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Diario in pubblico /
Il tanfo (che non è il tango)

 Avrei potuto usare il più usuale sinonimo: la puzza. Ma, consapevole della nostra dizione ferrarese, non avrei voluto che si pronunciasse ‘pussa’; perciò, ecco la scelta più colta: ‘tanfo’, applicabile alla sfera culturale, morale, politica e ovviamente scritturale. Ma cominciamo da quello che più mi ha ‘stupito’ per usare una metafora riduttiva, ovvero la dichiarazione dell’on. Sangiuliano, ministro della cultura. Le informazioni sul ministro recitano:

«Gennaro Sangiuliano è un giornalista, saggista e politico italiano, dal 22 ottobre 2022 ministro della cultura nel governo Meloni. È stato direttore del quotidiano Roma di Napoli dal 1996 al 2001 e del TG2 dal 2018 al 2022 e vicedirettore del quotidiano Libero e del TG1 dal 2009 al 2018.
Nascita: 6 giugno 1962 (età 60 anni), Napoli
Istruzione: Università degli Studi di Napoli Federico II
Carica: Ministro della Cultura dal 2022
Capo del governo: Giorgia Meloni
Inizio mandato22 ottobre 2022».

Quindi non un incompetente, né tantomeno un ignaro della cultura. Eppure, leggere la sua dichiarazione al convegno FdI intervistato dal giornalista Pietro Senaldi lascia veramente di sasso, specie per chi, come lo scrivente, ha una certa cultura su Dante, avendolo insegnato per 15 anni all’Università di Firenze, che ha fatto parte della Società dantesca italiana e via ‘col tango’. Ma ecco la dichiarazione:

Il fondatore del pensiero di destra in Italia è stato Dante Alighieri: la destra ha cultura, deve solo affermarla… Quella visione dell’umano della persona la troviamo in Dante – ha aggiunto Sangiuliano – ma anche la sua costruzione politica credo siano profondamente di destra. Ma io ritengo che non dobbiamo sostituire l’egemonia culturale della sinistra, quella gramsciana, a un’altra egemonia, quella della destra. Dobbiamo liberare la cultura che è tale solo se è libera, se è dialettica”.

Questo proclama il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano nel corso della kermesse milanese di FdI, Pronti, candidati al via.

A questa ‘esplosiva’ dichiarazione rispondono molto perplessi alcuni importanti dantisti.

Franco Cardini sul QN Il resto del Carlino del 15 gennaio. A domanda precisa così risponde:

«… il suo discorso su Dante resta singolarmente astratto e contraddittorio. Il pensiero politico dantesco, in termini trattatistici, è valutabile principalmente attraverso un trattato latino, il De Monarchia, e uno – programmaticamente divulgativo, e per giunta in lingua volgare, il Convivio». Per concludere che se il pensiero di Dante potesse essere assimilato alla destra «di una ‘destra’ ben altra da quella verso la quale la Weltanschauung dei Fratelli d’Italia sembra fino ad oggi tendere».

Altro punto di tanfo è che la seconda carica dello Stato, Gnazio Larussa sia andato a una riunione di partito ignorando i suoi obblighi istituzionali, come se, è stato detto, Mattarella si fosse recato a un congresso Pd.

Altrettanto pungente il commento del filosofo Cacciari che, come è suo uso, oracolarmente esprime il suo giudizio sulla Repubblica del 15 gennaio 2023.  Nell’intervista rilasciata a Raffaella De Santis, alla risata del filosofo e all’interrogazione della giornalista risponde: «Non si può che ridere di fronte a esternazioni del genere, che tra l’altro ricorrono a categorie novecentesche, come destra e sinistra, che non mi sembrano molto aggiornate».

Cacciari rileva che l’idea di appropriarsi dei ‘fondatori della patria’ è propria alla destra storica, come ad esempio il fascismo in Italia o in Germania il nazismo, ma supponeva che questa impostazione fosse stata superata. Perché “retorica nazionalista”.

E al punto cruciale che è il giudizio di Sangiuliano così correttamente risponde: «Dante è un rivoluzionario, un eretico, un uomo contro tutti. Dante è esule nei confronti di qualsiasi casa politica consolidata del suo tempo, a cominciare dalla teologia politica ufficiale».

Riaffermando la solitudine politica di Dante, Cacciari propone un’idea di Dante che verificherò a breve nella più importante pubblicazione dell’anno dantesco vale a dire l’Inferno edito dalla casa editrice Salerno con il commento di Enrico Malato e di cui darò conto in una prossima recensione. Così il collega Giulio Ferroni dell’Università La Sapienza di Roma e dantista da lunghi anni scrive:

«Quella del ministro è un’affermazione priva di senso, che rivela una incredibile mancanza di senso storico e della letteratura. L’uso politico della cultura è diffuso a destra come a sinistra, ma questa mi pare proprio esagerata».

Il professore ricorda un episodio: «Nel 1921, per i 600 anni della morte di Dante, gli squadristi di Balbo andarono a Ravenna, pregarono sulla tomba di Dante. Poi cominciarono a picchiare i nemici, a chiudere le sedi dei sindacati. Ecco, forse il culto del Dante di destra nasce dall’uso che se ne è fatto, più che dalla sua vita».

Non è il caso qui di riportare il giudizio dei politici di parte, a cui è o sarebbe troppo facile rispondere con altrettanti e rovesciati commenti.

Lascio al “dibbattito” in corso questo aspetto.

A questo punto spero che il simbolico tanfo si sia diradato ed almeno produca una respirabile ‘aura’ dantesca. Lasciamo allora il tanfo di una sana traspirazione, o come mi viene suggerito “uno sgradevole olezzo” di corpi giovani, impegnati in competitive partite agli spogliatoi degli stadi o di qualsiasi altro luogo in cui la fisicità si esprime con sforzo e competenza.

E al limite, se i nostri calzini emanano odore sgradevole non si perda il tempo. Li si lavi immediatamente. E a chi impregna l’aria di ‘puzzette’ rimando alla visione di un meraviglioso film Qua la zampa dove sono i nostri pelosi a giudicare i nostri odori. Ma questo sarà un altro discorso.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi clicca  [Qui]

In copertina: il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano (foto Agenzia Dire)

Dante Alighieri era di destra?

Il ministro Sangiuliano ha detto che Dante era di destra. Un’affermazione azzardata in quanto nel Trecento più che destra-sinistra c’erano guelfi (lui era dei bianchi) e ghibellini. Sarebbe come dire che i domenicani erano di destra e i francescani di sinistra (che se le davano di santa ragione non solo sul piano teorico). Un politico esiliato da Firenze in tempi in cui gli avversari erano sempre nemici.

Lo studioso marxista Edoardo Sanguineti scrisse che Dante era un po’ reazionario, forse perché credeva nella Chiesa cattolica, nella spiritualità e negli ultimi decenni il “cristianesimo” è stato più difeso dalla destra che dalla sinistra.

Se a questo pensa il neo ministro Sangiuliano non ha tutti torti, anche se il comunista Tullio De Mauro, ministro dell’Istruzione (linguista e amico di Asor Rosa con cui diresse il Dipartimento di filologia e linguistica a La Sapienza di Roma) disse nel 2001 che il vangelo doveva essere materia di studio in lettere e non nell’ora di religione, in quanto il cristianesimo è un elemento fondante e identitario della nostra cultura europea.

Per questo si fatica a classificare Dante “di destra”, il quale fu anche un feroce critico verso quel capitalismo nascente, fatto di banchieri e mercanti. In tal senso fu “visionario” di quello che sarebbe accaduto in particolare dopo il 1492 e il 1999 e difensore della “bona vita” e di valori cristiani e spirituali (oggi poco di moda) e criticò il “progresso”.

Oggi sarebbe in buona compagnia perché molti autori (tra cui Panikkar) considerano il “progresso” un mito del novecento che oggi mostra tutti i suoi limiti nella distruzione della Natura, cioè il ramo su cui siamo seduti. La favola del “progresso” si è trasformata in quella della crescita infinita, che, in realtà, l’unica cosa che sa far crescere è il denaro. Tutto il resto cala: dalle relazioni umane, alla qualità della vita, all’armonia che avevamo nella comunità e con la natura e le altre specie sulla Terra.

Dante (come altri mistici) lo intuì (allora c’era ancora l’intuizione come senso che la tecnologia ha distrutto) e ci avvertì che saremmo entrati nella “selva oscura 2.0”, e quindi non è un caso che nell’Inferno non ci fosse la Natura. Non penso che la sua profonda spiritualità avrebbe apprezzato un cambiamento con modalità violente, piuttosto si sarebbe ispirato alla non violenza di Gandhi o Capitini, ma certo era un radicale come Gesù, che rovesciò i banchi dei mercanti nel tempio.

Dante e Francesco d’Assisi hanno evidenziato come assolutizzare il denaro e la “mercatanzia” porta l’umanità all’Inferno. Cristo, buttando fuori i mercanti dal tempio (uno dei rarissimi esempi di un Cristo non “pacifico”), critica in modo durissimo non solo i Farisei, i Sadducei e il Sinedrio, ma anche la logica di potenza degli imperi (allora Roma). Dante pagherà con l’esilio (anche se ora è da tutti acclamato), una pietra scartata, come lo furono Gesù Cristo, Francesco d’Assisi, Pasolini, Raimon Panikkar, per citarne alcuni.

Un messaggio di Dante era quello di tornare a riunificare spiritualità e politica, sapendo che spesso il politico viene mangiato e sussunto dall’economico. Dante non era un nostalgico della società feudale e la sua speranza era in una futura Europa Unita sotto il segno della spiritualità (papato) e della politica. L’idea era la felicità terrena unita alla felicità extraterrena, mentre oggi è l’economia che tutto guida in un tragico monismo.

Dante seguiva il pensiero di Aristotele, per il quale l’economia era la buona “amministrazione della casa” (oikos), mentre la “produzione di maggior ricchezza” era la crematistica, che, se si pratica sotto il governo dell’economia è buona ma, quando si rende autonoma e fa della ricchezza il proprio fine (come oggi), degenera. Per Dante la ricchezza è un mezzo, non il fine della vita umana, che diventa “contro natura” perché distrugge l’armonia tra uomo e ambiente.

Max Fischer (editorialista del New York Times) ha scritto che “il capitalismo sta mangiando gradualmente tutto”. Si pensi alle nostre scuola e sanità diventate gradualmente aziende, dove le parole prevalenti sono: investimenti, spese, debiti, crediti (ora sicurezza) che non hanno nulla a che fare con l’educazione. Per gli scienziati del “panel clima” l’attuale sistema è insostenibile, anche nelle versioni edulcorate di “green” o “verde” o “compatibile” (come si dice in questi giorni a Davos).

Dante capì che la sua epoca (XIII e XIV secolo) vedrà iniziare il capitalismo nella forma della finanza e della cupiditas, la lupa che sbrana e che immiserisce. Dante non vede ancora la catastrofe climatica ma intuisce qualcosa perché nell’Inferno non c’è nulla di Natura.

Nel 1492 ci sarà un ulteriore accelerazione con la “scoperta” dell’America, che in realtà si dovrebbe chiamare la conquista dell’America e che porterà a 300 milioni di uccisioni e ad uno spostamento di materie prime e ricchezza immenso verso l’Europa. Già in quei secoli avvenne un cambio climatico pazzesco.

I giovani sono nativi digitali, ma noi tutti siamo nativi capitalisti e non ci rendiamo più conto di una narrazione dominante che abbiano interiorizzato, come le “magnifiche sorti e progressive” che sono anche il colonialismo post 1492 o il razionalismo di Cartesio (cogito ergo sum), in cui tutto è calcolo e quantità, un uomo oggi ossessionato dalla sicurezza, mentre la verità è semmai “sono, quindi penso” o, come avrebbe detto Dante “amo e quindi sono”.

Per leggere tutti gli altri articoli di Andrea Gandini clicca sul nome dell’autore

Parole e figure /
Un giorno in ascensore

Non amo molto gli ascensori, soffro di claustrofobia e poi sono un po’ il simbolo della vita, chi sale e chi scende. E a me scendere non piace molto…

Ma alcuni sono bellissimi, sanno di antico, come quelli Liberty intarsiati e ricamati di certi palazzi dell’elegante centro di Roma o di Vienna. Un gusto retro che porta indietro nel tempo e lascia immaginare raffinate e profumate signore degli anni Venti o Trenta, dall’odore di talco, in attesa di salire a un piano del palazzo per consumare un tè in compagnia di altrettante profumate amiche. Dolcetti e chiacchiere ad attendere.

Gli ascensori, in fondo, accolgono tutti e portano dove si vuole. Basta sapere dove. Basta chiamarli e arrivano, ti conducono proprio là. Fosse così per tante altre cose nella vita!

Il libro di oggi, Un giorno, un ascensore, di Cristina Petit e Chiara Ficarelli (Pulce edizioni) mi continua a far ronzare questa curiosa idea in testa.

Forse, non sono poi così male. Sono molto democratici. E disponibili, oltre che stakanovisti. E poi ci permettono di sbirciare un po’ nelle vite degli altri… Curiosando.

Accarezzo allora delicati disegni che portano idee altrettanto delicate, umanità che si sfiorano e s’incontrano, ogni giorno. Con attenzione, cura, rispetto, dedizione e pazienza.

Una giornata normale, in un condominio qualunque, di una città qualunque, e un ascensore che scende e sale, che sale e risale, e poi scende e riscende. Lavora molto, senza sosta, senza troppe pause o momenti di relax. Forse la notte c’è più calma.

Ognuno ha un motivo preciso per prenderlo, chi è allegro, chi più serio, chi va di fretta, chi meno, mentre la portinaia sorridente osserva, all’ombra della sua visiera bluette. Qualcuno si guarda allo specchio e si sistema il cappello, la sciarpa, gli occhiali o il trucco.

Primo viaggio. Inizia il postino, sono le 10.22, sale con 35 lettere dal mondo, 5 telegrammi dal mare e sette pacchi misteriosi. Chissà se porta sorprese, se reca belle o brutte notizie. Il telegramma magari annuncia una nascita o un matrimonio, i pacchetti potrebbero essere doni inaspettati, libri o giocattoli. Chissà, la curiosità è tanta. I viaggi continuano.

Scendono una simpatica zia che fa la maglia, fin dall’ottavo piano, una mamma tuttofare dalla comoda salopette e una mamma pilota. Tutte in quell’ascensore che sa un po’ di magico. Ci si scambia qualche parola. Alle 13.03 scendono i gemelli ribelli che si tirano i capelli, rumorosi, indisciplinati ma che prima o poi faranno pace.

Ci sono poi i due fratelli, noti artisti del quartiere, barba e occhiali rossi, a salire con pane, cioccolata e cibi vari, i sacchetti pieni di cose buone, chissà per chi.

Alle 16.33 compaiono altri bambini che si cercano, vocianti, i giocattoli in mano, amichetti di lunga data, nonostante la giovane età, si conoscono da sempre.

Ci sono poi allegre babysitter, vecchietti che portano a spasso il cane al vicino parco o giardino ingialliti dall’autunno, nonne con i capelli felici e tante caramelle blu che cercano i nipotini, signori con segreti nelle valigette, violinisti e cantanti, fattorini. Tutti salgono e scendono. Che viavai… quanta gente operosa e indaffarata. Quanta vita.

Ecco allora che alle 19.44 il simpatico vecchietto con il cane trova, sulla porta, un messaggio che dice: “ti aspettiamo di sopra, vieni, presto!”. Sorpresa da scoprire. In un giorno qualunque di un condominio qualunque. Perché la giornata finisca bene, tutto è bene ciò che finisce bene.

Un giorno, un ascensore, di Cristina Petit, Chiara Ficarelli, Pulce, 2020

Foto in copertina e  foto ascensore rosso dalla pagina Facebook di Paola Marella

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

Ho visto Rosy Bindi su Rai 3. Con rimpianto:
forse solo lei poteva salvare il Pd dalla nuvola del nulla.

Ieri pomeriggio su Rai 3 c’era Lucia Annunziata. Mezz’ora in più: mezzora d’aria, breve pausa di riflessione nel rissoso nulla politico televisivo. Perché Lucia – scuola Manifesto, poi corrispondente e columnist nei grandi giornali, persino una parentesi da presidente della Rai per 15 mesi – è di gran lunga la giornalista televisiva in circolazione più brava, intelligente, preparata. Rispettosa delle posizioni dei suoi ospiti, senza rinunciare al duro contraddittorio e al registro ironico.

Dunque la puntata di Lucia Annunziata; che consiglio a tutti, anche ai tanti che la televisione l’hanno eliminata portandola all’isola ecologica, ma che possono seguirla su raiplay: Mezz’ora in più – puntata del 15/01/2023
Questa volta Lucia Annunziata, dopo un benzinaio e dopo Gianfranco Fini, si dedica al Pd e alla sua crisi d’identità. E per farlo sceglie una domanda impegnativa per i suoi ospiti, non un commento o una previsione sulle prossime (abbastanza scontate) primarie di un ex grande partito da tempo in caduta libera, ma un quesito più radicale. La domanda di Lucia suona  più o meno così: “Cos’è che non va oggi nel partito, cosa gli manca, quando e perché ha smarrito la diritta via?”  

A rispondere, 3 pezzi importanti della storia del partito. Mario Tronti (91 anni), esponente dell’area operaista, da sempre in polemica con l’altro operaista illustre, Alberto Asor Rosa, morto la settimana scorsa. Claudio Petruccioli (81 anni) erede dell’ala migliorista di Giorgio Amendola e Giorgio Napolitano, giornalista, superdeputato e dirigente del Partito Comunista (e seguenti sigle) dagli anni ’70 in poi. E infine Rosy Bindi (71 anni), ex democristiana con in mente Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira e Tina Anselmi, poi tra i fondatori dell’Ulivo di Romano Prodi e del novello Partito Democratico lanciato in pompa magna da Walter Veltroni nel 2007.

Poco mi aspettavo, e niente di nuovo e interessante è arrivato dai primi due ospiti. Sia Tronti, perso nella confusione senile, sia Petruccioli, baldanzoso e sempre un po’ arrogante, hanno raccontato qualche pezzo di storia del partito (la loro storia soprattutto) ed evitato di rispondere alla domanda di fondo. Entrambi esponenti della destra del partito (anche se la tradizionale destra migliorista e stata diversa della destra falsa-sinistra operaista), non erano neppure in grado di cogliere una domanda che invitava a scavare in profondità, nel rapporto tra partito e società, passione e programmi.  Potevano parlare solo di nomi, organigrammi, alleanze, strategie e tattiche parlamentari… Così è stato.

Rosy invece delle cose da dire ne ha eccome. E sono cose scomode. Sembra così tranquilla e rilassata, ripresa nel salottino di casa sua con un vaso di fiori alle spalle, ma appena Lucia Annunziata le cede la parola, torna in campo la leader appassionata e coraggiosa di sempre; e  questa volta la sua analisi degli errori e dei tradimenti del Pd è implacabile, quasi crudele. Il suo partito l’ha già messa in pensione, ma è da lei – purtroppo solo da lei, non vedo nessun altro – che dall’interno del partito viene una critica capace di interpretare il sentimento diffuso, lo sconcerto di milioni di ex elettori.

Rosy Bindi parla a ruota libera. Della incapacità del Pd di rappresentare il nuovo. Della tiepidezza del partito a dare battaglia sui diritti. Della sua lontananza dai nuovi bisogni e nuovi movimenti, in particolare da quel grande moto di coscienza che si esprime nel movimento per la pace (c’era anche lei il 5 novembre a Roma, confusa in mezzo ad altri 140.000, e subito riconosciuta, accolta, applaudita da tutto il corteo). E ricorda l’impegno quotidiano di migliaia di volontari – tantissimi i cattolici democratici – contro i respingimenti, per l’accoglienza e i diritti di cittadinanza. Di come il partito anche sull’immigrazione abbia traccheggiato, senza il coraggio di scegliere la parte dei deboli. Di come anche la lotta alla povertà e contro l’ineguaglianza sia stata messa in sordina, derubricata dalla lista degli obbiettivi.

