L’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny è stato condannato a 12 anni di reclusione per omicidio colposo aggravato in violazione delle norme per la prevenzione sul lavoro nel processo Eternit bis. Lo ha deciso la Corte d’Assise di Novara al termine di oltre 7 ore di camera di consiglio. Per lui l’accusa aveva chiesto l’ergastolo e l’isolamento diurno, le difese l’assoluzione perché il fatto non sussiste o, in subordine, non costituisce reato. Schmidheiny era accusato di omicidio volontario con dolo eventuale per la morte di 392 persone decedute per amianto a Casale Monferrato e dintorni. L’imprenditore aveva gestito lo stabilimento Eternit di Casale dal 1976 al 1986.
Il verdetto chiude un percorso di 41 udienze (la quarantaduesima è quella di oggi), che si sono svolte per due anni esatti, a partire dal 9 giugno 2021, un percorso iniziato a seguito dell’annullamento della sentenza di condanna di Schmidheiny da parte della Cassazione nel 2014, perché il reato fu estinto per prescrizione maturata anteriormente alla sentenza di primo grado. In quel caso non ci fu nessuna presa di coscienza penale sul fatto che il danno fosse – e lo è tuttora – permanente: allora nel territorio casalese morivano 50 persone all’anno, oggi sono circa 35, mentre i casi nel casalese e di Cavagnolo erano 2.272.
Il commento della Cgil Piemonte
“Siamo di fronte a una sentenza importante in questo livello di giudizio, perché viene riconosciuta la colpa con una pena importante di 12 anni. Restano vive nel processo molte delle parti lese che sono cadute per le scelte del proprietario della Eternit. Non si arriva all’omicidio volontario perché bisogna sottolineare che c’è una carenza, un baco nel sistema legislativo italiano che non riconosce questo tipo di giudizio, come successo per la Thyssen”. Queste le parole di Giorgio Airaudo, segretario generale della Cgil del Piemonte, subito dopo la sentenza.
“La sentenza riconosce le parti sociali, i danni fatti al territorio, un indennizzo, ovviamente serve un esame più attento e bisognerà che la sentenza regga nei prossimi gradi di giudizio, ma intanto è un inizio di giustizia su una vicenda che da decenni la chiede”.
Mi rivolgo a Lei caro Sindaco di Ferrara per esprimere la mia preoccupazione e il mio disappunto riguardo alla recente esperienza che abbiamo vissuto nel parco urbano Bassani di Ferrara durante il concerto di Bruce Springesting. Desidero chiedere, con tutto il rispetto, di prendere in considerazione la decisione di non eseguire mai più concerti in quel luogo.
Come residente di lunga data di Ferrara e frequentatore abituale del parco Bassani, ho sempre apprezzato l’atmosfera tranquilla e il suo ruolo di polmone verde nella nostra città. Tuttavia, l’evento musicale che si è svolto di recente ha causato danni significativi all’area circostante e ha turbato l’equilibrio che solitamente caratterizza il parco.
I preparativi , il concerto stesso , hanno generato numerose problematiche che hanno influenzato negativamente sia l’ambiente circostante che la qualità della vita dei residenti. L’afflusso massiccio di persone ha causato ingorghi . L’utilizzo della paglia. La paglia nel fango si trasforma in letame , fertilizzante meraviglioso quando è interrato nei campi coltivati ma lasciato in superficie genera degli acidi che finendo nell’accqua dei laghetti o dei canali ha un effetto letale per i pesci che dovrebbe interessare gli organi preposti alla tutela dell’ambiente . Al di là di questi aspetti, il concerto ha provocato danni fisici al parco stesso. Sono state distrutte alcune aree verdi e molte delle piante e dei fiori che rendevano il parco così incantevole sono stati calpestati o danneggiati. Questo non solo ha inflitto un danno visibile al paesaggio, ma ha anche compromesso l’habitat di molte specie animali presenti nel parco.
Mi rendo conto che i concerti possono portare entusiasmo e benefici economici alla città, ma ritengo sia importante trovare una soluzione che preservi l’integrità del parco Bassani e tuteli i suoi valori naturalistici. Esistono altre location più adatte, come arene o spazi appositamente concepiti per eventi di questa portata, che potrebbero ospitare concerti senza arrecare danni irreparabili a uno dei luoghi più amati dai cittadini ferraresi.
Chiedo quindi al Comune di Ferrara di riflettere attentamente sulla scelta di non organizzare mai più concerti nel parco urbano Bassani e di mettersi al lavoro per identificare un sito idoneo in modo da attrezzarlo in vista di futuri eventi .Sono sicuro che l’intera comunità ne beneficerà, troveranno soddisfazione gli appassionati di musica senza sacrificare l’integrità del nostro prezioso parco. +
Il presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva, ha promesso che il processo di deforestazione subito dall’Amazzonia brasiliana cesserà entro il 2030, dopo aver fatto della lotta al disboscamento indiscriminato e alla rimozione delle foreste il fulcro della sua politica ambientale.
di Lorenzo Poli Questo articolo è tratto dalla agenzia di stampa internazionale pressenzadel 7 giugno 2023
Il governo socialista brasiliano di Lula prevede di raggiungere il suo obiettivo utilizzando un’applicazione rafforzata della legge contro i crimini ambientali e altre misure. Il piano prevede il recupero delle foreste nonché l’incremento della vegetazione autoctona attraverso incentivi economici, si propone di utilizzare forze dell’ordine rafforzate contro i crimini ambientali e altre misure nella più grande foresta pluviale del mondo.
Il Piano d’azione per la prevenzione e il controllo della deforestazione in Amazzonia (PPCDAm) stabilisce una politica coordinata tra più di una dozzina di ministeri fino alla fine del mandato di Lula nel 2027. Allo stesso modo, stabilisce un maggiore utilizzo della tecnologia e delle immagini satellitari per tracciare l’attività criminale, la regolarizzazione dei titoli di proprietà e l’uso di un registro rurale per monitorare la gestione delle foreste considerate essenziali per frenare il cambiamento climatico.
Le autorità incroceranno le informazioni del sistema finanziario con il registro rurale e altri database e immagini satellitari per sradicare taglialegna e allevatori illegali, indicando gli acquisti di motoseghe o escavatori con cui si effettua il disboscamento illegale e l’estrazione dell’oro.
Per sviluppare un’economia verde nella regione amazzonica senza deforestazione, saranno certificati i prodotti forestali, verrà offerta assistenza tecnica ai produttori, infrastrutture, energia e connessione internet per promuovere l’ecoturismo.
Il Brasile ha firmato un accordo nel 2021 con più di 140 paesi per porre fine alla deforestazione entro il 2030.
Allo stesso modo, le commemorazioni si sono estese all’omaggio al giornalista britannico Dom Phillips e all’indigenista Bruno Araújo, assassinato un anno fa nella regione amazzonica per il loro lavoro ambientale.
Economia ed ecologia integrale. La “casa comune” è in pericolo. L’appello di Papa Francesco (e non solo)
Si dibatte sempre di più sulle sorti del pianeta, soprattutto dopo gli eventi estremi che hanno caratterizzato gli ultimi giorni. Eco-vandali, eco-proteste, eco-attivisti, economie esasperate, tutto in nome dell’economia, e(c)co qui, e(c)co là.
Ma cosa lega Economia ed Ecologia, se qualcosa le lega? La risposta sta(rebbe) banalmente nell’etimologia: le parole derivano entrambe dal greco oikos, casa, quindi a legarle è (dovrebbe essere) il pianeta, la nostra “casa comune”.
E ciascuno di noi ha un ruolo nel preservarla. Tassello fra i tasselli. Se non fosse che l’Uomo ha capito ben poco di un legame che dovrebbe essere equilibrato.
Servono un nuovo paradigma mondiale e un nuovo modello di sviluppo: lo abbiamo davvero capito?
Dipendiamo dalla natura per la nostra stessa esistenza. È un dato di fatto. Non possiamo dimenticare che è essa a offrirci gli elementi fondanti della nostra società: il suolo da cui ricaviamo il cibo per il sostentamento, le materie prime che ci servono per realizzare abitazioni e abiti, l’acqua potabile che beviamo, l’erba che calpestiamo, le foreste che esploriamo e l’aria pulita che respiriamo. Un insieme di elementi che messi insieme formano il “capitale naturale“. Parola che non piace a molti ma che, secondo la [vedi laDichiarazione sul Capitale Naturale dell’Institute for Sustainable Development], è il capitale che “comprende i beni naturali della Terra (il suolo, l’aria, l’acqua, la flora e l fauna) e i relativi servizi ecosistemici che rendono possibile la vita sul nostro pianeta”. Cerchiamo di prendere il senso buono della parola capitale, anche qui partendo dalla sua etimologia: dal latino capitalis, da caput -pĭtis, “capo”, ossia che riguarda il capo, la testa, e quindi la vita stessa. Se leghiamo ancora una volta all’economia, comunque un patrimonio con un immenso valore, e di tutti.
Campagna, foto Valerio Pazzi
Un patrimonio definito, finito, esauribile e insostituibile da proteggere, conservare e salvaguardare, mentre l’Uomo, da tempo, si confronta con esso come se fosse illimitato e rigenerabile all’infinito. Sottovalutandone l’importanza.
“Sarà la fine del mondo? No, non finirà il mondo; finiremo noi. Il pianeta ha risorse incredibili, ma le stiamo esaurendo. La Terra è stanca di noi, ha attivato meccanismi di difesa, per sbarazzarsi dell’uomo. La gente non sa più produrre né coltivare, il sistema è fragile: una crisi potrebbe essere fatale”. Intervista a Sebastião Salgado di Aldo Cazzullo
L’epidemia da cui siamo, faticosamente, usciti ha mostrato gli immensi errori e limiti dell’Antropocene o del Pirocene, se si preferisce.
Si pensi in particolare, ai limiti di un modello di sviluppo, lineare, basato sullo sfruttamento eccessivo e incondizionato delle risorse e su un divario Nord-Sud del mondo quasi incolmabile, un mondo fatto di grandi differenze, molte contraddizioni ed enormi diseguaglianze. La ragione di questo sta, principalmente, nel fatto che, in passato, i modelli economici hanno avuto una logica del profitto di breve termine, senza occuparsi di ciò che sarebbe potuto accadere nel lungo termine. E poi un focus sull’io più che sul noi.
Oggi, però, tali divergenze hanno portato a una situazione non più sostenibile, dove molti che si pensavano forti, come nell’emergenza vissuta, si sono ritrovati “improvvisamente” deboli e non più al sicuro. Gli squilibri colpiscono tutti, la perdita di biodiversità, ad esempio, impatta il Pianeta ma anche l’Uomoper effetto di un legame estremamente profondo. La realtà, se non accompagnata da responsabilità condivisa, potrebbe irrimediabilmente, e facilmente, mostrare quale dei due può sopravvivere all’altro.
Per tornare a una situazione di equilibrio bisogna agire in un’ottica di lungo-termine, che miri alla riduzione del divario economico-sociale, redistribuendo la ricchezza in maniera equa.
Riconoscere tale debolezza e debito con la Natura deve aiutarci a ripartire, non ragionando più in un’ottica individualista ma vivendo nella “casa comune”, ben consapevoli che se non si crea futuro per gli altri, non ci sarà futuro nemmeno per tutti noi.
La Natura sboccia comunque, foto Valerio Pazzi
Ha già qualche anno ma è sempre attuale, oltre che inascoltata. È l’”Ecologia integrale” dell’Enciclica di Papa Francesco“Laudato Si’” del 2015, un concetto che introduce chiaramente come le dimensioni umane e sociali siano inscindibilmente legate con la questione ambientale.
Una visione inseparabile dal bene comune che includa un no alla cultura dello scarto tout court (Papa Francesco è molto duro contro l’economia dello scarto), un ambiente come eredità comune da non distruggere, un’amministrazione responsabile del mondo, una tutela delle ricchezze culturali dell’umanità, una governance globale dove non vi sia il dominio assoluto della finanza, la sobrietà e il rispetto.
È il messaggio anche della sua “Fratelli Tutti” (FT) dell’ottobre 2020, che delinea una globalizzazione e un progresso senza una rotta comune, caratterizzati da ingiustizia e mancanza di equa distribuzione delle risorse naturali. “Se tutto è connesso, è difficile pensare che questo disastro mondiale non sia in rapporto con il nostro modo di porci rispetto alla realtà, pretendendo di essere padroni assoluti … di tutto ciò che esiste” (punto 34 FT). Anche Francesco d’Assisi “… ha ascoltato la voce della natura” (punto 48 FT).
E ancora il recente messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato in programma il prossimo primo settembre: “poniamo fine a questa guerra insensata al creato”. Soprattutto per “sorella acqua”, che viene saccheggiata e trasformata in merce soggetta alle leggi del mercato.
La sfida del partenariato
La sfida è, da un lato, anche di fronte a una popolazione mondiale in crescita (The World Population Prospects del 2019stima che, nel 2050, la popolazione mondiale sarà di circa 10 miliardi), quella di soddisfare il crescente fabbisogno energetico, permettendo soprattutto l’accesso all’energia nei paesi più poveri e, dall’altro, quella di ridurre l’impatto inquinante delle nostre attività, trovando soluzioni innovative e rispettose dell’ambiente. In equilibrio con la Natura. E in un’ottica di reale partenariato.
Una realtà dove il progresso materiale vada di pari passo con quello morale, dove la riflessione etica sia anche in grado di far cambiare la regolamentazione e i comportamenti di ciascuno.
Contrariamente al passato, il settore privato deve svolgere un ruolo cruciale come motore di sviluppo, bilanciando obiettivi di business e di crescita socioeconomica locale, in ottica di lungo termine.
A tutto questo devono, ovviamente, corrispondere un forte impegno e volere politico, internazionale e nazionale, investimenti in sviluppo delle capacità, oltre che un approccio di conservazione della natura basati a scala locale, compresi la gestione di aree protette (definite dalla commissione mondiale dell’UnioneInternazionale per la Conservazione della Natura-IUCN sulle aree protette, nel 2018, come: ” zone geograficamente definite, diverse da una zona protetta, governate e gestite in modo da ottenere obiettivi positivi e sostenuti a lungo termine per una conservazione in loco della biodiversità, con funzioni e servizi per l’ecosistema associati e, ove applicabile, culturale, spirituale, socioeconomico e altri valori rilevanti”).
Perché, per pensare con Stefano Mancuso direttore del laboratorio Internazionale di Neurobiologia vegetale (leggete “L’incredibile viaggio delle piante” o “La nazione delle piante”), come le piante e i funghi di un ecosistema, siamo tutti interconnessi e, in quanto tali, ci dobbiamo aiutare e sostenere.
Immagine in copertina: Pixabay – Immagini nel testo: Vatican News, foto Valerio Pazzi
SINOSSI Tenete presente una pressa? Ecco – come una pressa comprime i materiali, la poesia comprime le parole. Le parole della poesia diventano spessori di significati, simboli.
Un treno non può essere “imbecille” perché sottrae le adorate labbra all’amato, ma nella poesia lo diventa. Una misteriosa fobia diventa “una bestia ferita che non vuole farsi toccare”, nei componimenti di Nicola Corrado. O come in quelli di Esmeralda quando descrive “un soffio di ribelle libertà dissolto infine dal lieve tocco di un angelo“ o in quelli di Vincenzo Russo quando “ritagli di tempo“ appaiono “racchiusi in un pragmatico segmento“.
Quello che la prosa non riesce ad esprimere fino in fondo, poiché la parola in se’ non aderisce fino in fondo alla complessità della vita, tende a farlo la poesia.
La prosa produce SIGNIFICATI, concetti chiusi, limitati, finiti, euclidei. La poesia al contrario produce SIGNIFICANTI, concetti aperti, salti quantici, illimitati, indefiniti, riproduce cioè nella sua capacità di sintesi la complessità della vita con le sue più sottili sfumature.
PREFAZIONE Davvero cerca con un filo di luce e il suo respiro, fumo di una candela. Conta davvero poco il poeta, l’essere invisibile nello spazio enorme, chi lo vede chi sa se c’è o non c’è? Allora cammina col suo vestito d’ansia, davvero parla con un filo di voce. Qualcuno da lontano ascolta confuso, si volta per cercare, per vedere, per sentire ancora. Conta davvero poco il poeta, mendica parole ad angolo della sua strada, braccato dalle stelle, dai sogni, dai giorni, dai suoi stessi pensieri. Siede in silenzio nel buio, mentre gli uccelli si chiudono nelle loro ali. (di Francesco Santini)
RITA CONSIGLIO In arte Esmeralda, nasce a Palermo l’8 luglio 1987. Nel 2009 si trasferisce a Ferrara, dove attualmente risiede. Fin da bambina mostra uno spiccato talento per il canto, il teatro e la scrittura. Dall’età di 9 anni studia canto con un’insegnante di canto lirico e pianoforte, ma la sua anima è pop. Negli anni delle medie inizia a scrivere racconti. Sempre in quel periodo inizia a recitare ed è solista del coro della scuola, con il quale partecipa anche alla trasmissione Rai I fatti vostri. Ha la fortuna di conoscere diversi artisti come Patty Pravo, Giorgia e Fiorello. In seguito vince numerosi concorsi canori locali e nazionali, esibendosi con brani di Celine Dion, Mina, Witney Houston, Giorgia etc. Tra questi si ricordano il Delfino d’argento di Alcamo, Voce sull’onda, svoltosi nella sua città natale e concorsi nazionali. Nel 2006 si diploma in lingue. Da sempre ritiene il mare e i viaggi la colonna sonora della sua vita. Recentemente ha fondato un duo dal nome Esmeralda e il ladro di sogni, assieme all’amico Daniele Pirazzoli. Attualmente sta lavorando a diversi progetti in campo artistico. Inizia gli studi teatrali nel 2019. Dapprima con un corso di dizione e lettura espressiva tenuto dall’attrice e speaker Simona Sagone, poi con la compagnia teatrale Fonè diretta da Massimo Malucelli della Scuola Florestano Vancini di Ferrara. Ne fa parte ormai da due anni. Predilige il genere drammatico e poetico, scrivendo lei stessa alcuni componimenti e aforismi. Tra i progetti futuri la pubblicazione di un audiolibro da lei scritto e interpretato e la pubblicazione di alcune sue opere all’interno di una collana antologica.
