Skip to main content

Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Gian Pietro Testa, il giornalista dalla schiena dritta

In ricordo di Gian Pietro Testa, straordinario amico e maestro di giornalismo,
pubblico qui la prefazione a quel che purtroppo resterà il suo ultimo libro, L odio. Ai compagni anarchici uccisi sulla strada della libertà, Ferrara, edizioni La Carmelina, maggio 2022.
Mi chiese di scriverla ed è stato per me oltre che un onore anche l’opportunità di tratteggiare – soprattutto a beneficio dei più giovani – la sua poliedrica figura di giornalista e scrittore, a coronamento di un’amicizia (la nostra) lunga 45 anni. È stato per me un grande privilegio essergli amico.
Resterai sempre nei nostri cuori caro carissimo Gpt.
Per Gian Pietro il giornalismo era uno strumento finalizzato alla ricerca della verità, accompagnato dal dovere di combattere l’ingiustizia. Per questo si è sempre trovato a praticare strade in salita e molto spesso nella condizione di dover sminare il terreno per fare chiarezza fra i fatti e gli ostacoli frapposti dai potenti al fine di occultare le soperchierie e alimentare i propri interessi. Nella sua lunga e brillante carriera non ha mai derogato da questa regola ferrea.
Sempre caparbiamente dalla parte del torto: sempre attento ai deboli e agli sfruttati, sempre pronto a denunciare gli abusi, le soperchierie, i vezzi e i vizi dei potenti. Gian Pietro Testa ha fatto della sua professione uno strumento di giustizia, dando voce a chi voce non ha, stando sempre al riparo dalle lusinghe e dalle tentazioni del Potere, senza farsi irretire mai dagli uomini che il potere esercitano a proprio vantaggio e non a tutela dei diritti che a ciascuno vanno garantiti.
L’ho conosciuto quand’ero ragazzino e lui già un affermato cronista del Giorno, il più interessante e innovativo quotidiano degli anni Settanta.
Non l’ho più perso di vista e posso perciò testimoniare la sua coerenza, che gli è valsa molte meritate lodi e riconoscimenti, ma che pure gli è costata, per converso, ostracismo, esclusioni e prese di distanza che negli anni hanno prodotto in lui un giustificato sedimento di amarezza.
Per dirla con una celebre battuta del film Fortapasc (che descrive la vicenda di Giancarlo Siani, il “cronista-ragazzino” ammazzato dalla Camorra), Gpt – come lo appellano gli amici – è stato certamente un ‘giornalista-giornalista’, uno – cioè – che fa le domande e non si inchina, che non fa sconti a nessuno. Neppure a quelli ‘della propria parte’, i protagonisti della vita pubblica e gli eventuali esponenti di correnti di pensiero a lui affini. Il suo metro di misura è uno solo e vale per tutti. Le ragioni per cui, nel tempo, Gian Pietro Testa è stato spesso marginalizzato hanno questo presupposto: è – ed è stato sempre – un professionista per nulla comodo, non addomesticabile, uno con la schiena dritta.
Tante le pubblicazioni che hanno accompagnato e arricchito il quotidiano svolgimento del suo lavoro di cronista: il libro-inchiesta su  La strage di Peteano, pubblicato per Einaudi (e trasposto pure in versione cinematografica), ha determinato la riapertura delle indagini e la riconsiderazione dei fatti e dei colpevoli.
Vanno poi menzionati, in riferimento agli anni Settanta, gli scritti sulla strage di Piazza Fontana (fu lui il primo giornalista ad entrare nella banca dopo l’esplosione) e quelli relativi all’infame attentato alla stazione di Bologna. E vanno ricordate le vicende del terrorismo e le infiltrazioni dei servizi segreti sui due contrapposti fronti del brigatismo nero e rosso che hanno caratterizzato il suo lavoro di indagine e ricostruzione dei fatti e la denuncia di infiltrazioni e responsabilità occulte.
In parallelo ha sfornato saggi, romanzi, poesie, tutti percorsi da eleganza espressiva, solida struttura, e un garbo stilistico spesso arricchito da gustose e ironiche note. E tutti, al fondo, nutriti da quella passione civile che sempre lo ha sorretto.
Nel percorso giornalistico, che è fil rouge della sua vita (specificare ‘professionale’ sarebbe riduttivo, perché cronista Gian Pietro lo è nel sangue), dopo l’esperienza a il Giorno, maturata a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, è poi passato a l’Unità e in seguito a Paese Sera, per poi farsi promotore, a metà degli anni Ottanta, del solido e coraggioso settimanale Avvenimenti.
A Napoli ha fondato e diretto Senzaprezzo, uno dei primissimi quotidiani a diffusione gratuita  vincendo, grazie allo stile e all’accuratezza del lavoro suo e della redazione, lo scetticismo di chi riteneva che un giornale gratuito non potesse fare informazione seria, puntuale e senza condizionamenti.
Ma è stato pure direttore dell’emittente bolognese Ntv, nonché fondatore e docente della scuola di giornalismo di Bologna e poi capo ufficio stampa del Comune di Ferrara.
“Antologia di una strage” è invece la raccolta poetica riferita all’eccidio causato dalla bomba collocata alla stazione di Bologna, che rievoca in forma lirica la vita delle 84 vittime, a ciascuna delle quali è dedicata una poesia. E quelle poesie sono ora raccolte tra le fronde degli alberi del Parco delle Rimembranze di San Lazzaro di Savena, un comune contiguo a Bologna.
Il tratto umano e professionale di Gian Pietro Testa marca, come risulta evidente, una profonda coerente pervicace volontà di far di sè stesso strumento di conoscenza, capace di propiziare la consapevolezza dei fatti e imporre ai potenti quella trasparenza che a molti di loro risulta spesso indigesta. E la sua penna mostra a tutti proprio ciò che tanti faticano a vedere: il re nudo, nella sua cruda verità, senza alibi e senza inganni.
In copertina:  Gian Pietro Testa ai tempi della direzione del quotidiano napoletano ‘Senzaprezzo’

Diario in pubblico /
Alè. Alè

 

Passata è la tempesta. Odo augelli far festa? So che a pensare male spesso ci si prende e allora… Possibile che dopo l’incendio del Castello all’improvviso venga tolta la luce per ben quattro volte di seguito? E il giorno di Capodanno. C’entra l’Enel? C’entra qualcosa che a noi poveri mortali ovvero cittadini sfugge?

So solo che, saltando la luce ripetutamente, vanno in tilt il telefono fisso e i due cordless e la tv. E, orrore degli orrori, il boiler dell’acqua calda. E per fortuna ho amici gentili che mi hanno aiutato e che mi hanno permesso, dopo corse affannose sui rari taxi che stazionavano in piazza, a gestire in modo positivo il tutto.

Ma se fosse stata una ‘normale défaillance’ del servizio pubblico, avvertire costava tanto?

Non a caso ‘Frara’ sta diventando la città dei misteri e talvolta dell’horror.

Le assurdità non finiscono qui. Leggo con stupore che i due protagonisti ormai vecchi di un brutto film Giulietta e Romeo del sopravvalutato regista Franco Zeffirelli si sono rivolti agli avvocati per ottenere un risarcimento milionario dalla casa di produzione del film essendo all’epoca minorenni.

Ah! Ah! Ah! Figuriamoci quale trauma avrebbe provocato la vista sfuggente di un sedere o di una tetta anche se allora l’ipocrisia era una delle forme – peggio di oggi – dell’espressione artistica. Zeffirelli non ha mai raggiunto la grandezza poetica espressa nei nudi di Pasolini o Visconti che esprimevano arte. Nel primo era questione di business come del resto era la richiesta fatta ai due minorenni.

Come scrive il saggio Michele Serra su La Repubblica del 5 gennaio 2023 : «La nudità non è una malattia, non è un affronto: come è possibile che due anziani signori, si suppone di buona cultura, siano ancora offesi perché per esigenze cinematografiche, nonché per contratto, hanno dovuto levarsi gli slip negli anni in cui Mary Quant tagliava le gonne e l’intero Occidente cominciava a svestirsi?»

E oggi quando scrivo si celebra il giorno della Befana da sempre sognata con la calza appesa portatrice di doni e di carboni. Altro che Halloween e ‘dolcetto o scherzetto’! Era una figura mitologica alla stessa stregua delle figure del mito. Ora spazzatura consumistica con la sua scopa, il nasone e il camino, che difficilmente si trova nelle case.

Conduco letture lente e non esaltanti tuttavia oggi il nipote porta allo zio, un tempo dantista, il primo volume della Divina commedia (Hachette editore) spiegata e illustrata per i bambini. Delizioso. Continuerò a comprarlo nelle altre edizioni.

Resta da recarsi a tavola. E allora via ai ‘caplit’ in brodo, al lesso e ai dolci. Buon appetito! Anche alla Befana.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi clicca  [Qui]

Addio carissimo gpt

E’ morto Gian Pietro Testa (per tanti amici e colleghi, semplicemente gpt), un amico carissimo, una persona straordinaria, un compagno non addomesticabile. Giornalista di vaglia, cronista e inviato al Giorno e a L’Unità, autore di tanti volumi. E’ stato il maestro di tutti i giornalisti ferraresi, sempre disponibile a consigliare i colleghi implumi e a collaborare alle piccole iniziative giornalistiche locali: Luci della città, Supplemento di indagine e tante altre testate indipendenti.
Per ferraraitalia / periscopio è stato qualcosa di più: un assiduo collaboratore, ma prima di tutto un padre affettuoso, una guida, un attento consigliere.
Lo ricorderemo sul giornale con le testimonianze di chi gli era più vicino.

Addio Gpt 😍, te ne sei andato pochi mesi dopo la tua amata Elettra, proprio come Federico e Giulietta degli spiriti non potevate vivere lontani.

 

Cover: Foto realizzata da Giorgia Mazzotti nello studio di Gian Pietro Testa a Ferrara

Per certi versi/
La ballata dei dinosauri erbivori

La ballata dei dinosauri erbivori

I dinosauri d’erba
Dalle ossa fragili
La mitezza più grande delle nuvole
Sulla spina dorsale del cielo
le querce a china del tramonto
La vera dissoluzione della luce
Era da tempo
Che non si estinguevano
Certi sentimenti
Accade in questi audaci strappi
Alla memoria dei grandi libri
I libri veramente scritti per sempre
Hanno una sete enorme di essere letti
Di nutrire le ossa fragili
Dei dinosauri d’erba
I sentimenti inespressi
Cadono nel garbage time
Di partire di basket finite
Prima della sirena
Non vorrei mai essere
Implicato nella corazza
Di questa vita anaffettiva
Liquida osteoporosi
Per catene ossee di parole
Straniate da ernie semantiche
I dinosauri erbivori
Hanno le ossa fragili
Mancano le cure
Per questi pachidermi
Della rarità
Dei sentimenti congelati
Insieme ai mammuth
Stanno facendo la storia dei batteri
Introvabili
I dinosauri erbivori
Sono fuori dal cielo
Non hanno più residenze terrene
Stanno nascosti
Tra le pieghe
Di una signora tribolazione

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’OlioPer leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

Presto di mattina /
Non ho più filo

Il Sarto di Gloucester

«Mia cara Freda,
siccome vai matta per le fiabe e sei stata ammalata, ho scritto una storia tutta per te, nuova nuova, che nessuno ha ancora letto. E la cosa più buffa è che l’ho sentita raccontare nel Gloucestershire, e che è assolutamente vera, almeno per quel che riguarda il sarto, il panciotto e il “Non ho più filo!”».

