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Ferrara film corto festival

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Parole e figure /
Siamo foresta

21 novembre, giornata nazionale dell’albero

Ai miei affezionati lettori ormai è noto quanto gli alberi e la foresta siano per me importanti oltre che grande fonte di ispirazione, in quanto costante elemento di continuità con l’universo. Parte integrante di esso, noi con loro, imprescindibili l’un l’altro, avvolti in un legame indissolubile.

I bambini forse ne sono più consci degli adulti, nel loro girovagare libero e leggero per prati e boschi, capaci di abbracciare un albero o di accarezzarne teneramente e delicatamente la spessa corteccia. Loro sanno anche (e ancora) arrampicarsi spensieratamente sugli alberi, sicuri che i rami li sorreggeranno, magari attratti dal sogno di farvi sopra una bella casetta, il cui tetto non sia altro che la folta chioma del loro fedele amico. Bei tempi, quando anche noi abbracciavamo gli alberi o avevamo la voglia, la possibilità e la libertà di passeggiare a piedi nudi sull’erba.

A guidarci in questo mondo fatato, regno di una biodiversità che fa bene a tutti, pianeta in primis, ci sono tanti albi illustrati ma oggi due verranno regalati a voi, sensibili lettori.

Il primo è Alberi, di Tony Johnston, illustrato da Tiffany Bozic, Nord Sud Edizioni (2021), dedicato a tutti coloro che amano davvero gli alberi. I disegni di questo bellissimo e colorato volume sono stati possibili grazie agli stessi alberi: tutti dipinti, infatti, su tavole di legno d’acero, indica l’illustratrice in nota finale al libro, dalla sua casa di campagna in California, sotto alte e gigantesche sequoie. Tiffany ha un tratto elegante, deciso, colorato, caldo e magico. Coinvolgente, profondo e unico (scorrete il suo sito e ne resterete immediatamente conquistati…).

Nei disegni di Alberi ci sono i kapok, le querce, gli alberi della canfora, gli aceri palmati, le sequoie, i meli, le betulle, i pini di Jeffrey, i salici piangenti e varie foglie e rami. A tutti loro dobbiamo l’aria che respiriamo, le case in cui viviamo, i tetti che ci proteggono, i libri che leggiamo, la diversità che celebriamo, la bellezza che ci circonda. La vita, insomma.

Tiffany Bozic

Gli ingredienti sono tanti. Tratti delicati e avvolgenti, così come le parole che li accompagnano, che partono dalla credenza degli antichi greci che gli alberi fossero esseri viventi a testa in giù, con la testa nelle radici. Terra e aria, radici e foglie. Cuore ed energia. E poi la fotosintesi chesadimagia, tramite la quale gli alberi rilasciano ossigeno, fondamentale ed essenziale alla vita.

Gli alberi amano il cielo, tutto quell’azzurro che sta sopra di loro, immenso stupore attraversato dai raggi solari che illuminano cose e anime. Fitti fitti, zitti zitti, ne amano anche le multiformi nubi irriverenti e velate, alle quali si protendono, quasi a volerle toccare e accarezzare.

Durante il giorno assolato porgono i loro rami possenti ad accogliere il cinguettio degli uccelli, durante la notte argentina li tendono alle stelle ballerine che brillano e alla magica e trasparente luna. Verità, purezza e nobiltà, questo sono gli alberi.

Hanno foglie verdi che brillano, che luccicano al passaggio della rugiada e della pioggia, sono forti, sbocciano in fiori rosa o candidi come la neve, come la neve portano felicità.

Sono vecchi, antichi e secolari, con tanti faticosi anni negli anelli dei loro maestosi tronchi, tante storie vissute e viste vivere, tante estati, primavere, autunni e inverni. Anni e secoli. Sempre lì, coraggiosi, amici, come gli amici sanno essere e restare, disponibili a invitare ad arrampicarvisi sopra. Invito ben accetto e presto accolto, soprattutto dai bambini e da tanti simpatici animaletti, che ricordano i pelouche dei regali di Natale di un felice e spensierato tempo che fu.

Gli alberi offrono ombra ai passanti stanchi e a quelli meno stanchi, a chi è allegro e a chi è triste. Un refrigerio che fa bene. Bello leggere all’ombra di un albero, noi e lui, soli. Perché siamo foresta.

E qui arriva il secondo albo di oggi, dell’italiana Nadia Al Omari, per il testo, e del peruviano Richolly Rosazza, per le illustrazioni: Siamo foresta io e te, Kite Edizioni (2022), un volume sorprendente e delicato che parla di natura e deforestazione. Questo terribile mostro.

Richolly Rosazza

Una scimmietta dalla coda riccia sbircia fra gli alberi, ha gli occhi furbi e pare molto curiosa. Tanti fiori e piante intorno. Una bambina ama così tanto un albero da sognare l’incubo più tremendo, che venga abbattuto e portato via. Un rumore assordante, la foresta grida, gli uccelli scappano impauriti.

La bambina dai lunghi capelli lisci e con il suo bel vestitino bianco, corre nella foresta, va da lei, vuole vederla e sentirla, assicurarsi che tutto vada bene, è preoccupata. Fermandosi in quel luogo magico, respira aria, luce e verde, mentre una coccinella curiosa spunta fra le foglie.

Sente la geografia della corteccia, mentre una farfalla rossa le sorride. Il suo amico albero, dov’è? Dove sono i battiti del suo cuore? Dove porta il respiro del suo corpo caduto? Pesanti sono i temibili passi di chi, senza scrupoli, si aggira per la foresta e abbatte gli alberi per portarli via…

Ma la bimba si sveglia, è nel suo caldo lettino, per fortuna è un solo un brutto sogno: l’albero è proprio lì, dove è sempre stato, alto come non mai, imponente, vivo, eretto verso il cielo. Che bello capire che potrà di nuovo arrampicarvisi fino in cima e vedere il mondo, quella meraviglia vivacemente colorata, da lassù, sentire le voci della terra sussurrare segreti. Che sollievo!

Mentre il cielo si apre e il sorriso torna, bimba e albero restano ad aspettare la luna, a respirare uniti. In silenzio, insieme, all’unisono. Perché insieme sono foresta. Per sempre.

 

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

 

DESTINI INCROCIATI
Rassegna di Teatro in Carcere in Italia e nel mondo
(Venezia, 23-25 novembre 2022)

DESTINI INCROCIATI
IX edizione 

Venezia – Università Ca’ Foscari, 23 – 25  novembre 2022

nell’ambito di Destini Incrociati – Progetto Nazionale di Teatro in Carcere

a cura di Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere (C.N.T.i.C.)
e Teatro Universitario Aenigma
in collaborazione con l’International Network Theatre in Prison (I.N.T.i.P.)
e l’Università Ca’ Foscari di Venezia

con il Patrocinio del Ministero della Giustizia

e le collaborazioni di:
Università degli Studi Roma Tre
Associazione Nazionale Critici di Teatro (A.N.C.T.)
AGITA Teatro
Balamòs Teatro

incontri, conferenze, proiezioni video, performance, mostra fotografica 
sul Teatro in Carcere in Italia e nel mondo

Si terrà a Venezia, da mercoledì 23 a venerdì 25 novembre, Destini Incrociati, rassegna nazionale di teatro in carcere, con la direzione artistica di Ivana Conte, Grazia Isoardi, Vito Minoia, Valeria Ottolenghi, Gianfranco Pedullà, Michalis Traitsis.

Giungendo alla sua nona edizione e alla luce del recente rinnovo del Protocollo d’Intesa triennale per la Promozione del Teatro in Carcere in accordo con il Ministero della Giustizia, nel 2022 la rassegna si conferma quale momento più alto di confronto tra le esperienze italiane di teatro in carcere ed apre operativamente le porte all’International Network Theatre in Prison con la presenza della Direzione Generale dell’International Theatre Institute dell’Unesco
(Vito Minoia, Presidente del CNTiC e Coordinatore INTiP).

La IX edizione, che si svolgerà all’Università Ca’ Foscari, presenterà performance, frutto di laboratori produttivi realizzati con detenuti, una sezione dedicata alla proiezione di video, strumento indispensabile per documentare le esperienze di teatro in carcere, incontri, conferenze e una mostra fotografica. Un progetto in grado di restituire un ampio panorama delle nuove esperienze drammaturgiche sperimentate da registi e autori professionisti che, da anni, lavorano sul campo con detenute e detenuti, spesso direttamente coinvolti nel processo di scrittura e allestimento.

Balamòs Teatro, tra i promotori di questa edizione della rassegna, sarà presente con tre eventi:

Mercoledì 23 Novembre, alle ore 16.00 presso la Casa di Reclusione Femminile di Giudecca (ingresso riservato agli autorizzati), sarà presentato lo spettacolo voci e suoni da un’avventura leggendaria tratto dall’incredibile avventura di Odisseo e i suoi compagni all’isola dei Ciclopi, eroiche avventure, miti e leggende senza tempo raccontati con leggerezza e ironia, diretto da Michalis Traitsis con un gruppo composto da donne detenute della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca e alunni della scuola secondaria T. Tasso di Ferrara.

Mercoledì 23 Novembre, alle ore 19.00, presso la sede della Fondazione di Venezia (Sestiere Dorsoduro, 3488/U), verrà inaugurata la mostra fotografica di Andrea Casari Scatti Sospesi, con un contributo video a cura di Marco Valentini (durata fino al 31 gennaio 2023). La mostra è composta da 40 foto stampate più altre 436 in una video proiezione che ripercorre le varie fasi del progetto Passi Sospesi di Balamòs Teatro negli Istituti Penitenziari di Venezia dal 2006 al 2022 (Casa Circondariale Santa Maria Maggiore, Casa Circondariale SAT di Giudecca, Casa di Reclusione Femminile di Giudecca). Durata della mostra 23 novembre 2022 – 31 gennaio 2023, visitabile da Lunedì a Venerdì dalle 10.00 alle 19.00, ingresso gratuito.

Venerdì 25 Novembre, alle ore 15.00, presso Ca’ Dolfin, Aula Magna Silvio Trentin (Calle de la Saoneria, 3829, Venezia), verrà presentato il video di Marco Valentini Passi Sospesi 2017 – 2021 dall’omonimo progetto teatrale di Balamòs Teatro alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca. Il video documenta il percorso e le metodologie del laboratorio teatrale, le prove e l’allestimento degli spettacoli, l’incontro e confronto con artisti e maestri del teatro contemporaneo, l’incontro e confronto con alunni delle scuole medie e dell’università, la presentazione di spettacoli provenienti dall’esterno.

Locandina della rassegna-DESTINI-INCROCIATI-Venezia, 23-25 novembre 2022

Comunicazione a cura di Balamos Teatro – Ferrara

Informazioni e documenti:

– Programma dettagliato DESTINI INCROCIATI – Venezia 2022
– Locandina voci e suoni da un’avventura leggendaria – Novembre 2022
– Scheda spettacolo voci e suoni da un’avventura leggendaria – Novembre 2022
– Locandina Scatti Sospesi – Destini Incrociati 2022
– Scheda SCATTI SOSPESI – oltre il visibile – mostra fotografica progetto Passi Sospesi 2006-2022
– Locandina video Passi Sospesi Destini Incrociati 2022
– Scheda video documentario progetto Passi Sospesi alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca 2017 – 2021

In Copertina: foto di Passi Sospesi (Balamos Teatro, Ferrara)

Economia Italiana, cittadinanza, stranieri e migranti di passaggio

 

Il tema dell’immigrazione in Italia può essere analizzato da varie angolature, in questo caso prendo in esame in particolare il versante economico, che però è immediatamente connessa ad aspetti più sociali e culturali, oltreché politici. Ancora una volta, quindi, dobbiamo confrontarci con la complessità

Su Repubblica del 25 Ottobre Rosaria Amato anticipa alcuni dati relativi al “Rapporto Annuale sull’economia dell’immigrazionecurato dalla Fondazione Leone Moressa, pubblicato il 14 Novembre.
I numeri indicano che gli stranieri (immigrati regolari) in Italia sono 5,2 milioni e contribuiscono per il 9% al Pil italiano, quasi 144 miliardi di euro in termini assoluti.  Si tratta di numeri in calo dal 9,5% rilevato prima della pandemia, con la contestuale discesa della loro incidenza tra gli occupati dal 10,3% del 2019 al 10% attuale.

Tutto questo ha conseguenze importanti (e preoccupanti) su diversi settori dell’economia italiana. In particolare  sulla agricoltura, l’edilizia e il turismo, dove il ritorno a pieno regime dell’economia dopo le chiusure imposte dal Covid ha evidenziato la difficoltà nel reperimento di manodopera.

Le misure adottate dai vari governi – ad esempio il Decreto Flussi che autorizzava l’arrivo di 70 mila lavoratori –  possono essere delle misure  congiunturali, ma richiedono una migliore implementazione a livello burocratico e gestionale e necessitano di un affinamento per rispondere in modo efficace alle richieste del mondo produttivo.

A questi dati è poi da aggiungere l’impatto positivo sui conti pubblici italiani dei lavoratori immigrati, che vede il saldo tra il gettito fiscale e contributivo (entrate, 28,2 miliardi) e la spesa pubblica per i servizi di welfare (uscite, 26,8 miliardi) rimanere in attivo per +1,4 miliardi di euro. E questo, nonostante la pandemia abbia determinato un calo nei redditi dichiarati da contribuenti immigrati (-4,3%).

Volgendo lo sguardo sull’aspetto sociale dell’immigrazione, possiamo rifarci all’analisi che il Deputato di Sinistra Italiana Aboubakar Soumahoro  – e il fatto che sia attualmente alla ribalta della cronaca per vicende legate ai suoi famigliari nulla toglie alla validità della sua analisi –  riporta nel suo libro “Umanità in rivolta – La nostra lotta per il lavoro e il diritto alla felicità” (Feltrinelli, 2020) relativo alla sua esperienza sindacale nei settori dell’agricoltura, della logistica e della cura alla persona.

Soumahoro sottolinea come l’approccio italiano al tema dell’immigrazione sia stato sviluppato dagli anni ’90 fino a oggi in un’ottica prevalentemente securitaria, presupponendo una diretta correlazione tra immigrazione e pubblica sicurezza, senza invece prevedere veri e regolari percorsi di inserimento per chi vorrebbe venire a lavorare in Italia.

Si applica quindi quella che lui chiama “categorizzazione” alla figura del migrante, il quale si vedrebbe a livello sociale, economico e culturale in una situazione di subalternità rispetto al resto della popolazione, contribuendo così alla generazione dei fenomeni del caporalato e dello sfruttamento lavorativo.

A queste due dimensioni, economica e sociale, si aggiunge quindi l’aspetto più propriamente politico culturale.

Il  concetto di “cittadinanza” che, paradossalmente, nasce nella penisola italiana 2000 anni fa, al tempo dell’Antica Roma.
Valerio Massimo Manfredi e Fabio Manfredi nel loro libro Come Roma insegna” (Libreria pieno giorno, 2021) ci ricordano come, proprio attraverso la cittadinanza “si cementasse all’interno della società romana quell’equilibrio tra diritti e doveri in grado di creare un circolo virtuoso tra i due poli del cittadino e dello Stato, ma quando questa veniva meno, l’equilibrio si rompeva e perdendo la consapevolezza che siamo legati gli uni agli altri da un “patto”, scompare la coscienza del proprio ruolo di cittadino, con i doveri non tanto solo legali ma anche e soprattutto morali che ciò comporta”.
A questo si può far riferimento quando si devono valutare le politiche da adottare in tema di cittadinanza per chi arriva in Italia e per i loro figli.

Occorre quindi approcciare il tema immigrazione, affrontando tre dimensioni, ovvero economica, sociale e culturale. tra loro strettamente legate, non limitandosi ad interventi che rispondono ad un unico aspetto, senza tener conto degli intrecci.
Ecco quindi che Rosaria Amato conclude il suo articolo rilevando come già dal 2011 le partenze degli immigrati dall’Italia siano diventate costanti, per tornare a casa oppure andare in Paesi più affini dal punto di vista linguistico come la Francia o il Regno Unito, contribuendo quindi all’acuirsi dei problemi economici, e della produzione di reddito del nosto paese.

La questione dell’immigrazione non è quindi  sempre più attuale,  ma è urgente affrontarla con interventi organici e strutturali e fuori da una logica emergenziale. Solo così è possibile dare risposte efficaci ad un fenomeno complesso, trasformalo cioè da problema insoluto in occasione di sviluppo economico e di integrazione sociale.

In copertina:  Manifestazione di migranti (foto tratta da SettimanaNews)

IL TOBIA CIRCUS A FERRARA OFF
Equilibrismi e grasse risate per una serata di teatro anche in famiglia

 

Una sala calda, piena di colori, musica dance e tante faccine giovani in mezzo ad alcune più adulte. È un teatro avvolgente e coinvolgente ancor prima che si abbassino le luci quello che mi ha accolto nella serata di sabato 19 novembre 2022 per lo spettacolo “Equilibrium Tremens” a Ferrara Off, lo spazio di recitazione, ricerca e cultura che si trova sulle mura di Ferrara, dietro all’area verde del baluardo del Montagnone al fianco del cuore storico della città.

“Equilibrium tremens”, Ferrara Off (© GioM)

L’energia del pubblico sembra scorrere come una linfa su e giù per la tribuna di sedie e anche attorno allo spazio scenico, circondato da altri posti a sedere a sinistra e a destra. L’attesa, seduti sulle seggiole variopinte e tutte diverse una dall’altra, è già uno spettacolo. Ci sono tanti bambini, famiglie, ma anche diversi ragazzi di età universitaria, fissi al loro posto dove ondeggiano, incatenati e incantati dalla musica ritmata e da un’illuminazione rinnovata di grande atmosfera.

Pubblico al teatro (© Ferrara Off)

I colori bigi, che di solito caratterizzano l’abbigliamento invernale del pubblico, sono rimpiazzati da felpe rosse, piumini imbottiti arancioni, giubbini turchesi, abitini di lana bianca, rosa, maglioni gialli, magliette verdi.

Marco Borghetti e pubblico (© GioM)

Quando entra in scena l’artista è subito un tripudio: il Tobia Circus che propone lo spettacolo “Equilibrium Tremens” è composto da un unico protagonista, attore, funambolo, clown e intrattenitore, che è Marco Borghetti. Una corsa in scena, vestito in abito giacca e pantalone rosato e cappello alla francese, e via che partono gli applausi e gli equilibrismi. Niente clave, palle ed attrezzi luminosi, però, rimpiazzati da semplici oggetti domestici come scope, bastoni da lavapavimenti, seggiolina pieghevole da cucina. Un baule lungo, come quelli dove ci si immagina che una bella fanciulla venga tagliata a pezzetti e poi tirata fuori intera, contiene invece tutto il necessario per una magia più domestica e simpatica, ma non banale. Gli stessi bambini del pubblico gridano “Noo, nooo” quando l’artista accenna a salire sul bastone appoggiato tra la seggiolina e il baule. Lui, intrepido con qualche smorfia di paura, si inerpica sul vuoto lasciando tutti col fiato sospeso e poi scende suscitando sollievo, grasse risate e la crescente predilezione dei suoi spettatori.

Marco Borghetti
“Equilibrium tremens”
Teatro Ferrara Off (foto GioM)

Tutto esaurito in sala per questa prima esperienza di spettacolo adatto anche ai bambini che il teatro Ferrara Off ha proposto in orario serale. Una scelta davvero azzeccata, che ha trovato grande consenso delle famiglie e che ha regalato un’occasione di divertimento svagato e coinvolgente anche agli adulti. “È da tempo che ci chiedevano di organizzare qualcosa che andasse bene anche per i più piccoli alla sera – racconta Stefania Andreotti insieme con il direttore tecnico della compagnia Marco Sgarbi – e il sold-out di questa sera conferma la bontà della scelta”.

Andrea Bochicchio e Marco Borghetti (© GioM)

L’artista Marco Borghetti tornerà in scena con il collega d’arte Andrea Bochicchio sabato 10 dicembre 2022 alle 21 con “Squilibrismi”, un’ulteriore esperienza di ricerca di inaspettati e sempre nuovi equilibri, che è il risultato del lavoro della residenza artistica del duo a Ferrara Off. “Abbiamo creato una macchina – ha anticipato l’artista funambolo – per vedere come ognuno può conquistare in ogni momento il suo non facile equilibrio, che come ha dimostrato la pandemia, è strettamente legato agli altri e a qualcos’altro fuori da noi. È un esperimento e sarete i primi con cui andremo a testarlo”.

Per info: teatro Ferrara Off, viale Alfonso I d’Este 13, Ferrara pagina web https://www.ferraraoff.it/rassegna/autunno-2022/.

GIORNALISTE IN CARCERE PERCHE’ DICONO LA VERITA’

 

Molte giornaliste finiscono in carcere ogni anno perché provano a documentare ciò che sta succedendo nel mondo. Una questione che mi sembra importante affrontare e approfondire è il legame tra il modo di intendere la professione di queste giornaliste, il rischio che corrono e le conseguenze ne derivano.

Zhang_Zhan (foto OMCT, SOS Torture Network)

Un caso che mi ha colpito particolarmente è quello della blogger cinese Zhang Zhan, che è stata torturata dalla polizia segreta cinese e condannata a quattro anni di carcere perché accusata di “false informazioni sui social media” attraverso un rapporto da lei redatto nel 2020 sulla cattiva gestione della pandemia Covid-19 da parte del governo cinese.