Luna
Risplendi la notte, ti eclissi nell’alba. Tra mutevoli maree, risvegli sopite malinconie. Eppure, vista coi tuoi occhi, la città sembra diversa. Nella tua luce abbagliante sono nati amori, si sono avverati desideri. Nel canto dei grilli i falò sulla spiaggia si accendono. Iniziano danze, risuonano concerti. Si odono voci lontane, le stelle tracciano sentieri. Quando d’argento riappari a brillare, ci ricordi che un altro giorno è finito e che La notte sta per arrivare. Dall’alto osservi il mondo e tutte le sue anime. Luna, Io sono come te. Risplendo eppure resto mistero
NICOLA CORRADO Vive e lavora a Napoli, dove ha studiato lingua e letteratura tedesca presso l‘Istituto Universitario Orientale con una tesi su “Romeo und Julia auf dem Dorfe” di Gottfried Keller. La passione per la letteratura ha determinato la svolta professionale ed esistenziale della sua vita, quando, dopo un iniziale e lungo impegno professionale in campo tecnico, si è dedicato definitivamente all’insegnamento della lingua e letteratura tedesca. Parallelamente ha scritto di scuola e di disagio scolastico su riviste specialistiche, forte della sua esperienza accumulata negli anni alla ricerca della propria realizzazione. Le virate di bordo nella sua vita sono state pertanto numerose e tutte finalizzate alla scoperta di se stesso. La scrittura di racconti, pubblicati qualche anno fa con il titolo di “Se non esci non vendi” e talvolta di poesie, alcune delle quali raccolte nella presente pubblicazione, ha accompagnato l‘autore nel suo percorso di crescita, connotando la sua biografia emozionale di momenti altamente significativi.
Dea azteca
Ti ho cercata come la perla nera nei mari del sud.
Il tempo di trovarti, cuore di tenebra, squarciato per incanto dall’avorio regale di un sorriso, per lasciarmi all’improvviso alla solitudine ferrosa di una stazione di periferia.
Dove ti porta questo treno imbecille Adesso che ero per aprirti il mio cuore Dea della notte azteca?
Perpetuerò l’inganno, annuncerò mille volte di parlare rapito alla tua anima, mentre lo so mille volte bene che è la porpora della tua bocca che sto inseguendo.
VINCENZO RUSSO Nasce ad Aversa l’8 marzo 1966. Nel luglio del 1990 si trasferisce, per motivi di lavoro, a Ferrara. dove tutt’ora risiede. La sua passione per la letteratura e la poesia si manifesta fin da ragazzo, quando inizia ad esprimere su carta i propri pensieri di poeta. Si laurea in scienze dell’amministrazione presso la facoltà di giurisprudenza dell’università La Sapienza di Roma. È agli inizi degli anni 2000, quando partecipa a diversi concorsi letterari nazionali che le sue poesie prendono vita, ricevendo altresì alcuni importanti riconoscimenti. Nel giugno 2022 realizza il suo primo libro, dal titolo “Quando il cuore sfugge”, dedicandosi ad un progetto destinato ad alcune associazioni locali senza fini di lucro. Riesce a coniugare la sua grande passione per la matematica con il diletto per il canto ed il teatro. In “Parole a capo” sono state pubblicate alcune sue poesie il 31 marzo 2022.
Angoscia d’amore
Come in un grigio autunno Il freddo è tornato a gelarmi l’anima Mentre te ne vai, solitario, cammino stanco. Lo sguardo muto affida i miei sogni alla macina del tempo immergendoli nel cuore della luna Mentre l’aria si imbruna, sorrido stremato alla vita. Sei uscita in silenzio per ingannare questo eterno sognatore. Vorrei mentire a me stesso Ma so che non tornerai mai più!
Queste poesie sono inserite nell’antologia a tre voci: “POETI AL TRIVIO – Dissonanze” (Pasquale Gnasso Editore).
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.
Per leggere il Bando e partecipare al Premio Internazionale Senza Premi “Le nostre parole per l’Alluvione” [Vedi qui]
Signor Sindaco, io l’ho sempre rispettata.
l’ho anche scritto: Lei e la sua parte hanno vinto le ultime elezioni, quattro anni fa. Da allora lei è il Primo Cittadino di Ferrara, il sindaco di tutti i ferraresi, anche di quelli che come me non l’hanno votata. Fare il sindaco è una “roba grossa”, una grande responsabilità, e sappiamo che in quattro anni si possono fare cose buone e meno buone, avere dei colpi di ingegno ma anche commettere errori. Quindi, insieme al rispetto per la sua carica, bisogna essere indulgenti verso la fallibilità di ogni essere umano. Così, con lei come con i suoi predecessori, con la sua Parte o con quella Opposta, ho sempre cercato di dire semplicemente la mia. Di discutere, anche di criticare il suo operato ma senza lasciarmi prendere dal pregiudizio o dalla rabbia polemica.
Da oggi, da questa notte quando scrivo queste note, devo di necessità cambiare registro. Non posso sopportare che Ferrara sia diventata lo zimbello di tutta l’Italia. Non ci crede? Le assicuro che è così. E non posso accettare che l’informazione istituzionale che un Sindaco deve ai suoi concittadini, sia invece diventata solo e soltanto propaganda. Una propaganda fatta di silenzi, omissioni, sberleffi e di bugie vere e proprie.
Se sei Cesare puoi fare quello che vuoi. Ma devi dire la verità. E lei signor sindaco non dice la verità.
E se lei non la dice, qualcuno deve dirla la verità. Raccontarla a chi ci guarda da fuori e non si capacita come possa essere caduta in basso la città di Ariosto e di Bassani. E ai suoi strenui supporter, ai suoi 28.000 followers a cui lei scrive continuamente, che sono i primi ad essere ingannati. Da lei e dal suo personale house organ,il Resto del Carlino, che ha smesso da anni di essere un quotidiano indipendente di informazione e si è invece incaricato di ‘megafonare’ alla città tutte le cose non vere che provengono dallo Scalone di Piazza Municipale. può credere a un miracolo, o a una “balla spaziale del genere. oidelsc, le “balle spaziali” che leggiamo tutti giorni in prima pagina dell’edizione locale.
Due giorni fa, proprio Il Carlino dedicava un intera pagina, la foto di un trattore che ruspava via la paglia, e un titolo a 6 colonne ad una notizia talmente fantascientifica da meritare il titolo di “bufala dell’anno”: una sedicente esperta in prato e dintorni assicurava che “in due settimane il Parco Urbano Bassani sarebbe tornato come prima.”. Chi ha visto – e tutti a Ferrara e fuori Ferrara le hanno viste – le foto deldisastro del concerto del Boss in mezzo al fango, o gli scatti post-concerto scattate da undrone, pubblicate da Periscopio[Vedi qui] come da estense.com e che girano da giorni su tutti i social, non può credere a un miracolo del genere. Va bene tutto, ma non siamo ne ciechi ne scemi.
Per chi ha bisogno di rinfrescarsi la memoria è sufficiente questa doppia immagine satellitare:
La verifica in Loco non è consentita. Da Più di 20 giorni, infatti, il Parco Urbano (prima dell’Evento, per i grandi preparativi, e dopo, per ‘dare una sistematina’ al tutto) è inibito a pubblico. E così resterà per almeno altre due settimane.
L’idea meravigliosa spuntata in testa al Sindaco leghista di Ferrara non ha quindi solo portato alla devastazione di un’area verde, questa sì meravigliosa, e spezzato la vita a migliaia di uccelli in cova, ma è stato un vero e proprio scippo di un bene collettivo a tutti i cittadini, legittimi proprietari di quel bene. Famiglie, bambini, ragazzi, anziani che tutti giorni popolavano pacificamente il grande parco verde, sono invitati ad avere ancora un po’ di pazienza. Secondo qualche voce, per i scippati sarebbe previsto un cuntantìn(in ferrarese: magro premio di consolazione), alla riapertura del parco troveremo un regalo del Sindaco: qualche panchina nuova.
Ma quando sarà finalmente agibile tutta l’area del Parco? Nessuno lo dice, ma prevederlo è piuttosto facile: non tra qualche giorno, ma dopo l’estate. Decine e decine di uomini e mezzi (a spese dei contribuenti) stanno lavorando alacremente, cercando di salvare il salvabile, spalare il fango e trapiantare mattonelle d’erba (che non attecchirà) non per riaprire il parco ma per preparare il prossimo appuntamento di cui da tempo sono già in vendita i biglietti: la Seconda Edizione delComfort Festival, “sempre all’interno della meravigliosa cornice naturalistica del Parco Urbano G. Bassani di Ferrara”, come si legge nel sito dedicato.
Intanto, anche in piazza Trento Trieste, nel cuore del centro storico, è stato ri-montato un grande palco e tutte le strutture del caso. E’ già cominciato il Ferrara Summer Festival che andrà avanti fino alla fine di luglio. In piazza si potrà entrare. Muniti del biglietto però.
La strategia di governo del Sindaco e della Giunta è molto chiara. Trasformare la città in un eterno Luna Park, riempirla di suoni, di luci, di feste per tutti i gusti.
Insomma: quel che succede veramente in città, e fuori, a pochi chilometri di distanza (una tragica alluvione per esempio), non deve turbare la città gaudente: che “gaudente” non è per niente; disoccupazione, lavoro nero e povero, vecchie e nuove povertà, anziani soli, periferie e frazioni abbandonate, studenti universitari senza alloggio…
Tutti i giornali nazionali, perfino i più codini e governativi, da commentatori hanno stigmatizzato (il verbo è bruttissimo ma si dice cosi) sia la scelta del Sindaco Alan La Qualunque di confermare la data di un (fangosissimo) concerto dentro un povero parco pubblico, mentre in Romagna si moriva e si lottava contro l’Alluvione, sia la serafica indifferenza del Boss che sugli alluvionati non ha speso una parola né al concerto di Ferrara, né a Roma, al Circo Massimo, qualche giorno dopo.
Il Sindaco di Ferrara, euforico per il bagno di fango della sera prima, ha rivolto finalmente un pensiero agli alluvionati. Il Comune di Ferrara – ha dichiarato – faràalla disastrata città di Faenza un’elemosina: la bellezza di 10.000 Euro. A me è sembrata un’altra presa in giro, ampiamente commentata dai tanti che per l’alluvione si sono davvero mobilitati (badile in mano) e mettendo mano al portafoglio: tra questi tanti cittadini di Ferrara e provincia.
Ma a Ferrara non c’è solo un sindaco (leghista), ma anche un vicesindaco (leghista anche lui, ma affetto da una diversa variante), specializzato in blitz con forze dell’ordine, in parchi urbani e in verde pubblico. Per Nicola Lodi non c’è bisogno di inventare un nomignolo, ce l’ha già di suo, Naomo. Il vicesindaco sceriffo è conosciutissimo incittà come nelle aule giudiziarie. Dopo essere salito su una ruspa per sgombrare il campo nomadi, si è dedicato a ingabbiare il verde cittadino. Prima il Parco della Stazione [Vedi qui], poi un altro bel prato in zona Acquedotto, ora siamo al terzo atto. Questa volta le reti metalliche chiuderanno il Parco Giordano Bruno [Qui], quello che i ferraresi chiamano familiarmente Giardino della Mutua. Particolare pietoso: il verde che viene progressivamente ingabbiato appartiene a quello che una volta si chiamava “Quartiere Giardino”.
Tra un Cetto La Qualunque (il Sindaco) che il verde lo vuole aprire solo a pagamento e un più sbrigativo Naomo (il vicesindaco sceriffo) che il verde e gli spazi di socializzazione (prati, parchi e piazze) preferisce ingabbiarli con reti metalliche alte 2 metri forse non c’è pieno accordo. O forse sì, anche se il primo ha in testa il business, il secondo la polizia e l’ordine pubblico. Sicuramente l’una e l’altra strategia mortificano Ferrara e i ferraresi. Penso con nostalgia all’architetto Carlo Bassi, e al libello che scriverebbe oggi: “Perché Ferrara non è più bella”:
Il Sindaco di Ferrara, bisogna ammetterlo, pensa sempre in grande. Prova ne sia il fatto che a devastare il Parco Urbano non ha chiamato un Pupo qualsiasi ma Bruce Springsteen. Per la Città aveva in serbo una grande sorpresa. Il suo sogno si chiamava Progetto Fe.ris. Un progetto che prevedeva uno scambio: grandi aziende ci mettevano 40 milioni di euro, e Ferrara ci guadagnava… altro cemento e la cancellazione di altro verde, un mega centro commerciale con vista sulle Mura rinascimentali e la privatizzazione della grande area dentro mura della ex Caserma Pozzuolo del Friuli. C’è una parola per riassumere questa idea di città, la filosofia che la anima: privatizzazione.
A questo, neanche fossimo ancora sotto i Francesi o i Papalini, la “Città del silenzio”, la tranquilla Ferrara, si è letteralmente rivoltata contro il progetto del suo sindaco e dei suoi amici palazzinari. E’ nato un Forum affollatissimo, sono sorti dal nulla comitati di quartiere, le finestre si sono riempite di lenzuola di protesta. E volantini, striscioni, presidi popolari, flashmob, marce, biciclettate… Alla fine Il NO Fe.risha vinto su tutto il fronte. Il progetto è stato ritirato, anche se, per non perdere completamente la faccia, il Comune ha annunciato di lavorare a qualche rettifica e a qualche idea alternativa.
A conclusione di questo riassunto delle miserie amministrative della città estense, mi rimane solo una osservazione, e una domanda. Ancora inevasa a meno di un anno dalle prossime elezioni.
Ferrara, per colpa di una Destra arrembante, ma anche di una Sinistra ideologica o dormiente, ha vissuto negli ultimi anni una inedita e dolorosa spaccatura sociale e politica. Sembrava che in città, in piazza o sui social, fossero rimasti solo Guelfi e Ghibellini. Pro o contro Cetto La Qualunque. A me pare che qualcosa, soprattutto negli ultimi mesi, sia cambiato. Che la maggior parte dei ferraresi, al di la del loro voto di quattro anni fa, vogliano una città che affronti sul serio l’emergenza climatica, una città con più verde, con meno macchine in centro, con meno eventi effimeri e più biblioteche e luoghi per la cultura, con spazi per la socialità e non solo luoghi dove spendere e consumare. In questi mesi, dagli stessi cittadini, dal basso, sono state avanzate idee nuove, coraggiose, innovative, che messe tutte assieme disegnano finalmente una città diversa da quella che abbiamo conosciuto negli ultimi vent’anni.
La domanda invece è la seguente. Brevissima. C’è qualcuno in città, al di fuori dei partiti, che vuole raccogliere questa voglia diffusa di un radicale cambiamento? Se così non fosse la splendida Ferrara continuerà la sua decadenza.
Il power-pop scanzonato è da circa vent’anni il marchio di fabbrica dei canadesi New Pornographers, sestetto piuttosto prolifico che spazia dal folk alla new wave. Il loro ultimo album è uscito a fine marzo, si intitola Continue As A Guest, ed è pervaso da un’atmosfera assai diversa da quella dei suoi predecessori: il trait d’union dei dieci pezzi è infatti una malinconia disincantata, per non dire rassegnata.
Emblematica, in tal senso, è la title track, in cui Allan Carl Newman e Neko Case cantano l’insostenibile precarietà dell’essere umano del XXI secolo, il quale, come suggerisce il titolo, continua a vivere la sua vita da ospite. Un ospite che prova a essere proprietario di una casa, di un lavoro, di un futuro. Ciò che suggerisce il ritornello è quello di ritagliarsi un proprio spazio, fisico o mentale, nel quale allontanarsi lentamente dalla realtà.
Il sound rarefatto dell’intro si poggia su un’intricata linea di basso e sulla voce sofferente di Newman, poi, tutt’a un tratto, un riff martellante di sassofono fa decollare il pezzo fondendosi con la sezione ritmica. Da quel momento in poi, Continue As A Guest assume le fattezze di una marcia lenta e inarrestabile, a metà strada tra l’indie-pop e il rhythm & blues.
Così, mentre le linee vocali di Neko Case si fanno sempre più pressanti, l’ascoltatore è lasciato in balìa dei suoi pensieri a riflettere sul fatto che, da qualunque parte la si guardi, siamo degli ospiti di questo tempo e di questo mondo. Non ci resta quindi che godercelo, finché ce n’è.
Pubblichiamo l’ultimo intervento di Daniele Lugli sul n.130 della rivista trimestrale Madrugada, uscita proprio in questi giorni. Daniele era da anni nel comitato di redazione e partecipava sempre alle affollate, vivaci e conviviali riunioni di redazione che, proprio a Ferrara, si tengono alla fine di maggio e alla fine di settembre di ogni anno.
(Effe Emme)
Sulla Valutazione dei Diritti
Un’ incauta osservazione in una riunione di redazione — «Mi pare che la valutazione, in nostre attività pur rilevanti, sia carente, quando non assente, pur proclamandosene la necessità» — provoca una discussione e mi porta a scriverne. Sul vocabolario trovo: «Valutazióne: determinazione del valore di un bene ragguagliato in moneta. Calcolo approssimativo e determinazione del valore di cose e fatti di cui si debba tenere conto ai fini di un giudizio o di una decisione, di una classifica o graduatoria».
Guardare il vocabolario fa sempre bene. La pronuncia corretta è io valùto e non io vàluto, come dico sempre. Per ogni nostra azione è decisivo conoscere chi fa esattamente cosa, in che circostanze, in che tempi, con quali finalità e con quali strumenti: who (chi), what (cosa), where (dove), when (quando), why (perché) e how (come).
Questo è vero, dunque, anche per la valutazione. Ogni W deve essere analizzato e approfondito. Ci sono azioni e correlate valutazioni che tutti ci riguardano.
Luigi Ferrajioli, Per una Costituzione dela Terra. l’umanità al bivio, Feltrinelli. 2022
Siamo in una situazione che Luigi Ferrajolisintetizza nella premessa alla proposta diCostituzione della Terra: «Noi, abitanti della Terra, che nel corso delle ultime generazioni abbiamo accumulato armi micidiali in grado di distruggere più volte l’umanità, abbiamo devastato l’ambiente naturale e messo in pericolo, con le nostre attività produttive, l’abitabilità del nostro pianeta; consapevoli della catastrofe ecologica che incombe sulla Terra, del nesso che lega la sopravvivenza dell’umanità e la salvaguardia del pianeta e del rischio che, per la prima volta nella storia, il genere umano, a causa delle nostre aggressioni alla natura, possa avviarsi all’estinzione; decisi a salvare la Terra e le generazioni future dai flagelli dello sviluppo insostenibile, delle guerre, dei dispotismi, della crescita della povertà e della fame, che hanno già provocato devastazioni irreversibili al nostro ambiente naturale, milioni di morti ogni anno, lesioni gravissime della dignità delle persone e un’infinità di indicibili privazioni e sofferenze; decisi a vivere insieme, nessuno escluso, in pace, senza armi mortali, senza fame e senza muri ostili, a garantire un futuro alla specie umana e alle altre specie viventi, a realizzare l’uguaglianza nei diritti fondamentali e la solidarietà tra tutti gli esseri umani e ad assicurare loro le garanzie della vita, della dignità, delle libertà, della salute, dell’istruzione e dei minimi vitali, promuoviamo un processo costituente della Federazione della Terra, aperto all’adesione di tutti gli Stati esistenti e finalizzato alla stipulazione di questo patto di convivenza pacifica e di solidarietà».