Questa la dedica a Il sarto di Gloucester che era pure, tra le altre, la storia preferita da Helen Beatrix Potter (Londra, 1866 – Near Sawrey, 1943): scrittrice, illustratrice, naturalista britannica e famosa in Inghilterra per la sua attenzione all’ambiente non meno che per i suoi libri illustrati per bambini e i suoi acquarelli.

Come indicato nella dedica la vicenda si basa su una storia realmente accaduta a un sarto che, lasciato il lavoro incompiuto, lo trovò finito il giorno successivo, completato dai suoi aiutanti nella sartoria. Mancava solo da completare un’asola perché … non c’era più filo.

Nella fiaba, ambientata la settimana prima di Natale, «al tempo delle spade, delle parrucche e delle mantelline a balze dai bordi ricamati, quando i gentiluomini portavano gale ai polsi e panciotti di seta e taffettà gallonati d’oro», un vecchio sarto molto povero e malaticcio, che aveva come amico un gatto sempre affamato di nome Simpkin doveva confezionare una giacca e un panciotto per il sindaco di Gloucester intenzionato a sposarsi proprio a Natale.

Gli rimanevano solo tre giorni e se riusciva in tempo nell’impresa la sua sorte e quella del suo Simpkin sarebbero cambiate in meglio. Scesa l’oscurità e con essa la luce che entrava dalla finestra si affrettò a chiudere la bottega, lasciando sul tavolo i pezzi di stoffa, di seta e di raso già tutti tagliati, modellati e pronti solo da cucire, insieme alle 21 asole da finire del panciotto con la fodera in taffettà giallo. Mancava solo una matassina di filo color ciliegia per finire il tutto.

Tornando a casa si sentì salire la febbre; ma prima di mettersi a letto diede al suo gatto gli ultimi quattro soldi che gli restavano per comprare un soldo di pane, uno di latte, uno di salsicce senza dimenticare con l’ultimo di comprare il filo color ciliegia.

Nel mettersi poi a letto udì degli strani rumori provenire dalle tazzine capovolte sulla credenza e sulla tavola – Tip tap, tip tap, tip tap tip!si accorse così dei topolini imprigionati dal suo gatto per il pranzo di Natale; decise così di liberarli nonostante pensasse che avrebbe fatto un torto al suo amico.

Non sapeva ancora che quei simpatici topini, che nelle favole ascoltano e parlano come gli uomini, per gratitudine dei ritagli di stoffa «buoni solo per topi» che aveva lasciato in bottega e per l’insperata libertà sarebbero diventati i suoi aiutanti nella sartoria. E avrebbero finito per lui il lavoro.

Non ho più filo, non ho più speranza

«Giacque ammalato per tutto il giorno, e il giorno seguente, e l’altro ancora. Delirava e le sue parole ripetevano: “non ho più filo”. Che ne sarebbe stato della giacca color ciliegia? Nel negozio del sarto in Westgate Street i pezzi di seta ricamata e di satin giacevano sulla tavola – ventun asole! – e chi li avrebbe cuciti, se la finestra era sbarrata e la porta ben chiusa a chiave?

Ma questo non era un impedimento per i topolini bruni: correvano dentro e fuori da tutte le case di Gloucester senza bisogno di chiavi!… Rimase a letto ammalato per tre giorni e tre notti, ed ecco era la vigilia di Natale, e notte fonda. La luna era alta sopra i tetti e i camini e sbirciava oltre l’arco in College Court».

Quando Simpkin rientrò capì subito che qualcosa non andava. Le tazzine erano mute e quando il sarto domandò dove fosse il suo filo, lui tra sé e sé disse: “e dov’è il mio topo?”, così nascose il filo in una teiera e uscì in cerca del suo pranzo natalizio.

Tutto era buio fitto, ma «dal negozio del sarto in Westgate veniva un fascio di luce, e quando Simpkin si arrampicò fino alla finestra per guardar dentro, vide una quantità di candele accese. Era tutto un tagliar di forbici e un fruscio di fili.

Le voci dei topi cantavano forte, allegramente: “Tre topolini sedevano al fuso,/ Ma sotto la porta spuntò un brutto muso:/ Che state facendo, miei bravi signori?/ Cuciamo giacchette di dentro e di fuori. Posso aiutarvi a tagliar quei bei drappi?/ Oh, no, Signor Gatto, se entri ci pappi!» «Miao, miao!» faceva Simpkin. «Diddi rididdi?» lo motteggiavano i topi».

Non riuscì ad entrare, ma dalla finestra appena sollevata sentì, nel ticchettare dei ditali, i topi ripetere un ritornello: «Non ho più filo! Non ho più filo!». Si allontanò allora dalla bottega meditando sulla generosità di quei topi che stavano aiutando il suo amico, povero e affamato come lui, e per giunta ammalato.

Rientrato nella povera stanza trovò il vecchio sarto sfebbrato che dormiva; allora andò a prendere il prezioso dono nascosto nella teiera, guardò alla luce della luna quei fili di seta color ciliegia e pensò che lui, per il suo amico, non poteva proprio essere da meno di quei topi generosi e gioiosamente laboriosi. Così al mattino, appena sveglio, la prima cosa che vide il sarto fu proprio la matassa del filo mancante, accanto al letto.

Fili intrecciati: epifania della gioia

« – Povero me, mi sento uno straccio! – esclamò il sarto di Gloucester.  – Però ho il mio filo -. Il sole splendeva sulla neve quando il sarto si levò e si vestì, e poi uscì in strada con Simpkin che gli correva davanti. – Ahimè -, esclamò il sarto, – ho il mio filo, ma non ho più la forza né il tempo per fare una sola asola; perché ormai è la mattina di Natale e il Sindaco di Gloucester si sposerà a mezzogiorno e dov’è la sua giacca color ciliegia? –.

Aprì la porta del suo negozio e Simpkin s’infilò dentro di corsa, come fanno i gatti quando hanno in mente qualcosa. Ma non c’era un solo topo bruno! I ripiani erano tutti perfettamente in ordine, senza più avanzi di filo e scampoli di seta, neppure sul pavimento.

Ma sulla tavola, – che gioia! – esclamò il sarto, lì dove aveva lasciato dei semplici ritagli di seta, giacevano la più splendida giacca e il più meraviglioso panciotto di satin ricamato che mai fossero stati indossati da un Sindaco di Gloucester.

Sul davanti della giacca c’erano rose e viole e il panciotto aveva ricami di papaveri e fiordalisi. Tutto era rifinito, tranne una sola asola color ciliegia, e dove quest’asola mancava era appuntato un pezzetto di carta con queste parole, tracciate in una scrittura minutissima e sottilissima: “non ho più filo”, qui cominciò la fortuna del Sarto di Gloucester: ritornò in buona salute e divenne ricco».

Epifania: vincolo di fraternità

Tre fili, intrecciati
Tre colori abbracciati
Tre magi incamminati

Tre fili intrecciati,
una coda di cometa

Tre colori abbracciati,
un sentiero per la vita

Tre magi incamminati,
una mèta per il tempo

Una cometa come guida
un viaggio nell’amore
un tesoro da cercare

Il filo giallo è l’oro,
una promessa di pace
che ci viene dal passato

Il filo amaranto è la mirra,
la fatica del vivere e del morire
ed è l’ora presente

Il verde è l’incenso
un profumo che sale,
verso il futuro del Vivente.

Tre fili un solo dono
Tre colori una sola vita
Tre Magi una sola via

Una luce illumina
Una parola consola
Un nome che dà gioia

Il figlio di Maria nato a Betlemme
Il figlio di Dio morto sulla croce
Il figlio amato fratello universale

Nessuno può salvarsi da solo

“Non ci si salva da soli”. Queste le parole che continua ancora oggi a ripetere papa Francesco, a partire da quella sera piovosa quando pregò sul mondo per affidarci a Dio, nella solitudine di una surreale piazza san Pietro deserta, silenziosa, senza un filo di speranza se non quella proveniente dal crocifisso lì accanto di San Marcello, che i romani portarono in processione nel 1552 contro la Grande peste.

“Una speranza contro ogni speranza” (Rm 4, 16) invocata da un papa ricurvo, solo, che salendo i gradini della piazza pregava dicendo: «“Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (come in Mc 4,38: i discepoli e la tempesta sul lago). Era il 27 marzo 2020, venerdì santo: l’inizio di una tempesta, e preludio delle ulteriori tempeste che seguirono, la guerra in Ucraina e le molte altre sparse nel mondo, e che indussero il papa a ripetere quelle stesse parole.

Così in questo mese, mese della pace, di nuovo il messaggio di Francesco ha come tema: «Nessuno può salvarsi da solo. Ripartire dal Covid-19 per tracciare insieme sentieri di pace». Senza un cammino di fraternità, la tessitura dell’umanità rischia di restare senza filo: “non ho più filo”, non c’è più pace.

Così si legge nel messaggio: «Dopo tre anni, è ora di prendere un tempo per interrogarci, imparare, crescere e lasciarci trasformare, come singoli e come comunità; un tempo privilegiato per prepararsi al “giorno del Signore”. Ho già avuto modo di ripetere più volte che dai momenti di crisi non si esce mai uguali: se ne esce o migliori o peggiori.

Oggi siamo chiamati a chiederci: che cosa abbiamo imparato da questa situazione di pandemia? Quali nuovi cammini dovremo intraprendere per abbandonare le catene delle nostre vecchie abitudini, per essere meglio preparati, per osare la novità? Quali segni di vita e di speranza possiamo cogliere per andare avanti e cercare di rendere migliore il nostro mondo?

Di certo, avendo toccato con mano la fragilità che contraddistingue la realtà umana e la nostra esistenza personale, possiamo dire che la più grande lezione che il Covid-19 ci lascia in eredità è la consapevolezza che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che il nostro tesoro più grande, seppure anche più fragile, è la fratellanza umana, fondata sulla comune figliolanza divina, e che nessuno può salvarsi da solo».

Così la via che porta da una vita minacciata ad una vita benedetta passa attraverso un “noi” aperto alla fraternità.

«… Di certo, non è questa l’era post-Covid che speravamo o ci aspettavamo. Infatti, questa guerra, insieme a tutti gli altri conflitti sparsi per il globo, rappresenta una sconfitta per l’umanità intera e non solo per le parti direttamente coinvolte.

Mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non si sono trovate soluzioni adeguate. Certamente il virus della guerra è più difficile da sconfiggere di quelli che colpiscono l’organismo umano, perché esso non proviene dall’esterno, ma dall’interno del cuore umano, corrotto dal peccato (È quello che esce dall’uomo che contamina l’uomo; perché è dal di dentro, dal cuore degli uomini, che escono le guerre, cf Mc 7,17-23).

