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Sul concetto di Donazione: morte cerebrale, stato vegetativo e donazione gestazionale

Sul concetto di Donazione:
morte cerebrale, stato vegetativo e donazione gestazionale

Prima un morto lo riconosceva anche un bambino. La morte era legata alla cessazione del battito del cuore. Bastava appoggiare l’orecchio sul cuore, sentire il freddo che avviluppa un corpo nel quale il sangue cessa di fluire, per riconoscerla. Oggi non è più così, oggi c’è  anche la morte cerebrale e la dichiara un team di medici. Una nuova forma di potere su cui riflettere.”

Scrivevo così in un articolo pubblicato su Periscopio qualche tempo fa [vedi qui].  Ecco, oggi è venuto il tempo di ragionare sul termine donazione, su come viene intesa oggi da certa medicina e anche da certa filosofia, parola che da positiva e solidale si è trasformata in una parola disincarnata, ad uso delle teorie transumaniste più spaventose.

Anna Smajdor, docente di bioetica medica all’Università di Oslo ha scritto un paper dal titolo Whole body gestational donation (WBGD) [Qui], nel quale espone i motivi per cui sarebbe valida e addirittura auspicabile la pratica di usare come madre surrogata una donna dichiarata morta cerebralmente. La filosofa si ispira a Rosalie Ber, ricercatrice israeliana, che nel lontano 2000 aveva già scritto a riguardo suggerendo di utilizzare donne in stato vegetativo (PVS) per le gravidanze surrogate.

Anna Smajdor con una lucidità cinica impressionante analizza cosa comporta una gestazione in una donna morta cerebralmente; perché a suo dire è meglio usare donne in stato di morte cerebrale che in PVS , come suggerito da Ber:  analizza le possibili controindicazioni, ma anche gli enormi vantaggi rispetto all’utilizzo di una donna viva (e già questo paragone fa rabbrividire).

Una delle controindicazioni mediche è la ventilazione artificiale utilizzata per tenere un cadavere, che cadavere non è, con il fluido sanguigno attivo, il corpo caldo e di colore roseo; pratica che lei stessa dice essere considerata una pratica medica eticamente discutibile, perché gli stessi sanitari sono riluttanti “a prolungare uno stato di morte in vita”.

Salvo poi però giungere a dimostrare che se in molti paesi ormai la donazione di organi salvavita ha lasciato posto anche alla donazione di organi non salvavita, quali cornea, occhi, tessuti , mani, etc. allora per chi è a favore della donazione e del trapianto di organi, il WBGD, cioè la donazione di tutto il corpo per la gestazione, non dovrebbe essere un problema.

Anzi, la donazione del proprio corpo per dare la vita potrebbe essere una soluzione persino ad evitare le gravidanze fisiologiche che per lei sono patologiche. Se tentiamo di eradicare il morbillo con la vaccinazione, perché non eradicare la gravidanza che ha una morbilità e mortalità più alta del morbillo?

Questo il ragionamento di Anna Smajdor:
“Non c’è alcuna ragione medica evidente per cui non sia possibile avviare tali gravidanze. In questo articolo esploro l’idea della donazione gestazionale di un corpo intero. Considero una serie di potenziali contro-argomenti, tra cui il fatto che tali donazioni non sono salvavita e che possono reificare il corpo riproduttivo femminile. Suggerisco che, se siamo felici di accettare la donazione di organi in generale, le questioni sollevate dalla donazione gestazionale integrale sono differenze di grado piuttosto che nuove preoccupazioni sostanziali. Inoltre, identifico alcune possibilità intriganti, tra cui l’uso di corpi maschili, forse aggirando così alcune potenziali obiezioni femministe.”

Unico limite che intravede nell’utilizzo di un corpo maschile è che tale uomo potrà portare a termine una sola gravidanza perché non avendo un utero, ma essendo dimostrato che altri organi possono soddisfare le esigenze di una gravidanza, quali il fegato, è ovvio che il ‘parto’ ne compromette definitivamente la vita, ma tanto è morto e dunque se muore nel parto poco cambia.

Smajdor spiega che ottenere il consenso per tale pratica dovrebbe, a livello legislativo, essere piuttosto semplice, e cita le leggi inglesi che richiedono un consenso piuttosto “blando”: “Le recenti modifiche legislative nel Regno Unito, ad esempio, fanno sì che gli organi di una persona possano essere donati senza che vi sia una chiara indicazione della sua volontà in tal senso”. E poi aggiunge “Certamente, il livello di informazione ritenuto sufficiente come base per il prelievo di organi è minimo se paragonato ad altre procedure invasive significative prima o dopo la morte.”.

Ed è su questo che mi voglio soffermare anche se tutto il paper della Smajdor dovrebbe, oltre che farci inorridire, portarci a riflettere sulla filosofia e sulla scienza medica che ha sostenuto lo sviluppo dell’ideologia nazista, ipotizzando l’esistenza di una razza, di caratteristiche umane precise, per le quali si aveva diritto alla vita e su come questo sembra riaccadere oggi.

Per me il vero punto oggi è, disvelare l’inganno che si cela dietro al linguaggio legislativo, scientifico, filosofico, economico, letterario, cinematografico, e grazie al quale molte pratiche, che tempo fa erano inaccettabili, oggi invece non solo diventano accettabili, ma vengono sostenute dal Sistema come ‘cose buone e giuste’.

Neppure la morte è più una parola dai confini chiari. Si può essere morti, ma di una morte decisa dall’uomo stesso,  quella cerebrale appunto e questo, anche se non lo avevamo pensato, apre a raffigurazioni aberranti come quelle che troviamo nel paper della Smajdor.

È da quando mi occupo di maternità surrogata che mi imbatto in parole che sembrano aver perso il loro significato originario. Quanti tra intellettuali, medici, filosofi, legislatori, economisti considerano un dono fare un figlio per chi non lo può avere, al punto che pagare o rimborsare l’affitto di un utero e della vita stessa della donna è cosa buona e giusta? Quanti considerano buono strappare il neonato dal grembo materno se fatto per una buona causa, quella di regalare un figlio a chi non lo può avere?

In tutti questi anni  ho faticato a trovare intellettuali pronti a esporsi su questo tema, eppure la letteratura medica che racconta del legame tra madre e feto è infinita e non è neanche necessaria, perché ad oggi tutti siamo nati da donna e quel legame è impresso sulla nostra pelle.

Però addirittura oggi sembra che avere un figlio, geneticamente proprio – senza correre rischi per sé e per la salute del bambino – sia diventato un diritto ed è diventato il cavallo di battaglia delle ‘democrazie progressiste’. La stessa parola ‘madre’ viene spezzettata con l’intento di cancellare il valore simbolico ancestrale legato al concetto di madre; c’è una madre biologica, una madre donatrice di ovuli, una madre portatrice.

La cosa più incredibile è che le definizioni si modificano mano a mano che la natura sembra svelare il tranello che contengono. Penso ai contratti per la surrogata, nei quali prima c’erano ‘i genitori committenti’, definizione che lasciava intendere una transazione, e che oggi sono diventati ‘genitori di intenzione’, o ‘a maternità surrogata’.

Il termine ‘surrogazione’, che è un vocabolo preso in prestito dalle transazioni giuridiche, oggi si trasforma in GPA, ‘gestazione per altri’, o alle ‘madri contenitori’, che lentamente ma inesorabilmente vengono cancellate dal lessico e dalle immagini, non hanno più un nome e diventano invisibili; penso anche all’uso ormai consueto degli acronimi, nelle accademie nei contratti, tipo WBGD (donazione gestazionale di tutto il corpo), che appunto hanno la funzione di nascondere l’idea che ci sta dietro.

E qui viene il bello. La parola donazione, che tutti associamo al ‘fare un dono’, è però anche una parola giuridica: La donazione è il contratto con il quale, per spirito di liberalità, una parte (donante) arricchisce l’altra (donatario), disponendo a favore di questa di un diritto proprio, presente nel patrimonio, o assumendo verso la stessa una obbligazione.”

La morte cerebrale è fortemente legata a questa definizione, senza che molti di noi lo abbiano mai pensato. La prima definizione di coma irreversibile fu elaborata nel 1968 da un comitato creato ad hoc dell’Harvard Medical School. I criteri di Harvard per l’accertamento della morte cerebrale sono poi diventati la base di tutte le legislazioni nazionali proprio per favorire la donazione degli organi.

Certo, il tema è complesso; oggi esistono macchine che possono tenere in vita chi in altri tempi sarebbe morto e si apre il tema tanto discusso dell’accanimento terapeutico. Però è anche vero che è proprio la ventilazione artificiale che permette la donazione degli organi e che, come abbiamo letto nel paper della Smajdor, creava problemi di etica medica, al punto che si era decisa la ventilazione solo per la donazione e il trapianto di organi salvavita, salvo poi osservare che da questo si è passati alla donazione di tutti gli organi e oggi a ipotizzare addirittura di utilizzare donne ‘morte’ per gravidanze.

La domanda che credo sia venuto il momento di farci è se ciò che fino ad oggi abbiamo percepito come progresso lo sia veramente. Se i protocolli medici e burocratici e le definizioni giuridiche, strumenti ritenuti necessari dalle nostre democrazie per garantire la serena convivenza tra i cittadini, siano diventate le armi invece per annientare il patto sociale che ci lega, distruggendo il senso stesso di umanità e la sua integrità.

Abbiamo appena vissuto il tempo della pandemia, in cui i principi base delle nostra tradizione medica, primum non nocere e del patto sociale che ci tiene uniti, il principio di autodeterminazione e l’inviolabilità dei corpi, sono stati minati dai nostri stessi governanti e dal Sistema nel quale viviamo.

Nella pronuncia della Corte Costituzionale, riguardo all’obbligatorietà dei sieri sperimentali anti Covid, troviamo scritto – sempre in linea con la propria giurisprudenza- che “il rischio remoto, non eliminabile, che si possano verificare eventi avversi anche gravi sulla salute del singolo, non rende di per sè costituzionalmente illegittima la previsione di un trattamento sanitario obbligatorio, ma costituisce semmai titolo all’indennizzo.

L’essere umano è contabilizzato, ha un valore di mercato, noi tutti siamo contabilizzati, ed è su questo che ormai sono costruite le definizioni e i protocolli che ci riguardano. Ecco perché oggi è possibile che circolino papers come quelli della Smajdor, che escano da contesti accademici senza che nessuno si scandalizzi, perchè senza comprenderlo a fondo, abbiamo contribuito a dar valore all’idea che sia cosa e buona e giusta immettere sul mercato i corpi e i pezzi di corpo.

La vita stessa ha un valore di mercato e le leggi di mercato sono fatte su misura degli interessi delle grandi corporazioni e multinazionali, su cui le Smajdor di turno contano per garantirsi un valore economico più alto.
Siamo dentro al Sistema fino al collo, ma finché non faremo i conti con il fatto che non vogliamo essere responsabili di questi obbrobri, non potremo smantellare il Sistema.

 

Cover: Rembrandt, La lezione di anatomia del dottor Nicolaes Tulp (1632)

Donne afghane (5)
Il suo caffè a Kabul distrutto in un attentato: Zahra non vuole tornare

Le giornaliste di Avvenire – uno dei pochi grandi quotidiani italiani che ‘canta fuori dal coro’ e con cui ci sentiamo spesso in sintonia – inaugurano oggi un’iniziativa che ci pare di grande valore.  Dare voce alle bambine, alle ragazze e alle donne afghane. E, soprattutto, ripetere questo impegno ogni giorno (fino all’8 marzo), non una tantum, inseguendo la notizia eclatante. come è in uso nei media mainstream italiani e stranieri. Solo, infatti, attraverso un impegno giornalistico costante ed appassionato è possibile restituire ai lettori la ricchezza di voci dell’altra metà del cielo e dell’altra parte del mondo.
Periscopio riporterà ogni tappa del viaggio delle giornaliste di Avvenire, mentre invita tutte le sue lettrici e lettori a dare il proprio contributo al Progetto di Scolarizzazione per le donne afghane (vedi in calce all’articolo tutti gli estremi per aderire).
(La redazione di Periscopio)

Il suo caffè a Kabul distrutto in un attentato: Zahra non vuole tornare

Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all’8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l’università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l’appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE

di Nicoletta Martinelli
(articolo originale: Avvenire, martedì 21.02.23)

La giovane ora vive in Austria: il suo locale dava lavoro ad altre donne ma è rimasto coinvolto in una esplosione che ha ucciso 300 persone.

Giovane, bella, laureata, economicamente indipendente: cosa poteva fare se non scappare quando i taleban hanno ripreso il potere in Afghanistan? «Rivendicavo per me e per le altre donne il diritto a prendere tutte le decisioni importanti della nostra vita. Ho scelto di farlo attivamente, schierandomi e manifestando ogni volta che ho potuto». E, ma questo va da sé, pagandone le conseguenze: l’avventura imprenditoriale di Zahra Rizaye, 36 anni, ha avuto vita breve. “Nel 2016, insieme a due amiche, ho aperto un Caffè nel centro di Kabul, perché speravo di creare opportunità di lavoro per le donne. È stato entusiasmante, finché è durato, avere uno spazio simile, dover rendere conto solo a noi stesse del nostro lavoro, senza nessun uomo a dirigerci, a controllarci, a dirci cosa fare. Abbiamo investito 45mila dollari, andati in fumo nel 2017 a causa di una grande esplosione avvenuta nelle vicinanze che ha ucciso quasi 300 persone».

Non è certo che il caffè fosse tra i bersagli mentre è certo che dopo l’esplosione il locale ha chiuso i battenti: «Abbiamo perso ogni cosa: il Caffè ha chiuso i battenti e tutti i nostri sogni di essere imprenditrici. Di riuscire a essere utili anche ad altre donne noi si sono infranti per sempre».

Le donne afghane sono estremamente vulnerabili dopo la caduta del governo nelle mani dei taleban: «Per questo – dice Zahra – mi consola e mi dà speranza sapere che i Paesi europei come l’Italia continuano a sostenerle, non le dimenticano come sarebbe facile. Tutti possono vedere quanto sia diventata difficile la vita per loro, è importante tenere desta l’attenzione sul problema».

Prima impiegata presso l’Unione Europea e poi alle dipendenze di una Ong australiana che sostiene i diritti delle donne afghane, Zahara oggi vive in Austria, “Un paese pacifico – lo descrive – con molte opportunità per crescere, dove spero di riuscire a esaudire qualcuno dei miei sogni. Non ho ancora un lavoro qui, però, mi ci vorrà ancora un po ‘di tempo per imparare la lingua».

E qualche giorno per partorire il secondo figlio, una bambina: «Si capisce perché non ho intenzione di tornare nel mio Paese, un posto dove le ragazze e le donne sono prigioniere nelle loro case e non possono studiare e lavorare. Non possono neppure muoversi senza un uomo che le accompagni e non sono al sicuro da nessuna parte. Eppure, sono milioni le famiglie in cui sono unicamente le donne a garantire il pane quotidiano, a essere il vero capofamiglia. No – ripete Zahra – non farò mai più ritorno perché non posso vivere in quelle condizioni e non imporrei mai questa condizione i miei figli. Non l’ho voluta per me, come potrei volerla per loro?».

Eppure, si può soffrire di nostalgia anche per un Paese come l’Afghanistan: «Certo che sì. Amo ogni angolo della mia amata terra, con tutta la mia anima e il mio cuore. Ho tutti i miei ricordi laggiù e mi manca ogni giorno quello che facevo nel mio Paese, quello che facevo per il mio Paese. Vorrei che tutti gli afghani vivessero in pace e non morissero per arricchire Paesi più potenti. Vorrei – prosegue – che ciascuno avesse abbastanza cibo da mangiare e abbastanza tranquillità per vivere. Vorrei uguali diritti per tutti, ma non tutto il potere per una sola etnia».

 

Cover: Zahra Rizaye – Z.R. – A.N

Per leggere tutte le testimonianze raccolte dalla giornaliste di Avvenire, clicca su; Donne afghane

Parole e figure /
Il bianco della luna e della neve

Il bianco della luna e della neve

Un incontro miracoloso fra passato e presente, fra le preziose stampe giapponesi su seta o carta di riso raffiguranti uccelli e fiori, chiamate KACHO-E, di Koson Ohara (pseudonimo di Matao Ohara), uno dei maestri nel mondo delle stampe naturali del primo Novecento (Hokusai e Hiroshige sono considerati i maggiori dell’Ottocento) e l’autrice e illustratrice Cristina Petit, creativa donna moderna.

Di Cristina Petit vi abbiamo già presentato, Vieni con me? e Un giorno, un ascensore. Essendoci molto piaciuta, oggi vi vogliamo parlare di due bellissimi albi illustrati, diversi dai precedenti, che andrebbero sfogliati insieme. Il filo conduttore è l’atmosfera delicata delle illustrazioni giapponesi di Kason Ohara.

Sono La notte in cui la luna sparì, Pulce edizioni (2019) e Il giorno in cui cadde la neve, Pulce edizioni (2022). Musica in sottofondo di Nuovo Cinema Paradiso e ci siamo.

Il formato verticale del libro ricorda quello di un tanzaku (biglietto scritto su carta tradizionale giapponese con desideri e preghiere, appesi agli alberi di bambù, in occasione della festa delle stelle di Tanabata). I testi sono scritti in maiuscolo per una maggiore facilità di lettura anche per i più piccini, accompagnati dalle tavole pittoriche di Ohara Koson, in perfetta e alchemica armonia.

La luna che scompare, notizia clamorosa, e la neve che dipinge il mondo, la mattina presto, rendendo tutto più bello, sereno, silenzioso, candido e lieve.

La luna piace molto ai bambini (pure a me che bambina più non sono) che la guardano ammirati dalla finestra della loro cameretta, ma anche agli animali che la salutano, leggera, dal bosco o dal piccolo mondo in cui vivono. Per alcuni animali notturni è fondamentale un lampione di latte. Un volto tondo e poetico che tutti riconosciamo.

Finché un bel giorno di settembre alle oche chiacchierone e agitate arriva l’incredibile notizia/pettegolezzo che quella sera la luna non si sarebbe presentata. Scatta l’allarme. Molto fermento e tanta preoccupazione nel bosco. Ma niente panico per il tranquillo e calmo babbuino, che non batte ciglio, anzi osserva e ride.

Nemmeno la tigre si preoccupa. Dal fiume l’allerta velocemente arriva all’anatra e alla carpa, la mosca avverte la rana che fa spallucce, nemmeno il gufo si preoccupa, non è un problema suo. Ogni animale ha le sue caratteristiche, pregi e difetti, il suo vizio e la sua virtù, proprio come tutti noi umani.

Le oche sono sempre più agitate e svolazzanti: la luna non si presenta e nessuno se ne cura. Un qua qua qua!!! insopportabile aleggia nell’aria. E questi animali rumorosi possono continuare per ore… un bel problema.

Allora il babbuino scende dall’albero e spiega alla mosca che la pazienza è la virtù dei forti e che spesso tutto non è come appare.

E gentilmente chiede alla luna che sta facendo il bagno di sorgere il prima possibile perché le oche sanno facendo un caos terribile e insopportabile e lui, come tutti, voleva dormire. Un favore personale chiesto da un saggio che sa farsi ascoltare. La luna comprensiva sale allora velocemente in cielo per far smettere quel quaqquare, far dormire la tigre, indicare la strada alle lucciole e rilassare i pesci. E quella sera, anche la mantide religiosa, che non si accorge mai di nulla, nota che la luna è molto più pulita.

Le oche possono fare il loro volo sincronizzato che preparano da mesi. Nel cielo limpido, alla luce di una splendida, calda e gioiosa luna. Le devono ammirare. Ma tutti stanno dormendo…

Le immagini sono veramente bellissime: la profonda conoscenza naturalistica crea tavole illustrate precise, animate da un segno fine elegante e illuminate, nei loro grigi eleganti, da bagliori di colore acceso, quello del becco delle oche, dei contorni degli occhi del babbuino, del caco sul ramo, delle zampe dell’anatra, dei pesci nel fiume, della pancia della mantide. Immagini che arrivano diritte al cuore, che la natura fa vibrare.

E se da una notte lunare passiamo a una giornata innevata? Dal bianco al bianco.

Ha nevicato, è domenica mattina presto e tutti ancora dormono: qualcosa è cambiato, la neve ha dipinto il mondo e lo rende ancora più bello. Il candore quasi acceca.

Se i bambini iniziano a fare palle di neve, cosa fanno invece gli animali?

Foto Vadim Trunov

Il corvo impavido, la tigre aggressiva, l’anatra fifona, tutti pensano a giocare insieme alle palle di neve. Qualcuno è più timoroso di altri, ma la sfida piace. C’è voglia di divertirsi.

La battaglia comincia. Tutti contro tutti! Pim, pum, paff, bum, splash.

Le anatre si nascondono, i passerotti si uniscono, dopo aver chiesto il permesso alla mamma, arrivano anche l’aquila, il pavone, la cinciallegra e l’upupa, non manca più nessuno, e poi il falcone cui fare attenzione, tutti si divertono. Rincorrersi in picchiata è pericoloso per qualcuno, beccate e colpi d’ala, meglio fare un bel pupazzo di neve.

Gli animali giocano per ore, sperando non vi sia mai fine, ma le cose belle sono tali proprio perché finiscono. Basta godersele, magari a piccole dosi, e al momento giusto.

Il sole tramonta, per oggi la battaglia è finita, magari domani si ricomincia.

Su quel grande e immenso bianco scende la notte nera. Prima di dormire, ciascuno pensa a quanto si è divertito. Penne bagnate e qualche ammaccatura, ma è stato bellissimo.

“Il giorno dopo tutti avrebbero giocato ancora e ancora. Perché gli animali, proprio come i bambini, adorano la neve. E la neve adora loro”. E noi con loro.

Cristina Petit

Autrice e illustratrice di quasi cento libri con molte case editrici, tradotta in molte lingue tra cui il francese, l’inglese, il giapponese, lo spagnolo, il coreano, ha vinto il premio Zanibelli per il romanzo Salgo a fare due chiacchiere e la menzione speciale Nati Per Leggere 2019 per l’albo illustrato L’arte dell’amicizia. Con Un giorno, un ascensore è stata finalista per il premio Nati per leggere – Crescere con i libri 2021. Ha insegnato per oltre vent’anni e ora si dedica alla scrittura e all’illustrazione a tempo pieno. Insegna alla scuola di scrittura Bottega Finzioni di Bologna.