È un progetto improbabile e assieme necessario e urgente, al quale tuti gli abitanti della Terra, con diversa capacità e responsabilità, sono chiamati a contribuire. Le loro azioni, individuali e collettive, saranno da valutarsi, quindi, per il contributo che possono dare alla diffusione della conoscenza della situazione, alla consapevolezza delle catastrofi in arrivo, alla decisione di salvare le generazioni future e vivere insieme nessuno escluso in coerenza a tali obiettivi e nel loro perseguimento.
Se richiamiamo anche solo i diritti fondamentali, come riconosciuti dal diritto internazionale e dalla nostra Costituzione, si apre un campo di grande portata per i processi di valutazione.
Sono, infatti, diritti fondamentali i diritti di libertà, i diritti sociali, i diritti politici e i diritti civili. E tutti sono soggetti a valutazione, quanto a garanzie ed effettività. Mi limito a richiamare i diritti sociali, avvalendomi ancora di formulazioni tratte da Ferrajoli: i diritti sociali comportano, a carico delle istituzioni l’obbligo di fornire gratuitamente a tutti le prestazioni che ne formano l’oggetto.
Diritto alla salute: tutti hanno diritto alla salute. Il diritto alla salute comporta l’obbligo, a carico delle istituzioni sanitarie di prevenire le malattie e di fornire a tutti, gratuitamente, le cure e i farmaci necessari. Nessuno può essere obbligato a subire trattamenti sanitari contro la sua volontà, se non per disposizioni di legge consentite unicamente a garanzia dell’incolumità e della salute pubblica.
Diritto all’istruzione: tutti hanno diritto all’istruzione, impartita gratuitamente dalla scuola pubblica, obbligatoria per almeno dieci anni e senza tasse scolastiche o universitarie negli studi successivi. L’istruzione è finalizzata al pieno sviluppo della personalità e all’educazione al rispetto dei principi della pace, della dignità e dell’uguaglianza delle persone, dei loro diritti fondamentali e dei beni comuni. I capaci e i meritevoli hanno diritto ad essere forniti dei mezzi necessari a raggiungere i gradi più alti degli studi.
Diritto all’alimentazione: tutti hanno diritto a un’alimentazione sufficiente ad assicurare un sano sviluppo fisico e psichico della persona. Diritto a un reddito minimo: Tutti hanno diritto a un reddito sufficiente a garantire a ciascuno una degna sopravvivenza. In caso di infortunio, o di malattia, o di invalidità o di vecchiaia, tutti hanno diritto a mezzi di vita idonei a garantire un’esistenza libera e dignitosa.
Diritto all’abitazione: tutti hanno diritto all’uso di un’abitazione decorosa e sicura.
Ci sono, o ci dovrebbero essere, valutatori istituzionali, addetti a tale compito, perché è alle istituzioni che spetta garantire questi fondamentali ed elementari diritti, disattesi. Garantiti a livelli accettabili i diritti, si possono trovare le migliori forme di valutazione, per migliorarne l’esercizio. Tale è infatti lo scopo della valutazione. Ci debbono essere procedure aperte al contributo dei titolari dei diritti. Strumenti ed esperienze non mancano. La miglior valutazione, ad esempio, della scuola dell’obbligo resta ancora, forse, Lettera a una professoressa.
Vite di carta. Dove porta “Il libro della pioggia” di Martino Gozzi
Dove mi hai portata, Martino Gozzi. Indietro nel tempo, prima di tutto. Poi in giro dentro la mia maturità e soprattutto dentro la tua. Ho letto Illibro della pioggia, il tuo romanzo-memoir, in pochi giorni e l’ho maneggiato con cura, quasi potesse uscirne anche una sola parola e perdersi nell’aria. Sono così intense le tue parole.
C’é un’aria gravida di pioggia in questi giorni: acqua che cade a tratti rabbiosa, poi sembra calmarsi e viene giù lenta e costante. Ha già portato l’alluvione nelle nostre terre e ora a me porta il tuo libro.
Per il momento mi è chiara questa analogia tra le pagine che hai scritto e il corso della mia vita che le ha incontrate. Me ne viene in mente un’altra: mi hai detto che questo libro dovevi scriverlo e io ho subito pensato che dovevo attraversarlo.
Il guado ora è avvenuto e devo ammettere che annaspo tra le tante osservazioni che vorrei fare, tra le categorie della narrativa in cui dovrei farlo stare per rassicurarmi come lettrice ormai navigata, ma eternamente scoperta e vulnerabile.
Mi dico ecco che si aggiunge alle mie letture di queste settimane un altro romanzo incentrato sulla storia personale e di famiglia, con uno spazio grande che in questo caso è dedicato alla “amicizia epica” con Simone, che da qualche anno non c’è più , e con gli altri storici compagni di infanzia e giovinezza.
Il terzo bel romanzo in cui l’io che narra ricostruisce le proprie radici e ne esce con un bell’aggiornamento sulla propria identità, nel senso di una pulizia interiore ritrovata. Forse la più radicale dopo quella, donata, che si vive nell’infanzia.
Degli altri due letti nelle ultime settimane ho già scritto, mi limito a ricordarne i tratti bibliografici in nota.
Prendo altre parole dal risvolto di copertina: dopo “un’amicizia epica, la loro, tenuta insieme dalla musica e dalla giovinezza” riporto quelle che delineano Simone, il giovane uomo che “suona il basso mancino come Paul McCartney, ha una band, scrive musica.
Ha il dono di saper amare e farsi amare. Se ne va troppo presto” dopo una lunga malattia, rimanendo però perMartino “la pietra di paragone, il punto di riferimento, l’irrinunciabile metro rispetto a cui misurare col passo pacato della maturità le tappe di una vita: Ferrara, Torino, la scrittura, il matrimonio, la paternità, la musica, i cambiamenti”.
Martino Gozzi e amici. Poggio Renatico (FE), Festa di Emergency, maggio 2023
Eccoti Martino, ritrovato a una festa di Emergency organizzata qui vicino a casa mia due sabati fa. La locandina dell’evento porta il volto sorridente di Simone accanto al tuo nome, promette la presentazione de Il libro della pioggia e un accompagnamento musicale.
Siedo tra le ultime file di panche preparate davanti a un piccolo palco dove tu leggi alcune pagine del libro alternandoti al gruppo che suona e a Francesca che canta. Già, Francesca. Ho riconosciuto anche lei, un attimo dopo averti rivisto mentre già firmavi alcune copie del libro. Anche lei studentessa all’Ariosto e amica storica tua e di Simone. Ho appena incontrato sua madre, una cara collega di Scienze di ormai parecchi anni fa, e da lei ho saputo che per cantare qui oggi è venuta da Roma.
Anche gli altri musicisti sono qui in quanto amici di Simone. Oggi lo ricordano insieme a suo padre, che si aggira come un leone emozionato dentro al Parco dove siamo ospitati e non trova posa, e a sua madre, della quale prima di leggere il tuo libro non sapevo nulla e che ora mi pare un gigante, altro che la signora aggraziata col grembiule da inserviente che ha riempito il buffet di ogni bendidio per il resto della serata.
Ti ho ritrovato coi capelli brizzolati e con la consueta magrezza. Ti ho ascoltato e ora ti ho letto. Tento di concentrare in queste poche righe che rimangono quanto è stato struggente averti di fronte nel presente e andare di continuo all’indietro nel tempo. Vorrei che mi vedessi mentre scrivo, ho accanto una copia degli altri romanzi che hai pubblicato, ci sono fogli pieni di appunti che ho scritto su di te tra il febbraio e il marzo del 2004. E poi i ritagli di giornale.
Incomincio dagli articoli usciti su La Nuova Ferrara. Il primo è del 21 febbraio 2004 e riporta la presentazione dell’opera prima “del giovane autore ferrarese Martino Gozzi”, il romanzo Una voltaMia appena edito da peQquod.
Siamo alla libreria Feltrinelli (dico “siamo” perché nelle due foto che accompagnano l’articolo di Andrea Tebaldi compaio anch’io seduta in prima fila), c’è tanta gente a sentire un autore così giovane, uscito da pochi anni dal nostro Liceo.
In procinto di tornarci come ospite del Progetto Galeotto fu il libro, il primo in assoluto. Ho qui accanto l’altro articolo del 14 marzo su noi docenti fondatori del Galeotto e la locandina con gli incontri del primo anno scolastico, il 2003-2004, in cui abbiamo incominciato l’attività.
Attività bellissima, che compie i suoi primi vent’anni. Dopo di te, che verrai il 16 marzo, avremo a cadenza quindicinale Guido Barbujani, Eraldo Baldini, Diego Marani, Paolo Maurensig, Carmine Abate.
Tusei stato il nostro numero uno. Quante domande abbiamo preparato insieme ai ragazzi per conversare sul tuo romanzo, quante correzioni ho apportato ai miei appunti. Che spazio dobbiamo dare al suo passato di studente del Liceo? Gli chiediamo di parlarci del Quaderno dell’Ariosto n.16, quello che raccoglie le sue lettere dagli USA nell’anno in cui ha studiato all’estero?
Ho davanti a me anche quello. Nero, da una parte con le tue lettere inviate ai compagni della IV T e alla prof di Italiano, dall’altra con le loro risposte.
Leggo in esergo che avete titolato il Quaderno Warehouse. Lettere dagli States, in quanto ‘Warehouse’ significa magazzino e solo tu potevi concludere che l’America “in fondo non è che un enorme magazzino”.
Mi chiedo se anche la vita, di cui parli nell’ultimo romanzo con sapiente curvatura antropologica, possa essere definita così. Quanti viaggi, quante esperienze di lavoro hai accumulato, fino a dirigere la Scuola Holden a Torino. Quanta vicinanza mi sento restituire dalle tue pagine. Le muse che ci hanno dato consistenza, la Scrittura, la Lettura, la Letteratura. Nel tuo caso anche la Musica.
Di sicuro imparo da te, ora così adulto e così carico di vissuto, a riconfigurare ciò che penso sia la scrittura.
Qualcosa che “aiuta a sentirsi meno soli”, come ho segnato a pagina 100, anche se “non è il luogo della serenità…il luogo dei cliché, delle frasi fatte” (e sono andata indietro alla pagina 88). “Può avere un potere terapeutico”, come sostieni nella prima parte del libro. Fino a qui concordo, ho presente la forza che mi ha dato fin dall’adolescenza. Lo scarto dalla vita ripetitiva di paese (il mio a pochi chilometri dal tuo, Sant’Agostino).
Ma proseguo e dico una compagna di vita, soprattutto dopo il dolore che ti hanno dato la scomparsa di Simone e la sua lunga sofferenza. Una compagna fidata per entrambi, dopo che il disincanto ci ha presi. Dopo l’aver compreso – finalmente – che non possiamo avere il controllo su tutto, né alcuna forma di immunità rispetto ai colpi della Tyche.
Verso la fine del libro, quando Simone non c’è più, l’atto di scrivere può apparirti “futile”, e tuttavia mi aspetto che tu dica altro, che mi aiuti a riconoscermi nelle parole della versione più aggiornata del tuo pensiero. Eccole: “A volte nelle storie èpossibile trovare un senso – intravedere una luce, qualcosa”.
“Proprio ciò che ci risulta tanto difficile nella nostra routine quotidiana. E questo vale per le storie che leggiamo così come per quelle che scriviamo, dico, o tentiamo di scrivere. A patto che siamodisposti a perderci”.
Nota bibliografica:
Maria Grazia Calandrone, Dove non mi hai portata, Einaudi, 2022
Anne Berest, La cartolina, Edizioni E/O, 2022
Martino Gozzi, Il libro della pioggia, Bompiani, 2023
Martino Gozzi, Una volta mia, peQuod, 2004
Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice
Twitter era partito bene. Certi giornalisti e scrittori dalla penna fulminante lo avrebbero utilizzato al meglio, ci fosse stato ai loro tempi: Ennio Flaiano, Luigi Pintor, Fortebraccio. Poi è degenerato, come tutto ciò di cui il genere umano abusa – tipo il pianeta Terra.
Quando uno strumento si trasforma in “bestiario” (termine che manca di rispetto alle bestie), la cosa migliore da fare è selezionare le bestialità che mostrano come una folgorazione la Weltanschauung dell’autrice: in questo caso, Daniela Santanchè.
La prima è un suo tweet del 3 aprile 2021, dopo la notizia dello sbarco di 450 persone a Lampedusa:
“Cambiano i governi, ma i porti rimangono spalancati. E così, mentre noi siamo rinchiusi in casa per legge, continuano a sbarcare liberamente migliaia di #clandestini creando problemi sanitari, di #sicurezza e di legalità. Noi di Fratelli d’Italia diciamo BASTA! #BloccoNavale“
La seconda è un cinguettio video di qualche giorno fa, nel quale, da Santa Margherita Ligure, dichiara:
“Mi hanno appena segnalato che nel porto di Santa Margherita le imbarcazioni devono rientrare alle ore 19. Capite che è sbagliato. Ma può un porto chiudere alle 19 quando magari uno vuole stare in barca e godersi il tramonto? No, non è possibile. Vi farò sapere“.
Porti sprangati per i derelitti, spalancati h24 per chi deve fare aperitivo in barca al tramonto. Il fatto che costei sia l’attuale Ministro del Turismo della Repubblica Italiana non aggiunge nulla a quello che sappiamo di lei. Casomai dice qualcosa su quello che siamo diventati noi.
Il vocabolariodei nuovi parlanti si arricchisce sempre di più nelle definizioni, borbottii, enunciazioni che infiorano i programmi di maggior successo televisivo. Mi affido ai ritornelli che commentano un programma di grande successo, in cui un passaggio e apertura di scatole blu dovrebbe far conquistare somme ‘importanti’ ai concorrenti chiamati anche pacchettisti.
Immediatamente il termine ricorrente è pazzesco! Mentre il famoso conduttore dialoga con un misterioso dottore che sfida, premia e punisce i concorrenti. Seriosamente impegnati i concorrenti di turno cercano di liberare la bancata, ovvero di far fuori il maggior numero di scatole che contengono i premi vili, ovvero quelli di color blu.
La ricerca s’affida a sensazione, cioè il pacco col numero prescelto viene chiamato, non per calcolo, ma per la suddetta sensazione, che fa rigurgitare pezzi di vita vissuta o di momenti di vita che si legano al numero.
Il furbissimo conduttore applica una logica di gioco che si esplicita in occhiate furtive al pacco a tonanti apri! a striscianti passeggiate con l’occhio pronto a cogliere l’offerta del dottore che propone il cambio. Con fare sornione poi compila assegni fasulli che rappresentano l’offerta del dottore.
E l’emozione (per loro) si esplicita nel triturare i falsi assegni in una macchinetta, che dunque convalida il coraggio o l’incoscienza del giocatore, il quale triturando l’assegno rottama l’offerta. Di nuovo incita il concorrente a dirgli se ciò che lo guida è istinto o responsabilità. E con aria sempre più seria o imbarazzata si sente rispondere che ci sono tanti ragionamenti in gioco.
Capisco che non si può pretendere da un gioco la serietà/seriosità di un programma culturale, ma ciò che impressiona è l’uso ormai spregiudicato di termini, frasi, elocuzione della lingua italiana totalmente rovesciati.
Ma non sono solo queste le offerte televisive. Ho seguito con interesse il programma di uno dei più grandi personaggi del mondo musicale con il quale ho anche collaborato: Massimo Ranieri e del quale ricordo una lunga passeggiata nel chiostro di Santa Chiara a Napoli, dove mi spiegava le ragioni culturali per cui la meravigliosa decorazione del chiostro era un linguaggio per cui attraverso la bellezza si giunge alla realtà.
Non è dunque vero che i programmi leggeri si affidino solo all’ignoranza degli infimi culturali, ma che non c’è differenza tra programmi cosiddetti leggeri o programmi cosiddetti seri, poiché tra la divina Callas o Edith Piaf o Mina o la Argerich è solo questione di grandezza naturale.
Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturiclicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.
Talvolta questa frase si usa in un modo molto retorico ma in questi giorni di militarizzazione della politica e della lingua pubblica e privata, uno come Daniele Lugli ci manca davvero. Ho avuto la fortuna di incontrarlo due, tre volte. L’ultima volta nel contesto di una serata in un festival a Pontelagoscuro, due anni fa.
Una serata indimenticabile perché sul palco c’era un uomo molto gentile, dal parlare pacato, mai a voce alta o aggressivo con gli altri.
Voleva solo presentare al pubblico “la forza della mitezza“ (prendendo spunto dal prezioso testo di Norberto Bobbio: L’elogio della mitezza) in un mondo sempre piu bellicoso ed egoista.
Spesso i rappresentanti del movimento non-violento sono un po magri, con visi palidi, voci sussurranti, quasi santi secolari, un pò come le vacche sacre dell’India.
Invece lui fisicamente era un uomo forte, una vera quercia e non un tenero ramo di palma.
Di barba era un tardo gemello di Carlo Marx ma di cuore un fratello minore di Gandhi.
Uomini come Daniele Lugli ci mancano per anni dove le bombe e le guerre informatiche contano sempre di più delle parole e dell’umanità.
Per ricordare Daniele Lugli Francesco Monini ha scritto un bel necrologio che condivido in tutto (Qui). Grazie Daniele per la sua lotta instancabile e non violenta e grazie Francesco Monini per il tuo bel ricordo di lui.
MW: Ciao Emanuele, cosa stai leggendo di bello ultimamente? E: Ciao Mister Writer! In questo periodo più che leggere direi che sto studiando.
MW: Puoi spiegarci meglio?
E: Se voglio svagarmi, guardo un film. I libri sono un’altra cosa. Questa differenza credo che dipenda dalla loro natura: una visiva, l’altra verbale. Le parole riverberano, hanno una vita e un modo di riprodursi, di radicarsi e ramificarsi tale per cui sento la necessità di essere attento, prudente nella scelta di cosa, quando e quanto leggere.
MW: Riavvolgiamo allora un attimo, se sei d’accordo. Ci dici che film hai visto di recente?
E: Certo. Come diceva Roberto Bolaño, una persona è più facile che abbia piacere di parlare della seconda cosa che gli sta a cuore, nel mio caso del cinema, piuttosto che della prima, nel mio caso della letteratura Proprio ieri sera ho iniziato Elephant di Gus Van Sant. Mi piacerebbe parlarne con un appassionato di fotografia, perché le inquadrature hanno una grana e dei colori così belli che vorrei conoscere il vocabolario tecnico per descriverle, e invece rimango solo meravigliato. Prima di tornare a Ferrara, avevo riguardato un vecchio film di Kubrick che avevo visto anni fa, quando ero ancora al liceo, The killing, o nella traduzione italiana, Rapina a mano armata. Prima ancora avevo tentato un approccio a Karate kid, che però è fallito.