Cosa, dunque, ci è chiesto di fare? Anzitutto, di lasciarci cambiare il cuore dall’emergenza che abbiamo vissuto, di permettere cioè che, attraverso questo momento storico, Dio trasformi i nostri criteri abituali di interpretazione del mondo e della realtà.

Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un “noi” aperto alla fraternità universale.

Non possiamo perseguire solo la protezione di noi stessi, ma è l’ora di impegnarci tutti per la guarigione della nostra società e del nostro pianeta, creando le basi per un mondo più giusto e pacifico, seriamente impegnato alla ricerca di un bene che sia davvero comune».

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

 

Resistere non serve a niente

“Ciò a cui opponi resistenza persiste. Ciò che accetti può essere cambiato”.

Carl Gustav Jung

Ogni sito, ogni giornale, ogni social network riporta la notizia della scomparsa di Gianluca Vialli. Non c’è solo la nuda cronaca, ma anche, spesso, la citazione di alcune sue frasi sul “senso della vita” percepito dopo la malattia. Quasi sempre, chi le riporta tende a rappresentarle come una “lezione”, togliendo loro ogni senso, tranne quello retorico – dove la retorica appartiene a chi riporta la frase, non a chi l’ha pronunciata. Perchè quando si parla di “lezione” si sottolinea la distanza tra il malato e il sano: il malato dà lezioni di vita al sano, come se l’eroismo della “partita più difficile” trasformasse la persona malata in un maestro di vita, e i sani, tutti persi dietro alle loro fatuità, in discenti che devono abbeverarsi al verbo di chi ha finalmente capito – grazie al cancro – quali sono i valori che contano.

Credo che Vialli non avesse nessuna intenzione di assurgere a maestro di vita. Intuisco una verità più sottile nelle sue frasi. Quando affermava che con i figli, più che le parole, conta l’esempio, diceva una cosa semplice, ma non banale. Conosciamo tante persone – noi stessi, in primo luogo – che predicano valori e comportamenti che raramente praticano. Meglio parlare poco ed essere onesti, anche nelle proprie fragilità.

L’altra affermazione interessante (la più utile, per quanto mi riguarda) riguarda il suo atteggiamento nei confronti della malattia. Vialli diceva che non stava combattendo, perchè se avesse condotto una battaglia ne sarebbe uscito distrutto. Aveva un ospite indesiderato – chi non ce l’ha? anche se il suo era particolarmente stronzo – poteva solo augurarsi che un giorno si sarebbe stancato e lo avrebbe lasciato in pace.

Resistere, combattere: espressioni prese dal linguaggio bellico, così abusate nel gergo sportivo (Vialli è spesso stato descritto come un guerriero) e in quello politico-sociale, che nel mondo emotivo hanno tutt’altra valenza. Resistere non serve a niente, accettare può cambiare il gioco. Magari non l’esito finale della partita, ma lo svolgimento. Invece di un calvario, può diventare un viaggio emozionante.

Immaginario /
La montagna che ti cambia

Sono nata in un paese di mare. Si dice che chi ci è nato non ne può fare a meno. Credo sia vero, almeno per me. Ogni volta che torno a Gaeta, faccio lunghe sedute di sole e sabbia, e occhi che abbracciano l’orizzonte, anche in pieno inverno. La vacanze natalizie sono ormai finite, c’è chi le ha passate al mare, chi (molti di più forse) in montagna, chi semplicemente a casa con la famiglia. Io da qualche anno sto scoprendo la montagna, in primavera, estate, autunno e anche inverno.

La montagna è per me scoperta e immensità. L’immensità del mare tende ad andare oltre, ti porta al di là del confine, di tutti i confini, quelli mentali e quelli fisici. Sei lì che contempli l’orizzonte e ti vedi in un altro posto.
L’idea del viaggio legata al mare è quella più popolare.
L’immensità della montagna è ferma, come raccolta, e abbraccia il cielo con le sue vette che lo sfiorano e le nuvole che sembrano celare il cammino. Le nuvole, ti abbracciano quando ci passi in mezzo, bagnano i capelli e poi ti ritrovi d’un tratto il sole in faccia. Allora, non ti immagini oltre, sei semplicemente là, in quel momento. Aspetti che accada qualcosa. In quel movimento.
Non sei tu che vuoi andare, tu rimani fermo e tutto si muove attorno a te. Cambiano le nuvole, il sole, il freddo e il caldo, il terreno sotto i tuoi piedi, il cielo sopra.

Credo ci si prepari a un altro tipo di viaggio. Noi nati in paesi di mare siamo così abituati a cercare, remare, andare oltre, che la montagna ci fa all’inizio un po’ paura. Non siamo abituati ad essere trovati, scoperti, essere guardati mentre tutto attorno cambia e ci cambia.

Forse sarà troppo metaforica, ma è così che la vedo… la montagna.

Cover:  Duna di neve,  ©Ambra Simeone

Intervista Negin Bank: “lo slogan 𝐉𝐢𝐧 𝐉𝐢𝐲𝐚𝐧 𝐀𝐳𝐚𝐝𝐢 (Donna Vita Libertà) ha intrapreso un cammino rivoluzionario”

Intervista di

“Penso che questa rivoluzione diventerà parte della vita quotidiana delle persone in Iran. Ci saranno proteste ogni giorno, un po’ come in Palestina. Se l’occidente interrompe le sue relazioni diplomatiche con il regime, alla fine le forze repressive, vedranno la loro fine e le elité potranno fare le valigie e lasciare il paese- tanto, hanno tutti le loro seconde case in occidente.

Questa rivoluzione non sta semplicemente cercando di rovesciare il regime ma sembra voglia rivoluzionare tutti i modelli all’interno della struttura del potere e  lo distribuisce invece all’interno di tanti gruppi che funzionano come comitati-assemblee… e sta funzionando…e funzionerà anche dopo. Abbiamo già visto questo modello nel Rojava e non stupisce il fatto che il motto che oggi attraversa le strade “Donne Vita Libertà” sia nato proprio dalle donne curde”.

A parlare è una donna iraniana da tanti anni in Italia, Negin Bank:

“La rivoluzione iraniana non vincerà fin quando l’occidente riconosce la legittimità internazionale di questo regime e dialoga con questi stupratori. Noi [ attiviste/i Iraniana in Italia] sosteniamo che l’interruzione dei rapporti diplomatici mette il regime in isolamento così come il regime stesso ha messo l’intera popolazione iraniana in isolamento in questi 43 anni.

Abbiamo bisogno dell’aiuto della società civile italiana e occidentale che trasformi la nostra richiesta dell’interruzione dei rapporti diplomatici e commerciali con il regime iraniano, in una rivendicazione di massa.

Questi criminali acquisiscono legittimità grazie ai rapporti diplomatici con paesi come l’Italia.  Non si sentono soli.  Hanno come partner i paesi più potenti del mondo che gli tengono in vita e gli danno la forza per reprimere. Senza questo cordone ombelicale, le forze repressive del regime crollano sia economicamente che psicologicamente. Il giorno dopo faranno le valigie e si trasferiscono dove hanno già predisposto le loro seconde vite.

Ma l’Italia e l’UE non tagliano i rapporti con l’Iran. Non solo per una questione d’interessi di medio-breve termine, ma soprattutto perché ormai una rivoluzione non fa comodo a nessuno. Le rivoluzioni non devono esistere più. In particolare una che abbia come slogan Donna, Vita, Libertà e che sia riuscita ad entrare nel cuore di tutto il mondo in giro di pochi giorni. Più giorni passano, più mi convinco che non stiamo solo lottando contro il regime iraniano. Noi in realtà stiamo lottando contro tutti i poteri del mondo”.

A Roma il 3 gennaio le donne iraniane e le donne afghane hanno unito le loro forze sotto lo striscione: “Donna Vita Libertà”. La casa internazionale delle donne di Roma ha rilasciato il giorno successivo un comunicato congiunto delle donne di Afghanistan e dell’Iran.

Lo slogan 𝐉𝐢𝐧 𝐉𝐢𝐲𝐚𝐧 𝐀𝐳𝐚𝐝𝐢 è uno slogan delle nostre sorelle combattenti curde. Durante le proteste contro l’uccisione di Masha Amini in Iran, tre mesi fa, già dai primi giorni del suo utilizzo, lo slogan ha intrapreso un cammino rivoluzionario.
Ha attraversato tutte le città iraniane, e in poche settimane, è arrivato in molteplici paesi del mondo compreso l’Afghanistan, dove le nostre coraggiose sorelle, lo hanno gridato davanti all’ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran a Kabul. Le donne in Afghanistan stanno lottando a mani nude nelle strade delle città da oltre un anno contro i Talebani armati.

 La Rivoluzione “Donna Vita Libertà” ci è entrata rapidamente nei cuori, perché noi ci identifichiamo l’unə con l’altrə e perché il nostro dolore è comune.

[…] Ci teniamo a sottolineare che Donna Vita Libertà è una rivoluzione che non si limita al rovesciamento del regime iraniano e del regime Talebano, ma va oltre ai confini dei nostri paesi. È una rivoluzione che punta a sradicare tutte le forme di discriminazione compresa quella di genere, di classe, di etnia o razza ovunque nel mondo.

Per vincere l’unica scelta che abbiamo è quella di unirci e chiedere alle nostre sorelle italiane di condividere i privilegi ottenuti nel corso della loro storia con noi, in modo da poter far sentire le nostre rivendicazioni in tutta l’Italia.

Teniamoci per mano in questa lotta contro la discriminazione e gridiamo insieme ad alta voce: 𝐃𝐨𝐧𝐧𝐚 𝐕𝐢𝐭𝐚 𝐋𝐢𝐛𝐞𝐫𝐭𝐚̀!”

Cover: Protesta delle donne iraniane “Donna, Vita, Libertà”, Roma 3 gennaio 2023 piazza Belli (Foto di Fiorella Carollo)

TERZO TEMPO
Quei freddi e piovosi mercoledì sera di Stoke-on-Trent

Quei freddi e piovosi mercoledì sera di Stoke-on-Trent

Durante il prepartita di Manchester City-Everton del 20 dicembre 2010, il giornalista di Sky Sports Richard Keys chiese all’ex attaccante scozzese Andy Gray un giudizio su un’ipotetica carriera di Messi in Premier League. La risposta di Gray fu talmente originale che ci mise ben poco a diventare quello che, dalle nostre parti, definiremmo un tormentone.

“It’s all well and good walking the ball into the net against your Getafes and your Almerías, but could he do it on a wet Wednesday night in Stoke?”

In quegli anni lo Stoke City di Tony Pulis esprimeva un gioco piuttosto ruvido, incentrato perlopiù sulla fisicità e sulle qualità aeree dei suoi giocatori, al punto che Alex Ferguson definì i Potters “la squadra dei Jolly Green Giants” in riferimento all’enorme mascotte di un’azienda alimentare americana [Qui]. Aggiungete a tale caratteristica le impervie condizioni atmosferiche del Britannia Stadium – pioggia e vento sono ospiti più o meno fissi in inverno – e capirete perché la trasferta di Stoke-on-Trent divenne tutt’altro che agevole per le squadre di Premier League. Stando a quanto dichiarato dall’ex portiere dei Potters Thomas Sorensen, l’Arsenal di Wenger soffriva particolarmente quelle avversità.