Koson Ohara

Pseudonimo di Matao Ohara, è nato Kanazawa nel 1877 e morto a Tokyo, nel 1945. Di lui, nonostante la prolifica produzione artistica, si san ben poco. Ha studiato presso la scuola tecnica della Prefettura di Ishikawatra dove ebbe come insegnante di pittura il maestro Suzuki Kason. Successivamente fu anche nominato professore al nuovo Istituto di Belle arti di Tokyo, dove incontrò Ernest Fenollosa, curatore d’arte giapponese al Museum of Fine Arts di Boston. L’incontro tra i due segna l’avvio della carriera artistica di Koson, che da quel momento in poi, sarà più celebre all’estero che in patria, dove gli verranno commissionate opere da parte di collezionisti americani ed europei. Negli anni ’30, molte sue opere comparvero anche in mostre nei musei europei e americani.

Foto in evidenza del fotografo russo Vadim Trunov, che ha ripreso gli scoiattoli nel bosco fuori da Voronezh

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

 

Giuditta non è una sola

Giuditta non è una sola

L’articolo si propone di indagare e comprendere perché questo personaggio femminile è così presente nella produzione artistica. Chi era Giuditta? E chi è stata per gli artisti che hanno deciso di dipingerla?

ll Libro di Giuditta (greco Ιουδίθ, iudíth; latino Iudith) è un testo contenuto nella Bibbia cristiana cattolica. È composto da 16 capitoli che descrivono la storia dell’ebrea Giuditta. È ambientato al tempo di Nabucodonosor (605-562 a.C.),“re degli Assiri”.
Giuditta, eroina del popolo ebraico, liberò la sua città assediata dagli Assiri. Della sua bellezza si invaghì il generale assiro Oloferne, il quale la trattenne con sè ad un banchetto credendo di poterla possedere. Vistolo ubriaco, Giuditta gli tagliò la testa con la sua stessa spada e poi ritornò a Gerusalemme. Gli Assiri, trovato morto il loro condottiero, furono presi dal panico e messi in fuga.

La decapitazione di Oloferne è stata rappresentata molte volte attraverso dipinti. Tra le rappresentazioni più famose si ricorda quella di Caravaggio.  Precedentemente si cimentarono con questo tema Mantegna, Michelangelo (nella volta della Cappella Sistina), Veronese, Tiziano, Carracci, Klimt e diverse pittrici come Artemisia Gentileschi e Fede Galizia. Cosa trovarono di così interessante in Giuditta tutti questi autori così diversi per periodo, inclinazioni e stile?

Michelangelo, Giuditta e Oloferne, Roma, Cappella Sistina, particolare

Possiamo supporre che Michelangelo non fosse particolarmente interessato alla figura di questa donna, la rappresentò nei “lunettoni” della Cappella Sistina così come rappresentò la scena di Davide e Golia. Ai suoi occhi, come a quelli dei suoi contemporanei, le due scene veicolavano lo stesso contenuto. Entrambe raccontano infatti di una miracolosa vittoria del debole sul forte e servono a glorificare la potenza di Dio.

Quale esempio di maggior disparità di forze che quella di una avvenente fanciulla a confronto con un uomo d’arme indurito dalla battaglia? Giuditta ha un posto d’onore nella Cappella Sistina grazie alla sua supposta ‘fragilità’. È un simbolo della debolezza umana che riesce a vincere affidandosi alla potenza divina.

Dopo la riscoperta critica di Artemisia Gentileschi, le sue opere sono spesso state confrontate con quelle di Caravaggio, compresa la decapitazione di Oloferne.
Caravaggio, Giuditta e Oloferne, Roma, Palazzo Barberini

Nell’opera di Caravaggio la scena è dominata dalla testa di Oloferne e dalla rappresentazione pittorica del suo urlo raccapricciante, del sangue che sgorga dalla ferita. Giuditta non è al centro del quadro. La si vede giovane (per essere vedova) e aggraziata nei gesti che risultano privi di tensione e forza.  È lontana dal corpo della vittima e il contatto fra i due corpi è ridotto al minimo. La sua avvenenza è messa in risalto dalla presenza della sua serva, che Caravaggio sceglie di rappresentare anziana.

Sembra che Caravaggio si identifichi con Oloferne che, diventando vittima, ruba la scena alla sua assassina. Va in scena il timore di Caravaggio di fare una fine violenta. Quest’opera viene infatti datata intorno al 1602. Nel 1601 Caravaggio era già stato in prigione e, di lì a poco, verrà condannato alla morte per decapitazione. Da quel momento iniziò la sua eterna fuga.

                                               Artemisia Gentileschi , Giuditta e Oloferne, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte

L’opera di Artemisia Gentileschi ci racconta una Giuditta diversa.
La pittrice si identifica con Giuditta e mette in scena una lotta violenta, fisica e drammatica. La tensione del corpo e dei gesti della fanciulla, l’espressione del viso, sono straordinariamente intensi. Artemisia Gentileschi è una donna che ha subito violenza. Non solo, a questo drammatico episodio, ha fatto seguito un processo per lei umiliante e doloroso. Nella sua opera, la rabbia e l’umiliazione diventano forza e violenza. Una specie di vendetta personale.

Klimt, per citare un altro grandissimo pittore, realizzò due versioni della decapitazione di Oloferne.  Le Giuditta di Klimt sono donne sensuali, pallide e discinte.
Osservando la Giuditta del 1901 si ha l’impressione che la fanciulla ci osservi dall’alto con gli occhi socchiusi in una posa languida. Sembra consapevole del nostro sguardo e si espone ad esso, con il seno scoperto.  Adorna di gioielli, bella e pericolosa incarna una nuova tipologia di donna: la donna fatale.

             Gustav Klimt, Giuditta, Vienna, Belvedere e Museum, particolare

Nell’opera di Klimt, Oloferne scompare. Si vede un accenno della testa in un angolo, ma tutta la scena è occupata da Giuditta, la vera e unica protagonista. La donna rappresentata da Klimt ha così perso la fragilità e la rabbia.  È pericolosa, affascinante, consapevole della propria sensualità, trasgressiva. Un’immagine che si contrappone all’idea della donna angelo, pura e ingenua e che mette a fuoco una nuova, possibile, interpretazione.

Nel corso della storia dell’arte Giuditta è così cambiata, ha indossato volti diversi, raccontato storie diverse, è stata un potente schermo di proiezione dei rapporti uomo-donna, delle diverse società nella quale i pittori che l’hanno raffigurata si trovavano.  Forse perché, proprio Giuditta, usurpa un ruolo tipicamente maschile, quello dell’eroe che salva il suo popolo.
Giuditta non è la principessa salvata ma è lei la salvatrice. Per tutto questo e forse per altro ancora, Giuditta viene ripetutamente risignificata in un processo che ha reso la sua storia eternamente attuale.

Cover: La Giuditta di Artemisia Gentileschi (a sinistra) e la Giuditta di Caravaggio a confronto

Federico Buffa al Teatro Nuovo: un incontro tra calcio e musica che diventa metafora della vita

Federico Buffa al Teatro Nuovo;
un incontro tra calcio e musica che diventa metafora della vita

Una suggestione, un dettaglio: è da una piccola nota di un evento che Federico Buffa è partito per allestire l’epopea di un incontro tra “Amici fragili”, incastonato tra calcio e musica al Teatro Nuovo di Ferrara. Gli amici in questione sono il cantautore Fabrizio De André e il calciatore Gigi Riva.

Federico Buffa con Marco Caronna
Teatro Nuovo di Ferrara – foto Luca Pasqualini

L’attaccante del Cagliari che ha fatto sognare gli italiani indossando la maglia azzurra e segnando con quella il record di 35 reti in 42 partite, va a trovare De André nella sua casa di Genova. L’episodio risale al 14 settembre del 1969, dopo una partita a Genova di un Cagliari che proprio quell’anno avrebbe vinto l’unico, e storico, scudetto. Da qui Federico Buffa parte per raccontare un incontro tra due mondi e due vite apparentemente distanti, che si confrontano nel segno della passione per l’epica del calcio e per la poesia della musica.

“Amici fragili” al Nuovo – foto Luca Pasqualini

Ne esce di fatto un ritratto inedito del cantante contestatario, che sconta quasi come un peso la sua origine borghese e benestante, e del calciatore che con quella palla al piede ha spuntato prima di tutto la rivalsa di un’infanzia e giovinezza costellate da drammi e sacrifici.

Federico Buffa in scena – foto Luca Pasqualini

Ma il teatro della vita unisce fortune e disgrazie. La lettura che ne fa Buffa illustra con collaudato impeto il modo in cui si capovolgono i destini, facendoli andare su e giù per i calanchi dell’esistenza, regalando talvolta gloria inaspettata e, in altri momenti, tragedie quasi insostenibili. Ecco allora che l’umile e riservatissimo orfano di Viggiù si riscatta con quella capacità di segnare gol che ha del prodigioso e che ne ha fatto un idolo indiscusso nella terra di Sardegna, dove gioca con la maglia rosso-blu del Cagliari. Il cantante si ritrova, invece, in quella stessa amata Sardegna a scontare le sofferenze di una prigionia ai confini con la tortura per un rapimento dettata da un equivocato eccesso di ricchezza.

Federico Buffa con Marco Caronna e Alessandro Nidi
“Amici fragili” – foto Luca Pasqualini

Nato professionalmente come giornalista e telecronista sportivo, Buffa ha un talento per la narrazione che lo ha reso un’icona per tutti gli amanti dello sport e fa rimanere incantati dalle sue parole come da un inaspettato richiamo seducente. Tra il pubblico si notano infatti diversi giovani e molti volti assidui dello stadio e dei palazzetti sportivi ferraresi.

Il pubblico al Nuovo – foto Luca Pasqualini

Per Buffa è un ritorno a Ferrara e al Teatro Nuovo, dove nel novembre 2019 aveva portato “Il rigore che non c’era”, mettendo in scena lo sport come strumento che porta speranza dove nessun altro arriva.

Federico Buffa
Marco Caronna – foto Luca Pasqualini

Qui Buffa si conferma il talentuoso narratore rivelato dal piccolo schermo, capace di stabilire collegamenti inediti, creare connessioni inaspettate e aprire digressioni che tengono col fiato sospeso come su una giostra di parole ed emozioni. A fare da collante per questi passaggi di tempo e memorie, di luoghi geografici e spazi intimi ci sono le canzoni di De André e la parte musicale affidata ai bravi Marco Caronna (voce e chitarre) e Alessandro Nidi a pianoforte e tastiere.

Perché questo gran casino sul caso Cospito? E’ l’antica ricetta della destra: fomentare il disordine … per riportare l’ordine.

Perché tutto questo casino sul caso Cospito?
E’ l’antica ricetta della destra: fomentare il disordine … per riportare l’ordine.

Ho da sempre avuto un particolare fascino, per il romanticismo del vero movimento anarchico. Tant’è che nel mio testamento morale, la prima delle musiche che ho chiesto per il mio funerale è “Addio Lugano bella”. Quella che dice che “… la nostra idea è solo idea d’amor”Le manifestazioni violente e terroristiche, anche di questi giorni, in nome dell’anarchia, sono un tradimento e un deplorevole imbroglio.
Il caso Cospito, che resta decisamente serio, sembra quindi niente di più che un pretesto, per dare sfogo a pulsioni violente di alcune teste calde, sempre pronte a bruciare. Anche perché non aiutano, certamente, la causa di quel poveretto, sciagurato che più non si può.
Però,  ha davvero senso questo rigore della legge? O, per dirlo meglio, è sensata la procedura seguita finora? E ancora, è accettabile il modo con cui la politica e la destra di governo è intervenuta sul caso Cospito?
Dal punto di vista legale, il ministro Nordio ha spiegato bene quanto sia complesso il caso. E comunque, i margini di discrezionalità che avevano i giudici, sono stati usati con inusuale rigore restrittivo.
Dal punto di vista politico, la destra di governo fa la destra, come sempre. Niente di meglio per lei per dimostrare il legalismo giustizialista, che è una cifra distintiva della sua propaganda. Non c’era da aspettarsi da loro, insomma, il minimo di spirito umanitario, per un detenuto che sta morendo per lo sciopero della fame. Il dibattito parlamentare, e la coda di commenti e di insulti lo hanno confermato.

Personalmente, aldilà di tutti i bizantinismi dei legulei e della propaganda politica della destra, l’idea che mi sono fatto come semplice cittadino, è che tutto considerato – condizione umana, situazione legale e responsabilità personali – tenere Alfredo Cospito al 41 bis sia una crudeltà gratuita.

Il vero senso di giustizia e di umanità, è quello che fa uno stato forte, perché alberga nell’animo sia delle persone perbene, i più, sia di uno stato come il nostro, che li ha consacrati nella sua Costituzione.
Sostituire il rispetto di questi valori, politici e morali, con la pratica di prove muscolari dimostrative, è solo brutale ottusità capace di generare soltanto danni.
Gli altri aspetti, quelli più direttamente politici, lasciano davvero allibiti. E fanno sorgere una domanda: perché tutto questo casino sul caso Cospito? C’è probabilmente un disegno rozzo che, associato all’ignoranza e imperizia dei protagonisti governativi, costituisce un vero pericolo per la democrazia.
In primis, vediamo personaggi totalmente inadeguati ai ruoli di alta responsabilità a cui sono preposti, che maneggiano carte e informazioni delicate dello Stato, come fossero lettere commerciali o posta del cuore ai giornali. Cosi, anche se il ministro della Giustizia è intervenuto in parlamento, assicurandoci che gli atti resi pubblici dal deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli non sarebbero secretati (ma i giudici non concordano con Nordio), la sparata di Donzelli, vicepresidente del Copasir, appare di una gravità inaudita.
Chi ha vissuto a lungo posti di responsabilità pubblica, con atti e notizie altamente sensibili (in Borsa, dove lavoravo, c’è addirittura uno specifico reato, quello di insider) non può che essere sconcertato e preoccupato. E so’ bene di cosa parlo, avendo personalmente rifiutato anche di collaborare con gli stessi servizi segreti, che mi hanno chiesto più volte di avere da me, informazioni riservate a… pagamento. E questo per rispettare, con rigore, il dovere di riservatezza.
Questi esponenti politici della maggioranza di governo si dimostrano totalmente privi di senso dello stato. Incapaci di distinguere il ruolo di partito, da quello di governo. Di capire ciò che si può fare, da ciò che non si può fare. Le parole in libertà della campagna elettorale, da quelle che non sono consentite a chi ricopre un ruolo di così alta responsabilità.
L’attacco poi, reiterato e violento, al Pd, manipolando fatti e parole, non è soltanto un’azione irresponsabile e uno sfregio al galateo istituzionale, ma è anche clamorosamente falso nei contenuti. Un attacco a freddo, immotivato e gratuito, quindi anche vigliacco.
Ma perché? viene da domandarsi. Per quanto ignoranti, maldestri e spregiudicati, non convince la casualità della vicenda, che è da supporre coperta politicamente dalla stessa presidente Meloni, visto che non scarica, ma difende i suoi due sciagurati scherani. Non solo, ma se non prende nettamente le distanze, vuol dire che per lei va bene così. Se così fosse, la vicenda sarebbe ancora più inquietante.
Credo che Giorgia Meloni si stia trovando di fronte, nella realtà interna e in quella internazionale, molti più problemi di quanto immaginasse. Magari pensava, sbagliando di grosso,  che per governare bastasse conquistare il potere.  Ha fatto promesse eclatanti e irresponsabili, sue e dei suoi alleati, che non può mantenere. Ha in vista, nell’economia e nella realtà sociale, una situazione in potenza esplosiva. Trova in Europa difficoltà che pensava, in modo infantile e superficiale, di gestire a suo piacimento. E invece è inconcludente, isolata, impacciata.
Non vorrei che, aizzando le piazze dell’estremismo politico, pensasse a spostare sull’ordine pubblico quella attenzione che ne farebbe una nuova emergenza, da gestire col manganello e la polizia. Gli strumenti di governo che la destra preferisce da sempre. Ricordiamo Genova G8 e Bolzaneto. E quella di allora era una destra moderata rispetto a quella che ci troviamo di fronte oggi. Una strategia quindi che tenderebbe a oscurare e lasciare in secondo piano, tutte le vere emergenze, che sono compito primario di un governo responsabile, quale che ne sia il colore.
Che questo sia un disegno studiato, o solo la conseguenza degli errori sconsiderati che hanno commesso, il rischio di finire in un pericoloso pantano mi sembra oggettivo. e molto elevato. La presidente del consiglio non può essere così ipocrita da invocare di abbassare i toni… e nello stesso tempo, consentire ai suoi scalmanati fedelissimi di esercitarsi ogni giorno in nuove provocazioni.
Legge e ordine è l’antica ricetta della destra, buona ovunque nel mondo. Ma quale ordine? Piuttosto il contrario. La sensazione è che, con vari artifici, si produca il disordine, per poi esercitarsi a riportare un ordine si’, ma di polizia.
Possiamo stare tranquilli?
Ma si certo, tanto c’è Giorgia!

La storia corre sui binari

La storia corre sui binari

Forse l’immagine del treno è proprio quella di Paul Verlaine, dove “il treno scivola senza mormorio, ogni carrozza è un salotto in cui si parla sottovoce.” Sicuramente lo è stato l’Orient Espress, il treno a lunga percorrenza messo in servizio nel 1883 dalla Compagnia Internazionale des Wagons-Lits, che collegava Parigi Gare de L’Est a Costantinopoli, l’attuale Istanbul. La sua storia si interruppe durante le due guerre mondiali e definitivamente nel 2009, assumendo successivamente trasformazioni e ridefinizioni del tragitto.

Oggi esistono diversi progetti che ripropongono le atmosfere dello storico convoglio, su itinerari da Parigi alle Alpi francesi e dall’arco alpino al Sud Italia, su 16.000 km di ferrovia, tra scorci panoramici suggestivi e ogni sorta di comfort.

Negli Anni Trenta, l’Orient Espress visse l’apice della sua fama per il lusso del suo arredamento, la raffinata cucina, il sevizio permanente notturno e la sapiente assistenza di viaggio. Nobili, reali, diplomatici, uomini d’affari e la borghesia ricca erano i viaggiatori privilegiati di questo treno straordinario e vennero perfino aggiunte carrozze-letto che da Londra raggiungevano Calais, proseguivano per Parigi e si collegavano con l’Orient Espress.

Un treno che ha fatto sognare e fantasticare generazioni, riempendo pagine di letteratura e cinematografia come ambientazione di storie e narrazioni, dove accanto a personaggi loschi, ricchi annoiati, assassini e spie, transitavano cartomanti, camerieri inappuntabili, rampolli scapestrati di famiglie importanti, imbroglioni di passaggio, faccendieri, sognatori romantici e maggiordomi ineccepibili.

E se dalla fervida fantasia di Agatha Christie è nato Assassinio sull’Orient Espress (1933), nella storia del famoso treno avvenne veramente un omicidio. Era il 1935 e la direttrice di una scuola di moda di Bucarest, Maria Farcasanu, fu derubata e gettata dal treno in territorio austriaco. L’assassino, Karl Strassar, venne identificato grazie a una stola di volpe argentata appartenuta alla vittima e venduta incautamente a una signora svizzera.

La fantasia e l’immaginazione sono legati anche al treno della Transiberiana Mosca-Vladivostok, la linea ferroviaria costruita in 10 anni nel 1891, procedendo contemporaneamente dai due capolinea per 9228 km di paesaggi affascinanti e sempre mutevoli. Occorrevano 3-4 mesi per percorrere tutto il tragitto sulla più lunga strada ferrata del mondo; oggi bastano 9 giorni per attraversare 7 fusi orari.

Nei primi anni di servizio i binari si interrompevano dopo Irkutsk in Siberia dove, sulle rive del lago Bajkal, i vagoni venivano imbarcati su due traghetti rompighiaccio e ricollocati sui binari sulla riva opposta. E proprio su questo treno, il 17 marzo 1938 nacque il più grande ballerino di tutti i tempi, Rudolf Nureyev, mentre la madre raggiungeva il marito in servizio nell’Armata Rossa. La ferrovia trasportò almeno 4 milioni di contadini attratti dal miraggio delle terre ad est, contribuendo a disegnare la nuova mappa della vasta Russia.

Con un altro treno storico, il Treno Blu di Tito, sulle rotaie corre anche un pezzo di storia dei balcani. Dal 1959 fino alla sua morte, Josip Broz Tito viaggiò su quel convoglio da Belgrado in ogni angolo della allora Jugoslavia e anche fuori dai confini nazionali, per 600 mila chilometri, ospitando personalità di tutto il mondo, tra cui Arafat, la regina Elisabetta, Nehru.

E fu lo stesso treno che riportò per l’ultima volta a casa il padre della Jugoslavia socialista, deceduto a Lubiana il 4 maggio 1980. Folle intere in lacrime, allineate sulle banchine delle stazioni lo attendevano e al suo passaggio rendevano omaggio al Presidente. Oggi lo storico treno ha riacquistato gli antichi splendori per i turisti che desiderano conoscere quei luoghi.

Su un altro celebre treno corre il destino della storia: il Treno di Lenin. Era un convoglio, organizzato dalla Germania con non poche difficoltà e rischi, per riportare Lenin in Russia dopo aver lasciato la Svizzera, dove viveva la condizione di esule. Un treno partito da Zurigo il 9 aprile 1917, alla volta di Mosca, dove Vladimir Il’ič Lenin avrebbe organizzato e dato l’avvio alla Prima rivoluzione bolscevica.

Viaggiava in un vagone piombato con status di extraterritorialità, accompagnato dalla moglie Nadezhda Krupskaja e anche dall’amante, la rivoluzionaria Inessa Armand, insieme ad altre 32 persone fedelissime. Lenin rifiutò una carrozza di lusso e ne chiese una con i sedili di legno e scompartimenti di 2^ e 3^ classe. Si viaggiava solo di giorno per motivi di sicurezza.