MW: Sono film molto diversi fra loro. L’unica cosa che li accomuna è di essere americani.
E: In effetti, sì. E pensa che io cerco anche di starci attento.
Il magnetismo statunitense è così potente che secondo me dovremmo sforzarci tutti quanti di guardare e leggere cose che vengono da altri posti. Non ho niente contro quella nazione, ma dovremmo prendere consapevolezza della quantità di roba che proviene da quel paese rispetto al resto del mondo.
MW: Di non statunitense hai qualcosa da consigliarci?
E: Due esempi su tutti potrebbero essere Aparajito, un film indiano degli anni ’50 che vinse il Leone d’oro, e The woman who left, un film del regista filippino Lav Diaz, che ha vinto sempre a Venezia, ma molto più di recente.
Sono delle pazzie… film a tratti inguardabili per un occhio abituato alle velocità dei film di oggi. Ma mi sforzo di guardare anche roba così, per generare un po’ di caos al mio algoritmo interno.
MW: Anche coi libri presti attenzione alla provenienza dell’opera?
E: Sì, certamente rimane una questione principale per me. Ma coi libri è più facile.
MW: Ci sono più scrittori e opere classiche provenienti da altre parti del mondo, intendi?
E: Esatto. Non che nel cinema questo non sia accaduto. Ma la differenza fra letteratura e cinema sta anche nella reperibilità delle opere.
In una qualsiasi libreria posso trovare tranquillamente le opere di Dostoevskij, Goethe, Sofocle, Cervantes, Hamsun e I Ching. Sulle piattaforme di streaming, legali o illegali che siano, difficilmente riuscirei invece a trovare i film di Fritz Lang, Bergman, Kaurismaki, Chris Marker e Kurosawa. Eppure sono dei classici e dei maestri tanto quanto gli scrittori che ho citato.
In altre parole, il motivo del monopolio dei film americani è, per gran parte, una conseguenza della diffusione e della facilità con cui è possibile reperirli.
Mentre in letteratura gli scrittori-minori-non-americani, quasi sempre, puoi trovarli in biblioteca.
MW: Il tuo discorso è molto interessante. In altre parole, stai comparando il cinema e la letteratura in termini di reperibilità.
Tu dici: nel cinema i registi davvero sofisticati non finiscono nelle grandi sale, né sulle piattaforme di streaming. Bisogna cercarli nelle sale di super-essai, oppure nei festival in cui vengono presentati. Un esempio potrebbe essere il cinema di Hou Hsiao-hsien, che è un maestro dell’epoca contemporanea ma è molto difficile riuscire a vedere un suo film in Italia.
In letteratura, invece, anche gli autori molto antichi, come i tragici greci, o i mistici orientali, sono acquistabili in librerie normalissime.
Trovare un dvd dei fratelli Lumière non sarebbe altrettanto comune.
E: Le case editrici indubbiamente riescono a garantire una eterogeneità culturale a cui Netflix, Prime o Disney non sembrano interessati e che i cinema non si possono permettere.
Oltre a questo, visto che siamo entrati in argomento, vorrei aggiungere un’altra cosa. Ognuno di noi va creandosi un proprio immaginario, tanto in letteratura quanto nel cinema. In parte alimentato da quello che effettivamente consumiamo, in parte dai consumi degli autori che ammiriamo. Per fare qualche esempio, la mia passione per Bolaño mi ha portato a leggere Cortázar, così come partendo da Gaspar Nöe sono arrivato a guardare un film minore di Fellini, Prova d’orchestra, che non avevo mai sentito nominare prima. Ecco, vorrei sottolineare l’importanza dei nostri autori favoriti per scoprire opere che ancora non conosciamo. Forse, più che farci guidare dall’algoritmo di Netflix, potremmo ascoltare l’intervista a un regista che ci piace quando siamo a corto di film da vedere. O a uno scrittore, se invece sono finiti i libri sul comodino.
MW: Avevamo cominciato a parlare di cinema quasi per scherzo, collegandoci alla tua riflessione sul fatto che se vuoi svagarti guardi un film, mentre se leggi ti proietti in un’altra dimensione, quella dello studio.
Adesso ho quasi paura a chiederti di tornare al vero tema di questa intervista, la lettura (ride).
E: Hai ragione, ho un po’ paura anche io
Possiamo sempre parlare delle nostre discoteche preferite…
MW: Che sarebbe? E: La discoteca che preferisco ultimamente è l’Azimut di Torino.
MW: Sarebbe più difficile rispondere con la stessa sicurezza alla domanda sul tuo libro preferito?
E: Sicuramente. E pensa che una volta invece mi piaceva rispondere a questo genere di quesiti. Tipo: che musica ti piace, i tuoi film preferiti…
MW: Poi hai fatto la Holden…
E: Hai capito?! Cinque mila euro all’anno per avere le idee più confuse di prima.
No, dai. Non è colpa della Holden. Più che altro sono cambiato io negli ultimi tre o quattro anni. Per esempio dei libri non mi interessano quasi per niente le trame.
All’inizio della nostra chiacchierata dicevo che i film sono per svagarmi e i libri per studiare. Forse non è del tutto vero. Un altro modo per cercare di inquadrare il mio rapporto con queste due discipline potrebbe essere: i film perché mi appassiono alle storie che raccontano, i libri perché mi danno le parole per descrivermi e delle analogie a cui riferirmi.
MW: Cosa intendi per analogie?
E: Personaggi o anche più in generale delle dinamiche che mi rispecchiano, o che riproducono nel loro ambito qualcosa che ho pensato. Sono degli appoggi concreti grazie ai quali posso dire: “Hai presente X nel libro Y? Ecco io mi sento come lui”. È un bel vantaggio.
MW: Continua, per favore.
E: Sai, Calvino diceva che leggere letteratura specialistica lo dotava di uno strumento per esprimersi: un vocabolario di parole tecniche e teoriche.
In origine, quelle parole descrivevano soltanto un campo specifico del sapere, la fisiologia mettiamo. Passando da un manuale scientifico alla mente di Calvino, però, si trasformavano. Diventavano degli utensili per parlare delle sue esperienze.
In altri termini, quelle parole e quei concetti creavano una corrispondenza fra un ambito scientifico X e un’esperienza personale Y. Questo gli permetteva di dare un nome a cose che prima non sapeva come chiamare. Il mio rapporto con la lettura ha molto a che fare con questo.
MW: Interessante.
Correggimi se sbaglio. Raccontare il metodo di Calvino è già un esempio di quello che intendi quando dici che per te leggere ha a che fare con l’imparare delle parole per spiegarti meglio, no? Se non avessi scoperto che anche lui faceva così, forse, non avresti saputo come descrivere il tuo rapporto con la lettura.
E: Assolutamente sì, hai colto il punto. Con l’unica differenza che Calvino parla di libri teorici, quindi testi e letterature specialistiche. Mentre per me ogni libro è valido. Il comportamento del principe Myskin può essere utile per spiegare una parte del mio carattere quanto le regole delle scale musicali per rappresentare dei miei meccanismi mentali. Quasi in ogni testo che mi capita di leggere colgo delle corrispondenze essenziali fra me e loro.
MW: Sembra bellissimo.
E: Da una parte è meraviglioso. Dall’altra mi sono accorto che, come dicevo all’inizio, non è un fenomeno che posso prendere alla leggera, come se non cambiasse nulla. Voglio dire, ho dovuto ripensare ai momenti della giornata da dedicare alla lettura, che non possono essere troppo lunghi, per esempio, perché la mia mente ha bisogno di tempi di digestione. E perché non voglio essere profondo in tutte le ore.
MW: Questo genere di lettura sembra richiedere delle dosi massicce di metodo, disciplina, auto-controllo, ascolto di sé…
Non il tipo di qualità che siamo abituati ad associare alla lettura.
E: Hai ragione. Per questo motivo è difficile spiegare agli amici il mio modo di leggere e perché lo faccio.
MW: Loro cosa ne pensano?
E: Direi che non ne pensano quasi niente. La lettura non è, in realtà, un argomento di conversazione. Quando sono con gli amici preferisco parlare d’altro. Ma quelle volte in cui è venuto fuori il tema si creava uno scarto fra ciò che la lettura è per loro, e ciò che invece la lettura è per me.
MW: Immagino che per loro avesse a che fare più che altro con il piacere.
E: Di solito è così.
MW: Abbiamo parlato di cose belle, intime e profonde. Ti ringrazio molto per la disponibilità che hai dimostrato.
Adesso che ci avviamo verso la conclusione di questa intervista, vorrei domandarti un’ultima cosa. Hai detto che i libri ti aiutano a trovare le parole che ti servono per esprimerti. Ami i film, invece, per via della storia che raccontano e per la bellezza delle loro immagini.
A questo punto, sembrerebbe non esserci spazio per l’empatia nel tuo modo di consumare l’arte. È così o, invece, ha una rilevanza?
E: Me lo sono chiesto spesso anche io! E la risposta che mi sono dato è: no. Molto poca, davvero. Ricordo, infatti, che guardando i film con mia madre lei rimaneva sbalordita dalla mia freddezza di fronte a storie paurose, drammatiche, tragiche… Ma non è del tutto vero che nelle cose che guardo da consumatore sono soltanto freddo. Esiste infatti un’eccezione: lo sport. Tifare, secondo me, rappresenta il momento di empatia per eccellenza. Ho tifato a squarciagola per mille squadre e personaggi. Di solito minori. Bruno Senna in Formula 1, i Charlotte Bobcats in NBA, Bernard Tomic nel tennis, la Spal nel calcio.
MW: Che tipo di tifoso sei, allora? Cosa succede quando invece di studiare diventi un ragazzo a cui batte forte il cuore?
E: Ma stiamo parlando di sport o delle mie relazioni sentimentali?
MW: Non mi sarei azzardato a tanto!
E: Per fortuna, forse non me la sarei sentita di rispondere!
A parte gli scherzi, ho capito cosa intendi. Quando mi trasformo in un tifoso riesco a capire cosa provano le persone che amano le serie televisive. Perché immedesimarmi in un giocatore o in una squadra significa avere a cuore le sorti della sua stagione e della sua carriera. Il punto smette di essere la qualità della singola partita, ma il successo a cui può ambire o la salvezza per cui deve lottare. In poche parole: ci attacchiamo con i denti e con le unghie allo svolgimento della “trama”. Nelle serie televisive è così. I singoli episodi non sono pezzi d’arte, non è quella la ragione per cui la gente aspetta tutta la settimana il nuovo episodio. Ci sono delle emozioni in ballo. Che tu sia un tifoso di sport o un fan di serie tv, vuoi sapere cosa succederà la settimana dopo, e quella dopo ancora, e speri che i tuoi beniamini vadano in paradiso, mentre che i tuoi nemici brucino all’inferno.
MW: Ricapitolando: i libri per le analogie, i film per la storia e per le immagini, mentre lo sport per l’empatia. Tutto giusto?
E: Confermo.
MW: E allora verrà messo a verbale!
Emanuele, ti ringrazio ancora una volta per la tua disponibilità.
E: Grazie a te, Mister Writer.
MW: Sei sempre il benvenuto su queste pagine. Ci risentiamo prestissimo, quando ormai ti sarai stabilito sull’isoletta di Strynø. Siamo tutti molto curiosi di ascoltare i tuoi racconti da lassù e assolutamente certi che sarà una grande esperienza.
E: Lo credo anche io! Grazie a voi e un abbraccio.
Sentirsi a casa, una sensazione calorosa che abbraccia ogni cuore e ogni vita. Perché viaggiare non è partire, ma tornare a casa.
“Ho sempre avuto difficoltà a considerare un luogo, una città, una casa come la mia casa. Ma tutti hanno bisogno di sentirsi a casa, no?”
L’incipit di un meraviglioso albo illustrato, Sentirsi a casa, di Davide Calì e Sébastien Mourrain, Kite edizioni, sembra parli proprio a me. Più lo leggo e più mi parla, mai come ora mi ritrovo nelle pagine, nelle parole, nelle immagini. Il piccolo protagonista va pure in bicicletta, proprio come me durante l’infanzia e l’adolescenza della cittadina da cui provengo (che, per chi mi conosce, è Ferrara). Con quasi lo stesso impermeabile giallo.
“Non mi sentivo a casa, però. Tutto era troppo piccolo, troppo stretto, mi sentivo soffocare”.
Tutto sembra stretto, limitato, limitante, senz’aria. Ancora? Gli autori mi leggono nel pensiero??? Esattamente come me il protagonista, in ogni pagina, cammina, attraversa luoghi, cresce e cambia casa. Parte con poche cose, un viaggio di scoperta. Abita in una piccola mansarda, in un quartiere studentesco con una magnifica vista sui tetti: ancora io, nel periodo brussellese e poi parigino.
“Terminati gli studi sono partito per la capitale. Avevo deciso di vivere in un quartiere di artisti. …. Avevo l’impressione che fosse esattamente quello che faceva per me: mi sentivo finalmente a casa”.
E qui un disegno dove si intravvede la scritta “Paris, boulangérie”, con il Panthéon sullo sfondo… Ancora io. Incredibile. Dieci, venti e poi più anni. Il tempo passa.
Sono viaggi dove è essenziale lasciarsi tutto alle spalle, dove si dà un senso ai luoghi da abitare, dove, con le culture degli altri che esplori voracemente, ti senti ovunque a casa.
O forse si viaggia e continuamente si cambia casa perché non ci si sente mai a casa o magari si desidera solo essere in un continuo movimento senza alcun posto da abitare. Gironzolare, assaggiare, provare di tutto senza aver bisogno di una casa?
Finché posti e visi, giorni e notti saranno sempre gli stessi e la vita sembrerà congelata come in una fotografia. Tutto sembra un film, all’inizio, poi la realtà prende il sopravvento.
E poi c’è chi non si sente a casa da nessuna parte e chi si sente a casa ovunque, un po’ come è successo a me. Un po’ di confusione e di incertezza, pochi punti fissi e certi. Se ne ha abbastanza. Le radici prima o poi chiameranno…
Finché finalmente si arriva a un punto o un luogo dove riemergono i ricordi e gli affetti e si conclude così il viaggio non solo fisico ma anche interiore: la continua ricerca della pace.
Perché viaggiare non è mai partire ma è cambiare per poi tornare a casa.
“A volte bisogna girare il mondo, solo per tornare al punto da ci siamo partiti”.
Sentirsi a casa, di Davide Calì, Sebastien Mourrain, Kite, 2023, 40 p.
Davide Calì
Scrittore di letteratura per ragazzi e fumettista italiano, conosciuto anche con gli pseudonimi di Taro Miyazawa e Daikon, è originario della Svizzera ma è cresciuto in Italia, dove ha intrapreso la carriera di fumettista. Dal 1982 al 2008 ha collaborato con la rivista “Linus” come disegnatore e dal 1998 ha cominciato a pubblicare libri per ragazzi, ottenendo un successo in Francia. I suoi lavori sono stati tradotti in più di 30 lingue e da alcuni sono stati tratti degli adattamenti per il teatro. Curatore di mostre web ed esibizioni, nel 2016 è nominato art director di “Book on a Tree”, un’agenzia letteraria londinese.
Sébastien Mourrain
Lo avevamo già incrociato nell’accattivante e tenero Bigoudì. E ci sera piaciuto. Nasce nel 1976 à Aubervilliers. Conseguita la maturità scientifica, studia disegno a Lione presso l’École Émile Cohl dove si laurea nel 2000. Oggi lavora nell’ambito dell’editoria per l’infanzia, collabora con varie riviste e fa parte del collettivo di artisti Le Bocal.
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura diSimonetta Sandriin collaborazione con la libreriaTestaperariadi Ferrara.
10 giugno 2023: in marcia sui Sentieri per abbracciare l’Appennino Tosco-romagnolo del Mugello di Monte Giogo di Villore Corella e difenderlo dall”Eolico Industriale.
Dopo tre anni di opposizione al Progetto eolico Monte Giogo di Villore con iniziative informative, cene, interventi di sensibilizzazione, camminate nei luoghi dove il Progetto prevede piste, strade, cantieri ed abbattimenti per portare e posizionare le mega pale, e infine con Ricorso al TAR del CAI e di ITALIA NOSTRA,
il 10 giugno 2023 il Comitato Crinali liberi (CTCM) promuove e organizza un’iniziativa per abbracciare fisicamente il Monte Giogo di Villore, come gia’ accadde nel 1989 quando dall’Ufficio del Turismo della Comunita’ Montana l’allora Responsabile Piera Ballabio promosse un grande Raduno dove affluirono centinaia di persone in difesa dell’Appennino mugellano, minacciato da strade. Partendo da Sentieri diversi saliremo sul Monte Giogo di Villore (Vicchio, Firenze) come Cittadini, Comunità, Associazioni, Comitati e Gruppi per affermare il Futuro di Tutela dell’Appennino Toscoromagnolo Mugellano, per la protezione dei territori, patrimonio naturale di biodiversità, habitat di aquile reali veleggiatrici, di turismo escursionistico e di economie montane secolari e produttive e nuove presenze di giovani. Tutti insieme per salvaguardare le preziose acque e sorgenti che zampillano dai monti e dalle fresche foreste, per abbracciare i crinali che non sono di alcuni o di pochi, ma sono tesoro di tutti, da consegnare, come imperativo categorico, alle generazioni future. Fabrizia Jezzi
L’INVITO DEL COMITATO CRINALI LIBERI
Un fine settimana importante in Mugello quello appena passato, con la Marcia di Barbiana per il Centenario di Don Lorenzo Milani e i tre giorni del Festival dell’Energia e dell’Ambiente dell’Unione dei Comuni che all’ambiente vero, quello naturale, non ha dato ne’ visibilità ne’ voce, prova ne è che l’Assessora all’ambiente della Regione Toscana non è stata invitata, per cui è stato il Comitato Crinali liberi ad assolvere a questo scopo: palesare la strenua difesa dei meravigliosi e unici crinali dell’Appennino Mugellano organizzando un Presidio per i primi due giorni del Festival e partecipando alla Marcia di Barbiana.
In tanti al Presidio presso il Lago Viola si sono fermati di fronte alle foto che ritraggono la bellezza dei crinali domandando e chiedendosi perché mai proprio in territori talmente rari e ricchi di biodiversità per la loro contiguità al Parco Nazionale Foreste Casentinesi si fosse potuto pensare ad autorizzare un Progetto di impianto industriale eolico. E infatti più ci si pensa e meno ci si crede. Come un brutto sogno che al mattino scompare.