E il partito? Dice Rosy Bindi: “Quello che impressiona in questa fase” congressuale “è che si discuta di regole e di voto online ma non si ha il coraggio di dire ai candidati se questo Pd hanno intenzione di riformarlo o rifondarlo […]  E se lo rifondano che partito vogliono fare? Da che parte vogliono stare? In nome dell’unità, che è un valore sacrosanto, si rischia ancora una volta di non fare alcuna scelta”.
Quale scelta? la scelta di stare a sinistra, di “fare la sinistra”. Di raccogliere ed interpretare quella diffusa domanda di cambiamento, di giustizia, di sinistra che cresce nel paese e che invece il Partito Democratico nemmeno riesce a vedere. Con grave danno per tutti perché, conclude Rosy Bindi: “Io so che senza il Pd non si fa la sinistra in Italia”. 

Non ho mai votato Pd, ma so, proprio come Rosy, che in Italia la sinistra non può vincere senza, o addirittura contro il Partito Democratico (per questo mi viene l’orticaria quando alcuni amici e le micro-formazioni politiche ‘più a sinistra della sinistra’, invece di combattere la destra, individuano nel Pd il nemico da battere).
Per ora il Pd, la sua classe dirigente, non sembra aver nessuna intenzione di cambiare. Oppure la cosa è ancora più deprimente: interpreta e riduce ‘il cambiamento’ nella scelta di un ennesimo nuovo segretario. Sarebbero o Stefano Bonaccini o Elly Schlein, oggi contendenti ma finora presidente e vicepresidente di un’Emilia Romagna governata in unità d’intenti e perfetto accordo.  Ma allora a cosa servono le primarie, per scegliere cosa?
Così Rosy Bindi, la piccola donna che non rinuncia alle sue idee e non fa sconti a nessuno, ha dichiarato che questa volta non metterà il suo voto nell’urna delle primarie.

Se posso aggiungere una cosa, a me le primarie, così veltroniane e così americane, non sono mai piaciute. Le ho sempre disertate, tranne una volta, parecchi anni fa. E quella volta, pur senza speranza, ho votato Rosy Bindi.

Gli spari sopra /
Teniamoci per mano in questi giorni tristi

Ma poi, siamo davvero così sicuri che questo nostro testardo bisogno di sogno (che rima di merda!), non sia proprio la realtà? Che questa necessità di immaginarci l’utopia, vestita coi panni degli eroi perdenti che ci hanno accompagnato per mano durante tutta la vita, non sia realmente la vita? Ecco, non sono sicuro nemmeno io di avere capito cosa voglio dire, ma nella mia testa queste parole hanno un nesso, hanno un senso. Parlo di noi perché ci sarà pure, da qualche parte, qualcuno che ha le mie stesse turbe, magari in qualche centro di igiene mentale non ancora basaglizzato, accucciato in una cella dove la Legge 180 non è ancora arrivata.

Sì, perché credo che questo bisogno di immaginario, non tanto di eroi comunemente detti, quanto di sconfitti che ci rappresentino, abbia un suo filo rosso che ci unisce.

Penso che alcuni personaggi della fantasia di illuminati scrittori di ogni tempo e persone vissute realmente possano tranquillamente scambiarsi i ruoli. Don Quijotte De La Mancha, Ernesto Guevara de La Serna, Don Diego De La Vega, Salvador Guillermo Allende Gossens forse sono la stessa persona, oppure sono parenti tra loro. Magari la fantasia e la realtà si sono scambiate i ruoli.

Io non ho bisogno di eroi senza macchia e senza paura, ho bisogno di sconfitti che mi prendano per mano in questi giorni tristi (cit.). I giorni tristi non sono riferiti ad un evento in particolare, ma sono collegati alla strada che ha imboccato il mondo. La vittoria a mani basse del capitale mi riporta alla mente i mille perdenti che hanno significato tanto per me bambino, adolescente, adulto e (quasi) vecchio. Capitan Harlock, Michele Strogoff, Sandokan, Lucio Magri, Pino Pinelli, Tiziano Manfrin, si assomigliano tra loro. Molti di questi non-eroi hanno i capelli lunghi, ciuffi scompigliati da attori anni ’50, sigari o sigarette in bocca sfrontate, desiderio di ottenere l’impossibile.

Come è possibile sentirsi fuori tempo in ogni epoca e ad ogni età? Come si può essere fuori tema dalle elementari? E’ una domanda che mi pongo spesso. La mia autostima ha il bisogno, la necessità, l’obbligo di vivere tra le nuvole, adolescente datato che immagina l’anarchia come un mondo di regole autoimposte, al contrario di chi pensa che essere anarchico sia rincorrersi a braghe calate facendo il bombarolo.

Vi rappresento questo mio disagio, liberando qualche internato dal tugurio ammuffito della propria prigione, vera o presunta. Un mondo di salnitro, dove i muri impregnati di un liquido percolante  prendano nuovamente una luce.

Vorrei strappare le pagine dei libri per fare rivivere i personaggi intrappolati nella carta.

Vorrei fermare il tempo, correre all’indietro e liberare i sogni incastrati sui fondi delle clessidre.

Credo che il bisogno di vivere tramite le parole scritte o lette sia una vera e propria patologia, che ti comprime lo stomaco, ti costringe a picchiettare su una tastiera come un pianista pazzo che suona senza spartito.

Oltre il mezzo secolo, abbandonata la speranza che un allenatore rimanga colpito dalle mie doti pedatorie, accantonato il sogno della cattura di un luccio di dieci chili, alla continua ricerca di un imprenditore illuminato che veda in me competenze che nemmeno io vedo, ricercando un editore folle che capisca quanto siano necessarie le mie parole alla causa degli ultimi, mi restano i pensieri infantili a cui aggrapparmi.

Nella consapevolezza che i sogni rimangono la componente più vera di ogni realtà.

Nella photo cover, una formazione della Spal 1976/77

Il bosco del Corniolino è salvo! E la storia continua.
“Su Heidi, le storie d’amore, i sogni e altre cose”

Lo si era chiamato sogno appena pochi mesi fa [leggi qui l’inizio della storia] , quello di rendere area tutelata un bosco privato in vendita (un lembo di 12 ettari adagiato sul limitare dei confini del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi) e destinato a taglio commerciale.
Un sogno (un bosco protetto dall’azione dell’uomo) che ha immediatamente scavalcato i labirinti della mente razionale, tramite la quale si sarebbe data senza fatica una potatina agli entusiasmi e agli idealismi. Ma la potenza del sogno sta anche in questo, nel lasciapassare intrinseco che permette di vedere le cose istantaneamente come vorresti che fossero.
E così fu. La moderna Heidi di cui abbiamo già detto, vide e insieme seppe. Tutto quel che venne dopo è presto detto.

Quel sogno apparve subito non essere una semplice fantasticheria perché era vivo e, questo lo abbiamo compreso meglio dopo, celava tra le proprie maglie una solida intenzione. L’idea fu dunque condivisa in punta di piedi, come si fa quando si vuole tastare il terreno prima di compiere un passo importante, avanzando qualche domanda esplorativa tra i propri contatti e mettendo avanti le prime ipotesi. In poche ore e in un fine settimana che si rivelò più impegnativo del previsto, l’annuncio ebbe decine di condivisioni e un numero impressionante di contatti diretti e richieste di adesione.

I segni propizi c’erano già tutti: Anna-Heidi, che invece di parlare alle caprette stava già sussurrando agli alberi del bosco di Corniolino il futuro che aveva intravisto, si mise all’opera.
Fatica sì, ma i tasselli del domino andavano tutto sommato insieme con una certa inaspettata facilità. La Provvidenza ci stava mettendo del suo per sostenere un progetto che, in un’epoca ripiegata sui consumi e sul possesso, apariva a dir poco “rivoluzionario”: comprare per non-usare, in un’azione costruita dal basso, senza istituzioni, fuori dalla politica e a memento degli obiettivi di tutela dell’ambiente strombazzati ormai anche nel più modesto dei piani strategici.

Il sogno del “Salviamo il bosco!”, con la sua schiera di sostenitori uniti, si mise in cammino. Come in ogni viaggio avventuroso, i compagni non sono sempre e solo quelli che trovi alla partenza o quelli che hai scelto o immaginato: i buoni sogni, normalmente, hanno in serbo trame più complesse e propizie.
Fu così che quel sogno in men che non si dica incontrò altri sognatori di altri sogni e, insieme, altri visionari. Due su parecchi, che spostarono di molto, in senso positivo, la barra della fattibilità: l’Associazione Fondo Biodiversità e Foreste che per statuto acquista boschi allo scopo di conservarli, lasciandoli alle dinamiche naturali e proteggendoli dall’azione dell’uomo, che in questo scenario sarebbe stata la depositaria dei fondi raccolti e dunque l’acquirente formale; e un variegato gruppo di amici di Agostino, un giovane Carabiniere Forestale mancato prematuramente all’affetto dei suoi cari, in cerca di un modo in linea con lo spirito di Agostino per onorarne la memoria e  suggellarne il ricordo. All’appello rispondono anche i camminanti di Trekking Italia E.R. che decide di versare al fondo 1 euro per ognuno dei suoi 1800 soci.

Il bosco del Corniolino e il suo progetto di tutela mettevano insieme tutti questi intenti in modo talmente sinergico che l’obiettivo dei 15.500 euro fissato per l’acquisto dei 12 ettari fu, non solo raggiunto in poche settimane, ma più che raddoppiato, arrivando con circa 200 donatori a ben 38.000 euro di fondi raccolti, consentendo di andare all’acquisto di un’area continua complessiva di 24 ettari.

Tutto è bene quel che inizia e si conclude bene. Ma che cosa abbiamo imparato?
A credere nei sogni, ma a distinguerli dalle fantasticherie. A credere nel cambiamento, anche quando tutto sembra marciare forsennatamente in una direzione contraria. . A liberare il denaro dai processi di produzione e consumo, dandogli concretamente uno scopo etico. A credere in noi stessi e nelle nostre intuizioni affinché azioni di questo tipo diventino sempre più la regola piuttosto che la sparuta eccezione.

Lanciamo nel vento questa storia, con l’augurio che sia di ispirazione ad altre storie e ad altri sognatori.

Le foto del Bosco del Corniolino e del Bidente sono state realizzate da Rosella Ciman di Trekking Italia

Dalla piramide al cerchio:
L’organizzazione decentralizzata degli alberi

Wow! Si chiuderà il buco dell’ozono: quindi cambiare è possibile…ma la concentrazione media di CO2 nell’atmosfera nel 2022 è stata di 417 ppm (parti per milione), 2,1 ppm in più rispetto al 2021. Non accadeva da 2 milioni di anni…ci stiamo avviando verso la 6^ estinzione di massa? L’ultima (la 5^) è avvenuta 66 milioni di anni fa; scomparve il 75% delle specie viventi (e i dinosauri). Furono individuate da Sepkoski e Raup in un noto lavoro del 1982 (Mass Extinctions in the Marine Fossile Record, Science, 215).

Le nostre organizzazioni sono basate sul modello gerarchico del capo. La piramide è l’archetipo e, nonostante il faraone sia scomparso 3mila anni fa, esso vive nelle nostre organizzazioni. La Chiesa cattolica non è da meno, nonostante Gesù Cristo avesse lasciato il messaggio “amatevi l’un l’altro, come io ho amato voi”.

L’ingegnere Frederick Taylor inventò la catena di montaggio per Ford nel 1913 abbassando la produzione di un’auto da 12 ore a 1. La gerarchia imperava in un mondo in cui i prodotti erano tutti uguali (un’auto T nera) e il lavoro era parcellizzato. Charlie Chaplin che scivola dentro la catena di montaggio lo ricorda. La gerarchia vive anche nel modello di scuola che abbiamo oggi, introdotto dai gesuiti nel XVI secolo: una cattedra con un maestro-pastore e allievi seduti, mutuato dal gregge dove il pastore conduce le pecore che però vivono all’aperto e si muovono nella natura.

Negli ultimi 70 anni sono cresciute le esperienze che riducono la gerarchia nelle fabbriche e umanizzano il lavoro. Per primo fu Adriano Olivetti che già negli anni ’50, mosso da un impulso spirituale e umanitario (a cui aveva contribuito il padre socialista e la madre cristiana valdese), introdusse per primo in Italia le “isole” di lavorazione (e molto altro).

Per Olivetti il differenziale salariale poteva essere max di 7-8 volte tra il dirigente più pagato (lui incluso) e l’ultimo operaio. Lo ricorderà il Papa Francesco nell’udienza a Confindustria: «Se la forbice tra gli stipendi più alti e quelli più bassi diventa troppo larga, si ammala la comunità aziendale, e presto si ammala la società. Un vostro grande collega del secolo scorso (Olivetti ndr) aveva stabilito un limite alla distanza tra gli stipendi più alti e quelli più bassi, perché sapeva che quando i salari e gli stipendi sono troppo diversi si perde nella comunità aziendale il senso di appartenenza a un destino comune, non si crea empatia e solidarietà tra tutti; e così, di fronte a una crisi, la comunità di lavoro non risponde come potrebbe rispondere, con gravi conseguenze per tutti».

Con una produzione diventata sempre più personalizzata si è capito che meno gerarchia c’è, meglio funziona l’azienda, in quanto chi sta in “basso” è bene operi in équipe, risolva i problemi e sappia cosa si sa in alto e viceversa.

Così sono nate nuove organizzazioni teal (si veda Reiventare le organizzazioni di Frederic Laloux), che riducono i livelli gerarchici, creano équipe di lavoro e crescente autonomia. Anche nelle fabbriche tradizionali (di auto…) i livelli gerarchici sono passati da 7 a 3-4 e oggi si lavora molto in équipe. Tra i capi che stanno in alto c’è chi ha capito che nelle équipe è opportuno che ci sia un coordinatore (anziché un capo) e che sia eletto dagli stessi operai anziché nominato dall’alto.

Di recente si sono affermate organizzazioni in cui la leadership non è più verticale ma orizzontale: fornitori e clienti vanno trattati come se fossero in “orizzontale” e il leader è sempre meno uno che “dà ordini o interviene”, ma uno che, oltre a fare quello, “motiva, aiuta, dà la visione”: più allenatore che capo. Segni di evoluzione dalla piramide al cerchio o al mosaico, un modo nuovo di lavorare che dà più soddisfazione a chi lavora e spesso più ricavi.

I babbuini hanno un’organizzazione molto gerarchica e si è dimostrato che i loro glucocorticoidi (ormoni dello stress come il cortisolo) erano molto più alti in quelli che stavano nei ruoli più bassi. E il grasso si addensava nella pancia, mentre nei maschi Alfa su tutto il corpo, come se i subordinati fossero anche nella forma più rotondi, oltrechè passivi, consoni al ruolo gregario. Un giorno accadde che i maschi Alfa morissero per tbc e il gruppo superstite (femmine e maschi in ruoli bassi) instaurò una nuova organizzazione più orizzontale: le analisi del sangue mostrarono che il cortisolo (stress) era diminuito.

Le organizzazioni gerarchiche sono anche più vulnerabili (non a caso internet non lo è). Così si spiega come mai Cortes e Pizzarro riuscirono a sconfiggere con pochi uomini i potenti imperi atzeco e inca, nonostante le migliaia di soldati: erano centralizzati a differenza degli indiani d’America, che infatti resistettero per molti anni alla straripante maggior potenza degli yankee. La loro forza era un’organizzazione decentrata.

La gerarchia è anche capace di fare molto “male”, come dimostrò Hannah Arendt nel suo libro La banalità del male. Ascoltando come cronista Adolf Eichmann, responsabile della morte di milioni di ebrei, capì che ciò che aveva consentito ad un essere umano di fare cose indicibili erano alcuni fattori: a) l’obbedienza ad una forte gerarchia, b) la distanza tra la propria azione e risultati attesi, c) i rapporti spersonalizzati all’interno della gerarchia.

Quando uscì il libro nel 1963, una pietra miliare per capire l’essere umano, fu duramente criticata perché, in base a queste considerazioni, gli umani avrebbero potuto ripetere questo orrore; ma, come sappiamo, Arendt aveva ragione: non ci vuole necessariamente una particolare disposizione al male, basta una organizzazione gerarchica di quel tipo.

Chi ha una organizzazione non gerarchica, scrive Stefano Mancuso nel suo bel libro La nazione delle piante (pag.140, euro 12 ed. Laterza), sono gli alberi che hanno i centri decisionali a livello periferico, e che risolvono i problemi dove nascono, con un’organizzazione decentralizzata e reiterata.

L’Homo cosiddetto ‘sapiens’ (nato 300mila anni fa), in meno di 12mila anni (da quando ha avviato l’agricoltura) ha creato un disastro sulla Terra e, se non cambia rapidamente, produrrà la 6^ estinzione di massa, lasciando liberi gli alberi (nati tra 350 e 700 milioni di anni fa), insieme al resto del creato. Un’apocalisse in corso, di cui la maggioranza – dice Mancuso – non si rende conto.

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Per certi versi /
La ballata del giradischi

La ballata del giradischi

E mio babbo mise il disco
Di quel jazz
Che venne dall’America
Con la libertà
Sentire la puntina
Strofinare e
Friggere
Le uova del ritmo
Tra clarinetto e blues
Che mondo si andava
Ricomponendo
Come se non fosse mai passato
Il viso di mio nonno in sartoria
E che fossimo nel pieno
di un rinfresco
di cosa voglia dire la vita
I vestiti della povera gente
Di quella miseria accanita
Su un vestito solo della festa
Che la musica drammaticamente spensierata
Toglieva via
Ho sentito improvvise
le lacrime nuotare
In un cuore fradicio
Di memorie
Gira gira giradischi
Così si rivive
Lo svanire

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’OlioPer leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Processo Open Arms; le deposizioni di Conte, Di Maio e Lamorgese

Il 13 gennaio si è tenuta a Palermo una nuova udienza del processo che vede l’ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini accusato di sequestro di persona e rifiuto di atti di ufficio. Nell’agosto 2019 costrinse la nave Open Arms ad attendere 19 giorni prima di poter sbarcare le 147 persone che aveva a bordo, soccorse in vari salvataggi.

Sono 7 anni che le ONG del mare vengono indagate, diffamate, ostacolate, bloccate, eppure finora l’unico indagato è l’ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini. Siamo a Palermo per il processo a suo carico, testimoni Conte, Di Maio, Lamorgese. La verità è una: noi salviamo vite” ha ricordato su twitter la Ong spagnola.

Le deposizioni dell’ex premier Giuseppe Conte e dell’ex vicepremier Luigi Di Maio hanno mostrato come la ricerca da parte di Salvini del consenso elettorale sul rovente tema dell’immigrazione prevalesse su ogni altra considerazione e in particolare sulla salvaguardia degli elementari diritti umani di persone vulnerabili reduci da esperienze traumatiche.

Conte ha smentito uno dei cavalli di battaglia di Salvini, affermando: “Non ricordo di aver mai sentito parlare della presenza di terroristi a bordo della Open Arms che aveva soccorso i migranti ad agosto del 2019. Non ricordo neppure che qualcuno mi abbia parlato di possibili accordi tra la Open Arms e gli scafisti alla guida dei barconi soccorsi“. Ha poi rincarato la dose aggiungendo: “Sollecitai il ministro Salvini a far sbarcare i minori a bordo della Open Arms perché secondo me era un tema da risolvere al di là di tutto. Cercai di esercitare una moral suasion sulla questione perché mi pareva che la decisione di trattenerli a bordo non avesse alcun fondamento giuridico.”