Arrivato in Flinlandia, lo statista inviò ai suoi un telegramma: “Arrivo. Informate la Pravda”. Archi di trionfo sui binari, un picchetto d’onore dei marinai del Baltico, bande e fiori, i colori oro e rosso della vecchia bandiera russa apparivano dappertutto e accompagnavano l’ultimo tratto del viaggio.

La storia corre anche sui binari del dolore e il Binario 21 della Stazione Centrale di Milano ce lo ricorda. Da quel binario partivano i treni con i deportati, destinazione i campi di concentramento. Erano gli anni tra il 1943 e il 1945 e 23 treni, originariamente treni postali, vennero destinati a diversi lager con il loro vergognoso carico umano: Mathausen-Gusen, Bergen-Belsen, Ravensbrück, Flossenberg, Auschwitz e anche i campi intermedi di Fossoli, Verona e Bolzano.

Trasportavano ammassate migliaia di persone, ebrei, perseguitati politici e religiosi, dissidenti, partigiani. La posizione del Binario 21 era nascosta agli occhi dei passanti perché era al di sotto del livello stradale, per permettere operazioni di trasporto e partenza indisturbate. I vagoni venivano poi sollevati da un montacarichi e collocati sulla rotaia, pronti per il loro viaggio di morte. Oggi il Binario 21 ospita il memoriale della Shoah.

I treni sono da sempre attraversati da storie e narrazioni fantastiche, curiose, dolorose, leggendarie, affascinanti, incredibili, gioiose, e le stazioni ne costituiscono la loro casa e immagine speculare.

Le stazioni sono una mia vecchia passione” diceva Tiziano Terzani. “Potrei passarci giornate intere, seduto in un angolo, a guardare quel che succede. Quale altro posto, meglio di una stazione, riflette lo spirito di un Paese, lo stato d’animo della gente, i suoi problemi?”

Cover: l’Orient Express in Polonia (foto Wikimedia Commons)

Per leggere gli articoli di Liliana Cerqueni su Periscopio [vedi qui]

Per certi versi
L’inganno del cielo

L’inganno del cielo

Non ingannarmi cielo
Come una vigna
Di luce
Pestata
Il tuo indirizzo
Non si trova
Sulle parole
Che mi hai lasciato
C’è scritto prega
In mezzo alle stelle
Togliti di mezzo
Il mondo non va
per il tuo verso
Il mondo va
È diverso
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’OlioPer leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Donne afghane (3)
Parisa, la nuova vita in Italia: da autista di Pink Shuttle a estetista

Le giornaliste di Avvenire – uno dei pochi grandi quotidiani italiani che ‘canta fuori dal coro’ e con cui ci sentiamo spesso in sintonia – inaugurano oggi un’iniziativa che ci pare di grande valore.  Dare voce alle bambine, alle ragazze e alle donne afghane. E, soprattutto, ripetere questo impegno ogni giorno (fino all’8 marzo), non una tantum, inseguendo la notizia eclatante. come è in uso nei media mainstream italiani e stranieri. Solo, infatti, attraverso un impegno giornalistico costante ed appassionato è possibile restituire ai lettori la ricchezza di voci dell’altra metà del cielo e dell’altra parte del mondo.
Periscopio riporterà ogni tappa del viaggio delle giornaliste di Avvenire, mentre invita tutte le sue lettrici e lettori a dare il proprio contributo al Progetto di Scolarizzazione per le donne afghane (vedi in calce all’articolo tutti gli estremi per aderire).
(La redazione di Periscopio)

Parisa, la nuova vita in Italia: da autista di Pink Shuttle a estetista

Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all’8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l’università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l’appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE

di Daniela Pozzoli
(articolo originale: Avvenire il 18.02.23)

Prima giornalista a Kabul, poi grazie alla onlus Nove piccola imprenditrice. L’arrivo dei taleban fa saltare tutti i piani. E la vita ricomincia all’estero

Iran e Afghanistan, il cuore di Parisa è diviso tra questi due tormentati Paesi. Ci ha vissuto gran parte della vita e là si trovano le sue radici. Nata in Afghanistan, ha trascorso l’infanzia in Iran dove la famiglia si era trasferita («Non ho ricordi di quel periodo, ero troppo piccola») e, ormai sposata, è tornata in Afghanistan con il marito e i tre figli di 11, 8, 2 anni, per poi fuggire – grazie a un programma umanitario della Nove onlus – un anno e mezzo fa, quando i taleban hanno riconquistato il potere.

Oggi ha 49 anni e nella videochiamata dal tinello di casa spiega che «non si può fare un parallelo fra la situazione delle donne iraniane e quelle afghane. Le iraniane possono muoversi liberamente da sole, studiano, lavorano, adesso stanno portando avanti una battaglia per affrancarsi dall’obbligo del velo e dalle repressioni». Al contrario in Afghanistan «lo Stato islamico ha cancellato rapidamente, in meno di un anno, i traguardi ottenuti faticosamente in vent’anni. I taleban vogliono reprimere le donne, anche quelle che accettano l’obbligo dell’hijab o del burqa pur di riprendere a esistere, uscire, studiare e lavorare. Se non seguono questa regola, gli studenti coranici le imprigionano in casa. Qui in Europa è inimmaginabile, là è normale… ».

Parisa a Kabul, quando guidava i taxi

Parisa a Kabul, quando guidava i taxi – Nove onlus

L’attivista Madina traduce per noi dal dari, la lingua persiana parlata in Afghanistan, ma anche gli occhi di Parisa parlano, E continua a raccontare. Tornata a Kabul dall’Iran, Parisa aveva cominciato a fare la giornalista: «All’inizio – continua sorridendo – avevo trovato un posto in una radio, ma è durata poco, il mio accento è diverso da quello locale. Allora ho seguito un corso di dizione e sono stata assunta in una tv dove sono rimasta per alcuni anni».

Quando fare la reporter era diventato troppo rischioso, si è iscritta al corso gratuito della  Nove onlus per autiste professioniste, un mestiere utilissimo in un Paese dove le patenti sono costose e dove le famiglie raramente investono sulle figlie. La onlus italiana – che opera da lungo tempo con programmi di sviluppo in tutela delle donne e degli “ultimi” – l’ha formata: «Guidavo il Pink Shuttle, la prima linea di trasporto afghana di donne per le donne (progetto nato anche con il sostegno di Otb Foundation, ndr.)».

Gli uomini erano scettici, faticavano a convincersi che le donne potessero cambiare una ruota, conoscere i motori, orientarsi nel traffico, ma hanno dovuto ricredersi. Questa iniziativa, spiega, permetteva infatti alle loro mamme, mogli, sorelle, figlie di spostarsi diminuendo i rischi. Il disegno era dunque ambizioso e intelligente: trasformare il progetto di mobilità in un’impresa imprenditoriale al femminile.

Tutto bene, finché sulla strada della tenace Parisa sono arrivati i taleban. Che cosa fare, se non mettersi in salvo? «L’evacuazione dal Paese è durata pochi ma interminabili giorni – racconta -, riuscire a scappare da Kabul è stato difficilissimo e l’impatto con il mondo occidentale è stato forte. La mia esistenza è andata a pezzi».

Parisa in Italia sogna di aprire un salone di bellezza

Parisa in Italia sogna di aprire un salone di bellezza – Nove onlus

Quando però le radici sono profonde si è avvantaggiati e la solida famiglia di Parisa pian piano si è curata le ferite. «Mio marito era stato scelto dai miei genitori, ma negli anni noi due abbiamo costruito un rapporto fondato su sentimenti veri».

Inseriti entrambi nel programma d’integrazione “Oltre l’accoglienza” di Nove, Parisa e i suoi hanno utilizzato tutti gli strumenti messi a disposizione per inserirsi nella nuova realtà italiana. «Prima siamo stati in Toscana, poi nel Lazio. Mio marito ha iniziato a seguire un corso di informatica, mentre io e mia figlia vorremmo aprire un negozio di estetica». Hanno iniziato formazione e abilitazione professionale e nella città dove vivono s’è aggregata una comunità afghana più numerosa.

A Parisa resta però una grave ombra: una delle figlie è in Iran, ha una bimba piccola e le sta scadendo il visto. Gli operatori di Nove stanno provando insieme con i loro partner di Arci a inserirle nei prossimi corridoi umanitari. «La mia speranza – conclude Parisa – è riuscire a portarle in salvo e vivere insieme in un Paese libero, dove il rispetto delle proprie tradizioni non sia a spese delle donne e il futuro sia una realtà possibile».

 

 

Cover: Parisa in Italia sogna di aprire un salone di bellezza – Nove onlus

Per leggere tutte le testimonianze raccolte dalla giornaliste di Avvenire, clicca su; Donne afghane

Ferrara val bene uno scempio?

Ferrara val bene uno scempio?

“Parigi val bene una messa”
(l’ugonotto Enrico di Navarra, nell’atto di convertirsi al cattolicesimo pur di conquistare il Regno di Francia)

Se c’è una cosa innegabile, è che i fratelli Sgarbi abbiano saputo tessere una rete di relazioni. Relazioni nel campo della cultura, dell’editoria, della comunicazione, della politica. Persino il concerto di Springsteen a Ferrara, che sembrava una bufala, si sta concretizzando ed il primo a parlarne come di una cosa fatta (ancora prima di Little Steven, che al tempo negò ogni certezza) fu Vittorio Sgarbi.

Parliamo di due ego straripanti (quello maschile tracimato oltre ogni argine) ma indubbiamente capaci di catalizzare attenzione, intelligenze e soldi. In questa sede non interessa né esaltarne le virtù critiche e divulgative, né denigrarle tout court. Il pacchetto andrebbe spacchettato, perché non tutto è meraviglioso ma nemmeno è tutto da buttare. Dispiace tuttavia che una tale capacità di influenza venga utilizzata per celebrare un ego dilatato alla dimensione degli avi – come nell’intitolazione di una piazzetta cittadina al padre farmacista – e venga messa in sordina quando potrebbe orientare verso la decenza progetti giganteschi ma brutti, quasi osceni nelle modalità di realizzazione: come un concerto da 50.000 persone nell’area verde più delicata della città, il Parco Bassani – in presenza di alternative praticabili – o come una riqualificazione urbana (il progetto Fe.Ris.) che farà colare cemento, negozi, automobili e carrelli dove ci sono Schifanoia e le Mura medievali, poi addizionate in epoca rinascimentale.

Eppure parliamo del sottosegretario alla Cultura di Ferrara, che tutti considerano il dominus de facto del ramo, a partire dal suo assessore. Possibile che quest’uomo adori essere adorato, finalmente, anche dal territorio natale ma rimanga sordo agli appelli rivoltigli dai suoi cittadini? Eppure [Vedi su Periscopio Lettera aperta a Vittorio Sgarbi su Forum Ferrara Partecipata] si parla della sua amata Ferrara, dello scempio alla sua bellezza, che dovrebbe essere il suo pane, dal momento che ha costruito una carriera (sul turpiloquio, ma anche) sulla salvaguardia della bellezza paesaggistica, artistica e architettonica.

Ci rifiutiamo di pensare che “regnare” su Ferrara valga bene uno scempio, su cui far calare il silenzio.

“Le beatitudini sono impronte da seguire”: omelia in ricordo di Giuliano Sansonetti

Le beatitudini sono impronte da seguire

Se nelle beatitudini Cristo si specchia e si riconosce nel volto di ogni uomo, rileggendole continueremo a incontrare anche te, caro Giuliano. Nel Suo volto scorgeremo il tuo, nelle Sue parole le tue; nei Suoi passi anche i tuoi. Quanto mai opportuna trovo pertanto l’idea che avete avuto di accompagnare la foto ricordo di Giuliano con una frase delle beatitudini, forse quella che meglio lo rappresenta: Beati i puri di cuore perché vedranno Dio.

Più che una dedica alla sua memoria penso sia una consegna per noi, parole che c’impegna nel futuro. Perché essere puri di cuore significa saper vedere anche nei volti più sfigurati, nelle situazioni più buie, una presenza, una luce, il volto del Cristo paziente, la possibilità di un riscatto, un lembo di speranza.

È allora con gratitudine e affetto, caro Giuliano, che ti affidiamo al vangelo delle beatitudini, sotto lo sguardo e nelle mani di Colui che le ha proclamate sul monte. Ti affidiamo a quella Parola di vita che è più forte della morte, perché è parola “sovversiva”, che cambia le sorti; parola non nostra e tuttavia seminata e affidata a noi.

Le beatitudini sono impronte lasciate da un Assente affinché siano calcate di nuovo. Il Cristo ci precede, come i discepoli dopo la Pasqua in Galilea tra le genti. Nel volto delle quali Egli ha lasciato la traccia del suo. Tanto che le sue parole risuonano come un invito a riconoscerlo negli uomini e nelle donne delle beatitudini e a farci loro prossimi. Per questo le beatitudini sono ad un tempo profezia e epifania di umanità nuova, sono le inaudite parole che ci abitano nell’intimo sino farci appartenere ad esse.

Sei stato tu a ricordarci che «le beatitudini sono un “dire originario”, una rivelazione appunto, in parole d’uomini». Così prima ancora di essere un momento dell’esperienza religiosa, questa rivelazione «rappresenta una chiave essenziale di accesso al reale, un’interpretazione di un modo di essere dell’uomo nel mondo».

Con i tuoi scritti su Emmanuel Lévinas ci hai pure ricordato la dimensione etica di questa rivelazione sul monte, generativa di una coscienza e di uno stile ospitali. Lo stesso ricordatoci dalla prima lettura (Lettera ai Romani, 14, 7-9) in cui ritroviamo le parole che orientano il vivere e il morire, che strutturano la nostra vista nella forma di un essere per gli altri.

Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso, e nessuno muore per se stesso. Si è chiamati alla responsabilità dell’altro, che Paolo concentra nella figura del Signore: se noi viviamo, “viviamo per” il Signore, se noi moriamo, “moriamo per” il Signore. Vivere e morire per lui significa essere e vivere per gli altri: essere per la vita anche entrando nella morte.

Il volto d’altri è irriducibile a una totalità; sfugge alla presa, a ogni tentativo di definizione, delimitazione, possesso. Il volto dell’altro si può solo ricevere come una infinità. Così è la persona, impossibile da conculcare, imbavagliare, possedere. Il volto grida nel silenzio, interpella la nostra responsabilità: “eccomi è l’unica risposta a cui non possiamo svincolarci”.

Ho voluto così rileggere la Parola di Dio, parola risorta, nell’orizzonte delle tue scritture per vederne la luce. Luce di una fede essenziale, in grado di tenere assieme la parola e la vita. Lo ricordasti a un incontro ecumenico durante il quale mi colpì questa tua frase: «Ciò che conta è ciò che ci rende cristiani: vale a dire la comune fede in Gesù. Testimoniamo la verità con la vita».

Ritroviamo questo stesso pensiero in un tuo studio sulla rivista Humanitas, nel quale – citando il filosofo Michel Henry – ricordavi che «La Parola della vita, che è Gesù, ci parla non delle cose o del mondo, ma della Vita stessa. Meglio ancora, essa parla la vita; quello che esprime, non lo pone mai fuori di sé, ma lo conserva in sé come un bene di cui non si disfa mai, giacché è la sua stessa vita».

E nella prefazione al libro di Henry, Parole del Cristo, annotavi: «uno dei luoghi in cui il carattere umanamente sovversivo della parola di Cristo si manifesta nel modo più clamoroso è rappresentato dalle beatitudini». In questi detti in parole umane si nasconde un’altra parola, un Logos originario che va incontro agli uomini nella loro ricerca di senso e li raggiunge nel cuore del loro stesso essere. Quella parola frontale diventa così “consustanziale” all’umano, perché «il luogo delle beatitudini è la stessa condizione umana».

«Se così è» – scrivevi – «il cuore, solo il cuore, può essere il luogo di tale rivelazione». Il cuore diventa luogo di intimità e irradiazione, che ad un tempo ospita ed è ospitato da ciò che è all’origine e originante di ogni altra parola. Perché la vita non è tutta nelle nostre mani e la sua origine non va affatto cercata in noi. Lungi dall’esserne noi il fondamento, la riceviamo da altri per interiorizzarla, lasciarci trasformare e poi donarla nuovamente.

Così meditavi e scrivevi. Così hai cercato di vivere nella quotidianità la tua fede, che mi ricorda i versi del poeta Pierre Emmanuel Verbe Visage (in Jacob, ed. du Seuil, Paris 1970, 163).
“Volto del Cristo unica somiglianza
Che non finisco mai di decifrare
Sulle tue labbra la nostra tutta santa identità”.

Beati i puri di cuore, perché saranno una cosa sola con Dio. Così intrepreta un altro poeta Khalil Gibran.
Questo noi crediamo, questo noi speriamo per tutti, dicendo con Gabriel Marcel «Signore spero in te per noi».

Altri articoli in ricordo di Giuliano Sansonetti su Periscopio [vedi qui]

In copertina: Giuliano Sansonetti – foto da Telestense

Arturo Brachetti torna a Ferrara: atteso oggi il suo spettacolo Solo

Arturo Brachetti torna a Ferrara: atteso oggi il suo spettacolo Solo

Grande attesa il 18 e 19 febbraio per lo spettacolo di quick change di Arturo Brachetti al Teatro Comunale di Ferrara

Anche la seconda data aggiunta a Ferrara dello spettacolo Solo, the Legend of quick change, l’attesissimo show del mago del trasformismo Arturo Brachetti, sta raggiungendo il tutto esaurito.

In Solo, il protagonista è ancora quell’arte che ha reso Brachetti celebre in tutto il mondo e che qui la fa da padrone con oltre 60 personaggi, molti ideati appositamente per questo show, che appariranno davanti agli spettatori in un ritmo incalzante e coinvolgente.

Lo spettacolo propone anche un viaggio nella sua storia artistica: dai grandi classici in cui eccelle, come le ombre cinesi, il mimo e la chapeaugraphie, alle sorprendenti novità come la poetica sand painting e il magnetico raggio laser.

Il mix tra scenografia tradizionale e video mapping permette di enfatizzare i particolari e coinvolgere gli spettatori. In questo spettacolo, Brachetti apre le porte della sua casa, fatta di ricordi e fantasie; una casa senza luogo e senza tempo, in cui il sopra diventa il sotto e le scale si scendono per salire.

Reale e surreale, verità e finzione, magia e realtà: tutto è possibile insieme al grande maestro internazionale di quick change che ha creato un varietà surrealista e funambolica, in cui immergersi lasciando a casa la razionalità.

Dai personaggi dei telefilm celebri a Magritte e alle grandi icone della musica pop, passando per le favole e la lotta con i raggi laser in stile Matrix, Brachetti batte il ritmo sul palco: 90 minuti di vero spettacolo pensato per tutti, a partire dalle famiglie.

Famoso in tutto il mondo, Brachetti è il grande maestro internazionale del quick-change, quel trasformismo che lui stesso ha riportato in auge, reinventandolo in chiave contemporanea. La sua carriera comincia a Parigi negli anni Ottanta: da qui in poi la sua carriera è inarrestabile, in un crescendo continuo che lo ha affermato a livello internazionale. Si è esibito ovunque, in diverse lingue e in centinaia di teatri.

Il suo precedente one man show L’uomo dai mille volti è stato visto da oltre 2 milioni di spettatori.

I suoi numeri di quickchange sono così veloci da essere imbattuti nel Guinness dei primati.

Foto di scena, credits Paolo Ranzani

Rinascimento a Ferrara: Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa. Inaugurata la grande mostra al Palazzo dei Diamanti

Rinascimento a Ferrara: Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa

Ferrara, Palazzo dei Diamanti
18 febbraio – 19 giugno 2023

La mostra

A seguito di un complesso intervento di restauro e riqualificazione, Palazzo dei Diamanti il 18 febbraio 2023 riapre i battenti accogliendo la mostra dedicata a due grandi maestri ferraresi del Rinascimento: Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa.

L’esposizione costituisce la prima tappa di un progetto più ampio e ambizioso intitolato Rinascimento a Ferrara 1471-1598 da Borso ad Alfonso II d’Este, che indagherà la vicenda storico-artistica del periodo compreso tra l’elevazione della città a ducato e il suo passaggio dalla dinastia estense al diretto controllo dello Stato Pontificio. Gli altri momenti del percorso – idealmente inaugurato dalla rassegna Cosmè Tura e Francesco del Cossa. L’arte a Ferrara nell’età di Borso d’Este, tenutasi a Palazzo dei Diamanti nel 2007 – saranno dedicati ai grandi protagonisti di quella stagione: Mazzolino e Ortolano, Dosso e Garofalo, Girolamo da Carpi e Bastianino.

Le oltre cento opere esposte, provenienti da musei e collezioni di tutto il mondo, offrono al pubblico un’occasione unica per scoprire (o riscoprire) l’arte di due grandi interpreti del Rinascimento italiano: Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa.

Dotato di un incredibile talento compositivo, straordinario per qualità ed espressività emotiva, Ercole de’ Roberti (Ferrara, c. 1450 –1496) era l’erede dell’Officina ferrarese, il più giovane e intelligente tra quanti parteciparono al clima culturale di Palazzo Schifanoia, negli ultimi anni del governo di Borso d’Este. Operò a più riprese a Bologna, dove lasciò una impronta profondissima, ma non vi è dubbio che a Ferrara trovò l’ambiente più adatto in cui esprimersi durante l’ultimo decennio della sua vita, trascorso alle dipendenze della corte.

Fu Lorenzo Costa (Ferrara, 1460 – Mantova, 1535), di dieci anni più giovane, a raccoglierne l’eredità e a continuarne lo stile nelle opere giovanili. Ma durante un lungo soggiorno a Bologna la sua pittura mutò in direzione di una maggiore morbidezza, di una classicità calma e distesa. Il mondo stava cambiando, Leonardo e Perugino stavano imponendo una nuova “maniera”, che Costa comprese subito e della quale fu tra i maggiori interpreti, anche dopo il trasferimento a Mantova alla corte dei Gonzaga.

