sarà il ballottaggio di governatori e quindi un motivo in meno per non andare a votare. Il voto bianco o nullo che é possibile sembra al 7%, ma queste sono solo previsioni, stime. Domenica sapremo la verità. In tutti i casi che vinca Lula o Bolsonaro saranno anni difficili, per la crisi e per le paure e minacce che stanno all´orizzonte.

Storie in pellicola / Lamborghini: Prima mondiale a Roma

 

Roma : Ci siamo! L’anteprima mondiale del film Lamborghini – The man behind the legend è finalmente alla nostra portata.
Siamo pronti, biglietti alla mano, platea, fila 4… entriamo all’Auditorium della Conciliazione.
Ci siamo anche noi alla sorprendente e scintillante serata di chiusura della Festa del Cinema di Roma.

A pochi passi, la Cupola di San Pietro illuminata, a sorpresa (annunciata ma con grande margine di suspense), in un panorama da mozzafiato, sfilano le Lamborghini. Oltre a una manciata di bolidi moderni, tra cui la Huracán con le livree della Polizia, non mancano due Miura, una Countach 5000 S, una Diablo, ma anche le meno celebrate Espada e Urraco. È un’emozione sentire, in un tale contesto, il rombo inconfondibile di quei motori leggendari. C’è anche un imponente trattore bianco, a ricordare le origini.

Auditorium di Roma, prima del film, foto Simonetta Sandri

Dalla fiammante Miura gialla scende Frank Grillo (che, appena premiato con il Capri Award Italoamericano 2022, nel film interpreta Ferruccio Lamborghini, 1916-1993), elegante e sorridente. La sfilata di attori e produttori continua, bellissima passerella, il pubblico applaude, come a ogni prima che si rispetti. Ciak, s’inizia.

Frank Gallo arriva all’Auditorium di Roma, foto Simonetta Sandri

A introdurre il film – in inglese con sottotitoli in italiano – ci sono, sul palco dell’Auditorium, il regista Robert (Bobby) Moresco (Crash, tre premi Oscar), i produttori Andrea Iervolino e Monica Bakardi e gli attori Frank Gallo, Romano Reggiani (che veste i panni del giovane e determinato Ferruccio Lamborghini), insieme a Tonino Lamborghini (dal cui libro Ferruccio Lamborghini, la storia ufficiale, Minerva Edizioni, è liberamente tratto il film) e Tony Renis. In platea, dietro di noi, la giunta comunale di Cento quasi al completo, con il giovane sindaco Edoardo Accorsi.

Il cast è ricchissimo: Hannah Van Der Westhuy interpreta Clelia Monti, la prima moglie di Ferruccio, Mira Sorvino, premio Oscar come miglior attrice non protagonista ne La dea dell’amore di Woody Allen, è Annita Borgatti, la seconda moglie, Gabriel Byrne, Golden Globe per il suo ruolo nella serie In Treatment, veste i panni di Enzo Ferrari, il papà del fondatore della casa emiliana è invece interpretato da Fortunato Cerlino, il celebre Don Pietro di Gomorra – La serie e non manca il rapper Clementino, presentatosi all’anteprima a bordo di un trattore Lamborghini. Ci sono poi Lorenzo Viganò, nei panni di Tonino Lamborghini, Giovanni Antonacci (figlio di Biagio e Marianna Morandi), in quelli di un giovane Tony Renis e un bel cameo del maestro Demo Morselli, che dirige l’orchestra in occasione di una festa danzante in onore di Ferruccio.

Il film, che uscirà a gennaio 2023 su Amazon Prime Video, è stato girato in varie località dell’Emilia-Romagna (Cento, Pieve di Cento, San Pietro in Casale, il circuito di di Misano Adriatico) e a Roma.
Delle riprese di Cento abbiamo le fotografie del fotografo di periscopio Valerio Pazzi.

Riprese a Cento, foto Valerio Pazzi
Riprese a Cento, foto Valerio Pazzi
Riprese a Cento, foto Valerio Pazzi

Eccoci alla storia, dunque, alla Storia. Siamo nel secondo dopoguerra, una Storia tutta italiana che va oltre la vita del fondatore della celebre casa di trattori e successivamente del marchio automobilistico, raccontando la nota rivalità con Enzo Ferrari e, soprattutto, la storia dell’Italia degli anni ’50, un Paese in cammino, con la sua voglia di rinascita.

Lamborghini -The Man Behind The Legend, racconta l’uomo dietro il mito, scavando nella mente e nelle emozioni di un genio visionario. Un vero self-made man, nato a Renazzo, una piccola frazione di Cento. Una visione un po’ americana, ma ci sta.

Frank Gallo nei panni di Ferruccio Lamborghini

Si inizia con Ferruccio in uniforme, di rientro a casa dopo che, durante la Seconda guerra mondiale, ha sperimentato le sue doti meccaniche come tecnico riparatore presso il 50º autoreparto misto (base militare di Rodi nell’isola omonima nel Dodecaneso italiano). Nella campagna emiliana il padre lavora come agricoltore, non capisce quel sogno impossibile e che rischia di portare allo sfacelo, ma alla fine lui ci sarà.

Nel 1946, la crescente domanda di trattori del mercato italiano, unita all’esperienza acquisita nelle riparazioni, spingono Ferruccio a intraprendere la carriera di imprenditore nella produzione di trattori. Compra vecchi veicoli militari e li trasforma in macchine agricole (la Lamborghini Trattori nasce a Cento nel 1948; il logo aziendale si ispira alla data di nascita di Ferruccio, sotto il segno del Toro e poi amava la corrida…). Studia tecnologie industriali a Bologna finché, con tenacia e caparbietà, il sogno diventa una realtà coronata dal successo. E da lì comincia la storia, dell’uomo, dell’imprenditore e del Paese, che gli riserva un capitolo di orgoglio e successo internazionale. Dai trattori ai bruciatori a nafta e ai condizionatori fino alle automobili di lusso, circondato da collaboratori esperti altrettanto visionari, sottratti a Ferrari e Maserati (nel film viene raccontata nei dettagli la genesi della 350 GT con i suoi principali artefici, tra cui Franco Scaglione e Giotto Bizzarrini, pronta in tempo di record per il Salone di Ginevra del 1964, tanto si favoleggia sui fari-ciglia della Miura).

Ferruccio Lamborghini

Molti i sacrifici, personali e familiari, ad iniziare dalla perdita della prima amata moglie Clelia (ferrarese) che muore di parto, fino ai conflitti con la seconda Annita e allo stesso Tonino che sentirà sempre la mancanza di un padre, eterna anima in pena, assente perché troppo concentrato sul suo sogno e la rivalità con il Drago, Enzo Ferrari. Un Tonino che, nel 2014, fonda il Museo Ferruccio Lamborghini a Funo di Argelato, in provincia di Bologna, per celebrare la figura del padre e che troverà la sua strada di imprenditore di oggetti di lusso. Ma questa è un’altra storia.

Cast: incontro con la stampa

Lamborghini: The Man Behind the Legend, di Robert Moresco, con Frank Gallo, Romano Reggiani, Mira Sorvino, Hannah Van Der Westhuy, Gabriel Byrne, Fortunato Cerlino, Lorenzo Viganò, Giovanni Antonacci, 2022, 100 mn.

Foto in Copertina  e di scene del film tratte dal web. Foto del set di Cento di Valerio Pazzi

Una statua di secchi vuoti per denunciare la quotazione in borsa dell’acqua: “Voi politici ci avete tradito!”

 

Bernard Tirtiaux e Pietro Pizzuti, artisti
per la Agorà degli Abitanti della Terra

Bruxelles 23 ottobre 2022

Signore e Signori che NOI rappresentate,

Vi interpelliamo in nome dell’Agorà degli Abitanti della Terra, in nome dei vostri elettori che vi hanno scelto per difendere la vita nella sua molteplicità, la vita degli uomini depredati, la vita delle foreste sradicate, la vita dell’aria, dell’acqua, del mondo animale che si sta deteriorando in modo drammatico come il clima.

Non vi abbiamo chiamato per servire gli interessi di approfittatori predatori che sperperano, monetizzano, controllano, si appropriano del bene comune al solo scopo di far crescere il capitale dei loro azionisti.

Siete i nostri ambasciatori, i garanti delle nostre libertà e delle nostre aspettative. Siete i nostri eletti e mangiate al tavolo della grande finanza, brindate con i mega ricchi che monopolizzano il nostro pianeta con le perniciose armi del profitto.

Vi abbiamo dato il nostro voto a gran voce ed è in un ululato collettivo che ci rivolgiamo a voi per denunciare il vostro tradimento. Trafficate e obbedite alle leggi del mercato, tollerando giochi di potere e di denaro. Sostenete con miliardi la guerra, trascurando i diritti alla salute, all’educazione, all’aiuto agli indigenti, al sostegno degno e fraterno di sorelle e fratelli in fuga… Dov’è la campagna per l’abolizione della povertà nel vostro programma iniquo, tendenzioso e mortale? Ciò che state infliggendo impunemente all’umanità è criminale ed ella non vi riconosce più.

Quello che vogliamo con voce unanime è l’avvento di un’altra gestione del vivere insieme, in armonia con il Vivente, preservando e coltivando i valori sacrosanti della vita nel rispetto della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

La vita sulla Terra, le sue risorse vitali e in particolare l’acqua, sono proprietà comuni e non possono in nessun caso essere quotate in borsa. Ignorare tale manipolazione ci rende complici di un imperdonabile crimine contro l’umanità. 30.000 persone di cui 5.000 bambini muoiono ogni giorno per mancanza di acqua o per ingestione di acqua putrida. Queste cifre esploderanno se non si pone fine, oggi, a questi giochi speculativi.

Con tutte le donne e gli uomini di cuore, con il piccolo popolo degli artisti coinvolti, gridiamo la nostra indignazione in questa funesta data di anniversario della prima quotazione in borsa dell’acqua, che si è svolta a Chicago, il 7 dicembre 2020.

Come simbolo della nostra denuncia, innalziamo davanti a voi questa statua della spoliazione, fatta di secchi vuoti ed asciutti (vedi sopra: Statue de la spoliation construite de seaux vides et secs, N.d.r,)  l’immagine di un disastro senza precedenti che voi approvate per domani e che noi condanniamo con forza ed insistenza da oggi.


Agorà degli Abitanti della Terra

Iniziativa ampia che ha come obiettivo il riconoscimento dell’Umanità come attore principale nella regolazione politica, sociale ed economica a livello globale.

Cover: la grande statua di secchi vuoti e asciutti realizzata e installata a Bruxelles da Bernard Tirtiaux e Pietro Pizzuti .

QUATTROCENTO PAROLE PER TABUCCHI

 

Caro Francesco, da Valencia, e dunque scusa la concisione. 
In breve, elaborando un’intervista di qualche giorno fa, ho messo insieme 400 parole (non una meno, non una di più) per ricordare ancora Antonio Tabucchi, prima che scada con la fine del 2022 il decennale della scomparsa. Un po’ dovunque, non solo in Italia, ma anche all’estero, quest’anno è stata, oltre che di libri, una staffetta di testimonianze e ricordi. Dunque, dovendo parlarne a partire da una sola parola, quella di testimone (visti oltretutto i tempi bui che stiamo attraversando) mi è parsa particolarmente significativa. 
Splendida Valencia (ti mando una foto del locale dei tuoi ricordi. Ma incredibile tutta la parte moderna, fatta da Calatrava, compreso il teatro dove abbiamo visto una notevole Anna Bolena.)
Ti giro la mia schedina. Vedi se può interessarti.  Con un caro saluto
Anna

Per ricordare Antonio Tabucchi nel decennale della scomparsa, mi piace scegliere una parola come testimone, che ben lo rappresenta, come uomo e come scrittore.

Antonio (non solo nei libri – per semplificare mi limito a citare Piazza d’Italia e il dittico portoghese Sostiene Pereira e La testa perduta di Damasceno Monteiro – e tra gli scritti giornalistici L’oca al passo. Notizie dal buio che stiamo attraversando) è sempre stato testimone di accusa dinanzi alle ingiustizie, alle violenze perpetrate dai singoli e degli stati, testimone di accusa contro i facili accomodamenti, la pavida vigliaccheria, l’allineamento colpevole al potere.
Ma è stato anche un teste (dunque testimone a difesa) che si è speso per i più deboli, gli emarginati (si pensi a Gli zingari e il Rinascimento), offrendo il suo nome e la sua notorietà a sostegno della loro causa.

Eppure, detto questo, c’è un altro campo nel quale in un certo senso tutti gli altri si possono riassumere, visto che per esercitarli, da grande scrittore qual era, ha usato la penna e la scrittura è stata la sua vera voce.
Si tratta della testimonianza che ha reso continuamente in favore della cultura e della letteratura, che, se sono tali, aiutano a sollevare dubbi, a inquietare, a capire, insegnando a porre domande, dunque a crescere. Aiutano anche a vivere perché offrono gli spazi ludici dell’immaginazione e delle sue possibilità prospettando mondi complementari e alternativi rispetto a quello in cui viviamo e che inevitabilmente, in ogni senso, non basta.