In particolare, Zhan ha documentato come funzionari dello Stato molestassero le famiglie degli ammalati. La situazione era sicuramente grave, la malattia allora sconosciuta e la tensione sociale alle stelle, ma questo non giustifica l’atteggiamento dei funzionari del governo. Inoltre, l’uso della tortura nei confronti della giornalista è vergognoso, universalmente inammissibile. [si veda: https://www.amnesty.it/appelli/firma-per-zhan/ ].

Di solito i giornalisti, le giornaliste in questo caso, sono sottoposti a rischi tanto più forti quanto la notizia porta con sé la capacità di sovvertire uno status quo o, comunque, è contraria alla ‘visione dominante’ di un evento, di una politica o ideologia. Il potere dittatoriale si fonda sulla costruzione di un “unica versione dei fatti” che non deve essere sovvertita, pena l’incapacità della dittatura di sopravvivere e prosperare. Questo andare contro la “visione dominante” può essere un rischio calcolato se per calcolo si intende l’accettazione di conseguenze estreme che comprendono anche la messa a repentaglio della propria vita. Fa inoltre impressione che tante di queste giornaliste siano donne che scelgono questa professione accettandone i rischi che riguardano sia l’incolumità professionale, sia una vita familiare e di relazione fortemente condizionata dal “dovere di cronaca”.

L’RSF (Reporters sans frontieres) ricorda che i giornalisti in carcere nel 2021 erano 488, di cui 60 donne, tutti detenuti illegalmente perché la detenzione arbitraria è vietata dal diritto internazionale. L’Art. 9 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo infatti recita «no one shall be subjected to arbitrary arrest, detention or exile» (nessuno può essere sottoposto ad arresto arbitrario, detenzione o esilio). Il documento è stato sottoscritto anche nel Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici.

In Birmania la giornalista Ma Zuzar si trova in isolamento nel carcere di Insein per aver raccontato le manifestazioni contro la giunta militare golpista che si è insediata l’1 Febbraio del 2021. L’1 febbraio di quest’anno i birmani, contrari all’attuale regime, hanno manifestato contro il colpo di stato con negozi chiusi, residenti chiusi in casa e proteste pacifiche. Allo sciopero ha aderito gran parte della popolazione, nonostante le minacce di conseguenze penali arrivate dalla giunta del generale Min Aung Hlaing. Ma purtroppo, lo stato di emergenza è stato esteso di altri sei mesi e le intenzioni del regime di mantenere il potere sono chiare, anche di fronte ad ulteriori sanzioni minacciate dalla comunità internazionale. [si veda: https://www.swissinfo.ch/ita/tutte-le-notizie-in-breve/un-anno-fa-il-golpe-in-birmania–piazza-sfida-la-giunta/47312442 ]

Katsiarina Andreyeva (foto Wikimedia Commons)

In Bielorussia il numero di giornaliste dietro le sbarre (17) è superiore a quello dei colleghi maschi (15). Tra le detenute ci sono Daria Tchoultsova e Katsiarina Andreyeva. Giovedì 18 febbraio 2021 le due reporter del canale indipendente polacco Belsat, sono state condannate a due anni di colonia penale per “organizzazione e preparazione di atti di grave violazione dell’ordine pubblico”. Le due giornaliste sono accusate di aver trasmesso in diretta una manifestazione non autorizzata: stavano infatti filmando una manifestazione in omaggio all’attivista dell’opposizione Raman Bandarenka, nella cosiddetta piazza dei “cambiamenti” a Minsk. L’attivista è morto in circostanze inspiegabili dopo il suo arresto il 12 novembre e le due reporter sono state incarcerate e condannate in maniera illegale. [si veda: https://rsf.org/fr/rsf-d%C3%A9nonce-la-volont%C3%A9-d-annihiler-tout-journalisme-ind%C3%A9pendant-au-belarus-apr%C3%A8s-la-condamnation ]

Sempre secondo RSF sono quattro le giornaliste in carcere in Vietnam, tra le quali Pham Doan Trang, una delle attiviste per i diritti umani più conosciuta in Vietnam. La sua principale attività era quella di promuovere la libertà di informazione in uno Stato a guida socialista che non tollera il dissenso. Oltre ad essere autrice di numerosi libri, Doan Trang è cofondatrice del blog “luật khoa tạp chí” (Giornale di diritto) dove si occupava del tema della difesa della dignità umana in ogni suo aspetto: dalle questioni di genere al cambiamento climatico. Proprio la visibilità di cui godeva, l’ha resa un soggetto sgradito al governo. L’accusa che si trova a fronteggiare oggi Pham Doan Trang fa riferimento all’articolo 117 del codice penale vietnamita pensato per punire coloro che “producono, immagazzinano e diffondono informazioni, materiali e prodotti che cercano di opporsi alla Repubblica federale del Vietnam”.

Tra le vicissitudini di giornaliste incarcerate, Amnesty International ricorda quella di Narges Mohamadi, giornalista iraniana che dopo aver scontato otto anni in carcere, è stata arrestata di nuovo nel novembre 2021. Narges Mohammadi è detenuta arbitrariamente nella prigione di Shahr-e Rey (nota anche come Gharchak) nella città di Varamin, provincia di Teheran. Le stanno deliberatamente negando assistenza sanitaria adeguata come rappresaglia per le sue campagne pubbliche, come quella contro l’uso dell’isolamento nelle carceri o quella per la ricerca delle responsabilità per le centinaia di omicidi illegali avvenuti durante le proteste del novembre 2019. Secondo quanto riportato da suo marito, il 23 giugno 2022 Narges Mohammadi è stata trasferita in ospedale, fuori dal carcere, dopo aver avvertito difficoltà respiratorie e battito cardiaco irregolare. Da quando è tornata in prigione dall’ospedale le sono stati negati alcuni farmaci specifici prescritti dal medico specialista. [si veda: https://www.amnesty.it/appelli/iran-nuova-condanna-per-narges-mohammadi/ ]  Una situazione di assoluto non rispetto dei diritti essenziali di qualsiasi essere umano che, purtroppo, non è così rara come si potrebbe pensare.

Ilaria Alpi (foto Wikimedia Commons)

Se ripercorriamo la storia più recente, troviamo i nomi di molte giornaliste morte per raccogliere e comunicare notizie. Solo per citarne alcune: Lea Schiavi, Graziella De Palo, Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli, Camille Lepage, Anja Niedringhaus, Regina Martinez Perez, Anna Politovskaya, Marie Colvin, Daphne Caruana Galizia, Dada Vujasinovic, Mursal Hakimi, Sadia, Shanaz, Lourdes Maldonado López, Neneng Montano, Mayada Ashraf, Leyla Yıldızhan (alias Deniz Firat), Naseeb Miloud Karfana, Rubylita Garcia, Elisabeth Blanche OlofioKim Wall. Ognuna di loro meriterebbe un posto nei libri di Storia. Alcune, per fortuna, lo hanno già.

Una delle questioni che dovrebbe fare riflettere e che ha a che vedere con tutte queste morti e con altre che purtroppo arriveranno, è la definizione di ciò che è “vero”. La verità, così come la corrente formalista della filosofia intende, è sinonimo di dimostrabilità. In questa accezione, la verità in quanto tale non può essere manipolata perché perde il suo attributo essenziale, la dimostrabilità.

Senza entrare in dissertazioni filosofiche, credo che il legame tra osservazione (attenzione intesa all’ottenimento di una visione completa e dettagliata o alla formulazione di un giudizio, motivata per lo più da ragioni tecniche o scientifiche o anche da una notevole capacità intuitiva), documentazione (il complesso delle attività e operazioni occorrenti per raccogliere e classificare materiale bibliografico, informativo, dimostrativo), interpretazione (il modo di scoprire e spiegare quanto in uno scritto o discorso è oscuro o oggetto di controversia, di attribuire un significato a ciò che si manifesta o è espresso in modo simbolico, attraverso segni convenzionali o noti a pochi) e diffusione (comunicazione di qualcosa a un numero sempre maggiore di persone, sinonimo di  divulgazione) sia l’ossatura necessaria alla costruzione di una verità dimostrabile.

Se ognuna di queste fasi è svolta con rigore e onestà intellettuale ci avviciniamo a ciò che comunemente possiamo intendere dimostrabile e quindi vero. In nome della “salvaguardia della verità” si annida la deprecabile motivazione ad imprigionare e uccidere, grazie alla dimostrabilità si vivifica una notizia e si dà nuova voce a chi la può dimostrare. Questo tema (solo accennato) non riguarda le singole persone arrestate e torturate, ma riguarda tutte quelle situazioni in cui si legittima, o si tenta di legittimare, la violenza come unico mezzo per continuare a garantire l’affidabilità di ciò che viene propagandato come vero.

Ogni volta che un evento non può essere dimostrato perde potere di comunicazione e cambiamento. Ciò che non è definibile non è legittimo, non esiste, così come smette di esistere colui o colei che ha provato a costruire la sua identità professionale secondo un processo di dimostrabilità delle notizie diffuse che, se non riuscito, viene azzerato, fatto a pezzi.

Ogni giornalista ha il diritto di dire ciò che pensa in qualunque territorio si trovi, in qualunque nazione viva, in qualunque regime politico scriva e in qualunque setting debba gestire relazioni.

Non è accettabile che tranquillità, benessere, decisione, ordine, possano, anche subdolamente, essere associati alla mancanza di notizie, o alla loro censura o all’affidamento del “newsmaking” ad una cerchia di comunicatori che appartiene alla stessa ideologia di chi comanda. Questo è pericoloso, irresponsabile, non democratico, demagogico e prova che il circuito del progresso ha bisogno di rinforzi.

Cover: Narges Mohammadi una donna da difendere almeno con una firma  AgoraVox

L’epoca dei Mondiali tristi

 

Debuttano oggi – tra i cartelloni malinconici del Black Friday e le cataste di panettoni industriali nei supermercati – i primi Mondiali di calcio giocati quando nell’emisfero nord del pianeta le giornate sono brevi e (speriamo) fredde.

L’aria, dunque, potrebbe pure farsi frizzante, ma non in quel modo specialissimo in cui lo diveniva quando, ogni quattro anni, tra le finestre aperte dell’estate rimbombavano le voci omologhe della giungla dei televisori, le urla strozzate dei quasi-gol, gli improvvisi silenzi delle reti avversarie.

Sulle prossime serate mondiali, invece, tutto tace e, personalmente, non ho ancora sentito, nemmeno prendendo il cappuccino al bar, una sola conversazione che le avesse come oggetto. I rigori invernali attutiscono quelli calcistici?

Certo, conta anche il fatto che l’Italia, per la seconda volta consecutiva, non si è qualificata per la competizione. Ma anche di questo si è smesso di parlare.

Ricordo ancora i primi Mondiali (allora Coppa Rimet) cui ho assistito consapevolmente. Erano quelli della famosa eliminazione dell’Italia ad opera della Corea del Nord, vissuta come un fallimento talmente abissale da divenire proverbiale. Il commissario tecnico Mondino Fabbri fu un buon allenatore, prima e dopo la Corea, ma il suo nome rimase a lungo patetico sinonimo di disfatta.

Qui, c’è un primo interrogativo perturbante: cosa differenzia Mondino Fabbri – e anche il buon Giampiero Ventura, il quale dopo l’eliminazione del 2018 contro la Svezia sostanzialmente non ha più lavorato – dal Mancio?
Perché a quest’ultimo – responsabile del peggiore dei tre fallimenti – non è stato richiesto a furor di popolo di uscire di scena come i suoi predecessori di sventure e, anzi, tanto la disfatta che la sua conferma nel ruolo di commissario tecnico sono state metabolizzate e digerite come se nulla fosse?

Il fatto è che Mancini – per geni, per storia, per relazioni, per reddito, per trucco e parrucco – appartiene con tutta evidenza a quel nuovo genere antropologico nato dall’evoluzione della società dello spettacolo (nel senso di Guy Debord) e dal culto secolarizzato del successo.

Si tratta di una nuova forma di trascendenza infra-umana – quella delle nuove divinità del pantheon globale – alla quale l’uomo comune si è assuefatto nel corso degli ultimi decenni, percependola ormai come per lui intangibile e inarrivabile. Se mai, le si rivolge soltanto attraverso quella grancassa demotica dello spettacolo che sono i social, con l’effetto reale – qualunque cosa ne dica – di espandere l’alone divino.

Già questo produce sconforto. Perché fa del tifoso uno spettatore, un suddito dell’oligarchia dello spettacolo. Della sua passione, il principio energetico della subordinazione, ovvero qualcosa che suscita afflizione.

Anche per questo, parafrasando il titolo di un famoso saggio di Benasayag e Schmit di qualche anno fa, possiamo dire di essere ormai nell’epoca dei Mondiali tristi.

Anche per questo, ma non solo per questo. Torniamo, infatti, a quel che ci attende nel prossimo mese, alle “notti algide”, inseguendo un goal sotto il cielo di un inverno patriota.

Occorre premettere che il mondiale qatariota è, innanzitutto, una carneficina:
secondo The Guardian, i lavori di predisposizione delle diverse strutture necessarie sono costati la vita ad almeno 6500 lavoratori, forse più propriamente definibili schiavi (leggi qui).

Lavoro schiavistico in Qatar

Qui, però, non si tratta di tristezza, bensì di orrore. Un orrore che non di rado, sotto varie forme e con diverse gradazioni, si è coniugato ai Mondiali di calcio, senza mai riuscire a suscitare emozioni in grado di prevalere su quelle calcistiche (leggi qui).

Anche nelle occasioni più controverse, come Argentina 1978, i Mondiali hanno infatti sempre alimentato quell’atmosfera speciale, quell’euforia così inconfondibilmente coloniale che sappiamo nutrire noi, cinici bambinoni europei e affini.

L’organizzazione dei Mondiali è fin qui stata, ça va sans dire, profondamente eurocentrica, a cominciare proprio dal fatto che sono sempre stati giocati quando nell’emisfero boreale è estate, in modo che ce li potessimo godere quando la ruota dei pensieri dell’anno gira per noi più lievemente.

Nelle edizioni disputate in passato nel nostro continente, gli orari delle partite non sono stati certo stabiliti pensando al, pur appassionatissimo, pubblico sudamericano. All’opposto, chi non ricorda l’edizione 1994, giocata in una torrida estate statunitense, con alcune partite disputate alle 12, ora locale, in tempo per il giusto sollazzo pomeridiano di là dall’oceano?

Anche le edizioni apparentemente per noi più scomode, come Mexico ’70, erano strutturate in modo tale da darci un brivido particolare, che si espandeva in quel caso nel godimento un po’ sedizioso delle riunioni notturne, in una sorta di cospirazione di massa che esplose infine, per noi italiani, nella conquista delle piazze.

Ciò che, quindi, viene superato con i Mondiali del Qatar non è assolutamente l’eurocentrismo, e tantomeno il cinismo. Ciò che viene superato è la connessione al godimento, nella sua forma diffusa e popolare.

In questo modo, eurocentrismo e cinismo si amplificano, asservendosi alla pianificazione razionale dell’evento in vista della sua massima utilità per quell’oligarchia semi-divina di cui parlavamo prima.

Il cinismo si fa quasi ascetico coniugandosi a un utilitarismo esclusivo ed elitario, il godimento diviene accessorio e marginale, cosa alla quale il popolo si adegua ancora una volta con la massima naturalezza predisponendosi alla fruizione anonima dello spettacolo che sta andando in scena.

E così, ci hanno fottuto pure i Mondiali.

Per certi versi /
PECUNIA OLET

PECUNIA OLET

Saranno i mondiali
Dell’omofobia
Dicono
Si sa
E si manda giù

Tuttavia
Ma per ora
Sono anche
I mondiali
Della schiavitù
Sul lavoro
Delle migliaia
Di morti
Sul lavoro
Come se l’antico Egitto
Si fosse reso vivo
In quest’epoca
Assurda
Dove si muore
Come niente
Per costruire
Stadi faraonici
Mondi virtuali
In nome
Del dio pallone
Degli dèi del calcio
Si sa
Si manda giù
Nonostante tutto
Le vedremo in tv
E si manda giù
Che
Frotte di schiavi
Perdano ogni misura
Ogni dignità
Tutto
Per un soffio marcio
Di dollar
Pecunia olet!
Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio. Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

UN REDDITO DI BASE UNIVERSALE:
le vittime del cambiamento climatico vanno risarcite

di Juana Pérez Montero (pressenza)

Condividiamo la presentazione fatta al II Forum mondiale per l’acqua, la terra, il clima e la diversità, promosso dalla senatrice argentina Andrea Blandini e che ha avuto luogo il 1° novembre. Parla di chi sono i responsabili ultimi del cambiamento climatico, della povertà e delle carestie che lo accompagnano e di come la riparazione di questa ingiustizia, di questo debito storico, possa iniziare dalla concessione di un reddito di base universale, incondizionato, individuale e sufficiente a ogni essere umano, cioè a tutta l’umanità.

Andrea Blandini 

Il cambiamento climatico è indiscutibile, lo sperimentiamo ogni giorno… ma le grandi potenze e i loro governi servili continuano a muoversi ignorando la gravità della situazione. Non importa quali dichiarazioni facciano o come giustifichino le loro azioni, ciò che conta sono i fatti e questi parlano da soli.

Vedremo come finirà la COP27, che si sta svolgendo in Egitto in questi giorni.
Non ci aspettiamo molto se osserviamo i suoi sponsor, tra i quali ci sono i maggiori rappresentanti di coloro che continuano a “giocare” alla morte sotto forma di guerre e varie forme di violenza, i rappresentanti di coloro che hanno scelto ancora una volta di tornare a fonti energetiche inquinanti, alla difesa di alimenti dannosi per la salute umana e ambientale, le aziende le cui politiche di delocalizzazione stanno causando sempre più miseria. Le stesse imprese che difendono l’energia nucleare sotto forma di armi o centrali nucleari, con tutti i pericoli che questo comporta e l’inquinamento che si genera durante tutto il processo: dal momento in cui i minerali da utilizzare vengono estratti dalla terra fino al trattamento delle scorie nucleari.
Tra l’altro, sono le zone delle popolazioni indigene a essere più colpite dagli esperimenti nucleari ed è soprattutto l’Africa a essere usata come “cimitero” per le scorie radioattive, senza che le popolazioni ne siano consapevoli.

Non smetteremo di attirare l’attenzione sulle conseguenze di un incidente nucleare o dell’uso di armi nucleari sul cambiamento climatico. Oggi sappiamo che mai, dalla Seconda Guerra Mondiale, abbiamo corso un rischio così grave che accada una cosa del genere. Dobbiamo esserne consapevoli e prendere posizione.

Ma chi sono già le maggiori vittime del cambiamento climatico, anche in assenza di incidenti o di attacchi nucleari?

Le grandi maggioranze, coloro che stanno in basso, la base sociale di qualsiasi paese, e soprattutto il sud globale… Mentre gran parte delle popolazioni del nord hanno finora beneficiato degli abusi ai danni del sud, questi benefici stanno cessando, con una minoranza sempre più ricca che spinge e beneficia di questo disastro.

E che caratteristiche ha un tale disastro?

Ha molte facce, senza dubbio: carestia, povertà, migrazioni forzate… dolore, sofferenza e morte.

Ci concentreremo qui sulla povertà, sulla fame e sulla distribuzione della ricchezza. E lo faremo sulla base di rapporti di organizzazioni difficilmente sospettabili di essere “rivoluzionarie”. Tutte lanciano l’allarme sulla situazione che si è creata dopo la pandemia COVID, che si è notevolmente aggravata con la guerra in Ucraina.

Alcuni rapporti

Diamo un’occhiata ad alcuni report che forniscono dati più che rilevanti:

La FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) afferma nel suo rapporto 2022:

828 milioni di persone hanno sofferto la fame nel 2021: 46 milioni in più rispetto all’anno precedente e 150 milioni in più rispetto al 2019″.

Sottolinea che sono le donne e i bambini i più colpiti e lancia l’allarme per i prossimi anni e per gli obiettivi prefissati: “In prospettiva, si prevede che quasi 670 milioni di persone (l’8% della popolazione mondiale) continueranno a soffrire la fame nel 2030, anche tenendo conto di una ripresa economica globale. Questo dato è simile a quello del 2015, quando l’obiettivo di porre fine alla fame, all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione entro la fine del decennio era stato fissato come parte dellAgenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”.

Segnaliamo il rapporto della Banca Mondiale del settembre di quest’anno:

Per quasi 25 anni, il numero di persone che vivono in condizioni di estrema povertà è diminuito costantemente. Tuttavia, la tendenza si è interrotta nel 2020, quando la povertà è aumentata a causa delle perturbazioni provocate dalla crisi COVID-19 e dagli effetti dei conflitti e dei cambiamenti climatici.

I più colpiti sono stati: le donne, i giovani e i lavoratori a basso salario e irregolari. Le disuguaglianze sono aumentate sia all’interno dei Paesi che tra di essi.

E avverte… I governi possono spesso mitigare l’impatto dell’aumento dell’inflazione sulle famiglie povere attraverso politiche di protezione sociale. Tuttavia, a differenza dei precedenti periodi di elevata inflazione dei prezzi dei prodotti alimentari, le finanze pubbliche sono state messe a dura prova dalle varie misure fiscali adottate durante la crisi COVID-19.

Di certo la Banca Mondiale non spiega come la ricchezza che è “sparita” sia finita in poche mani né come opera nei Paesi le cui finanze pubbliche non sono in grado di dare risposte.

Passiamo ora ad alcuni dati del rapporto annuale 2022 di OXFAM, intitolato “Trarre profitto dalla sofferenza“.