“They were so well known for their fantastic play under Wenger. But standing there on a Tuesday night, in the tunnel, just looking out: wind and rain sideways. We looked at them and we had already won. You could just look in their faces. They didn’t fancy it whatsoever.”

Sembrava quindi che la provocazione di Andy Gray, per quanto azzardata, potesse basarsi su qualcosa di concreto. Così, in seguito all’improvvisa popolarità di tale affermazione, il giornalista della BBC Jonathan Jurejko si è chiesto se giocare al Britannia Stadium di martedì o mercoledì fosse davvero così difficile per gli avversari dello Stoke City. Dati alla mano, la risposta è stata perlopiù negativa: il suo articolo [Qui] dimostra infatti che, a partire dalla stagione 2008/2009, ben otto squadre hanno fatto meglio dei Potters nei turni infrasettimanali disputati sul proprio campo.

Insomma, la domanda “but could he do it on a wet Wednesday night in Stoke?” è entrata a far parte del frasario del calcio d’oltremanica non tanto per la sua veridicità, quanto per l’ilarità con cui è stata accolta dall’eterogeneo pubblico della Premier League. Sì, perché in questi tredici anni la popolarità di quella provocazione è andata ben oltre i confini inglesi, come dimostra questa recente intervista a Thomas Müller.[Qui]

Storie in pellicola /
Una settimana con Marylin

Colin Clark (Eddie Redmayne), Sir Laurence Olivier (Kenneth Branagh) e la moglie Vivien Leigh (Julia Ormond). E poi Lei, Marylin (Michelle Williams), la Diva di sempre.

Siamo nell’estate del 1956, sul set de Il principe e la ballerina, in terra inglese, un film nel film: Marylin, una pellicola del 2011, diretta da Simon Curtis, ispirata dal libro di Clark, La mia settimana con Marilyn. Una vera rivalutazione della figura della Monroe come attrice, pur nella sua fragilità. Un biopic interessante che racconta le tensioni sul set fra Sir Laurence Olivier, regista tradizionalista e interprete maschile oltre che impareggiabile gigante del teatro e l’attrice, devota al metodo recitativo dell’insegnante Paula Strasberg e perennemente in ritardo per la sua dipendenza da alcol e droga.

Una finestra su un momento particolare della vita di Marylin, in una tenerissima amicizia (anzi di più, un vero innamoramento) fra lei e il ventitreenne Clark (assistente di terza categoria e neolaureato a Oxford), dalla cui memorie viene fuori uno sguardo al lato più reale della Diva.

Mostrando che la Monroe era come tutti si aspettavano – spaventata, insicura, frenetica e impossibile da gestire e spesso da comprendere -, Clark svelava anche una donna vulnerabile, fragile, luminosa, dolce e affettuosa ma anche tenace e desiderosa di essere amata, facendola ritornare a essere un essere umano prima che un simbolo irraggiungibile. Una favola malinconica.

Marylin si trovava anche in un momento molto critico della sua vita privata: appena sposata con Arthur Miller (Dougray Scott), orgogliosa di essere la compagna di un grande intellettuale, pensava che quello sarebbe stato l’uomo che l’avrebbe affiancata per sempre. Ma per lui non sarebbe stato possibile, quella donna “lo divorava” e se ne sarebbe tornato inaspettatamente in America. Quasi una fuga.

Marilyn Monroe e Arthur Miller in 1957 in Amagansett, New York (Photo by Sam Shaw/© Shaw Family Archives/Getty Images)

Colin, su quel set pieno di tensioni, sarebbe stato un appoggio, l’unica persona a non rappresentare una minaccia e capace di aprirle, grazie alle sue origini e alle sue conoscenze altolocate, le porte del Castello di Windsor o dell’Eton College durante una settimana di innocente e tenera intimità.

Per la parte della Monroe, Curtis ha preso in considerazione solo un’attrice: Michelle Williams, dopo averla ammirata in I segreti di Brokeback Mountain (2005) e in Blue Valentine (2010), due film che hanno portato l’attrice a sfiorare il premio Oscar.

Per questa interpretazione, alla Williams (candidata all’Oscar nel 2012) è andato il Golden Globe 2012 come miglior attrice protagonista.

Oggi Marylin avrebbe 96 anni. Invece è immortale. Il tempo passa ma lei resta.

Marylin, di Simon Curtis, con Michelle Williams, Eddie Redmayne, Julia Ormond, Kenneth Branagh, Pip Torrens, GB-USA, 2011, 99 mn.

Durissima dichiarazione congiunta delle ONG di soccorso civile:
“Il nuovo Decreto legge Italiano contraddice il diritto marittimo internazionale, il diritto europeo, i diritti umani e causerà altre morti.”

La dichiarazione congiunta delle Organizzazioni di Soccorso Civili

Noi, organizzazioni civili impegnate in attività di ricerca e soccorso (SAR) nel Mediterraneo centrale, esprimiamo la nostra più viva preoccupazione per l’ultimo tentativo di un governo europeo di ostacolare l’assistenza alle persone in difficoltà in mare.

Il nuovo decreto legge, firmato dal Presidente italiano il 2 gennaio 2023, ridurrà le capacità di soccorso in mare e renderà ancora più pericoloso il Mediterraneo centrale, una delle rotte migratorie più letali al mondo. Il decreto è apparentemente rivolto alle ONG di soccorso civile, ma il vero prezzo sarà pagato dalle persone che fuggono attraverso il Mediterraneo centrale e si trovano in situazioni di pericolo.

Dal 2014, le navi di soccorso civili stanno riempiendo il vuoto che gli Stati europei hanno deliberatamente lasciato con l’interruzione delle proprie operazioni SAR. Le ONG hanno svolto un ruolo essenziale nel colmare questa lacuna e nell’evitare la perdita di altre vite in mare, rispettando sistematicamente le leggi in vigore. Ciononostante, gli Stati membri dell’UE – Italia in testa – hanno tentato per anni di ostacolare le attività di ricerca e soccorso civili attraverso la diffamazione, iniziative amministrative e la criminalizzazione di ONG e attivisti.

Nonostante il già vasto quadro giuridico completo per le attività SAR, ovvero la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) e la Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo (Convenzione SAR), il governo italiano ha introdotto un’altra serie di norme per le imbarcazioniporto picivili SAR, che ostacolano le operazioni di salvataggio e mettono ulteriormente a rischio le persone in pericolo in mare.

Tra le altre regole, il governo italiano richiede alle navi di soccorso civili di dirigersi immediatamente in Italia dopo ogni salvataggio. Questo provocherebbe ulteriori ritardi nelle operazioni di soccorso, considerato che le navi di solito effettuano più salvataggi nel corso di diversi giorni. L’ordine alle ONG di procedere immediatamente verso un porto, mentre altre persone sono in difficoltà in mare, contraddice l’obbligo del capitano di prestare assistenza immediata alle persone in difficoltà, come sancito dall’UNCLS. Questo elemento del decreto è aggravato dalla recente politica del governo italiano di assegnare più frequentemente “porti lontani”, che distano fino a quattro giorni di navigazione dall’ultima posizione delle navi. Entrambe le disposizioni sono progettate per tenere le navi SAR fuori dall’area di soccorso per periodi prolungati e ridurre la loro capacità di assistere le persone in difficoltà.

Le ONG sono già messe a dura prova dall’assenza di operazioni SAR gestite direttamente dagli Stati e la diminuzione della presenza di navi di soccorso si tradurrà inevitabilmente in un numero ancora più alto di naufragi. Un’altra questione sollevata dal decreto è l’obbligo di raccogliere a bordo delle navi di soccorso i dati dei sopravvissuti, che esprimono la loro intenzione di chiedere protezione internazionale, e di condividere queste informazioni con le autorità. È dovere degli Stati avviare questo processo e una nave privata non è il luogo adatto per farlo. Come recentemente chiarito dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), le richieste di asilo dovrebbero essere trattate solo sulla terraferma, dopo lo sbarco in un luogo sicuro e solo una volta soddisfatte le necessità immediate[1].

Nel complesso, il decreto legge italiano contraddice il diritto marittimo internazionale, i diritti umani e il diritto europeo, e dovrebbe quindi suscitare una forte reazione da parte della Commissione Europea, del Parlamento Europeo, degli Stati membri e delle istituzioni europee.

Noi, organizzazioni civili impegnate nelle operazioni SAR nel Mediterraneo centrale, esortiamo il governo italiano a ritirare immediatamente il decreto legge appena emanato. Chiediamo inoltre a tutti i membri del Parlamento italiano di opporsi al decreto, impedendone così la conversione in legge.

Non abbiamo bisogno di un altro quadro politico che ostacoli le attività di salvataggio SAR, ma che gli Stati membri dell’UE garantiscano che gli attori civili SAR possano operare, rispettando finalmente le leggi internazionali e marittime esistenti.

Organizzazioni SAR firmatarie:

EMERGENCY

Iuventa Crew

Mare Liberum

Médecins Sans Frontières (MSF)

MEDITERRANEA Saving Humans

MISSION LIFELINE

Open Arms

r42-sailtraining

ResQ – People Saving People

RESQSHIP

Salvamento Marítimo Humanitario

SARAH-SEENOTRETTUNG

Sea Punks

Sea-Eye

Sea-Watch

SOS Humanity

United4Rescue

Watch the Med – Alarm Phone

Organizzazioni cofirmatarie:

Borderline-Europe, Menschenrechte ohne Grenzen e.V.

Human Rights at Sea

[1] UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), “Considerazioni legali sui ruoli e le responsabilità degli Stati in relazione al salvataggio in mare, al non respingimento e all’accesso all’asilo”, 1 dicembre 2022 (il documento è disponibile in inglese e in spagnolo )

Cover:  Salvataggio in mare SOS Humanity (Foto Foto di Max Cavallari)

Parole a capo /
Marcello Buttazzo: “A te” e altre poesie

“Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere.”
(Ennio Flaiano)

A TE

A te
ho donato
le mie virtù di sogno
le ansie palpitanti
la carità di suono.
Timorosa
questa luna errante
nascosta dietro coltri che non so.
Trepidante il mio cuore rosso marezzato.
A te
ho donato
le mie incertezze
le stagioni inquiete
e questo sangue imprigionato.
Benigna
questa Natura
assetata di visioni
e d’ebbrezze.
Impaziente
questa vita
che non conosco.
Sulla mia terra
c’è ancora
il tuo nome.
Il cielo
nell’azzurro
infinitamente
l’ama.

(tratta dalla raccolta “E l’alba?”, Manni Editori, 2015)

 

Di notte,
quando l’anima rinsecchisce,
urlo, sbraito,
incalzo il ricordo.
La mia anima
è un paese straziato,
croci di pianto
trasporto
ogni notte.
Solo le mie mani
e la mia bocca
sui tuoi seni
placherebbero il dolore.
Solo l’eco
di sussurri marini
mi ridà
il tempo e lo spazio.
Potessi uscire all’aperto.
Potessi
toccare ora
l’angelo
capelli color castagna
e piantargli nel cuore
un’ipotenusa di sole.