L’affermazione successiva dà l’idea del clima di quel periodo: “Ci avviavamo verso la crisi di governo e una probabile competizione elettorale, il tema immigrazione è sempre stato caldo per la propaganda politica ed era chiaro che in quella fase Salvini, che ha sempre avuto posizioni chiare sulla gestione del problema, volesse rappresentare me come un debole e lui invece come rigoroso”.

“Non ho mai detto che la condizione per autorizzare lo sbarco dei migranti dovesse essere la loro redistribuzione preventiva. È evidente che ottenere la solidarietà europea e un riscontro su distribuzione e poi arrivare allo sbarco sarebbe stata la situazione ottimale, ma non ho mai sostenuto che se non c’era la redistribuzione non si poteva concedere il porto sicuro” ha aggiunto Conte.

Molto simile la posizione dell’ex Ministro degli Esteri Di Maio: anch’egli ha sostenuto che la concessione del porto sicuro non era subordinata al completamento della procedura di redistribuzione dei migranti e con le sue dichiarazioni ha dipinto un quadro desolante delle dinamiche all’interno del governo: “La maggior parte delle volte sapevamo del rifiuto di Pos da parte di Salvini dai media che riportavano le sue dichiarazioni. Non ci sono mai state riunioni del Consiglio dei Ministri, né informali né formali, sulla questione della concessione del porto sicuro alle navi con i migranti. Casomai le riunioni vennero fatte per affrontare le conseguenze del diniego di Pos dell’ex Ministro dell’Interno. Seppi della vicenda Open Arms dalle dichiarazioni ai media di Salvini, non da lui, anche perché eravamo in piena crisi di governo”. E per finire: “Tutto ciò che veniva fatto in quel periodo era per ottenere consenso“.

Ha poi testimoniato l’ex Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, sostenendo di “aver messo sempre in primo piano il salvataggio delle persone”. Peccato che si sia dimenticata dei numerosi fermi amministrativi a cui ha sottoposto le navi umanitarie. Un modo di agire più “tecnico” e meno urlato e mediatico di quello di Salvini, ma ugualmente efficace nell’intralciare e bloccare le operazioni di soccorso nel Mediterraneo da parte delle Ong.

Sempre nell’ipocrita tentativo di distinguersi da Salvini, ha precisato che quando era Ministra dell’Interno “i tempi di attesa del pos per le navi delle Ong era di media 2 o 3 giorni. Si arrivava a 7-8 solo se c’era da concordare la redistribuzione con altri Paesi“.

La risposta di Salvini alle stoccate degli ex alleati e ai distinguo del successivo Ministro dell’Interno ha seguito il solito copione – un misto di vittimismo e retorica: “Rischio fino a 15 anni di carcere per aver difeso l’Italia.”

La prossima udienza del processo, fissata il 24 marzo, approfondirà le vicende legate alla presenza del sottomarino della Marina militare al momento del primo soccorso della Open Arms, con la deposizione dei consulenti di accusa, difesa e parti civili e di Oscar Camps, fondatore della Ong.

In copertina: Nave di soccorso Open Arms (Foto di Antonio Sempere)

Ferrara Off in tournée con “Futuro anteriore”
uno spettacolo dedicato al rapporto col tempo

Uno spettacolo dedicato al rapporto con il tempo, dove i protagonisti diventano piccoli, vecchi, giovani, lucidi, stralunati. È “Futuro anteriore”, una rappresentazione di forte impatto, rivelatrice e coinvolgente – a tratti comica e in eguale misura toccante e drammatica – quella messa in scena con la regia di Giulio Costa al teatro Ferrara Off e da qui partito per una tournée nazionale, dove protagonisti in scena e spettatori in sala guardano e vivono in modi tutti personali il rapporto con l’invecchiamento.
Che sia quello dei propri cari o quello che si prospetta a ciascuno di noi, il domani ha una certezza, che è quella della ridotta autonomia, della smemoratezza che si fa patologica, della fragilità che cerca di puntellarsi con certezze, esperienza, abitudini e affetti, mentre la gioventù resta a guardare tra lo sbigottito e l’incredulo, mescolando reazioni interventiste con atteggiamenti di resa esterrefatta.

Matilde Buzzoni e Antonio De Nitto in scena (foto Giacomo Brini per teatro Ferrara Off)

“Forse dimenticare è un buon modo per svanire piano piano – dice una delle giovani attrici in apertura dello spettacolo – vorrei lo sguardo acquoso degli anziani, vorrei che l’aria non fosse irrespirabile per fare delle passeggiate. Aria, aria fresca, aria calda, il venticello, il raggio di sole… Sono queste, in fondo, le cose davvero importanti?”. Una ricerca di sbocchi futuri che diventa anche una ricerca di altro: il senso ultimo della vita, la memoria, l’importanza dei legami, la storia che rende ciascuno di noi l’individuo che è, in relazione con gli altri. Ecco allora i ricordi della cera sui pavimenti, i centrini di pizzo, le stanze con il divano dove non ci si poteva sedere ma sul quale si mettevano le tagliatelle ad asciugare, la tv che negli anni è diventata sempre più grande e il volume sempre più forte, la proiezione di sé, l’idea di un traguardo da cui ci si potrà guardare indietro (“Da vecchia avrò fatto tutto, un figlio con i capelli rossi”).

“Futuro anteriore” (foto Giacomo Brini)

Lo spettacolo – come accade quasi sempre al teatro Ferrara Off – si completa con il momento di confronto e commento finale, a luci accese, quando attori e regista si siedono davanti alla platea, raccontando dettagli e retroscena della costruzione dell’opera e raffrontandosi con l’opinione di chi la messa in scena l’ha appena vista, vissuta, condivisa.
“L’idea di base – spiega il regista Giulio Costa – era quella di narrare l’invecchiamento visto dalla parte dei giovani. Io e Margherita – a parte il prologo – facevamo prove all’impronta e ancora c’è grande parte di improvvisazione, è una materia viva, che ha scavato dentro ciascuno di noi”. E sottolinea ciò che è saltato agli occhi anche a me: “A seconda della fase della vita in cui il pubblico si trova, l’argomento viene vissuto in maniera diversa. Più si è giovani, più il racconto della vecchiaia appare comico. Per chi si avvicina alla vecchiaia, o per chi comunque la tocca con mano sui propri cari, gli episodi vengono vissuti invece in maniera via via più drammatica”.

Antonio De Nitto (foto Giacomo Brini)

Insomma, come si legge sulla scheda descrittiva “Uno spettacolo sul futuro senza spade laser, alieni e tute spaziali, ma con girelli, apparecchi acustici” e tanti ricordi e certezze che si fanno evanescenti.
In una società dove la speranza di vita è più che raddoppiata, “Futuro anteriore” si propone come indagine collettiva sull’evoluzione di sé, dove un gruppo di giovani attori esplora in scena nuovi possibili scenari di invecchiamento, formulando strategie creative, anche solo esplorative e descrittive. E alla fine – come ha fatto notare Monica Pavani, presidente dell’associazione culturale Ferrara Off – la rappresentazione relativizza il tempo e rivela ciò che ovvio, ma che quasi sempre dimentichiamo: essere vecchi, essere giovani, stare bene, stare male non sono tratti distintivi o connotati di riconoscimento. Giovinezza, maturità e vecchiaia sono fasi che attraversiamo tutti e che ogni volta si vivono in maniera assoluta. Il mito dell’eterna giovinezza che domina la nostra società ci fa dimenticare – anche grazie a ritocchi più o meno virtuali –  che i bambini e i ragazzi tali non lo resteranno per sempre e che i vecchi, a loro volta, sono stati giovani davvero.

Bravi e convincenti in scena gli attori Matilde Buzzoni, Antonio De Nitto, Gloria Giacopini, Matilde Vigna, che interpretano e personalizzano in maniera sentita la drammaturgia firmata da Margherita Mauro per questa produzione Ferrara Off che ha avuto il sostegno del MiBAC e di Siae. La loro interpretazione getta un ponte tra generazioni, in cerca di un approdo di rispetto, tolleranza e comprensione.

Cover:” Futuro anteriore” in scena al teatro Ferrara Off (foto Giorgia Mazzotti)

Dall’Europa all’Italia: il buon esempio delle comunità energetiche rinnovabili

di Marianna Usuelli ( Valigia Blu 11 Gennaio 2023)

Dall’Europa all’Italia: le comunità energetiche rinnovabili sono un esempio di decentralizzazione, condivisione di energia, autoproduzione e protagonismo dei territori

1975. Nel pieno della crisi energetica, il governo danese vuole scommettere sul nucleare per emanciparsi dalla dipendenza dal petrolio mediorientale. Ma la popolazione si ribella. In un paesino della costa occidentale della penisola, i cittadini riuniscono competenze e manodopera e in tre anni costruiscono una turbina eolica da 2 MW per sfruttare la risorsa più abbondante e libera del paese, il vento, e produrre e condividere elettricità locale e pulita. Vogliono abbassare il prezzo delle bollette, ma anche dimostrare che un’alternativa al petrolio e al nucleare esiste, ed è alla portata di tutti. 

La crisi petrolifera degli anni ’70 ha dato uno slancio al movimento per l’energia eolica danese e oggi la Danimarca è uno dei paesi con una più antica tradizione di “comunità energetiche”, radicate sul territorio da ben prima che l’Unione Europea emanasse la Direttiva REDII 2018/2001 che ne definisce le caratteristiche.

Da allora infatti la popolazione danese ha cominciato a investire in parchi eolici, tanto che nel 2013 circa il 75% delle turbine era di proprietà delle comunità locali. Questo è anche il risultato di una serie di politiche del governo, a partire dal Danish Renewable Energy Act che già nel 2009 richiedeva che tutti i nuovi progetti eolici fossero per almeno il 20% di proprietà della popolazione locale. 

Gli Stati pionieri

Con la Direttiva sulle rinnovabili REDII del 2018, l’Unione Europea ha introdotto la definizione, i diritti e i doveri delle comunità energetiche rinnovabili (CER), richiedendo agli Stati Membri di seguire un modello più decentralizzato e rinnovabile di energia elettrica, sulla scia di quanto già avviato in Danimarca, Olanda e Germania. 

Il recepimento della Direttiva varia di paese in paese, ma in generale le comunità energetiche sono soggetti giuridici che possono produrre, consumare, condividere, accumulare e vendere energia rinnovabile tra i loro membri. Possono riunire cittadini, PMI, associazioni e enti locali di un territorio sotto lo stesso impianto di energia e non possono essere finalizzate al profitto, ma devono invece produrre benefici economici, sociali e ambientali per i membri e per i territori. 

“Se in molti paesi con una limitata tradizione storica di comunità energetiche la normativa europea ha provocato una vera e propria esplosione del fenomeno, negli Stati ‘pionieri’ non c’è stato un così forte cambiamento”, spiega Nicolien Van der Grijp, senior researcher presso l’Institute for Environmental Studies della Vrije Universiteit Amsterdam. “Ad oggi in Olanda sono già attive oltre 700 comunità energetiche perché il governo già prima della Direttiva aveva provveduto ad introdurre incentivi a favore dell’autoproduzione e della condivisione di energia tra i cittadini”. Inoltre, nel 2019 con l’Accordo olandese sul clima è stato fissato un target del 50% di energia rinnovabile di proprietà e produzione locale al 2030.

Lo slancio della normativa europea

“I paesi con sistemi elettrici decentralizzati hanno solitamente un più forte radicamento di cooperative e comunità energetiche”, spiega Maria Luisa Lode, ricercatrice dell’Università Libera di Bruxelles, “Nei sistemi energetici centralizzati di paesi come Italia e Francia, seppure molto diversi tra loro, la creazione di comunità energetiche è più complessa e meno spontanea”. Ed è proprio qui che l’introduzione della normativa europea è stata un’assoluta novità e ora vediamo la maggiore crescita del fenomeno.
La federazione delle cooperative energetiche rinnovabili europee REScoop.eu sta monitorando lo stato del recepimento della direttiva europea nei vari paesi membri attraverso il Transposition Tracker.
Secondo Stavroula Pappa, avvocata esperta di energia e project manager di REScoop, “l’Italia è uno dei paesi che si trovano allo stadio più avanzato e c’è un fermento e una crescita fortissima del numero di progetti”.

Dopo il primo recepimento con l’art. 42bis del Decreto Milleproroghe nel 2020, si è aperta una fase sperimentale. Con il successivo D.lgs. 199/2021 e l’attesa emanazione dei provvedimenti di implementazione relativi alla condivisione dell’energia e agli incentivi, inizierà una fase più matura con progetti di taglia maggiore. Se la comunità energetica italiana di oggi ha in media una ventina di membri e non supera i 200 kW di potenza, il nuovo decreto aprirà a un più ampio perimetro geografico permettendo il coinvolgimento potenziale di migliaia di famiglie e una potenza degli impianti candidabili fino a 1 MW ciascuno. Inoltre il PNRR ha allocato 2,2 miliardi di euro per sviluppare comunità energetiche in comuni al di sotto dei 5.000 abitanti e ha fissato un target di 2 GW di capacità di rinnovabili da installare entro il 2026 tramite le comunità energetiche nei piccoli paesi. 

Nonostante tutto ciò, l’iter burocratico complesso e i tempi lunghi di risposta del Gestore dei Servizi Energetici (GSE) hanno rallentato fortemente lo sviluppo di CER in Italia, tanto che al giugno 2022 Legambiente ha mappato appena un centinaio di comunità energetiche di cui solo 16 sono registrate sul portale e solo tre hanno ricevuto i primi incentivi. Nell’ultimo anno e mezzo l’Italia è stata però l’arena di significativi progetti di sperimentazione, distinguendosi dalla tradizione nordica e diventando oggetto di studi per la loro innovazione sociale.

Il carattere sociale delle Comunità energetiche rinnovabili italiane

Se nei paesi “pionieri” l’iniziativa è promossa quasi sempre dal basso, dalla volontà della popolazione locale di accelerare la transizione e di risparmiare producendo energia locale e pulita, in Italia le comunità energetiche nate da cittadini e associazioni sono solo il 14%. 

La maggior parte è infatti il risultato della mobilitazione di risorse pubbliche da parte di enti locali. Oltre alla disponibilità di tetti degli edifici comunali, questo è anche dovuto al fatto che le sovvenzioni regionali e nazionali e le fondazioni bancarie – ad esempio Fondazione Cariplo, Fondazione San Paolo e Banca di Cuneo – premiano proprio i Comuni per l’installazione di impianti fotovoltaici. E come afferma Matteo Caldera, ricercatore di ENEA, “i progetti a fondo perduto consentono di distribuire tutti i benefici tra i membri della CER oltrepassando la barriera dei costi iniziali e permettendo una maggiore focalizzazione sugli obiettivi sociali”. 

L’Associazione Comunità Energetica di Fondo Saccà – E.T.S, ad esempio, è nata nella zona periferica Maregrosso di Messina su iniziativa della Fondazione di Comunità di Messina. La CER, che trae origine da un progetto di cohousing sociale, riunisce tre edifici che ospitano quattro persone provenienti da un ex ospedale psichiatrico giudiziario impegnate in un percorso di inclusione sociale, un centro per l’infanzia, una famiglia con difficoltà socio economiche e un ufficio. I benefici economici derivanti dalla produzione dell’impianto fotovoltaico da 200 kWp, saranno redistribuiti tra i membri della comunità energetica seguendo un “algoritmo sociale”, che tiene conto del loro grado di fragilità sociale ed economica secondo logica di mutuo soccorso.

“Le CER italiane sono maggiormente centrate sulle ricadute sociali rispetto alla maggior parte dei paesi UE. In Olanda, tra le oltre 700 comunità energetiche presenti solo una dozzina ha tra gli obiettivi la lotta alla povertà energetica”, spiega van der Grijp, aggiungendo però che con l’attuale crisi energetica la situazione sta cambiando perché un numero sempre maggiore di famiglie è in difficoltà.

Così, oltre alla tutela ambientale e al risparmio energetico ed economico, in Italia hanno un ruolo preponderante la lotta alle disuguaglianze ma anche il contrasto allo spopolamento dei piccoli paesi rurali, la rivitalizzazione del tessuto sociale e la creazione di nuove opportunità di lavoro locale. E questi obiettivi sono più facilmente perseguibili quando alla guida del progetto c’è un ente locale. 

Ma ci sono anche casi di CER italiane nate dal basso, in cui il ruolo dei cittadini è stato cruciale per l’avvio dei progetti. Queste esperienze emergono soprattutto da quell’humus di cooperative che da lungo tempo promuovono un modello energetico decentralizzato e decarbonizzato. È il caso, ad esempio, della comunità di Santeramo in Colle (Bari), nata sulla spinta di un socio della cooperativa di energia rinnovabile ènostra, che è andato a bussare alla porta degli assessori della città per spingerli a costituire una CER a beneficio della cittadinanza alimentata dal fotovoltaico da 42 kWp realizzato con finanziamenti a fondo perduto sul tetto di una scuola. Ènostra, che fornisce consulenza per aiutare i promotori di comunità energetiche a districarsi nel complesso iter burocratico, ha coordinato la nascita del progetto e ha assegnato al socio un incarico retribuito in qualità di facilitatore locale del progetto CER.

Comunità e cooperative

Anche l’Italia ha una storia antica di comunità e cooperative energetiche, interrotta nel 1963 dalla nazionalizzazione del sistema elettrico e dal monopolio di Enel e riemersa dopo la liberalizzazione del mercato. È un ambiente fertile che stimola le iniziative collettive e dal basso. Al tempo stesso, è la natura stessa delle rinnovabili a spingere verso progetti locali, partecipati e decentrati. Come si legge nel libroCome si fa una comunità energetica a cura di Marco Mariano (Altreconomia 2021), “sono proprio le caratteristiche delle energie rinnovabili, estremamente diffuse sul territorio, a suggerire un modello alternativo di organizzazione del sistema energetico e in particolare del sistema elettrico. Un sistema diffuso, dove il consumatore possa anche essere produttore”. 

In questo sistema, in cui il prosumer (termine inglese crasi tra produttore e consumatore) acquista un ruolo centrale, la comunità energetica diventa lo strumento per permettere anche a chi non ha la possibilità di installare il proprio impianto fotovoltaico di diventarlo. 

Secondo uno studio del 2016 di CE Delft, metà della popolazione europea (264 milioni di persone) nel 2050 potrebbe autoprodurre energia elettrica da fonti rinnovabili. “Vista l’attuale situazione possiamo sperare di raggiungere questi numeri anche prima”, sostiene Stavroula Pappa. 

Di certo le CER non possono da sole garantire la decarbonizzazione del sistema elettrico italiano, visto che per renderci indipendenti dal gas russo seguendo lo schema di RePowerEu, dovremmo installare 10 GW di potenza rinnovabile all’anno, quasi 10 volte i tassi attuali. Nell’ottica di un così forte aumento dell’elettricità in rete, Matteo Caldera sostiene che le CER non siano solo ottimi strumenti a impatto positivo ambientale, economico e sociale, ma “premiando l’energia consumata nel momento stesso in cui l’impianto la produce, potranno anche avere un ruolo determinante nell’alleggerire il sistema elettrico e nella riduzione dei consumi energetici”.

Quando si dice che la transizione energetica non è solo un passaggio di tecnologie ma richiede anche un cambio di mentalità, le CER rappresentano uno dei pochi strumenti già esistenti per sperimentarlo, attraverso decentralizzazione, condivisione di energia, autoproduzione e protagonismo dei territori.

In copertina: la turbina eolica costruita dagli abitanti di Tvindkraft in Danimarca nel 1975

Marianna Usuelli
Giornalista, collabora con la rivista Altreconomia e Valigia Blu. È tutor del Master Interdisciplinary Approaches to Climate Change della Università Statale di Milano e collabora con l’Unità Aria e Clima del Comune di Milano.