Questa organizzazione ha calcolato che, nel 2022, 263 milioni di persone in più rispetto a quelle che già c’erano, passeranno a uno stato di povertà o, in altre parole, un milione di persone in più ogni 33 ore. Parallelamente, nei due anni della pandemia, sono apparsi 573 nuovi miliardari in tutto il mondo.

Lo studio rivela che, a livello globale, le aziende dei settori energetico, alimentare e farmaceutico stanno realizzando profitti record.

E precisa: l’anno scorso cinque delle principali compagnie energetiche del mondo (BP, Shell, Total Energies, Exxon e Chevron) hanno realizzato insieme 2.600 dollari di profitti al secondo.

Un altro dato rilevato da Oxfam e già sottolineato in modo più blando dalla Banca Mondialequasi il 60% dei Paesi a basso reddito è sull’orlo della bancarotta, non essendo in grado di far fronte al proprio debito pubblico.

Per concludere con i dati, ci sembra interessante richiamare l’analisi fatta dall’ONG Manos Unidas nel 2015, un’analisi che possiamo sottoscrivere oggi e i cui dati al momento attuale sono molto più allarmanti:

Più di 670 milioni di persone soffrono la fame nel mondo. È una cifra agghiacciante, destinata ad aumentare secondo tutti i rapporti. È agghiacciante soprattutto se si considera che abbiamo la capacità produttiva di sfamare 12 miliardi di persone (all’epoca eravamo circa 7,3 miliardi).

Il rapporto prosegue dicendo che: “La fame nel mondo è quindi un problema risolvibile. Ma i leader internazionali non riescono a trovare un accordo. Hanno in mano la chiave per sradicare la fame nel mondo, ma non la usano. Hanno la reale volontà di porre fine al problema della fame nel mondo?” È una domanda che ci poniamo anche noi.

E di seguito, leggiamo e condividiamo quanto dichiarato:

“Le cause della fame nel mondo sono molteplici, tra cui: il soffocante debito estero dei Paesi poveri; le relazioni commerciali inique tra Nord e Sud; il ruolo immorale delle grandi imprese, degli speculatori e delle banche e, naturalmente, la corruzione di alcuni leader africani, asiatici e latinoamericani.

Questo rapporto conferma ciò che pensiamo. È una minoranza del Nord globale la responsabile ultima del disastro economico e ambientale che stiamo vivendo e delle carestie che si stanno diffondendo soprattutto nel Sud globale, anche se la fame e la precarietà stanno colpendo le popolazioni di tutto il pianeta, mentre le misure di protezione sociale che alcuni governi hanno messo in atto sono messe in discussione, se non cambiano le proprie politiche.

È una minoranza del Nord globale la responsabile ultima di questo disastro. In altre parole, questa minoranza ha un debito storico – come abbiamo sottolineato – che è ora di sanare.

Riparazione storica

Ma come si può conseguire questa riparazione? Ricordiamo alcuni punti:

C’è ricchezza più che sufficiente a sfamare l’intera umanità. Una ricchezza che sta crescendo, tra l’altro… e che appartiene a tutti noi, poiché è stata generata dall’accumulo storico di tutte le generazioni che ci hanno preceduto e dal contributo di tutta l’umanità di oggi.

I grandi beneficiari di questa ricchezza, tra cui le grandi compagnie energetiche, le imprese di comunicazione, le industrie degli armamenti, le banche, il capitale finanziario internazionale… operano sulla base di un modello globale. I confini non esistono per loro, ma solo per i poveri… Se è possibile per loro, perché accettare che siano un impedimento per le maggioranze?

Un altro punto: in generale, tutte queste aziende non pagano tasse perché hanno la loro sede in paradisi fiscali o grazie a scappatoie legali… e, quando le pagano, lo fanno con aliquote molto basse, basate su sistemi fiscali che tassano i più poveri a vantaggio dei più ricchi.

Siamo immersi in una situazione che non ha via d’uscita se non optiamo per misure e politiche diverse da quelle che già conosciamo e che aggravano il disastro ogni giorno. Misure che saranno bollate come ingenue ma che noi consideriamo coraggiose, morali, urgenti e possibili, tra cui la rivendicazione del NO alle armi nucleari e del NO alle guerre. Misure che dobbiamo esigere dalla base sociale, poiché sembra che i governi da soli non le porteranno avanti.

Garantire la sussistenza attraverso un Reddito di Base

Una delle prime misure deve essere quella di assicurare che ogni essere umano, per il semplice e sacrosanto fatto di esserlo, abbia una sussistenza garantita.

E per garantire questa sussistenza, proponiamo l’implementazione di un Reddito di Base o Rendita di Base, secondo la denominazione di ciascun Paese.

Ricordiamoci di cosa si tratta, quando parliamo di Reddito di Base: stiamo parlando di un reddito che ogni persona riceverebbe dalla nascita, cioè sarebbe universale. Inoltre, sarebbe incondizionato, verrebbe dato a tutta la popolazione (anche se non tutti ne avranno un vantaggio economico). Anche i più ricchi lo riceverebbero, ma pagherebbero più tasse per poterlo attuare). Sarebbe individuale (a differenza degli assegni familiari) e sufficiente (cioè al di sopra della cosiddetta soglia di povertà).

Naturalmente, per il momento, l’importo sarebbe diverso a seconda del Paese ma, in futuro, noi della Rete Umanista per il Reddito di Base sosteniamo che dovrà livellarsi nella misura in cui avanzeremo verso l’eliminazione delle frontiere per le persone e in direzione della costruzione di una Nazione Umana Universale, come noi umanisti universalisti sosteniamo.

E come si può realizzare?

A livello statale, ci sono Paesi che possono attuarla, ma per un buon numero di Stati che oggi non ne hanno la capacità proponiamo che siano le Nazioni Unite ad assumersi il compito di attuare questa misura, ricevendo fondi dagli Stati e dalle grandi aziende e facendoli arrivare negli angoli più remoti del pianeta (ci sono esperienze di questo). Quale momento migliore per le Nazioni Unite per assumere un ruolo trascendentale a favore della vita!

Indicheremo solo alcune misure per rendere disponibili i fondi necessari per il Reddito di Base

A livello statale, cambiando il sistema fiscale, sostenendo un sistema progressivo con tasse specifiche sulle grandi fortune. I governi stanno resistendo alle pressioni delle stesse imprese che beneficiano della crisi attuale.

Il pagamento di prezzi equi e delle tasse da parte delle grandi aziende, che oggi saccheggiano le risorse naturali dell’intero pianeta, nei Paesi di origine dei materiali che saccheggiano, affinché le loro popolazioni possano avanzare.

Cancellazione del debito estero dei Paesi, che è fondamentalmente privato e quindi illegittimo.

Legislazione nazionale e internazionale per la tassazione delle operazioni di borsa.

L’introduzione di tasse sulle macchine, che ogni giorno sostituiscono sempre più lavoratori… Un elemento, tra l’altro, che può liberare gli esseri umani dalla “schiavitù” del lavoro.

Potremmo continuare… ma se queste misure venissero attuate e se a un’organizzazione come le Nazioni Unite venissero dati i poteri e i mezzi per attuarle, porremmo fine alla fame nel mondo in un baleno; le persone potrebbero anche iniziare a realizzare progetti economici e agricoli per contribuire a cambiare il corso degli eventi a livello climatico.

Amici, stiamo vivendo la fine di una civiltà che ci sta portando alla morte. Ribelliamoci, cerchiamo soluzioni globali che ci liberino.
Mettiamo intenzione, spingiamo, osiamo pretendere misure che siano alla base di una nuova civilizzazione, all’altezza dell’essere umano e che mettano al centro la Vita con la maiuscola.

(Traduzione dallo spagnolo di Matilde Mirabella. Revisione di Thomas Schmid)

L’Europa delle libertà che sacrifica il lavoro:
appunti per una Comunità delle Nazioni

 

Danilo Taino (il Corriere della Sera, 3.11.22) racconta di uno studio di Gòes e Bekkers pubblicato dal WTO (Organizzazione del Commercio Mondiale) secondo cui il nuovo mondo bipolare che si va formando in due aree geopolitiche (il primo attorno a Usa, il secondo attorno alla Cina), produrrà una riduzione del “benessere”, inteso come scambi commerciali, che potrebbe arrivare al 10%. Il disaccoppiamento è già in atto ed è probabile che, per esempio, alcuni beni cinesi (o russi, vedi il gas) non saranno più così a buon mercato come prima (e, viceversa per “loro”, molte tecnologie arriveranno per esempio in Russia, India, etc. dalla Cina e non dall’Occidente).
La conclusione di Taino (e del mainstream oggi) è che la globalizzazione è positiva, mentre il “muscolare ritorno degli Stati nazionali meno” e che quando si afferma una “politica di potenza, l’economia e il benessere sono vittime”.

La tesi (nota) è che la “libertà di mercato”, a cui Taino aggiunge “e la libertà in generale” (che invece nulla c’entra) producono benessere per l’umanità. Ora non c’è dubbio che siamo in presenza di un ritorno degli Stati nazionali, ma non è assolutamente detto che ciò sia negativo per il vero benessere delle persone e che una limitazione della globalizzazione significhi svantaggi nel benessere per tutti. Non è detto che un mondo meno consumista significhi meno sviluppo umano.

L’Europa è stata sognata dai suoi fondatori come un luogo dove potessero convivere in pace Stati che si erano combattuti per decenni e così prosperare. Ma più ancora del “libero mercato” era la pace il prerequisito. E’ anche vero il contrario e cioè che gli scambi commerciali favoriscono la pace, ma è anche vero che il “libero mercato” se non è equo e graduale, può portare alla guerra, al colonialismo, allo sfruttamento delle altrui risorse, distruggere economie, lavoro e natura.

L’Europa ha funzionato, per esempio, finché il libero mercato è stato esteso tra i Paesi fondatori che avevano più o meno lo stesso welfare e condizioni di lavoro e reddito non troppo dissimili (Italia, Francia, Germania, Benelux e gli altri ammessi nel 2001). Ciò ha consentito per la gradualità del processo che la nostra industria degli elettrodomestici (per esempio) distruggesse quella del Nord Europa che si spostava su tecnologie più avanzate.

Nel 2004 vengono però ammessi 10 paesi dell’Est Europa che hanno 100 milioni di lavoratrici e lavoratori la cui paga è un quarto o un quinto di quella dei paesi fondatori (dai 400 euro della Bulgaria ai 2.300 del Lussemburgo).
E poiché i Trattati europei hanno come primato quattro sacre libertà di movimento: di capitali, merci, servizi e persone, ma non la tutela del lavoro, com’è per esempio – e solennemente – nella nostra Costituzione al primo articolo (e il diritto europeo prevale su quello nazionale), è successo che imprese dell’Est venissero a produrre in Europa (o in Svezia) portandosi dietro le loro normative nazionali con effetti di dumping sociale e fiscale.

Ciò ha consentito a molte imprese dei paesi fondatori (specie Germania) di delocalizzare la produzione all’Est, di spostare la sede legale nei paradisi fiscali d’Europa (Olanda, Lussemburgo, Irlanda), creando diffuse perdite di lavoro e di reddito a milioni di lavoratori dei Paesi a welfare maturo.
Trent’ anni di globalizzazione hanno prodotto un impoverimento di massa che ha colpito anche le classi medie – tra chi lavora in Italia, un quarto è considerato povero. Questo aspetto, a mio avviso, è alla base dello spostamento elettorale verso destre “sociali” (che si preoccupano di tutelare lavoro e imprese nazionali, vedremo se a parole o realmente) in contrapposizione ad una sinistra che enfatizza l’Europa, ma lascia completamente scoperto il problema della svalutazione del lavoro che avviene introducendo una competizione al ribasso nelle condizioni di lavoro e nei welfare.

Non è un caso che nello Statuto della Banca Centrale Europea ci sia solo la difesa dell’inflazione ma non dell’occupazione (come politica monetaria) che è invece presente nella stessa Federal Reserve Usa e nella Bank of England. Moltissimi economisti di grande valore (Guido Carli, Federico Caffè –maestro di Draghi-, Claudio Napoleoni, Giorgio La Malfa nel suo libro su Keynes) hanno spiegato che il “libero mercato” funziona se si estende con gradualità e regolazioni per evitare di distruggere lavoro nelle economie più deboli (come nella boxe, dove è vietato che un peso piuma competa con un peso massimo), produzioni locali e welfare. E ciò spiega perché i giudici costituzionali italiani, tedeschi, cechi, portoghesi e, da ultimi, polacchi abbiano posto legittimamente “contrappesi” al primato del diritto europeo.

Alcuni giganteschi problemi, tra i quali lo “spiaggiamento del lavoro”, fanno si che il progetto europeo, basato sulle 4 sacre libertà di circolazione di capitali, merci, servizi e persone, che privilegia il “consumatore” (che però è anche un lavoratore), si trovi oggi di fronte ad un collasso di paradigma.

In gioco non c’è un “aggiustamento al margine” come molti onesti riformisti credono, ma la ricostruzione dei suoi pilastri fondamentali, tra cui la valutazione di un ulteriore allargamento all’Ucraina, Georgia, Moldavia e Paesi Balcani che porterebbe l’Europa da 27 a 36 Stati.
Una scelta che, a mio avviso, porterebbe alla dissoluzione dell’Europa che abbiamo conosciuto e che potrebbe portare a quel “divorzio consensuale” di cui ha parlato il premio Nobel J. Stiglitz. I riformisti federalisti pensano che con l’abolizione del voto unanime sia possibile procedere come “se nulla fosse”, togliendo gradualmente sovranità agli Stati nazionali per cederla a questa Europa.

Io credo invece che l’Europa del futuro si potrà fare solo come “comunità degli Stati nazionali” dove ha un ruolo ancora importante la singola Nazione (come recita la nostra Costituzione) e dove le 4 sacre libertà dovranno essere messe in discussione per essere equilibrate dalla protezione del lavoro e dei welfare nei singoli paesi.

Più che un’Europa Unita dovrà essere un’ Europa Comunità, dove l’integrazione crescente sarà sostenuta da una filosofia di “tolleranza costituzionale”, secondo la definizione di Joseph Weiler, poco sospettabile di simpatie sovraniste, in cui la “legittimazione delle decisioni politiche deriva non dal destino da realizzare ma dalle decisioni dei popoli”.

Una visione realista che potrebbe portare ad “un passo indietro” nell’allargamento, mantenendo una seconda “periferia” di Paesi con cui scambiare e dialogare, ma che punta a quella comunità coesa tra Stati fondatori che mai è avvenuta e che implica soprattutto una nostra indipendenza nel mondo e una maggioranza qualificata sulle materie più rilevanti: politica estera, difesa e tassazione.

Storie in pellicola /
Nik e Tesla, fratelli agli antipodi

Storie di fratelli, di vite che fanno i conti con paure e segreti, di rapporti familiari delicati e conflittuali, in cerca di equilibri affettivi difficili da ritrovare. Il fil rouge di Mio fratello, mia sorella, di Roberto Capucci, è la famiglia e le sue incomprensioni e malintesi, quegli ostacoli alla felicità che non dovrebbero mai esserci.

Alla morte del padre, un singolare patto successorio obbliga Tesla (Claudia Pandolfi) e suo fratello Nikola/Nik (Alessandro Preziosi) a una convivenza forzata: vivere sotto lo stesso tetto dopo non essersi visti per oltre vent’anni non sarà semplice. Tanto più se, fra quelle mura domestiche, vi sono anche due figli-nipoti, ciascuno con le proprie difficoltà: Sebastiano/Seba (Francesco Cavallo, vera rivelazione), un violoncellista di talento affetto da schizofrenia, al quale Tesla ha dedicato la vita e un’ossessiva e soffocante protezione, e Carolina (Ludovica Martino), con la quale ha un rapporto difficile e conflittuale.

Il film inizia con il funerale di Giulio Costa, stimato professore e luminare della fisica, pianto dai colleghi e dalla sua famiglia. La figlia Tesla è triste e attonita, quando all’improvviso in chiesa entra un uomo, con un paio di zaini e vestito come se arrivasse dalla spiaggia: è il fratello Nikola (i due fratelli hanno, in due, il nome dello scienziato Nikola Tesla), che da vent’anni ha mollato tutto per andare a fare kitesurf in Costa Rica.

Alessandro Preziosi, ©LUCIAIUORIO

Tesla, che è divorziata e manda avanti la famiglia da sola, non è entusiasta di vedere il fratello, ma il notaio spiega loro che l’ultima volontà del padre, che non ha lasciato soldi come invece si aspettavano tutti, è che i figli convivano per un anno nella casa in cui Tesla vive con Sebastiano e Carolina, che ne approfitta subito per trasferirsi da Emma (Caterina Murino), amica di famiglia, nonché pianista della scuola frequentata da Seba, con cui hanno in programma un concerto a due.

Caterina Murino, Francesco Cavallo ©LUCIAIUORIO

Inizia quindi la difficile convivenza tra fratello, sorella e il sensibile e delicato Seba, con i suoi disturbi e la sua ferma convinzione di trasferirsi su Marte per portarvi la musica.

Ludovica-Martino, Caterina Murino ©LUCIAIUORIO

La storia è commovente, coinvolgente ed empatica, con tanti ingredienti: dolore, storie di rapporti e relazioni familiari, diversità, disabilità mentale, disagio, sofferenza, incomprensione, conflitti, malintesi, senso di libertà, protezione, ossessione, accettazione, dipendenza reale e affettiva, senso di responsabilità, conflitti, amore. Molto bella anche la musica, quasi esclusivamente classica, dal potere quasi taumaturgico, in particolare Al chiaro di luna di Beethoven suonata da Nik e Seba, insieme.

Sarà un difficile, ma intenso e bellissimo, viaggio verso il perdono, l’accettazione di sé stessi e dei forti e indissolubili legami affettivi e familiari. Prende il cuore.

Mio fratello, mia sorella, di Roberto Capucci, con Alessandro Preziosi, Claudia Pandolfi, Ludovica Martino, Caterina Murino, Francesco Cavallo, Italia, 2021, 110 mn.

Di Covid non si muore più. Di tutto il resto si muore di più.
I costi sociali e sanitari della pandemia

 

L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha pubblicato il 4 novembre il nuovo report che fa il punto sulla Covid-19 in Italia. Sono ormai 23,8 milioni le persone che hanno avuto il virus e quindi sviluppato una immunità naturale e 176.322 i deceduti dal 2020. Oggi la nuova variante BA5 è ormai diffusa nel 93% dei casi, una variante che è completamente diversa dal suo ceppo originario.

La letalità della Covid è però crollata di 100 volte passando dal 19,6 di inizio pandemia a 0,2 per 100mila abitanti, un valore molto piccolo per destare una vera preoccupazione se si pensa che i decessi giornalieri in Italia per la Covid sono 13 (media dell’ultima settimana di ottobre), ma sono ben 164 in più (rispetto al pre-Covid) quelli dovuti ad altri fattori; che si traducono in un totale di 1.908 decessi giornalieri (media annua 2022 stimata sui primi 8 mesi) per tutte le cause. I 13 decessi medi giornalieri Covid colpiscono poi quasi sempre anziani che avevano già gravi patologie pregresse.

Le re-infezioni sono state 1,3 milioni dal 24 agosto 2021 al 2 novembre 2022, il 5,9% di chi si era già ammalato.

Una certa preoccupazione nasce dal fatto che, nonostante la mortalità da Covid sia diventata molto bassa, permane elevata la mortalità in eccesso (per tutte le cause): nei primi 8 mesi del 2022 è +9,5% rispetto al periodo pre-Covid (era salita a +15,7% nel 2020 e a +9,9% nel 2021). Ciò significa che l’Italia ha circa 60mila morti in più rispetto al periodo pre-Covid (per tutte le cause) e quindi la media giornaliera dei decessi è passata da un valore di 1.742 morti degli anni 2015-2019 a 1.908 nel 2022.
(Fonte: elaborazione dell’Autore su dati Eurostat)

Come mai la mortalità per tutte le cause non scende? L’ipotesi principale è che ci siano state molte operazioni rimandate per via dell’emergenza Covid e moltissimi accertamenti, anche preventivi, e terapie siano “saltate”. Potrebbe aggiungersi a ciò il fatto che la vaccinazione diffusa abbia indebolito il sistema immunitario per cui, anche a fronte di fattori predisponenti e concomitanti come il deterioramento del clima, delle relazioni sociali e del sistema di sanità pubblica, la domanda inquietante è: dobbiamo aspettarci nei prossimi anni tassi più elevati di mortalità di quanto sarebbe accaduto se non avessimo avuto la pandemia?

Una conferma di questa ipotesi viene dai dati ISS diffusi il 4 novembre, che mostrano come il booster (o richiamo) produca un aumento dei contagiati tra i vaccinati rispetto ai non vaccinati. Se da un lato il booster dà una maggiore protezione per la malattia grave e il decesso nei primi 6 mesi, dopo i 6 mesi non è più così, per cui si dovrebbe ricorrere ad un nuovo booster. Ma, a lungo andare, tutti questi richiami potrebbero indebolire il sistema immunitario rendendolo più fragile, non tanto per far fronte alla Covid ma a tutte le altre malattie.

Dall’inizio dell’epidemia sono stati diagnosticati 4.680.674 casi nella popolazione 0-19 anni che è di 10 milioni di bambini-adolescenti, di cui 23.964 ospedalizzati, 534 ricoverati in terapia intensiva e 75 deceduti (quasi tutti fragili e con altre patologie pregresse). Ciò mostra che quasi la metà sono risultati “positivi” (moltissimi asintomatici, cioè senza alcuna manifestazione patologica), e poi non c’è stata alcuna conseguenza reale: “tanto rumore per nulla”. Questo ha prodotto però un danno enorme in termini di mancato apprendimento, education e problemi psicologici e relazionali per 2 anni consecutivi, i cui effetti si trascineranno nei prossimi anni. Vien da dire (forse con il senno di poi): fortunati quei paesi che non hanno chiuso le scuole.