I visitatori possono seguire la carriera di Ercole attraverso oltre venti opere (di gran lunga il numero maggiore mai riunito), dagli esordi alla compiuta maturità. Tra le prove giovanili sono presenti gli scomparti del polittico Griffoni, eseguito a fianco di Francesco del Cossa, e i luminosi Ritratti di Giovanni II e Ginevra Bentivoglio che arrivano da Washington, una commissione che sancisce il prestigio raggiunto nella vicina Bologna. Le sale dedicate agli ultimi anni, quando Ercole dopo il rientro in patria era divenuto pittore di corte degli Este, sono impreziosite da quattro dipinti di rara raffinatezza, grazie al prestito eccezionale concesso dalla National Gallery di Londra: oltre al dittico che appartenne alla duchessa Eleonora d’Aragona, la Raccolta della manna e l’Istituzione dell’Eucarestia, forse provenienti da una chiesa ferrarese. Dal Kimbell Art Museum di Forth Worth giunge la tavola con Porzia e Bruto che sarà ricongiunta alla compagna con Lucrezia, Bruto e Collatino della Galleria Estense di Modena.

Non meno ricca la selezione di lavori di Costa, che prende avvio dal periodo giovanile, durante il quale il pittore è impegnato in un fruttuoso confronto con Ercole, come dimostrano le Storie degli Argonauti qui riunite per la prima volta. Questa fase, che passa attraverso capolavori come l’Adorazione del Bambino del Musée des Beaux-Arts di Lione, trova un termine e una sintesi in una serrata successione di straordinarie pale d’altare degli anni Novanta del Quattrocento. Per illustrare il Costa più classicheggiante e pacato è in mostra una serena Sacra famiglia dal Museo di Toledo in Ohio; mentre per documentare il periodo mantovano, finora meno frequentato dagli studi, intervengono la Veronica del Louvre, il Ritratto di cardinale del Minneapolis Institute of Art, sino all’ultima opera nota, la Madonna e santi della chiesa di Sant’Andrea a Mantova, datata 1525.

I due protagonisti sono affiancati da maestri nobili e da compagni di viaggio contemporanei: Mantegna, Cosmè Tura, Niccolò dell’Arca, Marco Zoppo costuiscono il punto di partenza, mentre Antonio da Crevalcore, Guido Mazzoni, Boccaccio Boccaccino, Francesco Francia e Perugino offtono una sponda di dialogo lungo il percorso espositivo.

La mostra ha il suo prologo ideale a Palazzo Schifanoia, dove il giovane Ercole de’ Roberti esordisce nel Salone dei Mesi realizzando il mese di Settembre, e un proseguimento naturale nelle sale della Pinacoteca Nazionale al piano nobile di Palazzo dei Diamanti dove, per l’occasione, è proposto un itinerario tematico che approfondisce il contesto artistico in cui de’ Roberti e Costa operano.

A tal proposito è stato istituito un biglietto abbinato che consente l’accesso in mostra e Pinacoteca a un prezzo agevolato, così come, nel quadro del più ampio progetto finalizzato alla valorizzazione culturale e turistica della città e di collaborazione tra enti, è stato siglato un accordo di reciproca promozione e riduzione sul biglietto d’ingresso con il Museo di Casa Romei e il Museo Archeologico Nazionale di Ferrara, afferenti alla Direzione Regionale Musei dell’Emilia Romagna.

 Anja Rossi, Ufficio Stampa Fondazione Ferrara Arte

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Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa

Ferrara, Palazzo dei Diamanti
18 febbraio – 19 giugno 2023

Mostra a cura di
Vittorio Sgarbi e Michele Danieli

Organizzata da
Fondazione Ferrara Arte e Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara

in collaborazione con
Direzione Generale Musei e Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Ministero della Cultura

con il patrocinio di
Ministero della Cultura
Regione Emilia-Romagna

con il sostegno di
Versalis Spa
BPER Banca

Aperto tutti i giorni, dalle 10.00 alle 20.00
Aperto anche Pasqua, Lunedì dell’Angelo, 25 aprile, 1¢ maggio, 2 giugno

Informazioni e prenotazioni

tel. 0532 244949 | diamanti@comune.fe.it
www.palazzodiamanti.it

Ufficio Stampa
Ufficio Stampa Fondazione Ferrara Arte
Anja Rossi
3404190867 | comunicazione.ferrararte@comune.fe.it

Torino, Extinction Rebellion occupa i mezzi di informazione: Rai, Repubblica e la Stampa.
“Crisi climatica, i governi sono colpevoli: dirai la verità?”

Torino, Extinction Rebellion occupa i mezzi di informazione: Rai, Repubblica e la Stampa: “Crisi climatica, i governi sono colpevoli: dirai la verità?”

Di Extinction Rebellion

Mattinata di proteste nel centro di Torino. Poco dopo le 9, diversi gruppi di Extinction Rebellion hanno occupato gli ingressi delle due sedi torinesi della RAI e della sede principale de La Stampa e La Repubblica, in via Lugaro.

Dopo aver varcato gli ingressi principali, reggendo dei cartelli in mano, si sono seduti e hanno mandato in riproduzione continua un audio con le interviste e le dichiarazioni di diversi esponenti politici, da Giorgia Meloni fino ad Alberto Cirio, il presidente della Regione Piemonte. “Sono le parole di chi in questi anni ha negato l’esistenza stessa della crisi climatica, di chi ha lasciato morire persone in mare che scappavano da terre diventate ormai inabitabili” racconta Susanna, dalla sede RAI in via Verdi.

 

Susanna Caterina e Aurora di Extinction Rebellion nella sede Rai di Torino

“Abbiamo deciso di portare direttamente all’interno delle redazioni le parole surreali di chi ci sta governando” spiega anche Aurora, seduta dentro la sede RAI di via Cavalli. “Perché è di questo che dovrebbero parlare i giornali e le televisioni, informando tutti i cittadini sulla gravità delle scelte politiche che i nostri governi stanno prendendo”

Al mattino presto, un altro gruppo di attiviste aveva appeso un maxi striscione di 10 metri di fronte la sede RAI di via Verdi. “Crisi climatica: i governi sono colpevoli. DiRAI la verità?” si legge sullo striscione, con lo sfondo della Mole Antonelliana.

L’obiettivo di Extinction Rebellion è quindi denunciare le responsabilità dei governi nell’aggravarsi del collasso climatico. Basta infatti guardare le Alpi intorno a Torino per comprendere quanto grave sia la situazione in cui versano gli stessi territori italiani. Le precipitazioni nevose sono ampiamente sotto la media. Nel mondo, nell’ultimo secolo, il numero di giorni in un anno in cui il terreno è coperto di neve si è accorciato di oltre un mese.

Meno neve in inverno significa anche meno acqua nei fiumi durante il disgelo, in territori già messi a dura prova dalla peggiore siccità degli ultimi 500 anni. I grandi laghi, dal Maggiore al Garda, sono tutti sotto la media, con livelli addirittura inferiori al gennaio 2022, preludio della peggiore siccità degli ultimi secoli.

Le azioni pacifiche di oggi rappresentano un messaggio diretto alle redazioni, una richiesta di aiuto. “Abbiamo bisogno di voi” si legge infatti sui cartelli che reggono in mano. “La scelta di essere qui questa mattina nasce dalla consapevolezza che il cambiamento che sappiamo necessario sarà possibile solo con l’aiuto di ognuna di voi, di ogni singola giornalista” afferma Caterina, dalla sede di Repubblica e La Stampa. “Siamo qui perché abbiamo bisogno di giornalismo di inchiesta, approfondito e accurato e per portare la nostra solidarietà ai giornalisti in sciopero contro un editore, Gedi, guidato dalla logica del taglio dei posti e dei compensi”.

“Abbiamo bisogno che le persone che stanno lanciando l’allarme smettano di essere raccontate come fanatici e criminali”aggiunge Martina. Antonio Guterres, il segretario generale dell’ONU, una delle figure leader della diplomazia mondiale, dichiarava: “Gli attivisti climatici sono dipinti come pericolosi radicali. Ma i veri pericolosi radicali sono i paesi che continuano ad aumentare la produzione di combustibili fossili”.

È di questo che parlano gli occhi di chi oggi regge in mano quei cartelli: criminale non è chi lotta per la vita sulla Terra, criminale è chi continua ad ignorare l’allarme.

Una clip della manifestazione in Rai:

Extinction Rebellion
Extinction Rebellion (XR) è un movimento internazionale “dal basso”, nonviolento, fondato in Inghilterra in risposta alla devastazione ambientale causata dalle attività umane. La sua ragione d’essere si basa sui risultati scientifici.

Cover: Susanna Caterina e Aurora di Extinction Rebellion nella sede Rai di Torino

Lettera aperta a Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla Cultura: si pronunci contro lo scempio urbano del progetto Fe.Ris.

Lettera aperta a Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla Cultura

– Forum Ferrara Partecipata,

Patrimonio urbano : Mentre si apre la mostra «Rinascimento a Ferrara», la città è assediata nel suo centro storico dalla speculazione edilizia del progetto Fé.ris

Abbiamo appreso con piacere che la mostra Rinascimento a Ferrara da lei curata ha ottenuto l’importante riconoscimento della medaglia del Quirinale.

Il patrimonio artistico e culturale della nostra città è indiscutibile, anche se purtroppo non sufficientemente riconosciuto e difeso da chi pensa che «con la cultura non si mangia». Nel 1960 Bruno Zevi scriveva: «le mura difendono ancora Ferrara, non dai nemici esterni, ma da un’espansione edilizia vorace e pronta a distruggere il piano di Biagio Rossetti». Nel dopoguerra una parte della città cercava di tutelare e valorizzare l’immagine di una città rinascimentale, di un luogo unico con la campagna dentro e attorno alle mura, una città d’arte con una storia da conservare. Un’altra parte, invece, ha permesso, ad esempio, lo «sventramento» e ricostruzione del quartiere medievale di San Romano, con la demolizione della facciata residua del Palazzo della Ragione, lo slargo di Corso porta Reno fino al varco nelle mura, il rifacimento dello spazio fuori porta, con l’attuale via Kennedy, uno squallido blocco di residenze, negozi e uffici e un enorme parcheggio a fianco; operazioni che non si sarebbero dovute fare. E come queste, tante altre scelte scellerate sono state supportate dalle amministrazioni che si sono succedute, a fianco di operazioni benemerite di tutela del centro storico, del verde periurbano e della conservazione e valorizzazione delle mura.

Dopo l’intervento per la tutela del Palazzo dei Diamanti e a fronte di importanti prese di posizione a favore del rispetto e della conservazione del patrimonio artistico e paesaggistico, ci stupisce, onorevole, che non abbia preso posizione sul progetto Fé.ris.
Questa collaborazione con il privato che non tutela l’interesse pubblico, oltre a prevedere la costruzione di un grande centro commerciale (9450 metri quadri) e di un enorme parcheggio (8545 metri quadri) a ridosso delle Mura, contempla l’edificazione di un nuovo palazzone con facciata in vetro e acciaio a lato dei giardini di palazzo Schifanoia. Sono molte le ragioni per cui il progetto Fé.ris dovrebbe essere bloccato: ma la proposta di simili manufatti in un quartiere dove si dovrebbero conservare e valorizzare alcuni tratti rinascimentali della città è – per usare un eufemismo – inguardabile.

Nel «contratto con la città» dell’attuale sindaco, l’ex-caserma Pozzuolo del Friuli doveva diventare «un centro congressi e il Museo Innovazione Artistica, il tutto collegato a un rinnovato sistema museale e congressuale urbano», non il centro della movida universitaria con una piazza, 400 alloggi per studenti e un «food court» con bar ristoranti e centri benessere. Perché al posto dei nuovi palazzi e della piazza non si è pensato a ripristinare i giardini di palazzo Schifanoia e a creare nuove aree verdi, memoria degli orti dell’antico convento di san Vito?

Davvero non si vuole pronunciare sull’ennesimo tentativo di far diventare Ferrara da città d’arte e di cultura a città simbolo della speculazione edilizia?

Forum Ferrara Partecipata
https://ferrarapartecipata.it/

Storie in pellicola /
#IoSonoQui

#IoSonoQui

Crisi di mezza età, voglia di scappare alla ricerca di nuovi stimoli e scoperte, viaggi mai fatti e che ora si vuole fare, leggerezza e spensieratezza. Nella modernità dei social.

Stéphane (Alain Chabat) ha una vita tranquilla nel sud della Francia, nei paesi baschi, ha un rinomato ristorante, ereditato dal padre, che gestisce con i figli, una ex-moglie con cui va d’accordo (cosa piuttosto rara) e non gli manca nulla. Almeno così sembra.

Il suo vero difetto? Non portare nulla a compimento, dall’Accademia delle Belle Arti al tatuaggio di un’anatra lasciato a metà. Ed è avventato e un po’ sprovveduto.

Instagram innescherà una crisi esistenziale senza precedenti, che lo farà intraprendere avventure mai immaginate e sognate, dalla Francia alla Corea. Attraverso questo mirabolante canale social inizierà a conversare con Soo (Doona Bae, attrice coreana dal profilo internazionale che ha lavorato con Kore-edaPark Chan-wook Bong Joon-ho di Parasite), una misteriosa donna coreana che dipinge delicati paesaggi e gli parla dei bellissimi ciliegi in fiore. Acquisto di un quadro, a ornare le pareti svecchiate del suo ristorante, messaggi e videochiamate, ed eccolo pronto a decollare per Seoul. Decisione impulsiva unilaterale che non sarà apprezzata dall’altra parte.

Il regista Eric Lartigau, noto per La famiglia Bélier, firma questo feel-good movie, #IoSonoQui che diverte ma che fa anche pensare. Un po’ ci si ritrova anche, in Stéphane. Con quella voglia di stupire, se stessi per primi, di scappare, di divagare, di prendere le cose con più leggerezza, di prendersi in giro, di seguire i propri sentimenti, di perdersi.

Il film, che ricorda le atmosfere di The Terminal di Steven Spielberg – per quel restare chiuso per giorni nell’aeroporto “spaziale” di Seoul in attesa di Soo che non arriva -, sbeffeggia il mondo digitale con i suoi numeratori di followers e like compulsivi e ne amplifica i danni e la derisione che ne possano derivare da un eccessivo e scorretto. Lo spunto iniziale è proprio l’impaccio della generazione boomer di fronte alle nuove forme tecnologiche di comunicazione interpersonale. Il confronto con l’aspetto social e virtuale permea tutto il film, dallo stesso titolo alle continue sessioni di chat Instagram sovrapposte all’immagine.

In questo caos digitale, Stéphane diventa suo malgrado un fenomeno social di successo con il nome di French Lover, e, mentre Soo non si presenta, inizia a vagare per l’aeroporto e la capitale asiatica alla ricerca della donna, scoprendo qualcosa di nuovo o di dimenticato di sé stesso. L’incontro con tanti “personaggi” sarà una vera sorpresa.

È un film sulla ricerca, sulla voglia di conoscere altro e, soprattutto, sé stessi.

Avventure, colori, sapori, viaggi, corse, girotondi, un ponte fra due paesi tanto lontani ma così affascinanti, l’incontro con Soo, motore inconsapevole di tutto, che torna alla sua vita normale, i figli ritrovati e… tutto è bene quel che finisce bene.

Commedia deliziosa, che merita uno spazio in una serata di relax.

 

 

 

 

 

#Io SonoQui, di Eric Lartigau, con Alain Chabat, Doona Bae, Ilian Bergala, Blanche Gardin, Delphine Gleize, Francia, 2019, 97 minuti.

 

Storie in pellicola, la rubrica di Simonetta Sandri, esce su Periscopio tutti i venerdì. Per leggere gli articoli precedenti clicca su: Storie in pellicola

Giuliano Sansonetti: una testimonianza di impegno civile, religioso e culturale

Giuliano Sansonetti: una testimonianza di impegno civile, religioso e culturale

“Non c’è responsabilità se non nel faccia a faccia” così sintetizzava Giuliano Sansonetti il pensiero sull’etica dell’autore al quale, più di altri, ha dedicato un vita di studio: Emmanuel Lévinas.

L’etica ribaltata: non come proiezione del nostro dovere “sentito” verso il mondo, ma come risposta alla provocazione che ci viene dall’incontro con l’altro, non siamo noi a fare la regola, ma la riceviamo. Anche la legge in qualche modo funziona allo stesso modo, ma senza quella originale implicazione interpersonale che un “volto” porta con sé.

Non più tardi di qualche mese fa, a Casa Cini   Piero Stefani,  ci aveva infatti provocati entrambi in un incontro sul tema della Giustizia ed in quell’incontro Giuliano ha mostrato, più che dimostrato, il valore di una coerente  esperienza  di studio e di lavoro: la sua.

In quell’intervento Giuliano ci ricordò che per Lévinas non basta il superamento del precetto formale, in ottica vetero testamentaria, a favore della carità verso il prossimo che ritroviamo nel Vangelo, ma etica è la nostra apertura alla provocazione che viene da fuori, il “rispondere”  allo sguardo che ci interpella. Poiché non è sempre detto che l’amore che esprimiamo offra garanzia di giustizia, solo l’altro diventa quel terzo che misura la efficacia del nostro agire etico.

Quanta distanza dal moralismo e da tanta indifferenza !

Questo intervento che ho ricordato, da me sintetizzato, con molti limiti dei quali mi scuso, è solo l’ultimo di tanti di Giuliano Sansonetti;  a partire, a mia memoria, dalla metà degli anni Ottanta, più volte invitato come relatore alla scuola di formazione diocesana. E’ pure, in fondo, emblematico  del suo servizio alle comunità: quella sindacale del lavoro, quella civile della politica, quella culturale.

Giuliano fu sempre in ascolto di ciò che gli venisse incontro, sia nelle relazioni personali, sia nella dimensione locale, ma anche nel mondo. Di recente, in un suo testo, Giuliano faceva propria la osservazione secondo la quale la caduta del muro e delle ideologie apriva al rischio di un conflitto ancora maggiore: quello delle civiltà. Come si vede un contributo per nulla intimistico ed elitario, ma profondo ed attuale.

Mi viene da dire che una comunità civile, religiosa o culturale avrebbe in primo luogo il dovere di discernere, fra tante voci, quelle poche autentiche, quelle che fanno crescere, di bandire la banalità e restituire alla parola il suo senso, In altri termini riconoscere la testimonianza che  Giuliano ci lascia.

 

Giuliano Sansonetti (Chiaravalle 1943 – Ferrara 2023)
Dopo la laurea, conseguita nel 1965 presso l’Università di Urbino, è stato dal 1966 al 1995 professore di Filosofia e Storia nei Licei. Durante questo periodo, dall’ottobre 1978 al novembre 1989, ha fatto parte dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione. Nell’A.A. 1989-1990 ha iniziato con un comando la collaborazione alla cattedra di Storia della Filosofia, tenuta dal prof. Pasquale Salvucci, presso la Facoltà di Magistero di Urbino ove, nel gennaio 1996, è stato nominato Ricercatore per la stessa disciplina. Qui è rimasto in tale veste fino all’A.A. 2005-2006, svolgendo vari insegnamenti tra cui, in modo continuativo, quello di Bioetica. Avendo nel 2001 conseguito l’idoneità a professore di II fascia di Filosofia morale, nell’A.A. 2006-2007 è stato chiamato alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Ferrara, ove già da vari anni teneva per supplenza l’insegnamento di Storia della Filosofia contemporanea. Attualmente vi svolge l’insegnamento di Filosofia morale. I suoi ambiti di ricerca sono costituiti essenzialmente dalla fenomenologia e dall’ermeneutica contemporanee di area francese e tedesca, con alcune incursioni nella filosofia tedesca tra Settecento e Ottocento.

In copertina: il filosofo ferrarese Giuliano Sansonetti (foto dal settimanale La voce di Ferrara e Comacchio)

La Zanzara: arte pungente negli spazi aperti da due giovani galleriste nel cuore di Ferrara

La Zanzara: arte pungente negli spazi aperti da due giovani galleriste nel cuore di Ferrara

Sono due giovani under 40 le galleriste che da qualche mese hanno aperto la sede espositiva “la zanzara” in via del Podestà, nel centro storico di Ferrara, a ridosso di piazza Municipio e del Duomo. L’intento dichiarato da Giulia Giliberti e Sara Ricci è quello farne un luogo di mostre, ma anche d’incontro e riflessione, aperto a tutta la città. Emblematica la scelta del nome della galleria, che è anche una scelta di campo, ispirata al titolo di un’opera dell’artista e performer Joseph Beuys “l’arte è una zanzara dalle mille ali” con il valore aggiunto dello stretto legame tra l’animale punzecchiante e il territorio.

Le galleriste (foto GioM)
Sara Ricci e Giulia Giliberti (foto GioM)

La galleria offre due spazi diversi: da una parte (ai civici 11/11A di via del Podestà) c’è la dimensione tipicamente espositiva con sfondo bianco e pareti con appesi dipinti, fotografie e un video che scorre rivolto verso i passanti della strada su cui si affaccia; dalla parte di fronte (al civico 14A di via del Podestà) c’è lo spazio ricavato da quella che definiscono ex scuderia o antico ricovero di carrozze, sotto una volta di mattoni a vista e pavimento di antiche pietre, adibito a eventi, incontri e proiezioni.

Lisa Parolo, Giulia Giliberti, Sara Ricci, Carlo Ansaloni, Maurizio Camerani (foto GioM)

La linea distintiva della galleria è quella di dare spazio all’arte contemporanea, con un occhio di riguardo a figure artistiche legate al territorio (Elisa Leonini, Luca Zarattini, Denis Riva), ma anche di altri parti del mondo (David Grigoryan), con la volontà manifestata dalla mostra in corso “Video-setting” di valorizzare il ruolo chiave svolto da Ferrara nella seconda metà del ‘900, in particolare sotto la guida di Franco Farina e del connesso Centro di video arte.

Christina Kubisch, Fabrizio Plessi, Tempo Liquido. Sala Polivalente, Ferrara 1978 © Marco Caselli Nirmal

L’attività della galleria “la zanzara” in questo mese si concentra infatti sull’avanguardia storica, che ha visto la città di Ferrara protagonista negli anni ’70 e ’80 di quel fermento artistico e creativo rivoluzionario e dirompente e che ne ha fatto uno dei punti di riferimento dell’arte contemporanea e di ricerca innovativa di mezzi e linguaggi espressivi. In particolare i riflettori sono puntati sul Centro di video arte di Ferrara, affidato dall’allora direttore delle gallerie civiche Franco Farina alla guida di Lola Bonora con la collaborazione di Carlo Ansaloni, che è stato sicuramente un’eccellenza nell’ambito della ricerca e del coinvolgimento dei grandi innovatori del mondo dell’arte che erano i grandi protagonisti di quegli anni.