Non è un caso allora che il suo romanzo più conosciuto dal pubblico, Sostiene Pereira, abbia come sottotitolo Una testimonianza, che  prospetti la storia di un’educazione sentimentale tardiva combinata alla riscoperta di una paradossale giovinezza, e che con il suo misterioso sostenere dinanzi a un destinatario non meglio individuato (la repressiva PIDE, la storia, un tribunale che indaga crimini contro l’umanità, lo scrittore?), inneschi un gioco di trasmissione della testimonianza, visto che delle parole di accusa di Pereira si fa carico lo scrittore che le trasmette a noi perché continuino ad avere vita.

Il lettore senza accorgersene finisce così per collaborare con il testo, con l’autore, preso dentro il lascito etico che Tabucchi ci ha lasciato insegnandoci, con Celan, che ci vuole sempre qualcuno che prenda il testimone, che testimoni per i testimoni che sono stati costretti al silenzio dalla sopraffazione, dal tempo, dal caso, o dalla morte.

Cos’è veramente la Sovranità Alimentare?
Ce lo spiega l’inventore: il documento di Via campesina.

 

L’istituzione, nel primo governo della Destra, del nuovo Ministero per la Sovranità Alimentare, è stata oggetto di grandi applausi, feroci critiche e vari e variopinti commenti. Molti si sono stupiti – io non sono tra questi – dell’utilizzo in versione patriottica e populista di quella locuzione, “sovranità alimentare”. che eravamo abituati a sentire  in tutti altri ambiti e con opposte intenzioni.

Le parole, prima ancora delle idee e delle notizie, sono forma e sostanza del mio lavoro. Così ho imparato che le parole hanno una storia lunga e complicata, esattamente come la vita di ognuno di noi. Una parola può apparire, scomparire e riapparire in un campo e un senso diverso o addirittura opposto. Qualche volta una parola può andare incontro ad uno straordinario successo, invadere i media, fino a trasformarsi in un semplice intercalare, cioè non significare niente di niente.
Non è  forse questo il triste destino di parole come resilienza, sostenibilità?

La “Sovranità alimentare” sta seguendo la medesima parabola. Nella sua breve storia – ha raggiunto da poco 25 anni – è già stata rubata, riutilizzata, ribaltata, banalizzata.
In questi casi,  la cosa migliore da fare è risalire la corrente. Andare alle origini. Interrogare gli inventori (senza copyright) della “sovranità alimentare”. 

Vía Campesina (in spagnolo: “la via dei contadini”) è un movimento internazionale, una federazione formata da 182 organizzazioni presenti in 81 paesi, tra questi, per fare un solo esempio, Sem terra, lo storico movimento sociale brasiliano contro il latifondo e le multinazionali dell’alimentazione.
Via Campesina coordina le organizzazioni contadine dei piccoli e medi produttori, dei lavoratori agricoli, delle donne rurali e delle comunità indigene dell’Asia, dell’Africa, dell’America e dell’Europa.
Si oppone
con azioni concrete allo sfruttamento dell’ambiente e del lavoro, al sistema agricolo capitalistico e propone l’agricoltura sostenibile.

Proprio Via Campesina ha coniato il termine sovranità alimentare.
Cosa è, cosa dovrebbe essere, cosa è necessario fare per attuare la sovranità popolare, ce lo racconta un recentissimo documento di Via Campesina, tradotto e diffuso in tutto il mondo, ma che in pochi hanno avuto la possibilità di leggere. Periscopio lo riproduce integralmente.
Buona lettura. e diffidate dai falsi e dalle imitazioni.
Francesco Monini
Direttore responsabile di Periscopio

Dichiarazione politica di Via Campesina del 16 ottobre 2022 in occasione della Giornata internazionale d’azione per la sovranità alimentare dei popoli contro le multinazionali

Tradotto dall’originale del sito di Via Campesina da Altragricoltura – Matera

 

Il nostro mondo fragile deve affrontare un’incombente crisi alimentare globale. L’impatto del COVID-19 ha spinto più persone nella povertà. Le misure di confinamento hanno devastato i mezzi di sussistenza delle famiglie e dell’economia e interrotto le catene di approvvigionamento. A livello globale, secondo il Global Report on Food Crises 2022 (GRFC), i livelli di fame rimangono allarmanti come nel 2021, con circa 193 milioni di persone in 53 paesi in condizioni di grave insicurezza alimentare e bisognose di assistenza urgente. Questa grave carestia è alimentata da conflitti, condizioni meteorologiche estreme, i drammatici effetti economici e sociali della pandemia e, più recentemente, dalla guerra in Ucraina. I prezzi delle materie prime alimentari all’inizio del 2022 erano al punto più alto in 10 anni e i prezzi del carburante al punto più alto in 7 anni. L’attuale crisi alimentare riguarda l’accessibilità economica; anche dove il cibo è  disponibile, il suo costo è fuori dalla portata di milioni di persone, mentre l’aumento dei prezzi aggrava le sfide per coloro che possono a malapena permettersi il cibo in tempi normali.

La crisi alimentare in questo momento è senza precedenti, perché si svolge nel mezzo di un contesto globale più difficile di quello delle crisi alimentari e dei combustibili del 2008. L’intensità e la frequenza degli shock climatici sono più che raddoppiate rispetto al primo decennio di questo secolo. Negli ultimi 10 anni, circa 1,7 miliardi di persone sono state colpite da disastri climatici, di cui quasi il 90% sono diventati rifugiati climatici. Fame, malnutrizione e povertà sono più difficili da superare a causa di guerre, conflitti e disastri naturali in corso. Ciò ostacola tutti gli aspetti di un sistema alimentare, dalla raccolta, lavorazione e trasporto del cibo alla sua vendita, disponibilità e consumo.

Ma porre fine alla fame non riguarda solo l’offerta. Oggi si produce abbastanza cibo per sfamare tutti sul pianeta. Il problema è l’accesso e la disponibilità di cibo nutriente, che è sempre più ostacolato da molteplici sfide, come la pandemia di COVID-19, il conflitto, il cambiamento climatico, la disuguaglianza, l’aumento dei prezzi e le tensioni internazionali.

Mentre il passaggio dal multilateralismo al modello multistakeholderismo ( ndt: ovvero il passaggio dal sistema del multilateralismo che coinvolge gli stati e le grandi corporazioni alla base delle politiche dell’Organizzazione Mondiale del Commercio a quello che coinvolge tutti gli altri portatori di interesse della società civile e dei cicli economici) si allarga nel dibattito interno alle piattaforme delle Nazioni Unite, in realtà le multinazionali continuano a controllare il dibattito e la narrazione sul cambiamento. Il loro potere sui sistemi agroalimentari ha continuato a crescere e la finanziarizzazione sta trasformando cibo e terra in oggetti di speculazione. Il recente processo UNFSS (United Nations Forum on Sustainability Standards) è un chiaro esempio di questa tendenza. Il fallimento delle politiche neoliberiste e dell’agricoltura industriale (compresi gli OGM) nell’accrescere i raccolti e i profitti, ha portato alla concentrazione del potere in poche società transnazionali (TNC) che controllano i Big Data, i terreni agricoli, le risorse oceaniche, le sementi e gli input agrochimici, con il risultato che ormai dominano sempre più i nostri sistemi alimentari e si appropriano dell’80% del cibo prodotto dagli agricoltori a conduzione familiare. La finanziarizzazione ha portato a una concentrazione del mercato senza precedenti per alimentare nuovi investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) e (bio)tecnologie, con l’obiettivo di espandere le frontiere del capitalismo per impadronirsi di tutta la biodiversità del mondo.

In tutto il mondo, c’è una tendenza alla riduzione dello spazio di partecipazione civile e alla riduzione delle attività di difesa dei diritti umani. Gli attivisti a livello locale sono sempre più vulnerabili alle violazioni dei diritti umani, all’oppressione e alla criminalizzazione. La violenza della repressione di Stato, che utilizza le forze armate e di sicurezza, prende di mira le persone e colpisce masse di manifestanti pacifici in tutto il mondo. D’altra parte, il primato e la legittimità del settore pubblico è sempre più minato dall’azione delle lobbies che si appropriano dei processi politici e da una narrativa dello sviluppo che assegna il ruolo guida agli investimenti del settore privato, mentre il multilateralismo è attaccato da un nazionalismo virulentemente populista e da un modello multipartitico egemonizzato dalle lobbies.

Negli ultimi tre decenni è cresciuta una rete sempre più solida, diversificata e articolata di piccoli produttori alimentari, lavoratori e altri attori sociali danneggiati dal sistema alimentare globalizzato guidato dalle multinazionali, che sostiene una trasformazione radicale dei sistemi alimentari e dell’agricoltura basata sulla sovranità alimentare. Questi movimenti si sono decisamente impegnati a difendere e gestire sistemi di fornitura degli alimenti ecologicamente e socialmente sostenibili e territorialmente radicati, che si tende a chiamare “alternativi”, sebbene forniscano fino al 70% del cibo consumato nel mondo. . Ripensare le politiche agricole come una questione di sicurezza economica e nazionale deve essere una priorità.

Il movimento per la Sovranità Alimentare è stato una parte dinamica dell’articolazione della trasformazione e delle soluzioni sin dagli anni ’90, e attraverso lo storico Forum di  Nyéléni sulla Sovranità Alimentare nel 2007 e il Forum sull’Agroecologia nel 2015. 25 anni dopo la messa in campo del concetto di Sovranità Alimentare, i nostri movimenti uniscono le loro voci chiedendo un cambiamento sistemico per aprire la strada a un futuro di speranza.

Chiediamo un intervento immediato per:

  • La cessazione della speculazione alimentare e la sospensione della commercializzazione dei prodotti alimentari nelle borse merci. Il prezzo degli alimenti commercializzati a livello internazionale deve essere legato ai costi di produzione e seguire i principi del commercio equo, sia per i produttori che per i consumatori;
  • La cessazione del controllo dell’OMC sul commercio alimentare e l’esclusione della produzione alimentare dagli accordi di libero scambio. I paesi devono avere riserve alimentari pubbliche e regolamentare il mercato dei prezzi, al fine di supportare i produttori alimentari su piccola scala in questo contesto difficile;
  • La creazione di una nuova organizzazione internazionale per condurre trattative trasparenti negli accordi commerciali tra paesi esportatori e importatori, in modo che i paesi che dipendono dalle importazioni alimentari possano accedervi a un prezzo accessibile;
  • Proibire l’uso di prodotti agricoli per produrre biocarburanti o energia. Il cibo dovrebbe essere una priorità assoluta rispetto al carburante.
  • Una moratoria globale sul pagamento del debito pubblico da parte dei paesi più vulnerabili. Fare pressione su questi paesi per pagare il loro debito è altamente irresponsabile e porta a crisi socioeconomiche e alimentari.

Chiediamo cambiamenti radicali nelle politiche internazionali, regionali e nazionali per ricostruire la sovranità alimentare attraverso:

  • Un cambiamento radicale nell’ordine del commercio internazionale. L’OMC deve essere smantellato. Un nuovo quadro globale per il commercio e l’agricoltura, basato sulla sovranità alimentare, dovrebbe aprire la strada al rafforzamento dell’agricoltura contadina locale e nazionale, garantire una base stabile per la produzione alimentare delocalizzata, sostenere i mercati guidati dai contadini locali e nazionali e fornire un sistema commerciale internazionale basato sulla cooperazione e sulla solidarietà;
  • L’attuazione della popolare e globale Riforma Agraria, per fermare l’accaparramento di acqua, semi e terra da parte delle multinazionali e garantire ai piccoli produttori diritti equi sulle risorse produttive; protestiamo contro la privatizzazione e l’accaparramento della terra e del patrimonio da parte di interessi finanziari con il pretesto di proteggere la natura, attraverso mercati del carbonio o altri programmi di compensazione della biodiversità, senza tener conto delle persone che vivono in questi territori e che si sono presi cura di quel patrimonio per generazioni;
  • Uno spostamento radicale verso l’agroecologia per produrre cibo sano per il mondo. Dobbiamo affrontare la sfida di produrre cibo di qualità sufficiente, riattivando la biodiversità e riducendo drasticamente le emissioni di GHG;
  • Una regolamentazione efficace del mercato degli input (quali credito, fertilizzanti, pesticidi, sementi, combustibili) per sostenere la capacità di produzione alimentare dei contadini, ma anche per garantire una transizione giusta e ben pianificata verso pratiche agricole più agroecologiche;
  • Governance alimentare basata sulle persone, non sulle multinazionali. La conquista della governance alimentare da parte delle transnazionali deve cessare e l’interesse delle persone deve essere messo al centro. Ai piccoli proprietari deve essere assegnato un ruolo chiave in tutti gli organi di governance alimentare;
  • Lo sviluppo di politiche pubbliche per assicurare nuove relazioni tra chi produce cibo e chi lo consuma, chivive nelle zone rurali e chi vive nelle aree urbane, garantendo prezzi equi definiti in base al costo di produzione, che consentano un reddito dignitoso per tutti coloro che producono sul campo e giusto accesso a cibi sani per i consumatori;
  • La promozione di nuove relazioni di genere basate sull’uguaglianza e il rispetto, sia per le persone che vivono nelle campagne che tra la classe operaia urbana. La violenza contro le donne deve cessare ora.