Il tasso di ospedalizzazione ≥12 anni, nel periodo 16/9/2022-16/10/2022, per i non vaccinati è pari a 70 ricoveri per 100mila ab. rispetto a 64 ricoveri dei vaccinati con ciclo completo (1,1 volte). Praticamente, ormai, non c’è più differenza. La stessa cosa vale per i decessi dei non vaccinati che sono 1,5 volte più alti dei vaccinati con ciclo completo. Minore è la percentuale di chi ha fatto il booster (effetto positivo che però scompare dopo pochi mesi, e non si calcolano le avversità da vaccino).

Il vantaggio che avevano i vaccinati sui non vaccinati si sta riducendo, al punto che coloro che si sono vaccinati con ciclo completo e dose booster si contagiano maggiormente dei non vaccinati e di coloro che si sono fermati alla seconda o terza dose. Al 2 novembre 2022, sono state somministrate complessivamente 141,9 milioni di dosi (47,3 milioni di prime dosi, 50 milioni di seconde/uniche dosi, 40,3 milioni di terze dosi e 4,3 milioni di quarte dosi). Solo infatti il 25% degli over 60 e fragili ha effettuato la quarta dose (booster) e mancano ancora all’appello 13 milioni su 19 milioni di cittadini. Pare quindi essersi esaurita la spinta a fare ulteriori dosi, ma è lo stesso report che ne spiega il motivo: chi si fa la quarta dose prende la Covid in maggior misura.
I cittadini non leggono certo i report dell’Istituto Superiore di Sanità – anche perché trovarli sul sito è una vera impresa – ma vedendo ciò che succede in giro si formano questa convinzione.

Se si guardano poi i dati della malattia grave (terapia intensiva e morti) si nota che la dose aggiuntiva booster ha un effetto positivo ma che diventa negativo dopo 6 mesi, al punto tale che insorge il sospetto che, come una minoranza di esperti sosteneva, una continua sollecitazione con dosi aggiuntive di vaccino possa portare ad un indebolimento del sistema immunitario naturale. E ciò spiegherebbe il persistere di un’alta mortalità in eccesso e il numero crescente di morti improvvise e complicazioni varie (miocardite, infarti, sterilità,…). Ma ci potrebbero essere altre cause. Saranno i prossimi mesi ed anni a dirci come stanno realmente le cose.

Parole a capo /
Miriam Bruni: “Conversazioni in camera oscura”

 

“Ciò che resta originario nell’operaio è ciò che non è verbale: per esempio la sua fisicità, la sua voce, il suo corpo. Il corpo: ecco una terra non ancora colonizzata dal potere.”
(Pier Paolo Pasolini)

 

Fossimo privi d’anima
ben poco in là finirebbe
il nostro inciampare
– afferrarci alle sporgenze
Ritrovare un appoggio
finalmente.
Ma noi sprofondiamo
ben più in alto del suono
che fa strada ai pipistrelli.
Le galassie conosciamo
che gli insonni telescopi
non arrivano a vedere.
E sappiamo che la terra
ci sostiene solo il corpo
        Ricordiamo
un amplissimo deserto
dove siamo festeggiati.
Vi si entra con la fede
o con l’amore.

*****

Quando una parte di noi
sprofonda nel buio – inascoltata,

quella che resta in superficie
è molto lesa – e spaventata;

del proprio istinto spodestata.
Ma forse è questa la morte

del seme / il freddo sepolcro,
forse è lì che marcisce persino

la coscienza del sole, del mondo,
e le fibre dell’io scolano in petto

un temporaneo terribile oblio.

*****

Il corpo interiore
si sfalda e slavina
se giunge all’orecchio
il tuo disamore.

Mi smonti le ore
di vento e di slancio.
Hai troppe paure.
Non voglio affondare:

alcuni minuti di morto
poi torno a nuotare:
è il largo che salva
chi vuole esplorare.

*****

Il Colle
della Guardia
è simile
al mio petto:
un solo seno
e un cielo
pieno di rondini
accoppiate in volo.

(poesia inedita)

*****

Il tempo vola
Dio non ha paura

Il mondo è preda
del denaro sporco

Paziente aspetto
il mio turno al sole

Come una foglia
Come quel fiore

Miriam Bruni (1979) è nata e cresciuta a Bologna, ha due figli e ama raccogliersi frequentemente passeggiando e fotografando la Natura. Insegna Lingua e Cultura Spagnole in un istituto di scuola superiore.
La passione e la pratica poetica la caratterizzano da sempre: scrivendo mette a fuoco le esperienze vissute, cercandone e restituendone l’essenza profonda e risonante. Tende alla massima concentrazione.
Sue poesie si possono trovare in numerose antologie, ma soprattutto in riviste e blog specializzati. Traduce poesie dallo spagnolo all’italiano e organizza incontri artistico-culturali in Valsamoggia.
Ha dato alle stampe sei libri: “Cristalli”, Booksprint 2011; “Coniugata con la vita. Al torchio e in visione”, Terra d’Ulivi 2014; “Credere nell’attesa”, Terra d’Ulivi, 2017; “Così”, Ed. Poetry, 2018; “Falesìa”, Ed.Folli, 2019; “Concentrati sul cromosoma celeste”, Controluna, 2022.
Entro l’anno usciranno altri due suoi lavori: “Guardarlo Ancora. Paesaggi e miraggi della passione amorosa” e “Cuanto cuesta vivir”.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopioPer leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Vite di carta /
La musica di una vita

Vite di carta. La musica di una vita

Dopo un bel po’ di anni da quando ci è stato consigliato ho letto il bel libro La musica di una vita di Andrei Makine, che è uscito in Francia nel 2001 e poi in Italia presso Einaudi nel 2003 con la traduzione esperta di Annamaria Ferrero. Meno male che la lettura, così come il paesaggio interiore che è dentro di noi, fanno a meno del tempo scandito dal calendario e ne adottano uno più libero, in cui tempi non contemporanei possono convivere.

Nell’anno scolastico 2009-2010 lo scrittore e giornalista Valerio Varesi viene al Liceo Ariosto, invitato dal nostro gruppo di lettura Galeotto fu il libro: il dialogo con lui riguarda il suo romanzo Il commissario Soneri e la mano di Dio, appena uscito presso Frassinelli e, come da noi richiesto, il libro che lui considera galeotto nella sua vita di lettore perché leggerlo lo ha segnato, è stato mallevadore di una passione che da lì in poi è esplosa, magari fino a farlo diventare scrittore. Il libro galeotto indicato da Varesi è La musica di una vita.

Gli studenti leggono entrambi i libri, alcuni allargano la lettura ad altre opere di Varesi e si preparano le domande da fargli durante l’incontro; ad ascoltarli ci sono alcune classi, qualcosa come cento altri studenti che hanno letto il libro del nostro ospite. Non ho lavorato io a questo incontro, non posso ritrovare i materiali preparatori e la lista delle domande. Maria, la mia amica straordinaria, che come me ha lavorato per anni al progetto e ha preso parte a questo gruppo, ha trovato le parole giuste per dire quanto i ragazzi siano stati efficaci nel condurre l’intervista: come ‘domandologi’ esperti hanno messo l’autore nella condizione di dare il meglio di sé.

Venendo ora a questo mese di novembre, mentre parliamo di cento altri libri e autori Maria mi nomina Makine e mi passa la sua copia del libro. Sono trascorsi dieci anni, sono l’ultimo anello di una catena di lettori, il gradimento che il libro ha avuto risulta per me tracciabile perché lo ha scelto uno scrittore che stimo, è piaciuto agli studenti e ora Maria mi dice che è molto intenso. Mi faccio delle aspettative importanti. Maria ha tra le altre anche una intensa passione per la musica e io mi aspetto che la musica pervada le pagine, a cominciare da ciò che promette il titolo. Invece no.

Ciò che si diffonde nel piccolo libro è la storia di Aleksej Berg, un giovane musicista sovietico che deve rinunciare alla sua arte per sfuggire alla persecuzione di Stalin; alla vigilia del suo primo concerto è costretto a fuggire da Mosca in Ucraina, ma il suo rifugio non lo salva dalla guerra. È costretto a entrare nell’esercito russo e si appropria del nome di un compagno ucciso per mettersi una volta di più al riparo dalle retate della polizia di Stalin. Con la nuova identità combatte i lunghi anni del secondo conflitto, lacerato dai tagli fatti alla sua vita di prima.

Sono le privazioni e le mutilazioni che subisce la sua identità a riempire le pagine. La sua vita, per lunghi anni privata della musica, ci viene raccontata dal narratore della storia, un uomo che recupera dal suo passato il ricordo dell’incontro col musicista avvenuto un quarto di secolo prima, attorno alla metà degli anni Settanta, in un faticoso viaggio in treno verso Mosca durante un inverno gelido: nella lunga attesa del treno alla stazione di una città imprecisata il compagno di viaggio suona al pianoforte una musica meravigliosa, quando il treno parte può iniziare il racconto della sua vita.

Il libro è costruito col discorso indiretto: Aleksej, il musicista, non prende la parola, il narratore senza nome assume il compito di riportare a noi le sue parole. La narrazione, così amplificata tra i ricordi di chi racconta e i ricordi di chi si racconta, finisce per dare spessore e attrattiva al libro: le mie attese sono soddisfatte da questa e da altre coordinate su cui si dipana la storia.

Prendiamo le pagine che descrivono i momenti della guerra, quando Aleksej sotto falso nome combatte nell’esercito russo contro i Tedeschi e impara che “in guerra la verità e la menzogna, la generosità o la durezza, l’intelligenza o l’ingenuità non erano così distinte come nella vita di prima”.

In marcia verso Mosca, dopo essere arrivato a combattere fino in Austria, Aleksej “in mezzo ai campi deserti e bianchi, in mezzo a tutta quella terra straziata dalla guerra, annusava l’aria, credendo di discernere come un breve alito di tepore. Percepiva che tutto ciò che gli restava della vita era concentrato in quel soffio tenuemente primaverile…e non nel suo corpo scheletrico che non sentiva nemmeno più le bruciature del vento”.

Parole così mi richiamano i momenti esiziali di ogni vita e mi ricordano le parole di Italo Calvino quando definisce i classici; non mi chiedo fino in fondo se questo libro lo sia, certo davanti a pagine così “ogni prima lettura è in realtà una rilettura”.

A guerra finita lo ritroviamo a Mosca, ora ha ventisette anni e conosce il grande amore, Stella, la figlia del generale Gavrilov, a cui egli continua a fare da autista. È un amore impossibile che lo vivifica e allo stesso tempo lo espone di nuovo al pericolo di essere scoperto come impostore perché porta un nome che non è il suo.

La musica lo tradisce: alla festa del suo fidanzamento Stella, che lo crede un principiante, lo invita a suonare una facile canzoncina al pianoforte e a quel punto Aleksej non potendo contenere la musica, che da anni è nascosta in lui, suona meravigliosamente, tra lo stupore generale.

Molti anni dopo, alla fine del viaggio in treno in compagnia del nostro narratore, egli confessa cosa gli è costato svelarsi: dieci anni in un campo di prigionia senza godere dell’amnistia concessa alla morte di Stalin, altri anni al confino nella Siberia orientale intervallati da alcuni viaggi clandestini a Mosca per ritrovare le proprie radici, un nuovo conseguente arresto e altri tre anni di prigionia scontati vicino al circolo polare in mezzo a un “inferno di neve”.

Proprio là ha appreso la morte dei suoi genitori, così a lungo cercati ma senza successo. Una vita così, direbbe il filosofo Aleksandr Zinoviev, rivela il carattere nazionale russo, è la vita dura che l’Homo sovieticus sopporta con stoica rassegnazione.

Arrivati nella immensa stazione ferroviaria di Mosca, proprio là “dove nulla di personale sembra potersi dire”, Aleksej confida di avere sempre seguito il destino di Stella, caduta in disgrazia nel periodo della destalinizzazione a causa del lavoro del marito e poi morta di cancro, lasciando un figlio di pochi anni. Confida di avere passato un po’ di soldi ogni mese per il mantenimento del bambino.

Ora egli non vuole lasciare il suo compagno di viaggio in balia della stazione, c’è una intera giornata di attesa prima della coincidenza che lo porterà a casa, presumibilmente a San Pietroburgo. Le ultime ore le trascorrono nella stessa stanza di hotel e infine a un concerto alla casa della cultura delle ferrovie.

Ecco che la musica conclude la storia con queste parole del narratore: “Mi volto verso Berg per porgergli il pieghevole del programma. Ma l’uomo sembra assente, le palpebre abbassate, il viso impassibile. Non è più là”.

L’ultima pagina rende più chiaro il senso della bella pagina iniziale, in cui il narratore sente suonare per la prima volta Aleksej alla stazione sconosciuta. E’ notte fonda, seguendo la musica egli ha lasciato la sala d’attesa intrisa di corpi dormienti e ha raggiunto al piano superiore lo sconosciuto pianista:

“un uomo, che vedo di profilo, è seduto davanti a un pianoforte a coda, una valigia dagli angoli nichelati accanto alla sedia…Una torcia elettrica, posata a sinistra della tastiera, gli illumina le mani. Le sue dita non hanno nulla a che vedere con le dita di un musicista. Grosse falangi ruvide, gibbose, coperte di rughe scure.

Queste dita si spostano sulla tastiera senza appoggiarvisi, segnano delle pause, si accalorano, accelerano la loro corsa silenziosa, si precipitano in una fuga febbrile, si sente il tocco delle unghie sul legno dei tasti.

All’apice di quel muto frastuono, una mano, non dominandosi più, si abbatte sulla tastiera, in un’esplosione di note. Vedo che l’uomo, divertito forse da questo cedimento, interrompe le sue scale inudibili e si lascia andare a qualche risatina soffocata, da vecchio monello. Alza perfino una mano e se la mette sulla bocca per trattenere quella specie di tossicchiare…Di colpo, capisco che piange”.

Il saggio di Calvino a cui faccio riferimento nel testo dà il titolo alla raccolta:

  • Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, 1991

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

 

UNO ‘22 RACCONTA UFO ‘78
Wu Ming (Unidentified Narrative Objects) alla Resistenza

 

La particolarità assoluta dei romanzi collettivi e solisti dei Wu Ming, l’aspetto che ammiro e mi colpisce prevalentemente, è di essere, come gli stessi autori li definiscono, Unidentified Narrative Objects, oggetti narrativi non-identificati, vale a dire “fiction e non fiction, prosa e poesia, diario e inchiesta, letteratura e scienza, mitologia e pochade”, come si legge a pagina 42 del loro ottimo saggio New Italian Epic pubblicato nel 2009.

Risulta evidente il riferimento agli Unidentified Flying Objects che ora compaiono espressamente fin dal titolo del nuovo libro collettivo, uscito ad agosto del 2022. Ed ecco che mi è venuta voglia di citarli insieme, fin dal titolo, questi oggetti non identificati: quello narrativo del 2022 racconta quelli volanti del 1978 (e dintorni).

I modi, i tempi, gli obiettivi, i percorsi, il reale e l’immaginato, il fatto e rifatto ce li raccontano, sollecitati dalle stimolanti domande di Marco Belli, nel Centro Sociale La Resistenza Ferrara, la sera del 5 novembre 2022, Wu Ming 1 e Wu Ming 2, accompagnati dalle letture di Marco Manfredi. L’incontro è il primo di una rassegna ricca ed articolata che vedrà alternarsi, nei due luoghi organizzatori – La Pazienza Arti e Libri e La Resistenza Ferrara – i due ideatori (Marco Belli e Michele Ronchi Stefanati) che dialogheranno con i diversi autori invitati.

Per tentare di sintetizzare la complicata trama di UFO 78 chiedo aiuto alla quarta di copertina del volume:

1978. Aldo Moro è rapito e ucciso. Sulle città piomba lo stato d’emergenza. «La droga» sfonda ogni argine. Tre papi in Vaticano. Le ultime grandi riforme sociali. Mentre accade tutto questo, di notte e di giorno sempre più italiani vedono dischi volanti. È un fenomeno di massa, la «Grande ondata». Duemila avvistamenti nei cieli del Belpaese, decine di «incontri ravvicinati» con viaggiatori intergalattici. Alieni e velivoli spaziali imperversano nella cultura pop. Milena Cravero, giovane antropologa, studia gli appassionati di Ufo in una Torino cupa e militarizzata. Martin Zanka, scrittore di successo, ha raccontato storie di antichi cosmonauti, ma è stanco del proprio personaggio, ed è stanco di Roma. Suo figlio Vincenzo, ex eroinomane, vive a Thanur, una comune in Lunigiana, alle pendici di un monte misterioso. Il Quarzerone, con le sue tre cime. Luogo di miti e leggende, fenomeni inspiegabili, casi di cronaca mai risolti. L’ultimo, quello di Jacopo e Margherita, due scout svaniti nei boschi e mai ritrovati. Intorno alla loro scomparsa, un vortice di storie e personaggi.

Mappa eventi 1978 riportati dai media (Collettivo Wu Ming)

Il primo dato importante e significativo su cui Marco Belli sollecita stasera gli autori a dire la loro riguarda la lunga gestazione dell’opera, che, come illustra Wu Ming 1, è stata “pensata” nel 2006 sotto forma di improvvisazione collettiva (che intitolarono Mater Materia) insieme allo scrittore Giuseppe Genna, in riferimento alle produzioni di ‘archeologia spaziale’ di Peter Kolosimo e sulla spinta di una sorta di ‘corto circuito’ con l’Affaire Moro e altre vicende, prevalentemente del nostro paese, del 1978, che rappresenta la fine degli anni Settanta, ma non apre ancora gli Ottanta, i quali cominceranno effettivamente dopo la vittoria degli azzurri ai mondiali di calcio dell’82. Una sorta di stagione di mezzo, quindi, si delinea tra il 78 e l’82, una fase di crepuscolo che è proprio quella che a Wu Ming interessava. 

In quella improvvisazione  immaginarono uno scrittore liberamente ispirato a Kolosimo e un convegno sugli Ufo programmato a Roma nei giorni dal 16 al 19 marzo.
Il convegno saltò dopo l’agguato di via Fani. Che avrebbero fatto tutti quegli ufologi in una capitale precipitata nel caos? Quegli spunti rimasero nel cassetto fino al 2014, quando, col permesso di Genna, per conto loro i Wu Ming  si lanciarono in un nuovo brainstorming.
Ma da una costola del progetto nacque prima un altro romanzo: Proletkult.

Nel 2018 ripresero i lavori. Nel gennaio 2019 iniziarono la stesura, ma nel 2020 “calò come un maglio, schiacciando tutto, l’emergenza Covid.  Quel che accadde nei due anni seguenti influenzò il libro, lo riconnotò, lo trasformò” (ho preso queste ultime frasi da “Traccia per un video che abbiamo deciso di non realizzare”, stilata da Wu Ming per gli Autoracconti d’Autore di Letteratitudine).

Il panorama complessivo viene integrato da Wu Ming 2 in risposta alla domanda su titolo e copertina:
“Nel 1978 nasce Atlas Ufo Robot, esce Incontri ravvicinati del terzo tipo, all’interno dell’Affaire Moro si può individuare uno stranissimo gioco di parole tra Fani (il nome della via dove lo statista fu rapito e gli uomini della sua scorta uccisi) e il possibile acronimo FANI con cui tradurre la formula usata negli Stati Uniti per indicare gli UFO (Unidentified Aerial Phaenomena = Fenomeni Aerei Non Identificati).
Inoltre si comincia a parlare con insistenza, anche a proposito della passione per gli extraterrestri e le antiche civiltà aliene che popolavano i libri di Kolosimo,  di ‘riflusso’, inteso come allontanamento dall’impegno politico e sociale e interesse verso questioni apparentemente più futili, fantastiche, immaginarie, private; i Wu Ming con questo libro cercano di affrontare l’analisi del fenomeno, perché sono dell’idea che guardare il cielo, interessarsi ad oggetti non identificati, soprattutto in un momento in cui tutti sulla terra ti vogliono identificare e ti chiedono i documenti, non sia soltanto una fuga in una dimensione irrazionale, futile della vita ma sia qualcosa che, al contrario, può nutrire proprio un ritorno alla realtà con nuove armi; quindi non gli UFO come un diversivo o una fuga ma come un modo per procurarsi energie nuove, ‘armi’ nuove e tenere bene i piedi per terra.”.

È il momento di assaggiare la scrittura di UFO 78.
Marco Manfredi
legge dal Primo Movimento del volume:

  1. Roma, mercoledì 1° marzo .

Rumori di acque ruscellanti, fuochi fatui di sintetizzatori, echi lontani di tempi perduti. In den Gärten Pharaos, del gruppo tedesco Popol Vuh. Scelta musicale perfetta. L’occhio della telecamera percorre un corridoio e perlustra scaffali carichi di reperti e cimeli, statuette manufatte chissà dove e chissà quando: dee della fertilità, bestie sacre, demoni minacciosi o imperscrutabili. Tra quei corpi stilizzati, di tanto in tanto, spunta un modellino di piramide tolteca, o di vascello spaziale, dal piglio razionalista  o, all’opposto, baroccheggiante. Nel 1978 la tivù pubblica italiana produceva già programmi a colori, compresa questa puntata di Odeon. Ma nelle case troneggiavano ancora apparecchi in bianco e nero, e le tinte sgargianti di quell’appartamento si potevano solo immaginare: i muri verde cinabro, le mensole verniciate di giallo, i riflessi bronzei dei soprammobili. La telecamera si avvicina a una soglia priva di porta, sovrastata da un grande dipinto. Lo sguardo indugia su architetture in rovina o incompiute, sospese in una notte luminosa. Pochissimi avranno riconosciuto Le temple foudroyé di Savinio. Non l’originale, bensì una copia acquistata a Porta Portese per poche lire….