L’iniziativa, intitolata “Video-Setting” ha la direzione di un artista multimediale di rilievo internazionale come Maurizio Camerani, protagonista proprio della scena creativa a partire da quegli anni. Una rassegna organizzata con il supporto tecnico dell’associazione culturale Feedback aps, il patrocinio della Regione Emilia-Romagna e del Comune di Ferrara.

Maurizio Camerani e Massimo Marchetti nella sala delle ex scuderie di via del Podestà a Ferrara (foto GioM)

L’iniziativa vede il coinvolgimento di alcuni tra i massimi esperti del settore e intende riprendere i fili e ripercorrere le tappe storiche e i successivi sviluppi della Videoarte. Grazie al Centro Video Arte di Palazzo dei Diamanti, Ferrara è stata infatti teatro tra gli anni Settanta e Ottanta di un’esperienza di rilievo internazionale e ha rivestito un ruolo di assoluto rilievo nell’ambito dell’arte contemporanea. Un focus che le galleriste spiegano essere motivato dalla volontà di riappropriarsi e mantenere viva la memoria di un’attività pionieristica, documentata all’interno degli archivi delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara.

Giulia Giliberti e Sara Ricci fanno notare: “Ferrara è stata centro nevralgico di una esperienza fondamentale nell’ambito della videoarte ed essendo ‘la zanzara’ una realtà dedicata all’arte contemporanea intesa come campo di ricerca trasversale e multidisciplinare, ci è sembrato doveroso raccontare questa importante esperienza che in molti ricordano con grande interesse e le nuove generazioni sentono il desiderio di approfondire”. “Il Centro Video Arte – continuano le galleriste – è stata la prima istituzione pubblica italiana dedicata alla videoarte. E abbiamo la fortuna di poter disporre di un patrimonio artistico originale e documentato grazie alla precedente esperienza e al lascito importante dell’esposizione ‘Videoarte a Palazzo dei Diamanti. 1973/1979. Reenactment’, organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e dalle Gallerie d’arte moderna e contemporanea di Ferrara nel 2015. Una rassegna che ha permesso di riportare alla luce una selezione di opere video degli anni ‘70 restaurate”.

A dare concretezza all’esperienza di quegli anni è la mostra a cura di Massimo Marchetti con le fotografie realizzate da Marco Caselli Nirmal, che all’epoca ha documentato in diretta interventi e performance con un approccio di coinvolgimento artistico, che rende i suoi lavori a loro volta forma di espressione artistica . Ecco allora la sua immagine della locandina, che immortala Lola Bonora in terra mentre intervista il pittore Emilio Vedova a Palazzo Grassi di Venezia nel 1978 mentre realizza una delle sue opere d’arte informale per la mostra ‘Venerezia-Revenice‘.

Lola Bonora intervista Emilio Vedova alla mostra Venerezia-Revenice di Palazzo Grassi a Venezia, luglio 1978 © Marco Caselli Nirmal

Altre immagini-simbolo di Caselli Nirmal fissano l’attività di un’artista distintiva come Marina Abramović, modello ancora di spicco dell’arte concettuale e performativa, o Christina Kubisch e Fabrizio Plessi in  ‘Tempo Liquido’ alla Sala Polivalente di Ferrara, sempre nel 1978.

Il fotografo Marco Caselli Nirmal (foto GioM)

Mostra e iniziative di “Video-Setting” alla galleria “la zanzara” – via del Podestà, 11/11a, 14/a, a Ferrara – sono visitabili con ingresso libero nei giorni di giovedì (ore 10-13), venerdì (15-18) e sabato (16-18.30) fino a sabato 18 febbraio 2023.

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LA SCHEDA a cura della galleria la Zanzara
Il primo talk di Video-Setting “Il Centro Video Arte: le origini, la collezione”, che si è tenuto il 28 gennaio 2023 grazie alla presenza di Carlo Ansaloni, ha ripercorso le tappe storiche che hanno condotto alla produzione dei primi video d’artista che reagendo al “monocanale” imposto della televisione, ripensarono all’utilizzo del videotape come mezzo espressivo di diversi linguaggi
artistici. Alla presenza di illustri ospiti e di un pubblico numeroso, è stata presentata una selezione di video di un circuito di artisti, tra cui Fabrizio Plessi, Enzo Minarelli, Federica Marangoni,
Maurizio Camerani che, misurandosi con il nuovo strumento, hanno allargato sensibilmente la capacità espressiva di produzione di messaggi visivi e artistici: “la videoarte è fatta di immagini,
sensazioni, sentimenti, abbinamenti oppure ricerca, immaginario e in mezzo a questi coesistono delle storie” (Carlo Ansaloni).

Il secondo appuntamento, dal titolo “La collezione video della Galleria del Cavallino di Venezia” di sabato 11 febbraio 2023, grazie alla presenza di Lisa Parolo, AU di ArchiveOn srl ha
messo in luce le pratiche artistiche e sperimentali di alcuni degli artisti più vicini alla Galleria del Cavallino di Venezia che, come il Centro Video Arte – ma in ambito privato – è stata una delle
uniche realtà che ha operato in questa direzione, diventando centro di sperimentazione, ricerca e conservazione di videoarte a livello nazionale e internazionale. Ad accompagnare il talk, una
selezione di video a cura di Lisa Parolo, tra cui: Tempo, spazio, superficie (1974) di Guido Sartorelli, Videomusic (1977) di Claudio Ambrosini, Ascolto (1977) di Michele Sambin, Reporter (1979) di Mario Sillani Djerrahian, Do you remember this film? (1979) di Luigi Viola. I primi tre appuntamenti della rassegna – che corrispondono alla fase 1 di Video-Setting – sono accompagnati da proiezioni video a cura di Carlo Ansaloni, Lisa Parolo e Maurizio Marco Tozzi e da una selezione di scatti del fotografo Marco Caselli Nirmal a cura di Massimo Marchetti.

La fase 1 si concluderà sabato 18 febbraio 2023 con l’intervento di Maurizio Marco Tozzi e la fase 2 partirà nel mese di settembre 2023 con il coinvolgimento di Cosetta G. Saba, Francesco Spampinato e LIUBA. La mostra fotografica e le video proiezioni saranno fruibili fino al 18.02.23, nei giorni di apertura di zanzara arte contemporanea.

In copertina: talk di Carlo Ansaloni alla galleria la Zanzara  (foto di Massimo Ali Mohammad)

Vite di carta /
Io e Il Castoro, una storia d’amore

Vite di carta. Io e Il Castoro, una storia d’amore

Ho avuto una storia con la Casa Editrice Il Castoro. Una storia che si è interrotta, ma non è detto che sia finita.

E’ cominciata così: i nostri ragazzi del gruppo Galeotto fu il libro finiscono l’intervista a Lisa Williamson nel giardino di Palazzo Roverella; siamo nel settembre del 2017 ed è in corso l’undicesima edizione di Internazionale a Ferrara, il festival del giornalismo.

La mia collega ed io li lasciamo scendere dal palco e li avvolgiamo con i nostri apprezzamenti festosi: il libro L’arte di essere normale è stato presentato con chiarezza e con sensibilità verso i temi trattati. L’autrice ha risposto con generosità alle domande puntuali e mai scontate del gruppo, proponendo al pubblico presente le paure, i desideri e le speranze del protagonista, un adolescente transgender.

E’ un bel momento della mia professione, la scuola e la città accolgono insieme le voci dei narratori ospiti del Festival. Come in un classico triangolo amoroso, a questo punto fa il suo ingresso l’altro, nella persona della addetta stampa del Castoro, che elogia tutti noi e mi chiede mail e cellulare, proponendo di tenerci in contatto.

In un giardino, il locus amoenus degli innamoramenti, con un libro che fa da mallevadore (Galehaut, per l’appunto) ci prende una passione che durerà  nei successivi tre anni.

Conservo i libri condivisi e la memoria degli incontri con altri autori che oltre alla Williamson  pubblicano per Il Castoro. Ho le foto della gita a Milano fatta con una seconda di lettrici e lettori accaniti, ragazzi di sedici anni disposti a rimanere a scuola di pomeriggio per discutere del libro di Luigi Ballerini in preparazione dell’incontro con lui a scuola, all’Ariosto.

A Milano la sede della casa editrice ci ha spalancato le porte per farsi conoscere e raccontarci modalità e ritmi del lavoro editoriale. Abbiamo visto il dietro le quinte dei libri. Alcuni hanno potuto sfogliare le copie staffetta di un romanzo in uscita che poi è arrivato a scuola nella edizione definitiva e recava nel frontespizio alcuni dei loro commenti.

L’ufficio stampa inviava i nuovi titoli o le iniziative in uscita e io diffondevo alle colleghe e alle classi. Quale soddisfazione accostarmi a Mary e il mostro di Lita Yudge e apprezzare l’espressività di un genere per me nuovo come il graphic novel, vedere l’interesse dei ragazzi per le parti disegnate e per i testi poetici abbinati di pagina in pagina. Rileggere Frankenstein per risalire alla sorgente del mostro e conoscerne l’atto creativo nella mente di Mary Shelley .

Invitare a scuola Rossella Bernascone, traduttrice impeccabile dall’inglese nella versione italiana, pronta a condividere con gli studenti le difficoltà e le vittorie della traduzione, in una bella conversazione del febbraio 2018.

E’ andata avanti così la nostra storia, fino al 2020. Accade anche ad altre storie, arriva il momento più bello e poco dopo finiscono. Lo ricorderò tra un momento, prima desidero segnalare che in questi giorni Il Castoro compie trent’anni e intende festeggiare alla grande.

Lo leggo dalla mail che l’ufficio stampa mi ha appena inviato. Come un invito a cena che riesce gradito e inatteso, un invito del partner che segue il lungo silenzio dovuto al Covid e al post-Covid, e anche alla mia andata in pensione.

Leggo le iniziative programmate per il 2023 e il bilancio dei primi trent’anni come fosse la sua biografia, scoprendone pezzi di vita che non abbiamo più condiviso. Ecco qua uno stralcio: “Il Castoro oggi è il primo editore indipendente nel mercato ragazzi” con oltre 800 titoli in catalogo, dai picture book ai romanzi, dai graphic novel ai fumetti e ai libri di non fiction. Con 490 titoli dedicati al cinema e oltre duecento monografie di registi firmate da importanti studiosi e critici cinematografici.

Nel febbraio del 1993 fu infatti “un gruppo di amici cinefili” a rilevare la storica collana Il Castoro Cinema de La Nuova Italia “per scongiurarne la chiusura” e a fondare una casa editrice con lo stesso nome.

“Nella classifica top 100 libri per ragazzi 2022 sono 10 i titoli del Castoro” e 870.000 sono le copie vendute nello stesso anno, con un sensibile incremento delle vendite all’estero (negli USA, in Francia e Spagna, ma anche in Corea, Cina, Ucraina, Turchia). Nel mese di marzo uscirà La mia casa, un nuovo albo ucraino “per promuovere una cultura di pace” nei lettori fin da piccoli. E molte saranno le iniziative di sostegno a “realtà preziose e importantissime come Save the Children, Refuges Welcome Italia, Amnesty International Italia.”

Ho provato nostalgia, impossibile non ricaderci. Che momenti belli da ricordare, in particolare l’ultimo. Proprio alla Bologna Children’s Book Fair, dove si farà la festa di compleanno il prossimo 7 marzo, ho partecipato nell’aprile del 2019 all’incontro con autrici e traduttrice del meraviglioso In mezzo al mare. Storie di giovani rifugiati.

Il silent book, appena uscito, introduce alla storia delle migrazioni nel mondo attraverso cinque storie esemplari di bambini e adolescenti che hanno lasciato il loro paese d’origine, in ogni parte del mondo, dal 1939 al 2006.

Con l’invito dell’ufficio stampa del Castoro siedo in prima fila e scrivo, per fare un resoconto esatto una volta tornata a scuola. Nei mesi successivi il gruppo di colleghe e di classi che si forma acquista molte copie del libro, l’idea è di leggerlo e condividerne le tematiche come si fa sempre.

Stavolta però  il nostro acquisto ha un valore aggiunto, anzi due. Il primo è che parte del ricavato delle vendite andrà alla Biblioteca IBBY di Lampedusa, che vorremmo contattare per collaborare in altri progetti di lettura. Il secondo riguarda la traduttrice, che pur vivendo a Toronto ha lavorato al testo insieme ai ragazzi di Lampedusa.

Si tratta di Mariella Bertelli, che ho incontrato alla presentazione a Bologna e con la quale è scattata una immediata empatia. Nell’autunno dello stesso 2019 Mariella viene a conoscerci a Ferrara:  nell’Atrio Bassani all’Ariosto incanta gli studenti raccontando brevi storie, da esperta storytelling quale è. Li fa partecipare con brevi cantilene in inglese, li fa alzare e parlare all’unisono.

Ci lasciamo con accordi precisi su chi deve contattare Lampedusa per un prossimo incontro in streaming, chi inviarle le mail scritte dai ragazzi sul libro, chi inviterà a venire a Ferrara Mohamed Keita, il protagonista della storia numero 5, che ora vive in Italia ed è un apprezzato fotografo.

Il 17 febbraio 2020 scrivo gli appunti dell’ultima riunione organizzativa; dal 24 febbraio la scuola rimarrà chiusa per lo scatenarsi della pandemia e questo dirà la parola fine alle storie del progetto e con Il Castoro.

La domanda che ora mi attanaglia è: con la mail del trentesimo compleanno il mio innamorato intende riallacciare i rapporti o mi coinvolge in nome dell’ ‘antica fiamma’?

Bibliografia

  • Lisa Williamson, L’arte di essere normale, Il Castoro, 2017 (traduzione di Valentina Daniele)
  • Lita Yudge, Mary e il Mostro. Amore e ribellione. Come Mary Shelley creò Frankenstein, Il Castoro, 2018 (traduzione di Rossella Bernascone)
  • Mary Beth Leatherdale, Eleanor Shakespeare, In mezzo al mare. Storie di giovani rifugiati, Il Castoro, 2019 (traduzione di Mariella Bertelli in collaborazione con i ragazzi volontari della Biblioteca IBBY di Lampedusa)

In copertina: Lo stand de Il Castoro alla Fiera del libro di Torino,  2018

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

L’allestimento della mostra su Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa con cui riapre Palazzo dei Diamanti

L’allestimento della mostra su Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa con cui riapre Palazzo dei Diamanti

Viaggio all’interno delle sale: già arrivati alcuni dei più importanti prestiti internazionali, la rassegna sarà visitabile dal 18 febbraio, racchiude oltre cento opere provenienti da tutto il mondo

Ferrara – Ha preso avvio questa settimana l’allestimento della mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa, che sarà ospitata nei rinnovati spazi di Palazzo dei Diamanti. Arricchita da numerosi prestiti internazionali, l’esposizione curata da Vittorio Sgarbi e Michele Danieli è dedicata ai due grandi maestri ferraresi del Rinascimento e sarà aperta al pubblico dal 18 febbraio al 19 giugno.

La nuova rassegna diventerà anche l’occasione per poter ammirare l’edificio rinascimentale simbolo di Ferrara dopo il complesso intervento di restauro e riqualificazione che ha coinvolto l’edificio dall’estate del 2021.

L’arrivo delle opere a Palazzo dei Diamanti

I lavori di allestimento sono iniziati nei giorni scorsi e hanno coinvolto il gruppo scultoreo di Niccolò Baroncelli e Domenico di Paris (Madonna, Cristo Crocifisso, San Giovanni), proveniente dalla Cattedrale di San Giorgio di Ferrara, come anche i due luminosi ritratti di Giovanni II e Ginevra Bentivoglio di Ercole de’ Roberti, giunti dalla National Gallery of Art di Washington. Sono già alle pareti anche quattro dipinti di rara raffinatezza, un prestito eccezionale concesso dalla National Gallery di Londra: oltre al dittico che appartenne alla duchessa Eleonora d’Aragona, la Raccolta della manna e l’Istituzione dell’Eucarestia, forse provenienti da una chiesa ferrarese.

Tra le opere già installate ci sono anche alcuni capolavori di Lorenzo Costa, tra cui Fuga degli Argonauti dalla Colchide, prestito del Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, Adorazione del Bambino proveniente dal Musée des Beaux-Arts di Lione, Madonna col Bambino in trono, fra San Sebastiano, San Giacomo e San Girolamo dalla Basilica di San Petronio di Bologna, e il San Sebastiano, appartenente alle collezioni degli Uffizi a Firenze.

Quanto agli spazi espositivi, il cui colore scelto è nei toni del bordeaux, diversi sono stati gli interventi anche in questa parte dell’edificio. Tutte le sale sono state dotate di nuove fodere altamente tecnologiche ad alta resistenza, dietro alle quali sono state nascoste le dotazioni impiantistiche. Le nuove superfici, che rivestono le murature antiche in modo da non alterarne la consistenza, celano impianti di ultima generazione.
Nell’ala Rossetti sono state realizzate nuove pavimentazioni in terrazzo alla veneziana e in entrambe le ali sono stati inseriti nuovi portali in ottone brunito, che rimarcano la sequenza spaziale propria del Palazzo rinascimentale.

La mostra è organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e dal Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara, in collaborazione con Direzione generale archeologia, belle Arti e paesaggio del Ministero della Cultura, con il patrocinio del Ministero della Cultura.

Ricca di un centinaio di opere provenienti da musei e collezioni di tutto il mondo, la mostra, che avrà il suo prologo ideale a Palazzo Schifanoia, dove il giovane de’ Roberti esordì nel Salone dei Mesi, è un’occasione unica per scoprire (o riscoprire) l’arte dei due grandi pittori ferraresi e più in generale la smagliante ricchezza del Rinascimento estense.

Rinascimento a Ferrara sarà aperta tutti i giorni dalle 10 alle 20. Per organizzare la visita è già possibile prenotarsi, maggiori informazioni sul sito www.palazzodiamanti.it.

(Ufficio Stampa del Comune di Ferrara)

Cover: Allestimento delle opere a Palazzo dei Diamanti, il Cristo Crocifisso proveniente dalla antica  Cattedrale di San Giorgio

Mal’aria di città: il Rapporto di Legambiente per il 2022

Mal’Aria di città; il Rapporto di Legambiente per il 2022

“Decresce troppo lentamente l’inquinamento atmosferico nelle città italiane mettendo a rischio la salute dei cittadini che cronicamente sono esposti a concentrazioni inquinanti troppo elevate.”.
Con questa affermazione si apre la premessa al Rapporto Mal’aria di città di Legambiente per il 2022, l’annuale analisi sullo stato dell’inquinamento atmosferico delle città italiane capoluogo di provincia.[vedi Qui il testo integrale del Report]  

Il solo rispetto degli attuali valori normativi, viene detto più avanti, risulta “una condizione necessaria ma non più sufficiente per tutelare la salute delle persone”. Il rispetto dei limiti sulla qualità dell’aria è infatti una condizione di partenza per poter parlare di risanamento dell’ambiente e dell’aria che ci circonda. Ma che ciò non sia più sufficiente lo si deduce da due elementi di particolare importanza:
– da un lato le recenti evidenze scientifiche riportate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sui limiti delle concentrazioni da non superare per tutelare la salute delle persone,
–  dall’altra la revisione della Direttiva europea sulla qualità dell’aria (la cui proposta è uscita nell’autunno del 2022), che ha rivisto al ribasso i limiti che dovremo rispettare dall’1 gennaio del 2030.
A maggior ragione se si considera che le soglie indicate dall’UE per il 2030 sono significativamente più alte dei valori indicati dall’OMS per evitare danni alla salute, e sono quindi da considerarsi una tappa intermedia dell’obiettivo OMS da raggiungere nell’ottica di una vita salubre nelle nostre città.

Anche il 2022, come negli ultimi anni, ha mostrato criticità acute, per alcune città, riguardo i giorni di sforamento del limite giornaliero per il PM10 (stabilito in 35 giorni/anno), in cui si è registrata, secondo l’attuale normativa, una concentrazione media giornaliera di polveri superiore a 50 microgrammi/metro cubo, e criticità meno evidenti, ma da non sottovalutare, per la media annuale degli inquinanti tipici dell’inquinamento atmosferico quali le polveri sottili (PM10 e PM2.5) e il biossido di Azoto (NO2).

Nel 2022 sono 29 le città in cui i dati di sforamento [1] (ottenuti dalle centraline di monitoraggio installate dalle autorità competenti nei diversi comuni), hanno superato il limite di 35 giorni previsti per il particolato più grosso (PM10). Torino è prima con 98 sforamenti, seguita da Milano con 84, poi Asti 79, Modena 75, Padova e Venezia con 70. Queste città hanno di fatto doppiato il numero di sforamenti giornalieri tollerati dalla norma, che sono 35, e che, viene riportato nel rapporto, rappresentano per il 2022 la punta dell’iceberg dell’inquinamento atmosferico delle nostre città. L’analisi delle medie annuali per il PM10 ha mostrato invece come non ci siano state città che hanno superato il limite previsto dalla normativa vigente, dato che conferma la tendenza positiva degli ultimi anni, ma che non deve tranquillizzare troppo. Infatti il 76% delle città monitorate (72 delle 95) superano i limiti previsti dalla futura direttiva sulla qualità dell’aria che, di fatto, ha dimezzato la concentrazione media annuale ammissibile (dagli attuali 40 ai 20 μg/m3 previsti al 2030).

Per il PM2.5 la situazione di criticità è analoga alla precedente. Ben 71 (l’84% del campione) delle 85 città con dati disponibili, nel 2022 hanno registrato valori superiori a quelli previsti dalla prossima direttiva. Monza (25 μg/m3), Milano, Cremona, Padova e Vicenza (23 μg/m3), Alessandria, Bergamo, Piacenza e Torino (22 μg/m3), e infine Como (21 μg/m3) le città che oggi doppiano quello che sarà il nuovo valore di legge (10 μg/m3 rispetto i 25 attuali).

