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Due proposte di legge per uscire dal neoliberismo e dar fiato alla spesa dei Comuni e alla partecipazione dei cittadini.
Parte oggi la raccolta firme.

Due proposte di legge per uscire dal neoliberismo e dar fiato alla spesa sociale dei Comuni. Parte oggi parte oggi la raccolta firme.

Oggi, 4 febbraio, parte un’iniziativa nazionale importante. Inizia infatti, in tutta Italia, la raccolta delle firme per presentare al Parlamento 2 proposte di legge di iniziativa popolare nazionale – promosse da Attac, Arci, Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, Fridays For Future e molti altri soggetti – relative alla riforma della finanza locale e alla socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti.

Testo della Proposta di legge riforma della finanza pubblica locale

Testo della Proposta di legge socializzazione Cassa Depositi e Prestiti

Le 2 proposte di legge (leggi sopra) intendono, da una parte, ridare autonomia economica e finanziaria ai Comuni e, dall’altra, rendere Cassa Depositi e Prestiti una Banca pubblica con la vocazione di sostenere gli investimenti degli Enti locali, in particolare quelli relativi ai Beni Comuni.

Ancora più in specifico, la prima proposta intende costruire un ruolo centrale per i Comuni nel poter affermare diritti fondamentali dei cittadini, facendoli ridiventare soggetti attivi nel promuovere la gestione pubblica e  le politiche sociali (ed economiche), in particolare in campi quali il patrimonio pubblico e i servizi pubblici, dall’acqua al ciclo dei rifiuti, da quelle riferite all’abitare alla conversione ecologica, dai trasporti pubblici alla cultura e altro ancora.
Lo fa garantendo sì l’equilibrio economico-finanziario degli Enti locali, ma svincolandolo dall’eredità del Patto di stabilità e dal meccanismo stringente del pareggio di bilancio, e affiancando ad esso l’obiettivo del pareggio del bilancio sociale, ecologico e di genere, guardando a questi strumenti come quelli in grado di soddisfare bisogni e diritti fondamentali dei cittadini.

La proposta di legge relativa alla socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti ha la finalità di mettere a disposizione l’ingente patrimonio che essa raccoglie con il risparmio postale dei cittadini (circa 280 miliardi di €) per finanziare, a tassi agevolati, gli investimenti dei Comuni nei settori sopra elencati e consentire alle comunità locali di intervenire efficacemente sulle priorità che esse individuano.

Possono sembrare finalità di puro buon senso e, infatti, esse, anche se in termini diversi e in modo parziale, hanno agito fino a circa 30 anni fa, agli anni ‘90 del Novecento, prima che intervenisse l’ondata del neoliberismo anche nel nostro Paese. Che ha assunto tratti particolarmente feroci proprio nei confronti del sistema delle autonomie locali e del settore bancario.

Con il Patto di stabilità degli Enti locali, la cui prima versione risale al 1998, e poi con il blocco delle assunzioni a partire dagli anni successivi, cui si è associato il taglio progressivo dei trasferimenti di risorse dallo Stato centrale ai Comuni, si è proceduto ad un forte contenimento della spesa corrente dei Comuni, alla privatizzazione di servizi pubblici fondamentali, alla svendita del patrimonio pubblico e ad un pesante ridimensionamento dell’occupazione a tempo indeterminato (e  all’innalzamento della sua età media), il tutto guidato dall’imperativo sempre più cogente del rientro dal debito accumulato.

Basta pensare che, dal 2013 al 2021, secondo quanto rilevato dalla Corte dei Conti, il debito dei Comuni si è ridotto di circa il 17%, mentre quello delle Amministrazioni centrali è aumentato di circa il 25%. Gli investimenti fissi lordi dei Comuni dal 2001 al 2019 hanno avuto un decremento del 45%, gli occupati a tempo indeterminato, come ha evidenziato la Fondazione IFEL- ANCI, sono passati da 430mila nel 2007 a 320mila nel 2021, con una diminuzione del 25%!

Dal canto suo, Cassa depositi e Prestiti, dapprima aprendo la possibilità ai Comuni di rivolgersi al mercato del credito e, soprattutto, dal 2003, quando essa è stata privatizzata, trasformandola da Ente di diritto pubblico a SpA e facendo entrare nel capitale sociale le Fondazioni bancarie, ha progressivamente dismesso la propria funzione di Banca pubblica finanziatrice a tasso agevolato degli investimenti dei Comuni per trasformarsi in un “normale” istituto di credito, anzi ha messo a disposizione le proprie risorse per sostenere i processi di privatizzazione dei servizi pubblici e per sostenere gli investimenti nei settori che garantivano margini di profitto più elevati.

L’incrocio di questi processi – vincoli stringenti alla spesa e al debito degli Enti locali e venir meno del ruolo di Cassa Depositi e Prestiti, due facce della stessa medaglia- ha fatto sì che i Comuni si sono ridotti ad un intervento pubblico minimo, che è sostanzialmente rappresentato da anagrafe e stato civile, Polizia municipale e il residuo di alcuni servizi sociali, dai nidi all’assistenza ad alcuni presidi culturali.

Gli anni della pandemia e gli interventi di “emergenza” che si sono approntati anche nei confronti dei Comuni, assieme ai provvedimenti che discendono dal Pnrr, hanno in parte alleviato questa situazione, riportando, almeno sulla carta, una possibilità di investimenti pubblici pari agli anni ‘ buoni’ dell’inizio del 2000 e garantendo una tenuta nella spesa corrente. Ma non si può sottacere che, in mancanza di una ripresa sostenuta dell’occupazione pubblica e un rilancio significativo della spesa corrente, tutto ciò non potrà che risolversi in un palliativo, incapace di invertire la tendenza in atto.

Per rendere più chiaro questo concetto, è sufficiente avere presente il paradosso per cui, per esempio, nel caso degli asili nido, ogni miliardo di investimento genera, per la loro gestione, maggiori fabbisogni di spesa corrente tra i 50 e i 250 milioni annui, risorse che ci sono per la prima voce, ma non per la seconda.

Per questo, senza un intervento di fondo, di carattere sistemico, i Comuni continueranno a svolgere un ruolo di pura amministrazione, con una sorta di “pilota automatico” che impedisce di intervenire sugli snodi del modello produttivo e sociale e che rischia di vanificare, quando anche ci fosse la volontà politica, la possibilità di mettere in campo scelte alternative a quelle che sono state prodotte negli ultimi decenni.

Il valore delle 2 proposte di legge di iniziativa popolare – oltre all’idea di costruire meccanismi di democrazia partecipativa nel definire le scelte sia dei Comuni sia della stessa Cassa Depositi e Prestiti- sta proprio in ciò, nel delineare un percorso di modifica radicale del ruolo e del sistema delle autonomie locali, in grado di affermare i diritti fondamentali delle comunità territoriali e di dotarli delle risorse che rendono possibile quest’obiettivo.

Per questo occorre che la raccolta delle firme arrivi ad un risultato ben superiore alle 50.000 sottoscrizioni che sono necessarie per presentare le proposte di legge in Parlamento.

La raccolta firma parte oggi e durerà per i 6 mesi successivi ed era previsto che la si potesse fare nel modo ‘classico’, cioè su moduli cartacei nei quali riportare i dati e certificare i requisiti dei firmatari, sia attraverso una piattaforma che consentisse le firme online, modalità prevista dal luglio scorso grazie ad una modifica legislativa che l’ha introdotta.
Peccato che il governo ha annunciato a metà del mese di novembre scorso che finalmente la piattaforma per le firme online era pronta, ma, da allora a tutt’oggi, essa risulta in una fase di test ( ma quanto saranno approfonditi, visto il tempo che si sta impiegando?) e quindi non è ancora agibile.
Non voglio avanzare pensieri maliziosi in proposito, che però vengono facilmente in mente; in ogni caso.

A Ferrara

Per l’intanto, in attesa che le criticità per le firme online si risolvano, le firme potranno essere apposte su moduli disponibili presso l’Ufficio elettorale del Comune a Ferrara, in via Fausto Beretta 19, dal lunedì al venerdì, ore 8-12 ; oppure al mercatino della Comunità Emmaus ( via Nazionale 95 – S. Nicolò) nelle giornate di martedì e giovedì dalle 8 alle 12 e sabato dalle 8 alle 12 e dalle 14 alle 18.

Firmare e far conoscere quest’iniziativa serve non solo dal punto di vista generale, ma anche per sostenere le battaglie che sono aperte anche a Ferrara, che, al pari di tante altre città, non è risparmiata dal furore di privatizzazione degli spazi e dei servizi pubblici.
Basta pensare all’idea di utilizzare il Parco Urbano Bassani a ridosso delle Mura estensi, patrimonio UNESCO, per svolgere il concerto di Bruce Springsteen.
Oppure al progetto FERIS, che mette insieme ristrutturazione di un ex caserma con un nuovo ipermercato e parcheggio, sempre sotto le Mura, in una logica tutta orientata al servizio di interessi e profitti privati.

Per non parlare del fatto che Hera continua a svolgere in proroga la gestione del servizio dei rifiuti, nonostante la concessione sia scaduta alla fine del 2017 e ci siano tutte le condizioni per arrivare alla ripubblicizzazione del servizio stesso.

Insomma, ci sono veramente tante e buone ragioni per firmare e far firmare queste proposte di legge di iniziativa popolare, per portare avanti una lotta che non sarà né semplice, né breve, ma che, sul serio, indica una strada che può tornare a far contare e dar voce alle persone che abitano le città e i territori.

In copertina: La partecipazione attesa (immagine tratta dal periodico ArcipelagoMilano)

Immaginario /
la linea sottile

Se ne parla spesso, troppo forse. Stare bene da soli per imparare a star meglio con gli altri. La solitudine l’abbiamo conosciuta anche in un’altra forma durante la pandemia, nella malattia, nella morte. Da tempo la affrontiamo in questa nostra era super tecnologica di così tanta connessione e sempre meno coesione. La cantava la Pausini accennando alla distanza fisica, ma poi ci sono coppie che la vivono costantemente anche in compagnia. Sentirsi soli anche in compagnia, lontano dalla realtà e da quelli che ci circondano.

Dicono che sia giusto praticarla per ritrovare se stessi,  sopratutto dopo un trauma. Rimanere in silenzio e in ascolto, non perdersi tra una folla che ci fa sentire più soli. Sempre agognata da scrittori, pittori, musicisti di ogni generazione, ti rigenera diventando fonte di creatività. Impari a conoscerti da solo o al massimo con un gatto che ti fa le fusa sulle gambe. Lui, amico non invadente, solitario, indipendente. L’individualità. Tutto troppo lontano dagli anni ’50, quando si crescevano i figli assieme a quelli dei vicini di casa e gli adulti erano tutti zii. Allora si chiamava socialità.

Ma questa è un’altra storia. Eppure che tu la scelga o che lei scelga te, serve a capire se stessi, centrarsi, e questo nessuno lo nega. “La solitudine può portare a forme straordinarie di libertà” diceva De Andrè. Per star bene, dicono, ce ne vuole una buona dose ogni giorno come la mela per il medico. Eppure c’è una linea sottile tra solitudine e chiusura. Quella che porta all’eccentricità e alla misantropia, ci sono persone che se la cuciono addosso come una seconda pelle. Perché si può capire se stessi anche sbattendo contro la pelle degli altri oppure abbracciandola.

Cover: foto di Ambra Simeone

Alfredo Cospito e la misera farsa della trattativa anarchici-mafia

Alfredo Cospito e la misera farsa della trattativa anarchici-mafia

Intervento di Luciano Muhlbauer, scritto per Milano in Movimento del 2 febbraio 2023.

Dalla trattativa Stato-mafia alla trattativa anarchici-mafia è un attimo, con la differenza che la prima era (era?) una tragica realtà, mentre la seconda è sostanzialmente una misera farsa politica.

Il punto vero è che a quasi nessuno importa di Cospito, di un ragionamento sul 41bis oppure su dettagli come la richiesta della Cassazione di una condanna per “strage politica” (art. 285 c.p.), cioè un reato invocato nemmeno in casi come la strage di Capaci o la strage di Bologna, quelle sì sanguinose e anche molto.

(Per la vicenda processuale di Alfredo Cospito ci sono tante fonti, ma qui ne indichiamo solo una: [Leonardo Bianchio su VICE]

Insomma, a quasi tutti importa altro. Al governo Meloni, che sul piano delle politiche economiche e sociali si muove in sostanziale continuità con Draghi e Monti, con la semplice aggiunta delle irritanti strizzatine d’occhio all’evasione fiscale, interessa fondamentalmente costruirsi dei nemici pubblici relativamente facili da colpire ed esibire, che siano i rave party, le navi delle Ong o gli anarchici.
Dall’altra parte c’è un’opposizione parlamentare debole, divisa e disorientata, con un Pd in cerca una certificazione di esistenza in vita e con un M5S aggrappato al suo giustizialismo, che si limita alla ricerca di un po’ di visibilità, approfittando della grottesca vicenda delle confidenze tra due camerati coinquilini che si passano informazioni riservate come se fossero ancora ai tempi di Atreju.

In fondo, basta spegnere per qualche ora la tv e usare invece il buon vecchio buon senso. Cioè, in regime di 41bis è impedito nella maniera più totale ogni contatto con l’esterno e l’unica comunicazione possibile è quella occasionale tra detenuti del 41bis del medesimo carcere, peraltro sempre monitorata, intercettata e registrata. Se un detenuto, qualsiasi sia il motivo della sua detenzione, fa uno sciopero della fame contro il 41bis pare piuttosto ovvio e scontato che altri detenuti, qualsiasi sia il motivo della loro detenzione, lo incoraggino, nella speranza che possa derivare qualche beneficio per loro. E, comunque, se poi non ne deriva nulla, sono mica loro a morire.

E questa sarebbe la trattativa anarchici-mafia? Senza contare il fatto che cosa nostra, ‘ndrangheta o camorra sono sì organizzazioni verticistiche, mentre l’area anarco- insurrezionalista è caratterizzata da sempre da rapporti orizzontali e fluidi e da una forte impronta individualista.

È quasi imbarazzante dover argomentare queste cose, ma lo stato delle cose è quello che è. Per quanto ci riguarda, penso che l’unica cosa da fare sia mantenere un minimo di lucidità e contribuire, ognuno e ognuna come può, perché Alfredo Cospito possa uscire dal 41bis e perché si possa aprire un minimo di dibattito serio e dignitoso.

Luciano Muhlbauer
Collabora con le testate di informazione alternativa on line
MilanoX e Milano In Movimento, è stato tra i portavoce del Genoa Social Forum nel 2001 e uno dei segretari nazionali del sindacato di base SinCobas fino al 2005. Dal 2005 al 2010 è stato consigliere regionale in Lombardia. www.lucianomuhlbauer.it/blog/

Cover: carcere di massima sicurezza (foto da Milano in Movimento) 

Lo spettro del gender che agita le notti della destra italiana

Lo spettro del gender che agita le notti della destra italiana

di Miki Buso

Maddalena Morgante di Fratelli d’Italia alla Camera si scaglia contro Rosa Chemical, reo di portare l’ideologia gender (?) a Sanremo.

Claudio Cia, di Fratelli d’Italia, con i colleghi di partito Ambrosi, Rossato e Guglielmi dell’Associazione Fassa, chiede di modificare la legge provinciale trentina sulla scuola del 2006, per impedire (cito) “la realizzazione di progetti o attività basati sulla prospettiva di genere, che promuovano la fluidità di genere o dell’identità sessuale, oppure che insegnino a dissociare l’identità sessuale dal sesso biologico”.

Nel mentre qui a Ferrara alcuni Consiglieri Counali della maggioranza di destra chiedono che si discuta prima possibile quanto avvenuto al Liceo Ariosto, portando avanti una fantasiosa tesi secondo cui l’identità di genere e la sessualità siano argomenti strettamente privati di cui non fare esibizione pubblica.