Una domanda successiva si concentra sulla struttura narrativa, sull’articolazione dei piani temporali e sulle modalità di gestione dei numerosi personaggi: in effetti, afferma Wu Ming 1, si è molto lavorato sulla struttura, per la quale si è scelta una modalità per così dire musicale: c’è un preludio che si riferisce a fatti avvenuti il 26 agosto 1976 e culminati con la scomparsa dei due giovani scout Jacopo e Margherita; già qui troviamo un primo salto temporale, all’oggi in cui intuiamo che il soggetto a cui appartiene la voce narrante (che è ‘altra’ rispetto ai Wu Ming autori) ha ricercato notizie e condotto un’inchiesta su quello e altri fatti posteriori, narrati nei successivi quattro movimenti, tre dedicati ai mesi dal marzo al maggio del 1978 e il quarto al periodo dal 25 maggio 1978 al 25 maggio 2022.

Mi sembra utile, qui, riportare quanto delineato nell’ultimo capoverso del preludio, che mi pare rappresentare, più che la voce narrante, proprio quella autorale dei Wu Ming:
Questa è la storia delle vite che si incrociarono allora, alle pendici della montagna. E se di una vita non si possono conoscere tutte le pieghe, le luci e le ombre, si può almeno provare a raccontarla, usando documenti, interviste, libri e giornali d’epoca, consapevoli dell’incolmabile distanza tra i giorni vissuti e le pagine scritte. Del resto, la sfida del narrare è raggiungere la verità affrontando l’inevitabile, si trattasse anche di lupi mannari e dischi volanti.”.

Mappa semifantastica della Lunigiana per il volume UFO 78 (foto di Maria Calabrese)

Una storia così articolata e complessa ha bisogno di una mappa, osserva acutamente Marco Belli rivolgendosi a Wu Ming 2, che annuisce e mostra la bozza di mappa che loro stessi hanno tracciato e più volte rielaborato, della Lunigiana, luogo reale posto tra Liguria e Toscana, dove hanno collocato l’inventata Comune Thanur in cui vive Vincenzo Zanka figlio di Martin e l’inventato ma possibile e verosimile monte Quarzerone, che fa da magnete, fa confluire le varie storie in una sola storia; un luogo dell’Appennino, un’area marginale, ma una di quelle aree interne che sono la cartina al tornasole, lo specchio dell’intero Paese.

Spesso l’approccio dei Wu Ming è quello di andare a cercare lo sguardo obliquo insieme agli avvenimenti dei margini. Non soltanto perché posizionandosi dai margini si vede meglio il centro o lo si vede da una prospettiva diversa, ma perché in realtà loro sono convinti che i margini sono un centro focale in cui accadono cose che poi magari da lì riverberano verso il centro e che comunque hanno importanza di per sé.

Il pubblico della Resistenza (foto Maria Calabrese)

L’incontro alla Resistenza è arrivato al termine, ma le curiosità di un pubblico numerosissimo (oltre un centinaio di persone e moltissimi giovani) diventano domande che si sposteranno al chiuso, nella sala bar, perché il freddo si è fatto intenso. E a me rimane la voglia, sollecitata dall’ultima schermata che leggo sul monitor che proietta il file della “colonna sonora di UFO 78” che Wu Ming 1 non riesce ad illustrarci, che mi vado subito a cercare nel blog GIAP della Wu Ming Foundation e che mi riprometto di ascoltare.

Intanto mi viene incontro l’intervista di Loredana Lipperini ai due autori nella trasmissione Fahrenheit del 3 novembre scorso, al termine della quale si parla proprio della centralità della musica in questo testo. Wu Ming 1 riconosce che la musica fa proprio parte del tessuto, dell’intreccio del romanzo e ricorda che il ’78 rappresentò l’inizio di una stagione di mezzo anche per la musica: cominciavano in quegli anni ad arrivare in Italia Punk e New Wave e al tempo stesso c’era ancora l’onda lunga della musica progressiva degli anni Settanta.

Loro si concentrano su quella che era stata una musica rock progressiva molto particolare; e va citato un personaggio cruciale, sotto questo aspetto, di UFO 78, che è Jimmy Fruzzetti, ufofilo che gestisce un negozio di dischi ad Aulla e che è “colui grazie al quale c’è tutta quella musica in UFO 78”. Una playlist di 24 brani compare nel citato Blog GIAP della Wu Ming Foundation, ed è reperibile su Spotify e Youtube.

Libri e siti citati nell’articolo:
WU MING, UFO 78, Torino, Einaudi Stile Libero Big, 2022
WU MING, New Italian Epic, Torino, Einaudi Stile Libero, 2009

https://www.wumingfoundation.com/giap/
https://www.letteratitudine.it/
fahrenheit qui

Cover: un momento di lettura alla presentazione del volume UFO ’78 al Circolo LA RESISTENZA di Ferrara (foto di Maria Calabrese)

Elon Musk, il nuovo yankee cinese

 

Uno dei fenomeni nuovi è l’arrivo sulla scena politica (non solo quella economica più che nota) delle grandi corporations trans-nazionali, di cui ha parlato nel post del 14 novembre Simone Oggionni [Vedi qui].

Per esempio Elon Musk, attualmente il più ricco al mondo (200-230 miliardi di patrimonio personale), con le vendite della sua Tesla in Cina (diventata la prima compagnia di auto straniera) ha fatto tali profitti da comprarsi Twitter per 44 miliardi.
A Musk i suoi 534mila follower non bastano, meglio un potente social per influenzare il mondo come fa anche Jeff Bezos di Amazon con il Wall Street Journal. I ricchi si mettono in proprio e contano ormai più dei primi ministri anche perché i politici cambiano con le elezioni (a parte gli autocrati) e i ricchi no.

In Cina Tesla ha venduto solo nel 3° trimestre 2022 83 mila auto, un quarto del totale mondiale (344mila), meno del colosso cinese nazionale BYD ma più delle altre case che vendono auto elettriche (cinesi incluse).
A Shangai dal prossimo mese produrrà col nuovo stabilimento Tesla un milione di auto all’anno (Model 3 e Model Y) sia per il mercato locale cinese che Europa ed Australia.

I Cinesi acquisteranno nel 2023 6 milioni di auto elettriche e Tesla è in pole position. Musk ha stretti rapporti col vice di Xi Jinping (che resterà almeno per altri 5 anni), Li Qiang (che viene dato per prossimo premier).
Li Qiang ha favorito la nascita della prima fabbrica Tesla nell’area speciale di Lingang e ha garantito quella assistenza durante la pandemia che non ha avuto Apple (migrata in Vietnam). Tesla è l’unica azienda a cui i cinesi concedono di non avere una joint-venture con altri cinesi o lo Stato e una riduzione delle imposte sui profitti (15% anziché 25%).

Come mai la Cina è così prodiga nei confronti del miliardario sudafricano? Le multinazionali sono diventate dei moderni ‘Stati’ che possono influire su molte cose (inclusa la geopolitica) ma hanno però un punto debole: non hanno eserciti. In attesa che questo avvenga, in un mondo in via di de-globalizzazione, chi può, fa affari coi cinesi.

Musk, in una intervista al Financial Times, ha ricambiato le gentilezze ricevute dallo stato cimese, dichiarando che Taiwan dovrebbe diventare una “zona amministrativa speciale”, facendo un grande favore alla Cina, la cui politica (con Taiwan) èuno Stato due sistemi”, strategia che prelude ad una sua annessione ben prima del 2050.

Elon Musk ha dato un aiuto fondamentale all’Ucraina mettendo a disposizione il suo sistema satellitare Starlink/Space X a banda larga dopo la distruzione delle infrastrutture da parte dei Russi.
Ai primi di ottobre aveva però chiesto agli Usa di pagarlo, proponendo anche un piano di pace per nulla peregrino: riconoscimento della Crimea russa e garanzia di rifornimento idrico, neutralità militare dell’Ucraina (dunque fuori dalla Nato) e un nuovo referendum per le province russofone del Donbass.

Per Musk questo sarà l’accordo: “Si tratta solo di capire quanti morti servono ancora prima di realizzarlo”. Musk sa bene che il potere tecno-finanziario gli dà la possibilità di muoversi come uno Stato potente.
Certamente più potente dell’Europa, del tutto ammutolita e allineata all’atlantismo Usa.

Musk intrattiene, come già detto, buoni rapporti con la Cina, che gli ha chiesto di non vendere nel suo territorio i kit per collegarsi al suo sistema satellitare Starlink/Space X.
Ovviamente la Cina non ha bisogno di chiedere “per favore” a Musk di non venderli in Cina: le basta un qualsiasi provvedimento amministrativo (non osservando da 22 anni alcuna regola che pure le aveva imposto il WTO per entrare a farne parte). Quindi vuol dire che si riferisce non tanto alla Cina ma a Taiwan, che dipende per il suo internet da 15 cavi sottomarini e che ha fatto un investimento di 25 milioni di dollari per connettersi via spazio in caso di danneggiamento.

Del resto, avendo già l’Occidente regalato lo spazio alle multinazionali di Musk e Bezos (in concorrenza tra loro), non resta che da temere il dragone cinese che potrebbe da un momento all’altro porre il veto ai satelliti dei due miliardari.

Da qui l’importanza di investire in social e giornali e nella geopolitica e “tenersi buona” la Cina. Anche Amazon è (non a caso) un grande investitore cinese (nel porto Nigbo farà una enorme piattaforma per importare prodotti da Germania e UK). Così fanno anche altre multinazionali come Starbucks che ha inaugurato la 6millesima caffetteria in Cina (ne aprirà altre 3mila entro il 2025).

Le multinazionali vanno dove fiutano l’odore dei soldi e il mercato cinese è, potenzialmente, di 1,4 miliardi di consumatori.
Non stupisce quindi che, nel momento in cui materie prime ed energia diventano essenziali per il loro sviluppo, esse guardino a chi le possiede (Cina) con crescente interesse. Una evoluzione paradossale perché erano state 20 anni fa incoraggiate proprio dagli Americani (e dai Dem in particolare) a crescere in un mondo globale. Ora però la Cina si è ‘messa in proprio’: diventa sempre più competitor degli Usa e cerca di sedurre le multinazionali made in Usa con favori nel proprio mercato e materie prime oggi essenziali a questi giganti.

Se non si costruisce un modello di sviluppo alternativo a quello degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale guidata dai colossi privati e dai mercati, basato sul primato del lavoro, dell’occupazione e dell’umano sulle macchine, sulla difesa della Natura  e non sulla sua distruzione per la ricerca di una crescita infinita, correremo a perdifiato verso impoverimento e crescente caos.

Solo una Europa indipendente da Usa e Cina potrebbe dare corpo a questo processo. Purtroppo in questo vuoto di iniziativa i grandi ricchi fanno i loro interessi e si sostituiscono all’Europa.

Cover: Elon Musk,  foto ZoomViewer su licenza Wikimedia Commons

Parole e Figure /
Mumin, dei troll super speciali

I Mumin sono una famiglia di troll davvero molto speciali, simili a buffi e amichevoli piccoli ippopotami bianchi dalla coda sbarazzina.

Sono simpatiche creature nate nel 1946 dalla fantasia della finlandese Tove Jansson (1914-2001), figlia di padre scultore (Viktor Jansson) e di madre illustratrice (Signe Hammarsten-Jansson) e cresciuta tra una vivace casa-atelier di Helsinki e un solitario isolotto dell’arcipelago finlandese, Pellinge.

Tove Jansson (1956), foto Reino Loppinen

Il mondo di arte e fantasia di cui è circondata fin dall’infanzia l’accompagna durante la sua vita, nutrendo la sua vocazione di pittrice, vignettista e scrittrice per bambini e adulti e ispirandole la serie dei Mumin che le è valso, tra gli altri, nel 1966, il Premio Andersen, il più importante riconoscimento internazionale dell’editoria per bambini e ragazzi.

Tove Jansson appartiene alla minoranza di lingua svedese ed è considerata “monumento nazionale” in Finlandia, dove nel 1994 le celebrazioni per il suo ottantesimo compleanno sono durate un intero anno. Nota in tutto il mondo per i suoi libri per l’infanzia, a partire dagli anni Settanta ha iniziato a rivolgersi con lo stesso spirito, ironico e sottile, umano e poetico, anche agli adulti con una decina di libri, di cui cinque pubblicati in Italia, pur continuando a coltivare il filone dei libri per l’infanzia.

Tove Jansson nel 1956, foto Reino Loppinen

In Italia, le strisce dei Mumin, che l’hanno resa celebre, sono tornate grazie alla casa editrice Iperborea, specializzata in letteratura nordica, che, nel 2017, ha pubblicato Mumin e le follie invernali, un primo libro che raccoglie alcune delle storiche strisce della scrittrice (la saga era stata pubblicata, per la prima volta in Italia, in singole strisce sulla rivista Linus e in parte da Black Velvet). Ora, con una nuova collana, Iperborea ripubblica l’intera serie delle strisce, per la prima volta a colori, riproposti comesingole storie, nel formato classico Iperborea usato per il lungo (20×10 cm).

L’idea dei Mumin arrivò all’artista dopo una lite con i fratelli Olov, futuro fotografo, e Lars, futuro scrittore e fumettista: per sfogarsi Jansson si chiuse in bagno e si mise a disegnare un piccolo furente troll che chiamò Snork. Dopo qualche anno, Snork comparve accanto alla sigla con cui firmava le sue vignette; nel 1945 cambiò nome in Mumin e divenne il protagonista del suo primo romanzo per bambini, Mumin e la grande onda.

Ma come è fatta questa famiglia di Mumin? Sono personaggi avventurosi, eccentrici, simpatici, comici, poetici, ospitali e aperti al mondo. Circondati da altri curiose figure, a metà tra uomini e animali, troviamo papà e mamma Mumin e il piccolo Mumin con la sua fidanzata Grugnina, la vanitosa. Nella stretta cerchia di amici ci sono il giramondo Tabacco, il pasticcione Sniff, il cugino Ombra, la dolce Mimla e la sorellina Mi, l’intrigante Puzzolo, il filosofo Spinello e i lontani parenti Fungarelli.

Particolarmente delicato Mumin s’innamora, l’ultimo uscito con Iperborea ad agosto scorso, dove, in una valle allagata colpita da un terribile diluvio, Mumin, partito a salvare gente, porta a casa la diva capricciosa Miss La Guna, la stella del circo travolto dall’acqua, della quale si innamora perdutamente. Ma tra i capricci della Miss e l’arrivo del suo acrobata Emeraldo, l’ingenuo spasimante dovrà fare i conti con la differenza fra poesia romantica e realtà e soprattutto con Grugnina che si allea con Mimla e la sorellina per dargli una lezione. Verso il lieto fine, in un mondo tutto a sé.

Se poi volete vedere il museo dedicato ai Mumin, sappiate che a Tampere si può.

Museo dei Mumin, Tampere, Finlandia

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Le storie di Costanza /
Novembre 1959 – Gemma e Gianin

Gemma

Tra Carolina e Mina Viscioli c’era Gemma. Una signorina molto miope che, per poterci vedere almeno un po’, era costretta a portare occhiali dalla montatura robusta e dalle lenti spesse e curve. Due fondi di bottiglia le deformavano gli occhi e li facevano sembrare più bovini di quello che già erano.

Nonostante gli occhiali, ci vedeva molto poco. Gli interventi chirurgici che permettono ai miopi di recuperare quasi interamente la vista, fattibili ai nostri giorni e rimborsabili dal sistema sanitario nazionale, non erano ancora stati sperimentati e i miopi, fino agli anni ’90, dovettero accontentarsi dei “lentoni”.

Gemma amava molto i colori rosso e oro-luccicante, con cui venivano smaltati i bottoni e tinte alcune rifiniture di passamaneria, perché erano i colori che riusciva a mettere a fuoco con maggiore precisione e che trasmettevano le immagini più nitide ai suoi occhi malati.

La nonna Adelina, che faceva la sarta, le aveva confezionato più volte abiti luccicanti in cui, almeno uno dei fili della composita trama della stoffa, era color oro, oppure, con minor soddisfazione della cliente, argento o rame.

Sempre per questa sua predilezione cromatica, nell’ultimo decennio della sua vita, Gemma aveva preso l’abitudine di legarsi al collo un cordino luccicante, con cui era stata sigillata la carta di un panettone natalizio, senza cedere minimamente alle pressioni di tutti i suoi parenti e amici affinché se lo togliesse dal collo almeno ai funerali.

Come un soprano

A Messa, con quel cordino al collo, cantava sempre nel banco di prima fila con un tono di voce altissimo e gracchiante. Una volta chiesi alla nonna Adelina perché la signorina cantasse a quel modo e lei mi rispose: “Perché è una soprano!”.  Non so se lo pensasse davvero o se non sapesse cos’altro dirmi. Sta di fatto che la risposta mi fece molto ridere e che la nonna fece finta di non sentire.

Nonostante Adelina non avesse studiato musica, aveva un fratello che suonava il violino e doveva esserle venuto il dubbio che i gorgheggi di Gemma non fossero proprio ortodossi. Ma, serbando nel suo cuore il dubbio, non mi disse mai nulla e continuò ad etichettare la signorina come un soprano.

Credo che altre persone del paese condividessero la stessa strategia e che questo abbia rinforzato la propensione di Gemma a cantare sempre così, migliorando, ogni anno che passava, il numero e la complessità dei gorgheggi.

Io e mia cugina Ines ridiamo ancora adesso quando ci raccontiamo di quei concerti, ma forse non lo dovremmo fare, un po’ per pietà e un po’ perché, a modo suo e con una certa originalità, la signorina era una fuoriclasse autodidatta.

La nonna Adelina aveva ragione a soprassedere. Gemma credette per tutta la sua vita di essere una brava soprano e fu meglio così.

Far di conto

A parte gli occhi, non era affatto brutta. Corporatura minuta e proporzionata, aveva dei capelli castani che portava raccolti sulla nuca, utilizzando forcine rigorosamente rosse. Era intelligente ed era lei che si occupava della gestione amministrativa della macelleria.

Nel 1959 non esistevano fatture, commercialisti, registratori di cassa e calcolatrici elettroniche. Esistevano i libri contabili che venivano compilati a mano con la matita copiativa e conservati in cassaforte.

Gemma era velocissima a fare i conti e non sbagliava mai. Un po’ per una propensione innata e un po’ per l’esercizio continuo, sapeva fare addizioni, sottrazioni e divisioni con diversi decimali, senza sbagliare mai nemmeno una virgola.

Mia madre ricorda la fortuna di averla avuta come prima insegnante di calcolo e racconta che, grazie a questi insegnamenti, in prima elementare sapeva già fare conti complicati, senza sbagliare mai nulla. Probabilmente questo rinforzò la sua autostima, al punto che imparò matematica molto velocemente e si meritò voti altissimi fino alla fine della sua carriera scolastica.

Anche se vi erano acquisti da fare o il mercato di Casalrossano dove andare a contrattare, era sempre Gemma la candidata migliore e le sue sorelle le cedevano volentieri il bastone del comando, confidando sul suo acume e sulla sua esperienza. Lei ne approfittava e così Carolina era relegata a fare i lavori più pesanti che sporcavano le mani, mentre Mina faceva un’altra professione.

Gianin, l’amore proibito… non troppo

Come Carolina, la più anziana delle tre sorelle, nemmeno Gemma era sposata. Un po’ uno scandalo per quegli anni. Aveva una relazione con un macellaio loro dipendente i cui figli la chiamavano zia, tanto erano abituati a vederla.

Gianin, il suo innamorato, aveva una famiglia, ma la posizione di Gemma e la garanzia di stipendio e carne fresca aveva fatto sì che si creasse un ‘ménage sui generis’, accettato da tutti.

Mia madre si ricorda di alcuni viaggi seduta sul biroccio in mezzo a Gemma e Gianin. Con la scusa di portare la piccola Anna a fare un giretto in pasticceria a Casalrossano, un giretto ‘allo scoperto’ lo potevano fare anche loro.

Andavano a Casalrossano, si sedevano nella pasticceria sotto i portici e ordinavano il rosolio e i bignè. Oppure acquistavano cubetti di torta sbrisolona, dolce tipico padano fatto con farina di mais, zucchero, strutto, burro, ricoperto di mandorle.

Un dolce semplice e povero di origini contadine ma gustoso e croccante, lo si fa ancora adesso e ne esistono diverse varianti, a seconda della zona lombarda nella quale ci si trova. A mia madre non è mai piaciuto particolarmente, ma piaceva a Gianin e quindi facevano una volta a testa. Una volta i bignè e una volta la sbrisolona.

A mia madre la pasticceria Saltafos piaceva molto e si divertiva in quelle gite domenicali a cui era abituata e che considerava normali. Molto tempo dopo realizzò, senza offendersi e senza cambiare la bellezza del ricordo, che la sua presenza era stata un po’ strumentale.

Serviva ai due innamorati come scusa per la gita, ma non era solo questo. Anna era bella e intelligente e loro avevano imparato ad apprezzare la sua predilezione per i bignè e la sua capacità di fare i conti della macelleria con acume e precisione.