(Versi tratti dalla raccolta “E ancora vieni dal mare”, Manni Editori, 2012)

 

Toglimi di dosso
quest’ansia sorda
perché io possa rivedere
la loquacità del cielo.
Aprimi lo spazio
delle venature dell’anima,
perché le scorribande d’amore
possano essere di porpora
come i papaveri di fine maggio.
Troppo tempo
mi sono affannato
silente
nei porti
della rimembranza.
Ma ora è tempo
del ciliegio,
è tempo
del tuo corpo d’incanto.
Troppo tempo
tramortito dal vento
non ho colto
il fiore.
Tu dammi
il colore della passione
e l’intreccio delle tue mani
strette alle mie,
ch’io possa contenere
tutta la leggerezza
del mondo.

(Versi tratti dalla raccolta “Fra le pieghe del rosso”, I Quaderni del Bardo Edizioni, 2022)

 

Terra rossa di sangue,
terra scorticata
dai venti di tramontane.
Terra
dei soli d’estate.
Questa è la tua terra,
madre fanciulla,
la terra
che vivesti, che amasti
e m’insegnasti
nei tuoi racconti quotidiani.
Questa è la tua terra,
madre,
che alligna ancora oggi
nelle pieghe delle tue mani,
nei solchi delle tue rughe.
Sempre rimembri
la storia
di chi ti fece amare
la fatica il sudore il decoro.
E le ginocchia sbucciate
fra i filari di tabacco.
Rimembri,
madre,
il contegno
di chi ti indicò
un cammino praticabile.
Madre,
la tua lieve parola
è pane che nutre,
giorno che nasce di continuo,
la mia patria
d’eterna appartenenza.

(Versi tratti dalla raccolta “Il cielo degli azzurri destini”, I Quaderni del Bardo, 2021)

Le poesie sono pubblicate su espressa autorizzazione dell’autore.

Marcello Buttazzo è nato a Lecce e vive a Lequile, nel cuore della Valle della Cupa salentina. Ha studiato Biologia con indirizzo popolazionistico all’Università “La Sapienza” di Roma. Ha pubblicato decine di opere, la maggior parte di poesia. Scrive periodicamente in prosa su Spagine (del Fondo Verri), nella rubrica Contemporanea, occupandosi di attualità. Tra le pubblicazioni in versi ricordiamo: “E l’alba?” (Manni Editori), “Origami di parole” (Pensa Editore), “Verranno rondini fanciulle” (I Quaderni del Bardo Edizioni). La sua ultima raccolta pubblicata, nel 2022, è “Fra le pieghe del rosso” (I Quaderni del Bardo Edizioni).
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

 

SOS MEDITERRANEE: “Il nuovo decreto legge non dovrebbe esistere, ci criminalizza nuovamente”.

«Siamo profondamente preoccupati anche dal semplice fatto che questo nuovo decreto esista, perché non fa altro che aggiungere norme inutili e discriminatorie alle attività di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale. Le navi civili che soccorrono vite umane in mare nel Mediterraneo sono ancora una volta oggetto di una campagna di criminalizzazione». Così Alessandro Porro, presidente di SOS MEDITERRANEE Italia all’indomani della promulgazione da parte del Presidente della Repubblica del nuovo decreto legge approvato dal governo in materia di ricerca e soccorso in mare.

È necessario sottolineare che tutte le azioni intraprese dalle navi civili impegnate nel salvataggio di vite umane in mare nel Mediterraneo centrale sono già regolate da un Corpus giuridico di norme internazionali, stabilito e stratificato da molti anni. Il decreto attualmente all’esame del Parlamento italiano non pone alcuna nuova norma a tutela di tali imbarcazioni, né offre alcun miglioramento del coordinamento delle attività di ricerca e soccorso, previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), dalla Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS) e dalla Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare (SAR). Inoltre è per sua natura discriminatorio, in quanto prende di mira specificamente le navi civili che operano nel Mediterraneo centrale.

«La sola esistenza di questo decreto nazionale rischia di complicare e indebolire il quadro giuridico marittimo nel suo complesso. Inoltre, siamo molto preoccupati per il nuovo arsenale di strumenti finanziari e amministrativi repressivi, che potrebbero portare a sanzioni e detenzioni di navi civili che si porrebbero al di fuori dello stesso inquadramento giuridico previsto dal diritto internazionale», afferma ancora Porro.

Ci auguriamo che gli Stati membri dell’Unione Europea e gli Stati associati tornino immediatamente a rispettare il diritto del mare e smettano di criminalizzare le navi civili che lo applicano, e proprio sulla rotta di migrazione marittima più letale al mondo. Solo nel 2022, almeno 1.400 persone sono morte in questo tratto di mare: donne, bambini e uomini. L’80% dei decessi registrati nell’intero Mediterraneo.
Dal 2016, SOS MEDITERRANEE ha salvato oltre 37mila persone che si trovavano in imminente pericolo di morte in mare. 37mila persone che avrebbero potuto morire se il nostro equipaggio non avesse rispettato la Legge del Mare.

Ufficio Stampa SOS MEDITERRANEE 

In copertina: SOS Mediterranée, salvataggio in mare (Foto di Tara Lambourne)

UNA MOSTRA NAVIGANTE A BORDO DELLA OCEAN VIKING
“La vita possibile” di Gianluca Costantini

Una mostra navigante a bordo della nave Ocean Viking, per raccontare le storie dei naufraghi salvati durante le missioni di soccorso di SOS Mediterranée e di tutti quegli uomini, donne e bambini che lasciano il proprio paese in cerca di una vita migliore.

Il fumettista Gianluca Costantini presso la nave Ocean Wiking per allestire la mostra navigante (foto Giampiero Corelli)

Storie di vite appena nate strappate alle onde, storie di violenze e soprusi ma anche di sogni e speranze, storie di viaggi per terra e per mare in cerca di un approdo sicuro.
Le racconta l’artista attivista Gianluca Costantini, attraverso 20 tavole di “disegno civile, affisse sul ponte della nave che solo nel 2022 ha soccorso 2.505 persone in 45 diverse operazioni in Mediterraneo centrale.

La mostra, intitolata “La vita possibile”, prende spunto dalla storia del piccolo Abdou, un neonato che i soccorritori della Ocean Viking hanno trovato a bordo di un gommone durante l’ultima missione, la notte fra il 26 e il 27 dicembre.

“Mi sembrava quasi fosse solo un fagotto di vestiti”, ha detto Tanguy, soccorritore, al termine dell’operazione di salvataggio, condotta nel buio più totale. Quello che sulle prime sembrava solo un mucchio di stracci era un bimbo di appena due settimane. Era immobile e silenzioso e Tanguy si è chiesto:“Ma respira? Non capisco”.

“Sì respira, va tutto bene”, gli ha risposto Justine, ostetrica di bordo, prendendolo fra le braccia.
Abdou (Il nome del bambino è stato cambiato per proteggerne l’identità) ha appena 18 giorni di vita e una settimana l’ha passata in mare. Il suo salvataggio è il simbolo del diritto di ogni essere umano a una vita possibile.

Una delle tavole della mostra di Gianluca Costantini allestita sulla Ocean Wiking

La mostra è stata allestita a bordo della nave ambulanza Ocean Viking dai soccorritori di SOS mediterranée, su indicazione del fumettista.
Le stampe sono state appese sul ponte, nella clinica di bordo e nello “shelter”, lo spazio protetto dove trovano riparo donne e bambini soccorsi.  La mostra accompagnerà l’equipaggio della Ocean Viking durante la prossima missione in Mediterraneo centrale, diventando così una vera e propria mostra navigante.

L’ultima missione della Ocean Viking

La Ocean Viking è salpata da Marsiglia lo scorso 18 dicembre. Dopo i necessari rifornimenti di viveri, medicine e carburante, la nave si è diretta fra venerdì 23 e sabato 24 dicembre verso sud, facendo ingresso nella regione di ricerca e soccorso maltese nel primo pomeriggio di lunedì 26 dicembre.

Fra le 3 e le 4 di notte 27 dicembre l’equipaggio della Ocean Viking è stata impegnata in un’operazione di soccorso di 113 persone, tra cui 23 donne e 3 neonati, il più piccolo dei quali aveva solo due settimane. I naufraghi accolti a bordo hanno dichiarato di provenire dalla Costa d’Avorio, dalla Nigeria e dal Camerun.

Il 27 dicembre, attorno alle 7, un’e-mail dell’ITMRCC ha informato il ponte della nave che alla Ocean Viking era stato assegnato il porto di La Spezia per lo sbarco dei naufraghi a bordo. Quattro ore più tardi, attorno alle 11, l’ITMRCC ha inviato una seconda e-mail per informare di una nuova assegnazione di PoS, Ravenna (a circa 900MN di distanza da dove si trovava la Ocean Viking in quel momento).

Il 31 dicembre
verso mezzogiorno, dopo quattro giorni di navigazione, la Ocean Viking  fa ingresso nel porto di Ravenna. Subito dopo l’attracco, l’avvio delle  procedure di sbarco dei 113 naufraghi – per una volta senza ostacoli politici o burocratici e senza il polverone delle polemiche – che si concludono poco dopo le tre del pomeriggio.

Porto di Ravenna 31.12.,2022, lo sbarco dei migranti dalla Ocean Viking (Foto di Michael Bunel, SOS Mediterranée)

Per ragioni di sicurezza la mostra non sarà aperta al pubblico, ma sarà fruibile virtualmente attraverso i canali social dell’artista e di SOS Mediterranée Italia.

Gianluca Costantini
Gianluca Costantini é un artista attivista che da anni combatte le sue battaglie attraverso il disegno; è stato accusato di terrorismo dal governo turco e di antisemitismo dalla destra radicale americana. Collabora attivamente con le organizzazioni SOS MEDITERRANEE Italia, ActionAid, Amnesty, ARCI, CPJ, Committee to Protect Journalist e con i principali festival sui diritti umani, tra cui l’HRW Film Festival di Londra e NewYork, il FIFDH di Ginevra e il Festival dei diritti umani di Milano.
Dal 2016 al 2019 ha accompagnato con i disegni le attività di DiEM25 Democracy in Europe Movement 2025, il movimento fondato da Yanis Varoufakis e collabora con l’artista Ai Weiwei. Nel 2019 ha ricevuto il premio “Arte e diritti umani” di Amnesty International.
Ha pubblicato per moltissime testate italiane e internazionali tra le quai: Internazionale, Corriere della Sera, Domani, Oggi, La Lettura, CNN, Drawing the Times, LeMan, ABC Australia, Mekong Review, Courrier International, Le Monde Diplomatique, World War 3 Illustrated.  Tra le sue ultime pubblicazioni, Patrick Zaki, una storia egiziana (Feltrinelli, 2022), Libia (Mondadori, 2019).