Questi sono solo gli ultimi tre esempi di ciò che evidentemente agita le notti tormentate degli esponenti della classe politica che ci governa, portandoli a fare incubi inverecondi: lo spettro del gender (che poi me lo immagino ‘sto fantasmino arcobaleno che appare in sonno sussurrando loro canzoni di Lady Gaga o Immanuel Casto. Che carino!).

Abbiamo un ricco buffet di problemi nazionali e mondiali tra guerra, crisi economica, crisi ambientale, crisi energetica eppure sembra che il primo grande nemico di questo Paese sia la corruzione delle giovani menti perpetrata da individui che lo attraversano mascherati da unicorni rosa.

Come membro della comunità queer, come persona pansessuale e non binaria, sono sinceramente stanca di vedere i nostri corpi e quelli delle persone che amiamo continuamente messi in discussione e strumentalizzati nella perenne campagna elettorale delle destre, nel bislacco tentativo di distrarre il popolino dalla loro incapacità. Ci dicono che certe cose dovremmo farle a casa nostra, ma poi non perdono occasione per puntarci contro il dito nel dibattito pubblico. Ipocrisia nell’ipocrisia.

Ci accusano di parlare di cose intime e di violare la privacy dei minori, ma poi mostrano una morbosa fissazione per le inclinazioni sessuali nostre e dei suddetti minori, quando in realtà lo scopo degli attivisti è soprattutto parlare di amore, di relazioni, di come ci si sente ad affrontare un mondo che ci discrimina, di come aiutarci e sostenerci a vicenda in questo percorso. La sessualità è solo uno dei tanti aspetti che compone le nostre identità, come compone quelle di qualsiasi altra persona, eterocisnormata o queer che sia.

Una domanda mi frulla in testa ogni volta che affronto questi discorsi: perché?
Ho avuto la fortuna (perché sì: ciò che dovrebbe essere la normalità è ancora da considerarsi una fortuna) di crescere in un nucleo famigliare in cui il dibattito è sempre stato molto aperto, stimolante e stimolato.
Questo mi ha portato a non riuscire a comprende i meccanismi che veicolano la paura del diverso, l’odio per ciò che non si conosce. Sono sempre stata abituata a cercare risposte nella curiosità della conoscenza, non nell’oblio della paura. E allora spiegatemelo: perché? Cosa porta tutto questo odio, questa discriminazione, questa paura? Cosa toglie, oggettivamente, alla vostra vita quotidiana l’esistenza di persone queer, con identità di genere e sessualità non conformi?

Ciò che come rappresentante della comunità queer desidero e chiedo ad alta voce da anni non è di superare l’eterocisnormatività, di vivere tutti fuori dal binarismo di genere, di forzare il cambiamento in chi già sa benissimo quale sia il proprio orientamento. Il mio desiderio sarà sempre e solo quello di essere libero di essere, di esistere. E che accanto a me, oltre alle altre identità queer, ci siano persone eterosessuali fiere di esserlo, persone che si riconoscono nel proprio sesso biologico, persone che decidono di vivere relazioni monogame. Tutti insieme con gli stessi diritti e gli stessi doveri. Amandoci.

Anche per questo ho accettato con grande gioia l’incarico di responsabile politiche per le persone trans* presso Arcigay Gli Occhiali d’Oro di Ferrara, per poter continuare a porre queste domande a chi si mostrerà contrario alla libertà di essere e amare senza discriminazioni.

 

Miki Buso
Responsabile politiche per le persone Trans*
Arcigay Ferrara Gli Occhiali d’Oro

Storie in pellicola /
“Effetto spettatore” nel corto Busline35A di Elena Felici

Dopo “Roberto” contro il bodyshaming, un altro corto denuncia un fenomeno sociale in preoccupante dilagare, l’“effetto spettatore”.

Detto anche bystander effect o bystander apathy, “apatia dello spettatore”, “effetto testimone” o “sindrome del cattivo samaritano”, si tratta di un fenomeno della psicologia sociale che si riferisce ai casi in cui gli individui non offrono alcun aiuto a una persona in difficoltà, in una situazione d’emergenza, quando sono presenti anche altre persone che assistono alla stessa scena.

In altre parole, indifferenza, dettata spesso dalla paura delle reazioni degli altri. La probabilità dell’aiuto è inversamente correlata al numero degli spettatori: maggiore è il numero degli spettatori, minore è la probabilità che qualcuno di loro aiuterà.

Furono John Darley e Bibb Latané, nel 1968, a studiare il fenomeno, studiando l’omicidio di Kitty Genovese nel 1964 (foto sotto), una donna che fu accoltellata a morte nei pressi della sua casa nel quartiere di Kew Gardens a New York.

I ricercatori effettuarono una serie di esperimenti, fra questo uno in particolare. Il partecipante è da solo o in un gruppo di altri partecipanti o alleati. Viene inscenata una situazione di emergenza e i ricercatori misurano quanto tempo occorre perché i partecipanti intervengano, se intervengono. Questi esperimenti hanno trovato che la presenza di altri inibisce l’aiuto, spesso di un largo margine. Le persone presumono, infatti, che vada tutto bene solo perché altre persone presenti non dimostrano di percepire alcunché di strano (quindi non vi è vera emergenza e il tempo di reazione varia anche in base alla norma sociale di ciò che è considerato etichetta ben educata in pubblico); vi è poi una diminuzione del senso di responsabilità avvertito da ciascun individuo quando sono presenti altri potenziali soccorritori. Anche l’ambiguità è un fattore che influenza se una persona assiste o no un’altra che ha bisogno. Nelle situazioni in cui lo spettatore non è sicuro se una persona richieda assistenza, il tempo di reazione è lento. Nelle situazioni a bassa ambiguità (una persona che grida aiuto) il tempo di reazione è più rapido che nelle situazioni ad alta ambiguità.

Nella cronaca recente, abbiamo visto tanti casi di Bystander Effect. Per tutti basti ricordare la tragedia dell’agosto 2017 di Niccolò Ciatti, un ragazzo toscano pestato a morte in una discoteca di Lloret de Mar, in Spagna. Coinvolto in una rissa, nel cuore della notte, per motivi ignoti. Dai racconti nessuno va in suo aiuto. Qualcosa paralizza tutti.

Il professore di psicologia Antonio Andrés Pueyo, interpellato all’epoca, ha fatto riferimento alla dissoluzione della responsabilità: ognuno delega all’altro l’intervento, creando di fatto immobilismo. Vi è anche apatia sociale, grave mancanza di empatia, frutto di paura, ma anche dei modelli educativi che stiamo perpetrando.
A parlare di questo crescente e inquietante fenomeno, un corto animato di 6 minuti della giovane regista italiana Elena Felici, realizzato in collaborazione con l’Animation Workshop del danese VIA University College di Viborg, dal titolo Busline35A.

Guarda il corto animato:

Testo in inglese, cliccando CC si trovano i sottotitoli in italiano

Al centro della storia una ragazzina timida che frequenta le scuole medie e ama la musica che torna a casa, su un bus serale/notturno, seduta in fondo, come spesso avviene. Chissà perché, ma molti giovani studenti amano sedersi in coda…

A una delle fermate un uomo dal fare losco sale e si siede vicino alla giovane donna, iniziando a infastidirla, a molestarla verbalmente e non solo. Ansia. Ansia che cresce.

Sullo stesso bus, a pochi sedili di distanza, sono presenti altre tre persone, i veri protagonisti silenziosi del film (non dell’azione).

Una signora anziana dal fazzoletto rosso legato sotto il collo e la giacca pesante, con le polpette un po’ troppo salate preparate per il figlio che nota come i sedili del bus non siamo i soliti, un vecchio signore che ha appena acquistato la bici elettrica per andare anche in montagna, con una riga di sangue sulla fronte che lo fa assomigliare a Clint Eastwood e, infine, una donna di mezza età che ha perso il lavoro qualche settimana prima, licenziata per un “comportamento poco professionale”. Sospira. Pensa a Giovanna d’Arco. Le donne della storia che hanno avuto coraggio non hanno fatto una bella fine. Essere eroi, pensa, non ripaga affatto.


Ognuno pensa a sé
, ai suoi problemi, alle sue piccole grane quotidiane, ognuno sente bene i commenti dell’uomo verso la ragazzina, ma tutti restano impassibili, come se non ci fossero né loro né quella scolaretta indifesa. Ciascuno è immerso nei suoi pensieri che risuonano ad alta voce, quasi a giustificare la loro inerzia e, dunque, alla fine, complicità.

Fino allo scampato pericolo, che avviene per puro caso. Solo perché il molestatore demorde. Non certo grazie all’intervento tempestivo di chicchessia.

Forte il contrasto fra quanto avviene in fondo al bus e le piccole e banali storie quotidiane dei complici silenti, spaventa molto questa vera paralisi collettiva.

La paura di trovarsi in situazione analoga.

E poi sorge la fatidica domanda, quella che ci facciamo tutti: se fosse toccato a noi, cosa avremmo fatto?

 

Pagina Facebook del corto

Cittadini che dicono No al FE.RIS.
tre flash mob: il primo è sabato 4 febbraio

Cittadini che dicono No al FE.RIS.

UN PROGETTO SBAGLIATO
CHE OFFENDE LA NOSTRA CITTÀ

Sabato 4 febbraio
dalle ore 10,30 alle 11,00

in via Scandiana 16

FLASH MOB

Partecipate, fate partecipare, passate parola.
Portate un cartello con il vostro perché NO al FE.RIS

Per una città libera dal traffico e dal cemento. Per una città democratica, non privatizzata, che guarda al suo futuro.

Per dire NO a Fe.Ris, il progetto che svende ai privati l’ex caserma Pozzuolo del Friuli, dove verranno aggiunti nuovi volumi di edificazione alti 18 metri, e che cementifica aree di pregio in prossimità delle Mura: in via Volano, per realizzare un parcheggio, in via Caldirolo per l’ennesimo ipermercato.

Perché è un progetto che viene spacciato per “riqualificazione urbana”, mentre invece si preoccupa soltanto degli interessi di pochi privati, togliendo verde alla città, peggiorando il traffico e ferendo il nostro patrimonio storico.

Perché l’area dell’ex Caserma Pozzuolo del Friuli è un bene pubblico e come tale deve essere utilizzato. Non può essere “regalata” ai privati un’area di straordinario valore artistico e urbano come questa, per realizzarvi uno studentato privato, residenze private e una “food court”.

Perché i cittadini devono essere coinvolti nella progettazione della città e nelle scelte che li riguardano.

forumferrarapartecipata@gmail.com
https://ferrarapartecipata.it/

Napoli concede la cittadinanza onoraria a Julian Assange

Napoli concede la cittadinanza onoraria a Julian Assange

Il 31 gennaio, a grande maggioranza, il Consiglio Comunale di Napoli ha deliberato la concessione della cittadinanza onoraria a Julian Assange, aderendo all’appello lanciato da Adolfo Pérez Esquivel.

Si tratta della prima grande città europea, capoluogo di regione, che concede la cittadinanza al giornalista australiano attualmente detenuto a Londra e in attesa dell’estradizione negli Stati Uniti ed è anche un segnale che fa ben sperare dopo altri tentativi falliti di mozioni simili in vari capoluoghi italiani.

La notizia fa ben sperare anche per l’esito della prossima manifestazione mondiale a favore di Assange e in appoggio alla protesta di Londra “Global Carnival for Assange“,  di cui Pressenza è media partner, che si svolgerà l’11 febbraio nelle piazze di tutto il mondo.
Per aderire alla manifestazione Carnevale Globale per Assange [leggi su Periscopio]

Cover: Gli attivisti di Free Assange Napoli aspettano nel pubblico (Foto di Free Assange Napoli)

Parole a capo
Doris Bellomusto: “Astolfo sulla luna” e altri inediti

La luna è l’anima, è il nostro modo di vivere le emozioni, i desideri, i sogni. La terra è la realtà, il luogo in cui lottare con i rimpianti e le delusioni.
(Romano Battaglia)

Astolfo sulla Luna

Non mi basta mai
il cuore che divoro.
Inciampo nella fame.
Mastico sangue e pane
sapido, quanto basta
a sciogliere il ghiaccio
di ogni perduto sogno.
Astolfo sulla luna
mi accarezza le ginocchia,
lecca le ferite
da me dimenticate.
Guardo la terra da qui
e so di non esistere.

 

Le figlie della luna

Non muore al tramonto
nè nasce all’alba
il sole
presta la sua luce
al tempo

indifferente
al seme che germoglia
al frutto che matura
e alla paura
così è il mio sangue
linfa grezza fra cuore e ventre
germoglia sottopelle
un’altra identità
e ancora non conosco
la mia età.
Le figlie della luna
sono ibride creature
senza tempo

 

Nel pozzo

Di domenica
mescolo l’ozio all’inerzia;
traccio la strada alla lumaca;
conservo sotto sale i dubbi
raccolti a margine del giorno
da lunedì a sabato;
pascolo le mie ambizioni;
rimugino desideri,
esco da me, salto il fosso,
trovo rifugio nel pozzo.
Raminga e finta luna
so che nessuno mi troverà.

 

Miserere

Alle tre del pomeriggio
aleggia tremula
l’inquieta attesa
della foglia che non sa
cadere
e chiede al vento
Miserere.
La morte
quasi mai è puntuale
si aggrappa al tempo
lieve dei minuti
e bianco è il lutto
delle ore
se l’aria è ferma
e nevica silenzio.

 

Turandot

Astuta Turandot
inganno l’attesa
cantando.

Nessun dorma!

Può bastare un oblò
per guardare il cielo
attendere l’enigma
e il mistero.

Doris Bellomusto si è laureata in lettere classiche presso l’Università della Calabria, insegna materie letterarie presso il “Liceo G. Pascoli” di Barga, in provincia di Lucca, dove vive dal 2011. Non ha mai dimenticato né i suoi studi classici né le sue radici meridionali. Dalle sue inestinguibili nostalgie sono nate le raccolte di poesie “Come le rondini al cielo”, edizioni “Tracce”, pubblicata nel Marzo 2020; “Fra l’Olimpo e il Sud“, Poetica edizioni, Luglio 2021; “Nuda“, Ladolfi editore, Giugno 2022. Alcuni suoi scritti sono presenti in varie antologie poetiche.

La rubrica di poesia Parole a capo, curata da Pier Luigi Guerrini, esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca[Qui]

“Le musiche… interrotte”
Danze e canti ebraici e rom in Piazza Municipale

“Le musiche… interrotte”

Si respirava proprio un’aria di libertà e di ripresa, la mattina di venerdì 27 gennaio a Ferrara in Piazza Municipale, mentre i musicisti sistemavano strumenti e microfoni e amplificatori e bambini e bambine della scuola primaria Poledrelli, ragazzi e ragazze della secondaria Tasso si collocavano a formare due cerchi concentrici attorno alla bandiera della pace stesa per terra.

Fondamentale, per questo evento organizzato, in occasione della Giornata della Memoria dall’Associazione Culturale e scuola di musica Musijam in collaborazione con l’Istituto Comprensivo C. Govoni, l’immagine del cerchio: lo ‘spettacolo’ prevedeva l’esecuzione di due danze ebraiche e una zigana, per illustrare le quali mi piace riportare le parole di un allievo:

«per non dimenticare i bambini e i ragazzi e le persone vittime della Shoah eseguiremo danze ebraiche e rom, tenendoci per mano e muovendoci in cerchio.  Il cerchio è un simbolo presente in molte tradizioni religiose e rappresenta il cerchio della vita senza inizio e senza fine, esprime il senso di appartenenza ad un gruppo, ad un popolo; nel cerchio i danzatori si guardano e comunicano, si è tutti sullo stesso piano».