Il primo giorno del Festival alla domanda se si riteneva giusto cementificare i crinali, dopo le frane occorse, è stato risposto che non si accettavano provocazioni. Ma avere a cuore, non è provocare, come ben ci ha insegnato Don Lorenzo Milani, è comprendere, essere informati, possedere gli strumenti per reagire, ribellarsi, difendere e proteggere, senza timore di alcuna sudditanza.
E si spera che il TAR ponga davvero fine a questo nero incubo che incombe sui paesaggi immortali di Giotto e del Beato Angelico, sui Cammini ivi prossimi di Sant’Antonio e Dante Alighieri.
A maggior ragione adesso, dopo il disastro che ha colpito gli Appennini Toscoromagnoli, particolarmente sul versante romagnolo con i paesi a valle e in pianura sommersi dall’acqua dei fiumi esondati e dal fango.
Una tragedia che ha mostrato con estrema evidenza l’instabilità, la fragilità e franosità del sistema montuoso appenninico, se esposto a piogge forti e continuate, come saranno da attendersi in tempi prossimi, alternate a periodi di prolungata siccità.
Intere porzioni di territorio sono franate portando via con sé strade e sentieri, castagneti, campi e allevamenti.
Tante vittime e migliaia di aziende e attività economiche rovinate.
Dall’alto del Monte Giove che guarda ai liberi crinali appenninici di Monte Giogo di Villore Corella Don Milani con i suoi ragazzi avrebbe approfondito ogni singolo aspetto degli avvenimenti per comprenderne le cause, le responsabilità e mettere le conseguenti e necessarie azioni in campo.
Alla sua scuola s’imparava a capire per agire, in vista del sincero e reale interesse comune, per gli ultimi, quelli tacitati e oppressi dagli interessi dei ricchi che manovrano la politica partitica.
Per quell’I CARE, HO A CUORE umano e politico, che oggi manca nella prevenzione al dissesto idrogeologico, nell’attenta messa in sicurezza dei territori, anche agevolando e sostenendo in modo concreto e mirato la presenza di piccole comunità che tornano con coraggio a praticare l’economia di montagna.
Se i Comuni dove si sono verificate frane e danni sono rimasti fuori dallo Stato di Emergenza, chi risarcirà i danneggiati delle frane ai marroneti di Villore nel Comune di Vicchio e chi si occuperà del ripristino della viabilità principale o secondaria come le strette strade bianche che portano ai marroneti?
Chi rifonderà i danni a chi esercita attività che trovano nella popolazione che transita tra la Toscana e la Romagna i propri clienti, se la viabilità è interrotta come nel Comune di San Godenzo, incredibilmente e inspiegabilmente escluso dallo Stato di Emergenza nonostante i rilevanti danni dovuti a numerose e gravi frane?
E la frana verificatasi in questi giorni sulla viabilità di Corella, Dicomano, quella stessa strada dove il Progetto eolico Monte Giogo di Villore prevede il passaggio di enormi e pesanti mezzi per i quali si dovrà aprire ulteriori strade sui versanti abbattendo ettari di faggete, chi provvederà a fare ulteriori accertamenti e approfondimenti?
Domande importanti delle comunità del territorio che non possono essere evase e devono trovare risposte adeguate e tempestive. Il versante Toscano dell’Appennino è stato colpito in modo ridotto rispetto a quello Romagnolo, all’alto Mugello, ferito, isolato e gravemente danneggiato. Ma siamo stati avvertiti. Non possiamo continuare ad essere sordi e ciechi. La voce dei territori si leva forte. Va ascoltata. Chi amministra deve ascoltare e prevenire i disastri, non deve autorizzare grandi opere industriali sui crinali appenninici che andrebbero certamente a destabilizzare la già fragile tenuta dei nostri monti, con conseguenze tragiche per chi vive in valle. I fiumi che hanno portato morte e distruzione sono gli stessi che hanno origine nel versante regionale Toscano. La cura del territorio è una priorità che non può essere più disattesa o trattata in modo superficiale e approssimativo.
Alla Marcia di Barbiana il Comitato Crinali liberi c’era in cammino e c’era al Presidio al Lago Viola, punto di ritrovo dei partecipanti alla Marcia, c’era di fronte e dentro la Scuola di Don Lorenzo Milani, Prete e Maestro scomodo per tutti, c’era di fronte alla sua tomba, con la promessa di seguire il suo esempio: non voltare le spalle a chi viene occupato, colonizzato e oppresso per opportunismo personale o politico, stare sempre dalla parte delle cose vere e giuste, proprio quando è più difficile, non è di moda, e il clamore assordante della propaganda è forte tanto quanto l’imposizione censoria mediatica ufficiale.
In un momento in cui tutti i Cammini escursionistici nel Bel Paese vengono promossi e il Sentiero Italia 00 viene rilanciato all’attenzione nazionale, vogliamo davvero che il suo tracciato venga interrotto e cancellato sull’Appennino Mugellano da piste e cemento, cantieri, strade, disboscamenti e sbancamento dei crinali?
Il 10 giugno 2023 il Comitato Crinali liberi (CTCM) promuove e organizza un’iniziativa di cui alleghiamo lacartina: da Sentieri diversi saliranno sul Monte Giogo di Villore (Vicchio, Firenze) Cittadini, Comunità, Associazioni, Comitati e Gruppi per affermare il Futuro di Tutela dell’Appennino Tosco-Romagnolo Mugellano, per la difesa dei territori, patrimonio naturale di biodiversità, habitat di aquile reali veleggiatrici, di turismo escursionistico e di economie montane secolari e produttive e nuove presenze di giovani, tutti insieme per proteggere le preziose acque e sorgenti che zampillano dai monti e dalle fresche foreste, per abbracciare i crinali che non sono di alcuni o di pochi, ma sono tesoro di tutti, da consegnare, come imperativo categorico, alle generazioni future.
Roma, 17 febbraio 1600, il grande filosofo nolano Giordano Bruno viene messo al rogo a Campo de’ Fiori (quando ci passate guardate per terra un tondino che ricorda il punto esatto). Ferrara, in data da destinarsi ma prima delle prossime amministrative, il Parco Giordano Bruno sarà ingabbiato dall’Amministrazione Comunale. La sentenza verrà eseguita dal noto vicesindaco Naomo Lodi.
Il lettore mi consenta l’accostamento un po’ audace, posso avanzare due buone ragioni. Perché Giordano Bruno è, tra i moderni, il mio filosofo ed eroe preferito. E perché come ferrarese non ne posso davvero più di gabbie e cancellate, come di feste, profumi e balocchi.
(Francesco Monini)
Il passato del Parco Giordano Bruno
Il presente e il futuro del parco
La denuncia del Comitato Giordano Bruno
Dopo quattro anni di scientifico abbandono e molti annunci, l’amministrazione comunale ha deciso di intervenire nel Parco Giordano Bruno con la sua soluzione preferita: mettere una cancellata.
Ripercorrendo questi anni, è impossibile non riconoscere una sistematica volontà di rendere inospitale il nostro parco: non è stato assegnato a nessuna associazione sportiva il campo di beach volley che quindi è diventato un rettangolo inservibile invaso dalle erbacce; si è scelto, a differenza del passato, di non usare mai lo spazio per iniziative pubbliche, mentre lo sfalcio dei prati avveniva sempre più di rado.
Contemporaneamente, abbiamo assistito alla progressiva sparizione di ogni arredo urbano presente in modo che senza panchine fosse impossibile sostare e godere del luogo. Se prima il parco era frequentato da famiglie e riempito dagli schiamazzi dei bambini, l’aver tolto le panchine allo scopo dichiarato di combattere lo spaccio, ha ottenuto l’effetto inverso di far sparire chiunque volesse godersi la piacevolezza della sosta nel parco, tranne proprio coloro che si intendono respingere.
Da ultima è stata annunciata, senza darne prima comunicazione all’interessato, la revoca della concessione per il chiosco McMurphie, rinunciando così ad un altro punto di convivialità fuori dalle vie di transito, mente nel centro proliferano, a scapito dello spazio urbano, dehors e distese di tavolini.
Come prevedibile, tutte queste scelte hanno semplicemente acuito ogni problema – anche di ordine pubblico – preesistente.
Arrivati ad una anno dell’appuntamento elettorale in Giunta devono essersi ritenuti soddisfatti: la situazione creata ora può richiedere interventi muscolari e il vicesindaco potrà sfoggiare la sua soluzione preferita fatta di cemento e ferro, con costi di decine di migliaia di euro a carico della comunità, mentre ai cittadini del quartiere rimarrà uno spazio meno fruibile e solo negli orari scelti dall’amministrazione di turno.
Il tutto, senza il minimo rispetto dell’idea urbanistica del quartiere Giardino, che ha nel parco Giordano Bruno uno spaccato verde di passaggio, uno snodo vitale e coerente, che da domani diventerà una gabbia respingente.
Dopo le critiche di Luca Ricolfi e Paola Mastrocola (Il danno scolastico, ed. La Nave di Teseo) a Don Milani, che avrebbe contribuito, con l’idea che “la scuola pubblica non può bocciare”, ad una banalizzazione della scuola, arrivano ora quelle di Ernesto Galli della Loggia che cita Adolfo Scotto di Luzio (L’equivoco don Milani, ed. Einaudi), secondo cui il priore di Barbiana è stato usato, nel post ’68, come profeta di quella “scuola democratica”che tanti mali avrebbe prodotto nell’istruzione pubblica.
Il libro di Scotto di Luzio è una documentata analisi di “Lettera a una professoressa” , che don Milani scrisse dopo che uno dei suoi allievi tentò di inserirsi nella scuola pubblica venendo però bocciato.
Scotto ha ragione su un punto: secondo don Milani,la scuola pubblica era organizzata per ratificare la subalternità sociale delle classi popolari attraverso una istruzione “colta”, priva di qualunque utilità pratica e che ai poveri diceva poco o nulla, che proponeva come modello la modernità borghese al posto della tradizione contadina e popolare: l’italiano al posto del dialetto, i grandi pensatori classici al posto dei sarmenti[1].
Del resto la riforma Gentile, ancora vigente a quel tempo, aveva l’obiettivo di formare una classe dirigente che studiasse le cose più lontane possibili dal sapere manuale e contadino.
Per onestà intellettuale, bisognerebbe evitare di tirare don Milani per la giacchetta e riconoscere il suo autentico messaggio, che anche oggi sarebbe eterodosso. Spedito dalla curia in una frazione sperduta, Barbiana, di Vicchio del Mugello, per le sue idee contro la guerra, i cappellani militari e l’obiezione di coscienza, Lorenzo Milani fu un contestatore del potere e, nell’istruzione, unosperimentatore generoso e audace che si cimentò in quella che oggi sarebbe una piccola scuola privata (home schooling) rivolta a un piccolo drappello di contadini che mai avrebbero studiato (“la scuola è meglio della merda”) se non fosse stato per la sua iniziativa.
Non è vero – come scrive Galli della Loggia su Il Corriere della Sera del 1.6.2023 – che “dei modi di insegnare a lui non interessava davvero nulla”. E’ stata proprio di Don Lorenzo Milani la capacità di integrare lo studio “classico” (che oggi chiameremmo “istruzione”) con le conoscenze di vita e lavoro dei suoi contadini, affermando un concetto oggi largamente accettato dagli esperti, e che cioè si apprende dallo studio, ma anche dal lavoro e dalla vita. Una acquisizione che la nostra scuola pubblica non è stata capace di inverare, nonostante diverse sperimentazioni di successo in tal senso (da Fiorenzo Alfieri, maestro elementare e assessore di Torino dal 1976 al 1980, all’odierno movimento della scuola pubblica all’aperto, alle scuole private Steiner e Montessori).
Per Don Milani il sapere si estendeva anche a quelle conoscenze popolari, contadine, che non erano meno importanti di quelle moderne e borghesi. Il sapere si esprimeva anche nel dialetto e nei sarmenti (i tralci recisi della vite, a cui i contadini cambiano nome nel momento in cui non sono più attaccati alla pianta).
Non è un dettaglio, per lo più sconosciuto ai cittadini borghesi, ma il senso profondo di un mondo contadino (oggi diremmo con un luogo comune la “tradizione”) che l’umanità ha conquistato in duemila anni di storia.
Una saggezza che sa quanto sia importante conoscere la Natura ed avere un rapporto armonico con essa, sa che esiste la vite ed esiste il tralcio. Una saggezza da cui è possibile trarre il concetto di “libertà nella responsabilità” o di “limite”. Quando questo limite viene superato, il tralcio diventa un sarmento.
Si tratta di un tema caro anche a Pier Paolo Pasolini (tradizione versus modernità) che si ripropone oggi in modo acutissimo dopo 30 anni di iper-globalizzazione e di “modernità” come nuova religione occidentale, come se tutto ciò che è tradizione fosse da buttare e ciò che è moderno fosse sempre e comunque da venerare.
Altro che don Milani! E’ nei social, nelle minacce della modernità e in una scuola imbalsamata da cinquant’anni che bisogna cercare le cause dei disturbi da ansia e depressione che sono cresciuti dal 10% al 23% tra gli adolescenti in Occidente, così come gli atti di autolesionismo e i tentati suicidi a causa del bullismo social, dell’ eccesso di competitività nel rapporto coi pari legato all’abuso delle piattaforme e dei recenti lockdown con didattica a distanza.
Così crescono i ritiri scolastici, i casi Hikikomori, che colpiscono i più deboli del branco (o il revenge porn sulle ragazze). Allarmi che ora lanciano anche gli adulti, per gli effetti devastanti a cui sta portando l’accelerazione senza gradualità del digitale, dell’Intelligenza Artificiale deregolata (da chatGpt in poi) che quasi sempre rendono la vita, il lavoro e l’istruzione meno umana. Il potenziamento della “tekhne” e delle tecnologie, senza un contraltare di regolazione umanistica e morale, distrugge forme di vita e di relazione prodotte in centinaia di anni. Un tema di cui parla diffusamente Umberto Galimberti nel suo libro L’ospite inquietante, I giovani e il nichilismo).
In tal senso non è vero che don Milani (come dice Galli della Loggia) “non ci aiuta per nulla a rispondere alla domanda cruciale dell’istruzione obbligatoria: che cosa fare con quelli che non ce la fanno?”
E’ corretto affermare che don Milani non era per bocciarli, ma non era neppure per la scuola “facilitata”. Cercava vie nuove affinché i suoi contadini potessero apprendere dalla via dell’ istruzione (che diremmo “classica”, passare dalle cento parole dell’operaio e contadino alle mille del padrone), ma anche dalla via della sperimentazione, facendo tesoro di quel lavoro manuale e della vita che i suoi studenti conducevano e operando affinché la scuola non annullasse quella cultura popolare, quelle tradizioni, quella stessa religiosità e spiritualità al posto delle quali introdurre una modernità priva di radici e alienante.
La via da seguire per la scuola pubblica non può essere quella del solo “modernizzare” in senso telematico/informatico. Si dovrà pur riflettere sul motivo per cui metà dei quindicenni non sappiano interpretare un testo, né scrivere, né fare un’operazione elementare di matematica. Non può essere solo la “scuola facilitata” di cui parla Ricolfi, ma ci deve essere qualcosa di più profondo che ha prodotto questa devastazione.
Da qui la necessità di riprendere sperimentazioni che portino ad un apprendimento più efficace, ispirato da nuove forme di insegnamento.
Solo dopo una stagione di confronto tra esse si potrà avviare una sintesi che porti ad un rinnovamento del modo di insegnare nelle scuole pubbliche, anziché improvvisare senza alcuna sperimentazione soluzioni che, non a caso, da decenni vengono introdotte e poi non lasciano alcuna traccia.
[1] Da ‘Lettera a una professoressa’: “…gli insegnanti smettano di fare le cose difficili che umiliano i poveri, e interroghino i poveri sulle cose che già sanno…a scienze ci parlerete di sarmenti e ci direte il nome dell’albero che fa le ciliegie”. Per Paola Mastrocola e Luca Ricolfi (“Il danno scolastico”) è proprio questa facilitazione che spiazza i poveri, i quali hanno tutto il diritto invece di essere formati sui grandi pensatori del passato, sull’Iliade e l’Eneide. E come non essere d’accordo. Se molte cose scritte in questo libro controcorrente sono (a mio parere) condivisibili, non lo è la critica a don Milani che non c’entra nulla con la “facilitazione” della scuola. Milani fece una critica alla scuola selettiva degli anni ‘60 (morì nel 1967), severa ma anche élitaria e ferocemente selezionatrice delle classi socialmente più emarginate che, bocciate, potevano andare a lavorare. Allora la battaglia sacrosanta era per un modello di scuola meno “astratta”: non si metteva in discussione solo la selezione quasi sadica contro gli ultimi (non c’era tempo pieno, né sostegni), ma soprattutto ci si batteva per una scuola che garantisse a tutti l’accesso al pensiero, ma che motivasse anche gli alunni più poveri, parlando anche del loro mondo.
Per leggere gli articoli di Andrea Gandini su Periscopio, clicca sul suo nome. Per leggere solo gli articoli della sua rubrica NUMERI, clicca sul nome della rubrica.
Maturando, stai sereno… Un’ambiguità incendiaria incombe sul ritorno dell’Esame di Stato
Occorre premettere che chi scrive vedrebbe molto di buon occhio, e non da oggi, l’abolizione del cosiddetto Esame “di Maturità” e la sua sostituzione con un qualche passaggio finale meno illogico e anacronistico.
Le ragioni sono molte. Prima fra tutte il fatto che in due settimane (con tutte le casualità avverse o propizie che vi si possono addensare) si decida del 60% dell’esito di un percorso formativo durato cinque anni. All’università, per esempio, l’esame di laurea pesa in una misura molto inferiore.
Per capirsi, è teoricamente possibile che uno studente che negli ultimi tre anni di scuola superiore abbia ottenuto dieci decimi in tutte le discipline sia bocciato all’esame qualora in nessuna delle tre prove riesca ad avere più dell’equivalente di tre decimi. Non è un controsenso?
Chi scrive ha dunque letto con favorevole interesse le dichiarazioni attribuite da autorevoli organi di stampa al Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara:«La prova orale di maturità sarà solo un colloquio su quanto si è assorbito durante l’anno e sulle scelte future». Niente più domande su italiano, matematica e «preparazione disciplinare». Perciò, «gli studenti che si stanno preparando in modo stressante all’esame, stiano tranquilli». [Vedi qui]
L’esame, insomma, non è più un esame. Esso è abrogato di fatto, se non ancora di diritto. Bene, la direzione è quella giusta.
