L’umanesimo delle Beatitudini
Città invisibili
“Che cosa è una città per noi?” si domanda Italo Calvino ne Le città invisibili. La risposta attraversa tutto il suo libro, un’itineranza d’immaginazione e creatività, con la quale egli intende mostrare che possono esistere ancora città felici nascoste nelle città infelici:
«Penso d’aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città (…) Quello che sta a cuore al mio Marco Polo è scoprire le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nelle città, ragioni che potranno valere al di là di tutte le crisi.
Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio, le città sono luoghi di scambio, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi. Il mio libro s’apre e si chiude su immagini di città felici, che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici» (Milano 2006, Presentazione dell’autore, IX -X).
C’è allora un vedere che nasce dall’ascolto; una visione dell’invisibile ancora nascosta nei desideri, nelle aspirazioni e nell’immaginazione della gente che abita le città; e felice sarà quella che si metterà in ascolto della gente e dei mondi in cui le persone vivono, quella che continuerà attraverso gli anni e le mutazioni a dare forma ai desideri più profondi di vita buona per tutti coloro che l’abitano.
Così Calvino descrive l’aspirazione dell’imperatore: «Eppure io so, – diceva – che il mio impero è fatto della materia dei cristalli, e aggrega le sue molecole secondo un disegno perfetto. In mezzo al ribollire degli elementi prende forma un diamante splendido e durissimo, un’immensa montagna sfaccettata e trasparente».
Ma la realtà, dell’impero e delle sue città era differente, tragica tanto da turbare il Gran Khan, e Marco Polo «sapeva secondare l’umore nero del sovrano. – sì, l’impero è malato e, quel che è peggio, cerca d’assuefarsi alle sue piaghe. Il fine delle mie esplorazioni è questo: scrutando le tracce di felicità che ancora s’intravvedono, ne misuro la penuria. Se vuoi sapere quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane».
Nel buio luci lontane ma ancora visibili
La nostra città è l’orizzonte verso cui tende e intende interagire la vita ecclesiale delle nostre comunità, parrocchie e unità pastorali – ne nasceranno due nuove tra breve, Santo Stefano e San Paolo, Santa Maria Nuova-San Biagio e Addolorata – per proseguire il cammino sinodale attraverso l’ascolto dei mondi cittadini e lo scambio di esperienze. Si cercherà così di mettere in rete e coordinare tra loro i Consigli pastorali delle comunità e i Centri di ascolto, gruppi Caritas e san Vincenzo parrocchiali, al fine di comprendere meglio le risorse e le problematiche presenti sul territorio cittadino.
Questo l’orientamento emerso anche dagli incontri del Vicariato urbano – realtà territoriale che abbraccia le parrocchie dentro le mura cittadine (intra moenia) con l’intento di pensare e unificare l’azione pastorale nella città – che propone per la prossima Quaresima e subito dopo Pasqua due incontri assembleari: uno nella parrocchia dell’Immacolata (15 marzo), l’altro presso il teatro di san Benedetto (19 aprile).
Si cercherà così di dare continuità a uno stile maggiormente sinodale, non solo dentro la vita ecclesiale ma in uscita verso le realtà sociali, culturali e religiose presenti nella nostra città. Un’esperienza già vissuta, e in me ancora viva, con le assemblee dell’ormai lontano sinodo del 1985-1992, in cui ci si confrontava e si dialogava con l’intera città e le istituzioni, imprese e università, sui temi allora emergenti tra chiesa e società, chiesa e territorio.
Non ero ancora prete, ma ricordo gli echi del Convegno romano del 1974, passato alla storia come il convegno sui “mali di Roma”: una convocazione delle realtà religiose e sociali romane voluta dal cardinal Ugo Poletti per dare la parola e mettersi in ascolto di mondi che chiedevano di partecipare ai profondi cambiamenti e avvenimenti dell’Urbe nel clima del post-Concilio intriso dei fenomeni di contestazione giovanile di quegli anni e delle nuove povertà emergenti a Roma, tra immigrati e baraccopoli della periferia. Fu proprio tra i baraccati dell’Acquedotto Felice che p. Silvio Turazzi, nel 1971, condivise con loro le battaglie per la casa prima di iniziare la sua esperienza missionaria in Africa.
Il convegno si aprì il 12 febbraio, nella Basilica di S. Giovanni in Laterano, e il tema era: “La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di giustizia e di carità nella diocesi di Roma”. Figura emblematica di quegli anni, nonché coordinatore e animatore del convegno fu don Luigi di Liegro (1928-1997). Quell’assemblea portò alla luce le debolezze e le mancanze della capitale, denunciando le responsabilità e segnando una svolta, che aprì nuove prospettive nel rapporto fra la Chiesa e le istituzioni cittadine.
Di Liegro era convinto che «non si può amare a distanza, restando fuori dalla mischia, senza sporcarsi le mani, ma soprattutto non si può amare senza condividere». Così negli anni successivi egli costituì la Caritas diocesana di Roma, da lui diretta dal novembre del 1979 fino al termine della sua vita. Voluta, diceva, per praticare «una carità che tende a liberare le persone dal bisogno e quindi a renderle protagoniste della propria vita».