I due cerchi concentrici (foto Maria Calabrese)

Il ragazzo ha poi ringraziato, a nome dei suoi compagni e delle docenti, la maestra Isabella Gallesini (coordinatrice del gruppo Danze Insieme) per aver insegnato loro i balli.

Il progetto, elaborato dai docenti della scuola Musijam e indirizzato agli istituti scolastici, ha il significativo titolo “Le musiche… interrotte” e intende, facendo risuonare quelle note e quei canti drammaticamente interrotti dalla Shoah, rievocare alcuni aspetti peculiari della vita di Ebrei e Rom, quelli legati alle feste di comunità rallegrate da musiche e danze.

Ebrei e Rom insieme perché, alla luce di precise scelte culturali derivanti da accurate ricerche nel campo dell’etnomusicologia, non si vogliono individuare distinzioni nette tra le culture di ebrei e zingari, i quali hanno abitato le medesime terre ed elaborato tradizioni simili, al punto che si ritrovano numerose versioni diverse dei medesimi brani.

Il territorio di riferimento delle musiche eseguite e danzate, come hanno illustrato alcuni allievi, è quello dell’Est Europa, dove «ancora agli inizi del Novecento troviamo una grande comunità, caratterizzata dall’uso della lingua yddish; sono gli eredi di quegli Ebrei che giunsero in Europa nel primo secolo dopo Cristo, seguendo la via Ashkenazita, mentre altri, percorrendo la via Sefardita, si stabilirono nella penisola Iberica.»

L’Ensemble musicale, formato da Elio Pugliese alla fisarmonica, Marco Vinicio Ferrazzi al canto, Emanuele Zullo al basso, Diego Insalaco alla chitarra e Giampietro Beltrami alla batteria, ha iniziato la propria esibizione con due composizioni in lingua yddish: Shprayz Ich Mir (Alla Fiera) e Dona dona.

Il primo è un brano dalla ritmica trascinante, che quasi subito ragazzi e adulti presenti nella piazza hanno preso ad accompagnare battendo le mani e penso che avrebbe divertito tutti conoscerne il testo: narra la vicenda di un uomo che si reca al mercato per comprare un cavallo, ma non sa resistere davanti alla porta aperta dell’osteria e, un bicchierino dietro l’altro, si beve tutto il denaro e fa salti dalla rabbia, ma intanto si canta una canzoncina…).

Dona dona è, nell’immaginario dialogo fra il contadino e il suo vitello, una riflessione sulla tragedia della deportazione nei campi di sterminio. Un vitello viene portato al mercato su un carro (dona dona indica il suo incedere), osserva in alto una rondine e chiede, piangendo, perché non può essere libero come quell’uccello che vola lassù, sopra il suo capo. Ma il contadino gli risponde che è nato vitello e non rondine, e quello è il suo destino, anche se non ne ha alcuna colpa.

Nella versione inglese, resa famosa da Joan Baez nel 1960 e Donovan nel 1965, l’ultima strofa invita a comprendere l’importanza dell’autodeterminazione e a farsi rondini, non umili gigli nei campi, ma uomini dalla volontà e dalla coscienza irriducibili.

Ed ecco che si comincia a danzare! Ma Navu è una danza calma, ben ritmata e relativamente moderna, ballata su musica con melodia tipicamente orientale; il testo, a mio parere molto bello,  è ispirato a un versetto di Isaia: Come sono belli, sui monti, / i piedi del messaggero di buone notizie / che annunzia la salvezza / che annunzia la pace.

Si prosegue con Klezmer-Chava, danza chassidica, allegra e vivace; paradigma fondamentale del  Chassidismo è praticare la preghiera attraverso il canto e la danza, che esprime gioia, rispetto davanti al Signore e comunione; «le tue danze sono più efficaci delle mie preghiere», recita un detto chassidico citato da uno studente.

La musica klezmer (letteralmente ‘strumento per fare musica’), nata all’interno delle comunità ebraiche dell’Europa orientale, fonde in sé strutture melodiche, ritmiche ed espressive che provengono dalle differenti aree geografiche e culturali (Balcani, Polonia, Russia, Ucraina e altri territori dell’Europa Centro-Orientale) con cui il popolo ebraico è venuto in contatto.

La successiva danza è Ederlezi, che – ci dicono gli studenti – «appartiene alla tradizione Rom, con il testo in lingua romanì; il titolo significa ‘primavera’ e si riferisce a una festività serba che si celebra il 6 maggio (nel calendario gregoriano, nel nostro il 23 aprile), molto sentita dai Rom di tutto il mondo. Con questa danza vogliamo ricordare che, oltre agli Ebrei, anche i Rom furono perseguitati dai nazisti e dai loro alleati: circa 500.000 Rom furono deportati nei campi di sterminio; in lingua romanì esiste il termine porajmos che significa ‘distruzione’.»

Gli ultimi due brani eseguiti dall’Ensemble Musijam sono Karev yom e Hava Nagila.

Il primo Karev yom, il cui titolo significa ‘il giorno si avvicina’, viene cantato durante il primo e il secondo Seder (‘ordine’ o ‘sequenza’) di Pesach (‘Pasqua ebraica’); esprime la speranza e la brama per la redenzione finale, che avverrà in un tempo in cui non ci saranno più né giorno né notte. Le parole sono tratte dall’ultimo versetto di un poema liturgico del VI-VII secolo, che elenca una serie di eventi miracolosi, tutti, secondo la tradizione, avvenuti alla mezzanotte di Pasqua, riguardanti il ritorno dall’esilio o l’alleviamento delle sofferenze causate dall’esilio.

Hava Nagila (‘rallegriamoci’) è una canzone ispirata ad una melodia ucraina della Bucovina; è stata composta dal musicologo Abraham Zevi Idelshon nel 1918 per celebrare la vittoria inglese in Palestina al termine del primo conflitto mondiale, con la conseguente dichiarazione di apertura da parte del governo britannico nei confronti della creazione di una National home ebraica in Palestina.

L’evento, inserito nel programma delle manifestazioni patrocinate dal Comune di Ferrara per la Giornata della Memoria, si è aperto con gli interventi dell’Assessora alla Pubblica Istruzione e Formazione Dorota Kusiak e della Dirigente Scolastica dell’Istituto Comprensivo C. Govoni Anna Bazzanini.

Kusiak ha sottolineato il compito storico, che spetta a tutti noi, di tornare a fare memoria ogni anno della Shoah, ricordando i bimbi, i professori nelle scuole, le famiglie, gli enormi numeri che riguardano i perseguitati.

Anna Bazzanini, ponendo l’accento sul ‘finalmente’, ha evidenziato che: «finalmente dopo due anni di sospensione si torna a manifestare per la pace, per la fratellanza fra i popoli e le culture; finalmente le classi della primaria Poledrelli e della secondaria Tasso sono tornate, e continueranno, a celebrare la Giornata della Memoria in questa piazza, con le loro danze in cerchio, anche in rappresentanza delle altre scuole che stanno svolgendo diverse altre manifestazioni, per dire no all’odio, no alla violenza, no al pregiudizio, no alla guerra, no al razzismo, per dimostrare, assieme ai loro docenti e agli amici dell’Associazione Musijam, la volontà di abbattere ogni muro e costruire ponti di pace, di dialogo, di fratellanza, tolleranza e rispetto nei confronti di tutte le culture.

Nel ricordare l’apertura e la liberazione del campo di Auschwitz e la scoperta dell’orrore di quello che accadeva nei lager, si vuole dire no e costituire, noi che stiamo per occupare tutta la piazza, ‘pietre d’inciampo’ su cui fermarsi, per non dimenticare e per dire a Liliana Segre che questa giornata non sarà mai confinata in due pagine nei libri di storia, finché sarà la scuola a portare avanti questo ricordo e la Memoria».

In copertina: uno dei due cartelloni dal titolo ‘Pietre d’inciampo’ realizzato dagli studenti delle classi per l’evento, foto di Maria Calabrese

ACCORDI
20 anni di Permission To Land, l’esordio folgorante dei Darkness

20 anni di Permission To Land, l’esordio folgorante dei Darkness

Il rock è morto, viva il rock.
Le presunte, e a volte forzate, resurrezioni del rock’n’roll ci accompagnano da almeno trent’anni, solleticando quel mix di nostalgia e curiosità che risiede in ciascuno di noi. La verità è che il rock non se n’è mai andato, così come qualsiasi altro genere musicale. Si è semplicemente trasformato, adattandosi all’evoluzione della società e alimentandosi della sua stessa linfa vitale.

Una delle tappe più sfavillanti e autoreferenziali di questa trasformazione risale a vent’anni fa, e precisamente all’irresistibile Permission To Land, disco d’esordio degli inglesi The Darkness. Nella decade dell’indie e dell’hip hop, la band di Lowestoft dette una bella spolverata a tutti quei cliché che associamo al rock degli anni ’70 e ‘80: sound robusto, vocalizzi e abiti glam, assoli selvaggi e presenza scenica travolgente. Insomma, ascoltando Permission To Land è difficile non divertirsi.

Sì, i suoni, la struttura e i testi degli undici brani li abbiamo già sentiti, eppure, funzionano senza alcun intoppo. E poi, soprattutto, l’estensione vocale di Justin Hawkins colpisce sin dal primo ascolto, così come il crescendo emotivo delle due ballate Love Is Only A Feeling e Holding My Own. Il pezzo a cui sono più affezionato è la scanzonata Friday Night, la cui ricetta è più o meno la seguente: prendete le sonorità e il gusto melodico di Brian May, aggiungeteci la spensieratezza del cantato di Robert Smith, e il gioco è fatto.

Dopo Permission To Land, il successo commerciale dei Darkness vivrà una parabola discendente, complice la dipendenza dalla cocaina di Justin Hawkins – un altro cliché del rock’n’roll da aggiungere alla lista. Tuttavia, negli ultimi dieci anni la band inglese ha pubblicato ben cinque album, e lo stesso Justin Hawkins si è fatto notare per il suo canale YouTube Justin Hawkins Rides Again [Qui], nel quale il frontman dei Darkness commenta con leggerezza, ironia e un bel po’ di competenza tutto ciò che gli passa davanti: dai singoli più chiacchierati del momento alle discussioni sul futuro dell’industria musicale, passando per le immancabili provocazioni acchiappaclick. Il risultato è uno show godibile e interessante, oltre che sufficientemente strambo. Un po’ come la musica dei Darkness, insomma.

Vite di carta /
Le scarpe perdute e i libri trovati a mezzanotte

Le scarpe perdute e i libri trovati a mezzanotte

Che ora, la mezzanotte. L’ora delle streghe. L’ora di Cenerentola, quando la carrozza che l’ha condotta alla reggia per il ballo si dissolve in una zucca e la magia finisce. L’ora per andare a letto: fino a due anni fa alle 24 dormivo da un pezzo  e la sveglia per preparare la mia giornata a scuola era puntata all’alba, ora ci chiudo la giornata salendo le scale per coricarmi a leggere un po’.

Nell’ultimo libro che ho letto Nora Seed, una trentacinquenne infelice che vive in una piccola città inglese, a quest’ora entra in una biblioteca misteriosa che contiene infiniti libri dalle infinite sfumature di verde. Altro elemento magico, è evidente.

Nora come Cenerentola ha attirato su di sé un sortilegio: ha una vita infelice ed è dominata dai rimpianti. La tormenta il pensiero delle scelte inautentiche che ha fatto nella vita, ancor più la tormentano le altre opzioni, quelle che ha scartato. Sente di essere solo pura sofferenza e decide che non vuole più vivere…

La biblioteca in cui si ritrova ha regole molto precise e una bibliotecaria irreprensibile nel farle rispettare. Si tratta di Mrs Elm, Nora la ricorda per i modi gentili con cui prestava i libri agli studenti nella scuola della sua infanzia. Ora è qui a consigliarle come scegliere i volumi che scorrono sugli scaffali in un moto senza inizio e senza fine. Ogni volume è una vita diversa, basta aprirlo per ritrovarsi dentro una di loro.

E Nora procede, libro dopo libro viene proiettata in una versione alternativa di sé e del suo vissuto: sta ancora con una persona con cui ha rotto i rapporti, fa un lavoro che non ha accettato,  segue la carriera di nuotatrice olimpionica, diventa una glaciologa, è una famosa cantante rock, una madre e moglie felice e via dicendo. Vita dopo vita, Nora cerca la risposta alla domanda di tutte le domande:  “E se potessi tornare indietro e cancellare i tuoi rimpianti, cosa faresti in modo diverso”?

Leggo alcune recensioni del libro e ripenso alla conversazione che c’è stata giorni fa nel gruppo di lettura di cui faccio parte; mi occorre avere le bussole degli altri, perché la mia è ondivaga e sembra non trovare il Nord. Questo libro mi ha catturata all’inizio, quando la biblioteca-limbo, in cui Nora è appena entrata, le mette davanti infinite alternative di vita.

Poi ho avvertito una certa ripetitività nel racconto: a ogni ingresso in un nuovo libro-vita la protagonista ne mette a fuoco i punti di forza, si adegua alla nuova sagoma di sé e poi, al primo segnale di imperfezione, di insoddisfazione, scivola via e continua la ricerca della vita migliore.

Qualche altro lettore dice di avere capito a questo punto quale sarebbe stato il finale. Io confesso che no, non ho voluto andare alle conclusioni, come mi è capitato altre volte ho sospeso di rielaborare la storia e me la sono lasciata versare addosso. E quando sono arrivata al finale non l’ho trovato così scontato.

Il finale è che Nora comprende l’inutilità dei rimpianti, tocca con mano che ogni vita è imperfetta e che non sappiamo se da scelte diverse potessero scaturire vite migliori. Nora alla fine è pronta a vivere la sua vita di prima: quando la Biblioteca di Mezzanotte si dissolve (e la dissoluzione dipende da lei) lascia il limbo tra vita e morte e si ritrova nella propria casa a fare i conti con la solita quotidianità.

Ora però è determinata a giocare la partita, a esplorare le potenzialità che questa vita le offre per essere felice. Dice: “Non è necessario giocare tutte le partite per rendersi conto di cosa significa vincere”. Che Nora sappia di poter vincere hic et nunc è una lezione che non fa mai male ripetere, in più nel libro ci sono molte citazioni del filosofo David Thoreau che bene esprimono l’idea. Hanno anche ragione le lettrici insoddisfatte da un finale così banale, tuttavia mi viene spontaneo rivalutarlo in base a un sano repetita iuvant.

Penso anche alle riflessioni profonde che Nora fa quando chiama in causa dalla fisica quantistica la teoria del “multiverso”, dell’esistenza cioè di mondi alternativi a quello in cui viviamo. Dalla molteplicità del soggetto, a cui ci avvia il nuovo paradigma della conoscenza all’inizio del Novecento, alla molteplicità dei mondi: è il passo compiuto dal pieno secolo XX che investe anche il primo ventennio del XXI. Anche in questo il romanzo di Haig mette una delle sue radici e mostra di estendersi anche in profondità, non solo nella enumerazione delle vite possibili.

Ascolto l’autore in una breve presentazione del libro che ho trovato in rete e colgo un ulteriore aspetto della sua narrazione, quello introspettivo. Haig ammette di avere pensato alla morte e alla infelicità in un momento di depressione e assegna alla scrittura della storia di Nora un potere catartico, se non salvifico addirittura. Per sé stesso, prima di tutto.

Comprendo meglio perché nella scrittura ha esplorato così tante vite e finalmente metto a fuoco cosa penso del finale:  mi è chiaro che a lasciarmi perplessa non è tanto la sua prevedibilità, quanto la visuale piatta con cui Nora riprende la sua vita, l’individualismo come unico orizzonte.

Nessuna considerazione sociale, nessun riferimento alla formazione che ha ricevuto dalla società inglese, alle coordinate storiche. Solo i condizionamenti che ha subito sul piano esistenziale, il peso su di lei delle aspettative della famiglia e di poche altre persone davvero importanti.