Processo d’appello contro Mimmo Lucano: la requisitoria della Procura Generale.

E’ stata una udienza molto tecnica, in cui i Procuratori hanno esaminato punto per punto i rilievi mossi dalle difese contro la sentenza di primo grado. Come sempre, non entrerò nel merito delle osservazioni tecniche, cosa di cui non sarei capace, né le riprenderò in modo esaustivo. Cercherò piuttosto di sintetizzarne brevemente il senso sotto il profilo delle conseguenze su un procedimento giudiziario che, come abbiamo visto in questi tre anni, ha assunto il carattere sempre più deciso di un processo politico.

I Procuratori hanno condiviso le obiezioni degli avvocati difensori quanto all’inutilizzabilità di alcune intercettazioni; hanno però anche considerato che le nuove intercettazioni introdotte, che avevano portato a riaprire l’istruttoria, non modificano in modo significativo il quadro probatorio. Questo quadro, per quanto ricostruito dal Tribunale di Locri, non appare loro indebolito dall’uso anomalo delle intercettazioni, in quanto considerano solide le basi documentali su cui poggia, per cui la gran parte della requisitoria si è risolta in una conferma delle motivazioni della sentenza di Locri.

Pur rilevando piccoli cambiamenti nella situazione processuale di Domenico Lucano, come la prescrizione di due presunti reati di abuso d’ufficio e l’assoluzione per un presunto reato di truffa relativo alle spese per un pranzo di 50 turisti americani in visita al sistema d’accoglienza di Riace, pranzo poi saltato, la Procura ha confermato l’impianto d’insieme della sentenza di primo grado.

Lucano sarebbe colpevole di aver montato e diretto un’associazione a delinquere tesa a commettere una serie di peculati, truffe e abusi che sarebbero provati in modo univoco e convincente. Solo per un imputato, Luca Amendolia, l’accusa di associazione a delinquere deve cadere secondo la Procura generale, in quanto il professionista cercava attivamente di tenersi lontano dai legami associativi, pur mantenendo un buon rapporto con Lucano. Per il resto, l’associazione a delinquere viene confermata, in termini molto vicini alla retorica delle motivazioni di Locri.

L’associazione è “provata” in quanto “i reati commessi a Riace richiedono una sinergia che non poteva non derivare da una continuativa e metodica attività messa in atto” da soggetti che la Procura designa come “totalmente immersi in questa attività truffaldina”.
A tal punto che i Procuratori escludono che si possano applicare nei loro confronti misure attenuanti come l’aver agito in stato di necessità, il riconoscimento di aver agito in buona fede, nemmeno le attenuanti generiche.

In conclusione, le pene stabilite in primo grado vengono limate qua e là. Quanto a Lucano, la condanna è “ridotta” a 10 anni e 5 mesi, rispetto ai 13 anni e 2 mesi del primo grado. Sarà anche un caso, ma la richiesta della Procura generale si situa proprio a metà fra i 7 anni e 11 mesi chiesti dal PM Permunian e i 13 anni stabiliti dal giudice Accurso.

Algoritmi? Geometrie? Fatto sta che si ha l’impressione, da semplici osservatori, che i reati valgano quantità di pene molto variabili e che talvolta i giudici giochino con gli anni (degli altri) come se fossero noccioline.

Dalla prossima udienza, il 30 novembre 2022, cominceranno a parlare le difese. E allora speriamo che finalmente si ritrovi un linguaggio di giustizia.

Parole a capo /
Rosa Pantaleo: “Nudi” e altre poesie

“Penso sempre che la maggior parte degli uomini non sia in grado di conoscere e riconoscere la propria anima. Dopotutto, la quasi totalità delle persone vive con il corpo e nutre solo il corpo, quasi mai l’anima.”
(Franco Battiato)

DESIDERIO

Vorrei
toccarti e dire
intrappolarmi
in un attimo
senza via d’uscita
in occhi pieni
del più intimo noi
accalorarmi di te
in un infinito
silenzioso
uno spazio incapace
di creare distanze
un luogo d’estate
in cui le idee
non cadano in pezzi.


NUDI

Le ore scivolano
senza ritorno
m’accorgo
di non avere tasche
neanche sulla pelle
non c’è nulla
che possa essere
fermato o trattenuto
è già vestita la vita
meglio restare nudi
attraversare il presente
senza rimpianti.


AMORE

Così sottile
è la luna
qualcuno
ha rubato le stelle
ed è più forte
l’abbraccio
se avessi
tutto l’amore
avrei distrutto
la barriera
tra la vita e la morte
l’amore
che nel blu
del mantello di mare
in cui stanotte
ho trovato rifugio
non mi lascia dormire.

Rosa Pantaleo (Napoli, 1969). Città dove ha vissuto fino al 2006, anno in cui insieme al marito e 5 dei loro figli si è trasferita in Irlanda del Nord a Belfast. Qui ha accolto con gioia la nascita di altri 2 figli. Ha dedicato la sua vita principalmente alla famiglia e alla cura dei figli e, quando può, lavora come barista in Starbucks e da sempre ama leggere. Scriveva da bambina, ha abbandonato durante gli anni adolescenziali per riprendere da relativamente poco tempo, ottobre 2020. Da allora non riesce a farne a meno. E’ al suo esordio letterario con un libro dal titolo Divagazioni, Writers Editor. E’ una raccolta di poesie che andrà in stampa a gennaio 2023 ma che è già possibile acquistare in preordine sul sito della casa editrice. Per Rosa scrivere è importante, necessario, poesia è traduzione di pensieri che camminano verso uno spazio di bene interiore.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

A 100 anni dalla Marcia su Roma: “Matteotti Medley”

 

“Che si sappia così poco della storia di questo “inutile eroe”, grazie al cui sacrificio – con quello di tanti altri – oggi viviamo in libertà, è un peccato…”.
Maurizio Donadoni

Un interessante appuntamento di teatro civile attende gli spettatori più attenti, questo venerdì 28 ottobre, al Teatro Comunale di Ferrara, a cent’anni esatti dalla Marcia su Roma, organizzata il 28 ottobre 1922 dal Partito Nazionale Fascista per favorire l’ascesa di Benito Mussolini alla guida del governo (il 29 ottobre, Vittorio Emanuele III gli affidò l’incarico, che, ricevuto formalmente il 30, diede inizio al lungo ventennio fascista).

Matteotti medley, foto Federico Buscarino

Nel giorno di tale anniversario, l’attore bergamasco Maurizio Donadoni, con Matteotti Medley, sotto la regia di Paolo Bignamini, porta in scena la vita, gli scritti e le testimonianze di un grande protagonista della storia italiana: il politico Giacomo Matteotti (1885-1924), eletto alla Camera nel 1919, 1921 e 1924. Come parlamentare sostenne la riforma agraria e la polemica antiprotezionista, mentre, testimone degli esordi dello squadrismo padano, maturava un antifascismo convinto.

Si tratta di un documentario teatrale che ricorda i martiri, le vittime e gli inutili eroi che “ogni epoca ha avuto che con il loro sacrificio hanno aperto gli occhi e la strada agli altri”, aveva detto Giacomo Matteotti, poco più che ventenne, parlando a dei coetanei. Il 10 giugno 1924, dopo il discorso alla Camera, del 24 maggio, in cui denunciava le violenze e i brogli commessi dai fascisti nella recente campagna elettorale, a Roma sul lungotevere Arnaldo da Brescia, veniva rapito e ucciso da un gruppo di “arditi” della Ceka fascista, organismo voluto da Mussolini per mettere a tacere gli oppositori.

Anniversario, quello della Marcia su Roma, più che mai attuale: basti ricordare l’omonimo film del regista irlandese Mark Cousins, appena uscito al cinema, selezionato agli EFA (European Film Award) in concorso al Premio per il Miglior Documentario.

Oggi strade e piazze ricordano il nome del politico che si oppose a Mussolini, ma quanti saprebbero dire e ricordare chi era questo “inutile eroe”?

Matteotti Medley ne ripercorre la storia alternando il racconto dei fatti, nudi e talora crudi, alle citazioni delle musiche dell’epoca: dalle marcette squadriste agli stornelli contro il Negus, dalle musiche da ballo alle canzoni d’amore diffuse dalle radio Balilla, agli esperimenti di quella musica colta d’avanguardia che, proprio allora, era in cerca di inaudite sonorità. La fisarmonicista bielorussa Katerina Haidukova accompagna in scena il racconto di Donadoni, basato su documenti e aneddoti, ricordi politici e familiari. Una narrazione di un solo attore, ma a molteplici voci, che si espande in uno spazio scenico nitido, scarno e rigoroso: luogo dove il passato prende corpo attraverso il corpo e la voce dell’interprete; dove il racconto documentale si fa testimonianza funambolica tra grande storia e piccole storie.

Matteotti medley, foto Federico Buscarino

E dove ognuno di noi è chiamato a rispondere alla domanda: che valore ha, per noi, oggi, la democrazia? A guerre in corso e ingiustizie. Drammaticamente attuale.

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Matteotti Medley

documentario teatrale a cura di Maurizio Donadoni, fisarmonica Katerina Haidukova, regia di Paolo Bignamini, scene e costumi Eleonora Battisti, Gaia Bozzi, Hefrem Gioia, Martina Maria Pisoni, Giada Ratti, Valentina Silva, Alessia Soressi, coordinati da Edoardo Sanchi, in collaborazione con Accademia Di Belle Arti Di Brera, Scuola di Scenografia, produzione Teatro de Gli Incamminati in collaborazione con Fond’azione Dopolavoro

Matteotti medley, foto Federico Buscarino

Giorgia Meloni: l’emancipazione non è fatta solo di parole

 

Un interessante articolo di Giulia Siviero, pubblicato anche su Periscopio (leggi qui), e un dialogo avuto con una compagna del sindacato, che partiva da un pezzo di Esmeralda Rizzi uscito su Collettiva (questo), mi hanno persuaso che Giorgia Meloni Presidente del Consiglio potrebbe rappresentare un caso di eterogenesi dei fini. Una donna che non dichiara nessuna intenzione di cambiare i paradigmi di una società maschilista e patriarcale, ma che suo malgrado riesce a farlo.

L’insistenza su un nuovo linguaggio – mentre la Meloni assume tranquillamente il genere maschile della carica: Il Presidente – avrebbe senso se accompagnata da una pratica, quella di farsi governare da una donna.
Non cioè di permettere alle donne di occupare delle posizioni sulla base di un meccanismo di quote dedicate (le cosiddette quote rosa), ma di essere governati da una donna perché una sua gravidanza, ad esempio, non viene vista come uno stop alla sua ascesa, ma come un fatto naturale che attiene alla sua crescita come persona, da utilizzare anche come competenza nella gestione di un gruppo non familiare, ma politico o economico.

Spesso invece a sinistra il meccanismo delle quote di genere è un mantello progressista che viene ostenso, ma sotto il quale la struttura sociale e familiare – e la sua conseguenza “maschilista” – rimane esattamente la stessa.

Per cui capita di assistere (non sempre, ma spesso) alla difficoltà di individuare delle donne pronte ad occupare delle posizioni di rilievo,  perché in un certo organismo, per la regola delle quote, “va messa una donna”, ma senza che dalla base, dalla partenza, sia stata promossa la sua capacità di crescere e di maturare.

Non che Fratelli d’Italia sia un partito che replichi su ampia scala, al suo interno, l’esempio Meloni. Anzi, sotto questo aspetto è come il PD, forse peggio.

Però l’esempio Meloni da solo ‘fa giurisprudenza’, per così dire, perché non stiamo parlando di una sindaca o di una parlamentare o di una rettrice, ma del Presidente del Consiglio di uno Stato. La destra ci è arrivata senza sovrastrutture, ‘senza troppe pippe’ come direbbe qualcuno di loro.

Attenzione: io non considero una ‘pippa’ la costruzione di un nuovo orizzonte,  ‘da sinistra’, attraverso le parole, ma la considero un’operazione monca se alle parole nuove non seguono fatti nuovi.
Anzi, il risultato finale finisce per puzzare persino di ipocrisia.

 

“Una donna che si crede intelligente reclama gli stessi diritti dell’uomo. Una donna intelligente ci rinuncia”

(Sidonie-Gabrielle Colette)

FANTASMI / Colle Madeira

 

egli angoli delle strade più buie spacciavano permessi fasulli per espatriare in California e bastava addentrarsi tra i vicoli del porto per incontrare marinai con la bandana pronti a vendersi per pochi spiccioli o a tuffarsi in mare anche nella stagione fredda.

Che differenza c’è tra morire e sopravvivere da morti? – mi dice un poeta di strada travestito da gentiluomo di inizio secolo porgendomi il biglietto da visita di un bordello. Gente che ti rivolge la parola senza che nessuno glielo abbia chiesto.

Ho capito che qualcuno o qualcosa ha costretto il governo locale a imporre con un decreto speciale uno stato di follia diffusa, e se sbagli mossa ti spediscono dritto in galera.

Ero finito in quella città perché, così mi avevano detto, qualcuno aveva avvistato Elena spostarsi da un caffè all’altro in compagnia di un grassone vestito da armatore greco, abito bianco largo come una vela e il panama immacolato in mano.