Sospinto dall’entusiasmo, sono andato a vedere cosa diceva in proposito il documento tecnico sottoscritto dallo stesso Ministro in primavera, la Ordinanza Ministeriale 45/2023. E lì, all’Art. 22, si legge:
“1. Il colloquio è disciplinato dall’art. 17, comma 9, del d. lgs. 62/2017, e ha la finalità di accertare il conseguimento del profilo educativo, culturale e professionale della studentessa o dello studente (PECUP). Nello svolgimento dei colloqui la commissione d’esame tiene conto delle informazioni contenute nel Curriculum dello studente. 2. Ai fini di cui al comma 1, il candidato dimostra, nel corso del colloquio: a. di aver acquisito i contenuti e i metodi propri delle singole discipline, di essere capace di utilizzare le conoscenze acquisite e di metterle in relazione tra loro per argomentare in maniera critica e personale, utilizzando anche la lingua straniera”.
Ne ho dedotto, poiché non posso pensare che il Ministro non legga i documenti che firma, che le dichiarazioni attribuitegli dai giornali fossero state inventate, o gravemente travisate, e che egli avrebbe provveduto a smentirle a stretto giro. Ma nessuna smentita è finora arrivata.
Per questa ragione, sento l’esigenza di provare a far arrivare al Ministro Valditara un invito ragionevolmente fiducioso a intervenire.
L’ambiguità generata dalla contraddizione tra i documenti da lui sottoscritti e le parole attribuitegli è infatti incendiaria, e ancor più lo diventerebbe se sopravvivesse irrisolta fino alle soglie dell’esame o, peggio ancora, nel cuore del suo svolgimento.
Non vi è dubbio, infatti, sul fatto che dei pubblici ufficiali – quali sono i commissari d’esame – debbano attenersi con scrupolo a ciò che viene prescritto formalmente, ovvero alla lettera dell’Art. 22 sopra citato.
D’altro canto, è altrettanto certo che la stragrande maggioranza degli esaminandi e delle loro famiglie non frequenti i documenti ministeriali e quindi possa legittimamente formarsi delle aspettative sulla base delle dichiarazioni che organi di stampa autorevoli attribuiscono a un Ministro.
Non credo sia difficile prevedere che ogni aula d’esame si trasformerebbe in un Vietnam, nel quale gli studenti e le famiglie percepirebbero di essere vittime di un’imboscata. Ne nascerebbero dei conflitti tanto certi nella loro capillarità quanto imprevedibili nelle loro conseguenze. Ricordiamo che il Ministro è così consapevole del clima ostile che circonda la categoria dei docenti e della gravità dei rischi che ne derivano da aver annunciato iniziative politiche in proposito [Leggi il comunicato e la circolare del ministro].
È un congegno che deve essere assolutamente disinnescato, o smentendo le dichiarazioni attribuite al Ministro, o almeno esplicitando in quali punti esse sono state travisate e quale sia la loro interpretazione autentica coerente con le disposizioni ministeriali.
Oppure, si potrebbe rettificare l’Ordinanza allineandone le prescrizioni al contenuto delle dichiarazioni di stampa e, magari, spiegando anche come graduare l’attribuzione dei venti punti previsti per il colloquio (l’equivalente di un anno e mezzo di lavoro a scuola) rispetto alla chiacchierata prevista.
Una terza soluzione non v’è o, meglio, sarebbe in ogni caso sintomo di una drammatica allergia alle responsabilità che l’assunzione di una carica come quella di Ministro dell’Istruzione implica.
Se incredibilmente dovesse essere questo il caso e il Ministro non volesse trarne le conseguenze per intero, lo potrebbe sempre fare per metà: tenendosi il Ministero del Merito!
In copertina: Il Ministro per l’Istruzione e Merito Giuseppe Valditara.
La lettera pubblicata di seguito è un invito ad essere attenti nella scelta delle amicizie e a riflettere bene prima di considerarsi presuntuosamente al di sopra degli altri o della legge. Chi ha scritto desiderava raccomandare ai giovani di tenere un comportamento rispettoso della legge perché, a volte, basta davvero poco per finire dietro le sbarre. Mauro Presini Lettera aperta ai giovani
di A.B.
Cari giovani, chi si sta rivolgendo a voi sono persone che, oltre ad essere dei detenuti, sono anche dei padri, dei nonni e persone che sono state giovani.
Quando eravamo giovani, la possibilità di frequentare la scuola non era alla portata di tutti e quelle poche nozioni ed informazioni si potevano apprendere solo tramite giornali.
Internet non esisteva nemmeno nella nostra immaginazione quindi quello che si poteva sapere era basato solo grazie alla semplice socialità e allo scambio di parole. Ciò che tutti noi vogliamo raccomandarvi è di cercare di fare tutto il possibile per evitare di finire nel labirinto giudiziario perché, una volta che ci siete dentro, sarà davvero complicato trovare poi la via d’uscita.
Sappiate, cari ragazzi, che in questa nazione l’impunità non esiste ed è impossibile farla franca.
Chi svolge le indagini giudiziarie per qualsiasi reato che potreste aver commesso ha a disposizione degli strumenti ed un’esperienza tale che nemmeno immaginate, ma soprattutto non lasciatevi ingannare dalla presunzione di essere più furbi della giustizia con la convinzione di poterla fare franca poiché questa possibilità non esiste ed “il delitto perfetto” oggi non è possibile che sia commesso.
Dovete sapere che per il solo fatto di essere sospettati per aver commesso un qualsivoglia reato, grazie alla cronaca che oggi monopolizza tutte le vie di comunicazione (comprese le reti internet ed i social network), in men che non si dica tutti vengono a sapere ciò che è successo.
Così viene inflitta la prima condanna mediatica senza nemmeno aspettare che la magistratura faccia il suo corso ed un giudice possa esprimersi per dichiarare l’innocenza o la colpevolezza.
Rimarrà il fatto che, per l’opinione pubblica, sarete lo stesso colpevoli di ciò per cui siete stati indagati.
Per forza di cose nell’immediatezza avrete perso diritti e dignità, non solo la vostra ma anche quella delle persone che vi circondano e dei vostri familiari considerati anche loro colpevoli di reati che non hanno commesso. Purtroppo viviamo in una società che addita le persone ed emette sentenze senza averne titolo. Il carcere è brutto, molto brutto, non c’è assolutamente nulla di bello o di positivo.
Pensate oltretutto che in carcere sarete costretti a convivere con persone che hanno compiuto reati e che potrebbero esercitare varie forme di prepotenza. Non è un caso se il carcere, da molti paragonato ad una giungla, non è sicuramente come nei film. Cari ragazzi, sappiate inoltre che se vi trovate in comitiva ed un vostro amico prende a pugni qualcuno e assistete passivamente all’episodio, voi verrete considerati complici al 100%.
Lo stesso vale per quanto riguarda quei casi in cui restate impassibili a registrare video di prepotenze e poi le pubblicate in rete come se nulla fosse. La diffusione di certi video è considerato un reato.
Quando si compra un qualsiasi prodotto falsificato si commette un reato punibile con il carcere. I prodotti falsificati, oltre a favorire le varie mafie, sono anche sorgenti di inquinamento in quanto vengono fatti con materie prime di basso costo e in particolare quando trattasi di prodotti che hanno uno stretto contatto con il vostro corpo, tipo occhiali o cuffiette o abbigliamento, sembra che possano danneggiare il vostro corpo in quanto il materiale che viene usato probabilmente non è a norma di legge.
Ragazzi, ragazze, cercate sempre di essere molto vigili quando siete alla guida di una bici, di uno scooter o di un’auto. La vita è bella, molto bella e delicatissima, ma basta una piccola disattenzione per renderla un incubo.
Si chiama Astrolabio il giornale della Casa Circondariale di Ferrara. Ed è un progetto editoriale che, da qualche anno, coinvolge una redazione interna di persone detenute insieme a persone ed enti che esprimono solidarietà verso la realtà dei detenuti. Il bimestrale realizza il suo primo numero nel 2009 e nasce dall’idea di creare un’opportunità di comunicazione tra l’interno e l’esterno del carcere. Uno strumento che dia voce ai reclusi e a chi opera nel e per il carcere, che raccolga storie, iniziative, dati statistici, offrendo un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali.
Per leggere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica.
In copertina : Detenuti impegnati nel flash mob “Pope is Pop” (Carcere di Ferrara, 2016)
Manuel Agnelli sul palco del Teatro Comunale di Ferrara con l’opera rock Lazarus di David Bowie ed Enda Walsh, regia di Valter Malosti
Voltati e affronta l’ignoto. (Turn and face the strange)
Dopo la prima nazionale al teatro Bonci di Cesena lo scorso mese di marzo, e molte tappe intermedie in giro per l’Italia, dal’1 al 3 giugno, è arrivato al Teatro Comunale di Ferrara “il regalo d’addio di David Bowie al mondo”, Lazarus, uno straordinario e potentissimo pezzo di “teatro musicale”, scritto dall’artista poco prima della sua scomparsa insieme al drammaturgo irlandese Enda Walsh.
Lazarus artwork di Gavin Evans
La regia è di Valter Malosti, direttore di ERT / Teatro Nazionale, che ne ha curato la versione italiana confrontandosi con lo stesso Walsh. Nel ruolo del protagonista Thomas Jerome Newton uno dei nomi di punta della musica italiana, il versatile e potente Manuel Agnelli, cantautore e storico frontman degli Afterhours, affiancato dalla cantautrice e polistrumentista vincitrice della XIV edizione di X-Factor ItaliaCasadilego e dalla coreografa e danzatrice Michela Lucenti. Un ricco castdi 11 interpreti di talento: Dario Battaglia, Attilio Caffarena, Maurizio Camilli, Noemi Grasso, Maria Lombardo, Giulia Mazzarino, Camilla Nigro, Isacco Venturini; e 7 musicisti, tra i migliori della scena musicale italiana: Laura Agnusdei, Jacopo Battaglia, Ramon Moro, Amedeo Perri, Giacomo Rossetti, Stefano Pilia, Paolo Spaccamonti.
Manuel Agnelli, Casadilego, Valter Malosti, foto Laila Pozzo
Malato, ma nel pieno della sua creatività e genialità, l’elegante e aristocratico “Duca Bianco”,definito dalla BBC come “il più grande intrattenitore del ventesimo secolo”, ha lasciato al suo pubblico una navicella spaziale lanciata verso il futuro, frutto della speranza, che, insieme al suo album Blackstar uscito due giorni prima della sua morte, è da considerarsi il suo testamento creativo.
E proprio con Elvis Presley che, sullo sfondo di una televisione sempre accesa che sa di passato e futuro canta il suo Black Star, inizia lo spettacolo. Quella stella nera, la morte, che porta subito al Blackstar di Bowie uscita l’8 gennaio 2016, un giorno di compleanno condiviso con Elvis.
Every man has a black star / a black star over his shoulder / And when a man sees his black star / He knows his time, his time has come.
Newton è solo, sprofondato su una poltrona nella penombra del suo appartamento. Una piccola stella nera al collo, un teschio sul tavolino, una tuta da astronauta.
Manuel Agnelli in Lazarus, foto di Fabio Lovino
Proprio quest’ultimo elemento riporta subito alla mente il romanzo originale del 1963, da cui la pièce prende spunto, The Man Who Fell to Earth di Walter Tevis (lo stesso autore del libro che ha dato origine alla fortunata serie televisiva La regina degli scacchi), el’omonimo film di Nicholas Roeg, che ha visto Bowie nei panni di attore.
È l’infelice storia del migrante interstellare Newton, costretto a rimanere sulla Terra, prigioniero sempre più isolato nel mondo, chiuso in uno spazio angusto, in preda alla depressione e vittima dei suoi fantasmi e della dipendenza dal gin: un moribondo che non riesce a morire.
In questa situazione disperata, Newton riceve segnali dal passato attraverso la TV, capta visioni del futuro generate dalla sua mente, mescola realtà e sogni ad occhi aperti. Vari personaggi – forse fantasmi o forse sue proiezioni mentali un poco deliranti – si aggirano nello spazio claustrofobico del suo appartamento, buio e opprimente, pieno di oggetti (o nel continuum devastato della sua mente?).
Una pedana rotante, che fa intuire subito l’instabilità mentale del protagonista, fa da palcoscenico ad Agnelli e ai suoi compagni di viaggio che intonano le canzoni di Bowie con una passione che travolge fin dalla prima nota.
Dario Battaglia, Michela Lucenti in Lazarus, foto Fabio Lovino
La band, composta da sette elementi, si integra perfettamente nella scenografia ed è potente nella realizzazione dei diciassette brani che compongono la colonna sonora dello spettacolo. Si può anche ascoltare la voce di Bowie direttamente in scena, in due diversi momenti (il grido “shut up!” al termine di It’s No Game e un frammento di D.J. durante uno dei momenti clou).
Troneggia lo stesso Duca, è presente con forza, è (forse) la storia della mente di un uomo che va in frantumi durante i suoi ultimi momenti di vita. Newton è chiaramente David Bowie, ma potrebbe essere anche ognuno di noi (nella locandina originale si evidenziavano le lettere US di Lazarus).
Casadilego in Lazarus, foto Fabio Lovino
Giunto al termine della sua esistenza terrena, come l’artista (e si vede nelle battute dei personaggi), “l’uomo che cadde sulla terra” subisce un tiro mancino da parte della sua psiche devastata: l’illusione di una possibilità di fuga, la costruzione dal nulla di un razzo che lo riporterà tra le stelle. La speranza, quella che, alla fine, guida. I fantasmi che gli fanno visita sono proiezioni della sua mente lì per far emergere i ricordi dei momenti più disparati della sua vita.
E così Lazarus, opera incompiuta, diventa una collezione di frammenti di memoria intensi e futili, quasi alla rinfusa, dove la figura dell’alieno rappresenta tutti i “diversi”, o meglio quelli che la società considera tali.
Manuel Agnelli in Lazarus, foto Fabio Lovino
“Bowie – afferma Malosti – era un’antenna sensitiva dello spirito del tempo e delle arti, percepiva umori e atmosfera, e poi digeriva e rimescolava tutto in una sintesi geniale, direi alchemica, visto il suo interesse per questa materia, in cui l’androginia e l’energia dionisiaca fanno esplodere l’interiorità e l’identità in mille frammenti e altrettante maschere”.
“Alla luce della sua morte – prosegue il regista – tendiamo a leggere tutto ciò che Bowie ha creato nei suoi ultimi anni come allegoria autobiografica, specialmente quando ci viene data una serie di indizi come quelli di Lazarus. Ma Bowie, come sempre nelle sue creazioni e nei suoi alter ego, usa la persona di Newton, mobilitandola come veicolo per una serie di temi costanti che troviamo nella sua musica: l’invecchiamento, il dolore, l’isolamento, la perdita dell’amore, l’orrore del mondo e la psicosi indotta dai media. Newton è allo stesso tempo Bowie e non è Bowie”.
Bravissimo Manuel Agnelli, alla sua prima prova come attore, dalle performance canore che portano a immensa empatia, belle sorprese quelle di Casadilego nei panni di Marley, e di Dario Battaglia, che impersona un Valentine che ricorda Andy Warhol. Chiude il quartetto dei protagonisti Michela Lucenti nei panni di Elly, l’assistente di Newton posseduta da Mary Lou, vecchio amore del protagonista, perfetta nel rendere palese la follia del personaggio con i movimenti sciolti del corpo.
Manuel Agnelli, Camilla Nigro in Lazarus foto di Fabio Lovino
Tantissimi gli applausi per questa compagnia che propone un prodotto al di fuori degli schemi comuni, in grado di toccare le corde del grande pubblico. Perché, come ha detto Manuel Agnelli durante l’incontro con il pubblico, bisogna avere coraggio di proporre altro, quell’altro che, se gli viene dato adeguato spazio, è in grado di raggiungere tutti. Davvero tutti.
Complimenti, allora, per questo saper osare.
Playlist: Lazarus / It’s No Game / This Is Not America / The Man Who Sold the World / No Plan / Love Is Lost / Changes / Where Are We Now? / Absolute Beginners / Dirty Boys / Killing a Little Time / Life on Mars? / All the Young Dudes / Sound and Vision / Always Crashing in the Same Car / Valentine’s Day / When I Met You / Heroes.
Una produzione esecutiva di Emilia-Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale realizzata insieme a importanti Teatri Nazionali: Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro di Roma – Teatro Nazionale e al LAC Lugano Arte e Cultura.
Il testo della versione italiana di Valter Malosti sarà pubblicato con la Nave di Teseo/Baldini di Elisabetta Sgarbi.
Interpreti / Personaggi: Manuel Agnelli – Newton; Casadilego – Ragazza, poi Marley; Michela Lucenti – Elly; Dario Battaglia – Valentine; Attilio Caffarena – Michael; Maurizio Camilli – Zach; Noemi Grasso, Maria Lombardo, Giulia Mazzarino, coro delle Teenager; Camilla Nigro – Maemi / Donna giapponese; Isacco Venturini – Ben / Il doppio di Newton; in video Roberta Lanave Mary-Lou
LAZARUS, di DAVID BOWIE e ENDA WALSH
ispirato a The Man Who Fell to Earth (L’uomo che cadde sulla terra) di Walter Tevis. Versione italiana Valter Malosti
Uno spettacolo di VALTER MALOSTI, con MANUEL AGNELLI, CASADILEGO, MICHELA LUCENTI, DARIO BATTAGLIA e (in o.a.) Attilio Caffarena, Maurizio Camilli, Noemi Grasso, Maria Lombardo, Giulia Mazzarino, Camilla Nigro, Isacco Venturini
la band (in o.a.) Laura Agnusdeisax tenore e sax baritono, Jacopo Battagliabatteria, Ramon Morotromba e flicorno, Amedeo Perritastiere e synth, Giacomo “ROST” Rossettibasso, Stefano Piliachitarra, Paolo Spaccamonti chitarra
Progetto sonoro GUP Alcaro; scene Nicolas Bovey; costumi Gianluca Sbicca; luci Cesare Accetta; video Luca Brinchi e Daniele Spanò; cura del movimento Marco Angelilli; coreografie Michela Lucenti; cori e pratiche della voce Bruno De Franceschi; maestro collaboratore Andrea Cauduro; assistenti alla regia Jacopo Squizzato, Letizia Bosi; direttore tecnico Massimo Gianaroli; direttore di scena Lorenzo Martinelli / Stefano Orsini; macchinista Riccardo Betti; fonici Angelo Longo, Nicola Sannino, Giacomo Venturi; datore luci Umberto Camponeschi; sarta Eleonora Terzi; trucco e parrucco Nicole Tomaini; foto di scena Fabio Lovino
Se cerchiamo la parola solidarietà in un dizionario, questa è la spiegazione: la solidarietà è un sentimento di fratellanza, di aiuto materiale e morale tra le persone di un gruppo, di una collettività. Oggi “solidarietà” è un termine inflazionato soprattutto nelle dichiarazioni della politica, in occasione di calamità (vedi la partecipazione a sostegno dei cittadini colpiti nel corso della recente alluvione), ma resta estraneo quando si tratta di gestire un Paese garantendo a tutti condizioni di vita accettabili.