Per maggiori informazioni: https://www.channeldraw.org/

Appena insediato, Lula revoca più di dieci decreti firmati da Bolsonaro

Pressenza – Redação São Paulo
News from the Pressenza bureau in Sao Paulo, Brazil
(pubblicato il 03.01.23)


Luiz Inácio Lula da Silva ha revocato più di dieci decreti firmati durante il governo di Bolsonaro, in uno dei suoi primi atti dopo il giuramento come nuovo presidente brasiliano.

Lula ha stabilito che il Controllore Generale dell’Unione (CGU) dovrà rivalutare entro 30 giorni la segretezza imposta per 100 anni su documenti e informazioni della Pubblica Amministrazione, decisione presa dal precedente esecutivo.

Ha inoltre ristabilito il Fondo Amazzonico, ha decretato la lotta alla deforestazione e ha abrogato un provvedimento sulle miniere illegali. Ha inoltre sospeso il rilascio di nuovi permessi di porto d’armi e l’autorizzazione di nuovi club di tiro.

Il presidente ha firmato diverse misure provvisorie, una delle quali garantisce il pagamento di 600 reales (110 dollari) alle famiglie iscritte all’attuale programma Auxilio Brasil, ora ribattezzato Bolsa Familia; un’altra misura estende le esenzioni fiscali sul carburante e una terza ristruttura il governo aumentando il numero dei ministeri.

Inoltre, Lula ha ordinato ai suoi ministri di presentare proposte per eliminare dal progetto di privatizzazione aziende pubbliche come la compagnia petrolifera Petrobras e il servizio postale Correios.

Il presidente ha nominato i 37 ministri del nuovo governo, che si sono insediati immediatamente, con lo slogan “Unione e ricostruzione”.

Lula ha guidato una cerimonia in cui i 37 membri del suo gabinetto hanno giurato collettivamente. Questo lunedì sono entrati in carica nel primo giorno effettivo del nuovo governo.

L’uomo forte dell’economia è Fernando Haddad, Ministro delle Finanze, mentre alla guida del Ministero degli Affari Esteri troviamo Mauro Vieira, un diplomatico di carriera che è già stato Ministro degli Esteri tra il 2014 e il 2016 nell’amministrazione della Presidente Dilma Rousseff.

Il gabinetto di Lula comprende undici donne e leader politici di nove partiti di un ampio spettro, che va dalla sinistra alla destra più moderata.

Tra le donne, una delle maggiori novità è costituita da Sonia Guajajara, rappresentante dei popoli indigeni, che ha assunto il Ministero dei Popoli Indigeni, che finora non esisteva e che Lula si era impegnato a creare durante la campagna elettorale.

Dopo aver insediato i suoi nuovi ministri, Lula ha posato con tutto il suo gabinetto per la prima foto ufficiale del suo terzo governo, essendo già stato al potere per due mandati consecutivi, tra il 2003 e il 2010.

Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo

Cover: Luiz Inácio Lula da Silva appena insediato presidente del Brasile per la terza volta  (Foto di Prensa Latina)

Incubo stagflazione.
Destra e Sinistra senza una rotta.

 

Il Parlamento ha dunque approvato il testo della legge di bilancio 2023, la prima del nuovo governo di destra. Dal punto di vista delle scelte di politica economica, la cifra di quest’intervento sta sostanzialmente in una logica di continuità con l’impostazione del governo Draghi, con l’addendum di segnali – dall’innalzamento del contante a quello della flat tax a 85.000 € per le partite IVA – che servono a far capire che il blocco sociale di riferimento del governo è costituito dal lavoro autonomo e irregolare. Contestualmente, e non a caso, avanza una  “riscossa ideologica”  a danno dei soggetti deboli, nello specifico con quanto previsto sul reddito di cittadinanza- che peraltro prevede un risparmio modesto, di circa 730 milioni di € – ma anche nei confronti dei migranti, con il recentissimo decreto Piantedosi.  Infine, si tiene ferma la spesa per sanità e istruzione che, con un’inflazione che viaggia sopra il 10%, equivale a compiere un taglio reale decisamente significativo.

In ogni caso, ciò che più importa è che quest’impianto, oltre ad essere di natura congiunturale – a partire dalle ingenti risorse per tamponare l’incremento delle bollette energetiche, che però coprono solo l’arco temporale che va da qui alla primavera – non è assolutamente in grado di far fronte ai problemi che la prossima fase economica e sociale ci consegna. Il Presidente del Consiglio sostiene che questa manovra punta alla crescita economica: è una affermazione che rasenta il ridicolo. Proseguire con l’”agenda Draghi” in un quadro economico in peggioramento, causato dalla fine del rimbalzo post pandemia e dallo scoppio della guerra, non favorisce alcuna crescita. Il 2023 si presenta con un mix tra crescita dell’inflazione attorno al 10% e un andamento del PIL prossimo allo zero (dall’ottimistico +0,6% di previsione del governo al +0,3% stimato in questi giorni dall’OCSE, per non parlare del Fondo Monetario Internazionale che parla di un – 0,2%). E’ questo l’effetto, in primo luogo, della crisi energetica che si manifesta con un’inflazione da costi, non da eccesso della domanda, rispetto alla quale l’innalzamento dei tassi di interesse deciso dalle Banche Centrali, FED e BCE in testa, non fa altro che aggravare un quadro tendenzialmente recessivo. Le conseguenze si scaricano soprattutto sulle condizioni di vita di lavoratori e pensionati che, privi di adeguati strumenti di protezione, vedranno diminuire ulteriormente reddito e possibilità di lavoro. Né certamente gli stessi lavoratori potranno pensare di recuperare affidandosi solo ai rinnovi contrattuali, che arrivano in ritardo, coprono sempre meno la platea del mondo del lavoro, e sono costruiti con indici di riferimento che sottostimano proprio l’incremento dell’inflazione importata.

Basterebbero queste poche considerazioni per rivalutare meccanismi, ormai relegati al passato remoto, come la scala mobile, che quasi nessuno osa più nominare se non per scongiurare, attraverso l’evocazione del suo “spettro”, il rischio di una spirale aumento dei prezzi/rincorsa dei salari (come ha fatto il Governatore di Bankitalia). Un modo elegante per dire che i costi della crisi vanno sopportati dalla parte più debole della società, come affermano da decenni quelli che la lotta di classe la fanno sul serio e l’hanno vinta, cioè i ricchi (parafrasando il titolo di un saggio di Marco Revelli). Certo, in una situazione di alta inflazione e crescita zero (stagflazione), qualche problema l’avranno pure i percettori di profitti, che vedranno ridursi i loro margini; per loro fortuna, peraltro, un bel po’ di grasso l’hanno accumulato negli anni scorsi, come testimonia l’indagine che discende dal Global Dividend Index, che analizza l’andamento dei dividendi distribuiti dalle prime 1200 società del mondo quotate in Borsa. L’indagine preconizza che nel 2022 i dividendi ammonteranno a più di 1560 mld di dollari, con un incremento dell’8,3% sull’anno precedente, trainati, guarda un po’, dai forti profitti realizzati nei settori del gas e del petrolio. In Italia la situazione dei rentiers è un po’ meno positiva, per effetto di alcuni elementi congiunturali, per cui si è passati da circa 4 miliardi di dividendi distribuiti nel 2021 a un po’ meno di 3 previsti per il 2022.  Bisogna però essere matti per tradurre questo dato in un concetto redistributivo. Per individuare una reale tendenza redistributiva dalla rendita al lavoro, conviene aspettare la prossima vita.

Se volgiamo lo sguardo ai prossimi anni, peraltro, non è facile immaginare scenari più tranquilli. Tutt’altro. Qui l’elemento di maggiore novità – che assomiglia ad una restaurazione – proviene dall’Europa. All’inizio di novembre la Commissione Europea ha presentato le linee guida per la riscrittura del Patto di stabilità e crescita, che era stato sospeso nel 2020, nel pieno della vicenda pandemica. Si era arrivati a questa decisione sulla base della constatazione che i parametri di riferimento lì contenuti per le scelte di bilancio degli Stati membri (non superamento del deficit pubblico del 3% del PIL su base annua e riduzione del debito pubblico di 1/20 annuo del debito eccedente il rapporto debito/PIL fissato al 60%) erano troppo rigidi in una fase di crisi così acuta come quella determinata dalla pandemia. A questo si affiancava la scelta di dotarsi del Recovery Plan, che destinava somme ingenti, finanziate con debito europeo comune, per un forte rilancio degli investimenti. Tale doppio passo venne letto, quasi unanimemente, come una vera svolta per l’Europa, l’inaugurazione di un nuovo ciclo che finalmente fuoriuscisse dalla logica dell’ austerità e puntasse al rilancio di una reale prospettiva di unità europea su basi avanzate. In pochi diedero una lettura diversa: quella dell’insostenibilità delle politiche neoliberiste dentro la profondità della crisi, le quali tuttavia, senza la proposizione di un modello realmente alternativo, sarebbero state solo una parentesi necessaria, in attesa di tornare all’ancien regime appena la situazione fosse “migliorata”. Ebbene, le linee guida avanzate per il nuovo Patto di stabilità e crescita, che dovrebbe rientrare in funzione dal 2024, sembrano costituire una conferma palmare di questa seconda ipotesi. Esse non ripropongono più in modo rigido ed automatico i parametri su deficit e debito (che però rimangono come punti di riferimento), ma si basano su una negoziazione tra singoli Stati e Commissione Europea sulla base di Piani di durata quadriennale o maggiore, che assumono come centrale il rientro dal debito, prevedendo come “variabile di controllo” l’andamento – cioè il contenimento – della spesa pubblica primaria (quella al netto della spesa per interessi, di componenti una tantum e di una non meglio identificata “componente ciclica”). Ora, basta guardare a ciò che è successo negli ultimi anni, quelli caratterizzati dalla pandemia, per rendersi conto di come questa ricetta si tramuterà in un forte ridimensionamento della spesa sociale, quella per sanità, istruzione e previdenza. Non a caso i “segnali” della manovra di bilancio vanno già in questa direzione: infatti, nel triennio 2020-2022, la spesa primaria italiana è cresciuta dell’1,53% rispetto al PIL, la percentuale più alta in Europa, se si eccettua la Lituania, dove essa si è incrementata del 2%.

Caduta dei salari e riduzione della spesa sociale disegnano uno scenario per cui continueranno e si intensificheranno le politiche di austerità, intervenendo in modo massiccio sui lavoratori e sui ceti più deboli. Non è difficile ipotizzare che, in questo contesto, anche il galleggiamento della destra arrivi al capolinea. Anch’essa si troverà stretta tra l’incudine di scelte economico sociali ancora più impopolari e il martello della denuncia verso un’ Europa “matrigna” (con il paradosso, però, di condividere quell’impianto, che ha fatto dilagare le spinte nazionalistiche in tutto il vecchio continente). Invece occorrerà un progetto e una mobilitazione sociale costruite su contenuti radicalmente alternativi, a partire dal recupero di risorse dalla rendita e dei profitti, con una seria lotta all’evasione e una riforma fiscale basata su una reale progressività; basato sul ricorso ad un’adeguata imposizione patrimoniale, sul rilancio dell’intervento pubblico e dei Beni Comuni come volano per creare nuova occupazione e sviluppo, su una redistribuzione del reddito che favorisca i settori potenzialmente più colpiti dalla crisi. Coordinate di riferimento ben diverse da quelle di un’opposizione politica che, invece, alza i suoi toni in termini proporzionali alla mancanza di una visione alternativa. Visione che può nascere solo dal crescere e consolidarsi di un risveglio sociale e civile, del quale per ora si vedono alcuni presupposti ma che va costruito e rafforzato.