È salita come Cenerentola su una zucca incantata, che nel suo caso è la Biblioteca sospesa tra la vita e la morte, ha abitato il non-tempo della mezzanotte. Eppure ha manipolato le tante varianti di sé più extensive che intensive, per dirla con Galileo. Con una profondità di sguardo che si è fermata a metà.

Nota bibliografica:
Matt Haig, La biblioteca di mezzanotte, Edizioni E/O, 2020 (traduzione di Paola Novarese)

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

Europa portaerei. Europa dei 17 muri, Europa gregaria degli Stati Uniti…
Alla ricerca del proprio spazio vitale

Europa portaerei. Europa dei 17 muri, Europa gregaria degli Stati Uniti…
Alla ricerca del proprio spazio vitale

Nel trentennio che va dal 1915 al 1945 l’Europa si è retrocessa a continente di serie B a favore dell’America (del Nord) che è diventato Impero e si è sostituita nel compito di guidare il mondo. L’intervento nella seconda guerra mondiale è stato decisivo. Una volta messo piede, sbarcati, nei luoghi da cui erano partiti trecento anni prima hanno deciso di non andarsene più, iniziando una colonizzazione al contrario.

Finita la guerra l’Europa si trovò divisa a metà, da una parte gli americani e dall’altra i sovietici. Ognuno rimase sulle posizioni guadagnate per paura, o grazie, alla presenza dell’altro. Si costruì un muro che ancora oggi simboleggia l’idea della divisione del mondo tra buoni e cattivi, di idea contrapposta di come sia giusto immaginare la società e il futuro, di falsità ideologiche. Forse due modi simili nel fine, quello di controllare le masse e i destini delle genti.

Poi i sovietici si ritirarono, sparirono coperti dai loro errori, orrori, e mezza Europa si liberò ritrovandosi più povera e troppo diversa in tema di sviluppo economico e sociale per essere accettata dall’altra metà, cresciuta con il mito dell’America, della conquista del West e delle immense praterie dove correvano felici i bisonti (più o meno).

Ma mentre questo succedeva, e mentre nasceva la nuova Russia dalle ceneri di quello che era stato un grande impero che ne aveva assorbito e miscelato un altro, i cosiddetti paesi dell’Est, abbandonati a se stessi, senza un padrone, diventavano una grande prateria a loro volta da occupare.

Per qualche anno regnò l’incertezza, poi passo passo gli americani decisero di muoversi al di là dell’ex cortina di ferro, riuscendo a coprire tutti gli spazi ex sovietici, eccezion fatta per la Georgia e l’Ucraina. Effetti della ripresa della storia che Fukuyama aveva interrotto troppo precipitosamente nel 1991.

Dopo la seconda guerra mondiale i vincitori decisero di rimanere sui territori conquistati giustificando la scelta con la presenza dell’altro. Quando finalmente uno dei due collassò, perché l’altro non prese una decisione conseguente decidendo di smantellare l’apparato bellico post guerra mondiale? Non bastava l’amicizia dei trattati, la consolidata saldatura dei rapporti commerciali e l’identità oramai certa della cultura occidentale? Fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio, si saranno detti. E allora, ancora prima della guerra in Ucraina, a oltre settant’anni dagli sbarchi in Normandia e in Sicilia, l’Europa rimane costellata di basi americane e Nato.

La Nato nasce nel 1949 come strumento di difesa dall’Urss a cui si contrappose qualche anno dopo il Patto di Varsavia creato per gli stessi motivi a parti inverse. Dopo la dissoluzione dell’URSS diviene strumento di offesa, ovviamente per difendere la pace e la stabilità occidentale nel mondo. Cioè laddove l’Occidente ritiene che ci sia un pericolo per l’Occidente, può attaccare in quanto si sta difendendo in anticipo. Il comando militare della Nato è affidato a un generale americano e il suo vice è un generale britannico, questo dal 1949 non è mai cambiato e continua a segnare un confine tra vincitori e vinti.

Nel 2005 in Europa c’erano circa 100.000 soldati americani, numeri successivamente in calo per poi tornare a quei livelli a fine 2021. Tutti i paesi dell’ex blocco sovietico che erano già entrati a far parte della Nato, quindi inglobati nell’area occidentale, sono stati rinforzati da truppe d’Oltreoceano. Nuove basi sono spuntate nelle praterie liberate negli anni ‘90.

L’Europa assomiglia sempre più a una portaerei pronta a lanciare missili e aerei. Per quanto ancora l’opzione nucleare rimarrà un’opzione? Il vecchio continente pullula di soldati, armamenti e … muri.

Abbattuto il vecchio e anacronistico muro di Berlino, simbolo dell’esistenza di ideologie sconfitte dalla storia, oggi se ne sono costruiti tanti altri con il beneplacito della non ideologia europea.

Insieme al muro di Berlino c’erano i muri di Cipro e dell’Irlanda del Nord, dagli anni ’90 del passato secolo si sono costruiti una serie di muri allo scopo di difendere la civile Europa dai migranti, i ricchi dai poveri, il benessere dal malessere. A guardarli però sulla cartina assumono un significato ancora più sinistro, una riedizione del muro più famoso spostato molto più ad Est. Tutti giustificati dalla presenza dei migranti che cercano di raggiungere l’Europa utilizzando percorsi sempre più a Nord per evitare gli oramai noti muri balcanici. Quindi una linea che percorre da Nord a Sud i confini tra l’Europa e la Russia e i suoi (pochi) alleati.

La Norvegia, Lettonia ed Estonia hanno costruito muri ai confini con la Russia per più di 200 km. I Lituani hanno cominciato a costruire 550 km di muro ai confini con la Bielorussia anticipandone gli esiti con il filo spinato.

La Polonia, sempre per isolare Lukashenko che per destabilizzare l’Europa lasciava passare troppi migranti, ha ultimato nel 2022 un muro di 186 km, contemporaneamente ha accolto a braccia aperte milioni di profughi ucraini. Espressioni diverse di umanità.

In ultimo la Finlandia con il governo di Sanna Marin che ha ricevuto il via libera all’unanimità da tutti i partiti rappresentati del Parlamento alla proposta di costruzione di una recinzione di acciaio di 260 chilometri, che coprirà un quinto della lunghezza totale del confine con la Russia, che ricordiamo essere di 1.340 km.

Insomma, con un occhio ai migranti indesiderati e un altro allo scomodo vicino, l’Europa consta di 17 muri che un po’ difendono da ciò che ci sembra palesemente altro e diverso: Russia, Nord Africa e Asia. Un po’ dalle nostre paure antiche, quelle in cui non avevamo un protettore unico (la Grecia e la Bulgaria si difendono dai Turchi, la Macedonia dalla Grecia, paesi balcanici da altri paesi balcanici, la Gran Bretagna dalla Francia).

L’Europa di oggi è figlia di un grosso equivoco. I diritti umani, i diritti universali, la libertà individuale e tutte le belle cose di cui si è scritto e si scrive in continuazione e di cui si parla in eccesso è stato il prodotto della pax americana assicurata al prezzo dell’indipendenza. Abbiamo fatto finta di non vedere migliaia di soldati che mantenevano una pace armata, chiamata anche guerra fredda. Finto di credere in cambi di governo o di maggioranze parlamentari che nulla potevano cambiare mentre rispondevamo all’appello in tutte le missioni di pace che nulla avevano a che fare con le meravigliose idee di cui l’Europa si cingeva l’elmo.

Abbiamo vissuto di un benessere e di una pace in casa, che ci è piaciuta e di cui abbiamo goduto, ma nulla è gratis. Qualcosa bisognava pagare e magari ci è anche andata bene, visto che per secoli siamo stati in continua guerra fratricida, incapaci di trovare il bandolo della matassa. Abbiamo dovuto suicidarci e affidarci ad altri per rinascere, magari va bene così.

L’importante è capire chi siamo, i nostri limiti e fin dove possiamo spingerci.
Dovremmo capire che la guerra fredda è finita e con essa l’unica pace a cui siamo stati capaci di arrivare per non trasformarci in un nuovo campo di battaglia. È essenziale oggi crearci uno spazio di manovra, imparare a coltivare il nostro orticello nell’ambito dell’impero, provare a realizzare, cioè rendere reale, quanto scritto e detto negli ultimi settant’anni di torpore intellettivo.

Il sindaco di Ferrara e l’assessore alla cultura sbeffeggiano i difensori del parco urbano

Cominciamo dalla furbissima, e assai offensiva tattica di chi governa Ferrara (per chi non lo sa, a Ferrara da 3 anni e mezzo impera la Lega per Salvini). In poche parole: vi facciamo aspettare fino alle 8 di sera con interventi e sproloqui per dirvi: a che servono le firme, a che servono le petizioni, i flash mob, gli striscioni? A niente, tanto noi abbiamo già deciso mesi e mesi fa. Il concerto si farà al parco, punto e basta.
Ma non basta neppure il piglio decisionista, cari difensori degli uccellini, vi prendiamo anche in giro….

“ Questa petizione è stata proposta da 593 firme, cioè lo 0,4% dei cittadini. Allora vuol dire che il 99,6% dei ferraresi è favorevole al concerto. Ma, democraticamente, anche allo 0,4% è concesso di esprimersi”. Così l’assessore alla cultura Marco Gulinelli inizia il suo intervento nel Consiglio comunale di Ferrara, sbeffeggiando l’utilizzo degli strumenti di partecipazione popolare.

La Giunta comunale di Ferrara ha così bocciato i tre quesiti della petizione, proposta per chiedere di spostare la sede del Grande Concerto del prossimo 18 maggio, quando arriverà in città Bruce Springsteen per la prima tappa del suo atteso tour europeo. La maggioranza del Consiglio Comunale ha avallato quella bocciatura, dopo una prolissa relazione dell’assessore, che ha dedicato pochi minuti ai tre quesiti posti dalla petizione, e altri 50 all’autocelebrazione dell’evento, peraltro mai messo in discussione dai proponenti.

Le firme erano state raccolte per iniziativa del Comitato Save the Park con l’unico obiettivo di salvaguardare l’area del Parco Urbano, intitolato allo scrittore e fondatore di Italia Nostra Giorgio Bassani, dall’assalto dei circa 50.000 possessori dei biglietti.
Si tratta di un’area agricola rinaturalizzata e piantumata oltre 30 anni fa, a ridosso delle mura della città patrimonio dell’Unesco, ormai sede di avifauna stanziale e migratoria, destinata ad essere martoriata da tir, installazioni di servizio, decine di migliaia di bipedi, decibel sparati senza ritegno. Un ecosistema complesso che, tra montaggio, due giorni di musica e smontaggio, per due settimane subirà effetti deleteri e non reversibili, naturalmente negati dagli esperti convocati nella cabina di regia municipale.

Circa 30 attivisti si sono turnati per tutto il pomeriggio di lunedì 30 gennaio nel settore riservato al pubblico con indosso le magliette di battaglia con la scritta “Save the Park”, in attesa che l’ordine del giorno del Consiglio arrivasse alla discussione del punto atteso.
Nel frattempo la Polizia municipale ha sequestrato striscioni e scritte, la cui esibizione è vietata in Consiglio.

I quesiti della petizione chiedono di spostare la sede del concerto “in un’area a sud della città” e di attrezzare quel luogo anche per futuri eventi simili.
L’assessore Gulinelli e il sindaco Fabbri hanno invece insistito furbescamente a lungo sull’importanza del concerto di Springsteen per “l’economia e il turismo della città”, come se il comitato fosse contrario al concerto in quanto tale. Ed è stato evocato perfino il presidente della giunta regionale Bonaccini come estimatore dell’evento.
Ma nel merito della questione, i due esponenti della maggioranza hanno perso la livrea del Gatto e della Volpe, per indossare quella di Pinocchio, quando Colaiacovo (Pd) e Mantovani (5 stelle), carte alla mano, hanno platealmente smentito l’impossibilità e il diniego dei gestori di due zone aeroportuali a sud della città, di concedere le aree in loro dotazione per la sede del concerto.

Gran tempo ha dedicato poi Gulinelli nello sminuire il “valore giuridico” delle quasi 50.000 firme raccolte nei mesi scorsi dal comitato in una petizione online, come se a quelle firme non si sia attribuito da sempre un valore propagandistico e di informazione. Ma, superando con agilità l’asticella del ridicolo, l’assessore si è detto sicuro che i 50.000 fan di Springsteen, “composti in gran parte da nuclei familiari educati”, avranno gran cura nel rispettare l’ambiente del Parco Urbano “Giorgio Bassani”. E, tranquilli, in ogni caso, ognuno degli acquirenti del biglietto “è geolocalizzato, con nome e cognome”. Per finire: il sound tecnogreen del Boss sarà magicamente proiettato solo in avanti, senza dispersioni laterali a disturbare le covate primaverili, tanto care agli ambientalisti. Da non credere.

Il Comitato Save the Park ha già dato mandato ad un legale esperto di proporre un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, e di inviare un esposto documentato alla Procura regionale della Corte dei Conti.

La petizione popolare  online “Salviamo il parco Giorgio Bassani di Ferrara #Save the Park“ ha già raggiunto ad oggi le 43.462 firme. Se non l’hai ancora fatto, leggi e firma qui la petizione

Riproduciamo di seguito la lettera del presidente pro tempore di Aeroporto Aguscello S.r.l. che dimostra la disponibilità ad ospitare l’evento, al contrario di quanto sostenuto in Consiglio Comunale dal Sindaco Fabbri e dall’Assessore Gulinelli.

Cover e foto nel testo di Pier Luigi Guerrini e Alessandro Tagliati

Parole e figure /
Un postino nel bosco

Il fascino misterioso delle lettere. Ho sempre adorato quelle buste che arrivano da lontano. Se poi queste missive viaggiano nel bosco, la formula magica è completa.

Oggi è allora il turno di un curioso postino, silenzioso e solitario che, sulla sua veloce bicicletta rossa, porta tante lettere. Un personaggio delicato che ci fa riscoprire il valore della parola scritta. Quella che resta.

È il protagonista di Lettere nel bosco, scritto da Susanna Isern e illustrato ad acquerello da Daniel Montero Galán (che abbiamo già letto ne Il Bigliettino), Edizioni Logos, collana gli albi della Ciopi.

In sottofondo, il bosco, con i suoi colori tenui, i suoi cieli, i suoi cespugli e alberi e le loro radici. I nascondigli e le tane degli animali, i laghetti con i pesci, gli uccellini cinguettanti, le nuvole, le stradine che lo attraversano, come rigoli di ruscelli frizzanti. E poi le foglie.

Ogni mattina questo simpatico postino sfreccia nel bosco per consegnare la posta, pedala a destra e a manca: una fitta corrispondenza anima le giornate degli animali del bosco. Molto riservato e timido, non dà confidenza a nessuno, poche chiacchiere, non accetta alcun invito, nemmeno un caffè. Corre, corre, sollevando polvere.

Di porta in porta, suona i campanelli e consegna la posta allo scoiattolo e al riccio, che ricevono messaggi di scuse reciproche, dandosi appuntamento per chiarirsi su un malinteso. Arriva poi il turno del picchio che si scusa con il ghiro per aver picchiettato sull’albero accanto al cespuglio dove lui pacificamente dormiva.

Anche le farfalle ricevono l’invito dalla tartaruga a prendere il sole sul suo carapace, dove c’è spazio in abbondanza, in pieno relax. E se dovesse piovere, si può sempre entrare a riscaldarsi con un tè profumato.

L’orso invita il coniglio che non sa nuotare a salire sulla sua imponente schiena per farsi trasportare sul lago come su un grande gommone.

Le lettere arrivano al lupo, al cervo, alle rane, alla marmotta, alla volpe, ai pesci. C’è posta per tutti. Tutti ricevono la loro, tutti sono impegnati a leggere, finché il postino, all’imbrunire torna a casa, sfinito, con la cartella vuota. Alberi e sole che tramonta fanno da splendida cornice. I colori sono soffusi e invitano al riposo ristoratore.