Per quanto riguarda il biossido di azoto (NO2) sono il 61% (57 su 94) le città che, pur non superando l’attuale normativa, nel 2030 saranno fuorilegge se si mantenessero le concentrazioni registrate nel 2022: il nuovo limite (20 μg/m3) sarebbe superato in 57 città, con le situazioni più critiche e distanti dal nuovo obiettivo, a Milano, Torino, Palermo, Como e Catania (con valori oscillanti dai 38 ai 34 μg/m3), che quindi dovranno ridurre le loro emissioni per oltre il 40%.

Queste prime considerazioni fanno capire quanto siano distanti oggi le città italiane dagli obiettivi da raggiungere nei prossimi sette anni. L’inquinamento atmosferico è infatti un problema che non si risolve dall’oggi al domani: risulta perciò indispensabile, argomenta il rapporto Mal’aria di città, “capire quanto manca, cosa manca e quanto efficaci siano state (e saranno) le azioni e le politiche che inevitabilmente dovranno essere realizzate per raggiungere gli obiettivi previsti”.

Se ne conclude che le città più lontane dall’obiettivo per le micropolveri PM10 sono Torino e Milano (43%), Cremona (42%), Andria (41%) e Alessandria (40%), che dovranno ridurre le concentrazioni di questo inquinante di oltre il 40% nei prossimi anni per non incorrere in procedure di infrazione. Lontanissime, per il PM2.5, Monza (60%), Milano, Cremona, Padova e Vicenza (57%), Bergamo, Piacenza, Alessandria e Torino (55%), Como (52%), Brescia, Asti e Mantova (50%), che dovranno più che dimezzare le concentrazioni attuali. Ancora Milano (47%) e Torino (46%), seguite da Palermo (44%), Como (43%), Catania (41%), Roma (39%), Monza, Genova Trento e Bolzano (34%) le città più indietro per l’inquinamento da NO2, che dovranno ridurne di oltre un terzo le attuali concentrazioni.

Dopo queste considerazioni generali e riguardanti tutto il territorio nazionale vorrei soffermarmi sulla situazione della nostra regione e di Ferrara.

Iniziando dalle polveri PM10 delle 95 città a livello nazionale di cui si hanno dati 29, come detto in precedenza, sono quelle con almeno una centralina oltre il limite di legge dei 35 giorni di sforamento consentiti. Dopo le prime 6, in cui non vi sono città della nostra regione, nel gruppo successivo sono presenti:

giorni di sforamento
·         Reggio Emilia (11°) 64
·         Ferrara (13°) 61
·         Piacenza (21°) 47
·         Parma (23°) 46
·         Rimini (25°) 42
·         Ravenna (27°) 37

Rimangono fuori da questo gruppo Bologna e Forlì-Cesena che registrano rispettivamente 33 e 27 giorni di sforamento nel 2022, valori al di sotto del limite dei 35 giorni previsti dalla normativa.

Per quanto riguarda i valori medi annuali, i dati rilevati di PM10 evidenziano che in nessuna città è stato superato il limite previsto di 40 μg/m3. I valori più alti in Italia sono stati registrati a Milano Torino e Cre­mona (35 μg/m3). In Emilia-Romagna la prima è Modena con 33 μg/m3, poi Reggio Emilia (32 μg/m3), Piacenza (31 μg/m3), Parma 30 (μg/m3), seguite da Rimini e Ferrara (29), Ravenna (27) e infine Bologna, Forlì e Cesena con 25 μg/m3.

Le micropolveri di diametro inferiore ai 10 μm (PM2,5) risultano ancora più pericolose per la salute umana. Le stime nell’UE sono di quasi di 250.000 morti nel 2020 attribuibili, da parte dell’Agenzia Europea dell’ambiente, al superamento dei valori di questo inquinante raccomandati dall’OMS. La stima è che il 96% della popolazione europea sia esposta a valori superiori a tali soglie[2]. Nel rapporto Mal’aria di città 2023 sono riportati i dati relativi ai valori medi annui delle centraline di 85 città italiane. In tutti i casi i quersti si sono mantenuti sotto il limit  di 25 μg/m3, secondo la normativa attuale, ad esclusione di Monza che con 25 μg/m3 uguaglia il limite mentre altre città – Milano, Cremona, Padova e Vicenza (23 μg/m3), Torino, Alessandria, Bergamo, e Piacenza (22 μg/m3), Como (21 μg/m3), Brescia, Asti, Mantova e Lodi (20 μg/m3) – hanno registrato valori che sfiorano il limite normativo. Ferrara e le altre città emiliano-romagnole, ad esclusione di Piacenza, hanno registrato valori medi oscillanti tra 18 di Modena e Reggio E. e i 14 μg/m3 di Forlì.

Alla luce dei dati fin qui esposti possono risultare utili alcune riflessioni e confronti, in particolare sulla situazione della nostra e delle altre città dell’Emilia-Romagna relativamente all’evoluzione del livello di PM10 nel corso dell’anno.

Già è stato detto quanto i livelli di qualità dell’aria, specie per alcuni inquinanti, risentano delle condizioni metereologiche (pioggia, vento, temperatura dell’aria, ecc.).

Osservando i dati dei primi tre mesi del 2022, sostanzialmente fino a quando sono state in vigore le misure antismog ed emergenziali autunno-inverno (in regione dal 1/10/2021 al 31/03/2022), si rilevano, a cominciare da Modena, 44 giorni di superamento dei limiti di PM10 [3]. Seguono Reggio E. con 42, Ferrara, che ne ha accumulati 36, Parma 25, Rimini 24, Piacenza e Ravenna 22, Bologna 17 e infine Forlì-Cesena 14. Alla fine del mese di settembre i giorni di sforamento per questa tipologia di inquinante sono stati gli stessi di marzo in tutte le città, ad esclusione di Rimini dove vi è stato un aumento da 24 a 25 giorni. Ciò a riprova che nei mesi da aprile a settembre non sussistono le condizioni, se si esclude il verificarsi di situazioni molto particolari, per questo tipo di inquinamento atmosferico. Nei mesi successivi, al 31 di ottobre e poi a fine anno la situazione degli sforamenti è stata la seguente:

al 31/10/’22 rispetto a fine marzo al 31/12/’22 rispetto a fine ottobre
Piacenza 32 + 10 47* + 15
Parma 30 + 5 46* + 16
Reggio Emilia 49* + 6 64* + 15
Modena 54* + 10 75* + 21
Bologna 20 +3 33 + 13
Ferrara 44* +8 61* + 17
Forlì-Cesena 17 + 3 27 + 10
Ravenna 25 + 3 37* + 12
Rimini 30 + 5 42* + 12

Sono asteriscati i valori che hanno superato la soglia prevista delle 35 giornate di sforamento

Modena, come si vede, aumenta i giorni di sforamento tra fine ottobre e fine dicembre di ben 21 unità, Ferrara di 17, Parma di 16 e Piacenza di 15. Queste le città dove, in soli due mesi, più numerose sono state le giornate di inquinamento da PM10, e quindi quelle su cui porre maggiormente l’attenzione rispetto agli obiettivi di fine decennio.

E, anche se, come osserva il rapporto, negli ultimi anni nessuna delle città analizzate (sia livello nazionale, che in regione) ha superato il limite medio annuo previsto dalla normativa per il PM10, a dimostrazione di come sia possibile mettere in campo politiche e azioni volte a mitigare le fonti di inquinamento atmosferico nelle città, ciò non sarà sufficiente a tutelare in futuro la salute delle persone, visto che il tasso medio di riduzione delle concentrazioni a livello nazionale per il PM10, risultato dall’elaborazione dei dati sull’inquinamento atmosferico raccolti da Legambiente monitorando gli anni dal 2011 al 2021, è stato solo del 2%. Dato questo che rappresenta, in termini percentuali, con quale “velocità” mediamente le città italiane si stanno dirigendo verso gli obiettivi del 2030.

Il risultato non è incoraggiante, nonostante gli sforzi adottati e le riduzioni delle emissioni avvenute: in pratica in nessuna città si è registrato un sistematico e costante calo delle concentrazioni di PM10 [4] Quelle più distanti dall’obiettivo previsto dovranno ridurre le concentrazioni del particolato tra il 30% e il 43% nei prossimi sette anni; ma, stando alle tendenze di riduzione registrate negli ultimi 10, potrebbero impiegare mediamente altri 17 anni per raggiungerlo: quindi il 2040 anziché il 2030, e, per tornare alla nostra regione, una città come Modena potrebbe metterci oltre 30 anni!

Applicando gli stessi criteri per le città dell’Emilia-Romagna, la riduzione percentuale dei valori medi annui delle micropolveri PM10 e PM2,5 necessaria per raggiungere gli obiettivi del 2030 sono, cominciando da Ferrara, rispettivamente, -30% e -38%, mentre livelli simili si riscontrano per gli altri capoluoghi con punte per Modena, -39% e -44%, e per Reggio Emilia, -38% e -44%.

In ambito nazionale sarebbero solo 23 su 95 (il 24%) le città che, in base ai dati del 2022, rispetterebbero i nuovi limiti che entreranno in vigore nel 2030. Le altre 72 città sarebbero invece fuorilegge e, in molti casi anche in maniera molto marcata. Le città più inquinate del 2022 dovranno infatti ridurre gli attuali livelli di inquinamento di oltre il 40% per poter rispettare la nuova normativa.

Le proposte del rapporto Mal’Aria di città [5] per mitigare i livelli di inquinamento nelle città italiane.

  1. Dalle ZTL (Zone a Traffico Limitato) alle ZEZ (Zero Emissioni Zone).
  2. LEZ (Low Emission Zone) anche per il riscaldamento.
  3. Abbonamenti al Trasporto Pubblico e Trasporto Rapido di Massa (TRM).
  4. Sharing mobility.
  5. Ridisegnare lo spazio pubblico urbano a misura d’uomo.
  6. Tutto elettrico in città, anche prima del 2035.

Note; 

[1] I dati sono riferiti alla centralina che ha presentato il valore più alto tra quelle installate in una città.
[2] https://www.eea.europa.eu/publications/zero-pollution/health/air-pollution
[3] Fonte dei dati ARPAER. https://apps.arpae.it/qualita-aria/bollettino-qa/.
[4] https://www.arpae.it/it/temi-ambientali/aria/liberiamo-laria/liberiamo-laria. In questa pagina del sito dell’Agenzia Prevenzione Ambiente Energia Emilia Romagna (ARPAE) vengono elencate le Misure antismog e misure emergenziali dal 1° ottobre 2022 al 30 aprile 2023 (provvedimenti antismog, limiti alla circolazione, misure emergenziali, uso di biomasse per il riscaldamento domestico).
[5] Mal’Aria di città, Legambiente, gennaio 2023. https://www.legambiente.it/wp-content/uploads/2021/11/Rapporto_Malaria_2023.pdf

Parole e figure /
Cos’è l’amore?

Cos’è l’amore?

Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte / Il primo per vederti tutto il viso / Il secondo per vederti gli occhi / L’ultimo per vedere la tua bocca / E tutto il buio per ricordarmi queste cose / Mentre ti stringo fra le braccia.
Jacques Prevert

Non c’è scrittore, poeta, narratore, pittore, cantautore, musicista, regista, artista che non abbia provato a capire cos’è l’amore, a darne una sua definizione o a farne una sua rappresentazione. Nei secoli ciascuno ha provato a capirlo, catturarlo, trasmetterlo.

Per me questo incredibile sentimento è sempre stato Catullo (con il suo carme 85, Odi et amo) o l’immenso Jacques Prevert (Tre fiammiferi, I ragazzi che si amano o Questo amore). Per non dimenticare Pablo Neruda (Il tuo sorriso o Non ti amo come fossi rosa di sale) o Konstantin Kafavis (Itaca). Oggi mi sta piacendo Mr Rain, con i suoi Supereroi. Tenersi per mano, stringersi davanti alle prove della vita. Stringere un altro essere umano, un animale, un genitore, un figlio, un nonno, un bisnonno, un nipotino, un amico. Fondersi con la Natura, con il Divino dentro e fuori di noi. Con la vita, insomma. Nel pieno, totale e sacrosanto rispetto.

Ricordate, per caso, le vignette del neozelandese Kim Grove “l’amore è…” della fine degli anni 70? Hanno fatto sognare un po’ tutti ed erano una perfetta sintesi di cosa potesse essere amare, nei piccoli gesti quotidiani.

Oggi, nel giorno degli innamorati, abbiamo allora scelto per voi un bellissimo albo illustrato di Mac Burnett e Carson Ellis, dal titolo, Cos’è l’amore, Terre di Mezzo edizioni.

Un albo delicato e romantico che parla di amore, quello universale.

Perché si può essere innamorati in tanti modi e di tante cose molto diverse. Con i propri tempi.

Da bambino nel giardino della nonna, uno di quei fioriti giardini fantastici dal sapore di rosa canina e di caramello immerso nelle farfalle, il nostro protagonista bambino, in cui mi piace immedesimarmi – ragion per cui d’ora in avanti userò la prima persona – chiede alla nonna cos’è l’amore. La domanda che prima o poi tutti ci facciamo. La nonna è anziana e penso che, essendo la saggezza spesso legata all’età, lei lo debba per forza sapere. Lei non risponde, mi dice che sarà il mondo a darmi la risposta. Forse.

Parto allora alla ricerca di tale risposta. La troverò?

Lascio alle spalle la casetta tiepida recintata da fiori gialli, un piccolo fil di fumo occhieggia dalla sottile canna del camino, la nonna sorridente mi saluta, un timido cenno della mano che mi accompagnerà ovunque, le montagne mi faranno da sfondo, nella mia lunga camminata, la strada sarà lunga, non immagino ancora quanto difficile.

Un cinguettio di uccellini colorati e spensierati accarezza il cielo senza nuvole, le morbide colline verdi mi sorridono e mi aprono la via, spazio ai sogni, gli alberi dalla chioma tondeggiante si inchinano al mio passaggio. Già mi ringraziano per la pazienza e la perseveranza che avrò nel cercare quella risposta. Incontrerò un pescatore, un attore, un gatto, un muratore, un soldato, un poeta. Ognuno avrà la sua risposta: l’amore è un pesce, un applauso, la notte, una casa, un seme, una spada, un cavallo, un asino, un’auto sportiva, una ciambella, la prima neve in inverno, l’acero in estate, un sasso…

Il saggio poeta, sotto il cielo rosato, ha una lunga lunga lista, molto più lunga della sua barba canuta, ma serve tempo per ascoltarlo e io non ce l’ho.

Tornerò allora a casa, là da dove sono venuto. Al tramonto mi avvicinerò alla casa della nonna, la luce sarà accesa, si sentirà il profumino della cena e vedrò il cagnolino bianco che abbaia alla finestra, felice di vedermi. Sa corrermi incontro con un amore e una dedizione unici, scodinzolando, saltellando, avvolgendomi di attenzioni.

Mi toglierò le scarpe e tufferò i piedi sull’erba morbida. Mentre la nonna, in silenzio, mi arriverà alle spalle. Lei più vecchia, io ormai cresciuto, mi chiederà se ho trovato la risposta alla mia domanda. In un abbraccio stretto stretto le darò la risposta. La mia.

Mac Barnett

Nato l’11 luglio 1982, si è laureato al Pomona College, dove ha avuto come insegnante lo scrittore David Foster Wallace. Autore di libri di successo per bambini, i suoi libri hanno venduto più di due milioni di copie e sono tradotti in oltre trenta lingue. Nel 2012 ha vinto il Boston Globe – Horn Book Award, e nel 2013 il E.B. White Read Aloud Award con “Extra Yarn”. Con Terre di mezzo Editore ha pubblicato Sam e Dave scavano una buca (2015), illustrato da Jon Klassen, Filo magico (2016), Nome in codice: Mac B. In missione per la regina (2019), Nome in codice: Mac B. Il crimine impossibile (2020), Leo. Una storia di fantasmi (2016), che illustrato da Christian Robinson, è stato segnalato tra i dei dieci migliori libri secondo il New York Times, insieme a Che cos’è l’amore? (2021). Nome in codice Mac B. In missione per la regina è stato scelto per la prima selezione del Premio Strega Ragazze e Ragazzi 2020, nella categoria +6. È tra gli autori dei Best Illustrated Children Books selezionati nel 2019 dal New York Times e dalla New York Public Library, con il libro Just Because, illustrato da Isabelle Arsenault. Vive a Oakland, in California.

Carson Ellis

Illustratrice, ha ottenuto molti riconoscimenti, tra cui la Silver Medal della Society of Illustrators di New York e il Caldecott Honor. In Italia sono usciti Casa (Emme edizioni), la serie Wildwood (Salani) e Te to té? (White Star), oltre al libro presentato oggi.

Vive a Portland, in Oregon.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

 

 

Pane o libertà: Paolo Rossi mette in scena in modo comico la fatica di tirare avanti

Pane o libertà: Paolo Rossi mette in scena in modo comico la fatica di tirare avanti

Uno spettacolo che appare leggero e spensierato, ma che porta in scena in modo comico le piccole o grandi odissee quotidiane, la fatica del lavoro e magari del vivere. Una fatica e dei drammi che possono riguardare un po’ tutti e che non escludono chi fa un mestiere creativo, prestigioso e di successo, come accade a un personaggio dello spettacolo affermato come Paolo Rossi e a quella piccola schiera di maestri a cui lui stesso fa riferimento, da Enzo Jannacci a Dario Fo.
È questa in qualche modo la sottile linea che tiene insieme tutto il canovaccio di “Pane o libertà”, l’ultimo spettacolo di Paolo Rossi andato in scena al Teatro Comunale di Ferrara sabato 11 e domenica 12 febbraio 2023.
“Vi assicuro che è tutta un’improvvisazione – avverte il comico all’inizio della serata – perché tanto fuori di qua recitano tutti e lo fanno comunque meglio di noi. L’unica cosa che abbiamo preparato sono i bis (che quindi raccomando di richiedere)”.  E poi continua: “Ognuno si porta dentro la sua odissea e anche noi ce l’abbiamo, come ce l’avete voi”.

Paolo Rossi al Teatro Comunale di Ferrara
Paolo Rossi al Teatro Comunale di Ferrara
Paolo Rossi al Teatro Comunale di Ferrara

Una serie di avvenimenti ed esperienze travagliate e dolorose che restano sullo sfondo, per fare capolino qua e là in maniera leggera ed ironica. Come quando alla presentazione aperta al pubblico, fatta con ingresso libero sabato 11 febbraio a mezzogiorno negli spazi del ridotto del teatro,
Paolo Rossi ha fatto riferimento alla necessità di mantenere i figli (“Ne ho un tot, sapete com’è, è la vita di chi fa tournée”) e alla sempre più frastagliata situazione lavorativa. Ormai – racconta l’artista – su 10 richieste di farci esibire, almeno 7 arrivano da spazi che non sono teatri. Ci è capitato di tutto, dagli oratori alle taverne con i graticci appesi fino alle sale polivalenti e ai caffè. Ma c’è da dire che esibendosi in un bar o in uno spazio informale si crea davvero socialità. Mi capita che alla fine dello spettacolo vengano a ringraziarmi coppie di persone che raccontano di essersi conosciuti proprio durante un mio spettacolo. A volte vengono anche con i figli, nati grazie a quella contingenza. Bene, questo è il bello di fare spettacolo, e le relazioni è più facile che si creino in ambienti così”.

Paolo Rossi in “Pane o libertà” (© MoniQue)

Riuscitissima l’ouverture che strizza l’occhio alle vicende sanremesi e allo smaccato vandalismo di uno degli ospiti. È uno dei suoi tre musicisti, il chitarrista Emanuele Dell’Aquila, che in apertura gli offre un mazzo di fiori; Paolo Rossi che li getta a terra, spiegando: “Scusate, ma non ci sentivo bene dalle cuffie. In effetti forse è perché non ce le ho, le cuffie”. E il chitarrista raccoglie i poveri steli gettati per fustigarsi la schiena in atto di pentimento. Lo spettacolo prosegue con l’accompagnamento di contrabbasso, fisarmonica e batteria suonati da Alex Orciari e Stefano Bembi.

Il valore aggiunto dello spettacolo di Paolo Rossi a Ferrara è, infine, quello di rinverdire il suo giovanile rapporto con la città. “Ho frequentato l’istituto tecnico di via Madama”, ha raccontato nella saletta del Ridotto, affollata di tanti studenti e “in questo teatro finora c’ero venuto solo per contestare gli spettacoli e le compagnie. Ma non sono io che sto cambiando idea. Sono le idee che stanno cambiando posto”. Poi si passa all’autoironia: “Mentre passavo da corso Giovecca ho sentito che mi chiamavano per nome, ‘Paolo… Paolo!’. Quando mi sono voltato ho pensato: ‘Ma chi sono quei vecchi?’ Poi ho scoperto che erano miei compagni di classe”.
E in effetti giù in strada, fuori dall’uscita degli addetti ai lavori, c’è un bel gruppo di ex frequentatori della parrocchia dell’Immacolata. Paolo Rossi si ferma, scherza e ci scappa un passaggio fino alla pizzeria del dopo-spettacolo. E l’attore ancora una volta entra ed esce dalla vita, tra pasti di mezzanotte e riflessioni agrodolci che continuano a far ridere e a far riflettere.

Non mi chiamo Pasquale!

Non mi chiamo Pasquale!

Riguardo al consiglio comunale di Lunedì 30 gennaio 2023 e alle discussioni online che ne sono seguite, mi sono scervellata a cercare di capire cosa succeda e questo mi ha fatto venire alla mente il famoso sketch di Totò, dove la chiave era che lui non si chiama Pasquale.

Le mie riflessioni che non riguardano solo le argomentazioni degli amministratori, che credo di avere facilmente contestato, ma anche le reazioni dei loro sostenitori che non credono all’evidenza. La gente di cui ho letto e commentato i post su Facebooksi convince tranquillamente di discorsi che parlano d’altro, sghignazzando con faccine varie nella disapprovazione dei miei post.