Elena amava il lusso, ma era anche attratta dal luridume urbano. Ne era attratta come chi si immerge nel tanfo di una latrina  per poi godersi l’aria fresca dei dintorni e dirsi

“Hai visto quanto sei fortunata?”. Perché non riusciva proprio a convincersi di essere fortunata, aveva bisogno di rassicurazioni continue. Chissà se poi ha cambiato opinione sul fascino delle avventure giovanili.

Adesso dovrebbe essere sui quaranta, un’età critica per le donne, così dicono, che non sanno più scegliere tra il sesso limitato e quello illimitato, a volte rimangono a lungo intrappolate in quella palude popolata di coccodrilli.

Una prostituta nera, molto grassa, mi scruta e capisce in fretta che la trippa per i gatti è finita da un pezzo. Sono tutti in cerca di qualcosa che non esiste o non è mai esistito. Solo un vuoto gigantesco colmato da un’ansia frenetica senza scopo. Ma se non mi sbrigavo a trovarla in mezzo a quella folla di manichini ubriachi fiaccati dal caldo alla fine avrei perso anche me, oltre che lei.

E infatti mi sto perdendo: violinisti senza fissa dimora con l’archetto in mano sorridono inebetiti a se stessi, uomini d’affari che non si azzardano a scendere dall’automobile e fumano sigarette elettroniche, ragazze dai pantaloni troppo aderenti scrutano il cielo in attesa degli stormi migratori nascosti tra le nuvole, trappole per topi sui marciapiedi, ambulanze con le sirene fuori controllo, poliziotti dai muscoli tatuati incerti se uccidere qualcuno o spararsi in bocca, promotori finanziari con la maschera a ossigeno e il defibrillatore nello zainetto per i clienti in preda al panico da Dow Jones, ciclisti sudati con i caschi di plastica da coleotteri, camion carichi di surgelati che grondano ghiaccio sciolto sull’asfalto.

E mentre contemplo il cosiddetto paesaggio urbano mi sono perso davvero. I cartelli segnalano ‘Senso unico’ oppure ‘Tutte le direzioni’, ma la strada per uscire dalla città non si trova. O forse sono io che in fondo non la voglio trovare. Dovrei prendere un caffè o forse un taxi, ma non mi fido.

Elena, lei sì potrebbe aiutarmi, sa benissimo che sono sulle sue tracce, e chissà dov’è finita in mezzo a dieci milioni di abitanti. Arrivano i pompieri, è scoppiato un incendio giù al circo, sento dire tra la folla.

– Quale circo? – chiedo a un signore distinto dal colorito di cadavere. – Veramente è una fabbrica di cioccolato vicino al circo – rettifica lui – sembra però che gli animali e gli zingari siano in salvo.

Se ne va senza neanche la possibilità di stringergli la mano in un gesto estremo di solidarietà, ma forse lui lo sa che non c’è pietà appena metti il naso fuori da te  stesso.

Questa folla variopinta che si rincorre sui marciapiedi sembra composta da gente che crede di conoscersi, o che forse davvero un tempo lontano si conosceva, ma adesso non sanno più come comportarsi uno con l’altro. Come tanti cani che hanno perso il senso dell’olfatto.

Chi mai potrà davvero essermi d’aiuto? Per quanto tempo dovrò restare qui a cercare Elena senza trovarla? E se mai la troverò sarà un incontro imbarazzante o una rivelazione estatica?

Impossibile saperlo in anticipo, lei è talmente volubile, riesce a veleggiare lungo i marciapiedi dei quartieri alti mezza ubriaca e sorridente, come se invece di camminare galleggiasse, trasmigra da un caffè a un bistrot a un ristorante a un qualche locale di frontiera, dove frotte di idioti bevono e ballano, ma alla fine dei suoi giri approda sempre tra catapecchie e palazzi fatiscenti. E questo mi addolora, forse perché da quando mi ha ingannato, con quel suo tocco delicato, sono diventato troppo sensibile.

Probabilmente è proprio questo il suo fascino, e io sono uno di quegli idioti che le corrono dietro da tanti anni, uomini annoiati da troppe vite vissute e troppe donne, ammaliati da quella sua permanente leggerezza alcolica.

L’ho seguita dalle principali città europee fino in America e adesso qui, in questo scarico intercontinentale di umanità deteriorata, rischiando ogni dieci minuti di farmi portare via la borsa e la vita senza possibilità di scelta tra le due. Soldi ne ho ancora parecchi, ma non dureranno a lungo e non ho tempo da perdere a cercarne altri.

Loro, i ricchi, quelli che secondo l’opinione corrente fanno la bella vita, gente sofisticata senza budella, loro sembrano fatti di carne fresca, leggermente abbronzata, senza data di scadenza, ma che ne sanno gli altri di quanto sia dura e assurda la loro condizione?

Sono un popolo di assediati da invidiosi, paranoici e lamentosi, anche se i cosiddetti ricchi lo sono più di loro: sempre a calcolare la differenza tra le possibilità suggerite dalla fantasia di onnipotenza e quello che poi realmente fanno per paura di spendere troppo. Che ne sapete voi dei dolori, dei dilemmi dei ricchi? Ma inutile prendersela, da troppo tempo mi sono lasciato alle spalle certe preoccupazioni mondane.

Qualcuno tra la folla, un tizio molto alto vestito da gatto con gli stivali – qualcuno mi ha raccontato che era la sua favola preferita da bambina – mi ha lasciato in tasca una lettera anonima e con un breve inchino si è dileguato.

Leggo e scopro che Elena è disperata perché le si è diradato un ciuffo dei suoi celebri capelli biondo sporco proprio al centro della fronte ed è costretta a girare con un toupet. E’ il segnale che attendevo.

Mi sembra di avvistarla all’improvviso seduta su uno di quei barconi cromati per turisti, quelli con sei gigantesche ruote portati in giro dai camion con l’altoparlante e la voce preregistrata, che illustra la storia e gli splendori sgangherati di questa città così amata nel mondo.

Ma non è lei, è solo una giovane donna dal profilo cangiante, pronta a sorridere a chiunque trovi il tempo di guardarla. Sta diventando facile ingannarmi.

All’improvviso, esattamente al primo accenno di inizio di un tramonto rovente, il panorama si fa luminoso, i colori più caldi, e la periferia antica costeggiata da archi medievali e acquedotti romani mi infonde un’energia inaspettata e seguo il ricordo del suo profilo in fuga verso ovest.

Ormai solo archi, file di archi orizzontali e verticali attraverso i quali scorrono come dai finestrini di un treno paesaggi campestri alternati a scorci di palazzi popolari, grattacieli di lusso dalle finestre nere specchianti.

Incomincia a farsi buio, un accenno di crepuscolo che a questa latitudine fa presto a sprofondare nelle tenebre. Ecco, mentre i contorni delle cose sfumano, appare all’orizzonte una montagna nera di carbone, o forse di sassi neri come detriti di ghiaia, messa lì a delimitare la periferia estrema della città: su un grande cartello giallo la scritta “Colle Madera”.

Qui tutto finisce, lo so, perché attraverso un grande arco scavato nella montagna di sassi, vedo luccicare le onde del mare. Sono arrivato all’oceano. Oltre quella montagna troverò Elena, ne sono certo.

Mi arrampico lungo le pareti aspre, a piedi nudi, coperto di polvere nera, le mani escoriate, forse ferito e finalmente dalla cima sassosa, la vedo. Il suo profilo lì sotto mi volge le spalle e contempla il mare.

È notte, è appena sorta la luna alle mie spalle e i primi riflessi illuminano le onde: il paesaggio più straordinario che mai la mia fantasia avrebbe potuto immaginare accoglie la sua ricomparsa.

Quasi rotolando scendo verso di lei, stracciando i resti dei miei abiti estivi da fiera paesana e con l’entusiasmo di un bambino ingenuo le descrivo la meraviglia di tutto ciò che ci circonda, la montagna nera, la luna, l’oceano, gli archi senza i quali non sarebbe possibile vedere i tanti paesaggi di cui è composto il mondo.

Lei si copre la fronte con una mano, poche silenziose lacrime mentre io le sfilo il toupet e la bacio lentamente, a lungo, sulla bocca. Mi rivolge uno sguardo veloce dove si confondono paura, rassegnazione e fantasmi di desiderio.

Ma chi sei tu, veramente? – Rimango sbalordito dall’assurda banalità della domanda. Le sorrido. Sento di avere in mano le carte per eliminare le ultime tracce di vergogna. – Non c’è più nulla da nascondere – le sussurro – La morte ha smesso di inseguirti.

La partita è appena iniziata e il destino, che finora ha alzato barricate, è un avversario incapace di combattere ancora. I fantasmi della notte scendono dal cielo, salgono dal mare e ci guardano dall’alto della montagna nera: siamo circondati, ma nulla può frenare l’entusiasmo né la follia contagiosa esplosa tra i vicoli tortuosi della mia mente.

E mi assalgono brividi mai provati se penso a quanto la vita possa essere dolce se solo qualcuno se ne ricordasse. È terribile, siamo tutti prigionieri di un sogno, forse di un incubo, intrappolati dentro i confini di una città insidiosa, malata, avvelenata di tutti i veleni del mondo. E spero prima o poi di essere sollevato da queste eterne incombenze.

Ma se siamo arrivati su questa spiaggia spazzata dal vento vuol dire che le nostre vite troveranno qui la loro unica, autentica salvezza. Rimane sempre la gioia di contemplare il paesaggio fino all’alba, lasciando tutto ciò che accade in un deserto di oblio. E camminare senza fatica verso un cielo ondeggiante, in perenne cambiamento.

Racconto inedito, proprietà dell’autore.

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ACCORDI
The Car, il soul cinematografico degli Arctic Monkeys

Può bastare un disco a sublimare un’intera carriera? È difficile rispondere a una domanda del genere poiché bisogna tener conto dell’artista, del periodo storico, delle aspettative del pubblico e di tanti altri fattori sui quali non abbiamo alcun controllo. Tuttavia, me lo sono chiesto più e più volte dopo aver ascoltato The Car, il settimo disco degli Arctic Monkeys, uscito pochi giorni fa. Il motivo? Sin dalle prime tracce, ho avuto l’impressione di assistere all’ultimo stadio di un’evoluzione lenta e costante.

È come se, dopo l’ammiccante lounge-pop di Tranquility Base Hotel & Casino (2018), la band inglese si fosse spinta ancora un po’ più in là, facendo sue quelle atmosfere noir che il cantante Alex Turner padroneggia sin dalla nascita del progetto Last Shadow Puppets. Non a caso, The Car è un disco che va di pari passo con la voce dello stesso Turner: elegante, suadente e puntuale, con quell’affabile accento di Sheffield e l’interpretazione piaciona da crooner d’altri tempi.

Gli arrangiamenti orchestrali e le linee di synth si affiancano alla sezione ritmica, allontanando ancor di più gli Arctic Monkeys dal loro punto di partenza, cioè lo sferragliante garage-rock della prima metà degli anni 2000. Una scelta, questa, in controtendenza con l’attuale revival chitarristico, e che, a ben guardare, somiglia più a un’urgenza espressiva che a un’attenta selezione stilistica.

Insomma, il soul cinematografico di The Car è un’irresistibile mosca bianca nell’industria musicale del 2022: d’altronde, un album che suona come un romanzo di Raymond Chandler o una commedia di Billy Wilder non può passare inosservato, men che meno se a realizzarlo è una band matura e dalle idee chiare. Una band che col suo settimo disco dà un’ulteriore sterzata alla sua carriera. Ed è una sterzata che, in un modo o nell’altro, ci ricorderemo per un bel po’.

PASOLINI 100: “Narrazioni ai margini della città”. Ferrara: comincia il ciclo di 3 incontri al Verdi

100 Pasolini

Unife organizza un ciclo di incontri
in occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini
Il 25 ottobre, il 15 e 22 novembre gli appuntamenti all’ex Teatro Verdi

In occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Ferrara in collaborazione con il Dipartimento di Architettura di Ateneo e l’Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna, organizza il ciclo di incontri “100 Pasolini. Ai margini della città. Narrazioni, racconti e visioni”.
L’iniziativa, organizzata insieme al Laboratorio Aperto di Ferrara presso l’ex Teatro Verdi, (via Castelnuovo, 10), prevede tre incontri focalizzati sul tema dei margini, centrale nel pensiero pasoliniano, che sarà affrontato attraverso le sue analisi sociali e urbanistiche, la sua produzione letteraria e cinematografica.

Primo appuntamento. martedì 25 ottobre dalle ore 17 alle ore 19 sul tema Narrazioni”
Professor Romeo Farinella, docente di Geografia Umana e Progettazione Urbanistica di Unife:  A proposito della ‘Forma della città’: riflessioni sulla lettura urbana di Pasolini.
Professor Alfredo Alietti, docente di Sociologia generale, urbana e del territorio di Unife: La sociologia dei margini. La narrazione sociale pasoliniana.

A seguire:

Martedì 15 novembre sempre alle 17 per il secondo incontro Racconti” interverranno il Professor Guido Santato dell’Università di Padova e la Professoressa Caterina Verbaro della Libera Università Maria Ss. Assunta, Roma.