E ogni notte, occhiali sul naso, nella sua casetta calda, alla luce fioca di una candela, scrive, fino ad addormentarsi, come un sasso, sulla pesante macchina da scrivere.

Finché un bel giorno, al tintinnio del campanello arrugginito al quale nessuno ha mai suonato, riceve una lettera pure lui…. Chi mai sarà?

C’è tanta armonia nelle pagine e nelle storie. Un’armonia che qualcuno vuole e guida.

Per gli animali il vecchio postino è un vero e proprio sconosciuto, ma quel carattere sfuggente deve per forza nascondere qualcosa, e, infatti, il postino generoso e instancabile custodisce un segreto… di quelli belli però.

Susanna Isern, è una scrittrice spagnola di libri per bambini. I suoi libri sono pubblicati in più di 19 lingue con più di 500.000 lettori in tutto il mondo. Vive a Santander. Alla passione per la scrittura unisce quella per la psicologia. Ha lavorato come terapeuta infantile, è professoressa universitaria di psicologia. Negli Stati Uniti, ha ricevuto la Medaglia d’Oro dei Moonbeam Children’s Book Awards 2013 e alcuni dei suoi libri fanno parte della selezione della Junior Library Guild.

Daniel Montero Galán è nato a Madrid nel 1981. Lavora come illustratore da oltre 15 anni e ha pubblicato più di 30 libri.

Fra questi El gran Zooilógico (Jaguar, finalista al premio Golden Pinwheel della CCBF China Shanghai International Children´s Book Fair nel 2016),  Lettere nel bosco (Logos) e Mistero nel bosco (Logos).

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

Ora e sempre (La) Resistenza!

Ora e sempre (La) Resistenza!

COMUNICATO 31/01/23

Domenica 29 gennaio si è tenuta un’assemblea pubblica al CPS La Resistenza dove è stata presentata la programmazione delle attività gennaio/luglio 2023.

All’incontro hanno partecipato più di cento cittadine e cittadini di tutte le età, studenti, lavoratori e pensionati, che nell’occasione hanno aderito alla campagna di tesseramento ANCeSCAO 2023.

La Resistenza è uno spazio di ricerca e confronto per Ferrara da ormai dodici anni in cui si sono alternate differenti gestioni tutte impegnate a far incontrare generazioni diverse durante le numerose iniziative messe in piedi, dai corsi di teatro a quelli di yoga, dai dibattiti ai pranzi sociali del 25 aprile, dalle presentazioni di libri ai concerti; tante collaborazioni come quelle con il Laboratorio di Studi Urbani di UNIFE e l’Istituto di Storia Contemporanea o la più recente con la libreria indipendente del centro storico, La Pazienza.
Domenica all’assemblea erano presenti molteplici realtà culturali che hanno contribuito a tracciare un excursus storico dell’attività ultradecennale dello spazio.

Sono state presentate le seguenti attività:
Estranee-Corpi di donne in movimento. Un laboratorio atto alla riappropiazione del corpo tramite azioni politiche danzate curato da Francesca Caselli e patrocinato dal Comune di Ferrara (5 novembre 2022/1 luglio 2023)
Pazienza & Resistenza. La rassegna letteraria che traccia un sentiero tra due luoghi di cultura e ricerca sociale a Ferrara impegnati quotidianamente nel sostenere la cultura indipendente (settembre 2022/giugno 2023), curata da Marco Belli e Michele Ronchi Stefanati.
Link Studenti Indipendenti Out Ferrara. L’aula studio autogestita aperta a tutt* tutti i weekend dalle 9 alle 19.
Associazione C.A.R.P.A.. Un laboratorio di creazione teatrale a cura di Veronica Ragusa, Gaia Pellegrino, Giada Carniel e Marco Luciano del Teatro Nucleo tutti i mercoledì fino al 28 giugno 2023 e tutti i terzi weekend del mese.
Ferro e Martello. Laboratorio aperto di ferri, uncinetto e cucito tutti i lunedì fino a luglio 2023, progetto che mira alla realizzazione di un’iniziativa denominata “Le coperte di Elizabeth”.
SessFem Ferrara. Laboratorio gratuito di esplorazione e apprendimento collettivo per ridefinire i concetti di corpo, piacere ed educazione.
La scelta del corpo. Laboratorio di Danza Contemporanea e Improvvisazione di Francesca Caselli e Mariastella Zangirolami.
Progetto Biblioteca Comunale “S. Tassinari”.

Infine la programmazione musicale/culturale de “I Martedì della Resistenza” che porta a Ferrara da dodici anni una proposta musicale lontana dai canoni mainstream e offre la possibilità di esibirsi agli artisti locali emergenti.

Il CPS La Resistenza porta avanti tutte queste iniziative grazie al volontariato di decine di uomini e donne che riescono da sempre a tracciare dei ponti tra generazioni riunendosi ogni giorno in un luogo che fa dialogare intelligenze e sensibilità.

Luoghi come il CPS La Resistenza, in grado di mettere seduti allo stesso tavolo una studentessa universitaria siciliana e un ultranovantenne ferrarese DOC, a raccontarsi storie sono da preservare e valorizzare.

Durante la scorsa settimana, tramite una comunicazione ufficiosa al comitato di gestione è giunta la notizia di un imminente provvedimento volto a revocare la concessione dello stabile all’associazione. Sembra che la delibera sia già firmata pronta a essere depositata dalla giunta comunale questo giovedì, 2 febbraio.

La preoccupazione è lecita fra le decine di volontari e operatori del centro, i più di 200 tesserati nel solo mese di gennaio e i semplici interessati alle attività dello spazio.

La domanda che ci poniamo tutti è:
Che ne sarà di un’esperienza sociale che dura da più di dieci anni?
Se davvero la revoca della concessione è così imminente, perché non c’è stato un confronto tra il Comune di Ferrara e l’Associazione?
C’è forse un altro spazio simile in pieno centro città, capace di accogliere questa pluralità di realtà culturali, che il Comune può offrire all’associazione?
Com’è possibile che non ci si sia preoccupati che nella programmazione sono presenti progetti patrocinati o addirittura finanziati dallo stesso Comune di Ferrara?

Le volontarie e i volontari della Resistenza

Silvia Guerini: dal corpo neutro al cyborg postumano

Io e Silvia Guerini ci siamo incontrate sul tema della maternità surrogata.
Lei da tempo si occupava di tecnoscienze e di come queste teconolgie, al servizio della scienza, alterino profondamente la realtà e il senso stesso di umanità attraverso una trasformazione del linguaggio che cambia le parole e i loro significati fino a rendere accettabile ciò che non lo era. Io mi ritrovavo a riflettere sulla maternità surrogata perchè l’impatto di questo tema ha avuto su di me un effetto profondo, viscerale direi. Sentivo che era una pratica aberrante ma dovevo elaborare argomenti che spiegassero la mia reazione. Ho scritto un romanzo, appunto, per giungere a comprendere a fondo il mio no di pancia a questa pratica.

E dal nostro incontro è nata un’amicizia profonda.
Ci siamo scambiate idee e pensieri a partire da due storie apparentemente distanti ma che in realtà avevano in comune un profondo sentire : la difesa della sacralità della vita e del suo mistero e il valore del senso stesso di umanità.
Perché dico lontane: perchè veniamo da mondi e storie molto diverse. Lei  bergamsca, anarchica, femminista radicale, atea, studiosa appunto di tecnoscienze e del transumanesimo, da sempre attivista politica. Io invece, genovese,  borghese, cattolica  che però a 40 anni ha sentito l’esigenza di dirsi femminista e di iniziare una forma di attivismo politico su temi che riguardavano la donne per poi capire che altro non era che la difesa strenua di uno sguardo sul mondo in opposizione  allo sfruttamento estrattivo capitalista della natura e degli esseri umani, un sistema che affonda le sue radici nel patriarcato.

Silvia mi ha introdotto nel mondo delle tecnoscienze, mi ha fatto riflettere sulle trasformazioni e sull’impatto che queste avevano sulla realtà che ci circondava.
Un impatto  potente che avveniva nel silenzio generale dell’opinione pubblica, senza alcun dibattito pubblico e intellettuale,  e che trasformava anche profondamente i valori etici che da sempre sono stati a fondamento della nostra società. E’ la prima che mi ha introdotto nel mondo del transumanesimo, ideologia di cui non avevo mai o, quasi mai, sentito parlare ma che affonda le radici nel secolo scorso e con molta pazienza mi ha aiutato a unire temi apparentemente molto distanti fra  loro aiutandomi a vedere come e quale era il disegno che stava dietro a chi vuole realizzare una società post umana, transumanista appunto.

È come se Silvia , con tutti i suoi numerosi studi, avesse reso possibile dare un nome alla verità che usciva dalla mia pancia.
Tutte quelle motivazioni che mi avevano spinto a scrivere un romanzo, una storia che parlasse di umanità ma anche di natura, di quella arcaica che in qualche modo ci parla ancora e fa  parte delle saggezze ancestrali, trovavano una spiegazione razionale nella scoperta di tutti quei passaggi che lei così sapientemente e instancabilmente evidenziava nei suoi studi. Studi difficili faticosi che trovavano resistenza in ogni dove perchè la tesi andava in senso ostinato e contrario a quanto era percepito come vero progresso! Non a caso la mia protagonista che vive a Los Angeles, il mondo così detto” primo”, scoprirà il senso stesso di maternità sotto la cupola argentea della foresta amazzonica, a contatto con le popolazioni indigene ye quana, e non nelle super cliniche della fertilità.
Il mio rifiuto istintivo a certe pratiche avevano una spiegazione logica, bisognava solo avere il coraggio di cambiare prospettiva e di riguardare a quanto ci veniva detto e a quanto avevamo studiato da un’altra prospettiva, avendo il coraggio di accettare che molte credenze, sulle quali avevamo poggiato il nostro sapere si sgretolassero al suolo.

Da allora si è aperto un mondo di passaggi che non avevo compreso e che mi hanno obbligata a riguardare alla storia del progresso occidentale , da un punto di vista  critico,  e provare a disvelare quei meccanismi di linguaggio che avevano reso eticamente accettabile ciò che non lo era mai stato senza che nessuno (ovviamente non Silvia e molti suoi compagni che gridano nel deserto da decenni),  opponesse resistenza.

E arriviamo a oggi, all’accelerazione di certi processi, che sono avvenuti proprio durante la pandemia e che in molti di noi hanno invece creato una reazione potente. Se prima non ci accorgevamo delle trasformazioni profonde che stavano avvenendo, che stavano modificando persino il concetto di bene e di male, di senso del limite etc, durante la pandemia, per molti c’è stato un risveglio di pensiero critico.

Davvero il limite è stato superato in molte occasioni e il senso che certa scienza si occupi dell’umano come di una macchina e solamente di una macchina, che non si interessa più alle sue differenze, persino ontologiche, penso al postumano neutro , no femmina no maschio semplicemente quello che uno vuole sentirsi, e fa dei corpi e delle cure solo mercato svincolando il senso della materia dallo spirito in modo definitivo, è parso evidente a una minoranza che però con il passare del tempo si fa sempre più ampia.

Il successo della proiezione di Invisibili, il documentario che parla dei danni collaterali dal vaccino anti covid e che sta facendo il giro delle città italiane, ne è un segno tangibile. La cura ,quella umana ,quella basata sulla relazione tra medico e paziente, sembra un ricordo lontano e questo ha innescato un pensiero critico non solo in chi ha subito danni collaterali da vaccino ma in molti di noi che non li abbiamo subiti ma che abbiamo iniziato a riflettere sulla direzione che ha preso certa medicina, certe scelte politiche, certa economia, certa scienza e  la stessa filosofia.

Ecco perché oggi è così importante leggere il libro di  Silvia Guerini DAL CORPO NEUTRO AL CYBORG POST UMANO perchè diventa possibile provare a tracciare quel filo rosso che unisce molte delle scelte che sono state fatte nei vari campi , politico, economico, medico scientifico etc e disvelare il disegno che si cela dietro a queste scelte.
Provare a chiederci in che direzione siamo diretti e se è questo quello che vogliamo.
Siamo a un bivio epocale, è bene approfondire e ascoltare anche nuove voci, nuove visioni per fare in modo che non scelgano per noi!

Intervista di Roberta Trucco a Silvia Guerini

 

Zelensky al festival di Sanremo: spegniamo la TV, spegniamo la propaganda di guerra!

Da:  Europa per la Pace

Dopo che abbiamo lanciato la nostra iniziativa di boicottaggio si sono alzate altre voci critiche: lo hanno fatto personaggi famosi come Vauro Senesi e Moni Ovadia, se ne parla in alcune trasmissioni televisive, circola una petizione e si sta anche organizzando una manifestazione davanti all’Ariston.

Tutte ottime iniziative, ma riteniamo che il boicottaggio, in questo momento, sia lo strumento più forte e incisivo.

Il boicottaggio si fonda sul “vuoto” e sulla “non collaborazione” e colpisce i violenti in quello che per loro è la cosa più importante: i soldi. Questo è ovvio quando si decide di non comprare più un prodotto, ma lo è anche nel caso di un servizio. Le reti televisive vivono grazie alle pubblicità, il cui valore dipende dagli ascolti che ha quella rete o quello specifico programma.

Ma il boicottaggio ha anche un significato più grande: la gente comincia a prendere coscienza del proprio potere, della propria forza e della possibilità reale di influire sulle decisioni prese “in alto” sopra le proprie teste.

Ovviamente, per ottenere un risultato è necessario il coinvolgimento di un gran numero di persone e al momento attuale la cosa sembra molto difficile. Tutti i sondaggi dicono che la maggioranza degli italiani vuole una soluzione diplomatica al conflitto, ma è difficile informare queste decine di milioni di persone ed ancora più difficile comunicare l’importanza di questa iniziativa.

Oltre ai media, che mai daranno notizia di questo boicottaggio, c’è anche un altro nemico, una malattia endemica, una vera pandemia: la sfiducia. Oggi è difficile credere che con la propria “piccola” azione si possa cambiare qualcosa, così come è difficile credere che “altri” si possano sommare a questa impresa. Ma la sfiducia cronica è essenziale allo stesso sistema violento in cui viviamo. Come potrebbe quest’ultimo esercitare il suo potere se la gente non fosse sfiduciata e divisa? Oggi, infatti, è quasi impossibile convergere in una attività comune.

Vi chiediamo perciò di appoggiare questo tentativo diffondendo questa iniziativa, in modo che arrivi a quante più persone è possibile. È la convergenza in una direzione dell’impegno e della creatività che aiuta a volte a raggiungere un risultato.

Ma al di là del risultato, che sappiamo difficile da raggiungere, è il tentativo in sé stesso che è importante: è un seme che può germogliare nel futuro.

Sappiamo che la direzione degli avvenimenti va verso un sempre maggiore coinvolgimento della società in questa folle guerra. Diffondere e fare conoscere le idee, gli strumenti e la forza della nonviolenza attiva è di grande importanza.

Zelensky al festival di Sanremo: spegniamo la TV, spegniamo la propaganda di guerra!

L’iinvito a Sanremo di Volodymyr Zelensky indigna la maggioranza degli italiani. Portare la guerra in una manifestazione artistica cosi importante è solo propaganda. Il presidente ucraino sembra essere diventato il testimonial di una continua raccolta fondi per gli armamenti. Al contrario la musica, l’arte e la cultura dovrebbero essere veicolo di pace e non di guerra!

Al di la dell’opinione che ognuno ha sulla guerra in Ucraina, questo invito al festival di Sanremo assomiglia ad un’operazione di marketing, a una pubblicità alle industrie delle armi, diffondendo il messaggio che la pace debba necessariamente passare per il supporto militare all’Ucraina.