Come una famiglia

Quando Gemma comprava stoffa luccicante per i suoi abiti ne comprava sempre due metri in più, in modo che Adelina potesse confezionare due vestiti: uno per lei e uno per la bambina. Così quando andavano al Saltafos, le due appartenenti al ‘gentil sesso’ erano vestite allo stesso modo e questo aumentava l’impressione di Gemma di avere una vera famiglia.

In quelle occasioni la sua soddisfazione raggiungeva l’apice e lei si pavoneggiava con la bambina per mano e il suo innamorato segreto al fianco. I sentimenti in gioco erano buoni e l’opportunismo c’entrava, tutto sommato, poco.

Il rapporto era stabile da anni e la quotidianità tranquilla. Gemma, Gianin e Anna non erano una famiglia in senso stretto, però si volevano bene e ciascuno di loro era molto affezionato agli altri due e sempre pronto per quei viaggi domenicali a Casalrossano.

Credo che quella meno contenta fosse la moglie di Gianin, ma non ne sono troppo sicura. Non ho mai saputo, di scenate, rivendicazioni e amarezze di alcun tipo. Semplicemente, a un certo punto, si era creato quel ménage e tutti si erano adeguati. Gemma faceva sempre tanti regali ai figli di Gianin, che le volevano molto bene.

Carolina e Mina sapevano delle vicende sentimentali di Gemma, ma non se ne preoccupavano. Ognuna delle tre signorine aveva una vita sentimentale autonoma, che non interferiva con la vita delle altre due e la gestione della casa e della macelleria veniva tenuta separata dai vari innamoramenti. I sentimenti personali non venivano discussi e nemmeno criticati, ognuna delle tre aveva dei motivi per non farlo.

Gemma dirigeva bene il negozio e cantava da soprano. Qualità apprezzate in tutta Cremantello. Era una persona stimata e a nessuno importava molto delle sue gite al Saltafos. Che facesse i conti e avesse sempre buona carne, a buon prezzo, era l’aspettativa di quasi tutti i Cremantellesi. A tale aspettativa lei sapeva rispondere con molta efficienza.

Gianin era piccolo e magro. Squartava vacche con abilità e impacchettava interiora senza lasciarne scivolare dall’incartamento nemmeno un brandello. Nel 1959, l’unica carta che si usava era porosa e color giallo sbiadito, comunemente chiamata ‘carta da macelleria’.

I pacchi con la carne acquistata venivano tenuti insieme grazie a un modo particolare di piegare l’involucro rovesciando i bordi e premendo vigorosamente tale rovescio verso il basso.

Un inverno Gianin si ammalò di tubercolosi e Gemma diventò triste. Con gli occhi sempre pieni di lacrime, smise definitivamente di vederci e prese a camminare rasenti i muri, con le mani in avanti per verificare col tatto se ci fossero ostacoli sul suo cammino.

Giuseppe e Albino, i figli di Gianin, andavano tutti i giorni ad aggiornare Gemma sulla salute del padre e in cambio si portavano a casa dei bei pezzi di carne, con cui fare il brodo per il povero ammalato.

Poi arrivò il peggio. Gianin fu mandato a curarsi in sanatorio e la macelleria dovette continuare l’attività senza di lui.

Fu un brutto periodo e mia madre cominciò ad andare tutti i pomeriggi, dopo scuola, ad aggiornare i libri contabili, perché Gemma non ce la faceva più e Carolina e Mina non erano capaci. Imparò così molto giovane come si gestisce un negozio e si innamorò di quel lavoro commerciale, per sempre.

Gianin dopo un po’ guarì e tornò dal sanatorio. Riprese le sue attività normali e ricominciò a fare il macellaio a tempo pieno, il padre a tempo pieno e il marito e l’amante part-time. Mia madre dice che non era né bello né particolarmente brillante, ma gli occhi di una bambina non vedono tutto ed è meglio così.

N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.

Per leggere tutti i racconti di Costanza Del Re è sufficiente cliccare il nome dell’autore o sulla sua rubrica Le storie di Costanza.

“Rimanere” nella professione infermieristica

Non tutte le sale d’aspetto in un ospedale hanno la stessa voce.
Ognuna è diversa nel timbro, cambia a seconda delle sale d’aspetto. A volte questo timbro è dolce ed esile, altre volte secco e squillante.
Le sale d’attesa dei servizi di oncologia ed ematologia non hanno voce: predomina il silenzio.
Un silenzio lungo, prolungato, a tratti soffocante.
Io ci sono stata.
Eppure le persone che sostano in quella sala d’attesa una voce ce l’hanno e per questo ho deciso di raccontare l’esperienza di due infermiere Donatella e Dorina che hanno prestato servizio rispettivamente in onco-ematologia e in radioterapia.
Loro quelle voci le hanno ascoltate. Ora sono entrambe in pensione.
Hanno svolto con orgoglio la loro professione raccogliendo la stima di tutti: colleghi e utenti.
La figura dell’infermiere è in prima linea nell’affrontare la malattia accanto al medico.
La professione infermieristica vive un momento di criticità: i giovani non la scelgono. Spesso chi la sceglie ad un certo punto della propria carriera lavorativa la lascia per fare altro.
L’argomento è molto complesso.
Tra l’altro chi lo tratta, spesso, è qualcuno che da tempo ha abbandonato l’operatività di questo lavoro.
Ho deciso, così, di dare spazio a chi è rimasto fino alla fine della propria carriera lavorativa chiedendo a loro: Come si fa a “rimanere”?
Donatella ha prestato servizio in ematologia e negli ultimi anni in onco-ematologia sede di Ferrara quando le due specialità si sono unite.
Quando le faccio la domanda rimane perplessa. Mi dice che a volte le è stato chiesto perché avesse scelto questa professione, ma per la prima volta qualcuno le chiede perché si rimane nella professione.
Donatella alza gli occhi quasi per cercare una risposta più in alto rispetto alla mia figura. Si tocca il mento e poi mi guarda dicendomi: “Fare l’infermiera non è come fare un altro lavoro. Non è sempre facile. Sono rimasta per i sorrisi, i pianti, le carezze delle persone che ho incontrato durante il mio percorso lavorativo.
Alcuni di loro li vedo ancora, quando vado a fare la spesa, faccio una passeggiata in centro o mi capita magari di andare a fare una visita.
Ho tifato per i pazienti che ho incontrato nel tentativo di raggiungere il traguardo della guarigione e quando questo non è stato possibile abbiamo deposto insieme le armi tendendoci per mano o guardandoci negli occhi.
Ci vuole il coraggio da parte di entrambi. Non lo si può fare se non te la senti”.
Dorina Adelaide è un’infermiera che ha lavorato in altre realtà prima di approdare in radioterapia. Una volta terminata la sua carriera lavorativa ha deciso di laurearsi in psicologia ed oggi, come volontaria, sostiene i pazienti e i loro famigliari in un punto d’ascolto presso la Radioterapia Oncologica di Ferrara.
Il colloquio con lei non è una tappa obbligatoria per chi affronta il percorso di cure radioterapiche, è riservato solamente a chi lo desidera.
La stessa domanda la faccio a Dorina. Rosicchia un’unghia, quasi cercasse un pensiero lontano – “Cosa mi ha fatto rimanere? La passione per il mio lavoro, la volontà di esserci per l’altro che ha bisogno e se lo ascolti ti orienta anche quando pensi di aver perso, anche solo per un istante la “bussola” per essergli d’aiuto.
Dal momento in cui ho iniziato a lavorare con utenti di radioterapia ho capito l’enorme ricchezza emotiva che mi trasmetteva il paziente oncologico raccontandomi il suo dolore, non tanto fisico che sicuramente avrebbe trovato soluzione, ma emotivo.
E’ il dolore che non puoi raccontare o non vuoi raccontare a nessun’altro se non a te stesso o a pochi altri.
Ecco perché ho pensato di aprire un punto di ascolto”.
La sera prima di mettermi a letto ripenso a tutti gli infermieri/e che sono rimasti, che non hanno teorizzato sulla professione, l’hanno vissuta. Ci hanno messo mente, forza fisica, cuore, anima.
Prendo in mano un libro che mi ha regalato anni fa un’oncologa. Non l’ho mai prestato per timore non mi fosse più restituito. Ogni tanto ne leggo alcune parti. Una di queste lo riporto qui.

C’era una grande forza che univa fra loro gli uomini di buona volontà e i sofferenti, una grande catena di affetto, di solidarietà d’amore… Per quella forza universale, ogni uomo che combatteva il dolore e la paura della morte era simile a quelle piccole formidabili cose di ogni giorno che noi sapiens sapiens ci perdiamo o non apprezziamo perché non abbiamo tempo e testa per farlo.
Tratto da L’albero dei mille anni di Pietro Calabrese.

“COMICHE” IN OSPEDALE TRA CELATI, GOFFMAN E ASTERIX

 

Ogni volta che purtroppo ho a che fare con gli ospedali, il pronto soccorso, la sanità pubblica penso queste cose:

1) che se sento ancora qualcuno che sostiene o agisce affinché si taglino ulteriori fondi ai servizi pubblici (sanità, istruzione, trasporti, informazione) perché “così paghiamo meno tasse” o “perché abbiamo un debito enorme”….Ecco, se lo sento ancora, non rispondo delle mie azioni;

2) che Non c‘è più paradiso di Gianni Celati è un racconto visionario e decisivo, dove si dice tutto ciò che conta, tutto l’essenziale, sia sugli ospedali che sulla società contemporanea. Leggetelo, è bellissimo. Lo trovate nella raccolta Cinema naturale (Feltrinelli, 2001, libro vincitore del premio Chiara di quell’anno);

3) che per chi dice che chi lavora nel pubblico è un fannullone i casi sono due: o non ha mai avuto a che fare seriamente né con la sanità (beato lui!), né con la scuola (poveretto!), oppure è un farabutto in malafede. Oppure ancora sta scherzando, ma sono scherzi di merda.

Ah, a proposito, mentre sono in ospedale, al pronto soccorso, mi giunge la conferma che Calenda&Renzi candideranno Letizia Moratti presidente della regione Lombardia. Letizia. Moratti. Sì, proprio la principale responsabile della distruzione della scuola pubblica, durante i governi Berlusconi, con la controriforma della scuola che porta il suo nome, con i suoi tagli radicali.

Avevano già fatto abbastanza per meritarsi il nostro (o almeno il mio, ma so di non essere solo) disprezzo politico, Calenda e Renzi, ma ogni giorno ci danno nuove occasioni per confermare questo brutto sentimento nei loro confronti, che ci piacerebbe tanto poter evitare.

Se poi si resta un po’ di più al pronto soccorso, ovvero come minimo le canoniche 5-6 ore per un codice azzurro, cioè mediamente critico, il libro di Celati da leggere assolutamente diventa un altro: Comiche (Einaudi, 1971, ma recentemente ripubblicato da Quodlibet per la cura di Nunzia Palmieri).

Stando qui, in ospedale, sembra di stare nel libro: gente che farnetica, scene comiche e tragiche, malati in barella che urlano ad altri malati deambulanti “cosa giri?!”, altri malati che imprecano e bestemmiano contro l’Italia e contro medici e infermieri, colpevoli di non avergli assegnato un secondo loro meritatissimo codice arancione…

L’ospedale così si trasforma, come nel libro di Gianni Celati, in un manicomio. Sono entrambe, del resto, istituzioni concentrazionarie, istituzioni totali, come le chiamava Erving Goffman.

Aggiornamento delle 14.09.
Ancora al pronto soccorso, entrato alle 9 per dei banalissimi (ma urgenti) raggi.
In questo momento, una paziente molto anziana e male in arnese, ferma da sola sulla lettiga, urla a squarciagola, di continuo, parlando da sola e autorispondendosi, simulando un tripudio di voci, tutte nella sua testa, dunque apparentemente sragionando (ma a me pare invece piuttosto lucida nei contenuti che esprime):
“Carlaaaaa! Dove sei? Carla vieni qua che ti voglio vedere. E poi: Danielaaaaa! Non c’è!!!!! Vieni qua che andiamo via. Voi non andate via. Io voglio andare a casa mia. E poi: “basta, spegnete le luci”. E ancora: “Milvaaaaaaaa!!!!! Carlaaaaa! Mi tiri via quella roba lì? Carla mi porti a casa? Ho paura. Vienimi a prendere. Signoraaaaaa! Mammaaaaaa!!!!”

Mi sento sempre più dentro Comiche di Gianni Celati e mi chiedo quando mi lasceranno finalmente uscire dal libro (che amo, per carità, ma essere diventato uno dei personaggi mi sembra troppo). Oltretutto, ricordo che il regista Memè Perlini aveva chiesto una volta a Gianni di farne un film, che poi non si è mai fatto, ecco ora, che surreale onore, lo sto vivendo dal vivo, come una comparsa di quel lungometraggio mai girato (e che sarebbe ora di girare, cari registi di tutto il mondo in ascolto!).

Aggiornamento del giorno dopo alle 11.03
Rilasciato – come un ostaggio – dal pronto soccorso alle 17 di ieri (entrato alle 9 di mattina, come dicevo, per dei raggi).
Tornato a casa. Rientrato in ospedale oggi su richiesta del pronto soccorso per ulteriore visita di controllo, il settore è 1E0, ambulatorio 5. Mi dicono di andare all’entrata 1.
Chiedo in portineria come raggiungere l’ambulatorio in questione e le indicazioni sono le seguenti: ascensore fino al primo piano, arrivare al corridoio con la lettera E, riprendere l’ascensore per arrivare al piano terra.
Faccio così e mi rendo conto che dall’entrata 2, cioè dallo stesso piano della portineria, sarebbe stato sufficiente girare a sinistra e mi sarei risparmiato questo girotondo, arrivando perfettamente e rapidamente al settore giusto.
Arrivato comunque, anche se così tortuosamente, al settore indicato, vado all’ambulatorio 5, come scritto sulla mia prenotazione e come detto dal medico del pronto soccorso.
La dottoressa dell’ambulatorio 5 mi dice: no, deve andare all’ambulatorio 8. Ora non è più Celati, è Goscinny-Uderzo, Le dodici fatiche di Asterix, quel pezzo sul lasciapassare A-38 in cui i nostri eroi, Asterix e Obelix sfidano la burocrazia romana.

Eccoci qui. (To be continued…anche se spero di no!)

Aggiornamento del 12 novembre 2022, tre giorni dopo le avventure appena narrate.
Il presidente della regione Emilia Romagna e prossimo probabile candidato alla segreteria nazionale del Partito Democratico ha rilasciato una dichiarazione alla Nuova Ferrara in cui promette mai più attese così lunghe al pronto soccorso.

La sua credibilità è, però, nulla, perché il 18 gennaio 2020 aveva già promesso (sul Corriere/Bologna) questo:
“Sui pronto soccorso «serve una svolta sui tempi» che dovranno essere contenuti («massimo 6 ore fra l’arrivo, l’eventuale ricovero o il ritorno a casa»). «Inoltre cambieremo i codici e assumeremo nuovo personale e realizzeremo spazi in cui è più garantita la privacy. Lavorare nel sistema dell’emergenza-urgenza è uno dei lavori più usuranti, serve un sistema di premialità, ne parlerò con il ministro Speranza ma come Regione siamo pronti a mettere dei fondi nostri».”

POST SCRIPTUM
Ci tengo a ringraziare sentitamente tutti le/i mediche/medici, gli/le infermieri/e, gli/le OSS che ho conosciuto in questa 24 ore. Sono bravissime/i e fanno i miracoli, in una situazione di sovraccarico e stress lavorativo che è un grande scandalo italiano che dovrebbe essere quotidianamente al centro del dibattito pubblico e dei ragionamenti di qualsiasi governo, in modo da produrre immediati investimenti e risultati significativi e invece non lo è.

Quello che ho scritto accade in Emilia Romagna, regione notoriamente all’avanguardia sui servizi pubblici, quindi non oso immaginare cosa succeda quotidianamente in altre regioni italiane (vale a dire: lo immagino e credo di saperlo, purtroppo). Servono investimenti, ingenti e urgenti, nei servizi pubblici: sanità, scuola, trasporti, informazione.

Il governo Meloni lo farà? Dubito. È un governo di destra e gli investimenti nel settore pubblico non sono, storicamente, nelle corde della destra.
Ci vuole un governo di sinistra, peccato che la sinistra, che in Italia esiste e potrebbe anche essere maggioritaria, non abbia però alcuna rappresentanza politica credibile. Almeno per ora.

(To be continued anche questo, per fortuna!)

“Pace, guerra, transizioni. Le prospettive della sinistra”: un intervento dal convegno organizzato da www.luciomagri.eu

di  Simone Oggionni

Quello che segue è il testo dell’intervento che ho svolto al convegno organizzato insieme a Luciana Castellina, Famiano Crucianelli, Mattia Gambilonghi, Filippo Maone, Massimo Serafini e Vincenzo Vita a Rimini, il 29 e 30 ottobre, dal titolo: “Pace, guerra, transizioni. Le prospettive della sinistra”. Sul sito di radio radicale si possono trovare i video dell’intera due giorni.

Come diceva Lenin, «ci sono decenni in cui non accade nulla e settimane in cui accadono decenni».

Quest’oggi il Financial Times pubblica un articolo di Adam Tooze, analista e storico della Columbia University, con un titolo suggestivo, che spiega precisamente le settimane che stiamo vivendo: «Benvenuti nel mondo delle poli-crisi (delle crisi multiple)».  Mi stimola mettere in rapporto Lenin e Tooze, per alcune ragioni che a me paiono molto evidenti.

Parlo per esempio, per fare davvero soltanto degli esempi, di quattro cose.

La prima. Due giorni fa Putin, intervenendo al Valdai Discussion Club, che è un think tank molto legato al governo russo, ha affermato non a caso che «il mondo sta entrando nel suo decennio più pericoloso, imprevedibile e importante dalla fine della seconda guerra mondiale». Pericoloso, imprevedibile e importante, dice il presidente russo a un passo dal conflitto nucleare, sostenendo — e anche questa affermazione va sottolineata in rosso —  che non userà l’atomica e che l’unico Paese al mondo ad avere usato nella storia armi nucleari contro uno Stato non nucleare sono gli Stati Uniti d’America.

Nello stesso intervento Putin ha ribadito la necessità di un nuovo ordine mondiale, di un multipolarismo che abbia come centri l’Asia (attenzione: ha citato l’Asia, non  la Cina), i Paesi islamici, le monarchie del Golfo.

Seconda cosa. Settimana scorsa si è svolto il congresso del PCC, di cui in Italia non si è parlato, se non per la questione Taiwan o per qualche gossip laterale legato a Xi Jinping. È stato invece un congresso straordinariamente importante, l’evento politico più rilevante degli ultimi cinque anni in uno dei Paesi cruciali della scena del mondo. A me ha fatto riflettere una delle code del congresso, l’assemblea del Comitato per le relazioni Usa-Cina, un vecchio organismo creato sessant’anni fa e animato da grandi industriali e boiardi di Stato. Xi Jinping ha inviato una lettera al Comitato dai toni molto distensivi, proponendo a Biden «più strette comunicazioni e collaborazioni tra Cina e Stati Uniti» allo scopo di «aumentare la stabilità e la certezza globali per promuovere la pace e lo sviluppo del mondo».

Ed è (terza cosa) una risposta, così possiamo leggerla, al primo incontro tra Biden e il nuovo premier britannico Sunak nel quale al contrario sono state poste al centro delle strategie anglo-americane le «pericolose sfide poste dalla Cina» sul piano economico, commerciale, energetico e tecnologico.

Infine, a proposito di Cina, ancora settimana scorsa il Consiglio Europeo ha ribadito di avere messo in agenda una revisione complessiva dei rapporti europei con la Cina. L’impressione è che la Via della Seta concepita soltanto tre anni fa con il coinvolgimento di 16 paesi europei si sta trasformando in un vicolo cieco. Per l’anno prossimo è atteso un provvedimento per ridurre l’acquisto dalla Cina di materie prime ritenute cruciali, dopo che nel febbraio scorso era stato varato un piano  europeo — e non mi pare casuale — per aumentare la produzione di microprocessori.

Che cosa ci dicono queste quattro cose, apparentemente non collegate?

Che la Russia è impantanata in una guerra che immaginava rapida e tutto sommato indolore ma che la sta invece concretamente esponendo al rischio di un isolamento e soprattutto al rischio di un allentamento dei rapporti con la Cina.

Che la Cina, saggiamente, vuole mantenere un profilo di autonomia, tiene i rapporti con la Russia, non si presta a toni bellicistici, ovviamente, ma vuole ricostruire direttamente con gli Stati Uniti un nuovo equilibrio, perché non può non temere — e allo stesso tempo vi si prepara — uno scenario di scontro militare per l’egemonia mondiale. Che gli Stati Uniti stanno cogliendo l’opportunità della guerra ucraina per accrescere il proprio potere (commerciale: basti vedere le opportunità che si sono create sul terreno della vendita del gas naturale liquefatto all’Europa; e militare: da un ulteriore, e definitivo, allargamento della NATO alla guerra combattuta per procura con l’obiettivo appunto di contenere e respingere la Russia). E che infine l’Europa è il vero anello debole dello scacchiere mondiale.

E allora torno all’articolo di Adam Tooze, che a un certo punto scrive: «negli anni Settanta, sia che tu fossi un euro-comunista, o un ecologista o un incallito conservatore, potevi attribuire le tue preoccupazioni a una singola causa: il capitalismo, una crescita economica eccessiva o troppo debole, un eccesso di indebitamento. Ora non è più così».

Coglie nel segno. Oggi non esiste una causa unica, non esiste una crisi unica.