Il terzo e ultimo appuntamento Visioni”, martedì 22 novembre alle 17, vedrà intervenire il Professor Alberto Boschi, docente del Dipartimento di Studi Umanistici di Unife e Roberto Chiesi del Centro Studi – Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna

Parole e Figure /
Via via, vieni via con me

Via, via, vieni via con me, lascia questo pazzo mondoIt’s wonderful, wonderful… Non è la canzone di Paolo Conte ma l’invito che una deliziosa bambina con lo zaino azzurro e blu fa ai suoi amici e a noi lettori.

Maglietta rossa, gonnellino blu e collant giallo canarino, con le sue scarpette nere e i capelli ribelli e ricci (ammetto che assomiglia pure un po’ a come mi ricordo alle scuole elementari …), la ragazzina senza nome, che chiamerò Simone alla francese, ci invita a seguirla. Eccoci allora a sfogliare le pagine coloratissime di Vieni con me?, di Cristina Petit e Chiara Ficarelli, Pulce edizioni.

Il posto dove ci vuole portare è vicino a casa sua, ci va spesso e profuma di buono. Dal cortile di casa, sporgendosi dalla rete verde accarezzata da siepi, felci e tulipani, invita il suo primo amichetto, intento a prendersi cura del suo giardino con tanto di stivali rossi, secchiello, carriola e rastrellino, anch’essi rosso fiammante. Si tratta forse della pasticceria che espone in vetrina cornetti dal ripieno colorato, biscotti alla frutta o dolcissimi croissant? L’indizio del profumo porterebbe proprio lì e invece no. Simone continua a camminare.

Allora è scuola. Che bel cortile! Giochi, fiori, erbette, pentolini, cubetti, piccioni e, soprattutto, tanti bambini vocianti che corrono (si sentono i gridolini…), bambini dai diversi colori della pelle e dalle pettinature più svariate, belli i codini e i capelli un poco crespi che ricordano l’Africa allegra e originale. La maestra vede tutti, segue proprio tutti con attenzione, cura, dedizione e amorevolezza. Non le sfugge proprio nulla. Fra chi fa le bolle di sapone e chi si arrampica su un gioco di legno non ci si può davvero distrarre…

È un posto sì con tante variazioni di colore ma non è la scuola!

È per caso il giardino fiorito? Un luogo con tanti alberi dalle chiome autunnali, con lampioni dal sapore antico e tante piccole e comode panchine? No, non è il giardino, continua Simone, è un posto con tante persone dentro, e la fila degli amichetti che la segue si allunga. Le scarpe da tennis si stanno rivelando dei buoni e utilissimi compagni. Ormai la piccola comitiva è sempre più numerosa. La curiosità aumenta, con essa una piccola e delicata dose di suspense. Dove stiamo andando? Anche noi lettori iniziamo a domandarcelo. Simone va in un posto dove si allena e tutti pensano allo stadio, alla palestra o alla piscina. Acqua, ancora acqua.

Intanto sfiliamo davanti a negozi, alberghi e ristoranti, i portici disegnati con tratto preciso e delicato ricordano un po’ quelli delle nostre città emiliane. Lo stesso per le biciclette, le persiane colorate, le tende e i leoni lungo le scalinate, che tanto assomigliano a quelli di piazza della cattedrale di Ferrara. Riposiamo un po’ sui gradini, siamo stanchi.

In quel posto c’è un bancone con una persona che ascolta quello che le chiediamo. Non è nemmeno la gelateria del corso ma un luogo in cui si imparano tante cose.

Volete unirvi a noi? Forza, forza, manca poco.

Il museo allora, dimmi che ho indovinato! No, no, ancora non ci siamo, è un posto dove c’è una persona che ha sempre voglia di raccontare una storia. Stavolta non ci sono dubbi, è la casa della nonna. Quella di mia nonna era davvero così, tante storie degli anni Venti e del bel periodo di rinascita degli anni Cinquanta, di fronte a un budino candido alla vaniglia da lei fatto in casa. Ne ricordo ancora il sapore, il gusto della scorza di limone.

Siamo ancora molto lontani dal risolvere il mistero e ormai tutti, noi compresi, pensano a una burla, pure poco divertente. Si sta camminando troppo verso il nulla, non ci piace essere presi in giro. Un pub, una panetteria, qualche muretto, cancello e portone ancora e, girato l’angolo, vedrete.

Dove va quelle fila di bambini che cammina per la città? Fra poco lo sapremo.

Ci siamo. Fuocherello, fuocherello, e… fuoco!

Ve lo dico? Sicuri sicuri sicuri? Ve lo dico.

Entriamo in … biblioteca.

Ma non ci sono tutte quelle cose descritte! Invece sì, cari bambini. Il profumo della carta, la bibliotecaria dietro al bancone, tanta gente che legge assorta sui comodi divanetti. E poi dai libri si imparano tante cose e con essi ci si allena ad essere qualcun altro quando si incontrano tanti personaggi. Si vive la loro vita, quella di scienziati, regine, astronauti, esploratori, pittori, maghi, burattini e poeti. Ora tutti zitti però, si legge!

Un meraviglioso, unico ed originale inno ai libri e alla lettura condivisa.

Un grande messaggio d’amore per i libri, che amiamo tanto.

 

Cristina Petit è nata a Bologna nel 1975, e, dopo un diploma di liceo scientifico e uno di istituto magistrale si laurea in lingue e letterature straniere, ha iniziato a insegnare nella scuola dell’infanzia. Fin da piccola, scrive e disegna, ha pubblicato con varie case editrici di libri per bambini e ragazzi tradotti in molte lingue. Formatrice di insegnanti e genitori, gira l’Italia facendo corsi. Ha ricevuto il premio letterario Angelo Zanibelli per il romanzo Salgo a fare due chiacchiere.

Chiara Ficarelli è laureata in Scienze della Formazione Primaria, ha lavorato come insegnante nelle scuole dell’infanzia e coltiva la passione per l’illustrazione. Nel 2017, si è iscritta al Master in Illustrazione editoriale di Ars in Fabula da cui nasce il suo primo albo illustrato La povera gente di Lev Tolstoj, edito da Orecchio Acerbo (2019). Oggi collabora come docente tutor con la scuola d’illustrazione Ars in fabula di Macerata.

 

Cristina Petit, Chiara Ficarelli, Vieni con me?, Pulce edizioni, 2022, 48 p.

 

 

 

 

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

DEUTSCHE UBER ALLES
In margine all’ultimo Consiglio Europeo

Deutsche Uber Alles. Purtroppo, questa volontà dei tedeschi, di imporre i propri interessi e la propria forza, è un carattere che riaffiora ogni tanto e nei momenti cruciali. Inesorabilmente.
Va bene l’Europa. Certo. Va bene il principio di solidarietà europea. Ci mancherebbe. Come va bene la prospettiva geopolitica da disegnare…
Va tutto bene, ma due restano i principi cardine ancora più importanti delle politiche dei tedeschi: quello di far prevalere i propri interessi su quelli comunitari quando serve loro, e quello di fare atti di forza, tali da consentire di andare avanti da sé, quando reputato nel loro interesse.

Facciamo qualche esempio.
– La Grecia ha pagato duramente la famosa crisi, per la pretesa delle banche tedesche, complice la Troika, di rientrare subito, un attimo prima del default, dai crediti facili e speculativi, concessi ai greci.

– Sono anni, che la Germania ha un surplus di export, ben oltre quello consentito dalle norme comunitarie. Per questo sarebbe soggetta a sanzioni, che però la Commissione Europea non ha mai applicato.

– Finalmente, svegliati dalle gravi crisi in atto, si pensa di ripartire con una forza europea di difesa.
E la Germania che fa? Da il via, per conto suo, ad un primo investimento monstre” di 100 miliardi, per le proprie forze armate.
Qualcosa del genere lo ha fatto e lo sta facendo con il gas.
Da una parte destina risorse ingenti che alterano il mercato del gas, a danno di tutti.
Dall’altra impedisce di calmierarne il prezzo con politiche comuni, che sarebbero a vantaggio di tutti.
Non c’è molta differenza fra questi comportamenti e l’ ‘America first’ di nefasta memoria.
Si può obiettare che è il diritto del più forte che si impone. Vero. Salvo che questo mal si concilia, con la retorica dello sviluppo politico della unione europea. Altri cancellieri tedeschi avevano una ben altra visione strategica: da Brandt a Schmidt, a Kohl, o lo stesso Adenauer.
Come la ‘grande’… e celebrata Merkel aveva una visione europeista. Facendo prevalere, però, sempre e comunque, gli interessi tedeschi. Significativo il rapporto privilegiato con Putin. Politico certo, ma con annessi interessi commerciali reciproci.
Troppo forte allora, la Germania, per la piccola Europa, e per i rapporti paritari con gli altri Stati europei? Può darsi. Viene da ricordare Andreotti, che richiesto di un giudizio sulla riunificazione tedesca, con espressione malignamente furbesca, e male accolta dai tedeschi, disse “amo così tanto la Germania che mi piacerebbe averne due…”.
Forse, chissà, pensava proprio che una Germania unificata, sarebbe stato un peso mal sopportabile dalla fragile Europa.
Del resto però lo stesso Kohl ebbe a dire al nostro Ciampi, che solo la partecipazione alla Comunità Europea, era garanzia di controllo delle ricorrenti tentazioni della Germania per nuove avventure belliche. Tanto più concrete quanto più la Germania è forte.
Insomma stanno sullo stomaco, si sa, i wurstel con i crauti…..Una difficile digestione, che però dobbiamo riuscire a fare.
Ma tutto questo ci dice, anche, quanto sia ancora difficile il cammino verso una maggiore, forte ed equilibrata integrazione europea. Nello stesso tempo, però, ci dice pure quanto sia urgente e necessario che avvenga.
Soprattutto lo vediamo in chiave geopolitica. In una fase nella quale ci sono movimenti verso nuovi assi e nuove alleanze, soprattutto nello scacchiere eurasiatico ed in quello mediorientale. Ma aggiungo, anche alla luce di un riemergere delle ideologie, che rafforzano il carattere politico di questi movimenti.
Allora che fare? C’è un lavoro serio anche per l’Italia e il suo nuovo governo. A condizione però che vengano ricoverati in qualche hospice quei disturbatori malati di demenza senile, aggravata da immoralità politica e umana che è la storia di una vita. E con loro, mettere alla gogna anche quella schiera di miserevoli cortigiani che addirittura lo applaudono.
Senza dignità.

DONNA VITA LIBERTÀ !
Bologna, 22 ottobre 2022

DONNA, VITA, LIBERTÀ!, Ieri, 22 di ottobre, erano – eravamo – in tante, tantissime donne e ragazze: iraniane, italiane, africane… E tanti uomini, ragazzi, bambini. Piazza del Nettuno si è riempita di incontri, striscioni, cori, di solidarietà e commozione. Ecco qualche immagine per non dimenticare quella giornata speciale.
La redazione di Periscopio

 

Le foto del servizio sono di Valerio Pazzi

 

La vittoria di Meloni e le riflessioni che impone a sinistra sulle questioni di genere

di Giulia Siviero
Pubblicato il 17.10 2022 su Valigia Blu

La questione del protagonismo delle donne in politica premiato più a destra che a sinistra non è affatto nuova, ma la vittoria di Giorgia Meloni l’ha riproposta in un modo eclatante e non più aggirabile: mostrando, in modo altrettanto eclatante, tutti i paradossi di quell’area che storicamente più delle altre è stata investita dalla domanda posta dalla politica delle donne.

Nessuno ha scavalcato nessuno

«A sinistra c’è sempre stato tutto ‘sto femminismo, le donne qua, le donne là, io sono mia eccetera, però a una donna a sinistra non è mai stata data la possibilità di ambire a un posto di potere. Mai, sempre uomini». Così mi diceva poco prima delle elezioni un tassista romano, augurandosi la vittoria di Giorgia Meloni, anche in nome del genere: «Una donna e una donna di destra».

Poco dopo quella conversazione, il 22 settembre, Meloni stessa rivolgendosi ai politici e alle politiche di centrosinistra aveva scritto su Twitter di comprendere «il loro nervosismo: passano tutto il tempo a fare discorsi sull’emancipazione femminile e l’unica donna che si candida apertamente a Palazzo Chigi è dell’altra parte politica. Mi dispiace».

Il sentimento molto diffuso (e dato quasi per scontato) è che avrebbero dovuto essere il centro-sinistra e la sinistra i primi a esprimere in Italia una leadership femminile. E nel momento in cui questo non è avvenuto, l’impressione è che il centro-sinistra e la sinistra si siano fatti fregare il tema. Eppure, non c’era moltissimo da sottrarre da quelle parti e il modo in cui la sinistra ha assunto la politica delle donne conteneva già all’inizio l’eterogenesi dei fini che poi si è prodotta.

Le ragazze che hanno contestato Laura Boldrini durante la prima manifestazione politica che si è tenuta dopo l’esito delle elezioni dello scorso 25 settembre (e non a caso organizzata dai movimenti femministi) l’hanno mostrato bene. «Cosa rappresenti?», le hanno gridato. L’ex presidente della Camera dei deputati ha risposto che stavano sbagliando avversario. Non era vero, hanno risposto loro.