Parole e figure /
Il mondo in un barattolo

Quante volte avremmo voluto mettere in un barattolo le cose più belle? Chiuderle al sicuro, per tirarne fuori un pezzettino nei momenti difficili e duri?

La prima volta che ci ho pensato è stato quando ho ricevuto in regalo, da un amico russo, una bottiglietta di vetro con sopra scritto “felicità”. Me la regalava, con tutto il suo cuore, racchiusa in quel piccolo scrigno ben sigillato. Potevo tenerla chiusa lì, gelosamente, tutta per me ma potevo anche decidere di togliere il tappo e lasciarla volare via, magari regalandone un po’. Lì per lì ho dato poco peso a quel regalo simbolico ma poi ne ho capito il valore e il significato. Che pensiero e dono potente!

Luis sa che questo è possibile. Ama raccogliere cose semplici, foglie, piume, sassi a forma di cuore e fiori: li colleziona in barattoli di vetro e li conserva premurosamente. Tutto ciò che ha visto e vissuto spunta da quella sua colorata collezione.

Quando incontra Iris, in riva all’acqua, insieme scoprono che nei barattoli si possono conservare tante altre cose: il colore ciliegia del tramonto e la sua luce, il suono dell’oceano, il vento che soffia prima di una nevicata. A lei regala un bel barattolo che, a sua grande sorpresa, nella calda e comoda cameretta, s’illumina per tutta la notte con i colori del tramonto.

Da quel giorno Iris e Luis cercano insieme e collezionano cose difficili da stringere tra le mani, come gli arcobaleni o le meraviglie delle stagioni. Paiono invincibili e le pareti della casa di Luis si riempiono di mille barattoli.

Un giorno, però, la magia sembra destinata a finire: Iris deve trasferirsi in città, e bisogna separarsi, dirsi addio.

Come salvare un’amicizia così speciale? Senza Iris il cuore di Luis è come un barattolo vuoto che fa ombra su un pavimento grigio.

Passa il tempo e Luis finalmente ha un’idea: raccoglie un barattolo di stelle…. Pacchetto con sicura destinazione. Pacchetti che vanno e altri che vengono. Fino all’arrivo di Max…

Una storia che a tutte le età arriva dritta al cuore, con il suo messaggio sulla capacità di trovare nuovi modi di comunicare e di stare insieme. All’ombra di foglie dorate.

Un albo da regalare e regalarsi, perfetto per il tempo che stiamo vivendo.

Deborah Marcero, Un barattolo di stelle, Terre di Mezzo Editore, 2020, 40 p.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.

Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

“Qualcuno era comunista”
(un altro contributo in vista del noncongresso del PD)

Ieri 20 anni anni fa moriva Giorgio Gaberščik, per tutti Giorgio Gaber. Magrissimo, un naso lungo in una faccia lunga, una voce calda e bellissima (“Parlami d’amore Mariù”), una mimica inimitabile, la passione per il palcoscenico, il sogno realizzato di sposare il Teatro con la Canzone. Amato da molti, odiato o mal sopportato da molti di più: a destra ma anche a sinistra. Io non l’ho dimenticato, non avrei potuto neanche volendo, ce l’ho spesso in testa, sulle labbra, in punta della penna.

Ma prima di dar spazio, e sarà sempre troppo poco, all’immenso artista (immenso è l’aggettivo giusto) che fu Giorgio Gaber, voglio raccontare una cosa che mi è successa quando ieri ho letto che erano passati vent’anni dalla sua morte. Una cosa piccola, molto normale, che credo capiti più o meno a tutti quando, davanti a un certo fatto, una particolare notizia, ti entra nel cervello il nitido ricordo di una persona che non c’è più. Magari il nonno, la mamma, un vecchio amico. Ma anche un personaggio famoso. Un potente, un politico, un artista, uno scrittore, un arguto pensatore…

E allora scatta automaticamente un’associazione di idee, inizia un monologo interiore, sei entrato nel loop, e formuli mentalmente le tipiche domande impossibili:
Che direbbe oggi Berlinguer davanti allo scandalo Qatar?
E se Adriano Olivetti incontrasse Briatore?
E se tornasse Ennio Flaiano, che aforisma inventerebbe per fotografare il borghese italiano della terza decade del terzo millennio?
E via fantasticando.

D’accordo, è solo un tic mentale, una curiosità destinata a rimanere nubile. Ma il meccanismo è scattato, non puoi non pensarci, e dentro la tua testa sfilano tutti i personaggi,  e ci parli pure; immagini anche la scena, battute comprese.
Cosa direbbe, che canzoni  canterebbe oggi Giorgio Gaber?
Chi metterebbe alla berlina, che coscienze andrebbe a disturbare, chi farebbe arrabbiare?

Io ho concluso che un redivivo Signor G se ne starebbe in perfetto silenzio. Perché puoi anche essere il più bravo di tutti, il più intelligente, il più autocritico, acuto, sottile, sincero, icastico (e Gaber lo era), ma anche l’ironia, l’invettiva, la satira a volte devono arrendersi. Davanti alla politica ridotta come è ridotta oggi, davanti allo sfracello delle idee e dei valori, davanti alla nostra televisione e stampa votate alla ipocrisia, davanti a questo e a tanto altro, anche la satira, maestra di verità, perde tutte le parole. Zitta e muta.

E pensateci, non è quel che già da anni è successo in Italia? La morte della satira.
Eccezioni non ne vedo. La navicella superstite di Fratelli di Crozza? No, nemmeno quella. Perché Maurizio Crozza è  un bravissimo professionista. Mi fa anche ridere certe volte. Ma il suo è un intrattenimento comico, non è la satira. La satira è quella cosa che “graffia fuori e scava dentro di te”.

Torno all’inizio. Ecco tutti gli anelli della mia catena mentale:
Povero Gaber morto 20 anni fa –  mi viene in mente lo straordinario monologo Qualcuno era comunista ricordo le facce recenti  televisive di Letta , di Cuperlo, della Serracchiani  – penso: “Ma cosa direbbe oggi Gaber ai post-post-post-comunisti del Partito Democratico?” – mi torna in mente mia nonna che mi dice quel che aveva detto il moribondo Francesco Ferrucci a quel lazzarone di Maramaldo “Vile, tu uccidi un uomo morto!” – penso un’altra volta al Pd – ora vedo il cartello: “Non si spara sulla Croce Rossa” – parlo con Gaber, ma lui è una statua:  zitto, muto, sbalordito –  una scena da post bomba, è la casapartito del Pd: mitragliata, demolita, sgretolataGaber si fruga nelle tasche, tira fuori i suoi piccoli arnesi di lavoro: uno stetoscopio, un martellino, uno scalpello che sembra un cacciavite. E li butta per terra.

Che satira vuoi fare? Anche perché Giorgio Gaber è un Signore, non un Maramaldo. Che altro potrebbe cambiare, cosa può aggiungere  a quel monologo che ha interpretato centinaia di volte in tutti i teatri d’Italia più di trent’anni fa? Niente. Allora l’unica è mandare a Letta e compagnia Qualcuno era comunista tale e quale, senza cambiare una virgola.

Giorgio Gaber è stato dipinto in cento modi:  il cane sciolto , l’anticlericale, il maestro di una nuova morale, il qualunquista e il compagno, il dissacratore e il moralista, il comunista e l’anarcoindividualista… Tutto e il contrario di tutto, secondo l’amore e l’umore dei cultori o l’ odio vigliacco dei detrattori della sua arte e della sua intelligenza. Ma una cosa è sicura, Giorgio Gaber è stato per decenni il grillo parlante, la scomodissima spina nel fianco della “Vecchia piccola borghesia” (Claudio Lolli) ma anche e soprattutto della Sinistra italiana. Bisognerebbe ascoltarlo e riascoltarlo oggi,  sarebbe un esercizio salutare.

Per questo , dopo il contributo al  non-congresso del Pd del grande Paolo Nori (cercatelo qui su periscopio), è venuto il momento di Qualcuno era comunista, il messaggio accorato e rabbioso di Giorgio Gaber.

Anche se ho il dubbio che sia un po’ troppo tardi. Perché Gaber non c’è più, ma non c’è più nemmeno il Pd.

Guarda il video del monologo

Il testo integrale:

Qualcuno era comunista

Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia
Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papàLa mamma noQualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessaLa Cina come una poesia, il comunismo come il paradiso terrestreQualcuno era comunista perché si sentiva soloQualcuno era comunista perché aveva avuto un’educazione troppo cattolicaQualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigevaLa pittura lo esigeva, la letteratura anche: lo esigevano tuttiQualcuno era comunista perché glielo avevano dettoQualcuno era comunista perché non gli avevano detto tuttoQualcuno era comunista perché prima, prima, prima, era fascistaQualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano ma lontanoQualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava personaQualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava personaQualcuno era comunista perché era ricco ma amava il popoloQualcuno era comunista perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolariQualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro DioQualcuno era comunista perché era talmente affascinato dagli operaiChe voleva essere uno di loroQualcuno era comunista perché non ne poteva più di fare l’operaioQualcuno era comunista perché voleva l’aumento di stipendioQualcuno era comunista perché la rivoluzione? Oggi, noDomani forse ma dopodomani sicuramenteQualcuno era comunista perché:“La borghesia, il proletariato, la lotta di classe, cazzo”Qualcuno era comunista per fare rabbia a suo padreQualcuno era comunista perché guardava solo Rai3Qualcuno era comunista per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazioneQualcuno era comunista perché voleva statalizzare tuttoQualcuno era comunista perché non conosceva gli impiegati stataliParastatali e affiniQualcuno era comunista perché aveva scambiato il materialismo dialetticoPer il Vangelo secondo LeninQualcuno era comunista perché era convinto di avere dietro di sè la classe operaiaQualcuno era comunista perché era più comunista degli altriQualcuno era comunista perché c’era il Grande Partito ComunistaQualcuno era comunista malgrado ci fosse il Grande Partito ComunistaQualcuno era comunista perché non c’era niente di meglioQualcuno era comunista perché abbiamo avuto il peggiore partito socialista d’Europa

Qualcuno era comunista perché lo Stato, peggio che da noi, solo l’Uganda
Qualcuno era comunista perché non ne poteva più
Di quarant’anni di governi democristiani incapaci e mafiosiQualcuno era comunista perché Piazza Fontana, Brescia
La stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica, eccetera, eccetera, eccetera
Qualcuno era comunista perché chi era contro, era comunista
Qualcuno era comunista perché non sopportava piùQuella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia
Qualcuno, qualcuno credeva di essere comunista e forse era qualcos’altroQualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americanaQualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e feliceSolo se lo erano anche gli altri
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovoPerché sentiva la necessità di una morale diversaPerché forse era solo una forza, un volo, un sogno
Era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vitaQualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era comePiù di se stesso: era come due persone in unaDa una parte la personale fatica quotidiana
E dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il voloPer cambiare veramente la vitaNo, niente rimpiantiForse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volareCome dei gabbiani ipotetici
E ora?Anche ora ci si sente come in dueDa una parte l’uomo inseritoChe attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidianaE dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del voloPerché ormai il sogno si è rattrappitoDue miserie in un corpo solo.