Non solo perché al crocevia dei problemi che ho elencato si somma e si interseca la gigantesca dimensione della crisi ambientale, su cui non mi dilungo. Non solo per la abnorme dimensione della nuova crisi sociale.
Cito solo due dati: 10 miliardi di euro profitti netti realizzati da Eni nei primi nove mesi del 2022 con un aumento del 311%; e una dinamica dei prezzi superiore di 6,6 punti percentuali rispetto a quella salariale con più della metà dei lavoratori dipendenti italiani in attesa del rinnovo di un contratto nazionale scaduto.

Ma anche perché esiste un elemento nuovo, che riguarda il capitalismo e anche la guerra, che a me pare emerga con enorme evidenza (un’evidenza paradigmatica) nella vicenda che riguarda Elon Musk.

Musk lo conosciamo tutti: è l’uomo più ricco del mondo, con un patrimonio di 232 miliardi di dollari, amministratore delegato di Tesla, fresco proprietario anche di Twitter. Negli ultimi otto mesi ha fatto due cose che ci interessano da vicino sul terreno della guerra.

A febbraio ha assicurato l’invio in Ucraina dei terminali internet Starlink della sua azienda Space X, garantendo le comunicazioni militari e civili in Ucraina, le sue risorse di connettività satellitare, dando informazioni anche sull’avanzata russa, dopo che ovviamente come primo gesto offensivo l’esercito russo aveva messo fuori uso le linee telefoniche e telematiche ordinarie ucraine.

Ai primi di ottobre, quindi poche settimane fa, ha invece interrotto il servizio, chiedendo al governo statunitense di farsene carico, e ha proposto, sempre via twitter, un vero e proprio piano di pace, per nulla peregrino: riconoscimento della Crimea russa, garanzia del rifornimento idrico costante alla Crimea, neutralità militare dell’Ucraina (dunque fuori dalla Nato), e un nuovo referendum per le province russofone dell’Est.
Ancora meno peregrina è la postilla con cui ha accompagnato la proposta: «è altamente probabile — dice Musk — che il risultato sarà questo, si tratta di capire quanti morti servono ancora prima che si realizzi».

Perché ho parlato di Musk? Perché il destino del conflitto tra Russia e Ucraina è nelle mani, tra gli altri, di un uomo che non è alla guida di uno Stato ma di un’azienda tecnologica privata, anzi di un vero e proprio impero.
Ed è una storia che racconta meglio di qualsiasi altra la realtà del capitalismo tecno-finanziario, di quella che qualcuno ha iniziato a definire il «colonialismo digitale» e che, ben oltre Musk, si fonda su poteri big tech che ormai sovrastano i poteri pubblici delle istituzioni democratiche.

Concludo con qualche stimolo.

Il primo. Non esiste un’idea alternativa di un modello di sviluppo possibile senza fare i conti con gli algoritmi e l’intelligenza artificiale. Cioè con il tema della loro proprietà, oggi nelle mani di una manciata di soggetti privati e che noi dovremmo pretendere di ricondurre a poteri pubblici democratici. E non esiste questa idea alternativa senza fare i conti con il tema, sempre più impellente, della rivendicazione dell’umano e della sua dignità contro lo strapotere delle macchine.

Secondo. Non esiste un’idea alternativa di un modello di sviluppo possibile senza fare i conti con la crisi ambientale, che ha acquisito una radicalità e un’impellenza oggettive, che ormai ogni persona intellettualmente onesta riconosce.

A queste evidenze noi dobbiamo aggiungere il fatto che non esiste un’idea alternativa di un modello di sviluppo possibile senza un orizzonte socialista, cioè fuori dall’idea di una società egualitaria, che affronti il nodo dei rapporti di produzione e che definisca un modello di democrazia più profonda, consiliare, che riconsegni potere e protagonismo ai lavoratori e ai cittadini.

E qual è il livello minimo a cui collocare queste idee? L’Europa. Non ho alcun dubbio. E non è impossibile. Perché è vero che siamo parte integrante del problema, del sistema e del modello che non funziona, ma anche i liberali hanno un istinto di sopravvivenza e di auto-conservazione che dal nostro punto di vista è importante.

Lo dimostrano per esempio le dichiarazioni di qualche giorno fa di Bruno La Maire, Ministro dell’Economia francese, che ha detto a chiare lettere che «il conflitto in Ucraina non deve sfociare nella dominazione economica americana e nell’indebolimento dell’UE. Non possiamo accettare che il nostro partner americano ci venda il suo GNL a un prezzo quattro volte superiore a quello al quale vende agli industriali americani». Giusto per mettere le cose in chiaro.

L’Europa potrebbe allora, e dovrebbe, fare sentire la propria voce.
Rivendicando una politica industriale autonoma, un piano energetico comune e un protagonismo nel processo di pace, che passi dall’idea banale che il compromesso, il negoziato e la pace sono alternativi alla prosecuzione della guerra.
Per farlo occorre mettere in soffitta l’atlantismo. Lasciatemelo dire nella maniera più netta possibile: va di moda rivendicare atlantismo. Più che una moda: è il lasciapassare che consente l’accesso ai luoghi che contano, la patente necessaria per governare e per essere considerati credibili. Io mi rifiuto invece di pensare che l’atlantismo debba essere il destino dell’Europa o quello della sinistra europea. La guerra fredda è finita, anche per loro.

Vedete, non ho parlato del risultato delle elezioni, malgrado mi siano chiare le responsabilità e le insufficienze di tutti e di ciascuno.

Mi limito a dire che non vedo nei gruppi dirigenti della sinistra italiana, nelle sue diverse componenti, una consapevolezza storica che sarebbe invece necessaria. Che occorre ripartire da una cultura politica e da una analisi, e non da suggestioni elettorali o contingenti, tutte piegate sulla tattica e sul presente.
E che occorre farlo valorizzando e mettendo in rete quello che c’è e che si muove e scommettendo su quello che potrebbe essere. Occorrerebbe unire e rafforzare con coerenza una identità, una visione, un punto di vista. E poi decidere dove collocarla, in quale processo politico reale.

In autonomia, con la nostra autonomia, ma immersi dentro i rapporti di massa, dentro i luoghi nei quali già esiste una massa critica sufficiente. Questo è probabilmente il nostro compito, delle prossime settimane e dunque dei prossimi decenni.

Dal Convegno “Pace, guerra, transizioni. Le prospettive della sinistra”  registrato a Rimini il 29 e il 30 ottobre 2022.

L’evento è stato organizzato da www.luciomagri.eu.

Sono intervenuti: Famiano Crucianelli (medico), Francesca Mattei (assessore al Patto per il Clima e il Lavoro, Agricoltura e Giovani del Comune di Rimini), Isabella Paolucci (segretaria di Rimini, Confederazione Generale Italiana del Lavoro), Luciana Castellina (giornalista e scrittrice), Leonardo Casalino (professore), Vincenzo Vita (presidente dell’Associazione per il Rinnovamento della Sinistra), Simone Oggionni (responsabile nazionale Cultura di Articolo Uno – Movimento Democratico e Progressista), Gianni Melilla, Francesco Riommi (coordinatore nazionale dell’Unione Giovani di Sinistra), Maurizio Marcelli (sindacalista), Alfonso Gianni (direttore della Fondazione Cercare Ancora), Michele Zacchi, Lidia Campagnano (giornalista), Antonio Lensi, Fausto Gentili, Luigi Garettoni, Edoardo Turi (medico).
https://www.radioradicale.it/scheda/681676/pace-guerra-transizioni-le-prospettive-della-sinistra-prima-giornata

Simone Oggionni è responsabile nazionale cultura di Articolo Uno, dopo essere stato per diversi anni Segretario nazionale dei Giovani Comunisti. Laureato in storia, è autore di saggi per diverse riviste e di libri, pubblicati con Mimesis.

Cover: Lucio Magri con Luciana Castellina (foto tratta da www.collettiva.it, testata online della Cgil) 

Fantasmi /
Baher

l vecchio aprì la gabbia dei conigli e ne tirò fuori uno. L’animale tremava, e anche gli altri si addossavano alla parete in fondo, emettendo brevi grida stridule, presagendo di morire.

Lui sospirò – in fondo gli dispiaceva, ma doveva pur campare vendendo conigli e galline – e con un colpo secco alla testa uccise la bestiola. Poi attaccò il corpo al muro e cominciò a togliere la pelliccia.
“Allora, Fonso – disse Giacinto, che lo stava osservando in attesa di portar via il coniglio scuoiato – come state?”. “Mah – rispose il vecchio – cosa volete, sempre così, si tira avanti. Né male né bene. Solo gran fastidi dell’artrite. Sarà tutta l’acqua che ho preso a pascolare lassù in alto”. “E con i vostri animali, come la va?” aggiunse curioso Cinto. “Si campa e basta. Tiro su un po’ di più di quel che spendo: ghiribizzi non ne ho, basta il mangiare, la legna per scaldarmi, quel che serve per le bestie, un po’ d’attrezzi e i panni di ricambio che mi metto addosso” rispose Fonso. “Sono anziano e faccio con poco”.

Intanto il coniglio era già pronto per Cinto. “Prendete anche una dozzina di uova – gli disse Fonso – che sono fresche”. L’altro accettò l’offerta e pagò, poi i due bevvero un bicchiere di vino e si salutarono.
L’auto di Cinto, una vecchia Panda, sparì dal sentiero della collina. Fonso si asciugò il sudore – gli succedeva sempre di sudare, quando uccideva un coniglio o una gallina, col maiale poi non ne parliamo – e si sedette sulla panca davanti alla vecchia casa. Le nuvole correvano nel cielo, stava calando la sera. Le montagne erano giganti azzurri nell’aria viola. Le ombre stavano diventando lunghe, c’era una grande pace.

Era l’ora preferita da Fonso: quella in cui uno si sentiva più sé stesso, ma anche più solo. Sua moglie era morta anni prima, non avevano figli. Lui aveva risposto mille volte di no agli inviti del sindaco che voleva si ricoverasse nella casa di riposo per essere accudito. Si sentiva ancora in grado di badare a sé stesso e a vivere del poco che aveva: l’orto dietro casa, gli animali, una modesta pensione da cantoniere comunale. Quello che pesava davvero era la solitudine. Aveva pochi amici; uno di questi era il parroco, don Pietro, un poco più giovane di lui, con il quale aveva grandi discussioni, molto serene, e giocava tante partite a dama.

Fonso si riscosse, era ora di cena. Diede da mangiare ai conigli e chiuse le gabbie. Le galline erano già nel pollaio. Entrò in casa e si lavò le mani col sapone nel piccolo bagno che si era costruito qualche anno prima. Poi si sedette e tirò fuori un paio d’uova sode, la bottiglia del vino, un pezzetto di salame e una pagnotta. Mangiò lentamente nel silenzio, con gli occhi fissi alla finestra, dove il cielo diventava nero e si riempiva di stelle. Sulle colline si accesero molti puntini luminosi: erano le lucciole, amate compagne della sera. Dopo un po’ di tempo andò a coricarsi.

*  *  *

L’indomani Fonso scese in paese in auto a riscuotere la pensione e per qualche acquisto. Vide che nella piazza c’erano le giostre: era tempo di Carnevale. Si strinse nelle spalle: ricordò quando, da bambino, sua madre lo accompagnava a vedere le maschere e tornavano a casa con un pezzetto di torrone e qualche caramella. Ne mangiava una alla volta, adagio, per farle durare, il torrone lo assaporava a briciole.
Salutò qualche faccia nota e passò all’osteria per bere un bicchiere di vino e chiacchierare una mezz’ora. Entrò e si avvicinò al bancone. Mentre aspettava il vino, udì la conversazione di due paesani che raccontavano un fatto accaduto la sera precedente: sulla collina vicina a quella dove lui abitava, era stato notato qualcuno che si aggirava intorno ad una casa di contadini. Una donna che stava raccogliendo il bucato se ne era accorta e aveva gridato: la creatura era fuggita, sparendo nei boschi.

Tornò a casa facendosi molte domande. Chi si nascondeva sulle colline? Che cosa cercava? Era un uomo o una donna? Era già successo che degli estranei arrivassero improvvisamente nelle case lì intorno, ma si trattava di nomadi. Il pensiero dello sconosciuto – o della sconosciuta – lo accompagnò per alcuni giorni: certe sere gli pareva che lo spiasse, nascosto nella faggeta che sovrastava la sua casa.

Finché una notte, nel dormiveglia, sentì dei rumori che provenivano dalla legnaia. Si ricordò di aver lasciato il portone soltanto accostato. Si alzò, indossò il giaccone, afferrò la doppietta e la caricò, poi uscì all’aperto. Nel chiarore della luce lunare che inondava il cortile, vide una forma umana in piedi vicino alla legnaia. “Chi sei? vieni avanti con le mani in alto “ proferì ad alta voce. La forma uscì dal cono d’ombra e si rivelò: era un ragazzino, magrissimo e spaventato, che teneva le braccia sopra la testa. Fonso si avvicinò e vide che tremava violentemente. Abbassò il fucile e per qualche minuto i due stettero immobili a guardarsi. Poi il vecchio parlò. “Chi sei? Cosa cerchi?”. “Fame” rispose l’altro. “Fame. Io non mangiato. Tu mi dai pane?”.

Fonso non ci mise molto ad agire. “Vieni dentro” disse. E si avviò in casa, col ragazzo dietro. Entrarono in cucina e il vecchio mise sulla tavola pane, formaggio, vino e qualche fetta di prosciutto. Il ragazzino mangiò avidamente. “Piano, piano – disse Fonso – se no ti fa male. Piano”. Terminato il pasto, l’ospite inatteso guardò fisso Fonso, che gli domandò: “Come ti chiami? Da dove vieni”. “Io Baher, vengo da Afghanistan. Padre e madre morti, un fratello non so dove sta ora” rispose il ragazzo, che ricominciò a tremare. Indossava vestiti laceri, di stoffa leggera. “Senti – gli disse Fonso – adesso ti scaldo l’acqua e fai un bagno, dopo puoi dormire sul divano in cucina, vicino al fuoco. Domattina guardiamo cosa si può fare”. Aspettò che il ragazzo si lavasse, poi gli diede un pigiama di flanella, una coperta pesante e lo sistemò sul divano. Baher si addormentò quasi subito.

Fonso andò a letto, ma per un bel pezzo non chiuse occhio. Il sonno arrivò, pesante, verso la mattina. Quando si svegliò, il vecchio andò subito in cucina ma Baher non c’era più. Se n’era andato con i suoi vestiti laceri, indossando anche il pigiama. Con lui erano spariti pochi soldi che erano sulla credenza.

*  *  *

Passarono alcuni mesi e poco a poco Fonso dimenticò il ragazzo. All’istante c’era rimasto male, ma poi aveva pensato ai disgraziati che per fuggire dai posti dove erano nati attraversavano il mare e terre straniere, e che morivano annegati. Li vedeva nella vecchia televisione che accendeva qualche volta. Baher era solo al mondo e per sopravvivere aveva anche rubato. Ma non poteva essere cattivo, così giovane. Ecco – aveva pensato Fonso – bisogna distinguere i buoni dai cattivi, sempre. I buoni vanno aiutati, i cattivi no.
Un pomeriggio d’autunno, mentre spaccava della legna nel cortile, udì un rumore, come quello che fanno gli animali quando si muovono nel bosco. E se lo vide improvvisamente davanti. Era ancor più magro della volta precedente, malvestito e smunto.

Baher si avvicinò e s’inginocchiò davanti a Fonso. “Perdona se ho rubato… perdona” disse. E si mise a piangere, tremando. Il vecchio lo aiutò ad alzarsi: era leggero, leggero. Guardò il ragazzo in faccia, a lungo. Poi, con un sospiro, lo fece entrare in casa. Era ora di cena e mangiarono insieme. Poi Fonso disse, come l’altra volta: “Fai il bagno, e poi dormi sul divano. Ma stavolta non fuggirai, vero? Domani andremo da don Pietro per vedere se ti può tenere in canonica. Altrimenti puoi restare qui. Potrai andare a scuola e studiare, trovare un lavoro. Ti aiuterò. Vuoi?”. “Sì”, rispose Baher. “Io resto. Non scappo più”.

Racconto inedito, proprietà dell’autore

In copertina: Hussein, il bambino profugo che legge tra la spazzatura – immagine tratta da Avvenire.it : “Hussein legge. Legge nonostante tutto. Nonostante la guerra, la violenza, la sporcizia di questo mondo. E la sua immagine di piccolo rifugiato, così forte, in un cassonetto, con in mano un libro, ha saputo conquistare tutti. Hussein ha 10 anni è un profugo siriano e sta insegnando con pura inconsapevolezza la speranza e l’intimità, la compagnia e la forza che può offrire un libro in qualsiasi circostanza sotto qualsiasi latitudine.”.

Germogli /
Paperon de’ Piantedosi

 

E così la nave Ocean Viking sbarcherà a Tolone facendo scendere tutti i migranti. Il ministro Piantedosi aveva vietato lo sbarco della stessa nave nel porto di Catania, per un “carico residuale” di esseri umani definito “non vulnerabile”. Quindi raus, fuori, “sciò”, “tornate domani”, “proprietà privata”, “girate al largo”, “sparite!” come i cartelli affissi da zio Paperone ai cancelli di casa, per tenere alla larga dai suoi dollari la banda Bassotti e chiunque potesse increspare il suo ménage di avaro (ma, almeno lui, simpatico) misantropo.

“Non possiamo accoglierli tutti noi”. Giusto, se fosse vero. Matteo Villa, ricercatore per l’Istituto Studi di Politica Internazionale (nato, per ironia della sorte, nel 1934 ad opera di intellettuali di orientamento fascista), ha pubblicato alcuni dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr).

Numero dei rifugiati accolti da alcuni Stati europei nel 2021 in rapporto alla popolazione del paese ospitante: in Italia sono lo 0,2% della popolazione. Tra gli altri, in Francia sono lo 0,7%, in Germania l’1,5% e in Svezia il 2,3%. Peggio (o meglio, per qualcuno) di noi Ungheria e Polonia.

Ma è un dato dell’ultimo anno. Chissà lo storico dei richiedenti asilo in rapporto ai rifugiati.

Eccolo. Germania: 1,49mln di rifugiati, 232 mila richiedenti asilo. Francia: 543mila rifugiati, 82mila richiedenti asilo. UK: 223mila rifugiati, 83mila richiedenti asilo. Spagna: 219mila rifugiati, 91mila richiedenti asilo.  Italia: 191mila rifugiati, 53mila richiedenti asilo (sempre Unhcr).

Nel frattempo la Francia ha detto che l’accordo per la ricollocazione dei migranti sbarcati in Italia va disatteso, perchè l’Italia ha violato il diritto internazionale. Posizione furba e cinica. Però i numeri sono quelli sopra.

Grettézza s. f. [der. di gretto]. – Qualità, carattere di persona gretta, sia per ciò che riguarda lo spendere, sia (e più spesso) per ciò che concerne il modo di pensare e di giudicare, quindi piccineria, meschinità: gdi mented’animo.
(Treccani)

Cover: Zio Paperone, Milano, 14 dicembre 2007. Presentazione del nuovo Topolino (immagine su licenza Flickr)

Parole a capo
Isabella Bignozzi: “Trasparenze” e altre poesie

“Per il poeta, scrivere significa abbattere il muro dietro cui si nasconde qualcosa che è sempre stata lì.”
(Milan Kundera)

Da: Le stelle sopra Rabbah (Transeuropa 2021)

Margine

Considera l’attimo
l’aria che intaglia le cose
il profilo in ombra di una madre
considera l’acqua
le sue vie calcaree
le sue furie di sale
somiglia alla grazia
questo suo scavare gelido
molle di luce
dici
non c’è scampo allo splendore
ai feroci richiami del giorno
il dolore è margine di bellezza
e noi qui
nell’eterno nitore di settembre

Trasparenze

Notte di enigmi lucenti
alla finestra crateri
aria di pietra, sabbia rossa, maschere d’oro
tempo che traspare
connubio di vetro, il respiro trattenuto delle costellazioni
qui
l’odore di un buio d’edera.
Sul pianoforte un metronomo addormentato

Notturno

Il poeta del secolo non ha antologia
è un pazzo che biascica seduto all’angolo
sotto un lampione di nebbia al neon
che crede un ventre gravido di luna

Da Memorie fluviali (MC edizioni 2022, collana Gli insetti, a cura di Pasquale Di Palmo)

Alba

Sanguina il gelso
nel pianto degli archi
un adagio in minore
suonato di taglio
si misura nel crollo
la premura d’amore
negli steli recisi
la morte che ha cura
balsamo miele
mio barbaro
mia nuda tra le dita
preghiera
e tu
candido altare
alba di vetro
che ogni cosa sai
del nuovo giorno
spezzami piano.