Come sarebbe stato possibile, ad esempio, l’attacco all’aborto e ai diritti sessuali e riproduttivi delle donne portato avanti in molte regioni governate dalle destre senza l’indifferenza o la complicità del centro-sinistra?
È con il centro-sinistra al governo che l’Agenzia italiana del farmaco aveva riclassificato gli ultimi anticoncezionali ormonali che ancora erano a carico del servizio sanitario nazionale dalla fascia A (e dunque rimborsabili) in fascia C (e dunque a carico delle persone). Ed è sempre durante un governo di centro-sinistra che è stato pensato il Fertility Day per invitare le donne a riprodursi il prima possibile, che le donne hanno continuato ad essere nominate quasi esclusivamente come madri, che hanno continuato ad essere difese le idee di un sistema familista e di un welfare ancorato alla famiglia (cioè alla donna). Molto, insomma, non è stato fatto. Ma c’è di più.

Le donne al mercato della politica

Alla radice del problema c’è il rapporto della sinistra con il femminismo e con i propri automatismi sessisti e maschilisti di cui non solo non è riuscita a liberarsi, ma di cui con tenacia non ha voluto liberarsi.

Durante l’ultima direzione nazionale del PD, nata dalla necessità di analizzare le ragioni della sconfitta alle elezioni, il segretario dimissionario Enrico Letta ha fatto notare che la vincitrice, Giorgia Meloni, era stata apprezzata anche per il fatto di essere una donna giovane. Letta, ma non è la prima volta, ha criticato l’incapacità del suo partito di rinnovarsi e di avere una maggiore presenza femminile: «Grazie a chi mi ha chiesto di restare, ma serve una donna giovane».

Qualche giorno prima, raccontando la direzione che si sarebbe tenuta da lì a poco, e citando le varie ipotesi per le cariche di vertice all’interno del partito e nel nuovo governo, Repubblica commentava che i nomi che circolavano erano sempre i soliti, tutti di uomini. E che questo, oltre a creare malumori diffusi, poneva il tema della scarsa presenza femminile nei posti di vertice: «Da compensare piazzando una donna».

Una donna “di servizio” e “una donna da piazzare” sono le espressioni che meglio riassumono come la sinistra e il centrosinistra abbiano risposto alle questioni radicali poste dalla politica delle donne fin dagli anni Settanta.

Per il femminismo più radicale il punto non è mai stato quello di chiedere l’inclusione femminile nel patto sociale maschile, ma quello di cambiare il patto: reinventando il chi, il cosa e il come della politica stessa. Quel femminismo, scriveva Rossana Rossanda, «sembra aver individuato un terreno di totale rivolgimento, diverso da quello delle rivoluzioni del secolo scorso (…) un terreno sul quale nessuna rivoluzione è arrivata mai (…) È il rivolgimento di quel potere che non sta nel dispotismo del tiranno o nelle leggi dello stato, o nell’arbitrio del padrone, ma nel dominio che da millenni il maschio esercita sulla femmina, e che ha modellato non solo la subalternità della donna, ma la concezione – noi diremmo l’ideologia – che l’insieme dell’idea di potere degli uomini, la tradizionale sfera politica, porta in sé». 

Alle proposte così smisurate della rivoluzione femminista la sinistra non solo non ha saputo rispondere, ma vi ha posto degli ostacoli: ibernandone la portata eversiva, assorbendone le istanze compatibili con il sistema e ricacciando tutto il discorso su un terreno già tracciato da altri e che gli uomini frequentavano da tempo. Quello delle dimensioni, della quantità e delle “quote”, intese non come strumento per dare spazio alle politiche delle donne, ma come obiettivo auto-conclusivo. Così facendo è stata legittimata una nuova mistica della femminilità che, come ha spiegato la filosofa femminista Ida Dominijanni nel libro “Il trucco: sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi” non puntava più a “fare la differenza” nella politica, ma solo a pareggiare i conti. In questa operazione di addomesticamento le donne, comprese quelle che la politica la facevano e la fanno, sono state ridotte a soggetto discriminato in cerca di diritti: da tutelare o da valorizzare.

Il paradosso è che dopo aver sagomato un femminismo esclusivamente basato su quote e parità chi l’ha rivendicato come proprio obiettivo prioritario l’ha placidamente tradito e aggirato. Il meccanismo della legge elettorale vigente, il Rosatellum, prevede ad esempio alcune misure per incoraggiare l’elezione di candidate: molti partiti, tra cui il PD, hanno semplicemente pluricandidato le proprie esponenti un po’ ovunque, mentre i candidati uomini sono stati tendenzialmente presentati in meno collegi e alla fine favoriti. Fratelli d’Italia è il partito, tra quelli più grandi, che ha eletto meno donne. Ma al secondo posto c’è il PD.

Complicità

Durante l’assemblea nazionale del PD diverse esponenti di partito hanno denunciato la percentuale bassa di donne elette, chiedendone conto al segretario dimissionario e pretendendo una gestione paritaria delle nomine future nelle istituzioni e nel partito. Simona Malpezzi, capogruppo uscente al Senato, rieletta, ha ad esempio detto:  “Anche se Meloni non fa politiche per le donne né promuove la parità di genere nel suo partito, il giorno che si insedierà a Palazzo Chigi con il compagno che la segue tre passi indietro sarà una scena di grande impatto simbolico, che ci deve interrogare.”, 

Così posto, l’interrogativo non sembra però portare ad alcuno scarto, ma lascia trasparire piuttosto una velata invidia nei confronti di chi è stata semplicemente più brava, di chi su quella medesima strada che anche le donne della sinistra sembrano voler continuare a intraprendere, ce l’ha fatta. 

Il punto – e nonostante si sia arrivate a questo punto – sembra dunque essere sempre lo stesso: pretendere dal potere maschile una concessione di maggiore rappresentanza. E ammesso e non concesso che arrivare ad occupare il vertice sia l’obiettivo, come mai la presa di parola delle donne dei partiti della sinistra si configura quasi sempre come una lamentazione a cose fatte? Quali pratiche realmente trasformative hanno messo in campo?

Qualunque siano le forme che ha preso nel tempo la misoginia maschile, la domanda più inquietante e decisiva riguarda le donne stesse che fanno politica all’interno della sinistra: la loro diffusa capacità di adattamento, la loro postura di eterna attesa, la loro rivendicazione complice di un femminismo subalterno e ausiliario in grado solo di riprodurre i rapporti di potere esistenti e non di trasformarli.
Come ha scritto recentemente Lea Melandri «hanno fatto dell’emancipazione una scalata al potere nelle stesse forme in cui lo abbiamo ereditato, senza mettere in discussione il patriarcato, le sue gerarchie, i suoi “valori”». E sono state ovunque superate: dai compagni di partito e dalle destre.

Il protagonismo della destra

Mentre la sinistra si è accomodata su una questione femminile fatta di discriminazioni, auto-vittimizzazione e rivendicazione di quote e ruoli di potere, la destra ha saputo nel tempo cogliere e interpretare la domanda di protagonismo delle donne, seppur rozzamente: attraverso l’apertura di uno spazio di agibilità politica basato sull’auto-promozione e la competitività. Attraverso una “valorizzazione” basata sui valori tradizionali («Sono una donna, sono una madre, sono cristiana», ha detto Giorgia Meloni nel famoso discorso di piazza San Giovanni dell’ottobre 2019) e attraverso una logica emancipazionista basata sul dogma “una per tutte”.

Le donne che oggi hanno raggiunto posti di potere nella destra, e non solo in quella italiana, sono perfetti “uomini di partito” che hanno saputo incarnare l’unico modello di potere che avevano a disposizione, quello maschile. Non hanno preteso di fare la differenza o di ridefinire gli equilibri, come chiedeva il movimento femminista. Ma non hanno nemmeno chiesto a nessuno di fare loro spazio: si sono sfacciatamente adeguate a metodi, modalità e dinamiche esistenti, senza l’impaccio un po’ insincero di non volerlo fare.

Le donne di partito che oggi vogliano realmente trasformare il loro spazio in qualcosa di vagamente “femminista” non dovrebbero semplicemente aspirare a “una sostituzione di genere”: ma, come dice la scrittrice statunitense Rebecca Solnit, dovrebbero voler «cambiare l’immaginario del cambiamento».
Proprio perché c’è qualcosa, nel cambiamento sinora e sin qui preteso, che evidentemente non ha funzionato.

Cover: Giorgia Meloni – su licenza Wikimedia Commons

Per certi versi /
L’abbraccio del mondo

L’abbraccio del mondo

È nel buio
che la vita ha inizio
Non una scintilla
Una stretta di mano
Nella caverna
In quel buio
Impregnato
di
Pece stellata
Si prepara la luce
Ad aprire le acque
Dell’azzurro
La vita si dirama
Estrapola il buio
Come denti malati
Dalla grande risata
Della notte
Fino a splendere
Sul ghiaccio
Vitreo delle vette
Il mondo diventa
Un fiume rotondo
Gli occhi
mostrano
Fari immensi
Sugli oceani
Di nebbia
Un mondo
crea un mondo

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Ministero dell’Istruzione e del Merito…
e della prossima D-istruzione Scolastica.

 

Quando, ieri sera di fretta, ho visto la lista dei ministeri del nuovo governo di destra, avevo letto di un: “Ministero delle istruzioni al mArito”. Ho pensato subito che Giorgia Meloni volesse dare quell’incarico al capogruppo di Fratelli d’Italia, Francesco Lollobrigida, marito di sua sorella Arianna, per tenerlo sotto controllo.
Invece no: al pronipote di Gina Lollobrigida hanno dato il Ministero della Sovranità Alimentare e già il nome è tutto un programma…
Poi, con calma, ho letto meglio; quello della scuola si chiama proprio: “Ministero dell’istruzione e del mErito”!!!
Il vocabolo “merito” è diventato talmente di uso comune che per molti è una bella parola a prescindere, ma in tanti non saprebbero darne una definizione.
La cattivissima politica scolastica di Maria Stella Gelmini e di Matteo Renzi ha fatto del termine “merito” un cavallo di battaglia.
Io, nel mio piccolo, concordo con Nadia Urbinati quando scrive che: “Non ci può essere merito meritato se alcuni partono avvantaggiati o se non si correggono le diseguaglianze di opportunità prima di valutare il merito. Senza l’accoppiamento con l’eguaglianza, il merito non è un valore di giustizia. Si deve invece partire dall’eguaglianza di opportunità e delle condizioni di formazione delle capacità, per esempio da scuole pubbliche di buona qualità distribuite su tutto il territorio nazionale affinché la gara possa essere davvero aperta a tutti e non si sfoltisca a valle il numero dei potenziali concorrenti”.
Pertanto dico ironizzando: “Don Milani, perdona loro perché non sanno quello che fanno ma, se ti accorgi che invece sanno benissimo quello che fanno, allora puniscili aumentandogli la dose quotidiana di sali minerali, in particolare di calcio…meglio se somministrato con “calci pedagogici” in qualche parte poco nobile del loro corpo”.
Hanno dato il “Ministero dell’istruzione e del mErito” ad una persona come Giuseppe Valditara che è stato relatore della legge Gelmini.
“Legge Gelmini” per chi era a scuola nel 2009/2010 (ma anche per chi non c’era) ha voluto dire, in sintesi:
un taglio di 10 miliardi al bilancio della scuola e dell’università, centomila cattedre in meno, riduzione del tempo scuola alle elementari con la reintroduzione del maestro unico per 24 ore alla settimana, riduzione del tempo scuola alle scuole medie, prove invalsi obbligatorie agli esami di terza media, reintroduzione dei voti, taglio pesante delle ore di insegnamento negli Istituti tecnici e professionali, riordino dei licei, voto in condotta che fa media, facoltà di trasformazione delle università in fondazioni di diritto privato e altro ancora.
Dopo aver tolto la parola pubblica a “Ministero della Pubblica Istruzione”, visto l’uso che la destra fa delle parole anche nei nomi dei nuovi ministeri, avrebbero potuto coerentemente chiamarlo “Ministero della dIstruzione”.
Per noi che crediamo in una scuola dell’uguaglianza delle opportunità è una “brutta botta”; quindi c’è bisogno di provare a “tenere botta” tutti insieme resistendo, insistendo, non desistendo ma esistendo.
Sarà un autunno caldo… e non solo dal punto di vista meteorologico.

Se la Finanza Internazionale governa anche sui Governi

 

La prima ministra britannica Liz Truss ha dato le dimissioni dovendo rinunciare al suo piano ultra liberista che riduceva le tasse ai ricchi e tagliava la spesa pubblica del 15% in modo trasversale, dando anche fondi a famiglie e imprese per mitigare gli aumenti enormi di gas e luce.
Una manovra da 60 miliardi di sterline (45 miliardi di minori tasse e 15 di maggiore spesa pubblica) che però aumentava di altrettanto il debito pubblico inglese che è cresciuto negli ultimi 12 anni di Governi conservatori dal 76% del 2012 al 100% del 2022. Questa manovra senza copertura e con un aumento del debito ha però prodotto la svalutazione della sterlina inglese (da 1,15 sul dollaro era scesa a 1,06 perdendo l’8%) e un aumento dei tassi di interesse dei titoli di Stato decennali inglesi a 3,85% (quelli Usa sono a 4,16%, i tedeschi a 2,40%, gli italiani a 4,73%). Ma soprattutto aveva portato sull’orlo dell’insolvenza i fondi pensione azionari che nel Regno Unito, diversamente dall’Italia, non sono garantiti dallo Stato ma dal mercato finanziario. Così la Banca centrale inglese era dovuta intervenire per acquistare i titoli venduti in massa dei fondi pensione.
Annullato il piano fiscale, licenziata lady Truss, ora la sterlina è risalita a 1,13.