Si ritorna alla seconda parte dell’articolo n° 3 della Costituzione“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
“Garantire tale dettato della Costituzione significa dare fondo al sentimento della solidarietà, proposto in teoria con la leva della fiscalità ma nella realtà non pianamente realizzato a causa di una tolleranza colpevole nei confronti della elusione e della evasione fiscale, di un sistema di distribuzione della fiscalità inadeguato che salvaguarda le rendite e i patrimoni acquisiti nel passato”, scrivevamo in un Blog del CDS del mese scorso.
Come si esprime la solidarietà in una nazione? Insieme alle testimonianze verbali, alle dichiarazioni di sostegno morale, alle manifestazioni più o meno folcloristiche quelli che contano sono gli atti concreti, come ci indica la Costituzione e qui non è possibile fraintendere perché esiste solo la leva fiscale per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”.
E qui nel nostro Paese si verifica un blocco che impedisce la realizzazione di questo dettato, vengono premiate tutte le proposte che eludono tale obiettivo come i condoni, la carente lotta all’evazione fiscale, il sostegno alle elusioni, la solidarietà con i piccoli evasori (le tasse considerate “pizzini di Stato”), l’applicazione della flat tax e neppure è presa in considerazione una reale riforma fiscale progressiva, una tassa patrimoniale per i super ricchi, una seria imposta di successione, considerate scelte quasi eversive.
Sono gli stessi ceti medi o medio-bassi che solidarizzano nei fatti con i super ricchi e bocciano, nelle elezioni e nei consensi (anche se non vengono penalizzati), proposte che negli altri paesi europei sono considerate segno di civiltà.
Osservazioni come quella che … i venti cittadini più ricchi in Italia possiedono beni pari a quelli dei dieci milioni più poveri sono banalizzate, non scuotono le coscienze, come se tale ingiustizia fosse effetto del destino.
Persino il Fondo Monetario Internazionale ha fatto notare come negli ultimi decenni i più ricchi in Italia abbiano usufruito di basse tasse nel nostro Paese, suggerendo di aumentare la progressività dei prelievi fiscali per compensare almeno in parte l’ulteriore incremento delle diseguaglianze causato dalla pandemia nei confronti dello stato sociale, sanità, istruzione, ecc.
Un esempio è fornito dall’imposta di successione, una tassa che si applica ai beni ricevuti in eredità, introdotta nel 1862 come tassa «liberale» da Camillo Benso, Conte di Cavour, … non proprio un rivoluzionario, con lo scopo di combattere la rendita e promuovere la mobilità sociale. In Italia, purtroppo nel tempo tale imposta ha perso valore e il risultato è che il gettito dell’imposta ora è piuttosto modesto. Secondo i dati dell’OCSE, il gettito derivante da tale imposta in Italia è stato pari a soli 820 milioni di euro nel 2018, ovvero lo 0,05 per cento del Pil.
Tassa di Successione in Italia e in altri Paesi: dati OCSE 2018 – blog del deputato Claudio Cominardi.
Si tratta di una cifra lontana da quanto incassato negli altri principali paesi europei, come riportato da Huffpost. In Francia, per esempio, nel 2018 il gettito dell’imposta su successioni e donazioni è stato pari a 14,3 miliardi di euro, in altre parole, quasi tredici volte il gettito italiano in rapporto al Pil, con 6,8 miliardi di euro troviamo invece la Germania, il Regno Unito è a 5,9 miliardi di euro al cambio del 2018 e la Spagna a 2,7 miliardi di euro, tutti paesi che riescono a incassare quasi cinque volte l’Italia (sempre in rapporto alle dimensioni dell’economia).
Per capire meglio questa differenza può essere utile fare un esempio. Consideriamo un’eredità del valore netto di 1 milione di euro lasciata da un genitore al proprio figlio: quante imposte dovrebbero essere pagate su questo trasferimento? In Italia la franchigia di 1 milione è sufficiente a evitare completamente l’imposizione, mentre negli altri paesi non è così: in Spagna l’imposta ammonterebbe a circa 335.000 euro, in Francia a 270.000 euro, nel Regno Unito a 245.000 euro e in Germania a 115.000 euro.
Conosciamo tutte le obiezioni sollevate dagli ‘esperti’: a) la predisposizione di una nuova imposta, in questo caso un’imposta patrimoniale, fornisce un alibi di risorse aggiuntive per alimentare la spesa pubblica, b) la ricchezza dei veri ricchi è principalmente finanziaria e spesso si annida in strutture societarie opache come trust e fondazioni collocati in paradisi fiscali più o meno esotici, c) occorre ricordare il lato pubblico delle rendite cioè quelle rendite fiscali create dalla spesa pubblica, ecc.
Embè, anche se tali obiezioni avessero una base di verità, cosa ci sta a fare la politica? In una democrazia il ruolo dei partiti è anche quello di modificare le regole che si rivelano sbagliate.
E gli italiani, perché corrono in soccorso a chi perpetua le differenze?
Nota: questo articolo è già uscito con altro titolo il 2 giugno 2023 sul Blog del CDS Cultura.
Una sera
Tante donne
raccontano
Raccontano cose
Terrificanti
Iran
Afghanistan
Donne chiuse
Senza voce
Belucistan
All’uranio
Iran
I gas a scuola
Le frustate
La forca
Gli ayatollah
La violenza
Dei pasdaran
La forca
Di nuovo
Tutti zitti
I contratti
Gli affari
Si fanno
In silenzio
Una serata
Di donne iraniane
Raccontano
Hanno bisogno
Di noi
Tante donne
Testimoni
Della rivolta
Ancora una
Volta
Ogni domenica Periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca[Qui]
Uomini e sogni siamo d’una fibra
E in noi sgranano i sogni le pupille
Come bambini all’ombra dei ciliegi,
E alza la luna sulle cime il corso
D’oro pallido per la vasta notte.
… Affiorano così dal fondo i sogni
E vivono come un bimbo che ride,
Avanti a noi, grandi nell’onda alterna
Come la luna desta dalle cime.
Penetrano le vene più profonde;
Come mani di spettri in una stanza
Hanno dimora e vita in noi perenne.
Ed una cosa è l’uomo, l’astro e il sogno.
(Hugo von Hofmannsthal, Narrazioni e poesie, Mondadori, Milano 1989, 33).
Non finzione, evanescenza notturna, né inutile ombra di un astro lontano. Il sogno, nella poetica di Hofmannsthal, è coscienza viva di come nel presente si nasconda sempre l’ignoto, al cui apparire potrebbe mutarsi tutto: «questo è un pensiero che dà le vertigini, ma che consola», così egli scrive ne Il libro degli amici.
Poiché di un’unica fibra son fatti uomini e sogni, affiorando dal profondo, dimorano nella vita, penetrando in essa. Convivono nel sorriso dei piccoli, sono davanti come mani di occhi neonati sgranati nell’ombra dei ciliegi, come luna che sale dalle cime segnando con ombroso lume la vasta notte perché «una cosa è l’uomo, l’astro e il sogno».
L’ignoto: un estraneo sulla strada
Anche nel sogno di papa Francesco, quello affiorante nella sua lettera Fratelli tutti (3 ottobre 2020), si nasconde l’ignoto, lo sconosciuto, il samaritano della parabola evangelica, anima spirituale e cuore del suo testo. L’Ignoto accade, come quella volta sulla via che va da Gerusalemme fin nello sprofondo di Gerico. Viene incontro non senza speranza pur tra ombre di un mondo chiuso, indifferente, dove molti passano oltre. Lo straniero avanza come opportunità di un mutamento possibile, di un ribaltamento delle sorti, sia per la comunità ecclesiale sia per quella umana.
Nella lettera del Papa si descrive lo scenario del presente: sogni che vanno in frantumi, diritti umani non sufficientemente universali, perdita della coscienza storica, dignità umana smarrita alle frontiere, globalizzazione e progresso prive di una rotta comune, conflitto e paura, aggressività, informazione senza saggezza, e tuttavia «malgrado queste dense ombre, che non vanno ignorate, nelle pagine seguenti desidero dare voce a tanti percorsi di speranza. Dio infatti continua a seminare nell’umanità semi di bene».
L’ignoto come speranza «ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore» (nn. 54-55).
Per papa Francesco il male più grande oggi è l’esclusione sociale. Per questo ci ha consegnato questa enciclica sociale «come un umile apporto alla riflessione affinché, di fronte a diversi modi attuali di eliminare o ignorare gli altri, siamo in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole» (n.6).
Fraternità e amicizia sociale
Quello sognato da papa Francesco non è cosa nuova, è un sogno che viene da lontano, si intreccia con il sogno del Poverello di Assisi, rilancia pure quello di fratel Charles de Foucauld, il fratello universale, ma molto prima penetra le vene più profonde delle parabole del Regno. L’Ignoto, colui che nessuno ha mai visto, dimora tuttora nei sogni e nelle parabole rivolte dal Figlio dell’uomo ai suoi fratelli.
Affiorano così dal fondo della umanità i sogni del Figlio amato come quelli di Giuseppe, il sognatore, il figlio prediletto di Giacobbe, che sognava futuro contro ogni futuro, anche per i suoi fratelli che avrebbero provato a negarglielo calandolo in un pozzo vuoto per venderlo poi ai mercanti come schiavo in Egitto. Ma l’Ignoto, dimorante anche in quel pozzo come tanti sogni sepolti e dissolti nel nulla, avrebbe cambiato tutto per Giuseppe e i suoi fratelli, per Gesù e per i suoi amici.
«C’è un riconoscimento basilare, essenziale da compiere – incalza papa Francesco – per camminare verso l’amicizia sociale e la fraternità universale: rendersi conto di quanto vale un essere umano, quanto vale una persona, sempre e in qualunque circostanza. Se ciascuno vale tanto, bisogna dire con chiarezza e fermezza che il solo fatto di essere nati in un luogo con minori risorse o minor sviluppo non giustifica che alcune persone vivano con minore dignità. Questo è un principio elementare della vita sociale, che viene abitualmente e in vari modi ignorato da quanti vedono che non conviene alla loro visione del mondo o non serve ai loro fini» (n. 106).
L’amicizia sociale si costruisce per papa Francesco da un continuo incontro con le differenze ed implica un dialogo costante.
La fraternità aperta a tutti e l’amicizia sociale costituiscono all’interno di ogni società due poli inseparabili di coesione e indispensabili a salvaguardare e promuovere la dignità delle persone e dei popoli. Separarli provoca polarizzazioni riduttive e deformanti, che lacerano il comune modo di vivere e si frappongono alla realizzazione dell’unica appartenenza umana:
«Se non riusciamo a recuperare la passione condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare tempo, impegno e beni, l’illusione globale che ci inganna crollerà rovinosamente e lascerà molti in preda alla nausea e al vuoto. Inoltre, non si dovrebbe ingenuamente ignorare che l’ossessione per uno stile di vita consumistico, soprattutto quando solo pochi possono sostenerlo, potrà provocare soltanto violenza e distruzione reciproca» (n.36).
Così papa Francesco indica come pietra angolare, su cui costruire insieme la comunità umana e il consenso di tutti, il riconoscimento della dignità assoluta di ogni essere umano e lo fa cercando di universalizzare la fraternità a partire da una prospettiva e impegno di amicizia sociale.
La vicinanza d’amore che rende amici
Già nel 2011, ancora cardinale, Bergoglio ricordava in un discorso intitolato Dio nella città che «lo sguardo d’amore non discrimina né relativizza perché è sguardo d’amicizia. Gli amici si accettano così come sono e gli si dice la verità.
È anche questo uno sguardo comunitario. Porta ad accompagnare, a riunire, ad essere qualcuno in più al fianco degli altri cittadini. Questo sguardo è la base dell’amicizia sociale, del rispetto delle differenze, non solo economiche, ma anche ideologiche. È anche la base di tutto il lavoro del volontariato. Non si può aiutare chi è escluso se non si creano comunità inclusive».
Grazie all’amicizia la fraternità può aprirsi oltre i confini e le appartenenze esclusive e radicarsi profondamente nella vita sociale e politica. Aiuta a pensare e generare un mondo aperto. Ciò che la caratterizza è l’amore per l’altro in quanto tale, essa si esprime come un’uscita della persona verso l’altro in libertà e dedizione.
Scrive papa Francesco: «Siamo fatti per l’amore e c’è in ognuno di noi una specie di legge di “estasi”: uscire da se stessi per trovare negli altri un accrescimento di essere. Perciò in ogni caso l’uomo deve pure decidersi una volta ad uscire d’un balzo da se stesso» (n. 88).
Il valore della dignità umana viene accresciuta se la guardiamo con gli occhi dell’amicizia; l’altro vale non solo in ragione della giustizia della misericordia in quanto fratello e pari nell’umanità ma si accresce se l’altro ha pure la dignità di amico.
La vicinanza che rende amici ci permetterà di apprezzare profondamente anche i valori, la fede dei poveri di oggi: «l’opzione per i poveri deve portarci all‘amicizia con i poveri… Alla luce del Vangelo riconosciamo la loro immensa dignità e il loro valore sacro agli occhi di Cristo, povero ed escluso come loro e insieme a loro. A partire da questa esperienza di credenti, condivideremo con essi la difesa dei loro diritti» (n. 234).
Architettura nel segno dell’amicizia sociale
L’architettura come l’amicizia sociale può divenire un “agente di cambiamento”. È questo il messaggio che ci viene da quel “laboratorio per il futuro” che vuol essere la Biennale di Architettura 2023, dal 20 maggio al 23 novembre 2023 a Venezia.
La 18a Mostra Internazionale di Architettura si è focalizzata “sull’Africa e sulla sua diaspora”. All’evento partecipa anche il Dicastero vaticano per la Cultura e l’Educazione con un padiglione espositivo nell’abbazia dell’Isola di san Giorgio maggiore.
L’Amicizia sociale: incontrarsi nel giardino è il tema che è stato proposto dagli organizzatori per rilanciare le prospettive di una cultura dell’incontro così come è stata declinata nelle lettere encicliche Laudato si’ (2015) e Fratelli tutti (2020).
Il presidente della biennale Roberto Cicutto ha dichiarato che «un laboratorio del futuro non può prescindere da un punto di partenza preciso, da una o più ipotesi in cerca di verifica… È un punto di partenza che invoca l’ascolto di fasce di umanità lasciate fuori dal dibattito, e apre a una molteplicità di lingue zittite per molto tempo da quella che si considerava dominante di diritto in un confronto vitale e improcrastinabile. Io credo che questo sia il vero compito della Biennale di Venezia come istituzione, e non solo per quanto riguarda l’architettura».
La curatrice Lesley Lokko ha ricordato che «per la prima volta, i riflettori sono puntati sull’Africa e sulla sua diaspora, su quella cultura fluida e intrecciata di persone di origine africana che oggi abbraccia il mondo… Spesso si definisce la cultura come il complesso delle storie che raccontiamo a noi stessi, su noi stessi. Sebbene sia vero, ciò che sfugge a questa affermazione è la consapevolezza di chi rappresenti il “noi” in questione.
Nell’architettura in particolare, la voce dominante è stata storicamente una voce singolare ed esclusiva, la cui portata e il cui potere hanno ignorato vaste fasce di umanità – dal punto di vista finanziario, creativo e concettuale – come se si ascoltasse e si parlasse in un’unica lingua. La “storia” dell’architettura è quindi incompleta. Non sbagliata, ma incompleta. Ecco perché le mostre sono importanti» (ivi).
Fare un passo indietro
Un passo indietro può essere la condizione di molti passi avanti, un’opportunità per coinvolgere tutti, per cambiare un limite in opportunità di ascolto dei territori e di coloro che li abitano.
Il coraggio di “far fare un passo indietro all’architettura”: questo l’invito del poeta e cardinale portoghese Josè Tolentino de Mendonça dal 2022 prefetto del Dicastero per la Cultura.
Il suo motto episcopale è un passo poetico del vangelo nel discorso delle Beatitudini: Considerate lilia agri, è l’invito ad osservare contemplando come crescono i gigli del campo. Egli ha voluto così sottolineare la necessità di un cambio di paradigma, sollecitando un’architettura che guardi alla modestia, preferendo la pratica di gesti semplici, prendendo spunto dall’uso quotidiano familiare e dal modello meditativo di vita monastica per vivere la globalità come un ambiente più familiare e domestico.
L’architettura, quindi, come luogo di quiete, di riflessione, di interiorità, in grado di favorire in chi la vive la capacità di accorgersi anche delle piccole cose, di quelle nascoste e partecipare a quelle situazioni, relazioni e azioni meno appariscenti o date per scontate e tuttavia portatrici di senso: profetiche. Per questo nel giardino del monastero di San Giorgio la disposizione delle coltivazioni è stata posta in relazione con gli elementi della natura: sole, terra, aria, acqua.
Architettura del mondo come esercizio di responsabilità
«Può sembrarci una categoria insolita quella dell’“amicizia sociale” – scrive Josè Tolentino de Mendonça – siamo abituati a declinare l’amicizia come una categoria personale e privata e, per parlare delle relazioni nella società, ricorriamo a termini più generali come rispetto, solidarietà, civismo, cittadinanza.
Riserviamo la parola “amicizia” alla cerchia elettiva dei nostri affetti, cosa peraltro consigliata da varie tradizioni sapienziali a partire da quella biblica. Ma la proposta del Papa prende le mosse dalla situazione del nostro tempo, in cui la globalizzazione ci ha resi vicini ma non fratelli…. Come si legge nell’enciclica, «certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una selezione che favorisce un settore umano» a scapito di un altro (Fratelli tutti, n. 18).
L’“amicizia sociale” è un tentativo di invertire questa situazione. La sfida che ci lancia Francesco è ad andare “oltre”… L’ “amicizia sociale” è una categoria da inquadrare nell’ambito della fraternità, di una compassione attiva e della pratica concreta della speranza. E ci chiede di progettare l’architettura del mondo come esercizio di responsabilità, invece che come normalizzazione dell’egoismo e dell’indifferenza.
Il papavero e il monaco
Un libro di haiku è quello scritto di recente da Josè Tolentino de Mendonça; questo genere poetico è infatti un invito a guardare, mettersi in ascolto, facendo silenzio affinché altri prendano la parola, o semplicemente si ascolti il loro silenzio che parla linguaggi differenti.