Al peso degli addii (poesia inedita)

Al peso degli addii
riservi la tua quiete, un albeggiare
scura il proseguire
ma tu non dire
le tue vele a chi non cade
col rosso agli occhi, nel disalbero
parlami di una porta socchiusa
idea che scivola, ipotenusa
che nega i perpendicoli della croce
una voce
che chiama, senza sera
attendimi in panne sotto la bufera
fermezza tua che rimane nella cura
dei perduti come fosse vera
tra queste case rotte una voliera
aperta, che fa tremare
di precisa primavera

Il pensiero di noi più accorto (poesia inedita)

Il pensiero di noi più accorto
vive nel buio d’alga di un lago
se sale distende un bagliore
ai segnati altipiani, guardiani
di chiuse serre al petto
dove fa equatore
quest’azzurra pena
dal pomeriggio scalzo
la città s’appende a una nube
è all’acqua, agli altari
il vederti attendere gli androni,
i tabelloni, portarmi pace
al meridiano astrale
raggio d’oro – tu – in una cattedrale

Isabella Bignozzi ha svolto a lungo attività clinica e di ricerca, ed è autore di comunicazioni scientifiche
di rilevanza internazionale. In ambito umanistico ha pubblicato racconti, prose artistiche, testi poetici,
saggi e contributi critici su varie riviste letterarie. Con alcuni suoi scritti è presente su «Inverso –
Giornale di poesia», «Poesia del nostro tempo», «Versante ripido», «Atelier poesia», «rivista
ClanDestino», «larosainpiu», «La foce e la sorgente», «Formicaleone», «Le parole di Fedro», «La poesia e
lo spirito», «Poetarum Silva», «NiedernGasse».
In poesia ha pubblicato Le stelle sopra Rabbah (Transeuropa 2021) e Memorie fluviali (MC edizioni, collana
Gli insetti, a cura di Pasquale di Palmo). Con la prosa inedita La notte è stata finalista alla 35^ edizione
del Premio Lorenzo Montano (2021), e con la poesia inedita Come madre alla 36^ edizione (2022). Con il
romanzo storico a memoriale Il segreto di Ippocrate, edito da La Lepre edizioni, è stata finalista al premio
Como 2020.
Scrive per «Pangea», cura la rubrica La parola dell’attuale su «Poesia del nostro tempo», e lo spazio web
«L’Astero rosso – luogo di attenzione e poesia».

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su periscopioPer leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

Tutte le Ragioni per spostare dal Parco Bassani il concerto del Boss. E per portare a termine il progetto incompiuto del parco

 

Già a inizio luglio avevo scritto su Periscopio, quando erano passati pochi giorni dalla costituzione del comitato Save The Park, che aveva visto l’adesione di tanti cittadini assieme a numerose associazioni ambientaliste e animaliste ferraresi. Come ormai risaputo il comitato si oppone all’utilizzo del parco Bassani per il concerto di Bruce Springsteen, previsto per il 18 maggio del prossimo anno.

Per descrivere e argomentare le ragioni del no al concerto vorrei riprendere quanto scritto dall’allora presidente della sezione ferrarese di Italia Nostra, architetto Andrea Malacarne, e dal sottoscritto, e pubblicato sull’Annuario CDS 2002, riguardo il Parco Urbano di Ferrara, il cui progetto di tutela e valorizzazione redatto nel 1996, aveva previsto “una serie di opere, di grande semplicità, trattandosi di parco-campagna, necessarie a renderne semplicemente fruibile il territorio”[1].

Così scriveva nel suo articolo Malacarne, il quale proseguendo affermava che dall’anno di redazione diversi aspetti del progetto non avevano visto alcuna realizzazione, principalmente per il mancato e costante “flusso di finanziamenti che sarebbero richiesti ogni anno, e fino a completa realizzazione dello stesso, data l’importanza strategica del funzionamento del parco per la vita dell’intera città”.

Dal canto suo l’architetto Giulia Tettamanzi scrive, nel 2007, nella sua tesi di dottorato[2] che: “Il parco appartiene al sistema delle aree agricole e al sistema insediativo diffuso e le sue peculiarità derivano non tanto dalla presenza di emergenze naturalistiche, quanto piuttosto dall’essere un territorio sostanzialmente rimasto inedificato, a prevalente uso agricolo e a contatto fisico con la città storica”.

Si sta indicando, ovviamente, non solo, l’area pubblica intitolata nel 2003 a Giorgio Bassani, quanto l’intero territorio (vedi figura sotto) che, come già altre volte ricordato, si spinge dalle mura nord della città fino all’argine del Po, e all’interno del quale acquista senso lo spazio relativo al Parco Bassani assieme alle funzioni pensate per esso.

“Funzioni, afferma Tettamanzi, per le quali è mancato un progetto coordinatore che, soprattutto, proponesse chiari indirizzi quale luogo di interfaccia tra la città murata e la campagna coltivata, e che ha portato, per quasi vent’anni, a un uso del Parco non compatibile rispetto alle finalità con cui era stato ideato, e cioè “area di particolare interesse paesaggistico e ambientale”, come recita il Piano Paesistico Regionale.

Nell’Annuario CDS del 2002 [3] avevo sviluppato una serie di considerazioni legate all’accordo agro-ambientale previsto ai sensi del Piano Regionale di Sviluppo Rurale 2000-2006, che aveva individuato nell’area del Parco Urbano di Ferrara “una zona privilegiata per l’accesso a contributi” denominati misure 2h e 2f. Proposta poi approvata dal Consiglio Comunale nell’ottobre 2001 che obbligava gli uffici competenti ad individuare l’area problema per l’applicazione della misura 2h, quella finalizzata in particolare al rimboschimento dei terreni agricoli.

All’uscita del relativo bando nel marzo 2002, e individuata l’area, l’obiettivo fu individuato nella costituzione all’interno del Parco di un mosaico ecosistemico imperniato sulla formazione di quattro zone boscate in diversi punti del territorio considerato.

Questo, assieme ad altre iniziative e progetti mai attuati, stride con quel motivo di orgoglio di cui parlava Andrea Malacarne1 per il fatto di aver preservato 1200 ettari di territorio agricolo protetto a contatto diretto con il lato nord della cerchia muraria.

Dall’inizio del nuovo secolo più nulla è stato realizzato dei tanti progetti possibili per uno sviluppo dell’area, organico e aderente alle nuove esigenze che andavano manifestandosi nella società ferrarese, ma senza snaturarne le originali finalità naturalistiche e paesaggistiche. Giulia Tettamanzi parla di una “assoluta mancanza di un progetto di paesaggio”, a cominciare dall’interramento, previsto dal PRG di allora, della strada ad alto scorrimento (via Bacchelli), che costituisce una barriera e una “cesura paesaggistica”2 insormontabile tra l’area delle Mura e il Parco.

Stefano Lolli, a questo proposito, in un articolo del 2003 [4], rilevava che le tante idee e progetti scaturiti negli anni dall’istituzione del Parco richiedevano “un progetto operativo organico, ad esempio dando vita a una sorta di Autorità delle Mura e del Parco in grado di coordinare le azioni e gli investimenti, sia pubblici che privati“. Scelta che potrebbe risultare utile, continua Lolli, “anche per il comparto Sud della città – nell’amplissima zona tra l’attuale aeroporto, le aree agricole della Sammartina, il Po di Volano – dove si parla con insistenza di una destinazione a parco che leghi ambiente e attività produttive.”

Di tutto ciò si è persa anche memoria se si pensa come negli ultimi due decenni sia mancato qualsiasi tipo di riflessione sulla possibile evoluzione di questa ampia zona di territorio, mentre invece ne è stato fatto un uso assolutamente incoerente con l’iniziale progetto.

L’Addizione verde, il territorio agricolo che dalle Mura arriva al Po

E’ alla luce di queste considerazioni e di questi ragionamenti che assume un senso e una valenza ancor più rilevante la scelta della costituzione di un comitato per la salvaguardia del Parco Bassani che in realtà diventa strategico per la salvaguardia e lo sviluppo di tutto il territorio che si spinge fino al Po. E l’esistenza stessa e l’attività del comitato (che ha raccolto oltre 40.000 adesioni) potrebbe, a mio avviso, diventare occasione per riaffrontare questa tematica da troppi anni abbandonata.

Ancora una volta viene in aiuto quanto scritto dall’architetto Tettamanzi nella tesi di dottorato: “il nodo della questione rimane la difficoltà contingente di adattare in modo efficace i milleduecento ettari del Parco Nord di Ferrara ai modelli di vita attuali, prestando attenzione al fatto che un’operazione di valorizzazione e promozione non entri in contrasto con la sostenibilità della tutela, attraverso la proposizione di una nuova “funzione”.

La richiesta di non effettuare al Parco Bassani il previsto concerto e anche altri eventi simili nel prossimo futuro dovrebbe allora essere solo un inizio, un primo momento di una attività più articolata che prenda in considerazione l’intera area del Parco Urbano.

In questa direzione va una ulteriore iniziativa: la proposta avanzata da un gruppo di cittadini ferraresi, che in un mese ha raccolto circa 600 firme, perché il Consiglio Comunale discuta lo spostamento del concerto di Bruce Springsteen del 18 maggio 2023 dal Parco “Giorgio Bassani” in un’area idonea nella zona Sud della città.

Di seguito il testo della proposta di deliberazione

PROPOSTA DI DELIBERAZIONE

Oggetto: Spostamento concerto di Bruce Springsteen del 18 maggio 2023 dal Parco Urbano ” Giorgio Bassani” in un’area idonea nella zona Sud della città

IL CONSIGLIO COMUNALE
premesso che:

– l’Amministrazione Comunale è fortemente impegnata nell’organizzazione di un grande concerto con la partecipazione di Bruce Springsteen presso il Parco Urbano “Giorgio Bassani” per il 18 maggio 2023, ritenendolo idoneo per questo ed altri eventi simili che si potrebbero svolgere nella suddetta area;

– il Regolamento del Verde pubblico e privato del Comune di Ferrara, redatto nel 2013, nella Premessa riporta che: “Il verde urbano deve essere concepito come ‘valore aggiunto’ da tutelare, perché svolge importanti funzioni climatiche ed ecologiche, urbanistiche e sociali. Contribuisce al miglioramento della qualità urbana rivestendo anche un importante ruolo cii educazione ambientale. Il verde, inoltre, svolge funzioni essenziali per la salute pubblica contrastando l’inquinamento atmosferico, termico ed acustico”;

– sempre Io stesso Regolamento all’art.9, comma 7, sottolinea che nel periodo tra marzo e luglio la tutela dell’avifauna sia particolarmente delicata e che gli abbattimenti di essenze arboree vadano assolutamente evitati considerato che:

– il Parco Urbano Bassani è stato concepito e costruito, sin dalla sua progettazione, come un’opera di rinaturalizzazione di uno spazio cerniera tra l’area urbana, quella agricola e il fiume, con una vocazione che non si presta allo svolgimento di eventi con le caratteristiche di quello sopra previsto;

– la sede del concerto potrebbe essere compromessa seriamente, soprattutto in caso di maltempo, per quel che riguarda il manto erboso, la tutela igienico-ambientale degli specchi d’acqua e il rispetto della biodiversità della nicchia ecologica costituita dalla galleria vegetale arbustiva, formatasi negli anni lungo la massicciata dell’ex-ferrovia Ferrara-Copparo, come anche per quel che riguarda l’avifauna stanziale e stagionale che nidifica in loco;

– un ampio tratto delle Mura storiche patrimonio dell’UNESCO sarebbe potenzialmente e pericolosamente coinvolto nell’evento;

– una petizione on line organizzata dal comitato civico Save the Park, che chiede che il concerto venga spostato in altra sede, ha raggiunto circa 40.000 sottoscrizioni

IMPEGNA IL SINDACO E LA GIUNTA COMUNALE

– a comunicare pubblicamente lo stato dei rapporti, nonché gli eventuali impegni di carattere economico, tra l’Amministrazione Comunale e gli organizzatori del concerto previsto di Bruce Springsteen per il 18 maggio 2023

– a individuare nell’area Sud della città, e in particolare in quella di pertinenza del demanio statale, il luogo idoneo per io svolgimento di tale evento in data 18 maggio 2023 e procedere conseguentemente, anche mediante uno studio e un approfondimento apposito
– a sviluppare un nuovo Parco urbano nell’area suddetta, anche con la vocazione di tenere grandi eventi con caratteristiche simili a quello sopra descritto.

 

Note

[1] Italia Nostra e “l’addizione verde”, Andrea Malacarne, Annuario Socio Economico Ferrarese, 2002, Cds Edizioni, Ferrara
[2] Giulia Tettamanzi, “Il Parco Nord a Ferrara. Un progetto aperto”, Quaderni della Ri-Vista. Ricerche per la progettazione del paesaggio, Firenze, University Press, n. 4, vol. 1, 2007.
[3] Il Parco Urbano, Gian Gaetano Pinnavaia, Annuario Socio Economico Ferrarese, 2002, Cds Edizioni, Ferrara.
[4] Stefano Lolli, “Il Parco Bassani”, in “Ferrara, Voci di una città”, n. 19, 2003

Cover: Il flash mob al Parco Bassani organizzato l’ottobre scorso dal Comitato Save The Park

Elezioni Lombardia: Il Pd che schifa la Moratti fa un favore alla Destra e si candida a una solitaria sconfitta

(Milano 08.11.22) L’abiura della destra che ha fatto Letizia Moratti con motivazioni abbastanza convincenti, e la contemporanea auto candidatura alla presidenza della Regione Lombardia, è una doppia notizia interessante.
Un’opportunità che il gatto e la volpe della politica italiana, i due del terzo polo, non si sono fatta scappare.
È difficile sapere come andranno a finire le candidature finali. E più difficile ancora, ovviamente, prevedere l’esito elettorale. Di sicuro dopo oltre venti anni di egemonia leghista, per la prima volta la regione Lombardia è diventata contendibile. Certo, è una partita che va giocata bene. Con lucidità strategica e, se serve, anche
un po’ di spregiudicatezza.
Tutto quello che, ancora una volta, a giudicare dalle prime reazioni, il Pd non sembra avere.
Portatrice di un blocco sociale importante, non solo nel mondo economico e dei moderati più in generale, Letizia Moratti ha molto seguito anche in quello del volontariato. È sempre stata una donna di centro. Come tanti altri che hanno navigato più o meno a lungo nella destra, e poi sono approdati in vari modi al Pd. Basti pensare a Casini…. Quindi, fare tanto gli schizzinosi per rivendicare una purezza identitaria, magari in splendida solitudine, con un bel turno di inutili primarie, sembra un lusso che proprio, se vuole qualche chance di vittoria, il Pd non se lo può permettere.
Una candidatura Moratti su un programma progressista, concordato insieme a una squadra ben assortita, può avere tanti vantaggi politici.
Intanto aumenta di molto le possibilità di vittoria.
Poi consentirebbe al Pd di tornare, dopo oltre venti anni, al governo della più importante regione d’Italia.
Darebbe un altro colpo micidiale alla Lega e a Salvini.
Determinerebbe uno sconquasso nella maggioranza di governo. E da una regione di questa importanza, avrebbe un moltiplicatore di efficacia nella sua attività di opposizione al governo nazionale.
Eviterebbe la discutibile candidatura di Cottarelli, appena eletto al Senato.
E finalmente riuscirebbe, comunque, a fare un primo esperimento di campo largo con il terzo polo. Anche perché i 5 Stelle, ancora una volta, hanno anticipato un no sprezzante ad una alleanza con il Pd.
Insomma che vuol dire fare politica? Se vuole crescere, dove potrà prendere i voti se non da quelle aree da dove sono in uscita, come i moderati di centro destra, che rifiutano l’egemonia della destra estrema della Meloni. E con loro, perché no, anche gli esponenti più significativi che non si ritrovano più in quello schieramento. In una politica liquida in tempi di grandi e continui cambiamenti, niente di più normale che ci sia un riposizionamento degli esponenti politici.
I dirigenti locali e nazionali dei Dem, sembrano non capirlo. E mostrano invece una ferale tendenza all’auto compiacimento per la sconfitta. Un bel suicidio di testimonianza, da dare pressoché sicuro con un candidato di bandiera, vale ben più del più importante governo regionale.
Se questo è fare politica! io credo che valga sempre l’anatema di Nanni Moretti: “Con questi dirigenti non vincerete mai”. Auguri.

VITE DI CARTA /
“La Fortuna” di Valeria Parrella

 

Valeria Parrella [Qui] cammina assorta lungo le strade di Pompei. Il quotidiano per cui scrive l’ha mandata a visitare l’Antiquarium  chiuso al pubblico prima ancora di essere inaugurato a causa della pandemia da Covid 19.

Dunque si trova lì per lavoro, tuttavia la visita alla città prende a poco a poco un’altra piega. Il silenzio in cui sono immerse le strade le riporta alla memoria quando, nella sua infanzia, aspettava che la madre uscisse dal lavoro, dal suo ufficio situato proprio all’interno della zona archeologica, e intanto faceva un giro per Via dell’Abbondanza o raggiungeva il Foro.

È una sorta di agnizione ad afferrarla: la memoria a lungo sepolta di episodi dell’infanzia e insieme la memoria collettiva, perché Pompei assume ora questo significato, è ciò che siamo stati e siamo anche nel presente, travolti da un prodigio che non ha i tratti spettacolari di una eruzione vulcanica, ma ci stravolge, proprio perché è un virus ostile che non vediamo.

Di recente ho ascoltato su Youtube la versione dell’autrice sulla nascita di questo La Fortuna, uscito presso Feltrinelli nel maggio del 2022, che lei definisce il suo romanzo più autobiografico, nonostante sia ambientato a Pompei negli anni che precedono l’eruzione del Vesuvio e racconti a lungo lo straordinario prodigio cominciato il 24 agosto del 79 d.C.

La Fortuna è un romanzo su quanto si riesce a reggere la sorte… quanto vogliamo sfidare le Parche, sulla gioia di vivere però spenzolata sul tremendo”.

Sull’onda di questa affermazione ho riletto d’un fiato tutto il libro e ho ricostruito la vita di Lucio, il protagonista che è anche narratore in prima persona. Volevo ritrovare la sua biografia personale e al tempo stesso la coralità della vita di Pompei e  dell’Impero di Roma nel primo secolo dell’era cristiana.

Volevo anche fare sintesi della sua vita, impadronirmi del senso che anche lui ha capito di poterle assegnare nell’ora più buia, mentre era al comando della flotta entrata in mare durante l’eruzione e che ha salvato parte delle navi e degli equipaggi e tutti gli esseri umani all’intorno, fin dove possibile.

Lucio è nato in un giorno di terremoto, mentre la terra tremava; il nome è lo stesso di un caro amico del padre anche se per il bambino che cresce in città e sulla riva del mare, giocando con gli altri bambini, la luce arriva a metà.

Da un occhio Lucio non vede, ma questo non gli impedisce di studiare come gli altri e di nuotare senza stancarsi. Non gli impedisce di amare profondamente il mare e di maturare il grande desiderio della sua vita: vivere su una nave e governarla nella navigazione.

Per estrazione sociale Lucio a sedici anni deve lasciare la sua Pompei, per andare a studiare eloquenza e retorica alla scuola di Quintiliano [Qui] a Roma; nel suo destino c’è la carriera da senatore e lui si piega ad assecondare i piani del padre e a servire Roma.

Studia insieme a Secondo, suo coetaneo e nipote di Plinio il Vecchio e vive nella casa di Plinia, la sorella del grande naturalista. Conosce di persona l’Imperatore Tito ed è alla sua presenza che Plinio, durante una cena, lo spinge a svelare la sua vera grande passione, presente anche il padre:

guidare una nave…vivere una nave…curare le navi come mio padre cura le sue province e Cesare cura tutti noi”.

Lucio non si sente menomato per il fatto di vedere da un occhio solo, è vero infatti che “un limite è un limite solo se uno lo sente come un limite, sennò non è niente”, come gli dice prontamente Plinio.

Che aggiunge: ”Tuo padre deciderà per te. Però io sono circondato di persone che vogliono sempre più di quello che hanno e più di quello di cui cono capaci: cattivi amministratori, cattivi governanti, cattivi uomini. E mi commuove incontrare un giovane uomo che sa quello che vuole, e quello che vuole è meno di quello che potremmo offrirgli”.

Ora Lucio, che è vicino ai diciotto anni, è a Miseno presso la flotta e occupa la nave dell’amico Porzio, il cui nome è Fortuna; l’inizio della navigazione coincide con la festa della primavera, quando “il mondo torna a mettersi in movimento, le grandi onerarie tornano a riempirsi di carichi e l’acqua è di nuovo la strada su cui andare e venire”.

Quando in agosto si scatena l’eruzione del Vesuvio e il prodigio che viene dalla terra scuote aria e acqua, sulla stessa nave Lucio affronta il mare ed è come entrare nella notte.

E quando Plinio, l’amato ammiraglio, dopo ore sotto una grandine di cenere decide di lasciare la Fortuna per raggiungere Stabia, il comando della flotta e l’incarico di scrivere il diario dell’impresa passano a lui.

Con lui i duecento marinai, che remano sulle navi rimaste, affrontano un’altra notte fatidica, la notte del maremoto che li sballotta e li fiacca lasciandoli disperati, decisi a tornare indietro.

In un frangente esiziale come questo Lucio capisce come reagire per calmarli  e comprende finalmente a che serve la filosofia che ha studiato alla scuola di Quintiliano, a cosa le esercitazioni di retorica.

Avviene in lui la sintesi dei due uomini che avrebbe potuto essere, quello desiderato da suo padre e l’uomo di mare che  ha scelto di diventare. Pensa: “Marinai che hanno il doppio dei miei anni sono venuti implorando perché spiegassi loro cosa stava accadendo.

Come se fossi più vicino di loro agli dei, mi hanno chiesto di interpretare i segni. A questo serviva quel magazzino di vite altrui che Quintiliano ci ha lasciato in dote: a orientarci quando non si vedono le stelle, come stasera”.

Ho riletto l’epilogo e ho esaurito la mia ricerca. Nel periodo che segue l’eruzione Lucio ricostruisce la sua vita in una convivenza non facile con il trauma che il prodigio gli ha procurato, eppure ritrova nella memoria dell’infanzia e nel sorriso della madre perduta un motivo per vivere nel presente.

“Anche quando sembra tutto sparito un uomo si ferma e ricorda e in quella memoria germoglia il futuro come fiore del deserto”.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]