Presto di mattina /
Fede migrante

Fede migrante

Avere fede equivale a migrare, fare esperienza di relazione, l’aprirsi di un nuovo spazio nell’altro e nell’altrove, affacciarsi su un mondo ignoto per riconoscerlo ed esser conosciuti. È così la stessa fede di migranti – di un perdersi per ritrovarsi – che accompagna e rinnova lo spirito del vangelo tra di noi.

Ce lo ha ricordato a modo suo il papa nel giorno dell’Epifania, compresa come migrazione dei popoli alla ricerca di una nuova luce. Francesco ci ha rammentato che è necessario rischiare il cammino per incontrare la luce, anch’essa perennemente migrante sino a tracciare essa stessa un cammino di riconoscimento.

Da quel primo e abissale “grande scoppio” – sia la luce – la “voce” di Dio Qol in ebraico è paragonata ad un’esplosione cosmica nel salmo 28 (29), assimilata al folgorante e fragoroso lampo dentro alla tempesta e sulle acque.

Così la luce, chiamata fuori dalle tenebre all’inizio dei tempi, si è pure lei incamminata nel suo sorgere, illuminando tutte le cose per cavarle fuori dal caos oscuro in cui erano immerse, rendendole conoscibili a loro stesse perché illuminate e benedette fin dall’inizio nella pace.

Luce migrante è non di meno quella della natività. Irradiazione tra le genti, il suo cammino va ad accendere la luce pasquale, senza fermarsi neppure al mattino di Pasqua, ma proseguendo oltre, tra le nuove genti, sui cammini dei migranti della storia, alle periferie dell’esistenza e ai confini del tempo. Come la luce migrante, primordiale è generativa della stessa espansione dell’universo, così la luce della fede dilata la nostra umanità rendendola planetaria.

La fede non è se non migrante, perché – come ha ricordato ancora Francesco – essa «non cresce se rimane statica; non possiamo rinchiuderla in qualche devozione personale o confinarla nelle mura delle chiese, ma occorre portarla fuori, viverla in costante cammino verso Dio e verso i fratelli».

Credere significa partire, come nascere e morire, come leggere e scrivere: comportano una migrazione nell’altro, l’aprirsi di uno spazio nell’altrove. Così migrando tra le pagine e le parole nella scrittura d’altri, mi si aperto uno spazio inedito per questa riflessione sulla fede come migrazione.

L’input non è partito in verità da Francesco, come può sembrare dall’incipit di questo testo, ma leggendo una conversazione pubblicata sul Corriere della sera (1 ottobre 2009, 50-51) tra lo scrittore Claudio Magris e Édouard Glissant, (1928-2011) un altro scrittore, noto etnografo delle culture e delle pratiche dei gruppi umani, e poeta pure, nato nella Martinica dei Caraibi, arcipelago delle Antille, luogo di civiltà differenti che prende il nome da La Antilla, terra lontana da cui provenivano gli scopritori di quelle isole.

«Vivere significa migrare: ogni identità è una relazione»

Ogni relazione è una “complessità multipla”, implica nell’incontro il riconoscimento dell’altro, dell’estraneo in quanto tale. Riconoscere non è sinonimo di comprendere, nel senso di appropriazione, di chi vuol ridurre l’altro a sé stesso, alla propria scala di valori. Per essere solidali con l’altro occorre condividere l’imperfezione, in una relazione che lasci aperto quello spazio di mistero, di diversità irriducibile, di opacità – la chiama Glissant – che salvaguarda l’altro dall’assimilazione all’identità altrui.

«Non mi è necessario “comprendere” l’altro per sentirmi solidale con lui, per costruire con lui, per amare quello che fa». L’amore sa accogliere anche l’estraneità, la solitudine, la distanza che segna ogni relazione; sa comprendere senza ghermire, rinunciando ad esercitare sull’altro una presa totalizzante che genera il più delle volte pratiche di violenza. Per questo Glissant fu durissimo nel denunciare la brutalità dei genocidi, della tratta degli schivi, durata per secoli, e della segregazione razziale nelle piantagioni dell’arcipelago.

Glissant, a cui sta a cuore ogni cultura minacciata, compresa la sua, ricorda che ogni identità ed il mondo stesso si costruiscono in un processo creativo e armonioso. Un processo che egli definisce “creolizzazione”, ispirandosi al creolo, la lingua formatasi dalla commistione dei dialetti francesi dei padroni delle piantagioni con i differenti linguaggi di uomini e donne ridotti in schiavitù.

A me sembra che le categorie dello scrittore creolo siano illuminanti anche per ogni credente. A partire dal concetto di erranza, in quanto «ogni identità esiste nella relazione; è solo nel rapporto con l’altro che cresco, cambiando senza snaturanti».

Ma quella narrata nei suoi libri è pure la poetica del diverso: «di un diverso che non si isola», perché «la muraglia è la prigione dell’identità». Senza dimenticare infine l’opacità di cui parla Glissant, la stessa verso cui si protende la nostra fede, come un’apertura sulle cose che si sperano, una proiezione dello sguardo e della vita verso quelle che non si vedono. «Bisogna vivere con l’altro e amarlo, accettando di non poterlo capire a fondo e di poter essere capiti a fondo da lui». Non è questa la fede che camminando insieme crede sperando e spera amando?

L’erranza delle parole dall’oralità alla scrittura

La Bibbia è storia di un vissuto che nasce da migrazioni di popoli; è pure quella biblioteca scritta da migranti che narra di un Dio che si nasconde e dimora tra loro. Nell’oscurità delle migrazioni ha così luogo e germinano profezie di futuro.

È proprio mentre sono in fuga o in viaggio che Giacobbe, Elia, e Giona incontrano Dio, particolarmente vicino, esondante sulle acque e inesauribile nell’immaginazione. Abramo viene spinto a partire: “vattene dalla tua terra verso un dove che ti mostrerò cammin facendo, non temere la legatura di Isacco tuo figlio”.

Davanti al roveto ardente, in mezzo al deserto, di fronte al Sinai a piedi nudi, pascolando un gregge di nomadi con il volto coperto, Mosè chiede a Dio quale sia il suo nome. E Dio gli risponde: “Colui che fa partire” (Michel De Certeau) e il predicatore errante della Galilea delle genti dice di sé di non avere una tana come le volpi, né un nido, né una pietra su cui posare il capo. (cfr. Mt 8,20; Lc 9,58).

Claudio Magris sottolinea poi come in Glissant «l’erranza sia un principio che vale in tutti i campi della vita, anche nella scrittura. Ogni realtà è un arcipelago; vivere e scrivere significa errare da un’isola all’altra, ognuna delle quali diventa un po’ la nostra patria.

La verità umana non è quella dell’assoluto bensì quella della relazione. Ogni identità esiste nella relazione; è solo nel rapporto con l’altro che cresco, cambiando senza snaturarmi. Ogni storia rinvia ad un’altra e sfocia in un’altra … Ci sono molte radici; se una si proclama unica o esclusiva distrugge la vita, sia che si tratti di una radice piccola gelosamente chiusa nella sua particolarità, sia che si tratti di una grande e potente, come la civiltà universale reclamata dal colonialismo…

Nell’opera di Édouard Glissant – continua Magris – vivono il narratore orale anonimo che nella stiva delle navi negriere e nelle piantagioni trasmetteva la memoria dell’Africa perduta, e i classici francesi, di cui la sua prosa è geniale e organica erede, in una continuità perpetuata nell’ardita innovazione strutturale delle forme narrative».

Radice e rizoma

Ci sono delle culture “a radice unica”, a freccia, quelle che tendono all’auto-conservazione. Altre invece sono “a rizoma”, perché si espandono in diverse direzioni: specie quelle nate da una recente “creolizzazione” e quindi coscienti della loro realtà plurima.

Riproponendo la distinzione tra i termini radice e rizoma mutuata da Gilles Deleuze e Felix Guattari ne La poetica della relazione (Macerata, Quodlibet, 2007, 23; 29), Glissant scrive: «La radice è unica, è un ceppo che assume tutto su di sé e uccide quanto lo circonda; essi le oppongono il rizoma, radice demoltiplicata che si estende in reticoli nella terra e nell’ aria, senza che intervenga alcun irrimediabile ceppo predatore.

La nozione di rizoma manterrebbe quindi l’aspetto del radicamento, rifiutando però l’idea di una radice totalitaria. Il pensiero rizomatico sarebbe all’origine di quella che io chiamo una poetica della Relazione, secondo la quale ogni identità si estende in un rapporto con l’Altro…

In questo consiste l’immagine del rizoma, che conduce alla scoperta di un’identità che non è più solo nella radice, ma anche nella Relazione. Il pensiero dell’erranza è, di fatto, anche pensiero del relativo, che è il ritrasmesso ma anche il relato. Il pensiero dell’erranza è una poetica, e sottintende che a un dato momento essa si dica. Il detto dell’erranza è quello della Relazione».

È sempre del giorno dell’Epifania l’uscita di un documento di papa Francesco con cui indica gli orientamenti e le nuove norme per la riorganizzazione/riforma del Vicariato di Roma: la costituzione apostolica «In Ecclesiarum communione».

Così un passaggio e un’espressione inusuale del testo sull’identità ecclesiale mi ha ricordato proprio la molteplicità radicata e in relazione del rizoma, che non ha centro su sé stesso ma fa riferimento all’altro da sé: l’identità ecclesiale: «una trama sacramentaria».

Trama deriva dal latino “trameare”: passare al di là, oltre, oltrepassare. È ciò che esprime il sacramento, segno di una presenza che non è solo o tutta nel segno; non si esaurisce in esso, ma rimanda oltre invitando a instaurare una relazione, a farsi erranti verso un’ulteriorità che chiama fuori a vivere una relazione.

Il volto è sacramento di tutta la persona che manifesta e nasconde insieme la realtà dell’altro; senza iniziare un cammino si rimane in panchina come spettatori. «Per comprendere l’identità della Chiesa, anche della Chiesa di Roma, è necessario riconoscere la sua “trama sacramentaria”, cioè il suo essere riferita ad altro da sé… Torniamo così alla lezione dei Padri che, guardando all’esperienza dell’esodo e dell’esilio, leggono la necessità per la Chiesa di essere come la tenda mobile nel deserto, da smontare, rimontare e “allargare” lungo il cammino (cfr. Is 54, 2)».

«Non si emettono parole nell’aria»

Guardare la realtà e abitarla cercando il mistero al suo interno per esprimerlo in presenza di tutte le lingue del mondo. Scrive Glissant: «Parlo e soprattutto scrivo in presenza di tutte le lingue del mondo… Ma scrivere in presenza di tutte le lingue del mondo non vuol dire conoscere tutte le lingue del mondo. Vuol dire che, nel contesto attuale delle letterature e del rapporto fra la poetica e il caos-mondo, non posso più scrivere in maniera monolingue.

Vuol dire che la mia lingua la dirotto e la sovverto non operando attraverso sintesi, ma attraverso aperture linguistiche, che mi permettano di pensare i rapporti delle lingue fra loro, oggi, sulla terra – rapporti di dominazione, di connivenza, d’assorbimento, d’oppressione, d’erosione, di tangenza, ecc. – come il prodotto di un immenso dramma, di un’immensa tragedia cui la mia lingua non può sottrarsi. Di conseguenza non posso scrivere la mia lingua in modo monolinguistico; scrivo in presenza di questa tragedia, in presenza di questo dramma» (Poetica del diverso, Meltemi, Roma 1998, 33.

Credo che così debba essere pure per lo stile del linguaggio pastorale e teologico: un’apertura verso linguaggi altri. Occorre ritornare a mettervi dentro il mistero del sensus fidei dei credenti e dei viventi accomunati nel segno di una pluralità di migrazioni e intessuto con le loro situazioni esistenziali.

Oggi abbiamo bisogno che l’immaginario della fede in cui si declina e coniuga la riflessione teologica e pastorale vada cercato abitando tutti i linguaggi, credenti e non; una riflessione teologica non sistematica, autreferenziale, ma induttiva, relazionale come le confluenze, le intersezioni, i chiaroscuri di una vita in un arcipelago.

È significativo che alla domanda come dovrebbe essere una teologia della migrazione papa Francesco risponda che se vuol essere tale deve essere “situata”: «tante volte abbiamo visto i mari trasformati in cimiteri di vite e storie, di sogni e aneliti di una vita dignitosa, e ci siamo uniti in preghiera, lavoro e presenza per far fronte all’indifferenza e creare ponti di fratellanza.

La migrazione, così tipica della condizione umana, è anche espressione feroce delle disuguaglianze. Il nostro impegno con i migranti deve essere a sua volta propiziatorio di una pedagogia della cura, del rispetto per il prossimo, in definitiva, di una proposta creativa e creatrice di una genuina cultura dell’incontro dove imparare a riconoscerci e a trattarci come fratelli», (Prefazione di Papa Francesco al libro «A Theology of Migration: The Bodies of Refugees and the Body of Christ», di Daniel G. Groody, Orbis Books, Maryknoll NY 2022).

Un triplice abisso

Una barca aperta sull’ignoto: è questa l’immagine con cui Èdouard Glissant descrive la tratta degli schiavi: «La Tratta passa per la stretta porta della nave negriera, la cui scia imita la “reptazione” della carovana nel deserto: “L’agghiacciante abisso, tre volte annodato all’ignoto”.

«Ciò che lascia impietriti, nell’esperienza degli africani deportati verso le Americhe, è senz’altro l’ignoto, affrontato senza preparazione né sfida.

La prima tenebra venne dall’essere strappati al paese quotidiano, agli dèi protettori, alla comunità tutelare. Ma questo è ancora nulla. Anche quando fulmina, l’esilio si sopporta. La seconda notte venne dalle torture, dalla degenerescenza dell’essere, portata da tante incredibili geenne.

Immaginate duecento persone ammucchiate in uno spazio che a malapena ne avrebbe potuto contenere un terzo. Immaginate il vomito, le carni lacerate, le frotte di pidocchi, i morti accasciati, gli agonizzanti marcescenti. Immaginate, potendo, l’ebbrezza rossa delle uscite sul ponte, la rampa su cui inerpicarsi, il sole nero all’orizzonte, la vertigine, quell’abbacinamento del cielo appiattito sulle onde. Venti, trenta milioni, deportati per due secoli e più. Il logoramento, più sempiterno di un’apocalisse. Ma tutto questo è ancora nulla.

L’agghiacciante viene dall’abisso, tre volte annodato all’ignoto.

La prima volta, quindi, inaugurale, quando cadi nel ventre della barca. Una barca, secondo la tua poetica, non ha ventre, una barca non inghiotte, non divora, una barca si muove a cielo aperto. Il ventre di questa barca invece ti dissolve, ti scaglia in un non-mondo in cui gridi.

Questa barca è una matrice, l’abisso-matrice. Generatrice del tuo clamore. Produttrice inoltre di ogni futura unanimità. Perché, anche se sei solo in questa sofferenza, condividi l’ignoto con altri che ancora non conosci. Questa barca è la tua matrice, uno stampo, che però ti espelle. Incinta, tanto di morti quanto di vivi sospesi a una morte differita.

Così la seconda voragine viene dall’abisso marino. Quando le regate danno la caccia alla nave negriera, la cosa più semplice è alleggerire la barca buttando a mare il carico, zavorrato di palle di ferro. Sono i segni di una pista sottomarina che va dalla Costa d’Oro alle isole Sottovento…

L’aspetto più gorgoneo dell’abisso è proprio, ben oltre la prua della nave negriera, quel pallido rumore di cui non si sa se sia nube foriera di tempesta, pioggia, piovisco o fumo di un fuoco rassicurante. Ai due lati della barca sono scomparse le rive del fiume. Che fiume è mai questo, privo del centro? È unicamente un avanti tutta? Questa barca non voga forse per l’eternità ai limiti di un non-mondo, che nessun Antenato frequenta?

La terza incarnazione dell’abisso proietta quindi, parallela alla massa d’acqua, l’immagine capovolta di tutto quello che è stato abbandonato, che per generazioni non si ritroverà se non nelle savane azzurre, sempre più consunte, del ricordo e dell’immaginario» (Poetica della Relazione, 19-20).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

 

Immaginario /
On the road

Si arriva ad una certa età che si prende una direzione o meglio una strada. Questa strada non è sempre libera né, per forza o per fortuna, una sola. Non è sempre tracciata da subito, né imboccata sempre per tempo. Ma poi quale tempo? Ognuno ha il proprio. Leggevo in un articolo che non ci si deve paragonare agli altri: lui si è già laureato, lei ha già un figlio, lui ha già un lavoro ben pagato, lei ha già il lavoro che ama.

La strada è sempre un’ottima metafora… mannaggia a me e alle similitudini! Ma come si fa a non pensare alla strada, una qualunque da prendere e che ti porti verso qualcosa o qualcuno? Viaggiare sulla strada con una macchina, un camper, una bicicletta o a piedi (come mi faceva notare un’amica) non è come farlo in aereo o in treno, c’è un sapore diverso un senso di libertà, pari solo a quello di viaggiare per mare (e non dico in crociera).

Ingranare la marcia, frenare, accelerare, correre, rischiare un sorpasso, fermarsi e sostare, avere la premura di rimpinguare il serbatoio, oleare i freni, mettersi le scarpe buone, evitare gli ostacoli, prendere un’autostrada per velocizzare (pagare per questo), oppure rallentare, godersi gli orizzonti, le montagne, passo dopo passo, il sole che sorge e tramonta, ascoltare la musica preferita o il fruscio del vento, mentre si fa tutto questo da soli o in compagnia.

La sensazione è la stessa di quando prendi una strada invece di un’altra. Di quando ti accorgi che a un certo punto devi per forza deviare. Al comando ci sei tu, tu sola. Non lasci che le cose accadano, supinamente, anche se quelle arrivano e comunque ci dovrai fare i conti. La sensazione però è una e perfettamente sognante. Sai che il motore è pronto, il serbatoio è pieno e, più o meno consapevolmente, ci sei tu che decidi di partire per una nuova avventura.

 

Cover: On the road di Ambra Simeone

Climate change, uscita dal fossile o riduzione del danno?
La COP27 nei media italiani e stranieri

“Per rispettare gli Accordi di Parigi bisogna alzare l’asticella in materia di mitigazione e adattamento: ad oggi gli impegni presi ridurrebbero le emissioni del 5-10% al 2030. Troppo poco: serve tagliarle del 30-45%, altrimenti arriveremo a toccare i 2,4°C entro il 2100!”. Ridurre le emissioni: è questo il tema centrale trattato alla COP tenutasi a Sharm El-Sheikh, la ventisettesima conferenza delle parti sul clima. Ne hanno parlato a Radio3 Scienza, intervistati da Elisabetta Tola  – poco prima del termine dei lavori previsti per il 18 di novembre, ma slittati al 20 – Ferdinando Cotugno, giornalista freelance, collaboratore del quotidiano Domani, e Serena Giacomin, climatologa, presidente dell’Italian Climate Network. Altro tema della massima importanza nell’agenda dei lavori della Conferenza, la questione del “loss and damage”, il risarcimento delle perdite e dei danni provocati dalla crisi climatica, obiettivo questo fissato nell’incontro tenutosi nel 2021 a Glasgow. Fa rilevare Cotugno quanto nei negoziati sul clima, visti i tempi ristrettissimi e la complessità delle questioni, contino le singole parole e addirittura la punteggiatura.