Fu interlocutore instancabile della vita cittadina: giunte, realtà ecclesiali, forze civili e politiche. Non si limitò a questo, ma promosse pure un’intensa attività di studio e di ricerca dei problemi legati alla povertà, all’immigrazione e alle sue cause. Occorreva infatti non limitarsi a interventi di tipo emergenziale, ma occorreva pensare ed elaborare modelli e progetti innovativi di analisi e d’intervento.
Dai suoi scritti: «L’impegno per la solidarietà deve diventare una passione per tutti senza essere demandato solo ai professionisti. L’idea di solidarietà cui si ispira il volontario non si fonda sull’altruismo ingenuo, ma nasce invece da valori civili e religiosi, e dall’analisi della complessità sociale, dei guasti provocati da un sistema sociale disordinato ed ineguale, del degrado culturale e morale provocato dall’applicazione della legge del più forte, dalla carenza di etica collettiva…
Sappiamo che oggi è sempre più difficile un volontariato responsabile, impegnato nella società e nel mondo degli esclusi perché si riscoprano i mezzi e le ragioni del vivere insieme. Vediamo tanti uomini di solidarietà entrare in comunione con quanti attraversano le frontiere del nostro paese per guadagnarsi da vivere. Sono profeti e protagonisti di un’umanità nuova fondata sulla comunione e sull’abolizione totale e definitiva di ogni frontiera nell’orizzonte del Regno.
È una lunga marcia per abbattere le barriere, per preparare e attendere il giorno in cui ‘Dio sarà tutto in tutti’… I nostri spiriti ottusi hanno fatto dell’aiuto ai poveri una sorta di dovere moralizzante che consiste nel “fare la carità”, nell’essere solidali.
Ma la solidarietà, come la carità, sono un’altra cosa. Prima di essere un dovere, sono uno stato di fatto, una constatazione. Significa sentirsi legati a qualcuno, condividere la sua sorte, mettersi nei suoi panni, compatire, cioè “patire con”» (Da Fondazione internazionale don Luigi di Liegro).
Più stile sinodale di così!
Beatitudini: visione dell’invisibile, tracce luminose di vita buona
Come partire? Provocante in me la risposta: “con le Beatitudini”, che sono visioni dell’Invisibile, dell’Inatteso, come allora sul monte anche ora e sempre nelle nostre comunità. Le Beatitudini del Regno proclamate da Gesù sono la rivelazione di una felicità nascosta nell’infelicità delle persone, parole da far uscire, che traggono fuori di sé; sono rivelazione stessa della luminosità e amabilità dell’umanità di Dio nella persona stessa di Gesù: la sua umanità con e per noi.
Lui infatti povero con i poveri presenza del Regno; nel pianto con i piangenti, in attesa con loro di consolazione; mite con i miti, aprendo futuro alla terra; lui sofferente la fame e la sete con gli affamati e assetati di giustizia, pane vivo di giustizia che sazia i crampi della crudeltà; lui puro di cuore dagli occhi trasparenti, capaci di riconoscere il bene nei minuscoli frammenti di uno specchio di umanità in frantumi, in grado di scorgere e far risplendere il volto del Padre nell’oscurità dei volti umani anche più sfigurati.
Chi poi più di lui artefice di pace e riconciliazione, tanto da essere degno di essere chiamato Figlio di Dio? Chi identificato come lui con i perseguitati per la giustizia, con gli imprigionati e torturati nei tuguri dell’empietà a cui verrà incontro la giustizia del regno?
In ascolto dunque delle beatitudini. Chiamati all’ascolto dagli uomini e dalle donne delle Beatitudini che vivono in mezzo a noi, dentro e fuori gli ambiti e la vita ecclesiale, ai margini, negli interstizi esistenziali della nostra città.
Matteo si rivolgeva ai cristiani provenienti dal giudaismo, mostrando loro, sotto traccia, Gesù sul monte delle Beatitudini come fu Mosè per il suo popolo sul Sinai: entrambi portatori delle parole di Dio, profeti delle sue promesse di prossimità e alleanza.
Così le Beatitudini sono nominazione di una vicinanza inaudita: quella indicata da Matteo all’inizio del suo vangelo con il nome dato a Gesù di Emmanuele, Dio con noi. Nome ricordato da Gesù dopo la Pasqua congedandosi dai discepoli: «Io sono “con voi” tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20).
Le Beatitudini sono così la rivelazione di un coinvolgimento di Dio nelle sofferenze, una luce nelle oscurità dell’umanità, segno del suo esserci nella passione del mondo. Per Jürgen Moltmann, il teologo della speranza, «non esiste alcuna sofferenza in questa storia degli uomini che non sia pure sofferenza di Dio».