Questo mi ha fatto pensare alla mia maestra di quarta e quinta elementare, che si era permessa di allarmarci perché se i comunisti fossero andati al governo ce la saremmo vista brutta. La mia compagna di banco espresse paura per questa prospettiva e io tra me e me la compatii perché sapevo che mio padre era comunista e anche il suo, essendo anche lui operaio. Si intensificò anche il mio odio per la maestra. Ora la stessa sensazione di compatimento comprensivo mi è venuta a leggere questi commenti sbeffeggianti ma inconsapevoli.

Primo punto: la questione delle 500 firme, che erano quelle che servivano per ottenere la discussione in consiglio comunale sull’argomento, e quella delle 43000 ottenute con una petizione online. L’assessore ha argomentato che 500 firme rappresentano un’infinitesima parte della cittadinanza, quindi non hanno valore e che, delle firme online, tantissime saranno state fornite da chi abita lontanissimo da Ferrara e non sa nemmeno dove sia. Mi stupisco che non si capisca che questa, venendo dagli amministratori, scaltri politici, sia una riduzione strumentale. Certo non è la maggioranza dei cittadini che ha firmato, però se andassimo a chiedere a uno per una tanti di più firmerebbero, oltre al fatto che tante persone favorevoli a Save the Park non hanno potuto farlo per motivi pratici. Sempre una minoranza, certo, ma rappresentativa di tanti altri, anche se non siamo certo la maggioranza, lo ammettiamo. Come ammettiamo facilmente che non tutte le 43.000 firme siano di ferraresi: non è quello il punto. Io nego però, pensando a me stessa, che qualcuno abbia firmato più volte: a me non sarebbe mai venuto in mente, penso che venga in mente solo a chi fa le cose per interesse o per il potere, come l’assessore Gulinelli. Chi ha firmato lo ha fatto, sono convinta, per esprimere una preoccupazione sincera per un luogo che, anche se sconosciuto, che potrebbe essere dovunque. Queste persone sanno che tutto è collegato, sanno che, come scrive il poeta inglese del seicento, John Donne, «Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te». Sostituite alla parola “uomo”, la parola “angolo di natura” e capite perché molti firmino anche senza conoscere Ferrara.

Poi, mi scuso se suono retorica, mi vengono in mente tutte le metafore educative che ho incontrato nella mia vita: anche se fosse stato solo uno a segnalare il rischio del concerto al parco, non si sarebbe dovuto ascoltare? Evidentemente non lo pensa l’assessore Gulinelli che ritiene 500 firme, che come abbiamo detto sicuramente non rappresentano di tutti e tutte coloro che sono contrari, insignificanti perchè poche in proporzione alla popolazione ferrarese. Oltre tutto le rapporta anche al numero dei ragazzi e neonati, non solo degli adulti consapevoli. Penso che l’assessore non abbia sentito leggere l’istruttiva fiaba dove chi dichiarava che il re è nudo era uno solo ed era un bambino, mentre tutti gli altri adulti e potenti fingevano di non vedere …..

Per quello che posso valutare io, gli argomenti dell’amministrazione sulla gestione logistica, che sarebbe perfetta per il Parco Bassani e impossibile in zona sud, non stanno in piedi. Credo possibile, è una supposizione che ho sentito dalla consigliera Anna Chiappini, che sia stata offerta o richiesta tale localizzazione in cambio del concerto di Springsteen a Ferrara, come condizione sine qua non. Se fosse così, si comprenderebbe questo continuo negare degli amministratori che esistano collocazioni molto più gestibili. Il sindaco potrebbe avere preso accordi da cui non può recedere. Io non mi stupirei, avrebbe fatto una scelta che gli compete, ma la correttezza gli chiederebbe di essere trasparente e di farlo sapere invece di prendere in giro i cittadini e le cittadine. Che l’aeroporto di Ferrara non dia il permesso, come ha detto il sindaco, è stato confutato dal consigliere Colaiacovo, documenti alla mano. Inoltre, in una lettera del gestore dell’aeroporto di Aguscello, con dati precisi, troviamo la dimostrazione che in quel luogo i collegamenti stradali e ferroviari, i parcheggi e gli spazi di servizio sono immediatamente disponibili senza alterare il traffico abituale.

Allora consiglio i cittadini di non farsi sviare dai numeri, falsati, dell’assessore e di valutare se sia più vantaggioso fare il concerto al parco urbano o farlo all’aeroporto. E anche di considerare se il vantaggio sia dei cittadini o di chi specula. Perché se anche fosse una sola persona che dice la cosa giusta, non sarebbe meno giusta perché tutti gli altri dicono il contrario. Io penso che si creeranno molti disagi e molti danni che poi saranno visibili da tutti. Non vorrei che la consapevolezza di una scelta sbagliata avvenisse dopo che il danno sarà fatto, per questo il sindaco dovrebbe apprezzare che è questo il nostro aiuto, da lui sollecitato, per il bene della città.

Infine una sottolineatura linguistico-culturale “non siamo matti” ha detto più di una volta il sindaco intendendo evidentemente che i “matti”, che sarebbero le persone con malattia mentale, facciano cose assurde fuori dalla realtà. Io conosco tante persone e familiari con problemi di salute mentale e loro meritano rispetto anche se informo, chi non lo sapesse, che questa frase non li può offendere, perché loro, infatti, non sono matti. Pazzi sono quelli che credendo di fregare gli altri fregano se stessi: quelli che credendo di averla vinta su 500 ambientalisti rovinano l’ambiente che sono demandati a proteggere.

Tutte le risate di denigrazione che mi sono attratta su Facebook, segnalate con battute e faccine, scrivendo su questi argomenti, mi hanno fatto venire alla mente lo sketch di Totò che rideva a crepapelle raccontando dell’equivoco di un energumeno che lo picchiava chiamandolo Pasquale. Siccome lui non era Pasquale, allora rideva dell’errore di chi lo aveva menato. Forse noi facciamo ridere perché non ce la faremo a ottenere il nostro obiettivo. L’obiettivo però è di tutti, perché vogliamo proteggere la bellezza e l’ambiente della nostra città. La nostra intenzione non è contrastare il sindaco o il concerto, ma far sì che tutto funzioni al meglio, che il Parco Bassani sia a disposizione dei ferraresi, che il pubblico si goda il concerto e che ci siano meno problemi di traffico possibile. Quindi se noi perderemo, perderete anche voi, perché anche se non vi chiamate Pasquale, le botte le state prendendo voi.

Lo sketch di Totò, “Non mi chiamo Pasquale”.

Totò – La scenetta di..Pasquale…Rai Studio uno – 1966 – Video Dailymotion

Cover fotogramma del video dello sketch di Totò

Il declino del Pd

In poco più di un decennio il Pd ha perso metà dei voti e ridotto gli iscritti da 830mila del 2008 a 412mila del 2019, poi a 320mila del 2021 e ai 150/200mila del 2022. Tutti i partiti risentono dell’astensionismo, ormai altissimo in Italia, ma in particolare il Pd che pure raccoglie, ancora nel 2022, il maggior contributo dal 2 x mille (7,4 milioni da 475mila cittadini, media 16 euro), seguito da Fratelli d’Italia (3,1 milioni da 234mila cittadini, media 13 euro). Le elezioni si vincono non tanto perché ci sono forti flussi in transito tra sinistra e destra (e viceversa), ma se un partito riesce a farsi votare anche dalla sua area di potenziali astensionisti che, o votano quel partito, o si astengono. Il PD ha avuto negli ultimi anni la maggiore astensione, oltreché una fuoriuscita di elettori. Sono in attesa di una proposta più convincente.

Una causa della perdita di iscritti e attivisti, la cosiddetta base che il partito vantava come quota garantita, da mobilitare all’occorrenza, e che lo differenziava dagli altri, è che il PD è diventato anche un partito “dirigista”. I capi decidevano e quello era il “verbo cui allinearsi. Le scelte fondamentali (sulle alleanze governative, sulle posizioni da tenere sui grandi temi che stavano travolgendo la società) non discendevano più da indicazioni della base, dagli esiti del dibattito fra gli iscritti, ai quali è rimasta solo la presa d’atto.

Le cause della crisi dei consensi sono varie, ma quella fondamentale è che il Pd è stato vittima dei cambiamenti nella società e nell’economia avviatisi negli ultimi 20 anni, ma esplosi con la crisi del 2008, da quando si è avviato un processo mondiale (e poi europeo) che ha portato ad una crescente liberalizzazione dei mercati, allo strapotere della finanza nella globalizzazione, all’indebolimento degli Stati e dell’intervento pubblico nella protezione dei cittadini e alla diminuzione dell’occupazione a livello nazionale e locale.

Nei primi 8 anni del mercato unico europeo l’Italia è cresciuta anche come monte ore lavorate di 3,2 miliardi, ma poi dalla crisi dei subprime (2008) c’è stata una continua discesa del dato, con la perdita di 4,5 miliardi di ore retribuite: un tracollo. Sono così cresciute in modo enorme le disuguaglianze e si è concretizzato, per la prima volta dal dopoguerra, un impoverimento del 70% dei cittadini. In questo contesto l’idea (in teoria giusta) del PD di acquistare sempre più voti anche tra i ceti moderati per diventare un partito maggioritario, che ha portato alla vittoria di Renzi (2014-16) col 40%, ha subito uno stop non potendosi tradurre in fatti concreti (occupazione, welfare,…) a causa anche dei vincoli europei e mondiali.

Nel frattempo questo spostamento al centro del PD ha portato a trascurare i ceti deboli che aumentavano a causa del crescente disagio sociale. Liberalizzazione dei mercati, globalizzazione, Europa dei mercati e della moneta, responsabilità di governo, atlantismo sono state parole d’ordine sempre più assunte dal PD (anche in contrasto con le tradizioni di DC e PCI). Parole d’ordine che hanno “funzionato” dal 2000 al 2008 (e ancora nell’onda lunga fino a Renzi, apparso come una novità dirompente), quando l’economia cresceva, ma non più negli ultimi anni, da quando sono emersi, sempre più evidenti, i molti guai in cui si dibatteva la maggioranza dei cittadini. Gli elettori PD si sono rivolti così ad altre proposte o si sono astenuti.

Oggi la maggioranza dei cittadini è alla disperata ricerca di protezione e cerca più occupazione, più salario, più welfare, meno carovita,…. Non stupisce quindi che il 56% dei cittadini sia contrario all’invio di armi all’Ucraina (71% Lega, 75% Sinistra-Verdi, 60% Fratelli d’Italia) che vedono come una sottrazione di risorse al welfare (a una sanità pubblica al collasso, alla scuola e ad altri servizi), mentre tra gli elettori del PD solo il 33% sono contrari. Ciò mostra come il PD sia insediato nella parte più istruita, professionale e “responsabile” dell’elettorato, ma come abbia perso appeal verso gran parte dei ceti deboli e di chi critica il mainstream e sia diventato minoritario nel paese sulle grandi questioni sociali.  Il partito viene anche assimilato (non a torto) ai decisori americani ed europei che sostengono un modello produttivo “global”, che non solo viene visto come distruttivo della Natura, ma allineato alle strategie americane e non consono a tutelare gli interessi degli italiani (e della stessa Europa).

La maggioranza dei suoi ex elettori, non sentendosi tutelata, si astiene o si rivolge ad altri (M5S, FdI) nella speranza di trovare maggiore protezione.

Il declino del PD è quindi crisi della sua cultura politica, troppo allineata a quella liberista, con l’enfasi su chi aveva successo nella società, mentre avveniva una “discesa all’inferno” della maggioranza. Il sociologo Richard Sennett ammonì (già nel 2005) sui guasti che avrebbe prodotto il nuovo capitalismo finanziario, sul vuoto dell’individualismo contemporaneo che la destra sociale della Meloni ha saputo meglio cogliere, promettendo tutele, protezioni e ridando un ruolo allo Stato italiano, mentre il PD parlava molto di Europa e globalizzazione. La Meloni parla agli italiani, il PD (come europei) agli immigrati, la Meloni ai ceti deboli, Bonaccini alle imprese. Carlo Trigilia nel suo recente libro (2022) parla di “sconfitta culturale” e non di un cambiamento inevitabile.

Il PD difende l’Europa, non sapendo analizzare criticamente però processi enormi come la concorrenza dei paesi dell’Est Europa entrati nel 2004, che hanno spiazzato l’Italia e il Sud Europa a vantaggio dell’asse nord-tedesco/est. Questi paesi, pur sferzati dal neoliberismo, sono cresciuti in occupati, welfare, contenendo (in parte) le disuguaglianze e consentendo retribuzioni in crescita (+20/30%), mentre l’Italia sprofondava dal 2008.

Per le socialdemocrazie centro-nordiche welfare e lavoro sono un volano d’investimento sociale e comunque la crescita economica lì c’è stata. La Merkel aveva capito l’importanza di una Europa indipendente dagli Usa e la Germania cresceva con un compromesso tra Mercato e Stato, tra produzione della ricchezza e sua redistribuzione, forte di una alleanza con la Russia per avere materie prime a basso costo ed export in Cina. Un modello vincente che aveva portato ad una rivalutazione dell’euro sul dollaro del 60%…ma che al Re dollaro non piaceva affatto.

Ora l’allineamento imposto a tutti gli Europei dalle strategie Usa, farà “saltare in aria” questo modello e il PD si trova spiazzato, cullandosi con Bonaccini nel “modello industriale emiliano”  – e la sua tradizionale buona amministrazione – che si reggeva però sul collegamento alla manifattura tedesca (ora in crisi). Gli italiani sanno bene, al di là della propaganda ossessiva dei media, che in Ucraina è in ballo qualcosa di più grande del Donbass. I debiti Usa col resto del mondo ammontano a 18mila miliardi di dollari (15 volte il Pil dell’Italia, cifra da capogiro), a cui fa da contraltare un attivo di 4.100 miliardi della Cina (e 600 miliardi della Russia). In ballo c’è un Nuovo Ordine Monetario Internazionale, una de-globalizzazione che vuole mettere in discussione la “domanda da ultima istanza” del Re dollaro. E gli Usa non vogliono mollare a costo di indebolire l’Europa, minata da maggiori costi di gas e materie prime e ora anche spiazzata da 500 miliardi di sussidi al “libero mercato” Usa.

In un tale contesto di inedito allarme sociale, i ceti deboli si rivolgono a quei partiti che mostrano una radicalità che è stata espunta dal PD – moderato e “responsabile” – e che premia oggi la Meloni (domani si vedrà). Il PD ha sofferto della scomparsa delle grandi omogeneità di classe sociale, protagoniste della seconda metà del Novecento. Gli operai della manifattura sono diminuiti, ma i lavori a bassa qualificazione sono cresciuti nei servizi segmentando il lavoro (specchio delle disuguaglianze), tra (relativamente) garantiti e non garantiti. Tutto ciò è avvenuto in 15 anni in cui il PD ha spesso governato senza interventi davvero incisivi e nuove grandi idee per invertire la “frana” che si stava producendo.

Ora che il lavoro e il welfare sono “re nudi” si notano le conseguenze delle basse retribuzioni medie degli ultimi 22 anni: i poveri triplicati, la perdita di sicurezza del/nel posto di lavoro, la mancata occupazione femminile e giovanile, il collasso del meridione. Potevano questi ceti deboli non rivolgersi a proposte più radicali di fronte ad una élite che, alleata ad una Europa mercantilista, andava in direzione opposta alla tutela del nostro lavoro? Il prof. Carlo Corbari (Università di Ancona) afferma: “da inizio secolo mentre penetrava il neoliberismo nella cultura del centro sinistra e le classi si diluivano in una massa frammentata a rischio di ‘assoggettamento volontario’ ai nuovi media, il Pd, nato nel maggioritario, era impegnato nella rincorsa al centro, alla conquista dei ceti medi moderati: in parte li ha raggiunti, ma non aggiunti”.

C’è chi sostiene che il proporzionale potrebbe spingere i partiti a crearsi un’identità precisa, dando centralità a una democrazia parlamentare più snella. De Masi ipotizza ormai tre “sinistre”: il M5S , un PD “alla Bonaccini” continuista e un altro radicale “alla Schlein”, al fine di “marciare divisi” per poi “colpire uniti” alle elezioni. Insistere col maggioritario credo sia azzardato e porterebbe quanto prima il Pd a rischiare il ruolo di partito gregario.

Sui temi strategici che interessano i cittadini (pandemia, guerra, inflazione) i cittadini in maggioranza vedono chiaramente tutti i “ritardi” dell’Ue e la scelta del riarmo anche per la guerra in Ucraina come sciagurata, ma il PD sta altrove. Ciò che manca è una coraggiosa retrospettiva su questi 15 anni di declino sociale (avviatosi però nel 1999-2001) dovuto alla crisi globale e agli errori commessi, ma che potrebbe restituire al Pd una nuova visione e un pensiero nuovo capace di fare tesoro dell’esperienza. Non sarà però un congresso con le caratteristiche di quello in corso a consentirlo.

Frontiere aperte per i disertori
(in appendice un podcast sui disertori in Ucraina)

Frontiere aperte per i disertori

di L’ideota (da pressenza del 09,02.2023)

Una delle cose più abominevoli della guerra è costringere qualcuno a uccidere o farsi uccidere.

Tempo fa leggevo un articolo sullo stress post-traumatico di tanti reduci del Vietnam ricoverati in reparti psichiatrici. Una generazione è stata annichilita.

Dopo l’esplosione di una violenza istituzionalizzata e considerata presentabile nella buona società americana, molti reduci sono implosi, schiacciati dal peso dei loro incubi.

Il trauma dei soldati è analizzato nel film Full Metal Jacket. Parla di Vietnam, ma è una finestra su tutte le guerre. È un racconto feroce di quello che ti aspetta durante l’addestramento e mentre infuria la battaglia. In quei contesti rimane a galla chi si rifugia nell’annullamento di sé per trasformarsi in una macchina. Chi non ci riesce sprofonda nel delirio. Ma anche i soldati che mantengono un precario e contraddittorio equilibrio perdono qualcosa per sempre, persino quando sopravvivono, persino quando riescono a immergersi in una disperata apatia. Magari tornano a casa, ma sono rassegnati alla brutalità del mondo.

Non entro nei dettagli per non rovinarvi il film. Va guardato. Io l’ho visto tutto d’un fiato, malgrado qualche cedimento emotivo di fronte alle sequenze più crude.ucciderearmi

La verità è che non sopporto l’idea di un’arma da fuoco nelle mie mani, neanche come astrazione confinata nell’iperuranio, nemmeno come riflessione filosofica durante un cineforum o come ipotesi enigmistica in un gioco di società.

Non reggo l’idea di toccare fucili o pistole in nessuna situazione, anche se sto affrontando l’argomento proprio ora, in preda a un attacco di autolesionismo. Mentre scrivo, tento di sopprimere l’immagine dell’arma nel mio pugno, ma il mio flusso di coscienza è indisciplinato. Ricado nella condizione paradossale di chi cerca di non pensare al porpora e quel colore, come per dispetto, diventa un chiodo fisso.

Vista la mia curiosa idiosincrasia per stragi e cose simili, posso vagamente intuire l’abissale sconforto dei giovani russi e ucraini mandati a combattere contro la loro volontà. Al loro posto mi ubriacherei a morte durante il viaggio verso la prima linea.

Le alternative esistono: scappare chissà dove, oppure ribellarsi a viso aperto, subire un arresto e finire in carcere, per poi subire i soprusi di guardie poco compassionevoli in celle sovraffollate. Sono da mettere in conto anche le torture.

Durante la guerra, la retorica patriottarda scorre a fiumi e la diserzione diventa il tradimento supremo. Non puoi aspettarti di essere trattato con i guanti, se getti il fucile in un fosso di fronte al generale.

Avrei il coraggio di essere un oppositore che sfida il sistema a viso aperto e si prepara ad affrontare terribili conseguenze?
Difficile rispondere. Non voglio conferire a me stesso premi e attestati di merito psichici per atti eroici che non ho commesso. Forse, semplicemente, tenterei la fuga insieme a una moltitudine.

So solo che non potrei combattere. So solo che tante persone si oppongono, si sottraggono alle armi, disertano, ma al loro posto non saprei dove scappare, perché qualsiasi cartina geografica mostra con implacabile chiarezza che esistono Stati e confini.

Dobbiamo offrire un rifugio a chi brucia la divisa, invece di raggiungere nuove vette di perfezione nel voltare la testa dall’altra parte. Apriamo le nostre deplorevoli frontiere per proteggere i disertori russi e ucraini.

Facciamo risuonare il nostro barbarico yawp sui tetti del mondo per chiedere che ottengano lo status di rifugiati.

La scelta di non combattere deve diventare un diritto umano.

Finora questo tema è rimasto troppo ai margini del dibattito pubblico.

Portiamola avanti come si deve, senza dimenticare le basi, questa lotta antimilitarista.

L’Ideota
Classe 1973. Sono uno scrivente che ha fatto di tutto: articolista per giornali e riviste (Left per esempio), editor, ghost writer, autore di quarte di copertina per manuali universitari, compilatore di schede per saggi sull’arte e persino scrittore di racconti posizionati sulle etichette di bottiglie di vino. Da diversi anni sono volontario di Emergency. Antifascista da sempre, anarchico dal 2020. Odio i CPR e sogno l’abolizione del carcere. Nel mondo reale sono moderatamente noto come Danilo Zanelli, ma sul web sono L’Ideota, un autore satirico cupo, malinconico e malmostoso.

Appendice

Guarda L’articolo e ascolta il podcast:
Intervista di Radio Capital a Valerio Nicolosi sulla situazione dei disertori in Ucraina

 

 

Paolo Ravenna e la Ferrara di fine Novecento

Paolo Ravenna e la Ferrara di fine Novecento

Nel gennaio del 2018 la città di Ferrara, su proposta della sezione cittadina di Italia Nostra, proposta subito fatta propria con convinzione anche dalla famiglia, ha dedicato alla memoria permanente di Paolo Ravenna un luogo particolarmente significativo, perché posto lungo la strada più bella e più nota della città, (un piccolo slargo lungo corso Ercole I d’Este), un luogo centrale ma anche un luogo discreto, come discreto era il modo di porsi e di operare di Paolo.
Nel breve discorso che ebbi l’onore di pronunciare in quella occasione, come suo successore alla presidenza della sezione di Italia Nostra di Ferrara e come amico di Paolo, affermai, in modo convinto, che “Paolo Ravenna è l’uomo del Novecento che più ha influito sulle trasformazioni positive dell’assetto di questa città”, sia sotto l’aspetto fisico che sotto l’aspetto culturale.
Ecco, oggi vorrei cercare di motivare in modo più compiuto, seppur brevemente, quella affermazione.