In un editoriale apparso il 26 novembre su Domani[1], Cotugno scrive chenon c’è leva di marketing, o politica, o economica, che non tenteranno di usare gli oltre seicento lobbisti che si aggiravano per la COP27, ma anche la retorica saudita ai tavoli negoziali per concentrarsi sul clima e non parlare di specifiche fonti di energia. Volevano che i combustibili fossili rimanessero fuori dalla bozza di accordo e ci sono riusciti”. Diverse sono le analisi a livello mondiale apparse sui più importanti quotidiani, dice Cotugno, “su come funziona lo sforzo dell’Arabia Saudita (e del suo «rinascimento»), di continuare a perpetrare la dipendenza globale da petrolio per decenni, ben oltre qualunque margine per avere un aumento della temperatura entro il limite di 1,5°C. Saudi Aramco, l’azienda petrolifera di stato, già oggi produce un barile di petrolio su dieci. Non esiste un futuro sostenibile se questa produzione non cala: è questo il mandato della scienza. Ma negli ultimi cinque anni i soldi del regime saudita hanno prodotto 500 studi universitari per dimostrare il contrario, gettando dubbi sull’elettrificazione dei trasporti, promuovendo benzine alternative o addirittura sistemi di cattura delle emissioni mobili da inserire sui tubi di scappamento dei veicoli”. “Solo negli Stati Uniti – continua Cotugno – il regime saudita ha pompato 2,5 miliardi di dollari negli atenei. Secondo una nota ufficiale del ministero dell’Energia «gli idrocarburi devono continuare a essere una parte essenziale del mix energetico globale per decenni». Il paradosso è che l’Arabia Saudita sta lavorando per arrivare a produrre metà della sua elettricità da fonti rinnovabili nel 2030. Il punto, però, non è quello che fai a casa tua. Il punto è il petrolio che continui a estrarre e vendere nel mondo”.

Ma cosa è successo realmente a Sharm el Sheikh?
Ne scrive Gwynne Dyer, che commenta i risultati della COP su Politics, in un articolo ripreso da Internazionale.it. “Dopo lunghe trattative, anche notturne, i presenti sono riusciti a concordare la creazione di un nuovo fondo che compensi i paesi poveri di loss & damage (perdite e danni) subiti a causa di eventi climatici estremi. Il denaro verrà dai paesi sviluppati le cui emissioni passate e attuali sono all’origine dei danni provocati, e – dice il giornalista canadese – dovrebbero bastare altri due o tre anni per istituire la nuova agenzia per perdite e danni”.

Il risultato della Conferenza è confermato anche da Sofia Belardinelli, che, sul sito di Micromega (https://www.micromega.net/ambiente/), scrive del “successo raggiunto al termine dei negoziati in una delle COP sul clima più lunghe di sempre, storica per alcuni aspetti, ma deludente sotto moltissimi punti di vista. Tra i principali successi raggiunti va senz’altro annoverato il fatto che nel testo finale sia stata inserita la risoluzione di istituire un fondo economico internazionale per far fronte alle perdite e ai danni causati dal cambiamento climatico. In tal modo, viene per la prima volta riconosciuta ufficialmente la centralità della giustizia climatica, che porta con sé il riconoscimento implicito della diversa ripartizione delle responsabilità storiche nell’aver causato i cambiamenti climatici. Di questo successo – scrive Belardinelli – hanno gioito soprattutto i paesi in via di sviluppo, che si trovano nella posizione di essere al tempo stesso coloro che hanno meno contribuito a causare l’attuale crisi climatica ma che ne pagano, già oggi, le più aspre conseguenze”.

“La creazione del fondo loss & damage è il più grande risultato di giustizia climatica mai ottenuto, ribadisce Cotugno. “In cambio si è dovuto rinunciare a sforzi più incisivi sulla mitigazione, rinviando il tutto a Cop28, ma c’è una cosa che non si deve sottovalutare: il fondo danni e perdite è anche uno strumento di mitigazione”, e poi “questa gigantesca opera di responsabilizzazione degli inquinatori è anche una vittoria dell’attivismo e della società civile ambientalista. Per trent’anni i paesi industrializzati avevano ignorato la questione danni e perdite perché non volevano prendere atto delle conseguenze della crisi climatica. A Sharm el-Sheikh hanno dovuto farlo, ed è stato un grande risultato”. Si può dire che a Sharm el-Sheikh “un pezzo di colonialismo è finito”, perché gli Stati Uniti e l’Unione Europea “hanno dovuto non solo concedere il fondo, ma anche accettare una decisione a cui erano contrari senza ricevere nulla in cambio”.

“E’ anche una questione culturale”, afferma sempre Cotugno nell’intervista a Radio 3 Scienza. Nei paesi «occidentali», il Nord del mondo, si è ancora abituati a vedere la crisi climatica come qualcosa che riguarda il futuro, nei paesi del Sud come qualcosa del presente. Il Nord del mondo “vive ancora come si fosse nell’ultimo dopo-guerra”. Un profondo cambiamento è quindi necessario.

E una spinta in questo senso è venuta dalla grande sorpresa di questa COP, la vera leader del fronte dei “vulnerabili”, Mia Mottley, premier delle Barbados. “È stata lei – scrive Sara Gandolfi, inviata del Corriere della Sera – a lanciare una proposta nuova e dirompente sulla finanza climatica e sulla riforma dei prestiti internazionali, che sarà sicuramente e presto al centro del dibattito mondiale”, raccogliendo una standing ovation quando in sessione plenaria ha spiegato “come una tassa del 10% sui profitti delle grandi aziende produttrici di combustibili fossili avrebbe contribuito alla finanza per il clima con ben 37 miliardi di dollari nei soli primi 9 mesi di quest’anno. Cifra che equivale più o meno alle perdite economiche dell’alluvione in Pakistan”.

Mottley, scrive invece Repubblica.it, nota per gli impegni climatici promossi dalla sua isola e per il programma Roof to Reefs di protezione della biodiversità, è stata inclusa fra i “campioni della Terra” delle Nazioni Unite, e c’è chi la vede come futura segretaria generale dell’Onu. Il Time poi l’ha inclusa tra le 100 persone più influenti del mondo. Ma a lei interessa soltanto una cosa: “In questo mondo possiamo avere un senso di responsabilità verso il nostro ambiente, ma anche verso le generazioni future. Ecco cosa desidero più di tutto”.

Intervenendo a Radio 3 Scienza, Serena Giacomin, climatologa, presidente dell’Italian Climate Network, il movimento italiano per il clima, fa presente invece come si parli di “mitigazione e adattamento, ma ancora poco di riduzione dell’uso dei combustibili fossili” e come “occorra più coraggio da parte delle grandi economie del mondo che devono prendersi maggiori responsabilità nel cambiamento”, considerando che “la permanenza della CO2 in atmosfera può arrivare anche a 100 anni!”.

Anche in questa edizione i 35.000 delegati in rappresentanza di 195 nazioni non sono riusciti a mettersi d’accordo sul fatto che il mondo debba smettere di bruciare combustibili fossili per produrre energia e a definire azioni decisive e immediate per contenere l’innalzamento delle temperature entro il grado e mezzo previsto come limite dagli Accordi di Parigi del 2015. Altrimenti nel 2100 vivremo in un modo più caldo di 2,4-2,8 gradi. “Questo – scrive sempre Gwynne Dyerè ciò che si ottiene quando un’istituzione globale è governata dal consenso.
Tutti hanno diritto di veto, compresi i paesi che dipendono dal carbone, dal gas e dal petrolio, e gli interessi a breve termine di alcuni (denaro e rapida crescita economica alimentata dai combustibili fossili) si scontrano con l’interesse a lungo termine della collettività”. “Questo è il prezzo da pagare per appartenere a una specie che sta ancora emergendo da un lungo passato tribale e che ha sviluppato una civiltà ad alta tecnologia e ad alta energia prima ancora di essere culturalmente attrezzata per gestirla”, argomenta il giornalista.

Marinella Correggia sul Manifesto del 19 novembre parla di una COP senza accordo, e riporta una dichiarazione del vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans sulla questione del fondo per i disastri climatici chiesto dal blocco G77+Cina. La mossa a sorpresa dell’accettazione viene giustificata così da Timmermans: “Non eravamo convinti dell’utilità di un Fondo ad hoc per le perdite e i danni causati da eventi climatici nei paesi più vulnerabili, ma siccome i G77 sono affezionati all’idea, li abbiamo ascoltati”. Motivazione quanto meno bizzarra!
“La proposta europea, continua Correggia, oltre a circoscrivere i destinatari ai «paesi più vulnerabili», impone «precise condizioni», e proponendo quello che chiama un «accordo pacchetto», chiede in cambio maggiori ambizioni da parte di tutti nel taglio delle emissioni e pretende una base di donatori ben più ampia rispetto al blocco occidentale”.

Meena Raman, coordinatrice della rete di attivisti Third World Network, cogliendo il nodo della questione, evidenzia che “la scala dei disastri è così enorme che i paesi sviluppati ne temono le implicazioni finanziarie”. Ma la proposta Ue aveva anche lo scopo di rompere l’asse negoziale G77 e Cina, mettendo nell’angolo quest’ultima che sarebbe vincolata sia a target nelle emissioni nazionali sia a esborsi finanziari per il loss and damage.
Un negoziatore cinese sulla questione ha infatti dichiarato: “Anche noi siamo un paese in via di sviluppo e subiamo enormi danni climatici”. Il paese, pur essendo ormai al primo posto al mondo quanto a emissioni totali (ma non a quelle pro capite), nella Convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici del 1992 era classificato fra quelli in via di sviluppo, e finora aveva evitato l’obbligo di contribuire alla finanza climatica per i più poveri.

Visti i tanti nodi sul tappeto, quando ormai si era giunti al termine previsto della Conferenza, la presidenza egiziana ha annunciato che i negoziati sarebbero continuati oltre i termini. Questo anche a causa del silenzio degli Stati Uniti sulla proposta europea; Stati Uniti che più di tutti dovrebbero contribuire al Fondo, a cui lavorerà un Comitato di transizione con 24 paesi membri e che sarà reso operativo entro fine 2023. “Per ora, è il commento del think tank Power Shift Africa (https://www.powershiftafrica.org/), abbiamo una cassaforte vuota”. Chi darà, chi riceverà, come, quando e quanto si chiedono in molti, specie tra i rappresentanti dei paesi più vulnerabili. “Del resto – aggiunge Correggia – sempre più lobbisti del fossile (sponsor a parte) affollano le annuali conferenze al capezzale del clima”, a cominciare da Hill & Knowlton, l’agenzia multinazionale di pubbliche relazioni con oltre 80 uffici nel mondo, che ha curato la comunicazione per la conferenza delle parti COP27 a Sharm el Sheikh, malgrado i suoi decenni al servizio della disinformazione e greenwashing dei suoi clienti fossili.

Massimo Tavoni e Pietro Andreoni, in un lavoro presentato sul sito de lavoce.info[2], hanno mostrato come la scienza economica del clima, sviluppatasi di recente, permetta di quantificare, seppure con margini di incertezza, i rischi economici legati al cambiamento climatico e di identificare sistemi di finanziamento compensativi. Una delle ragioni per cui le negoziazioni alla COP hanno proceduto molto lentamente “è che quantificare i danni dei cambiamenti climatici e le relative richieste finanziarie è un compito complesso”. L’Agenzia europea per l’ambiente ha stimato una cifra di mezzo trilione di euro per la sola Europa negli ultimi 40 anni.

Sul sito greenreport.it[3] del 20 novembre è invece descritta la delusione del segretario generale dell’ONU, António Guterres, per i limitati risultati raggiunti, dopo i due giorni in più di drammatici negoziati in cui è stato raggiunto l’accordo che ha stabilito il meccanismo di finanziamento per compensare i vulnerabili per “perdite e danni” dovuti ai disastri indotti dal clima. Il luogo dove si è tenuta la Conferenza delle Nazioni Unite, non lontano dal Monte Sinai, ha ricordato Guterres, “è appropriato per parlare di una crisi di proporzioni bibliche i cui segni sono ovunque, come ci indicano le vittime delle recenti inondazioni in Pakistan che hanno inondato un terzo del Paese”. “Dobbiamo ridurre ora e drasticamente le emissioni (oltretutto alla luce dei nuovi report IPCC usciti quest’anno sempre più duri e incalzanti), e questo è un problema non affrontato da questa COP, anche se è stato compiuto, ma non sarà sufficiente, un passo importante verso la giustizia accogliendo la decisione di istituire un fondo per perdite e danni e di renderlo operativo nel prossimo periodo, e che ha permesso di evitare, in extremis, il totale fallimento dell’incontro”.

Facendo riferimento a Maurizio Pallante, fondatore del Movimento per la decrescita felice, e al suo libro «L’imbroglio dello sviluppo sostenibile»[4], Costantino Cossu, sul Manifesto del 23 novembre, nell’articolo «L’ambiente e la crescita non vanno a braccetto. L’inganno delle COP», riprende le parole di Guterres. “Il tentativo di tenere insieme la crescita economica con la sostenibilità ambientale, cioè il cosiddetto sviluppo sostenibile, è stato l’obiettivo delle ventisei Conferenze delle parti che si sono svolte a partire da quella sull’ambiente e lo sviluppo organizzata dall’Onu a Rio de Janeiro nel 1992. Poiché la crescita economica è la causa dell’insostenibilità ambientale, i due obiettivi sono inconciliabili, come dimostra il fatto che dal 1992 la crisi ecologica si è aggravata”.

L’agire umano – afferma Pallante – in particolare quello economico, non è più ambientalmente sostenibile. In altri termini, sviluppo economico e mantenimento degli equilibri ecologici sono incompatibili. Perciò parlare di sviluppo sostenibile è una truffa, alla quale si prestano persino molti ambientalisti”. Allora tutti “i tentativi di frenare la corsa verso il disastro ambientale che non prevedano una riduzione, ragionata e programmata a livello globale, della crescita economica sono inefficaci. Tutt’al più rallentano quella corsa, ma non la arrestano”.
L’esempio più stringente è quello delle fonti energetiche rinnovabili: eolico, fotovoltaico e idroelettrico. Per attenuare l’effetto serra “la strada maestra non è la ricerca di fonti pulite che consentano di accrescere l’offerta di energia riducendo al contempo le emissioni di gas climalteranti. Questo è necessario, ma non basta”. Secondo Pallante “per portare nuovamente in equilibrio il rapporto tra attività umane e ambiente occorre ridurre la domanda complessiva di energia”, attraverso un modello di decrescita che introduca “criteri qualitativi nella valutazione delle attività produttive e quindi di riduzione selettiva del Pil facendo scendere la quantità delle merci inutili e dannose che peggiorano le condizioni di vita: la decrescita allora non è il meno contrapposto al più, ma il meno quando è meglio”. Un argomento molto complicato da affrontare, mentre si preferisce puntare ad una transizione verso modelli produttivi che riducano drasticamente le emissioni solo attraverso soluzioni tecnologiche.

A conclusione di questa rassegna, qualche annotazione sulla partecipazione italiana alla Conferenza di Sharm el-Sheikh. Cosa ha fatto e quale ruolo ha svolto il governo italiano? Molto poco, viene detto dai vari osservatori e commentatori, specie nella fase più “politica” del negoziato dove i nodi tecnici andavano risolti politicamente. Se le figure più importanti dei governi europei, ministri e vice-ministri dell’ambiente, sono state presenti e hanno partecipato concretamente ai tavoli delle contrattazioni, per l’Italia nessuna figura di rilievo del governo ha seguito le fasi cruciali del negoziato e senza un’agenda per seguire i lavori: è di fatto mancata la presenza italiana.

Il ministro dell’Ambiente e della Sovranità Energetica Gilberto Pichetto Fratin – si legge sul sito del giornale on-line fanpage (www.fanpage.it/)[5]  – lascia la COP27 prima dei negoziati decisivi, e il governo di Giorgia Meloni è l’unico tra i grandi paesi industrializzati a non gestire direttamente i negoziati più importanti sul futuro del mondo”.
Alessandro Modiano, ex ambasciatore in Egitto nel ruolo di inviato per il clima e capo delegazione per l’Italia è l’unico rimasto a Sharm el-Sheikh, ma con un mandato debole e senza ruoli politici nel nuovo governo. “L’Italia – scrive fanpage – che dovrebbe essere preoccupata dei cambiamenti climatici al pari di altri paesi europei e del mondo, è anche la prima linea dell’Europa per quanto riguarda un altro fenomeno che è destinato ad aumentare in maniera significativa: quello dei migranti climatici, la cui spinta non può che essere destinata ad aumentare”.

ECCO, think tank italiano dedicato alla transizione energetica e ai cambiamenti climatici (https://eccoclimate.org/it/), a pochi giorni dall’insediamento del nuovo governo, rilevava “impegni vaghi e una scarsa attenzione all’agenda climatica da parte della premier e della sua maggioranza, a cominciare da una «sorta di reticenza nell’identificare la decarbonizzazione quale variabile chiave per ridisegnare i sistemi energetici nazionali»
La priorità dell’azione di governo sembra essere il «perseguimento della sicurezza energetica indipendentemente dalla tipologia delle fonti di energia e a prescindere dalle ricadute sul clima». A ben vedere, conclude fanpage, “l’impegno del governo a COP27 è andato esattamente così, e di fatto il risultato più importante di Meloni è stato quello di aprire alla collaborazione sul gas con l’Egitto, dopo due parole di circostanza sui casi Zaki e Regeni”.

Il sito greenreport.it riprende il tema del ruolo e della presenza italiana alla COP27 partendo da quanto ricordato dal direttore delle Campagne di Greenpeace Italia, Alessandro Giannì, relativamente alle affermazioni di Giorgia Meloni che, intervenendo al vertice sui cambiamenti climatici di Sharm El-Sheik, ha dichiarato “al mondo intero che l’Italia farà la sua parte per il clima”. Ma in che modo? Puntando su trivelle, rigassificatori e depositi di gas e continuare a favorire le solite compagnie che stanno macinando extraprofitti miliardari?
Il che vuol dire – conclude Giannì – “ignorare gli urgenti appelli della comunità scientifica che ci invita ad abbandonare al più presto i combustibili fossili”.

Note:

[1] https://www.editorialedomani.it/ambiente/cop27-lezioni-fossili-loss-damage-cina-torino-inquinamento-newsletter-cg3ov1m6.
[2] https://www.lavoce.info/archives/98787/dalleconomia-del-clima-un-aiuto-ai-negoziati-sulle-compensazioni/
[3] grennreport.it, quotidiano on-line per un’economia ecologica – https://greenreport.it/news/clima/il-quasi-fallimento-della-cop27-solo-un-piccolo-passo-aventi-verso-la-giustizia-su-perdite-e-danni/.
[4] L’imbroglio dello sviluppo sostenibile, di Maurizio Pallante, LiNDAU, 2022.
[5] https://www.fanpage.it/attualita/la-cop27-decide-il-futuro-del-mondo-ma-il-governo-italiano-vola-via-al-momento-dei-negoziati/

 

Storie in pellicola / Siccità

Un tema di grande attualità, impietoso, devastante e terribilmente serio. Abbiamo visto i nostri fiumi smagrire, quel magro che non è lo snello sinonimo di benessere, ma un asciutto dei più asciutti che non lascia presagire nulla di buono. Il Grande Fiume per primo. La siccità. Questa tragedia causata dall’uomo stesso, che non da più, alla natura, la possibilità di ricaricarsi e riprendersi dagli attacchi impetuosi e imperiosi di un faber che ormai disfa. Le temperature miti di questo inverno non sono semplice bel tempo ma crisi climatica.

A toccare questo tema importantissimo è il film fuori concorso all’ultima edizione del Festival del Cinema di Venezia, Siccità, di Paolo Virzì, cui è andato un riconoscimento speciale per essersi “assunto la grande responsabilità di esporre un tema così devastante e di incredibile attualità”, interpretato, fra gli altri, da Silvio Orlando, Valerio Mastandrea, Tommaso Ragno, Claudia Pandolfi, Monica Bellucci, Max Tortora.

È un film nato durante il lockdown – peraltro, uscito nelle sale dopo l’estate più secca degli ultimi 500 anni -, quando, dice il regista, con le strade delle nostre città deserte, chiusi ciascuno a casa propria, connessi l’uno all’altro solo attraverso degli schermi, è venuto naturale guardare avanti e interrogarsi su come sarebbe stata la nostra vita dopo.