E nessuna beatitudine è presso Dio che non debba essere partecipata e diventare beatitudine per gli uomini, come nessuna risurrezione di Cristo che non diventi anche risurrezione condivisa con noi. Sono le Beatitudini la grazia dell’ ‘essere con’, che diventa per noi “impegno con Cristo”, la nostra ostinazione.
E sono convinto che proprio le Beatitudini stiano al cuore dell’esperienza stessa della sinodalità, la sua forza propulsiva e creativa. Esse sono culmine e fonte della vita cristiana; itinerari di un camminare insieme.
Il ‘con’ esprime relazioni molteplici. È prefisso davanti a nomi e verbi come con-solazione con-solare, comunione, comunità, condividere, convocare. Così le beatitudini ci chiamano a vivere un cammino sinodale: sono esse che ci faranno sognare e intravedere la visione di una città invisibile, felice ma ancora nascosta in una città infelice.
Le Beatitudini sono il sogno che sostiene e fomenta le nostre veglie, il nostro fare, il nostro far essere la vita. Sono il di più di un’altra vita che fa breccia nelle nostre vite. L’Inatteso stesso del vangelo che ingravida di speranza le vite senza speranza. Così – parafrasando Gregorio di Nissa – le Beatitudini proclamate sul monte non consistono nel conoscere Dio, ma nell’avere in noi la sua umanità, quella manifesta nel Figlio.
L’Umanesimo delle beatitudini
Le beatitudini ci rendono partecipi di tensioni, di orientamenti e cammini verso una umanità trasfigurata, «un’umanità che abbia la misura di Dio», sono espressione singolare della gioia del vangelo. Le radici delle beatitudini sono radici teologiche capovolte verso l’alto, presso Dio: «sono i modi di essere, di sentire, di pensare di Dio» che per partecipazione possono diventare anche i nostri; come in un albero rovesciato i cui rami sono in basso e fioriscono fruttuosi nella nostra umanità. Sono espressione di una presenza di Dio nell’uomo e dell’umanità in Dio rese pienamente manifeste nell’evento-persona di Gesù di Nazareth.
Scrive sulle Beatitudini don Michele Do (1918-2005), un prete fattosi eremita a St. Jacques, un paesino della Valle D’Aosta, la cui rettoria divenne ben presto luogo di incontro di tante persone: «Le beatitudini appartengono a una dimensione spirituale dell’essere e del vivere l’Evangelo, sono un atteggiamento di tutto l’essere. Le beatitudini appartengono alla dimensione profonda dell’essere umano: sono modi di essere, di pensare, di sentire dell’uomo, modi che operano nella concretezza della nostra vita, sono modi diversi di rapportarci con la realtà, di pensarla, di sentirla, di viverla.
Le beatitudini non sono, dunque, un dovere da assolvere, ma nella misura in cui sono interiorizzate e vissute sono irradiazioni dell’essere, dell’uomo trasfigurato dallo spirito, sono come la trasparenza di una raggiunta pienezza, di una raggiunta verità interiore. Non nascono dunque da un atto di volontà, per cui decidiamo di fare una cosa e non un’altra». Le beatitudini ci chiedono di inventare la nostra vita in modo creativo, un lasciarsi dilatare dallo spirito del Risorto: «l’uomo è un arco teso sempre più in alto… la strada del cristiano, la sua via crucis è il quotidiano dilatare se stessi su misura e a dismisura di Dio» (in Quaderni de Il Gallo, 2016 /2, 5).
“Viridità”, il colore cangiante della beatitudine
Viriditas, stando alle visioni della mistica medievale Ildegarda di Bingen, è il colore delle vesti della beatitudine; è anche lo stesso colore cangiante dello Spirito santo descritto nel suo libro Scivias,/Conosci la via. Così si legge «Perché la beatitudine è sicurezza invitta del vero splendore [ … ] anche per questo si riveste di una tunica bianca, decorata di colore verde: perché è circondata di opere di fede, biancheggianti nel desiderio celeste, e dei molteplici doni verdeggianti nella fecondità [in viriditate] dello Spirito Santo» (Scivias ID 6, 33, ed. cit., p. 457).
Viriditas deriva da viridis/verde ed ha la stessa radice di parole come vis/forza, vir/uomo, virgo/giovane donna, ver/primavera, virtus/valore, virga/virgulto, vita/principio vitale. Viriditas è sì il colore della natura ma associato alla energia e alla forza vitale dello spirito che fa vivere tutte le cose; soffio vitale nell’intera creazione così come nella vita dell’uomo. Non è presente solo nel verde nella vegetazione, ma è presente in tutti gli ambiti materiali e spirituali della vita ed ha tutte le sfumature dell’arcobaleno.
“O Viriditas nobilissima, che hai radici nel sole,
e in candida serenità riluci
nella ruota che nessuna altezza terrena contiene,
tu sei circondata dall’amplesso dei divini misteri.
Risplendi come la rossa aurora
E ardi come la fiamma del sole”.
(Ildegarda di Bingen – Lied 39).
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