I soldi che siamo obbligati a pagare per il canone RAI non devono essere usati per imporre un’idea ma per creare un’informazione che rispetti la diversità delle opinioni e dei punti di vista. Sappiamo dai numerosi sondaggi fatti negli ultimi mesi che la maggioranza degli italiani vuole una risoluzione diplomatica e immediata del conflitto e non buttare benzina sul fuoco inviando armi.

Liberiamo Sanremo dalla guerra! Invitiamo cantanti e partecipanti a dare un chiaro segno di dissenso e invitiamo tutto il pubblico da casa a spegnere la TV la sera in cui Zelensky parlerà dal palco dell’Ariston.

La Nonviolenza si esprime con il vuoto, con la non partecipazione e non collaborazione con la violenza e l’arroganza.

Spegniamo la TV, spegniamo la propaganda di guerra!

Europa per la Pace  #EuropeForPeace

In copertina; March 14, 2022, Kyiv, Ukraine: Ukrainian President Volodymyr Zelenskyy delivers an address marking the 19th day of the Russian invasion, March 15, 2022 in Kyiv, Ukraine. (Credit Image: Global Look Press/Keystone Press Agency) – Su licenza

Io sono una scuola

Io sono una scuola.
Mi chiamo “scuola di Cocomaro di Cona”.
Cocomaro e Cona non sono i nomi del mio papà e della mia mamma ma è il nome del paese dove abito.
Da alcuni anni mi chiamano anche “scuola Bruno Ciari”. Neanche lui è il mio papà ma il nome di un insegnante che ha sempre creduto nelle scuole come me.

Io sono una piccola scuola… uguale a tante altre scuole.
Però sono una scuola unica e diversa, come tutte le altre scuole.

Sono uguale perché dentro di me si fanno le stesse cose che si fanno nelle altre scuole e sono unica e diversa perché ogni scuola ha bambini diversi, insegnanti diversi, genitori diversi, bidelli diversi quindi i modi in cui si impara e si sta insieme sono diversi.

I miei genitori mi hanno voluto tanto bene. Loro desideravano che io diventassi una scuola dell’infanzia; io invece sognavo di diventare una scuola elementare (o primaria, come si dice adesso).

Un proverbio africano dice: “Se si sogna da soli, è solo un sogno. Se si sogna insieme, è la realtà che comincia“. Così, sognando insieme alla comunità del paese, sono cresciuta e sono riuscita a realizzare il mio sogno.

Sono cresciuta nel periodo in cui tutti i genitori pensavano ad una scuola a tempo pieno cioè una scuola che stesse aperta 8 ore al giorno, che proponesse  alternative educative rispetto alla scuola tradizionale, che rispettasse i tempi di apprendimento dei bambini, che curasse la loro crescita globale, il loro atteggiamento di ricerca, che potesse essere accogliente ed ospitale e che si occupasse dell’osservazione dell’ambiente, della comunicazione con diversi linguaggi, della socializzazione con i compagni e con gli adulti. Insomma una scuola che si preoccupasse di educare i bambini e le bambine ad avere un’intelligenza autonoma, critica e creativa.

La gazzetta del cocomero, il giornale dei bambini della scuola primaria “Bruno Ciari” di Cocomaro di Cona

Quando io ero piccola, sono stata accolta molto bene nel paese e tutti mi hanno aiutata a crescere. Hanno proposto che, a scuola, ci fosse la cucina; si sono inventati una sperimentazione per l’uso di fonti alternative al libro di testo su cui imparare a leggere e a studiare; tutti mi volevano invitare a casa loro; hanno realizzato un giornale dei bambini che si chiama “La Gazzetta del Cocomero (che quest’anno compie 30 anni); si sono riuniti in un’associazione che si chiama “I bambini del Cocomero”, hanno sistemato il cortile della scuola togliendo l’asfalto e mettendo l’erba e hanno fatto tante altre cose.

Tutte quelle persone mi hanno aiutato a capire che si può imparare meglio insieme, divertendosi, anche uscendo dalla scuola ma soprattutto che si può insegnare ed imparare ascoltando le persone.

I primi giorni di ogni anno scolastico, qualche bambino ha un po’ paura di me ma ciò succede perché io sono grande e i bambini sono piccoli e ancora non mi conoscono.

Del resto succede così anche agli adulti, anche loro hanno un po’ paura delle cose che non conoscono, anche se non lo dicono perché tutti abbiamo paura di qualcosa e perfino il buio, che di solito spaventa, ha un po’ paura della luce. Una volta che i bambini hanno imparato a conoscermi, la paura scappa via e lascia il posto alla voglia di venire da me tutti i giorni.

Dentro la scuola i bambini fanno e pensano tante cose, ne imparano e ne insegnano molte e si divertono insieme ai loro compagni e ai loro maestri.
Dentro e fuori dalla scuola si gioca insieme: anche con la terra, i rametti, le foglie e i sassi.
Vicino alla scuola, i bambini imparano a saltare i fòssi perché questo li aiuta ad affrontare i rischi, a sconfiggere le paure e a conoscersi meglio.

Dentro la scuola i bambini imparano a non saltare i fóssi perché le maestre e i maestri gli insegnano a vedere le cose anche da altri punti di vista e, ad esempio dopo un litigio, chiedono: “Cosa avresti fatto tu se fóssi stato nei panni del tuo compagno?”

Mi piace stare aperta fino a tardi la sera.
Mi piace sentir ridere i bambini e le bambine.
Mi piace stare con le finestre aperte sul mondo.
Mi piace quando vengono degli ospiti a trovarmi.
Mi piacciono le storie inventate, i disegni, i colori, l’erba.
Non mi piace quando rimango sola il sabato e la domenica.
Non mi piace quando mi lasciano aperta per le elezioni perché non ci sono i bambini a farmi compagnia.
Non mi piace l’estate perché ho paura che mi abbiano abbandonata (anche se negli ultimi anni mi sono divertita quando nel mio cortile sono venuti a fare delle feste: mi sono sentita più utile).

Per me, non ci sono scuole più brave o scuole meno brave: ci sono scuole che sanno ascoltare i bambini e scuole che vogliono essere ascoltate; ci sono scuole che vogliono insegnare ad imparare e scuole che vogliono imparare ad insegnare; ci sono scuole a cui piace cambiare e scuole che vogliono rimanere sempre uguali.

Io posso solo dire che non sarei la scuola che sono se non avessi conosciuto i bambini, i genitori, le maestre, i maestri, le bidelle, le cuoche, le educatrici e tutti gli ospiti che sono venuti a trovarci.

Nella mia esperienza ho incontrato tanti bambini tante bambine e ho capito che da tutti, ma proprio da tutti, c’è da aspettarsi qualcosa di bello, perché ognuno porta a scuola qualcosa di diverso e di importante: se stesso.

I bambini dicono che la scuola è un posto dove…

  • si impara con gli amici;
  • puoi imparare a studiare e farti dei nuovi amici;
  • si imparano le lettere e i numeri;
  • si impara mentre ci si diverte;
  • si impara a non aver paura;
  • si impara ad affrontare il futuro;
  • si possono fare nuove amicizie;
  • si fanno anche lezioni di vita;
  • si possono risolvere i propri problemi quando si è tristi;
  • si imparano cose nuove e si sta bene con gli amici;
  • ci si diverte e si gioca;
  • far sorridere gli altri;
  • non si deve aver paura di imparare;
  • ti insegnano molte cose bellissime;
  • è divertente stare con gli amici;
  • uno va a imparare ad essere grande;
  • si può essere felici.

Io penso che per fare una SCUOLA non basti la scuola.

Per fare una scuola ci vogliono i bambini e per fare i bambini ci vuole l’amore.
Per fare una scuola ci vogliono gli insegnanti e per fare gli insegnanti ci vuole la passione.
Per fare una scuola ci vuole un paese e per fare il paese ci vogliono tante idee, l’impegno e la partecipazione.
Per fare una scuola ci vogliono la passione, l’amore, tante idee, l’impegno e la partecipazione.

Per fare il futuro ci vuole la scuola.

Ferrara, lunedì 30 gennaio ore 15,00:
in Consiglio Comunale per difendere il Parco Urbano Bassani

 

Lunedì 30 gennaio è un giorno importante. All’ordine del giorno della seduta del Consiglio Comunale di Ferrara c’è la presentazione, la discussione e la votazione della mozione popolare, firmata da centinaia di ferraresi. La richiesta è sempre la medesima: spostare il megaconcerto di Bruce Springsteen dal Parco Urbano G. Bassani, in un luogo più idoneo, salvaguardando così il fragile equilibrio ambientale e l’avifauna del parco.

L’appuntamento per tutti è alle 15,00 di lunedì 30 gennaio sotto lo scalone del Comune in piazza Municipale. 

Ecco il testo della mozione in discussione 

PROPOSTA DI DELIBERAZIONE
Oggetto: Spostamento concerto di Bruce Springsteen del 18 maggio 2023 dal Parco Urbano “ Giorgio Bassani” in un’area idonea nella zona Sud della città
IL CONSIGLIO COMUNALE
premesso che:
– l’Amministrazione Comunale è fortemente impegnata nell’organizzazione di un grande concerto con la partecipazione di Bruce Springsteen presso il Parco Urbano
“Giorgio Bassani” per il 18 maggio 2023, ritenendolo idoneo per questo ed altri eventi simili che si potrebbero svolgere nella suddetta area;
– il Regolamento del Verde pubblico e privato del Comune di Ferrara, redatto nel 2013, nella Premessa riporta che: “Il verde urbano deve essere concepito come ‘valore aggiunto’ da tutelare, perché svolge importanti funzioni climatiche ed ecologiche, urbanistiche e sociali. Contribuisce al miglioramento della qualità urbana rivestendo anche un importante ruolo di educazione ambientale. Il verde, inoltre, svolge funzioni essenziali per la salute pubblica contrastando l’inquinamento atmosferico, termico ed acustico”;
– sempre lo stesso Regolamento all’art.9, comma 7, sottolinea che nel periodo tra marzo e luglio la tutela dell’avifauna sia particolarmente delicata e che gli
abbattimenti di essenze arboree vadano assolutamente evitati
considerato che:
– il Parco Urbano Bassani è stato concepito e costruito, sin dalla sua progettazione, come un’opera di rinaturalizzazione di uno spazio cerniera tra l’area urbana, quella agricola e il fiume, con una vocazione che non si presta allo svolgimento di eventi con le caratteristiche di quello sopra previsto;
– la sede del concerto potrebbe essere compromessa seriamente, soprattutto in caso di maltempo, per quel che riguarda il manto erboso, la tutela igienico-ambientale degli specchi d’acqua e il rispetto della biodiversità della nicchia ecologica costituita dalla galleria vegetale arbustiva, formatasi negli anni lungo la massicciata dell’ex-ferrovia Ferrara-Copparo, come anche per quel che riguarda l’avifauna stanziale e stagionale che nidifica in loco;
– un ampio tratto delle Mura storiche patrimonio dell’UNESCO sarebbe potenzialmente e pericolosamente coinvolto nell’evento;
– una petizione on line organizzata dal comitato civico Save the Park, che chiede che il concerto venga spostato in altra sede, ha raggiunto circa 40.000 sottoscrizioni
IMPEGNA IL SINDACO E LA GIUNTA COMUNALE
– a comunicare pubblicamente lo stato dei rapporti, nonché gli eventuali impegni di carattere economico, tra l’Amministrazione Comunale e gli organizzatori del concerto previsto di Bruce Springsteen per il 18 maggio 2023 – a individuare nell’area Sud della città, e in particolare in quella di pertinenza del demanio statale, il luogo idoneo per lo svolgimento di tale evento in data 18 maggio 2023 e procedere conseguentemente, anche mediante uno studio e un approfondimento apposito
– a sviluppare un nuovo Parco urbano nell’area suddetta, anche con la vocazione di tenere grandi eventi con caratteristiche simili a quello sopra descritto.
Intanto, per conto di alcune ass0ciazioni ecologiste e ambientaliste, è stata spedita  una lettera diffida al Sindaco di Ferrara [leggi il testo su Periscopio]. Essendo già trascorso il termine senza ricevere alcuna risposta da parte del Sindaco, le associazioni stanno preparando un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
La petizione popolare  online “Salviamo il parco Giorgio Bassani di Ferrara #Save the Park“ ha già raggiunto ad oggi le 43.412 firme.
Se non l’hai ancora fatto, leggi e firma qui la petizione

Per certi versi /
Novantesimo minuto

Novantesimo minuto

La domenica sera
Non ha finito
Di travasare
La damigiana
Dei volti
I resoconti
Le immagini
La sigla
Delle partite di calcio
Le cartoline e le voci
Dei giornalisti
Così tipiche
Col loro folklore
Un po’ tifose
Ma con parsimonia
Era inverno
Come adesso
Le domeniche sera
Col riso nel latte
Per stare leggeri
Il cuore nelle ciabatte
E un po’ di candore

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’OlioPer leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

La morte annunciata di Juan Carrito.
Ora ne rimangono solo 50

La morte annunciata di Juan Carrito. Ora ne rimangono solo 50

di Andrea Turco @AndreaTurco5
(da Valigia blu, 25.01.2023)

Il simbolo dell’Abruzzo, una mascotte per grandi e piccini, uno di noi, un simpatico Gian Burrasca, un orso che negli esseri umani voleva trovarci qualcosa di buono: la morte dell’orso marsicano M20, più noto come Juan Carrito per via del nome di una frazione di un piccolo paese abruzzese dove fu avvistato per la prima volta, ha colpito in questi giorni la sensibilità comune.

Juan Carrito era probabilmente l’esemplare di orso più noto in Italia, fotografato e ripreso decine di volte in questi anni nel suo peregrinare tra i parchi nazionali della Maiella e d’Abruzzo, Lazio e Molise, protagonista anche di un documentario. Corrispondeva, a sua insaputa e suo malgrado, all’immagine tenera dell’orso che cinema, animazione e fumetti hanno veicolato nel corso degli anni. In un rafforzamento dell’antropocentrismo per cui ogni animale è a nostro servizio, perché la tesi dell’uomo come “misura di tutte le cose”, per dirla con le parole del filosofo greco Protagora, è ancora quella preminente. Così come, allo stesso tempo, appare fuorviante la retorica di affidare all’orso sentimenti e volontà antropomorfizzate o la tendenza a voler ricavare a tutti i costi dalla morte di un animale una lezione per gli esseri umani.

Juan Carrito è stato investito nei pressi di Castel di Sangro, in provincia de L’Aquila, il 23 gennaio. A darne notizia tra i primi è stato proprio il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise.

Nel frattempo in quelle ore sui social e su alcune testate online sono circolate le immagini strazianti dell’orso in agonia, che qui vi risparmiamo. Nonostante il buio della sera, le condizioni dell’auto testimoniano che lo schianto con l’animale è stato abbastanza violento: ciò lascia presupporre che il limite orario dei 50 chilometri orari, che vige in quel tratto di strada, sia stato superato. La morte di Juan Carrito è particolarmente delicata: si trattava di uno dei 50 esemplari di orso marsicano ancora esistenti in Italia, con numeri così bassi che evidenziano come si tratti una razza in via d’estinzione. La scomparsa di un maschio, tra l’altro, inciderà negativamente sulla possibile riproduzione. A distanza di alcuni giorni c’è una domanda che nelle tante polemiche sulla morte dell’orso non è stata adeguatamente affrontata: si poteva evitare?