La sceneggiatura è scritta a otto mani dallo stesso Virzì, Francesco Piccolo, Paolo Giordano e Francesca Archibugi. È un cinema che (pre)corre e, oserei, scalpita.

Abbiamo iniziato a fantasticare su un film ambientato tra qualche anno, scrive Virzì nelle sue note di regia, in un futuro non così distante dal presente. Immaginando alcuni racconti da far procedere ciascuno autonomamente, secondo la tecnica del film corale, che man mano scopriamo esser legati l’uno all’altro in un intreccio più grande. Quasi un destino.

Una galleria di personaggi, giovani e vecchi, emarginati e di successo, ricchi e poveri, vittime e approfittatori, ugualmente innocenti e colpevoli, un’umanità̀ spaventata, affannata, afflitta dall’aridità̀ e dalla vacuità delle relazioni, malata di vanità, mitomania, rancore, rabbia, che attraversa una città dal passato glorioso come Roma, che si sta sgretolando e “muore di sete e di sonno”. Un tempo che fu, un tempo che non ritorna. Un futuro incerto.

Silvio Orlando, @Greta De Lazzaris, Vision Distribution

Una città in cui non piove da tre anni, tanto tempo, troppo. Tutti si sono irrimediabilmente inariditi, essere umani, piante, vite e anche pensieri. Antonio (Silvio Orlando), a Rebibbia (ormai la sua sola e unica casa) per avere ucciso la compagna, non sa proprio nemmeno immaginare la possibilità di essere libero, Loris (Valerio Mastandrea), autista impolverato, parla ormai solo con i suoi fantasmi, Alfredo (Tommaso Ragno), un attore scalcinato e narcisista è ossessionato dai social e dai like, mentre la moglie Mila (Elena Lietti) porta avanti, da sola il bilancio familiare, facendo i conti con un figlio ribelle. Ci sono poi un ex commerciante in bancarotta (Max Tortora), Sara (Claudia Pandolfi), un medico che scopre una nuova epidemia legata alla siccità e il marito Luca (Vinicio Marchioni) che la tradisce.

Valerio Mastandrea @Greta De Lazzaris, Vision Distribution

Mentre, in uno scenario apocalittico, la città aspetta con ansia la pioggia, come un miracolo, i destini di tutti questi essere persi si incrociano, in una decadenza di tutto e di tutti. Uomini che hanno sete d’acqua ma, soprattutto, di salvezza. Come sopravvissuti.

In un universo fatto di polvere, sete, tradimenti, nostalgie, malessere, paure (le stesse che la pandemia ci ha risvegliato) e delusioni. Oltre che di tanta immobilità che non porta da nessuna parte. In un tempo davvero molto ma molto malato. Film moralmente impegnativo.

Siccità, di Paolo Virzì, con Silvio Orlando, Valerio Mastandrea, Elena Lietti, Tommaso Ragno, Claudia Pandolfi, Max Tortora, Vinicio Marchioni, Italia, 2022, 124 minuti

GERMOGLI /
Meloni cade sull’accisa… A proposito di cioccapiatti

“Il cioccapiatti era così chiamato perchè quando lo si condiva nel piatto e quando lo si mangiava, scrocchiava (a Bologna cioccava). Il cioccapiatti è una specie di radicchio selvatico che è molto presente lungo gli argini del fiume Reno. Poi associato a persone bugiarde, inconcludenti, false ecc. in quanto sembra una verdura pregiata ma in realtà è amaro, duro ed una volta pulito non rimane nulla = persona con pochi contenuti. “

Treccani, voce tratta dal dialetto bolognese

Giorgia Meloni, cui possiamo senz’altro attribuire la paternità (o maternità?) del programma elettorale di Fratelli d’Italia, a un certo punto del programma scrive: “Sterilizzazione delle entrate dello Stato da imposte su energia e carburanti e automatica riduzione di Iva e accise”.

Adesso che è Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni le accise invece non le taglia. Non ci pensa nemmeno. Siccome l’estratto del programma di cui sopra campeggia su ogni social e organo di stampa – a prova che la contraddizione è troppo plateale persino per un’ informazione sdraiata sul potere come la nostra – Meloni reagisce come nemmeno un Forlani d’antan avrebbe saputo fare. Dice che quella frase significa che “se hai maggiori entrate dall’aumento dei prezzi del carburante, le utilizzi per abbassare le tasse. Ma noi non avevamo maggiori entrate, ovviamente.” Ma dove sarebbe il periodo ipotetico, nel programma della Meloni? Io non lo vedo. E poi: come non sono aumentati i prezzi del carburante? Nel periodo da settembre a ottobre 2022 sono aumentati, eccome. Basta guardare il sito del Ministero dell’Ambiente e Sicurezza energetica (qui). Poi in novembre e dicembre c’è stato un lieve calo, e quindi Meloni prende i dati che le fanno comodo.

Ma il capolavoro arriva dopo. Meloni aggiunge infatti: “per tagliare le accise non avremmo potuto aumentare il fondo sulla sanità, la platea delle famiglie per calmierare le bollette domestiche, per i crediti delle pmi: tutte queste misure sarebbero state cancellate per prevedere il taglio delle accise”.

Ma pensa: se tagli le tasse a tutti in maniera piatta fai fatica a pagare i servizi sociali! Si tratta di un’affermazione di buonsenso, fatta  – una volta salita al governo – da una che, per andarci, ha raccontato l’esatto contrario (arrampicandosi sulla flat tax e scrivendo che le accise le avrebbe tagliate, eccome).

Accidere in latino significa “cadere sopra”.  Meloni è caduta sull’accisa, ma tranquilli: domani nessuno se ne ricorderà. L’importante è promettere, perchè la nostra politica è basata sull’imbonitura. Magari cambia l’imbonitore, perchè quello di prima ne ha sparate troppe e troppo grosse.

 

 

Parole a capo
Gian Pietro Testa: alcune liriche da “Antologia per una strage”

Tra le numerose pubblicazioni del giornalista, scrittore e poeta Gian Pietro Testa, recentemente scomparso, ce n’è una che colpisce per la sua differenza, per la sua profonda  pietas.  Gpt, come spesso si firmava, nel 1980 era cronista del quotidiano l’Unità. La mattina di quel tragico 2 agosto fu tra i primi giornalisti ad accorrere in quel macello della stazione ferroviaria sventrata dalla bomba del terrorismo fascista.
Nello stesso 1980 Giampietro da alle stampe una raccolta di versi: 85 liriche, una per ognuna delle 85 vittime della strage. “Mi premette, anche e soprattutto, con la poesia – scriveva Gian Pietro Testa nella prefazione – di ridare voce a quella gente a cui la bomba assassina aveva spezzato il suono. Fu quella una mia violenza? Pensai, infatti, di ricostruire l’ultimo pensiero, l’ultima parola, l’ultimo desiderio, l’ultimo sogno di quelle persone che venivano portate via dal piazzale della stazione in una bara senza nome: un numero, un numero soltanto quelle vite erano diventate“. Riproponiamo qui alcune di quelle poesie, nella speranza che qualche editore si incarichi di ristampare il suo “Antologia per una strage” oggi purtroppo fuori commercio.

n. 11

Ricordi, Luca, tesoro,
che ti cantavo:
“Trotta, trotta,
Pier Ballotta,
un panin e una ricotta…”?
E tu ridevi? Sù, ridi Luca
e tu Carlo scusa se prima
mi sono arrabbiata,
stammi vicino, ora, ti prego.

n. 25

Antonino mi chiamo,
sono operaio,
ho traversato l’Italia
per avere un lavoro
e finire, infine,
ammazzato.
E’ la mia storia.

n. 32

I campi correvano via
dal treno
e sembravano paglia
e ho pensato allora
che vorrei tanto essere poeta,
immaginare prati verdi
fiori e acque.
Ma come si fa
a essere poeti
se il più forte
violenta il debole,
se i figli dei padroni
diventano padroni,
se padroni ancora ci sono,
se il denaro compra il giusto,
se ti ammazzano
mentre pensi
come fossi poeta?

n. 59

Ogni sera al cinema e alla TV,
o sui giornali
compare la vostra vergogna.
Parlano soltanto di voi.
Mettete il fumo nella mente
dei poveri di spirito
(perché loro sarà
il regno dei cieli)
per ingrassare ancora,
per ostruire
coi vostri escrementi
questo grande cesso del mondo.
E di noi farete piazza pulita.

n. 83

M’è toccato, mamma,
conoscere il mondo
in un attimo breve.
M’è toccato, mamma,
fare un gran salto
come avessi vissuto
tutti i miei anni.
M’è toccato, mamma,
conoscere l’odio.
Ma io ti cerco ancora,
mamma, ti prego
una ninna nanna.

Le poesie sono tratte da: Gian Pietro Testa, Antologia per una strage. Ferrara, Italo Bovolenta Editore, 1980 (Prima edizione) – Bologna, Minerva Edizioni, 2005 (Seconda edizione aggiornata). 

La rubrica di poesia Parole a capo, curata da Pier Luigi Guerrini, esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui] 

Arrivederci Giampi, ciao Elettra. Ci ritroveremo

Giunge un tempo, difficile da gestire, quando l’età ti crea attorno il vuoto dell’assenza e che proustianamente solo la memoria riesce a rendere realtà. Gianpi sapeva bene che il nostro rapporto si fondava sul comune amore per Elettra che riusciva a coagulare attorno a lei affetti, stimoli intellettuali, sociali, umani.

Negli ultimi anni il gioco che inscenavamo era questo. Elettra mi aveva creato come personaggio in un suo bellissimo romanzo: Tavor. E per ragioni esistenziali e soprattutto per esigenze narrative. Così suona la dedica: La prima copia ai miei amici Vittoria e Gianni, personaggi importanti in queste pagine, persone importanti nella mia vita, Elettra. Ferrara Aprile 2005“.

Ecco allora nascere il cattedratico –ça va sans dire– Venturini. Anzi ‘Il Cattedratico-Presidente’ che nelle sue vacanze nel Rodigino in una famosa villa di nobili ferraresi vien chiamato “il Conte”.  Da qui il gioco instaurato con Gianpi, alias Gpt, alias Gian Pietro.

Nelle nostre quasi quotidiane telefonate Gpt sollevava il microfono e con voce stentorea chiamava Elettra dal suo studio: “E’ il Conte!”. Del resto, mentre la conoscenza con Elettra si perdeva nel corso degli anni, da quando cioè s’insegnava giovanissimi nell’Istituto Tecnico per Ragionieri, quella con Gpt. era più recente. Non però la conoscenza della sua famiglia.

Il padre il mitico dottor Testa che ha curato nei difficili anni del dopoguerra intere generazioni di adulti e bambini. La moglie che faceva parte del ristrettissimo gruppo delle donne, poche, che contavano in città, capeggiate dalla Contessa Teresa Giglioli Maffei, erede della più importante famiglia aristocratica di Ferrara. E ancora ricordo l’arrivo del dottore nella nostra minuscola cucina che riempiva quasi del tutto con la sua stazza. E con occhio critico palpeggiava sia me che mio fratello.

Poi nel corso degli anni, ho cominciato a leggere le opere di Gianpi. A cominciare dalla Strage di Peteano. E a proposito di ciò che quel libro e la militanza politica ha significato per lui tendo a condividere il giudizio di Fiorenzo Baratelli, intellettuale impegnato e figura di alto rilievo nella sua città e non solo: Oggi, lo voglio ricordare come amico e compagno di tante battaglie politiche e culturali condotte insieme durante la comune militanza nel Pci, poi come ‘cani sciolti’ di una sinistra in perenne crisi. Ha ragione il figlio e amico Enrico Testa a definire Gian Pietro più anarchico che comunista. Nel senso che aborriva ogni forma di potere quando diventava arroganza, intolleranza, prepotenza, magari anche in nome di ideali nobili...”. 

Una parentesi straordinaria è rappresentata dal suo soggiorno napoletano e la fondazione di un giornale. Così scrive l’amico Sergio Gessi nel suo articolo apparso su Periscopio dell’8 gennaio 2023: “Nel percorso giornalistico, che è fil rouge della sua vita (specificare ‘professionale’ sarebbe riduttivo, perché cronista Gian Pietro lo è nel sangue), dopo l’esperienza a il Giorno, maturata a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, è poi passato a l’Unità e in seguito a Paese Seraper poi farsi promotore, a metà degli anni Ottanta, del solido e coraggioso settimanale Avvenimenti. A Napoli ha fondato e diretto Senzaprezzo, uno dei primissimi quotidiani a diffusione gratuita vincendo, grazie allo stile e all’accuratezza del lavoro suo e della redazione, lo scetticismo di chi riteneva che un giornale gratuito non potesse fare informazione seria, puntuale e senza condizionamenti.”

E a Napoli, meta delle nostre annuali vacanze a Lipari, con Elettra e Gianpi passammo giorni straordinari tra scoperte di trattorie speciali, negozi di lusso o le bancarelle del mercato, e le solenni visite nei musei. O ridevamo ai miei racconti di quando fummo sloggiati dall’Hotel Paradiso a Posillipo da Maradona, che ne fece il suo quartier generale, sapendo benissimo la mia repulsione per il calcio e il mio vanto di non aver mai visto una partita dal vivo.

L’ironia di Gianpi si esercitava proprio nella possibilità di lanciare il suo giornale che avrebbe dovuto circolare gratuitamente ma con un severo sguardo critico sul contenuto e anche mettendo in gioco un’altra tra le sue propensioni: quella di épater le bougeois, poiché è indubbio che tra le sue vene stilistico-narrativa c’è sicuramente quella di provocare stupore.

Il momento sicuramente dove più condividemmo le nostre ‘specialità’ culturali è stato raggiunto con il suo testo L’ultima notte di Savonarola (Ferrara, liberty house, 1990), con una mia prefazione. Il libretto rimane tra i ricordi più cari che mi rimangono di Gianpi, a cominciare dalla dedica: Ai miei amici Vittoria e Gianni. A Gianni prefatore d’eccellenza con tanta, tanta riconoscenza. Gian Pietro. Dicembre 1990.

E per concludere mi si perdoni l’autocitazione, ma è tutta a favore di un ricordo di Gianpi:Nel dramma delle parole-poesia si consuma il dramma di un Savonarola che, a tratti riveste i colori magici dell’infanzia dell’autore o gli scatti convulsi di una ideologia che è, è stata, passione e che rompe il velo sottile della favola poetica per assicurare all’autore, al lettore, al pubblico la disperazione della storia.

Arrivederci Giampi, ciao Elettra. Ci ritroveremo.

Cover: Gian Pietro Testa con Elettra Testi nel 2017 (foto Giorgia Mazzotti)

Vite di carta /
Napoli caput mundi

 

Leggi Mille giorni che non vieni di Andrej Longo e al centro del mondo c’è Napoli con il suo paradigma di vita che sembra coprire pressoché tutta la casistica delle esistenze. Anche se vivi chissà quanto lontano da lì.

A raccontare la propria storia è Antonio Caruso, un giovane che si trova in galera a scontare una pena di tredici anni per omicidio, una pena che ha interrotto la vita in famiglia con la giovane moglie Maria Luce e la figlia Rachelina appena venuta al mondo e che ora ha sei anni. Ha interrotto anche il corso per la patente per guidare i camion e la possibilità di lavoro che avrebbe potuto seguirne.

Qui in cella le giornate passano tutte uguali, c’è molto tempo per ripensare al passato. E c’è l’amico Caffeina che riporta il buon umore con le sue battute: “Basta ‘sti penzieri! T’abbrucian’ ‘a cervella i penzieri! Nun penzà!”.

Là fuori Maria Luce sbarca il lunario lavando pavimenti,  alle prime visite in carcere Antonio ha sentito i calli nelle sue mani e intanto ha visto Rachelina; ora non più, perché le visite si sono interrotte e Maria Lù non vuole più saperne di lui.

Antonio comincia il suo racconto nel momento in cui gli viene comunicato che può uscire dal carcere; ne è felice ma anche sconcertato e non conosce il motivo per cui può tornare libero. Fuori gli amici non ci sono più, quelli veri come Caffeina e gli altri sono rimasti dentro. Certo gli si offre una seconda possibilità. Antonio rimette in moto le giornate potendo andare a vedere il mare e cercando soprattutto di ristabilire i contatti con Maria Lù e con la bambina.

In breve scopre che a scagionarlo dell’omicidio commesso è stato il complice, il grande amico Polpetta che, dovendosene andare per una grave malattia, gli ha lasciato in eredità la possibilità di tornare libero. È uno scambio di favori: insieme anni prima hanno ucciso per vendicare l’uccisione del loro amico di sempre, Tyson, ma a essere riconosciuto da un testimone e ad andare in galera è stato il solo Anto’.

A questo punto occorre che io riporti le sue parole mentre parla all’amico che non c’è più e gli spiega come mai non ha fatto il suo nome agli inquirenti. Le riporto perché in una storia come questa, in cui il protagonista è un pregiudicato, è lo stile con cui si esprime a catturare chi legge, sono le parole schiette e ingenue come queste:

“La tentazione l’ho tenuta. Ma sai perché non m’aggio piegato, Polpè? Per amicizia, certo. Ma pure per fargli capire che una dignità la teniamo pure noi: io, te, Caffeina, Santo Domingo, Pasqualone. E che la dignità non se la possono comprare”.

Nella sua narrativa Andrej Longo ci ha abituato al dialetto napoletano. Ho riletto i racconti di Più o meno alle tre, uscito nel 2002, e ho ritrovato la stessa cantilena nella lingua, il ritmo delle parole sincopate che pulsa venendo su dalle profondità di chi è partenopeo.

In questo ultimo romanzo, sono passati vent’anni, mi pare che il dialetto sia più marcato, più esclusivo. D’altra parte non può che essere così, dovendo coprire l’intero orizzonte espressivo del protagonista. Come se il narratore nei Promessi Sposi fosse Renzo, con la semplicità e la forza della sua capacità linguistica di “povero montanaro”.

Mi pare un’operazione mirabile. E ancor più mi piace che la vicenda di Antonio con i suoi contenuti diventi mano a mano la storia di tutti noi, almeno di molti.

Maria Lù si riavvicina cautamente a lui. Mentre Rachelina, che lo ama incondizionatamente, gli testimonia a ogni occasione la gioia che prova nell’averlo vicino. Le parole del titolo sono le sue quando lo rivede, per lei bambina l’iperbole di aver contato fino a mille i giorni senza di lui esprime al meglio il suo amore.

Per cercare un lavoro Antonio incappa in un giro illecito: mentre guida un camion carico di pomodori, scopre che in realtà nel fondo sono nascosti rifiuti tossici, armi e anche dei prigionieri. Sono dodici neri destinati a un destino di prostituzione e di morte.

Sono lì, davanti a lui, che li ha fatti uscire da quel nascondiglio soffocante, uomini, donne, bambini. Sono gli ultimi, i più fragili in assoluto su questa terra. In un atto di generosità, dice Andrej Longo in una intervista, Antonio li libera e li conduce da Padre Vincenzo nella sua parrocchia a Napoli, sempre aperta per chi ha bisogno di aiuto.

La parola giusta non è generosità, è quella che usa Antonio, “giustizia”. E qui mi torna di nuovo sulla punta della penna il Renzo manzoniano, che a Milano, in un mondo più grande di lui, ha come piccola bussola la sua idea di giustizia. Si mette nei guai, come ben sappiamo. E anche Antonio finisce per essere accusato di favorire l’immigrazione clandestina e ritorna in carcere.

Uscirà di nuovo? Uscirà. Offrendosi come esca per catturare la banda che gestisce il traffico criminale di uomini e di cose, col rischio della vita. Il finale della storia concede un po’ troppo allo stereotipo dei film d’azione, tutti spettacolarità, tuttavia si salva una volta di più per le parole di Antonio. Quando durante un secondo viaggio in camion prepara la cattura della banda, ci sono altri neri da salvare e lui si ferma a un autogrill e li fa uscire dalla pancia del camion.