Il tutto, come ci ricorda l’autore, favorito dal fatto che «l’haiku non descrive ma fa apparire l’altro, si presenta come un’istantanea che cattura il flagrante e l’implicito, la meraviglia e la tensione interni alla vita» (Il papavero e il monaco, Quiqajon, Bose [Bi] 2022, 17).
Scrivere haiku è allora come fare un passo indietro per seguire e lasciarci guidare da altri passi: «I passi che ascolto / non si dirigono verso di me», qui l’io non è più misura di tutte le cose; vi è un cambio di paradigma, dall’introversione all’estroversione; l’io si fa discepolo di un tu che cammina oltre.
Sia tale il tuo silenzio
che neppure il pensiero può pensarlo
Far tacere per far dire:
paradossale ingiunzione
il silenzio parla di se stesso;
La primavera a ronzare
Con i suoi occhi azzurri di papavero:
belle e nuove le vesti di Dio
L’estate
insegna la stessa preghiera
al papavero e al monaco
Oggi le nuvole sembrano
monaci che prendono il tè
in silenzio
Vuoi sapere che cosa prego quando prego?
tronchi secchi, ramoscelli
recinzioni e creta rossa
Chiedi quanto devo pregare?
Il papavero sulla collina
È sempre rosso
Adorare
è sorprendere Dio
nella più piccola briciola
In Dio tutto si assomiglia:
la tua preghiera e il canto
della rana
Quel che a parole è nascosto
Nel silenzio crepita
Più intimo
Azzurra la luna
si alza sopra i tetti
e la citta con lei
Ora resta soltanto
che tu diventi
poesia
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.
Tutti gli amici e le amiche, i compagni di viaggio e di lotta di Daniele Lugli, i gruppi e le associazioni che l’hanno visto impegnato, chiunque voglia lasciare un suo ricordo, possono inviarlo a: direttore@periscopionline,it
Come Coordinamento Provinciale di Libera abbiamo appreso con dolore e con sconcerto dell’improvvisa scomparsa del caro Daniele Lugli, che è stato fra i fondatori del nostro gruppo ed il nostro primo referente. Siamo vicini ai suoi famigliari e agli amici del Movimento Nonviolento, ai quali rivolgiamo un forte e caloroso abbraccio, e ci uniamo ai tanti messaggi di condoglianze da parte dei molti che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e di condividere con lui un tratto di strada.
Ti immagino in cammino, con gli amici di sempre al tuo fianco, seguito da tutti coloro che, in questi lunghi anni di tua militanza nonviolenta al servizio della collettività, ti hanno conosciuto ed apprezzato. Ci siamo conosciuti, Daniele, a metà degli anni novanta del secolo scorso. Con alcuni amici cercavamo di far conoscere Libera, appena nata a livello nazionale, sul territorio regionale e farle mettere radici. A Ferrara ci hai accolto, consigliato, fatto conoscere. La nostra storia, a Ferrara, inizia con il tuo incontro. Sei stato il nostro primo Referente, fino al Maggio del 2008, quando sei diventato il Difensore Civico della Regione Emilia Romagna. Ricordo che, allora, sei venuto nel mio ufficio, a Bologna, per darmi la bella notizia. Ora siamo in cammino, dietro di te, fra i tanti che piangono la tua scomparsa. Buon cammino Daniele, qualunque esso sia e dovunque esso ti porti! Daniele Borghi
Referente di Libera Emilia Romagna
Ho votato Daniele come primo Referente per il Coordinamento di Ferrara di Libera Associazioni, nomi e numeri contro le mafie. L’ho fatto 16 anni fa con la stessa fiducia con la quale lo rifarei oggi. Perché Daniele, per la persona che era e per la sua storia, possedeva tutte le qualità necessarie per fondare e guidare il nostro Coordinamento. Per dare spinta, visione e direzione, aggregando individui e realtà associative diverse, essendo naturalmente coerente con l’insieme di valori alla base di Libera. Ha continuato a farlo, con pacata autorevolezza, sino al momento in cui, prima ancora che qualcuno potesse porre la questione, ha ritenuto opportuno fare un passo indietro, mettendo le sue competenze al servizio dei cittadini emiliano-romagnoli come Difensore Civico. Mi e ci mancherà il confronto con lui, la sua voce, anche “fuori dal coro”, il suo supporto e la sua amicizia. Donato La Muscatella
Referente di Libera Ferrara
Ho conosciuto Daniele quando ho iniziato la mia attività di volontariato nel Coordinamento di Ferrara di Libera: una sorta di saggia guida, anche se forse a lui questa espressione non sarebbe piaciuta. Solo in seguito, quando ho scoperto del Movimento Nonviolento e di tutto il resto, ho capito che Libera era solo uno dei tanti tasselli attraverso i quali ha speso le sue energie per la comunità, intesa nel senso più ampio, tanto che forse sarebbe meglio dire le comunità. Mi e ci ha insegnato tanto, ci mancheranno la sua onestà, la sua integrità e soprattutto la sua credibilità, la sua mitezza e, come ha detto una volta, la sua ‘calma fermezza’. Ciao Daniele, tu sicuramente hai seminato tanto e bene, ora sta a noi continuare a coltivare nel tuo solco. Federica Pezzoli
Co-referente di Libera Ferrara
Grande festa di chiusura della scuola Cpia, sabato 3 giugno, ore 18.30 in Piazza Cattedrale a Ferrara dove si esibirà il gruppo teatrale della scuola statale per adulti STRALIANI THEATRE, con lo spettacolo “ QUESTO SONO IO” diretto dal regista Massimiliano Piva.
Ogni scuola festeggia a proprio modo la fine delle attività didattiche ma il Cpia, in cui l’utenza è in maggioranza adulta e straniera, lo fa con una grande festa di piazza invitando la città intera.
Per il gruppo Straliani Theatre, composto da studenti e docenti del Cpia, stranieri e italiani, si tratta orami di un lungo percorso di attività iniziato nell’anno scolastico 2016-2017 messo in scena nel laboratorio teatrale che si svolge durante l’anno scolastico. Dopo il successo di “Dove comincia l’ascolto, messo in scena nonostante la pandemia.
La serata di festa vede un notevole coinvolgimento di tutte le componenti della scuola Cpia, infatti il materiale scenografico è stato prodotto dal laboratorio di falegnameria attivato presso il Carcere di Ferrara, in cui il Cpia gestisce i corsi di istruzione dall’alfabetizzazione primaria fino alla fine dell’obbligo scolastico.
Spazio dunque ai talenti dei propri studenti, anche in ambito musicale con lo studente togolese Zambè, coreografo e musicista che, chiuderà la festa invitandoci a ballare al ritmo dei suoi travolgenti tamburi africani.
In caso di maltempo il Comune ha concesso lo svolgimento dell’evento al riparo della Galleria Matteotti.
Paola ci accolse in una grande sala, con le sedie predisposte in cerchio. Ci spiegò poi che il cerchio era una forma che facilitava l’inclusività e la reciprocità. Permette di vedersi in faccia e di trovarsi lungo un immaginario filo che collega tutte e tutti.
Questa disposizione favorisce alcuni tipi di riunione, come quella che aveva in mente.
Cosa vi muove? Perché siete qui?
Ci propose di raccogliere le motivazioni che ci avevano portati ad entrare nel gruppo su un grande cartellone. Lo chiamò “il Guardiano”.
Lo avremmo ritrovato ogni volta, silenzioso, ad attenderci e a ricordarci i motivi profondi del nostro agire assieme. Ci avrebbe ricordato la posta in gioco.
Paola faceva di mestiere la facilitatrice e ci spiegò che, nelle fasi iniziali in cui un gruppo si forma, è importante condividere le motivazioni ideali e profonde, quelle che spesso si danno per scontate. Mentre parlava, andavo con la memoria a tante riunioni che avevo frequentato e mii rendevo conto che sono frequentemente caratterizzate da un confronto di idee, pensieri o cose da fare ed organizzare. Più difficile stare sui perchè.
Che erano motivi basati su bisogni profondi lo capimmo subito.
Ci sedemmo in cerchio e ciascuno fu invitato a rispondere alla domanda: Perchè sei qui?
L’invito era di connettersi con la propria “pancia”, con la parte più emozionale di quelle motivazioni, lasciando per un attimo in stand by la testa.
Non era mica facile. Ci stava chiedendo esprimere i propri sentimenti e non le proprie idee. Non siamo abituati.
Stefania prese subito la parola, quasi non aspettasse altro e, tutto d’un fiato e con molta emozione disse: “Sentire di aver finalmente trovato persone con cui condividere l’ansia e la preoccupazione per la crisi climatica e quello che comporterà nella nostra vita e soprattutto nella vita dei nostri figli, mi dà sollievo e conforto. Sono anni che leggo e mi documento e provo molta angoscia e senso di impotenza. Ho bisogno di attivarmi, di sentire che ancora ha senso agire e tentare almeno di ridurre il danno. Vedere tante persone a pochi chilometri da noi perdere tutto per una alluvione mi spaventa terribilmente.”. La voce di Stefania si strozzò, in un attimo di commozione. Con la coda dell’occhio vidi che anche Laura si era commossa. ‘Eco ansia’ la chiamano. L’angoscia derivante dalla presa d’atto che la catastrofe climatica in cui siamo immersi è molto più grande, globalizzata e degenerata di quanto si creda comunemente.
Paola con delicatezza, lasciò qualche momento di silenzio, per permettere a tutto il gruppo di stare in questa emozione che era arrivata così forte.
Senza fretta di mettere nuove parole. Dopo un po’ Giorgio riprese il filo. Con una leggera timidezza, ci disse che soprattutto da dopo il lockdown sentiva il bisogno di stringere relazioni. L’isolamento era stato molto difficile emotivamente. Si era accorto di quanto le nostre vite siano diventate delle corse frenetiche al fare fare fare…. E di quanto i rapporti si fossero fatti superficiali, frettolosi.
Desiderava quartieri più vivibili, meno anonimi. Un ritmo più lento. Fantasticava angolini di piazza, con tavolini e panchine che favorissero la socializzazione, magari sgomberi dalle auto, dove i bambini potessero giocare, come quando era piccolo. “Forse sarà perchè sto invecchiando, ma ricordo con tanta nostalgia come erano le nostre strade alcuni decenni fa, quando il ritmo della giornata era più lento e i rapporti apparivano più solidali e gentili”.
Giorgio pensava che favorire una socialità diffusa nella città, fosse un modo per rafforzare la coesione sociale e un vicinato di prossimità. “Come fanno i cittadini a condividere i propri bisogni e idee se non ci sono spazi in cui conoscersi e ritrovarsi?Una socialità diffusa, ecco perchè sono qua”, concluse.
Poi fu il turno di Davide. Avrà avuto una trentina d’anni. Appena aprì bocca, capimmo subito che era un tipo molto carismatico. I più rimasero con gli occhi sbarrati, come ipnotizzati. Aveva la naturale capacità di infiammare i cuori, di formulare delle frasi brevi, efficaci, che facevano leva sulla necessità di prendersi il proprio pezzo di responsabilità personale, di rompere l’indifferenza e l’individualismo: “Le nostre vite cominciano a finire il giorno in cui stiamo zitti di fronte alle cose che contano. Io ho un sogno. Che in questa città, i cittadini possano mettere a disposizione i propri talenti e competenze per il bene di tutti. Potremmo censire questi talenti e competenze. Vi immaginate che laboratorio di saperi avremmo a disposizione?”
Poco alla volta il giro terminò e guardammo il Guardiano. Si era riempito di parole chiave che Paola aveva diligentemente riportato via via che ciascuno parlava. Erano parole che avevano risuonato in noi. Nel cerchio si era creata un atmosfera particolare, piena di intensità, di stupore, come un brivido ci correva lungo la schiena… e un motto di speranza. nel cuore.
Tornammo a casa un po’ scossi, quasi disorientati. Era successo qualcosa tra noi in quel cerchio.
IL CERCHIO D’ORO
Con questa rappresentazione, Simon Sinek, scrittore e saggista inglese, propone un modello interpretativo per spiegare per quale motivo alcuni gruppi (e team di lavoro) funzionano efficacemente, hanno successo rispetto alla mission per cui nascono ed altri no, nonostante siano composti da persone molto competenti.
Alla base della interpretazione che propone vi è la biologia, non la psicologia.
Il Cerchio d’Oro
Di solito nei gruppi umani si procede dall’esterno all’interno; dal COSA al COME, sorvolando o accennando appena al PERCHE’. Procedere dall’esterno (dal COSA) all’interno (PERCHE?) implica l’attivazione della neocorteccia, la zona cerebrale di più recente costituzione e deputata al linguaggio, al ragionamento, alla razionalità e al pensiero analitico. Tutte funzioni importantissime ma non legate all’azione e al comportamento.
In altre parole, se comunichiamo dall’esterno all’interno, la gente comprende quello che diciamo come benefici, fatti, numeri, ma questa comprensione non guida il comportamento. E se comunichiamo solo a questo livello, è molto facile entrare in conflitto sulla sfera del pensiero e delle idee.
Quando invertiamo la direzione e comunichiamo dall’interno all’esterno, dal PERCHE’ al COSA, parliamo direttamente alla parte del cervello che controlla il comportamento, ovvero al sistema limbico. Questo sistema comprende una serie di strutture cerebrali e un insieme di circuiti neuronali presenti nella parte più profonda e antica del telencefalo, connessi al lobo limbico e correlati alle funzioni fondamentali per la conservazione della specie. E’ implicato nella sfera delle emozioni, dell’umore e del senso di autocoscienza, che determinano il comportamento dell’individuo.
Quando riusciamo a comunicare dall’interno (il PERCHE’) all’esterno (il COSA), parliamo direttamente alla parte del cervello più arcaica, quella che muove all’azione.
Ciò significa che non dobbiamo parlare del come fare le cose e di quali cose occuparci?
No, significa che prima dobbiamo ascoltare e condividere cosa ci muove all’azione.
E lo si trova nelle nostre viscere. “Splagchnizomai“,l’amore viscerale, quello che muove le montagne. Quello bisogna andare a cercare per prima cosa. Quello la gente riconosce e per quello è disposta ad impegnarsi e, a volte, a dare la vita.
Simon Sinek, motivatore e consulente di marketing, in questo TED, spiega come una leadership efficace comincia con con un “cerchio d’oro” e la domanda: “Perché?”
Le organizzazioni più innovative, coinvolgenti ed efficaci agiscono e comunicano attraverso meccanismi alla cui base vi è la biologia, non la psicologia.
In copertina: friendship-affective-bond-that-unites-us-to-people – immagine tratta da baiug.org
La Parità di Genere è una chimera? Un seminario di Fare Diritti sugli strumenti normativi per ridurre il divario di genere. Ferrara, Castello Estense, 6 giugno 2023, ore 15,30.
Con questo titolo Fare Diritti offre alla cittadinanza ferrarese, alle donne in particolare, alle istituzioni e al mondo dell’impresa, un seminario in cui saranno illustrati gli strumenti normativi che il nostro Paese ha messo a disposizione in questi anni per rendere effettivo il diritto alla parità dei diritti fra donne e uomini.
Innanzitutto sul lavoro, considerato come la via obbligata per consentire alle donne di accedere all’autonomia economica e ad una maggiore libertà.
Il nostro Paese, che non brilla in Europa e nel mondo per uguaglianza di diritti fra uomini e donne, nel mondo del lavoro registra le disparità maggiori, come testimoniano i dati di alcuni Istituti internazionali di rilevazione. Fra questi, il Global Gender Gap Index , nella classifica del 2021, colloca l’Italia al 63° posto su 156 paesi del mondo.
L’Unione europea, che ha messo a punto, attraverso l’ EIGE, Istituto europeo per la Gender Equality, un indice che rileva le posizioni dei 27 Paesi membri su 31 indicatori, riserva all’Italia il 14° posto per quanto riguarda il punteggio complessivo, soltanto il 27° , nella parità di genere nel mondo del lavoro.
Il punteggio assegnato all’Italia su questo indicatore è di 63,2 punti a fronte di una media europea di 71,76), con un livello di partecipazione femminile al lavoro tra i più bassi (68,1 contro 81,3). Un dato inquietante soprattutto se si affianca al basso punteggio raggiunto dal nostro Paese nell’indicatore che misura il tempo libero, che vede le donne italiane in una posizione fortemente sbilanciata rispetto agli uomini nelle attività di cura dei figli, delle persone anziane e nel lavoro domestico.
A questo punto, alla domanda posta dal titolo si potrebbe rispondere che l’obiettivo della parità di genere, se non è una chimera, è certamente un’utopia, quasi un miraggio che ha indotto le fondatrici di Fare Diritti a sostituire all’obiettivo della Parità, quello molto più realistico e concreto della riduzione della disparità.
Secondo il PNRR perseguire l’obiettivo della parità di genere, “intervenendo sulle molteplici dimensioni della discriminazione, diretta e indiretta, verso le donne.” è una priorità non solo sul piano del diritto, ma anche dello sviluppo del Paese, come più volte hanno detto la Banca mondiale e la stessa Bankitalia.
Sottrarre alle donne un diritto costituzionale (art.1, 3 e 4, 35, 37) impoverisce il Paese di risorse e della qualità intellettuale dell’impegno delle donne, che hanno dimostrato in molteplici occasioni di saper gestire situazioni complesse e difficili.
Nel corso del seminario del 6 Giugno il Gruppo ha invitato rappresentanti delle Istituzioni e del mondo imprenditoriale ad illustrare strumenti e norme che potrebbero fare la differenza rispetto al passato, nel mondo del lavoro e più in generale nelle dinamiche sociali, se applicati con convinzione e continuità.
Al nostro Paese non mancano le buone regole, mancano le buone prassi. In sostanza non c’è la volontà politica e la lucidità culturale necessarie per passare dalle buone intenzioni ai fatti.
Lo sguardo severo dell’Europa, che ha subordinato l’erogazione dei fondi del PNRR ad un nuovo modello di inclusione sociale, più giusto, democratico ed egualitario, riuscirà a convertire lo scetticismo e l’indifferenza, trasversale a tutta la nostra società nei confronti delle disuguaglianze di genere?
L’azione di Fare Diritti nasce dalla fiducia che questo possa avvenire, ma anche dalla consapevolezza che nulla sarà regalato alle donne – che non sono una minoranza svantaggiata, ma la maggioranza attiva ed essenziale al Paese – se esse per prime non sapranno far valere la loro forza, rendendo esigibili i diritti scritti sulle sacre carte: dalla Costituzione, alla Dichiarazione universale dei Diritti umani, all’Agenda 2030 dell’Onu.
Accanto a Fare Diritti in questa occasione a scendere in campo è la Provincia di Ferrara, che ospiterà il Seminario del 6 Giugno nella Sala Consiliare del Castello Estense e vedrà la Consigliera provinciale di Parità, dottoressa Annalisa Felletti , fra le relatrici ei relatori.