Questa vicenda ci racconta quanto la dimensione finanziaria sia diventata cruciale al punto che neppure un primo ministro conservatore e liberista di un paese forte come la Gran Bretagna possa permettersi di andare contro la “finanza”, anche se vuole favorire i suoi ricchi.
I mercati finanziari infatti guardano molto alla solvibilità del bilancio dello Stato.
E’ questo un problema gigante anche del nostro Governo che eredita un debito pubblico maggiore di quello inglese e che non potrà certo fare ulteriore debito con facilità.

Eppure è necessario difendere le nostre imprese, specie manifatturiere, che rappresentano il cuore della ricchezza del paese.
L’Italia dovrà rinnovare l’anno prossimo 245 miliardi di titoli del debito pubblico (230 nel 2024) a costi maggiori del 2022 (circa 11 miliardi in più), ma ha anche necessità si spendere di più per scuola, sanità, poveri e sostegno alle nostre imprese e famiglie.
La BCE ha smesso di comprare titoli di Stato italiani e gli investitori internazionali preferiscono certo i titoli di paesi con minor debito come Germania e Austria. L’inflazione ha trascinato come abbiamo visto i nostri titoli pubblici decennali al 4,73% ed è difficile pensare che il nuovo Governo accetti aiuti dall’Europa tipo il Tpi (Trasmission Protection Instrument) che prevedono delle condizionalità.

Che fare? Un modo sarebbe potenziare il Medio Credito centrale, la nostra unica e piccola banca pubblica che ha da poco acquistato la Banca Popolare di Bari e potrebbe acquistare anche il Monte dei Paschi, così da avere filiali in tutta Italia, copiando quello che ha fatto la Germania con la sua banca pubblica (KfW) che è molto grande e i cui prestiti all’economia reale non rientrano nel debito pubblico tedesco. La Germania ha, diversamente da noi, una fortissima presenza delle banche pubbliche (40%). E’ anche grazie a KfW che la Germania ha nazionalizzato con 40 miliardi Uniper (principale fornitore energetico alle imprese tedesche), a rischio fallimento.

Un’altra via è quella di favorire l’acquisto, gradualmente, di quel 30% di debito pubblico in mano agli stranieri (circa mille miliardi) da parte degli italiani con un rendimento prossimo a quello dei Btp decennali (anche con incentivi) considerando il notevole risparmio privato in mano agli italiani. In tal modo diventeremmo come i giapponesi, che non hanno alcun problema di debito pubblico (268% del Pil, ben 7.300 miliardi) in quanto è tutto in mano ai propri cittadini.

Anche il credito d’imposta usato nel 110% è uno strumento molto interessante e innovativo che consente di erogare liquidità senza fare debito. A fronte di 40 miliardi di crediti d’imposta concessi dallo Stato si sono generati 120 miliardi (fonte: Nomisma).
Il problema, più delle truffe (3%), è che è stato disegnato maluccio (era anche la prima esperienza); si potevano, a mio avviso, favorire i vecchi condomini e solo le prime case, ma di fatto si è favorito soprattutto il ceto medio e ricco delle seconde case (sono 5,6 milioni) che aveva la possibilità di anticipare i fondi senza chiedere alle banche. Ma nulla esclude che il meccanismo possa essere ripreso anche in settori pubblici o in privati diversi dall’edilizia come le energie rinnovabili e le innovazioni nelle imprese.

Il problema è serio perché l’Europa non c’è e, in attesa che si formi, avanza la globalizzazione che rischia di consegnarci un’Italia dove tra qualche anno gli hotel di lusso e tutto il circuito turistico più redditizio (negozi inclusi) saranno di proprietà di stranieri, (arabi, americani, cinesi,…) e le principali aziende manifatturiere idem (americane, tedesche,…) con un crescente numero di quadri e professional provenienti da quei paesi, anche perché le nostre imprese pagheranno nel 2022 il doppio dei costi energetici (da 5 miliardi del 2020 saliti a 21 miliardi del 2021 a 43-44 miliardi, dopo gli aiuti di 21 miliardi del Governo).

Per capire la drammaticità della situazione industriale in Europa basterà dire che i prezzi alla produzione in Germania sono cresciuti a settembre del 46% su base annua rispetto al 2021 (il massimo dal 1949). Ma in Germania si prevedono aiuti corposi per salvare la loro manifattura, da noi molto meno e questo è un serio problema.

Cover: Veduta di Francoforte, il centro finanziario tedesco, sede della Bundesbank, nonché della BCE, Banca  Centrale Europea.

«La mia voce per Assange»:
parte la campagna per la liberazione

di Vincenzo Vita

Si è tenuta a Roma, presso la sede della federazione nazionale della stampa, la presentazione della campagna «La mia voce per Assange», curata dall’omonimo comitato formato al momento da Paolo Benvenuti, Daniele Costantini, Marianella Diaz, Flavia Donati, Giuseppe Gaudino, Laura Morante, Armando Spataro, Grazia Tuzi (coordinatrice) e chi scrive. L’iniziativa ha avuto come riferimenti la stessa Fnsi, l’Associazione degli autori cinematografici, l’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Free Assange Italia. Era presente Transfom Italia.

E tre testate –il manifestoAvvenire e il Fatto Quotidiano– daranno appoggio attivo all’attività.

Sono stati mostrati alcuni dei 79 video di testimonianza fatti da personalità del mondo della cultura e dello spettacolo. Il materiale è visibile sul canale Youtube del comitato e l’intera conferenza si può rintracciare sulla pagina Facebook della Fnsi.

Tutto partì dall’appello contro l’estradizione del fondatore di WikiLeaks lanciato dal premio Nobel per la Pace Pérez Esquivel e ampiamente sottoscritto. I messaggi audiovisivi rappresentano un mosaico assai interessante di presenze di voci: da Marriead Corrigan pure premio Nobel, al Pulitzer Ewen MacAskill, all’avvocato dei diritti umani e commentatore di The Guardian, a Davide Dormino, a Giuseppe Giulietti, a Riccardo Iacona, a Gad Lerner, a Gianni Marilotti animatore di iniziative importanti al senato; Ken Loach, John Malkovich, Peter Stein, Maddalena Crippa, Giuliana De Sio, Ginevra Bompiani, Marco Paolini, Stefania Casini, Valerio Magrelli, Fiorella Mannoia, Piero Pelù, Marco Bellocchio, Sergio Castellitto, Carlo Petrini, Daniela Poggi, Domenico Gallo, Luciana Castellina, Moni Ovadia, Giovanni Veronesi, Gianrico Carofiglio, Gianni Tognoni segretario generale del Tribunale permanente dei popoli, Sarantis Thanopulos presidente della Società psicoanalitica italiana, Corinne Vella Head of media della fondazione intitolata a Daphne Caruana Galizia. La lista è lunga e comprende coloro che hanno parlato alla conferenza stampa.

Innanzitutto Stefania Maurizi, che da tredici anni segue la vicenda. La giornalista e scrittrice (è in uscita l’edizione in lingua inglese del suo testo Il potere segreto) ha raccontato i kafkiani passaggi di una tragedia shakespeariana il cui esito presunto potrebbe essere rovesciato da un nuovo clima di opinione. Assange e WikiLeakds hanno fatto un lavoro enorme di scandaglio nelle aree oscure delle guerre e dei crimini di stato, pur nel rispetto della segretezza delle fonti e delle aree sensibili, dell’incolumità delle figure evocate nei lanci delle notizie, del dovere di informare se si hanno notizie di interesse pubblico (Carlo Bartoli). Grande è la delusione per il comportamento delle democrazie anglosassoni, pur evocate come patrie dei diritti liberali e appoggio ad una campagna di chiarificazione così importante (Armando Spataro). Disagio per la scelta oscurantista di fare di Assange il capro espiatorio e la vittima sacrificale di politiche guerrafondaie (dall’Iraq, all’Afghanistan, alla Libia) e ciniche (Alberto Negri). Necessità di unire alla mobilitazione necessaria l’impegno nel processo con argomenti solidi e puntuali (Riccardo Noury).

Ma è emerso il retrogusto amaro delle disattenzioni, delle colpevoli omissioni, delle volute falsità propagate (ad esempio sul presunto rapporto con la Russia, del resto escluso dal procuratore speciale Robert Muller) per costruire l’immagine di un nemico pubblico per di più in odore di spionaggio. Oltre a Negri sull’argomento ha parlato con efficacia il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, che ha collegato la lotta specifica a quella generale per la pace. Sul tema ha parlato, poi, Gianni Barbacetto, sarcastico e critico verso tanta parte dello stesso giornalismo ufficiale che si è voltato dall’altra parte.

Aderiscono alla campagna la rivista Left, che con la testata online Pressenza ha organizzato la 24 ore di mobilitazione internazionale tenutasi lo scorso sabato. E in quella sede Patrick Boylan suggerì di coordinare i vari comitati nati in questi anni, cui ieri ha dato voce – per Free Assange Italia- Marianella Diaz.

Si entra, dunque, in una fase nuova, in cui – secondo Noury- si intravvede qualche luce.

Vincenzo Vita
di Articolo 21

PRESTO DI MATTINA /
Morirò d’amore, morirò per te

Poesie per sopportare la vita

“Vivo, ma in me non vivo,
e tanto è il ben che dopo morte imploro
che mi sento morir perché non moro”.
(Teresa di Gesù, Opere, ed. ODC, Roma 19858, 1498)

Sabato scorso 15 ottobre non è passata invano, almeno per me, la memoria di santa Teresa d’Avila [Qui]: fosse anche solo per essermi avventurato tra le pagine dei suoi testi poetici, tra le strofe di canzoni e brevi componimenti sacri.

Gli stessi che Teresa di Gesù improvvisava durante i suoi faticosi viaggi, cantandoli poi insieme alle sorelle ogni qual volta si avventurava per la Spagna ad aprire nuove fondazioni e case della sua riforma carmelitana.

Lungo il cammino sui carri coperti, ma rozzi e sgangherati, trasformati in “monasteri ambulanti”, le religiose portavano anche un piccolo campanello con il quale davano i segni del silenzio, dell’orazione e dell’ufficiatura, come fossero in convento.

Scrive padre Egidio di Gesù: «Degna di considerazione era la cura che la Madre mostrava per coloro che l’accompagnavano, come se non avesse da far altro e fosse sempre stata carrettiera. Alle volte chiamava quelli che venivano a piedi e li consolava, parlando loro con tanta grazia da far dimenticare ogni stanchezza. …

Così, per acque, per nevi, bruciata dal sole, battuta dalla tempesta, sana e ammalata, percorre la Nuova e la Vecchia Castiglia, penetra nell’Andalusia, scende fino a Siviglia, risale nuovamente in Castiglia, sempre col medesimo entusiasmo che anima e trascina al sacrificio chi ha la fortuna d’accompagnarla». (ivi, 1066-1067)

Quando alloggiava nel monastero, le canzoni venivano accompagnate da un tamburello e dal battito delle mani.

Una volta suor Ines di Gesù ricorda che fu incaricata da Teresa di ricopiare una poesia da cantare poi in comunità, e mentre scriveva pensava tra sé e sé che in una donna così santa, come la Madre Fondatrice, tali canti non le sembravano molto dignitosi.

Ma Santa Teresa, che aveva indovinato il pensiero vedendo la sua perplessità, le disse con molta grazia, passandole accanto: «Tutto ciò è necessario per sopportare la vita». (ivi, 1496)

I suoi testi nascono soprattutto dall’intimità d’amore con il Cristo, ma anche dal sentimento opposto: dalla percezione cioè di una lontananza, che equivale per lei a privazione di una siffatta intimità di amore.

Il tutto vissuto come una mancanza lancinante, il desiderio struggente, fortissimo, del cielo, come un sentirsi morire perché ancora non le è dato quel morire che è vivere e quella terra che è cielo.

Nel testo sopra citato sono evocate le parole mistiche di san Paolo, quando scrive di sé e della sua esperienza viva di Cristo ai Galati: «Vivo ego, iam non ego, vivit vero in me Christus. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me». (Gal., 2, 20).

Scrive Teresa nelle Relazioni spirituali, che rappresentano come la continuazione al Libro della vita: «Vi sono dei giorni in cui mi è sempre alla mente quello che dice San Paolo. Anche a me pare, benché non come lui, di non essere più io che vivo, che parlo e che voglio, ma un altro in me che mi dirige e mi dà forza.