Uno di loro, Mustafà, è già stato in Italia e può comprendere quello che Antonio gli raccomanda: “Senti a me: tu aspetta qua. Non ti muovere. Io prendo l’acqua al bar. Capito?” E quindi: “Prendo due pacchi di bottigliette da mezzo litro. Torno dai neri. Distribuisco l’acqua. Si attaccano alla bottiglia come se non bevono da dieci anni. Soprattutto i bambini tengono sete”.

È la giustizia naturale. È fratellanza, come ci terrà a precisate Antonio e Mustafà di rimando “Fratello, sì. Io sogno frato a te, e tu sei frato a me”.

Può chiamarsi ‘romanzo di formazione‘? Lo è per Antonio, che mostra di essere maturato in questo suo coraggioso atto di aiuto ai più deboli. Si è accostato alla sua famiglia con senso di responsabilità, facendo breccia di nuovo nel cuore di Maria Lù e godendo della compagnia di Rachelina.

Indipendentemente dal finale, che non va svelato, la sua attenzione a coloro che hanno bisogno ci investe tutti. Fa del suo un nostro romanzo di formazione: in questo tempo così pieno di piaghe a ogni latitudine, diventiamo consapevoli di essere insieme a lui i penultimi della terra.

Eravamo la classe media e ora viriamo verso la povertà, avevamo la pace e ora la guerra ci insegue, ci incalzano i tentacoli ricresciuti della pandemia. Lontani o vicini che siamo, da Napoli la parabola della storia di Antonio ci arriva forte e chiara e tenta di scompigliare le idee che avevamo prima. Ci offre una chiave per accorgerci delle infinite somiglianze tra noi e gli altri su questa terra.

Nota bibliografica:

  • Andrej Longo, Più o meno alle tre, Meridiano zero, 2002
  • Andrej Longo, Mille giorni che non vieni, Sellerio, 2022

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

 

Capitalismo e liberismo non sono sinonimi: la Cina ad esempio…

Quello che è capitato all’imprenditore e maggior miliardario cinese Jack Ma è significativo della differenza che forse correrà tra il capitalismo americano e quello cinese nei prossimi anni. E l’Europa (se ci fosse) avrebbe molto da imparare su come costruire una società migliore di quella dei due poli/leader mondiali.

Jack Ma, un insegnante di inglese, ha inventato nel 2011 Alibaba, un e-commerce molto più grande di Amazon; poi il pagamento elettronico con Alipay (usata da oltre un miliardo di cinesi). Ha creato una sua banca ed è insieme un imprenditore e un banchiere-finanziario, il più ricco cinese (50 miliardi di patrimonio nel 2020 per Forbes). Il presidente cinese Xi Jinping però non vede più di buon occhio questi miliardari privati che fanno quello che vogliono. A mio avviso, lo Stato cinese ha deciso di “condizionare” i suoi colossi tecnologici e finanziari (Alibaba, Tencent, ByteDance e le altri grandi imprese) regolamentandone l’attività in settori che hanno raggiunto un’influenza senza pari sulla vita quotidiana dei cinesi. La leadership comunista ha così deciso due anni fa, osservando formalmente le leggi cinesi, di avviare una “indagine” su ANT Group (che controlla Alibaba) sfociata in una multa da 2,8 miliardi di dollari, nello spezzettamento della società monopolista di e-commerce, nella vendita del quotidiano South China Morning Post, nell’impedire la quotazione alla borsa di Hong Kong (che avrebbe portato all’ingresso di azionisti stranieri). L’ultimo atto è stato ridimensionare Jack Ma (sceso dal 53% al 6,2% dei diritti di voto), per cui ora egli comanda un consiglio di 10 persone, tra cui lui (il fondatore), un rappresentante del personale, uno del management, e altri 7 “azionisti”, dietro cui si nasconde sicuramente lo Stato Cinese.

Gli Stati Uniti hanno permesso alla Cina di entrare nel WTO nel 2001 sotto la pressione delle multinazionali americane, che volevano far assemblare nelle affidabili fabbriche cinesi i loro prodotti, realizzando profitti molto maggiori attraverso l’utilizzo del lavoro cinese, meno costoso rispetto a quello americano. La Cina garantiva in cambio di diventare una “economia di mercato”, dando alle imprese occidentali gli stessi diritti che avevano in tutto il mondo (nel mercato “libero”) come, per esempio, quello di poter acquistare il controllo anche di aziende cinesi. Cosa che non è mai avvenuta. Nessuno in Occidente, però, in questi 22 anni ha mai protestato…forse per non compromettere gli affari delle imprese Usa e occidentali.

In questi ultimi 20 anni si sono così avvantaggiati molti milionari americani, è decollata la finanza, gli Stati si sono indebitati moltissimo (il debito pubblico e privato globale ha superato i 300mila miliardi di dollari, pari al 360% del pil mondiale, era il 100% nel 1970), ma anche i cinesi sono diventati milionari, tra tutti Jack Ma. La Cina ora pare voglia cambiare: dopo 20 anni di liberismo cinese, mette sotto controllo sia la finanza privata che le grandi aziende (non solo tech) onde evitare di perderle (tramite quotazione alle borse di Hong Kong o altrove), e per indicare come Stato quali sono i settori da sviluppare – un esempio: i semiconduttori, di cui Taiwan, sulla quale ha mire militari, è il primo produttore mondiale – nonché usare parte della ricchezza accumulata per redistribuirla alle zone povere. Lo Stato cinese vuole dire la sua in relazione a quale sviluppo considerare strategico per il proprio futuro.

Il “paradosso” è che sia uno Stato dispotico a preoccuparsi anche dei divari sociali e volere che sia il potere pubblico a decidere quali siano gli orientamenti a lungo termine della società, e non le imprese o la finanza privata. E’ un tema che dovrebbe riguardare piuttosto “le nostre democrazie, sempre più disinteressate alla scuola e all’indipendenza della stampa (che evita di fare buone domande…)”, dice nel suo libro “En finir avec le règne de l’illusion financièreJacques de Larosière (per 20 anni direttore del Tesoro francese, direttore del FMI e governatore della Banca di Francia). De Laroisière è’ molto preoccupato che “la socializzazione del rischio di un debito enorme” possa riversarsi sulle economie occidentali desertificando redditi e lavoro, atteso che l’Europa è fatta “di Governi che vivono nella paura di mercati finanziari ormai dominanti”.

Per l’Occidente liberista le azioni cinesi sono dispotiche e costituiscono violazioni del “libero mercato”, ma non è detto che la maggioranza dei cittadini (cinesi, ma forse anche americani ed europei) sarebbe contraria a vedere ridimensionato il ruolo dei grandi miliardari privati e della finanza, per conferire un ruolo maggiore allo Stato nell’economia, riportare la finanza a fare il suo mestiere al servizio di imprese e famiglie e usare parte dell’immensa ricchezza privata per operazioni di vera redistribuzione.

E’ su queste questioni dirimenti per le persone in carne ed ossa che si confronteranno Cina e Stati Uniti nel prossimo decennio. Potrebbe proprio succedere che la “competizione” aiuti a riportare il capitalismo a “quote più normali”, come successe nei primi 30 anni del secondo dopoguerra nella competizione tra Usa e Urss.

Il problema è che l’Europa non esiste. Siamo diventati alleati completamente proni agli Stati Uniti. In Europa una iniziativa pubblica del genere potrebbe anche progredire, più che per spinta dei partiti, ad opera delle associazioni dei consumatori e dei sindacati, che potrebbero comunque avviare una discussione pubblica. L’esatto contrario di quanto avvenuto col PNRR, dove tutto è stato deciso dall’alto, senza alcuna consultazione pubblica, dei Comuni, tantomeno delle associazioni o dei sindacati. Ci ritroveremo con opere spesso costosissime, a volte inutili e, nella migliore delle ipotesi, con un respiro corto. Come nel caso delle mille “case della salute”, dove l’impossibilità di assumere ci darà bellissime strutture piene di attrezzature ma senza personale.

Occorre prendere atto del fatto che redistribuire la ricchezza o individuare quali siano i reali bisogni da soddisfare per l’umanità non è un tema che interessa al capitalismo liberista. Solo un’azione collettiva promossa dalla partecipazione dei cittadini tramite le loro associazioni può orientare l’agenda economica e sociale in questa direzione, non certo il “libero mercato”. La crisi del capitalismo in Usa ed Europa, al di là dell’immagine semplificata (anche se in parte fedele alla realtà) per cui noi siamo “liberi” e “loro”  sotto il giogo di una dittatura, dimostra una cosa:  se accanto ai diritti civili di stampo occidentale non si affermano anche i diritti sociali sostanziali, non ci potrà essere autentico progresso. Non sarà semplicemente gridando al mancato rispetto dei diritti civili nell’emisfero orientale, che si potrà invertire la tendenza all’ampliarsi del (già enorme) divario sociale che caratterizza gli ultimi 20 anni di molte società occidentali avanzate.

Inesauribile Proust!

Inesauribile Proust! Mito, devozione che sfiora il feticismo, ammirazione e ricerca, ricerca incessante, come se la parola chiave del titolo dell’opera proustiana fosse proprio recherche più che il temps perdu. Come un oggetto introvabile che si sa esistere da qualche parte, il tempo di Proust non esiste senza il suo inseguimento nella scrittura dell’autore e anche in quella del lettore.

Molte le pubblicazioni che nel 2022 hanno celebrato il centenario della morte di Proust, che segue di un anno le commemorazioni dei 150 dalla sua nascita. Ma tra queste merita una segnalazione particolarissima il volume progettato e curato da Anna Dolfi, Il ‘tono’ Proust. Dagli avantesti alla ricezione (Firenze University Press, 2022). Già di per sé il titolo suscita la curiosità.

Fa pensare subito, anche a chi ha letto soltanto qualche pagina del grande romanzo, a una singola voce narrante che ricompone ricordi disparati, alle lunghe frasi che avanzano imperturbabili con una sintassi simile a una respirazione continuamente interrotta, alle incise, alle precisazioni che si accumulano e irretiscono il lettore in meandri di parole…

Il titolo è accompagnato dal volto di Proust che occupa tutta la copertina e spicca tra contrasti di colore e non-colore. Solo alla fine della sua bella premessa – La sfida della durata. Per un anniversario –, a riprova di come tutto sia stato studiato e pensato con attenzione, Anna Dolfi racconta com’è nata l’idea di un giallo dominante, sul quale si stagliano in nero e grigio i lineamenti dello scrittore, occhi e baffi inconfondibili.

Il giallo è quello che, in una Vista di Delft di Vermeer indica «un pan de mur» (ad essere precisi un pezzetto di tetto più che di muro), che aveva affascinato il personaggio di Bergotte colto poco prima di morire mentre lo contempla mormorando: «Petit pan de mur jaune avec un auvent, petit pan de mur jaune».

Il color giallo insomma invade nella Recherche la scena della morte e iscrive, in sottotraccia alla fine di Bergotte, la presagita fine dell’autore infermo e malato, che aveva consegnato l’intera sua vita al lavoro del linguaggio. Il ‘tono’ Proust è anche questo incessante rinvio di allusioni, cenni, particolari, richiami che affiorano alla memoria in un travaglio ininterrotto di parole.

Il ‘tono’ Proust., a cura si Anna Dolfi, Firenze, University Press

Sette sono le sezioni che, collocate ognuna sotto un tema dominante, suddividono il volume facendo emergere alcune linee semantiche trasversali che continuano a intrecciarsi. Impossibile in uno spazio limitato dare ragione di tutte e della ricchezza e suggestione dei singoli saggi.

Basti dire che una di queste, relativa agli avantesti (ovvero a tutto quanto precede la stesura definiva), solleva l’ardua questione della traduzione dei brouillons (degli scartafacci) e della doppia fragilità del testo, per le molteplici varianti che lo «pluralizzano» e per le molteplici traduzioni e interpretazioni che a loro volta lo frantumano.

Ma la riflessione sulla frantumazione del testo ha anche una funzione più generale e accompagna implicitamente la lettura degli altri contributi (oltre una ventina), rivelando ogni volta aspetti imprevisti.

Getta una nuova luce sul cerchio intertestuale dell’opera proustiana, sia che si tratti della genesi del personaggio di Charlus splendidamente presentata da Mariolina Bertini; della novella di Baldassare Silvande, in cui Giuseppe Girimonti Greco e Ezio Sinigaglia evidenziano gli indizi precoci della memoria involontaria; del Proust ‘morcelédell’editoria di cui parla Alberto Cadioli; del Proust tra Flaubert e Céline di Patrizia Valduga; o dei molti saggi sulle traduzioni.

In una prosa vivace e ampiamente documentata, esaminando le traduzioni inglesi, Laura Barile propone ad esempio una storia della ricezione dell’opera proustiana nel Regno Unito, che è anche una storia della critica e della ricezione di Proust all’estero. A sua volta questo sguardo retrospettivo rimanda ad alcuni momenti fondamentali della critica proustiana in Italia, o a felicissimi dialoghi (il caso di quello tra Contini e Fallois).

E non dimentichiamo, in un registro diverso, la radio-recita del 1952 ideata dal grande studioso Giacomo Debenedetti che, rivolgendosi a un largo pubblico, faceva in quella forma insolita conoscere l’opera di Proust ‘democratizzando’ la riflessione critica sulla letteratura. Il saggio che la esamina s’inserisce tout naturellement nella vasta ricezione che accompagna ormai La recherche.

Autografo proustiano (foto di Anna Dolfi)

 Se le trasposizioni filmiche di un romanzo da tempo fanno parte delle nostre abitudini culturali (a questo proposito merita ricordare il film del 1984 di Volker Schlöndorff, Eine Liebe von Swann, con Ornella Muti e Alain Delon, dall’atmosfera torbida che avvolge i personaggi), recentemente sono uscite in più volumi le bandes dessinées, i fumetti, che propongono una nuova visione di un’opera che si è sempre caratterizzata e distinta per la qualità della sua scrittura linguistica.

Opportunamente la curatrice del nostro volume incomincia la sua avvincente presentazione da questo fenomeno sollecitando la nostra attenzione e curiosità. Non invano.

Visto che si parla di immagini, si aggiunga anche che molte attraenti illustrazioni arricchiscono il volume, e non come semplici curiosità in qualche modo subordinate alla parola, bensì piuttosto come un altro modo di leggere Proust, tratteggiando linee semantiche autonome. Come dire che le immagini collocate qua e là sono parte integrante della composizione e dello spessore significante del libro.

Che dire d’altro? A me piacciono molto i volumi collettivi che raggruppano intorno ad un argomento ricerche di personalità diverse: ci regalano tante voci, tanti punti di vista abilmente guidati da uno sguardo organizzatore. Riescono ad abbinare la varietà e la coerenza del tutto con l’autonomia dei singoli saggi e, almeno in un caso come questo, riuscendo perfino a oltrepassare la cerchia degli studiosi specialisti, sono in grado di coinvolgere curiosi e appassionati di letteratura. Insomma questo TonoProust è un libro da non perdere: assolutamente da leggere e da avere in biblioteca.

Il Volume:
Anna Dolfi (a cura di), Il ‘tono’ Proust: Dagli avantesti alla ricezione, pp.505, Firenze, University Press, 2022, € 22,90, edizione in pdf € 13,00. 

In copertina: Jacques-Emile Blanche, Portrait de Marcel Proust, 1892 (immagine su licenza di Société des amis de Marcel Proust)

Parole e figure / Mind the gap

Non è la ben nota frase della metropolitana di Londra che, dal 1969, avverte i passeggeri dello spazio fra la banchina e le porte del treno. Né quella usata alle stazioni di Toronto, Singapore o New York. È comunque una linea di attenzione da non oltrepassare.

Mind the gap. Che la storia abbia inizio (Kite Edizioni) è il titolo di un’originale raccolta di otto storie illustrate da Monica Barengo, scritte da otto autrici differenti: Chiara Argelli, Giulia Belloni Peressutti, Amanda Cley, Valentina Mai, Martina Manfrin, Paola Presciuttini, Paola Tasca, Germana Urbani. Voci squisitamente femminili.

Protagonista è la narrativa, si tratta di incipit che possono portare ogni lettore dove meglio crede. Ciascuno si proietti verso il suo percorso immaginario, parta e vada dunque dove vuole! Spazio alla fantasia, al coraggio di rincorrere il futuro che si vuole disegnare.

Abbiamo davanti una linea, un punto prima di attesa e di partenza poi, pur con un ammonimento a fare attenzione, sempre. Con tante immagini che si trasformano in parole e che danno vita a qualcosa di nuovo, a un finale aperto e immaginato.

I puntini di sospensione a chiusura di ogni incipit ci invitano a continuare la narrazione e q trovare noi il nostro finale. Un po’ come il la dato da un bravo Maestro. Tonalità e via. La partenza è la vera meta. Il primo passo del cammino.

Siamo dunque messi di fronte a racconti-assaggi pensati per i “più grandi” che parlano di incontri, partenze e addii, di amori puri e lontani nel tempo su cui fantasticare, di libri e nascondigli, di pensieri dei piccoli e di “malattie” dei grandi, di gabbie familiari e lente rinascite, di fughe e attese, di viaggi verso luoghi vicini e lontani. Di speranze, sogni, bisogno di avere radici. Sono racconti che danno la spinta a pensieri e riflessioni profonde, testi in continuo e quasi perpetuo movimento che nascono da illustrazioni raffinate, poetiche e romantiche, dal tratto sottile e delicato che, con i loro colori tenui, racchiudono quell’atmosfera delle melanconie autunnali.

Ci sono allora Moondellaluna dal viso tondo e luminoso (Chiara Argelli), i puri di cuore, Giulia Belloni), chi ruba i libri si nasconde e legge (Terra d’Ocra, Amanda Cley), gli adulti che non sono felici (Valentina Mai), Luisa che non sa fare niente (Inadatta alla vita, Martina Manfrin), il tempo che gocciola come un rubinetto rotto (Noi e l’attimo, Paola Presciuttini), Anna che, il 21 settembre 1933, scappa con una valigia sola (Prima che sia troppo tardi, Paola Tasca) o le isole che vanno e vengono (A precipizio, Germana Urbani).

Storie che non finiscono e che, molto probabilmente, non finiranno mai. Perché il progetto è speciale: recuperare quello che il racconto e la fiaba dovrebbero essere, una piccola porta aperta verso un altro mondo che, una volta aperta, dobbiamo percorrere noi.

Perché il segreto è cominciare e la fantasia e la voglia di andare lontani non hanno limiti.

Monica Barengo è nata a Torino nel 1990, ma è cresciuta in campagna dove da bambina trascorreva le sue giornate seduta sul davanzale della cameretta a leggere favole o coricata per terra con la pancia sul palchetto caldo a disegnare. Il disegno è sempre stato con lei, un gioco da bambina, uno sfogo da adolescente (ha frequentato il liceo artistico e lo IED di Torino) e oggi un lavoro da adulta. Attualmente lavora come illustratrice per albi illustrati, principalmente in Italia, Francia e Taiwan. Nel 2012 è selezionata alla mostra degli illustratori della fiera di Bologna e, nel 2013, vince il premio previsioni future indetto dall’associazione illustratori italiani. Nel 2022, le viene conferito il premio “New York Times/New York Public library Award 2022” per il miglior libro illustrato per bambini scritto in collaborazione con l’autore Davide Calì, Lo scrittore.