Le misure che si sarebbero dovute adottare

Ad aprile 2022 il giornalista ambientale Ferdinando Cotugno su L’Essenziale, in un articolo che già dal titolo chiedeva “più spazio per gli orsi”, partiva nel suo racconto proprio dall’esemplare abruzzese:
Tecnicamente, Juan Carrito è un “orso confidente”: la sua educazione animale gli ha insegnato a non avere paura degli umani. Che gli orsi non si sentano più in pericolo è una buona notizia, ma è anche una nuova complessità per un territorio così piccolo. Juan Carrito era uno dei cuccioli di Amarena, che nell’estate del 2020 avevano imperversato nella zona di Scanno: sono stati avvistati di continuo, rincorsi dalle auto, fotografati e nutriti. Una volta diventato adulto, ha applicato quella lezione e lo scorso inverno ha trascorso il risveglio dall’ibernazione per le vie di Roccaraso, la più affollata destinazione sciistica della regione. Le sue avventure sono un’antologia di video buffi con titoli come “l’orso che gioca col pastore tedesco” o “l’orso che aspetta il treno in stazione”.

Di più: sono numerose le testimonianze che raccontavano di persone a caccia di un selfie con Juan Carrito o che lasciavano volutamente il cibo in bella vista in modo da attirare l’animale. Gli allarmi su questa eccessiva confidenza, sulla sottovalutazione del fatto che si trattasse pur sempre di un onnivoro e sulla valutazione turistica del fenomeno si susseguivano da tempo, tanto che il WWF ha definito  la morte di Juan Carrito una “tragedia annunciata”.

In una puntata del podcast Dolittle, realizzato da Leonardo Mazzeo ad aprile 2022, venivano già segnalati alcuni facili accorgimenti che si sarebbero potuti adottare immediatamente:
Il miglioramento delle infrastrutture, con barriere e/o passaggi pensati proprio per gli animali, e con una segnaletica più puntuale sia per gli automobilisti che per gli orsi, è il primo passo da fare, ma non basta (…) Al di là dei discorsi sui nuovi impianti sciistici che tolgono spazi vitali, non bisogna mai avvicinarsi troppo agli animali selvatici. C’è da trovare il giusto equilibrio tra il potenziale attrattivo dell’orso e la sua protezione dalle ingerenze umane. Per il bene di tutti, animali ed esseri umani.

Sui passaggi pensati per gli animali, poi, ha sollevato l’attenzione più volte anche Augusto De Sanctis, attivista del Forum H20 e della Stazione Ornitologica Abruzzese, che a Valigia Blu aggiunge come sia “assurdo che nella regione dei cosiddetti parchi, in 30 anni, non si sia costruito un solo ecodotto”. Di cosa si parla? Lo spiega su Il Corriere Nazionale Adriano Pistilli, responsabile tecnico gestione rifiuti ed esperto di diritto ambientale:
Sono ponti, oppure sottopassaggi, le cui prime tracce si ritrovano nella Francia degli anni Cinquanta, e che oggi, anche se in pochi ne sono a conoscenza, sono centinaia in tutto il mondo. Attraverso gli ecodotti, gli animali che vivono in luoghi come foreste e parchi naturali sono liberi di spostarsi senza rischi e attraversare in sicurezza le barriere create dall’uomo come le autostrade. Sono moltissime le specie di animali, dai mammiferi più grandi agli anfibi ai crostacei più piccoli che usufruiscono oggigiorno di questi servizi creati dall’uomo per rimediare almeno parzialmente ai danni degli habitat naturali messi in atto con le sue costruzioni.

Nuovi Impianti di sci e nuovi gasdotti nei territori preferiti dall’orso

L’associazione Salviamo l’orso nasce nel 2012 e da allora, come si legge sul sito, “lavora per salvare l’orso marsicano dall’estinzione, raccogliendo intorno a sé tutti coloro che hanno a cuore le sorti del plantigrado e del suo habitat naturale”. Un’attività complicata, quella dell’associazione, che deve fare i conti con gli interessi e le pressioni economiche. Come quelle che, nonostante la crisi climatica in corso che ha fatto comparire le prime nevi in Abruzzo soltanto negli scorsi giorni, intendono far realizzare nuovi impianti di sci. Il più grande di questi è previsto nel bacino Passolanciano-Maielletta, dove con 23,7 milioni di euro di fondi pubblici si intendono costruire nuovi impianti di risalita (a Roccamorice), un mega-progetto da 6,7 milioni di euro per l’innevamento artificiale e tre parcheggi. Proprio in zone molto frequentate dagli orsi.

Orso Juan Carrito

Il giorno dopo la morte dell’orso Juan Carrito, si è tenuta una conferenza stampa che è stata promossa da 15 associazioni abruzzesi in opposizione al progetto del gasdotto Linea Adriatica, su cui l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA) ha lanciato una consultazione pubblica. La nuova infrastruttura, promossa da Snam, prevede in Abruzzo la realizzazione di una centrale di compressione a Sulmona e il raddoppio dell’attuale metanodotto. Che c’entra con la tutela dell’orso la politica energetica italiana? Nel corposo dossier di 25 pagine inoltrato dalle associazioni ad ARERA si segnala che:
La centrale è incompatibile con la tutela dell’orso bruno marsicano, specie ad altissimo rischio di estinzione e protetta in Europa dalla Convenzione di Berna e dalla direttiva Habitat. I Parchi Nazionali della Maiella e dell’Abruzzo, Lazio e Molise, nonché  la Riserva regionale di Monte Genzana, hanno infatti attestato che tra i territori sempre più frequentati dall’orso, sia come corridoio faunistico che come sito di alimentazione, c’è quello di Case Pente dove Snam ha localizzato la costruzione della centrale.

D’altra parte già a luglio 2021 Stefano Civitarese Matteucci, professore ordinario all’università di Chieti e Pescara, in una lunga e articolata riflessione pubblicata sulla rivista “Orizzonti di Diritto Pubblico” aveva spiegato come “la sopravvivenza dell’orso bruno marsicano” passasse anche dal Green New Deal e dalla transizione energetica. Affermando inoltre che:
Anni fa il MITE (oggi MASE, nda) – lo stesso che oggi ha rilasciato l’autorizzazione per la centrale vicino Sulmona nell’area di Case Pente – ha promosso un Piano d’Azione Nazionale per la Tutela dell’Orso bruno Marsicano (PATOM) per apprestare politiche di tutela di questa specie oltre gli storici confini del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise (PNALM). Il PATOM mira a coordinare tutte le amministrazioni comunque coinvolte nella gestione dell’orso, compresi gli enti parco e le regioni. Un piano di azione è un insieme di misure per assicurare la tutela e il ripristino della biodiversità mediante la gestione integrata delle specie e dei loro habitat. Adottare un approccio cosiddetto specie-specifico rappresenta in molte circostanze la soluzione più idonea per perseguire obiettivi più ampi di tutela degli ambienti naturali. Concentrare gli sforzi di conservazione su alcune specie a rischio di estinzione innesca un effetto a cascata su altre specie e sull’ambiente in cui vivono e, quindi, sulla biodiversità. Questo è l’approccio raccomandato dal Consiglio d’Europa per conservare le specie a più elevato rischio di estinzione. Le campagne di conservazione di alcune specie dotate di particolare carisma – le cosiddette specie bandiera – possono, inoltre, esercitare un impatto tale sull’opinione pubblica da facilitare l’avvio di azioni di sensibilizzazione per la tutela di interi ecosistemi.

Come scrive lo stesso ministero dell’Ambiente, “per dare continuità al Piano d’Azione per la Tutela dell’orso bruno marsicano, APA PATOM 2019-2021, scaduto in data 31 dicembre 2021, è stato predisposto un nuovo accordo PATOM 2022-2024. Il nuovo accordo mira a favorire azioni sinergiche tra tutti i soggetti coinvolti nella gestione della popolazione di orso bruno marsicano e a rispondere a precise esigenze di risoluzione di problemi di convivenza uomo-orso”.

L’ultima riunione del PATOM si è tenuta a luglio 2022 e in essa si è discusso del progetto di ricerca dell’Università La Sapienza di Roma, intitolato “Stima e monitoraggio della popolazione di orso bruno marsicano sull’intero areale di presenza – Valutazione di fattibilità e definizione di scenari di campionamento tramite l’utilizzo di modelli cattura-ricattura spazialmente espliciti”.

Dalla parte dell’orso (e di tutti gli animali)

La morte dell’orso Juan Carrito, temuta e prevista allo stesso tempo, arriva a quasi un anno di distanza dalla riformulazione degli articoli 9 e 41 della Costituzione che hanno introdotto una maggiore tutela dell’ambiente. Se all’art.41 si prevede che “l’iniziativa economica privata non può svolgersi in danno alla salute e all’ambiente”, ancora più importante è la modifica dell’art.9. Non solo perché si è intervenuti per la prima volta nella storia della carta costituzionale sui cosiddetti principi fondamentali, quelli cioè compresi tra l’articolo 1 e l’articolo 12, ma anche perché il nuovo comma prevede l’arrivo di una nuova legge che “disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. Una legge di cui, al di là delle facili ironie, si sente l’esigenza. A patto che riesca a uscire fuori dall’antropocentrismo che ci fa occupare di “loro”, gli animali, come se fossero comunque una cosa nostra, di cui poter disporre, e non di esseri senzienti con il proprio diritto alla libera circolazione, senza che questa sia considerata un intralcio e, in maniera speculare, da valorizzare in chiave turistica o comunque umana.

A dicembre 2022, appena un mese e mezzo prima della morte dell’orso Juan Carrito, l’associazione Salviamo l’orso ribadiva che:
Mettere in sicurezza le strade in Appennino centrale è fondamentale per le persone e per gli animali. Negli ultimi due anni –  rileva l’osservatorio di ASAPS Italia, l’Associazione sostenitori e amici della Polizia stradale –  si sono verificati 360 incidenti che hanno coinvolto la fauna selvatica e sono stati classificati come gravi. In Senato si attendono risposte su questo tema: lo scorso 23 novembre è stata infatti presentata un’interrogazione parlamentare a firma di un gruppo di senatori del M5S che chiede interventi ai ministri delle Infrastrutture, dei Trasporti, dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica. Nei primi 10 mesi del 2022 l’Osservatorio ASAPS ha già registrato 118 incidenti nei quali sono morte 10 persone e 151 sono rimaste ferite. Il 94,9% degli incidenti è avvenuto con animali selvatici e il 5,1% con animali domestici,  98 incidenti sono avvenuti di giorno e 20 di notte, 9 in autostrada e 109 sulla viabilità ordinaria.

Insomma: la convivenza tra umano e animale è una priorità per ciascuna specie.

In copertina: Orso marsicano in Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise via Facebook

Immaginario /
la Biga

la Biga

la biga, come la chiamano a Ferrara, non è solo un mezzo di trasporto. per molto tempo ha scatenato sogni di gloria prima con Coppi e Bartali, dopo un po’ meno con Pantani. lo sport certo, ma c’è anche altro. le bighe sono diventate oggetto di culto, simbolo vintage, quelle vecchie e malandate sono per non fartele fregare, ti portano all’università, al mercato o a fare commissioni.

poi le super tecnologiche, pieghevoli, assistite sono nate per viaggiare o per caricarle sui treni e andare a lavoro. un mezzo ecologico per eccellenza che ti porta da un punto all’altro, anche lontanissimi. ma non solo per le gare sportive. sulle pagine di Periscopio il viaggio di Valentina, durato due anni, è stato raccontato con dovizia di particolari e corredato da foto mozzafiato. una sfida dal Vietnam all’Italia, in solitaria, passando per mezzo Oriente. altri come lei, semplicemente a portare in giro la macchina fotografica per fissare il mondo attraversato e magari cercare di cambiarlo, un po’ di più, un km alla volta.

ecco di cosa parliamo. la bicicletta è partire. ti permette di osservare il paesaggio e di sudarti il viaggio una pedalata dietro l’altra. un viaggio che forse fa incontrare se stessi col fiato corto, i denti stretti e le gambe stanche. e a ogni giro di ruota ti porta in avanti nel vento, nel sole e nella pioggia. ma poi, la biga è un po’ anarchica, a lei dai un codice della strada tutto tuo. per non farti male, quando la guidi, per un tratto puoi anche decidere di seguire la ciclabile. ma il più delle volte la guidi sui marciapiedi, in mezzo alla folla o in controsenso. solo i semafori forse, quelli per non farsi troppo male.

Cover: foto di Ambra Simeone

Il bue scuoiato (Marc Chagall, 1947) e la memoria corta della scuola

Il bue scuoiato (Marc Chagall, 1947) e la memoria corta della scuola

Chagall dipinge questa opera a due anni di distanza dalla fine dell’Olocausto.
Il gigantesco animale scuoiato è un monumento a sei milioni di vittime innocenti.
In alto a destra si vede il nonno del pittore in volo.
Sopra di lui c’è una candela simbolo di pace.

A sinistra. in basso il gallo che preannuncia l ‘alba è il simbolo di resurrezione.

Oggi 27 gennaio in classe ho  l’appuntamento con la Giornata della memoria.
Nei giorni scorsi la visione di alcuni film mi ha aiutato a preparare il terreno.
La mancanza di testimoni diretti non lascia alternative più efficaci.
Il film è un genere simpatico ai ragazzi.
Usa le immagini e l’immagine è il totem della nostra civiltà nel bene e nel male.
Ma desidero sottolineare  un aspetto, che però qui desidero  trattare in modo consapevolmente colloquiale, al fine di provare a far capire a chi non è in classe tutti i giorni, la realtà emozionale scolastica odierna e i grandi problemi che oggi si nascondono dietro la facciata di una Scuola sempre presente nella nostra società.
Anni fa l’impatto emotivo di questi film sulla Shoah era molto più forte sui ragazzi.
Durante la proiezione non era raro vedere visi di ragazzi rigati dalle lacrime.
Pochi anni or sono al Teatro Nuovo di Ferrara venne la Segre per un incontro con alcune classi delle scuole di Ferrara.
Io ero presente con una mia quinta.
Ad un certo punto la senatrice smette di parlare.
La platea di conseguenza rimane muta, e immobile aspetta la ripresa della relazione.
Io interpreto questo comportamento come un momento di grande commozione dovuto al rivivere in un racconto  momenti di vita personale così drammatici.
Mi sbagliavo.
Dopo pochi lunghissimi minuti di silenzio la senatrice si alza in piedi e con voce ferma invita  alcuni ragazzi di una scuola media seduti nelle prime file  a uscire dal Teatro in quanto evidentemente non interessati a ciò di cui si stava parlando.
I ragazzi infatti non avevano ascoltato nulla del racconto sviluppato da Liliana Segre ma avevano parlottato bellamente  fino a quel momento  tra loro fregandosene delle tante immagini di disperazione offerte dal racconto.
Non avevo mai visto fino a quella giornata tanto disinteresse verso un argomento cosi  naturalmente coinvolgente da un punto di vista emotivo.
Quando si separa una madre dal proprio bambino affinché entrambi trovino una  morte del tutto assurda mi pare non servano molte parole di spiegazione, il cuore viene colpito immediatamente!
L’ Olocausto è un argomento infatti che solitamente suscita forti sensazioni da un punto di vista emotivo.
La rappresentazione del Male assoluto tiene il livello di attenzione molto alto nei giovani!
Qualcosa però  negli ultimi anni è cambiato e sta cambiando sotto i nostri occhi.
E questo qualcosa riguarda il contesto generale all’interno del quale avvengono questi racconti. E mi riferisco a cosa l’ambiente culturale e politico generale di riferimento chiede come esigenza prioritaria alla Scuola.
Chiede ancora consapevolezza, autonomia di giudizio critico, formazione insieme classica e scientifica, conoscenza di linguaggi umanistici, sviluppo di personalità complete?
Direi che purtroppo la risposta  è negativa.
Ma se vogliamo capire cosa è la Scuola di oggi, dobbiamo sapere COSA CHIEDE LA SCUOLA oggi ai ragazzi e ai loro docenti !!!
Cosa chiede la politica alla Scuola e cosa chiede l’Europa alla politica per la Scuola.
Interessante vedere come le risposte emotive dei ragazzi si modifichino a seconda del tipo di richiesta culturale portata avanti dal sistema di riferimento
Ma soprattutto risulta molto significativo un secondo aspetto del cambiamento dei comportamenti dei ragazzi.
E questo secondo aspetto riguarda il loro vissuto.
Mi riferisco alla loro capacità di prendere dentro, di accogliere spiritualmente se stessi e l’altro da sé, del livello di empatia, di compartecipazione al dolore dell’altro, di condividere esperienze interiori…
Qui come siamo messi?
Quali anime arrivano nelle nostre scuole insieme a quei corpi, corpi così pesantemente investiti oggi di grande interesse da parte dei ragazzi fino alla loro auto distruzione!
E soprattutto la Scuola che concime possiede per la loro crescita?
Siamo proprio sicuri, per esempio, che la ricetta per lo sviluppo armonico e armonioso della personalità dei ragazzi passi per il totale superamento della lezione frontale del proprio docente come ultimamente si proclama da parte di miopi burocrati della innovazione scolastica?
Ma la lezione frontale, quella “bella” “seducente” , è soprattutto relazione tra due persone sulla base dell’interesse per la conoscenza!
Ma chi lo crea questo interesse, questa motivazione se non l’anima, gli occhi e la bocca di un docente!
Un interesse e una relazione mediata da una macchina funziona all’interno nello stesso modo?
Tutta questa tecnologia, utilissima per certi aspetti, perché oggi  è invocata dagli spiriti innovativi come principale ancora di salvezza non solo sociale ma anche per la crescita individuale?
Il pane per la crescita individuale è e sarà sempre l’altro!
L’altro quello accanto a noi è quello lontano nei secoli che solo la Scuola rende miracolosamente sempre vivo!
Al contrario, Ulisse sarebbe già morto da tempo!
E invece i suoi tormenti, le sue passioni, le sue paure, i suoi amori la Scuola li rende reali, quasi si arriva a toccarli!
Solo la parola del docente riesce a  restituire loro la vita  quando arrivano in tal modo al cuore di nostro figlio!