Sono come fuori di me per la gran pena che la vita mi dà. Sì, mi è così doloroso esser lontana da Dio che il maggior sacrificio che ora io offro alla sua gloria è appunto di accettar di vivere per amor suo». (ivi, 456-457)

La speme sol m’allevia
d’avere un dì a morire,
ché col morir eterea
vita verrò a fruire.
Morte che a vita susciti,
non ritardar! t’imploro!
Moro perché non moro.
Non mi tradir! Fortissimo
vita, ricorda – è amore.
Puoi guadagnar col perderti.
Cedi! Per te è migliore.
(ivi, 1500)

Nei lamenti dell’esilio l’amore si rivela

Cammino interminabile,
lungo e crudele esilio,
terra in cui debbo vivere,
soggiorno di periglio!
Signore amabilissimo,
concedimi d’uscire,
ché ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire…
Questo terreno vivere
è un’iterata guerra:
la vera vita vivesi
oltre la grama terra.
Amarti, amarti, o Amabile,
amarti e mai finire.
Ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
(ivi, 1507-1509)

E ancora nel Libro della vita leggiamo: «Io so di una persona alla quale, pur non essendo poeta, accadeva di improvvisare strofe molto sentite nelle quali manifestava la sua pena; Parole che non erano frutto di intelligenza ma uno sfogo dell’anima che tuttavia le davano gioia». (Vita, 16, 4).

Un’altra poesia esprime la gioia che Teresa sperimenta nella preghiera, come intima unione d’amore. Una gioia che lei paragona a quella che nelle parabole qualifica il Regno dei cieli: simile alla gioia condivisa con le amiche della donna che ritrova la moneta perduta o a quella del re Davide quando cantava e ballava davanti a Yhwh:

«Mi sembra che sia come quella donna di cui parla il vangelo che voleva chiamare e chiamava le vicine. Credo che tale sentimento doveva provare il re profeta Davide quando suonava e cantava sull’arpa le lodi di Dio» (Vita, 16, 4;3).

Felicità di chi ama

Libero e lieto è il cuore innamorato,
che tutto e solo si concentra in Dio.
Per Lui rinuncia ad ogni ben creato,
per Lui si lascia in disdegnoso oblio.
Il suo pensiero è tutto in Lui sacrato,
ed Ei l’appaga in ogni suo desio.
Così, fra mezzo a questo mar sconvolto,
passa sereno nella pace avvolto.
(Opere, 1506)

Una volta le carmelitane di Siviglia, prima della partenza della Madre dal loro convento, insistettero perché il priore padre Gracián acconsentisse a che Teresa fosse ritratta da un frate pittore che era andato al monastero per decorarlo, un certo fratel Giovanni della Miseria, che non era certo “il gentil pittore” della poesia che segue.

Così padre Gracián commentò quell’episodio: «Ella se n’afflisse, non tanto per l’incomodità a cui il pittore la costringeva, obbligandola a rimanere immobile per tanto tempo senza muovere la testa e alzare gli occhi, ma per il pensiero di lasciare nel mondo la sua figura.

Il ritratto riuscì male perché fratel Giovanni non era un gran pittore. La Madre gli disse scherzando: “Dio ti perdoni, fra Giovanni! Dopo tutto questo, mi hai fatto brutta e cisposa”. – Questo è il ritratto che ora abbiamo, ma mi sarebbe piaciuto – scrive ancora Gracián – che fosse stato più al vivo, perché la Madre aveva il viso molto bello che muoveva a divozione» (ivi, 1274, nota 1).

Nella poesia Cercando Dio Teresa immagina che “Amore” abbia dipinto in lei l’immagine di Cristo e in Lui la sua:

In me cerca te/e in te cerca me

Con tanta grazia e diligenza Amore
in me ti seppe ritrattar, che al mondo
non mai s’avrà un così gentil pittore
che miglior opra possa in ciò compir
Fosti dal nulla per amor creata,
bella, graziosa e nel mio cuor dipinta
Se ti smarrissi, o mia colomba amata,
cercati in me, ché ti potrai scoprir.
Ti scoprirai dipinta sul mio petto
sì ben al vivo e con sì dolci tratti
che in contemplarti tu n’avrai diletto,
grata all’eccelsa possa dell’amor.
Che se poi non sapessi ove cercarmi,
non vagare per monti o per foreste:
se veramente tu vorrai trovarmi,
cercami in te, dentro il tuo stesso cuor.
Tu sei l’ostello ov’io dimoro e dove
il mio riposo e il mio piacer rinvengo.
Non affannarti nel cercarmi altrove:
chiamami e tosto io sarò da te.
In ogni tempo e in qualsivoglia loco
pur io ti chiamo e di chiamar non lascio.
In me ti cerca, ed – oh, mirabil gioco!
te pur con gioia troverai qui in me.
(ivi, 1510-1511).

La poesia è linguaggio non solo dei poeti ma pure dei mistici e di coloro che narrano la vita quando ama fino in fondo. Le loro parole senza saperlo sono ammirate come quelle di poeti, anzi doppiamente commuovono.

Così quelle di Teresa che non avevano alcuna pretesa letteraria. Le parole “pur non essendo poeta”, si riferiscono alla sua mancanza di cognizioni stilistiche intorno alle regole della metrica.

Un pensiero di Thomas Mann [Qui] può così offrirci un orizzonte interpretativo circa questi testi quando scrive che: «Ammiriamo la poesia proprio perché sa parlare come la vita, ma siamo doppiamente commossi dalla vita che parla, senza saperlo, proprio come la poesia» (Introduzione a Lettere di Condannati a morte della Resistenza europea, Einaudi, Torino 1964, XI).

A sua immagine: morire d’amore, morire per te

Le tue parole per me fanno fiorire le mie per te: un canto d’amore, parole sussurrate, zitte e poi gridate. Le tue parole che mi sfiorano come una carezza, mi mancano le parole tue per me. La cosa più grande è morire d’amore.

Così Giuni Russo [Qui], donna di lotta ed energia, cantante e compositrice, artista di ricerca, sperimentale e d’avanguardia, spaziò tra vari generi musicali, tra cui anche testi classici e di musica sacra.

Appassionata della poesia di Giovanni della Croce [Qui] fu ispirata dalla sua opera poetica nelle sue canzoni. Innamorata di Teresa d’Avila, Giuni disse che le sue parole le cantavano dentro. Morirò d’amore è la sua ultima canzone, definita da lei stessa come “una preghiera” che invoca una presenza, perché la sofferenza d’amore non si cura se non con la presenza della sua figura.

Vento nei capelli e gli occhi al sole
E richiami vigili nel cuore
Affidavo all’aria i miei pensieri
E le parole, le parole tue mi mancano
Le parole urlate poi dall’eco ripetute, cantano
Morirò d’amore, morirò per te
Il tuo sorriso, l’allegria, quanto mi mancano
Le parole sussurrate, zitte, poi gridate
Le parole tue per me
Morirò d’amore, morirò per te
Senti il vento contro le ringhiere
Con te vicino passo le mie sere
E le parole, le parole tue mi sfiorano
Quelle parole che sai dirmi
Quando me ne voglio andare, vincono.
Morirò d’amore, morirò per te
Socchiudo gli occhi e le tue mani mi accarezzano
Quelle parole urlate poi dall’eco rimandate
Che dal cielo cantano
Morirò d’amore, morirò per te

La sua figura

L’estate appassisce silenziosa
Foglie dorate gocciolano giù
Apro le braccia al suo declinare stanco
E lascia la tua luce in me
Stelle cadenti incrociano i pensieri
I desideri scivolano giù
Mettimi come segno sul tuo cuore
Ho bisogno di te

Sai che la sofferenza d’amore non si cura
Se non con la presenza della sua figura

Baciami con la bocca dell’amore
Raccoglimi dalla terra come un fiore

Come un bambino stanco ora voglio riposare
E lascio la mia vita a te

Tu mi conosci non puoi dubitare
Fra mille affanni non sono andata via
Rimani qui al mio fianco sfiorandomi la mano
E lascio la mia vita a te

Sai che la sofferenza d’amore non si cura
Se non con la presenza della sua figura

Musica silenziosa è l’aurora
Solitudine che ristora e che innamora

Come un bambino stanco ora voglio riposare
E lascio la mia vita a te

Mi manca la presenza della sua figura
(Giuni Russo e Franco Battiato, La sua figura)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

STORIE IN PELLICOLA / Bla bla baby

Ci sono bambini che sono attori nati, con le loro faccette simpatiche e i gridolini che fanno intenerire. Recitare con loro deve essere un’avventura incredibile e unica, oltre che esilarante. Molta abilità, comprensione, pazienza ed empatia sono sicuramente gli ingredienti necessari per un film delicato e simpatico come Bla bla baby, di Fausto Brizzi, prodotto da Luca Barbareschi e dal suo Èliseo entertainment. A sorpresa, il soggetto è di Francesca Neri e Claudio Amendola.

Il piccolo Martino, foto di Federica Di Benedetto
Luca, foto Federica Di Benedetto

Stroncato dalla critica, troppo infantile per gli adulti e troppo adulto per i bambini, situazione inverosimile/improbabile e mancanza di originalità (filo conduttore che ricorda Senti chi parla o Quello che le donne vogliono), a noi è piaciuto sia per il simpatico e carismatico Alessandro Preziosi, nel ruolo di Luca Ferrari, che, soprattutto, per il bambino Martino (interpretato da Leonardo e Pietro Veronese, con la voce di Edoardo Vivio). Il solo esilarante e tenero paffutello Martino vale la visione.

Martino e Luca, foto di Federica Di Benedetto

Luca, ex surfista-dongiovanni quarantenne trova lavoro, grazie all’aiuto dell’ex compagno di banco delle medie Ivano (Massimo De Lorenzo) come maestro d’asilo nido aziendale, presso l’avveniristica Green Light che si occupa di energie rinnovabili e sostenibilità ambientale ed è guidata da un amministratore delegato “illuminato” (Mattia De Bortoli interpretato dal bravo Cristiano Caccamo). Sotto l’occhio vigile di Celeste (Maria di Biase) e di Doriana, capo duro ma dal cuore tenero (Chiara Noschese), in quell’asilo ci sono i figli dei dipendenti, fra essi Martino, accompagnato dall’affascinante mamma in carriera Silvia (Matilde Gioli) che, in azienda, lavora come interprete. Sono pargoletti davvero carini e simpatici e qualcuno li capisce per davvero.

Martino, Luca e Ivano, foto Federica Di Benedetto

Mangiare un omogenizzato avariato alla platessa conferisce, infatti, a Luca il superpotere di capire il significato dei versi dei bimbi, che alle sue orecchie parlano come libri stampati. Ne approfitterà per sedurre una mamma e sventare una truffa milionaria, con mirabolanti imprese, degne di agenti segreti, che vanno aldilà dell’età anagrafica. Con tanto di Edoardo Bennato nel finale e la sua ogni favola è un gioco.

Leggero e divertente, per un pomeriggio spensierato.

Trailer 

 

Bla bla baby, di Fausto Brizzi, con Alessandro Preziosi, Matilde Gioli, Massimo De Lorenzo, Maria Di Biase, Chiara Noschese, Nicolas Vaporidis, Italia, 2022, 94 minuti.

Parole a capo
Alessandro Assiri: “Senza un addio mi fa male tutto” e altre poesie

“I naufraghi sono coloro che aspettano. Coloro che sono minacciati dal nostro silenzio. Coloro che già sono straziati da un abominevole errore.”
(Antoine De Saint-Exupery)

come chi lascia una vita indecifrabile
rischia l’archivio del silenzio
così il contrario del vero non è il falso
ma l’insignificante
restavi alla fine di una partita persa
soltanto un soffio
lo stesso con cui si perdono i treni

*

Sto qua con l’odio che mi manca

con le dita tolgo polvere alla foto

soffio la paura che non so

difendo la rabbia come un posto di lavoro

in questi giorni passo a portarti un fiore finto

il simbolo migliore un fuoco  spento

*

Senza un addio mi fa male tutto

Resta il guasto anche nelle parole buone

Nel continuarvi cattivi

pur di immaginarvi vivi

Nell’eterno ritorno

quando bastava un buongiorno

*

Quando sei entrata e hai occupato tutto l’odore, l’ultima vertebra che ci ha scritto più lenti, la bocca che ci ricordava la fame dell’animale che portavamo addosso.
Abbiamo cambiato i verbi, gli sguardi per chiamarci interi e dove prima c’erano i capelli adesso c’è questa rabbia di carne che consola, l’ombra sul muro che come femmina ti segue esagera allungandoti e temo ti disperda tra i vestiti che scavalchi e il liquido sul bordo, il fiato corto sulla schiena è la mia aria necessaria.

*

Alessandro Assiri (Bologna, 1962), ha pubblicato in poesia Morgana e le nuvole (2004), Il giardino dei pensieri recisi (2006), Modulazione dell’empietà (2007), Quaderni dell’impostura (2008), La stanza delle poche righe (2010), Cronache della città parallela (2011), In tempi ormai vicini (2012), Appunti di un falegname senza amici (2013), Lo sciancato e Caterina (2014), Lettere a D. (2016), Ontologia della Maddalena (2018), L’anno in cui finì Carosello (2019), Come (Lietocolle/Ronzani Editore, 2022). Collabora a vario titolo con editori italiani e francesi.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopioPer leggere i numeri precedenti clicca [Qui]