AA.VV, Mind the Gap / Che la storia abbia inizio, illustrazioni di Monica Barengo / Kite Edizioni, 2022 

Immagini, cortesia Monica Barengo / Kite Edizioni

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

 

Gpt, uno spettacolo per i miei occhi:
giornalista, maestro, artista, scrittore

Era il 2014 quando ho fatto questo servizio fotografico a Gian Pietro Testa, giornalista, scrittore, pittore, maestro e amico.  Gli chiesi una sua fotografia perché mi serviva per illustrare la foto-notizia della rubrica “Immaginario” sul quotidiano online Ferraraitalia fondato da Sergio Gessi, con cui condivido il ruolo di ex allievi della scuola di giornalismo IFG da lui fondata a Bologna all’inizio degli anni Novanta.  La rubrica basata sul connubio di testi e immagini, all’epoca, era quotidiana e per quel giorno l’avrei usata in occasione della presentazione di un suo libro, “Interviste infedeli”, per la giornata del 23 dicembre 2014. Mi disse che non aveva praticamente fotografie di se stesso, se non qualche scatto fatto quasi per caso, fototessere o poco altro.

Gian Pietro Testa (foto GioM)

“Se vieni – mi invitò – poi me ne dai qualcuna da usare nella pubblicazione del mio prossimo libro”. Una bellissima proposta, che mi inorgoglì e mi diede un sentimento intenso di gioia. Con entusiasmo ci dedicammo a fare questi ritratti nella sua casa, in via Carlo Mayr, tra gli arredi d’epoca, le foto di famiglia incorniciate e poi – mi parve d’obbligo – dietro alla scrivania del suo studio. Era uno dei miei periodi di massimo entusiasmo per la fotografia e con molto orgoglio usavo la mia Olympus mirrorless immaginandomi di essere una futura Vivian Maier.

Gian Pietro Testa nella sua casa (foto GioM)

Di quella serie di foto ne usai una. A Gian Pietro diedi tutte le copie degli scatti stampati su carta, perché diceva che di immagini dentro al computer (e men che meno dentro a un cellulare) non ne voleva sapere, le voleva tangibili e materiali, da tenere in mano e sfogliare.

Gian Pietro Testa alla scrivania (foto GioM)

Aveva ragione. La ricerca del set fotografico virtuale è stata più impervia di quel che avrei creduto, gli anni passano e anche gli archivi online possono occultarsi senza che ce ne rendiamo conto e senza che ci si possa più fare alcunché.

Negli anni successivi capitava che con Gpt ci incontrassimo. Prendevamo appuntamento per chiacchierare sedendoci a bere qualcosa in un bar del centro. Mi diceva: vorrei che scrivessimo insieme un libro, cerco ispirazione o altre cose lusinghiere che mi facevano sorridere e mi mettevano quasi in soggezione. Ogni volta era immensa la voglia di tirare fuori la macchina fotografica o, più tardi – quando quella l’ho un po’ tralasciata – anche solo la fotocamera del cellulare.

Gian Pietro Testa con Elettra Testi nel 2017 (foto Giorgia Mazzotti)
Premio Stampa 2017 (foto Giorgia Mazzotti)

“Perché mi fotografi sempre?”, mi chiedeva un po’ stupito. Perché con lui c’era sempre una bella visione davanti a me. A volte metteva berretti variopinti spettacolari e poi c’erano le sue espressioni, le sue pose, i suoi gesti. La sua presenza era per me uno spettacolo di cui non perdere nemmeno un istante. Mi trattenevo un po’ per non essere eccessivamente invadente e per ascoltare meglio le sue parole.

Gian Pietro Testa nello studio (foto GioM)

Il Covid ha rallentato tutto. Io ho usato sempre meno la macchina fotografica per riprendere invece in mano pennelli e colori. Avrei voluto coinvolgere Gian Pietro Testa in un progetto di opera d’arte composta di tavole di piccolo formato fatte a più mani, a tema naturalistico, da esporre non so poi dove.

“Crocus” di Gpt e tavolette di natura-scrittura

In casa ho una sua grande e bellissima tela, un “Crocus” giallo scintillante su fondo porpora, che immaginavo come compagno ideale delle mie tavole in tema di foglie e fogli, scrittura e natura, da condividere con altri amici amanti di penna e pennello.

Gian Pietro Testa e il ritratto con Enrico (foto GioM)

Via via, però, i nostri incontri sono stati sospesi e si sono ridotti a un’ipotesi; mi diceva spesso che voleva che ci incontrassimo ma che, in quel momento, non era abbastanza in forma. Mi disse: magari vieni a fotografare i miei quadri in soffitta. Ma era quasi sempre troppo freddo o troppo caldo, come capita in effetti quasi sempre a Ferrara. Aspettava di essere più in forma. Ora mi restano solo queste forme riflesse sullo schermo del computer. Ciao Gpt, grazie, scusa, ti abbraccio tanto.

L’insostenibile stangata

di Patrizia Pallara (tratto da Collettiva)

I rincari di bollette, beni e servizi e la crescita dell’inflazione superano i 3.400 euro all’anno a famiglia. Fracassi, Cgil: “Aumentare i salari per evitare spirale depressiva”, Il 2023 è appena cominciato ed è subito stangata. Per le famiglie italiane, alle prese con gli aumenti delle bollette e dei carburanti, il nuovo anno inizia con un salasso.

Secondo i calcoli di Federconsumatori, i rincari stimati superano soglia 2.384 euro in 12 mesi: agli aumenti già annunciati si aggiungerà una crescita generalizzata dei prezzi di alimentari, servizi e altri beni, trainati dai costi degli energetici. Se il tasso dell’inflazione si confermerà al livello attuale, quindi, più 11,6 per cento su base annua l’indice generale, più 8,1 per cento in media i prezzi al consumo, le ricadute arriveranno addirittura a quota 3.456 euro.

“Le stime Istat confermano un anno record per l’inflazione, in corrispondenza di un forte rischio di recessione alle porte – afferma la vicesegretaria generale della Cgil Gianna Fracassi -. Il rialzo dei tassi non sembra funzionare a contenere i prezzi, soprattutto visto che l’inflazione sorge dall’offerta e in particolare dalle materie prime energetiche”.

Le famigerate accise

Partiamo dalla prima brutta sorpresa, il rialzo dei carburanti, scattato il 1° gennaio perché il 31 dicembre è scaduta la proroga del taglio delle accise (le imposte su fabbricazione e vendita): la misura originaria era stata introdotta a marzo scorso dal governo Draghi (la riduzione valeva 30 centesimi al litro), da novembre lo sconto era stato ridotto. Ora, con il nuovo anno, le famigerate accise si pagano per intero: il rifornimento alla pompa costa 18,3 centesimi in più al litro per benzina e gasolio e 4,3 per il Gpl per autotrazione.

A tutto gas

Ma i balzelli non si fermano qui. Il 3 gennaio l’Arera, Autorità per l’energia, reti e ambiente, ha aggiornato con il nuovo metodo su base mensile le tariffe del gas per i clienti del mercato tutelato. Purtroppo non ci sono buone notizie: la bolletta cresce del 23,3 per cento rispetto al mese precedente, in controtendenza con il mercato dell’energia. La spesa della famiglia tipo nell’anno scorrevole (dal 1° gennaio 2022 al 30 dicembre 2022) è di circa 1.866 euro, pari a più 64,8 per cento rispetto ai dodici mesi precedenti.

Aumenta ma non ribassa

Un andamento che dimostra come le tariffe tardino a beneficiare della riduzione sul prezzo all’ingrosso. In questi giorni infatti il gas all’apertura dei mercati si attesta sui 77,5 euro al Mwh, ovvero il 23 per cento in meno rispetto alla media del mese precedente e il 31 per cento rispetto a due mesi fa.

Si tratta di un fenomeno che interessa anche i consumatori che sono nel mercato libero, sul quale sarebbe necessario un monitoraggio per contrastare la speculazione: molte aziende, infatti, pur acquistando gas ed energia a prezzi più favorevoli, continuano a rivenderli agli utenti a prezzi esorbitanti.

La bolletta elettrica

Poi c’è l’energia elettrica. “Con il calo delle quotazioni all’ingrosso dei prodotti energetici e l’attuazione degli interventi del governo contenuti nella legge di Bilancio – informa l’Arera – per il primo trimestre del 2023 il prezzo di riferimento dell’energia elettrica per la famiglia tipo in tutela si riduce del 19,5 per cento”.

La bolletta rimane comunque elevata. In termini di effetti finali, ammette la stessa Autorità, “la spesa per la famiglia tipo nell’anno scorrevole (1° aprile 2022 – 31 marzo 2023) sarà di circa 1.374 euro, più 67 per cento rispetto all’anno precedente”.

Rincari generalizzati

Secondo Federconsumatori il rialzo del costo di luce e gas durerà a fasi alterne per tutto l’anno e sarà aggravato, da aprile, dalla cessazione prevista dal governo delle misure di sospensione degli oneri di sistema (che oggi non paghiamo in bolletta), determinando ricadute insostenibili sui bilanci delle famiglie. Alimentari più 9,2 per cento, assicurazione più 4,6, tariffe acqua più 6,2, ristorazione più 5,9, solo per citare alcune voci.

Quelle sue 85 poesie per ogni vittima della strage della stazione di Bologna

“Sei il solito cacadubbi”. Così mi sgridò Gian Pietro Testa, dopo  che gli raccontai  delle mie ambasce per aver sostenuto l’esame da giornalista professionista, che superai abbastanza bene. Aveva tenuto una lezione al corso di preparazione presso l’Ordine interregionale dei giornalisti a Bologna, e io ero un suo allievo, ero tra coloro che dovevano sostenere l’esame. Quando ci incontrammo, dopo la mia prova positiva, se ne uscì con quella frase. Per dirmi: questo  mestiere lo sai fare.

Un modo tutto suo – ironico, distaccato, ma preciso e saggio – per giudicare le cose umane. Sapeva essere anche duro, quando occorreva: mi ricordo una sua tirata all’assemblea dei giornalisti del l’Unità Emilia-Romagna, dove entrambi lavoravamo, in cui attaccò il modo di dirigere il giornale, che era già dentro una delle sue crisi, e criticò soprattutto la mancanza di prospettive che cominciava a pesare sull’organo del PCI.

Era fortemente deluso, e quella volta lo dimostrò. Lui che veniva dal Giorno diretto dal partigiano Italo Pietra, quotidiano principe nell’Italia degli anni ’60 e ’70; lui che per primo entrò nella sede della Banca dell’Agricoltura a Milano dopo la strage del 12 dicembre 1969, non poteva sopportare, credo, che il giornale fondato da Antonio Gramsci avesse imboccato la strada del declino.

Testa – o gpt, come spesso si firmava – ha fatto tante altre cose che altri diranno. Io lo voglio ricordare qui come autore di quella “Antologia per una strage” sul tragico attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980: una poesia per ognuna delle 85 vittime.

Ha scritto diversi libri, nei quali ha mostrato le molte sue capacità, una vis polemica  per scuotere le coscienze, e tutta la sua arte: perché Gian Pietro non è stato soltanto giornalista e scrittore, docente e poeta, è stato un artista.

E, lo confesso, gli piacevano le mie poesie: insieme andammo da un poeta noto, Paolo Ruffilli, perché le valutasse. Ancora una volta  dimostrò la sua fiducia in me e in quel che facevo, e per questo gli sono sempre stato grato.

Anche se in questi anni l’ho visto e sentito poche volte, la sua presenza vicino a me l’ho spesso avvertita. Le vere amicizie vivono oltre le distanze, nonostante le assenze. A suo figlio Enrico, ai suoi famigliari, le mie sincere condoglianze.

Gian Pietro Testa, Antologia per una strage, Argelato (BO), Minerva Edizioni, 10,00 Euro

 

Gian Pietro Testa, il giornalista dalla schiena dritta

In ricordo di Gian Pietro Testa, straordinario amico e maestro di giornalismo,
pubblico qui la prefazione a quel che purtroppo resterà il suo ultimo libro, L odio. Ai compagni anarchici uccisi sulla strada della libertà, Ferrara, edizioni La Carmelina, maggio 2022.
Mi chiese di scriverla ed è stato per me oltre che un onore anche l’opportunità di tratteggiare – soprattutto a beneficio dei più giovani – la sua poliedrica figura di giornalista e scrittore, a coronamento di un’amicizia (la nostra) lunga 45 anni. È stato per me un grande privilegio essergli amico.
Resterai sempre nei nostri cuori caro carissimo Gpt.
Per Gian Pietro il giornalismo era uno strumento finalizzato alla ricerca della verità, accompagnato dal dovere di combattere l’ingiustizia. Per questo si è sempre trovato a praticare strade in salita e molto spesso nella condizione di dover sminare il terreno per fare chiarezza fra i fatti e gli ostacoli frapposti dai potenti al fine di occultare le soperchierie e alimentare i propri interessi. Nella sua lunga e brillante carriera non ha mai derogato da questa regola ferrea.
Sempre caparbiamente dalla parte del torto: sempre attento ai deboli e agli sfruttati, sempre pronto a denunciare gli abusi, le soperchierie, i vezzi e i vizi dei potenti. Gian Pietro Testa ha fatto della sua professione uno strumento di giustizia, dando voce a chi voce non ha, stando sempre al riparo dalle lusinghe e dalle tentazioni del Potere, senza farsi irretire mai dagli uomini che il potere esercitano a proprio vantaggio e non a tutela dei diritti che a ciascuno vanno garantiti.
L’ho conosciuto quand’ero ragazzino e lui già un affermato cronista del Giorno, il più interessante e innovativo quotidiano degli anni Settanta.
Non l’ho più perso di vista e posso perciò testimoniare la sua coerenza, che gli è valsa molte meritate lodi e riconoscimenti, ma che pure gli è costata, per converso, ostracismo, esclusioni e prese di distanza che negli anni hanno prodotto in lui un giustificato sedimento di amarezza.
Per dirla con una celebre battuta del film Fortapasc (che descrive la vicenda di Giancarlo Siani, il “cronista-ragazzino” ammazzato dalla Camorra), Gpt – come lo appellano gli amici – è stato certamente un ‘giornalista-giornalista’, uno – cioè – che fa le domande e non si inchina, che non fa sconti a nessuno. Neppure a quelli ‘della propria parte’, i protagonisti della vita pubblica e gli eventuali esponenti di correnti di pensiero a lui affini. Il suo metro di misura è uno solo e vale per tutti. Le ragioni per cui, nel tempo, Gian Pietro Testa è stato spesso marginalizzato hanno questo presupposto: è – ed è stato sempre – un professionista per nulla comodo, non addomesticabile, uno con la schiena dritta.
Tante le pubblicazioni che hanno accompagnato e arricchito il quotidiano svolgimento del suo lavoro di cronista: il libro-inchiesta su  La strage di Peteano, pubblicato per Einaudi (e trasposto pure in versione cinematografica), ha determinato la riapertura delle indagini e la riconsiderazione dei fatti e dei colpevoli.
Vanno poi menzionati, in riferimento agli anni Settanta, gli scritti sulla strage di Piazza Fontana (fu lui il primo giornalista ad entrare nella banca dopo l’esplosione) e quelli relativi all’infame attentato alla stazione di Bologna. E vanno ricordate le vicende del terrorismo e le infiltrazioni dei servizi segreti sui due contrapposti fronti del brigatismo nero e rosso che hanno caratterizzato il suo lavoro di indagine e ricostruzione dei fatti e la denuncia di infiltrazioni e responsabilità occulte.
In parallelo ha sfornato saggi, romanzi, poesie, tutti percorsi da eleganza espressiva, solida struttura, e un garbo stilistico spesso arricchito da gustose e ironiche note. E tutti, al fondo, nutriti da quella passione civile che sempre lo ha sorretto.
Nel percorso giornalistico, che è fil rouge della sua vita (specificare ‘professionale’ sarebbe riduttivo, perché cronista Gian Pietro lo è nel sangue), dopo l’esperienza a il Giorno, maturata a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, è poi passato a l’Unità e in seguito a Paese Sera, per poi farsi promotore, a metà degli anni Ottanta, del solido e coraggioso settimanale Avvenimenti.
A Napoli ha fondato e diretto Senzaprezzo, uno dei primissimi quotidiani a diffusione gratuita  vincendo, grazie allo stile e all’accuratezza del lavoro suo e della redazione, lo scetticismo di chi riteneva che un giornale gratuito non potesse fare informazione seria, puntuale e senza condizionamenti.
Ma è stato pure direttore dell’emittente bolognese Ntv, nonché fondatore e docente della scuola di giornalismo di Bologna e poi capo ufficio stampa del Comune di Ferrara.
“Antologia di una strage” è invece la raccolta poetica riferita all’eccidio causato dalla bomba collocata alla stazione di Bologna, che rievoca in forma lirica la vita delle 84 vittime, a ciascuna delle quali è dedicata una poesia. E quelle poesie sono ora raccolte tra le fronde degli alberi del Parco delle Rimembranze di San Lazzaro di Savena, un comune contiguo a Bologna.
Il tratto umano e professionale di Gian Pietro Testa marca, come risulta evidente, una profonda coerente pervicace volontà di far di sè stesso strumento di conoscenza, capace di propiziare la consapevolezza dei fatti e imporre ai potenti quella trasparenza che a molti di loro risulta spesso indigesta. E la sua penna mostra a tutti proprio ciò che tanti faticano a vedere: il re nudo, nella sua cruda verità, senza alibi e senza inganni.
In copertina:  Gian Pietro Testa ai tempi della direzione del quotidiano napoletano ‘Senzaprezzo’

Diario in pubblico /
Alè. Alè

 

Passata è la tempesta. Odo augelli far festa? So che a pensare male spesso ci si prende e allora… Possibile che dopo l’incendio del Castello all’improvviso venga tolta la luce per ben quattro volte di seguito? E il giorno di Capodanno. C’entra l’Enel? C’entra qualcosa che a noi poveri mortali ovvero cittadini sfugge?

So solo che, saltando la luce ripetutamente, vanno in tilt il telefono fisso e i due cordless e la tv. E, orrore degli orrori, il boiler dell’acqua calda. E per fortuna ho amici gentili che mi hanno aiutato e che mi hanno permesso, dopo corse affannose sui rari taxi che stazionavano in piazza, a gestire in modo positivo il tutto.

Ma se fosse stata una ‘normale défaillance’ del servizio pubblico, avvertire costava tanto?

Non a caso ‘Frara’ sta diventando la città dei misteri e talvolta dell’horror.

Le assurdità non finiscono qui. Leggo con stupore che i due protagonisti ormai vecchi di un brutto film Giulietta e Romeo del sopravvalutato regista Franco Zeffirelli si sono rivolti agli avvocati per ottenere un risarcimento milionario dalla casa di produzione del film essendo all’epoca minorenni.

Ah! Ah! Ah! Figuriamoci quale trauma avrebbe provocato la vista sfuggente di un sedere o di una tetta anche se allora l’ipocrisia era una delle forme – peggio di oggi – dell’espressione artistica. Zeffirelli non ha mai raggiunto la grandezza poetica espressa nei nudi di Pasolini o Visconti che esprimevano arte. Nel primo era questione di business come del resto era la richiesta fatta ai due minorenni.

Come scrive il saggio Michele Serra su La Repubblica del 5 gennaio 2023 : «La nudità non è una malattia, non è un affronto: come è possibile che due anziani signori, si suppone di buona cultura, siano ancora offesi perché per esigenze cinematografiche, nonché per contratto, hanno dovuto levarsi gli slip negli anni in cui Mary Quant tagliava le gonne e l’intero Occidente cominciava a svestirsi?»

E oggi quando scrivo si celebra il giorno della Befana da sempre sognata con la calza appesa portatrice di doni e di carboni. Altro che Halloween e ‘dolcetto o scherzetto’! Era una figura mitologica alla stessa stregua delle figure del mito. Ora spazzatura consumistica con la sua scopa, il nasone e il camino, che difficilmente si trova nelle case.

Conduco letture lente e non esaltanti tuttavia oggi il nipote porta allo zio, un tempo dantista, il primo volume della Divina commedia (Hachette editore) spiegata e illustrata per i bambini. Delizioso. Continuerò a comprarlo nelle altre edizioni.

Resta da recarsi a tavola. E allora via ai ‘caplit’ in brodo, al lesso e ai dolci. Buon appetito! Anche alla Befana.

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