Presto di mattina /
Zakhor, ricorda!

Un silenzio di attesa

La memoria è un silenzio che attende
L’eredità del silenzio.
I libri si accumulano per casa.
Coprono le pareti, riempiono gli scaffali dell’armadio.
Ci aspettano in silenzio
con le loro pagine serrate dove si infiltrano polvere e umidità.
Disciplinati, mostrano solo il dorso ricurvo ricoperto di pelle,
oppure sottile, stretto, cartaceo.
La memoria è un silenzio di attesa,
una prova di pazienza.
Ana Hatherly

Zakhor, ricorda!

‘Ricorda’, è l’imperativo stesso della fede e così risponde all’appello il salmista:

«In me si rattrista l’anima mia;
perciò di te mi ricordo
dalla terra del Giordano e dell’Ermon,
dal monte Misar.
Un abisso chiama l’abisso
al fragore delle tue cascate;
tutti i tuoi flutti e le tue onde
sopra di me sono passati.
Mia roccia!
Perché mi hai dimenticato?
Perché triste me ne vado,
oppresso dal nemico?
Mi insultano i miei avversari
quando rompono le mie ossa,
mentre mi dicono sempre:
Dov’è il tuo Dio?»
(Sal 42,7-8; 11).

«Quando nel mio letto di te mi ricordo
e penso a te nelle veglie notturne
A te si stringe l’anima mia:
la tua destra mi sostiene»
(Sal 63,7; 9).

«Mi ricordo di Dio e gemo,/ medito e viene meno il mio spirito»
(Sal 77,4).

E l’abisso risponde all’abisso rompendo il fragore del suo silenzio per bocca del profeta Ezechiele:
«Ma io mi ricorderò dell’alleanza conclusa con te al tempo della tua giovinezza e stabilirò con te un’alleanza eterna» (Ez 16,60).

Eredità di silenzio è la memoria, come biblioteca interiore e silente. Lo stesso vale per i libri sugli scaffali, alle pareti, negli armadi di casa, in attesa, muti. Essi sono la biblioteca che ci circonda, teca delle memorie, eredità del silenzio a noi più cara. I libri e la memoria sono così ai nostri occhi una quotidiana prova di pazienza. Entrambi sembrano chiederla anche per noi, chiamandoci a dimorare nella loro silenziosa e vivente attesa.

Personalmente vi cedo volentieri. E ancora una volta mi sono lasciato prendere da questo esercizio di pazienza. Ho raccolto nuovamente l’invito con tremore e timore perché ricordare, leggere e poi scrivere è far vivere sé stessi, farci uscire dall’oblio, liberarci dalla paura.

Ma anche provare a illuminare l’ignoranza di chi non sa ancora o smascherare l’inganno di chi si ostina a non voler sapere, negando la realtà. È una chiamata a varcare la soglia dei silenzi pieni di memorie, che attendono sempre di nuovo riscatto e liberazione. Memorie che hanno la loro fonte e il loro culmine nel memoriale per antonomasia: quello della Pasqua.

«Questo giorno sarà per voi un memoriale» (Es 12, 14). ‘Memoriale’, che traduce l’ebraico zikkarôn, è parola centrale nel Primo Testamento tanto da essere citata 24 volte. Si richiama al verbo zakhar, ricordare, che è presente 288 volte. In italiano l’espressione rimanda al cuore: un riportare al cuore per riaprilo alle memorie passate. Non pare quindi eccessivo affermare che ricordare è il verbo con cui si origina e si declina la fede stessa.

Nachman il Rabbi cantastorie

Ho cercato così due libri di Nachman di Braslev: uno curato da Martin Buber, Le storie di Rabbi Nachman, (Guanda, Parma 1994); l’altro La principessa smarrita, a cura e con un saggio di Giacoma Limentani e Shalom Bahbout (Adelphi, Milano 1981).

Rabbi Nachman diceva: «Il mondo è come un ponte molto stretto e l’essenziale è non aver paura». La sapienza è quella luce che attraversa questo ponte e accende nell’oscurità e negli abissi del mondo tante piccole luci. Queste piccole luci sono coloro che l’accolgono; scintille del trascendente nel mondo, che lo dispongono all’attesa della salvezza che verrà con il Messia; anzi ne affrettano la venuta, il disvelamento della sua presenza nascosta.

Aperture: «dall’esilio alla stabilità, dal grido al canto gioioso»

Nachman fu uno dei grandi maestri del Chassidismo, anche se durante la sua vita fu molto osteggiato ed ebbe molti detrattori. Il Chassidismo – scrive Martin Buber – sorto alla metà del XVIII secolo, l’ultimo e il più nobile stadio di sviluppo della mistica ebraica, di cui esso costituisce insieme il proseguimento e la confutazione.

Il Chassidismo è la Kabbalà divenuta ethos. Ma la vita che esso insegna non è ascesi. Al contrario è gioia in Dio. La parola chassid significa ‘pio’, ma quella cui qui ci si riferisce è una pietà inserita nel mondo. Il Chassidismo non è una forma di pietismo. Esso è privo di qualsiasi sentimentalismo e rifugge dall’ostentazione dei sentimenti.

Esso trasporta l’al di là nell’al di qua, lo fa dominare sulle realtà di questo mondo e dar loro forma, come l’anima dà forma al corpo. Il suo nocciolo consiste nell’addestrare all’estasi come all’apice dell’esistenza, nel modo più realistico possibile. Ma l’estasi qui non significa, come nella mistica tedesca, una «trasformazione» dell’anima, bensì la sua apertura» (Buber, Le storie, 13- 14);

Il Rabbi di Breslav diceva che «con la gioia la mente diviene stabile, con la malinconia invece va in esilio». Per lui cantare è la forma più gioiosa del narrare e più coinvolgente della stessa sapienza di Dio; e il chassidismo ha sempre attribuito una grande forza di elevazione mistica al canto e alla danza come luoghi di incontro e unione con Dio:

«Sappi che ogni sapienza che esiste al mondo ha un suo canto particolare. Un certo canto è particolare di una certa sapienza e un altro canto deriva da un’altra sapienza … A seconda del suo aspetto e del suo livello, ogni sapienza ha un canto particolare a essa relativo… La fede ha anch’essa un suo canto particolare, abbraccia tutti i canti» (La principessa smarrita, 322-323)

Così per il Rabbi ogni sapienza che risuona nel mondo ha un suo canto particolare e questo canto egli non lo esprimeva in detti o aneddoti come gli altri chassidim, ma lo faceva raccontando storie, inventando racconti, la cui finalità – ricorda Martin Buber – era quella di rivestire le dottrine spirituali e mistiche al fine di renderle visibili: le vie della mistica “non avevano vestito” e perciò attraverso le storie, rivestite di esse, potevano essere comprese e praticate, esse «dovevano costituire il vestito delle dottrine, erano storie che dovevano “risvegliare” ad una Presenza di Dio nel mondo».

Egli – scrive Buber – «voleva far germogliare nel cuore dei discepoli un’idea mistica o una verità di vita. Ma senza che lo avesse già in mente, il racconto prendeva forma nella sua bocca, cresceva al di là delle sue intenzioni ed esplodeva nella sua fioritura, finché non era più una dottrina, ma una fiaba o una leggenda.

Non per questo le storie hanno perduto il loro carattere simbolico, ma esso è diventato più segreto e intimo. Rabbi Nachman si ispirò a una precedente tradizione di fiabe popolari ebraiche… Tutto ciò che esisteva prima di lui era creazione anonima; qui per la prima volta c’è una persona, un’intenzione e una forma personale. Le storie furono messe per iscritto dai suoi discepoli, specialmente dal discepolo prediletto, Natan di Nemirov» (Buber, 36-37).

Le storie aprono vie di trascendenza

Le storie tracciano sentieri sull’abisso. Nel cammino delle parole i passi dell’uomo, le sue storie.

Nachman fu il pronipote del fondatore del chassidismo Ba’al Shem Tov/il Maestro del Buon Nome. Anche per lui era fondamentale la luce della preghiera, per scorgere gli oscuri cammini che portano nel mondo all’incontro con la redenzione promessa; che fanno avvicinare e ridestano la speranza della venuta del Messia.

Ma quando egli vedeva che i “canali superiori” si erano oscurati a tal punto che non era possibile percorrerli con la preghiera, il Rabbi di Breslav li ritrovava attraverso il racconto di storie. Diceva infatti che molte cose nascoste e molte cose elevate, anche se disperse, sono come le scintille di luce, indicano la presenza del divino nel mondo.

Nelle sue storie egli ammira il cammino della Parola: «La parola provoca una vibrazione d’aria che si trasmette di particella in particella, finché raggiunge l’uomo che accoglie la parola del compagno e con essa accoglie la sua anima e ne viene risvegliato» (ivi, 25).

La parola che sale dal profondo dell’anima – ricorda ancora Buber – è da considerarsi non già opera dell’anima, ma l’anima stessa, la sua presenza nascosta nel travaglio dell’umanità, nel processo che opera la redenzione. E nel suo insegnamento egli non pronunciò alcuna parola che prima non fosse passata attraverso il dolore e la nostalgia del suo popolo: che non fosse “cresciuta nelle lacrime”.

«Talvolta le mie parole entrano come in silenzio nell’ascoltatore e riposano in lui e agiscono più tardi, come un lento farmaco; talvolta le mie parole non agiscono subito nell’uomo a cui io parlo, ma quando lui poi parla a un altro esse ritornano verso di lui, entrano nel suo cuore in grande profondità e portano a perfezione la loro opera» (ivi).

Il mosaico della memoria nel mosaico delle parole narranti

Scrivere storie e raccontarle è mestiere di mendicanti. Così ho pensato leggendo il racconto de I sette mendicanti. Il termine kavzan, ‘mendicante’, significa anche ‘colui che raccoglie’. I sette mendicanti di Nachman sono come i cantastorie, che girano il mondo raccogliendo i frammenti di gioia che vi si trovano dispersi, per donarli agli uomini semplici. Con le loro storie tengono unito il mondo perché non si disperdano le scintille di gioia e di luce in esso.

Scrivere storie allora è come comporre un mosaico: una pratica di condivisione che spezza la solitudine che rinchiude, aiuta a guardare avanti, mostrando nuove strade nel futuro impenetrabile. Aggiungendo racconto a racconto come combinando tessera a tessera, memoria a memoria di un puzzle infinito, le nostre storie si scoprono illuminate dal di dentro, abitate da una presenza che come la principessa smarrita viene ritrovata e liberata dal “non bene”.

È questo il tema centrale del racconto: il ritrovamento della Shekinah – la principessa smarrita – prigioniera del “non bene”. Il termine è tradotto con “egli causò di dimorare”, dunque lo stabilirsi della presenza divina o la dimora di Yhwh sulla terra nascosto tra gli uomini. Alla ricerca della principessa parte il viceré, che simboleggia sia ogni persona, sia il popolo d’Israele, collaboratori di Dio nell’opera redentrice che consentirà l’avvento del Messia.

Raccontare storie poi libera dalla prigionia e dalla solitudine dei propri ricordi opprimenti, che imprigionano nel passato. Narrare storie aiuta a sopravvivere al dolore, libera dal suo irrigidimento (Hannah Arendt), perché dischiude un senso nascosto con cui costruire nuova memoria; è un tenere unita la propria memoria con la memoria collettiva, come in un mosaico infinito che non isola nessun tassello – anche quello più insignificante – inserendolo in un orizzonte più grande: l’abisso dell’immanenza umana congiunto e abitato da quello della trascendenza divina.

Fate memoria che questo è stato

«Meditate che questo è stato:/ Vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore (Primo Levi).

Zakhor, ricorda! Non è solo un imperativo per l’uomo, ma anche per il Santo, Benedetto è detto infatti di Lui nel libro della preghiera/tehillìm:

«Si ricordò della sua alleanza con loro
e si mosse a compassione,
per il suo grande amore»
(Sal 106, 45; Sal 105, 8, 42).

«Il Signore si ricorda di noi, ci benedice:
benedice la casa d’Israele,
benedice la casa di Aronne»
(Sal 115, 12)

«Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele»
(Sal 98, 3)

«Nella nostra umiliazione si è ricordato di noi,
perché il suo amore è per sempre».
(Sal 136, 23).

La parola appartiene a tutti

Scrive Giacoma Limentani: «Dicono i Maestri ebrei che lo zikkaron, la memoria, è il più prezioso tesoro che la vita mette a nostra disposizione. Come tale va tenuto in gran conto perché le esperienze passate, storiche come personali, aiutano a non ripetere gli errori commessi: solo in base a un loro ricordo critico si può vivere il presente in funzione del futuro…

Nachman dice che del passato si devono dimenticare i sentimenti provocati da eventi che hanno fatto soffrire. Se ci si libera l’anima da questi sentimenti, che a eventi trascorsi dovrebbero venir superati, è possibile oggettivare le cause che li hanno suscitati, e giudicarle con l’obbiettività indispensabile a ogni proficuo apprendimento morale.

La gioia si può e si deve ricordare perché la gioia aiuta ad amare, e infatti con profonda volontà di dare gioia Nachman lastrica le tavole del palcoscenico su cui pone i personaggi delle sue storie. Chassidim vi si mescolano alla pari con principesse vestite di luce, re, imperatori, giganti, briganti e animali parlanti. Su quel palcoscenico la parola appartiene a tutti. Vita vissuta e parola narrata vi si confondono in modo da dire e non dire, per trarre in inganno l’Altra Parte (il Non Bene, il Maligno).

Soprattutto con le sue favole Nachman insegna che trarre in inganno e rendere inoffensiva l’Altra Parte equivale a far risplendere la verità che costruisce questa parte: la parte in cui le creature di Dio devono tornare a vivere affratellate dalla consapevolezza di discendere tutte dall’unico Padre comune» (Nachman racconta. Azione scenica in due atti, Giuntina, Firenze 1993, 23-24).

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