Lo strumento urbanistico che finora ha maggiormente contribuito alla qualità urbana di questa città è la variante al piano regolatore generale presentata, dopo lunga elaborazione, nel 1975 ed approvata nel 1977. Credo che nei contenuti di quello strumento urbanistico sia chiara l’influenza del pensiero e delle tematiche portate avanti dall’impegno di Paolo e della sezione cittadina di Italia Nostra in quegli anni e fin dal suo nascere nel 1955: la politica di conservazione attiva, fisica e sociale, del centro storico e la definizione delle funzioni compatibili con la compagine storica come punto di partenza per la riqualificazione ed il riequilibrio delle funzioni della città intera, il rispetto del territorio agricolo, la necessità di verde pubblico e la ricerca dell’equilibrio tra spazi costruiti e spazi da mantenere inedificati.

Non a caso consulenti autorevoli di quel processo di pianificazione, Leonardo Benevolo prima, Pier Luigi Cervellati poi, sono stati direttamente impegnati nell’Associazione a livello nazionale. In particolare alcune indicazioni contenute in quel piano: conservazione della cinta muraria, protezione del verde ancora rimasto intorno ad essa, protezione del territorio agricolo a nord della città fino al Po posero le basi per la successiva realizzazione delle principali intuizioni di Paolo per la qualità urbana di Ferrara: il recupero delle Mura ed il Parco Urbano.
Da tempo era iniziata da parte della sezione di Ferrara, ma soprattutto da parte di Paolo, la campagna di rilevamento fotografico dello stato delle mura della città e la campagna di sensibilizzazione per il recupero della cerchia muraria.

Arrivò il momento in cui fu chiaro a tutti, amministratori compresi, che questo enorme monumento lungo 9 chilometri doveva essere salvato e conservato, ma si trattava di dare un senso a questo recupero (oltre a quello storico e testimoniale), un senso che andasse al di là della semplice (e molto onerosa) conservazione.
E il senso fu trovato da Paolo, dopo anni di confronti, ricerche e approfondimenti, nella funzione urbanistica del sistema mura, terrapieno, vallo: un parco attrezzato, un anello di verde pubblico che risolvesse in modo armonico il rapporto (altrove quasi ovunque conflittuale) tra centro storico e periferia.
Poi, unito ad esso, a nord del centro storico fino al Po, il Parco Urbano, per rendere davvero moderna questa città, con dotazione di verde pubblico al livello delle migliori realtà europee. Con intuizione geniale Paolo definì tutto questo, nel Simposyum europeo sul recupero attivo delle città storiche, tenuto a Ferrara nel 1978, l’Addizione Verde: il contributo contemporaneo al miglioramento della qualità urbana non sta più nelle espansioni costruite ma nella ricerca dell’equilibrio tra spazi edificati e spazi liberi. Paolo, con la sezione ferrarese di Italia Nostra, fece conoscere all’Italia e al mondo l’esistenza delle mura di Ferrara e l’importanza, per la cultura urbanistica in generale, del loro recupero, creando le condizioni perché tutto questo potesse essere realizzato.

Convinse l’Amministrazione anzitutto a progettare il recupero delle mura, sulla base delle linee guida elaborate da una commissione d’esperti di livello internazionale, contribuendo così a creare le condizioni, assieme ovviamente ad una serie di sinergie politiche, per accedere senza problemi ai finanziamenti quando se ne presentò l’occasione. E quello che pareva un sogno poté diventare realtà.

Oggi il progetto Fe.Ris è un attacco alla Città Verde ideata da Paolo Ravenna. Ma nessuna conquista è per sempre.

Dalla realizzazione del progetto di restauro delle Mura ad oggi, molte volte l’Associazione è intervenuta per richiamare le amministrazioni ai doveri di manutenzione e per evitare usi impropri di questo straordinario sistema ambientale. Lo stesso dicasi per il parco urbano, mai compiutamente realizzato e che ha visto nel tempo diminuire sia la superficie protetta, sia i livelli di tutela e moltiplicarsi gli usi impropri fino, oggi, alla programmazione di mega concerti in zone protette dal piano paesaggistico regionale come “aree di particolare interesse paesaggistico-ambientale”.

In questo periodo poi, in particolare, è in atto, col progetto Fe.Ris., un attacco senza precedenti al residuo verde di rispetto delle mura, rigorosamente protetto dal 1975 in poi da tutti gli strumenti urbanistici che si sono succeduti e da quelli tuttora vigenti e rispetto ai quali si cerca oggi di agire in deroga.
Si vorrebbe costruire un nuovo ipermercato in terreno ancora agricolo a cento metri dalle mura (in una parte di città dove già abbondano strutture commerciali simili, quindi non per necessità) e un grande parcheggio pubblico in zona vincolata a verde, anch’essa a pochi passi dalle mura, finalmente di recente liberata dalla funzione impropria di deposito di materiali edili. Si tratta di un episodio di estrema gravità per l’equilibrio urbanistico di questa città, contro il quale Italia Nostra, ritenendolo illegittimo, ha deciso di ricorrere al Tribunale Amministrativo Regionale, a difesa dell’interesse collettivo.
(Speriamo, come successe nella battaglia contro l’ampliamento di palazzo dei Diamanti, di poter contare, tra gli altri, sull’appoggio dell’allora onorevole Vittorio Sgarbi, oggi sottosegretario alla Cultura, presente a questo nostro incontro. La sintonia sulla precedente battaglia, vinta anche per l’intervento decisivo presso il ministero dei beni culturali del deputato ferrarese, nacque proprio da un incontro come questo, in cui si ricordava l’impegno civile di Giorgio Bassani).

Altro motivo di preoccupazione e di impegno per l’Associazione nel prossimo periodo è la comparsa del nuovo sistema di illuminazione delle mura, da una prima impressione a dir poco imbarazzante, e certamente enormemente più invasivo dell’impianto precedente.

Ferrara fu tra le prime città italiane ad affrontare il problema della salvaguardia attiva, fisica e sociale, del centro storico e lo fece con un importante convegno tenuto nel 1958, quindi con largo anticipo rispetto alle migliori esperienze di salvaguardia maturate poi a partire dalla fine degli anni Sessanta. La faticosa raccolta dei contenuti di quel convegno, che rischiavano di andare perduti e di essere dimenticati, e la loro pubblicazione nel 1978, fu il principale contributo ideato e voluto da Paolo al dibattito sulla politica di recupero del nostro centro storico conseguente all’entrata in vigore del piano particolareggiato varato l’anno precedente.
Altro suo importante contributo fu la partecipazione attiva alla straordinaria campagna fotografica sugli edifici e le strade del nostro centro storico commissionata a Paolo Monti e parzialmente esposta nella grande mostra del 1975 “Vitalità del centro storico” a Casa Romei. Quel censimento fotografico, documento di grandissima importanza per la conoscenza della città storica, per la cui acquisizione Paolo si battè per decenni, tuttora è pervenuto purtroppo solo in parte alla fototeca del comune.

Attualizzare le problematiche ancora aperte per la conservazione attiva del nostro centro storico richiederebbe ben altro tempo a disposizione.

Mi limito a ricordare i recenti interventi dell’Associazione contro una politica di efficientamento energetico incapace di fare distinzioni tra il tessuto edilizio storico e quello contemporaneo, con conseguenze negative potenzialmente devastanti facilmente immaginabili e già riscontrabili passeggiando in città.

Preoccupa poi, e sarà per noi motivo di impegno, la quasi totale assenza di indicazioni sul futuro della politica di conservazione attiva del centro storico, e dell’edilizia storica in particolare, nelle linee guida del nuovo Piano Urbanistico Generale, rese note di recente.

Torniamo a Paolo. Nella politica attiva di recupero delle nostre compagini storiche un ruolo particolarmente importante è rappresentato dalla presenza delle strutture universitarie. L’università di Ferrara, storicamente diffusa nella città, procedette all’inizio degli anni 70 all’acquisto di una serie importante di edifici monumentali, allora privi di funzione, e si poneva il problema del loro corretto recupero. A quel dibattito partecipò attivamente la sezione di Italia Nostra con un corso residenziale diretto da Paolo Ravenna nel dicembre 1973, dal titolo “Università e Centro Storico”.
Nel corso si parlò di importanti esperienze in atto in Italia e all’estero. Da quel corso, la pubblicazione dei cui atti fu curata da Paolo nel 1975, emersero preziose indicazioni sulle corrette modalità di utilizzo del patrimonio acquisito, sugli errori da evitare, sulla necessità di integrazione delle strutture universitarie (sia didattiche che amministrative che residenziali) con le altre strutture culturali, amministrative, residenziali presenti nella città, in tutte le sue parti.

Gli aspetti positivi della presenza diffusa delle strutture universitarie nel centro storico della città hanno avuto una brusca cesura col terremoto del 2012 che ha lasciato una ferita lacerante nella chiusura del rettorato e degli altri importanti edifici collocati lungo la via Savonarola, cuore della città universitaria.
Difficilmente comprensibile è la scelta dell’università di affrontare il recupero di quelle strutture, tra loro molto diverse, con un unico progetto ed un unico appalto, apparentemente senza idee chiare sull’obbiettivo da raggiungere col recupero di quel comparto e senza coinvolgere la città in un confronto su necessità, funzioni, aspettative. Non a caso i lavori di quell’appalto, di dimensioni enormi, ancora non sono partiti.

Forse, anche in questo, avremmo dovuto seguire l’esempio di Paolo: anziché tentare a più riprese con l’Università un dialogo rimasto sempre privo di risposte avremmo dovuto farci promotori di iniziative per portare stimoli, idee e proposte sulle scelte da attuare per il bene della città, che non avrebbe potuto permettersi il coma troppo prolungato di una strada centrale importante e carica di qualità.

Un altro aspetto importante di Ferrara rielaborato (se non riscoperto) e portato all’attenzione internazionale da Paolo è la presenza di luoghi legati al mondo e alla cultura ebraica. Paolo aveva ben chiara l’importanza della presenza ebraica per la storia del nostro paese e della nostra città in particolare. Il suo impegno costante per la conoscenza e la diffusione della cultura ebraica come membro della Comunità Ebraica della città, ma con impostazione culturale rigorosamente laica, ha dato frutti straordinari:

Paolo si adoperò per il reperimento di fondi, in buona parte pubblici, per il restauro della sinagoga di via Mazzini, con opere eseguite in più riprese dal 1988 al 2000 che portarono tra l’altro all’allestimento del primo nucleo museale. La sinagoga è innanzitutto edificio per il culto, ma è divenuto anche museo di sé stessa e della cultura ebraica nella città. Per l’elaborazione del progetto museologico, presentato nel 1996, fu chiamata Alessandra Mottola Molfino, che svolse il suo incarico in piena sintonia e collaborazione con Paolo, nominato coordinatore del progetto. Per spiegare cosa Paolo intendesse per Museo Ebraico uso le sue parole, pronunciate nel maggio del ‘96 in un convegno a Bologna su “Musei Ebraici in Europa, orientamenti e prospettive”:

“Anche il termine “museo”, come sappiamo, non è forse il più appropriato, è certo il più semplice e immediato per identificare una istituzione come quella che, per esempio, Ferrara intendeva e intende proporre in una dimensione originale e dinamica. Non troveremo, infatti, in questo museo da noi pensato, una ripetitiva raccolta, pur necessaria, di oggetti rituali, documenti, ecc. fatalmente destinata a trasformarsi in freddo deposito. Ma … il museo intende proporsi come testimonianza diretta e soprattutto autentica della vita che si è svolta per secoli negli stessi luoghi e negli stessi ambienti in cui si è sviluppata, recuperandone con rigore e autenticità i significati storici e restituendo al visitatore le emozioni che una vicenda così complessa e travagliata ha lasciato impresse nelle pietre. Di qui la volontà di collegare quel passato con l’attualità per proiettarla, con opportune iniziative, verso il futuro. Il museo, insomma, deve preservare i valori di cui ancor oggi siamo gelosi custodi e aprirà all’esterno un mondo sconosciuto ai più ma per nulla misterioso o segreto. Al contrario illustrerà una cultura “diversa” che ha sempre dialogato e intende sempre più dialogare con la società esterna di cui fa parte, in reciprocità di rispetto e di intenti. Un contributo fondamentale nella lotta contro tutti i pregiudizi e la intolleranza più che mai necessario in un mondo avviato ai problemi della multietnicità.”

Paolo si dedicò con puntiglio, per anni, alla ricerca della genesi e dello sviluppo dell’edificio della sinagoga, fino ad arrivare, a fine vita (la pubblicazione è postuma) a dare forma compiuta a quegli studi ed intuizioni con il volume “La sinagoga dei Sabbioni – Il tempio di rito italiano di Ferrara da ser Mele ai Finzi Contini”.

Di Paolo fu dunque l’idea del museo diffuso della cultura ebraica, attraverso la conoscenza e valorizzazione dei numerosi luoghi significativi dell’ebraismo nella città:

– anzitutto il cimitero ebraico di via delle Vigne, descritto nel bellissimo libro “L’orto degli Ebrei” del 1998. L’orto degli ebrei è un luogo magico, divenuto meta imprescindibile per chi visita e vuole conoscere Ferrara. Anche nel reperimento dei fondi pubblici per il restauro e la valorizzazione paesaggistica del cimitero Paolo ebbe un ruolo determinante. I lavori furono eseguiti tra il 2003 e il 2007 e diedero nuova dignità a quel luogo meraviglioso che era rimasto troppo a lungo privo di opere di manutenzione.
Purtroppo oggi ancora la mancanza di manutenzione ha vanificato parte di quei lavori: il muro di cinta è di nuovo coperto da vegetazione infestante ed è scomparso il percorso paesaggistico che dalla tomba di Bassani riportava al viale principale, nel verde, evitando il percorso a ritroso.
Va ricordato che fu Paolo a proporre, dopo attente riflessioni paesaggistiche e prospettiche, il luogo di sepoltura di Giorgio Bassani posto in fondo al percorso principale di visita del cimitero (non il cippo, per il quale Paolo aveva idee e proposte totalmente diverse da ciò che fu poi deciso e scelto dai familiari e realizzato).

– solo la passione, l’intelligenza e la cultura di Paolo potevano poi fare in modo che la colonna che regge il monumento di Borso d’Este accanto al volto del Cavallo nella piazza principale della città potesse diventare uno dei luoghi simbolo delle travagliate vicende della presenza ebraica. Capì l’importanza di una busta di fotografie ritrovata nell’archivio della comunità, diede a quelle immagini un luogo e una storia, ricostruì lo sciagurato intervento eseguito negli anni ‘60, che rischiò di cancellare per sempre la possibilità di conoscere la presenza delle lapidi, provenienti da sepolture ebraiche, che costituivano il fusto della colonna e ricostruì l’intera vicenda di quel monumento per restituirla alla città con nuovi significati, anche in questo caso con un libro-documento prezioso.


– nel giorno della memoria sempre rigorose ed efficaci le idee di Paolo, che raccomandava “poche cose ma significative”. Ricordo ad esempio che a lui è dovuta la lapide che in stazione ricorda il passaggio, drammatico, del treno merci che trasportava gli ebrei di Roma verso i campi di sterminio. Un biglietto lanciato da quel treno salvò molte vite nella comunità ebraica di Ferrara


– infine la conoscenza e la cura del ghetto, cuore pulsante del museo diffuso della cultura ebraica: Paolo aveva proposto di porre un segno forte e visibile al posto delle cinque porte del ghetto, e aveva chiesto ad un artista di sua fiducia di pensarlo: Arno Hammacher. Quel progetto non fu realizzato, uno dei pochi sogni di Paolo non realizzati (Paolo produceva idee, poi coinvolgeva artisti o specialisti che stimava per studiarne la realizzazione, oltre ad Hammacher mi vengono in mente Paolo Monti, grande fotografo già citato, Francesco Corni, poi Dani Karavan, col quale aveva sognato di realizzare un’opera a scala urbana in onore di Giorgio Bassani, a Ferrara, nella sua città. Altro grande sogno finora, purtroppo, non realizzato.)

Tutto quanto ho ricordato dell’impegno di Paolo per la conoscenza della cultura ebraica ha contribuito in modo non secondario alla scelta di Ferrara come sede del Museo Nazionale della Cultura Ebraica e della Shoah istituito, è bene ricordarlo, grazie ad una iniziativa legislativa congiunta di Dario Franceschini e di Vittorio Sgarbi.

La Cassa di Risparmio prima e la Fondazione Cassa di Risparmio poi sono state per decenni uno dei principali motori di finanziamento delle attività culturali della città. Paolo fu nominato socio a vita della Cassa nel 1956. Credeva nelle funzioni statutarie della Cassa a servizio della Comunità locale.
Fu protagonista e parte attiva fin dal 1961 nell’acquisto da parte della Cassa di 47 quadri della Collezione Massari Ricasoli. Poi, negli anni successivi, decisivo il suo intervento per altri importanti depositi e acquisizioni, fino al lungo iter di acquisto (1988-1994) della Collezione Sacrati Strozzi. Il fine ultimo era sempre quello di garantire la fruizione pubblica delle opere, cosa avvenuta con il deposito permanente di buona parte del patrimonio della Cassa presso la Pinacoteca Nazionale di Palazzo dei Diamanti. Decisivo anche il suo apporto nella definizione di lasciti e nella creazione di fondazioni finalizzate alla conservazione e accrescimento del patrimonio artistico della città, sempre destinato alla fruizione pubblica.

Paolo credeva nella funzione essenziale dell’associazionismo culturale, del quale è sempre stato componente attiva. A lui si deve l’ingresso per statuto di rappresentanti dell’associazionismo culturale della città nell’organismo di indirizzo della Fondazione Cassa di Risparmio e la presenza, in seguito, anche nel Consiglio di Amministrazione, di cui egli stesso fu componente per quasi un decennio. Decisiva la sua presenza nell’orientamento delle scelte di finanziamento di iniziative culturali tra le quali una in particolare non è possibile non ricordare: l’enorme mole di materiale di ricerca archivistica raccolta dal maestro Adriano Franceschini rischiava di rimanere in buona parte sconosciuta, anche per il carattere schivo e defilato del grande ricercatore. Fu Paolo a convincere Franceschini ad organizzare la quantità immensa dei suoi appunti per essere pubblicati a cura e spese della Fondazione. Da questo paziente lavoro di stimolo e convincimento nacquero così due opere fondamentali per la conoscenza della storia di Ferrara come “Artisti a Ferrara in età umanistica e rinascimentale: testimonianze archivistiche” e “Presenza ebraica a Ferrara. Testimonianze archivistiche fino al 1492”, opere oggi imprescindibili per ogni ricercatore che si occupi di quel periodo.

Infine Casa Minerbi, della cui conoscenza e valorizzazione Paolo si è sempre occupato: se Casa Minerbi è oggi interamente di proprietà pubblica il merito è dell’attenzione costante di Paolo per tutto ciò che riguardava il patrimonio culturale della città. Fu di stimolo all’amministrazione comunale nel 1995 per l’acquisto di buona parte dell’edificio (assessore alla cultura Dario Franceschini). Ma soprattutto riuscì in extremis, ormai prossimi alla scadenza dei termini, a convincere chi avrebbe dovuto e potuto farlo ad esercitare il diritto di prelazione dello stato sulla parte restante dell’edificio ormai destinata ad essere ceduta sul mercato a privati.

Ecco: per tutto questo credo si possa affermare che Paolo Ravenna è il personaggio che nel corso del Novecento, soprattutto del secondo Novecento, ha più influito sulle trasformazioni positive dell’assetto fisico e culturale di questa città. Paolo ha operato a Ferrara e per Ferrara. Ma la sua visione andava sempre al di là della realtà locale. Le sue relazioni, i suoi contatti, quelli che riuscivano a rendere realizzabili le sue intuizioni, erano costantemente a livello nazionale e spesso internazionale. Solo lui avrebbe potuto portare la mostra sulle Mura in tutto il mondo e far conoscere al Paese e al mondo l’importanza per tutti del recupero delle nostre Mura. Le imprese di Paolo sono state realizzate a Ferrara, ma non hanno carattere locale. Indicano sempre questioni di metodo valide per tutti e ovunque. Esattamente, non a caso, come le opere di Bassani: sono ambientate a Ferrara ma parlano al mondo.

Qui si ferma la rapida carrellata di indicazioni e riflessioni di un amico, che ha avuto la fortuna di affiancare Paolo, per circa un trentennio, nella passione comune per l’impegno civile. Ma il pensiero e l’opera di Paolo Ravenna, per il bene di tutti, meritano di essere approfonditi e conosciuti scientificamente, perché sono già storia. Paolo ben conosceva il valore dei documenti e il suo archivio sarà fonte adeguata e ricca per chi vorrà ricostruire in modo organico e scientifico il contributo di una figura non secondaria della cultura del Novecento Italiano.

Relazione conclusiva dell’incontro “Paolo Ravenna e il suo tempo”  in occasione del decennale della sua scomparsa.
Biblioteca Ariostea – 15 novembre 2022

Nota di redazione:
E’ con particolare piacere che pubblico su Periscopio questo ricco intervento dell’amico Andrea Malacarne sulla figura di Paolo Ravenna, sulla sua straordinaria capacità di intuire e proporre il nuovo e di difendere il bello, sulle tante battaglie civili di cui è stato ispiratore e protagonista. La sua grande lezione è ancora viva in tanti di noi, ma come Andrea Malacarne ci ricorda (in blu nel testo), siamo oggi in presenza di scelte dell’amministrazione pubblica cittadina che rischiano di portare indietro Ferrara invece di aprirla al futuro. (Francesco Monini)

In copertina: Ferrara, lo Slargo Paolo Ravenna lungo Corso Ercole I d’Este (foto Marco Ravenna, 2018)