 

Post Scriptum
Volevo mandare il monologo/intervento del Compagno Gaber al quotidiano L’Unità. Insomma, capite, per correttezza professionale…
Ho  un caro amico, Franco, che una volta lavorava in redazione. Molto più in gamba di me, sempre informatissimo. Gli telefono e gli spiego la cosa.
Ma mi interrompe subito – Ma sei fuori?  Il giornale è morto e stramorto. Chiuso dopo lunga e penosa agonia, nel 2017.
– Morto stecchito?- dico io
– Secco.
– Ipotesi di resurrezione?
– Nulla.
Rimango un po’ intontito, ma mi riprendo subito – In effetti è un po’ che non lo vedevo più in giro. Ma, dico io, come caspita fa il partito senza il suo giornale? Mi par di sognare, ma non l’aveva fondato…
– Vuoi che non lo sappia? Io ci lavoravo nel giornale fondato da Antonio Gramsci!
– Incredibile Franco, sai che mi viene in mente?
– Che ti viene in mente?.
– Ho pensato adesso una cosa, ho pensato a che direbbe oggi Antonio Gramsci se gli chiudessero il suo giornale?
– Non so, ci devo pensare un attimo…
– Pensi che Antonio si incazzerebbe?
– Penso che ci rimarrebbe male. Magari direbbe: “ma siete diventati scemi?”
– Cioè si incazzerebbe di brutto.
– Beh, non era nel suo carattere.
– Mi stai dicendo che non si incazzerebbe?
– Beh, un po’ si incazzerebbe.
Cover: Giorgio Gaber in scena al Teatro Comunale di Ferrara (foto Marco Caselli Nirmal)

Ucraina, Donbass, Serbia, Kosovo…
Si può andare oltre il nazionalismo? L’esperienza del Rojava

 

Ucraina e Kosovo, ma anche molte altre aree, hanno alla base del conflitto la compresenza di etnie diverse e religioni diverse: musulmani e cristiani, ucraini e russi, etc. Ci sono anche logiche di potere che derivano da antichi imperi o da ‘nazioni’ inventate, i cui confini (spesso artificiali) sono stati disegnati col righello 100 anni fa come in Medio Oriente dagli inglesi e francesi, come scrive Dilar Dirick, ricercatrice dell’università di Oxford, (si veda il suo intervento ad Amburgo alla Conferenza Challenging Capitalist Modernity II) e proprio per questo hanno creato conflitti.

Eppure ci sono speranze di trovare forme nuove e stabili di convivenza. Un esempio è proprio in Italia in Süd Tirol dove il conflitto tra tedeschi e italiani è stato risolto (con molti soldi) e che rimane un modello per molte aree.

Un altro è quello del Rojava (nord Siria) che dimostra come sia possibile una Confederazione che unisca diverse etnie (curdi, arabi, turkmeni, siriaci, circassi, ezidi, armeni) in un unico popolo, al di là della logica statuale e nazionalista, che trova purtroppo sostegno tra i ‘grandi’ (Stati Uniti e Russia… l’Europa non esiste) e che usa proprio il nazionalismo (della Turchia in questo caso, appoggiato dalle milizie islamiste) per distruggere queste nuove forme di convivialità senza potere centrale e piene di futuro.

Il Rojava è a 40 km. dal confine turco nel nord-est della Siria; ha vinto l’Isis nel 2014-16 tramite le Forze della Siria democratica (Sdf) e portato alla liberazione le singole identità nascoste sotto le lunghe vesti nere e i copricapi delle donne che hanno riscoperto l’importanza di non subire una logica di patriarcato (sotto etnie diverse ma che sempre le opprimono).

L’identità di ciascun popolo è infatti preziosa (come il Natale e il Presepe per noi italiani di cultura cristiana e al di là del fatto se si è credenti o meno) e va difesa non solo per difendere i nostri usi e costumi, ma anche le altrui identità. Rinunciare infatti alla propria identità, in nome di un falso rispetto delle altrui, significa, come la globalizzazione vorrebbe e in modo fintamente democratico, negare le identità anche altrui e omologare tutto in un’ottica consumistica e affaristica che è quello che vuole la globalizzazione.

In Rojava oggi il Sdf conta su 100mila combattenti (metà donne) con una predominanza di curde/i (60%) che convivono armonicamente con le altre etnie. Per il Medio Oriente è solo in parte una rivoluzione perché da secoli etnie diverse convivono. Questo modello sociale si basa sulla convivenza tra popoli.

L’idea è una federazione di autonomie, un confederalismo democratico, che prevede a tutti i livelli istituzionali la presenza del 50% delle donne.

Il modello, nato a Kobane e in Kurdistan, si è esteso a città arabe come Raqqa e Deir Ezzor e siriache e all’ezida Shengal in Iraq. Vorrebbero una Siria decentralizzata in cui ognuna goda di pari diritti.

Il teorico fu Abdullah Ocalan e il Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) che volevano far convivere le diverse etnie e religiosità superando il concetto di Stato-Nazione (tipico occidentale, oggi fatto proprio da Erdogan e Assad) per cui esiste una sola identità (la loro), ma che non appartiene alla cultura locale e che è una gabbia per il multiculturalismo medio-orientale.

Il processo di partecipazione avanza ma è continuamente minacciato dagli Stati (Turchia in particolare, membro Nato) e supportato dalle grandi potenze.
Questa sarebbe un’occasione vera per l’Europa (se l’Europa ci fosse…) per difendere i diritti di tutti i popoli (e delle donne in particolare) in un’ottica piena di futuro (e non di passato). Un mondo diverso è però possibile, solo se il potere dell’amore prevalesse sull’amore per il potere.

Diario in pubblico /
Pericolose nostalgie

 

Tra uno Zecchino d’oro e Ballando…, mi debbo confrontare, con le pericolose nostalgie di Ignazio e della sua accolita della prima ora. Terrificante. E mentre Ignazio, ora Gnazio, addirittura ripreso dal sottosegretario Vittorio Sgarbi e Isabella (Rauti) continuano il loro ‘percorzo’ post-fascista, trovo assolutamente poco incisiva la risposta della cosiddetta sinistra che reclama cosa? Le dimissioni della seconda carica dello Stato. Ma va là!

Che poi i guru della stampa delibino tortuose risposte alla situazione… beh questo è pericoloso, in quanto inducono i lettori a improbabili quanto inutili considerazioni, quali quelle di arrivare a una nuova Fiuggi e come sottolinea Michele Serra su La Repubblica del 29 dicembre, commentando la risposta di Fini che bisognava uscire dalla casa del padre per non farvi più ritorno:

«Lo ricorda Umberto Gentiloni nel suo desolato e illuminante editoriale su questo giornale. Fini, per avere osato la profondità nel regno della superficialità (regnava Berlusconi), venne massacrato dalla sua stessa parte politica […] Meriterebbe quasi trent’anni dopo una rilettura intelligente. La destra faccia una cosa di sinistra: pensi

 A ‘Frara’, scrupolosamente evitata per non incappare nelle folle transeunti in cerca di regali e di occasioni, tengono banco le lacrime, anzi poeticamente ‘lagrime’, che bagnano e invadono i banchi del Consiglio Comunale, mentre il vicesindaco tenta di arginare la piena. Folle di spettatori assistono al melo-dramma. Io invece non vedo l’ora che arrivi il giorno per poter assistere al Pipistrello di Strauss al teatro Abbado.

La città da lontano sembra in piena forma. Si sbandiera l’incendio del Castello che odio con tutte le forze. Si pensa alla ‘magnata’ di fine d’anno, che scrupolosamente osservo, rifornendomi dall’inarrivabile ristorantino dal nome di un giorno della settimana. Penso ancora che le feste oggi possano offrire solo suggerimenti, che a dir poco definire laici è un complimento.

E tiro su le spalle. E ringrazio ancora tutti gli operatori della radioterapia dell’ospedale di Cona.

E a tutti, anche se questo pezzullo sarà pubblicato dopo la fine dell’anno, auguro un felice o al più sopportabile 2023.

Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubrica Diario in pubblico clicca  [Qui]

Per certi versi/La ballata del tempo che non

La ballata del tempo che non

Venne il tempo
Che il tempo si nascose
Non c’era più
I treni non passavano mai
E sempre
Le Chiese tutte aperte
Tutte chiuse
I negozi
andarono nello spazio
Con le agenzie di viaggio fallite
Il denaro perso il suo consociato
Si sciolse
nell’azzurro del Klondike
Rimasero i gatti
E gli uomini
Che furono ammessi
nelle vite dei gatti
Finirono le parole scontate
Non c’erano più saldi
Rimase il silenzio
E la neve
Cosparse
Di musica
La terra

Ogni domenica periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’OlioPer leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca [Qui]

L’anno che finisce e quello che verrà

 

Buone notizie? Una: fra poche ore ci sbarazzeremo  di questo avaro e interminabile 2022.
Ma ormai è mezzanotte. La televisione è spenta. Riempiamo i bicchieri, guardiamo negli occhi chi ci è vicino, inviamo un pensiero a chi amiamo da lontano… Ma insomma, dobbiamo continuare a fare la finta,  sottoporci ancora al rito dell’illusione?  E’ sempre più complicato credere ai brindisi, agli auguri, all’Anno Nuovo che arriva per  portare al mondo un qualche dono. Eppure
Periscopio ci prova, ancora ci crede.
Pubblichiamo di seguito l’editoriale degli amici di
Volere la luna a firma dell’ex magistrato Livio Pepino; è un bilancio tanto amaro, quanto realistico, dei mali  di un mondo sempre più malato.  Basta alzare lo sguardo, ascoltare il pianto di un dolore diffuso: davvero la speranza non abita più qui? Introvabile nelle stanze della politica come nei banchi del supermercato neoliberista. Eppure, per quanto sembri impossibile, è ancora e solo compito nostro, solo le donne e gli uomini possono aprire nuovi sentieri, proporre (imporre) il regime della ragione,  dell’uguaglianza, della cooperazione.
Ci vorrà tempo, ma è  il tempo di assumerci questo impegno. 

Francesco Monini

di Livio Pepino
Tratto da Volere la luna del 30.12.2022

Sta per andarsene un anno orribile. Come pochi altri nella vita della mia generazione.

Una guerra mondiale (per numero di paesi direttamente o indirettamente coinvolti) sta mietendo decine di migliaia di vittime, distruggendo un intero paese e provocando una catastrofe ambientale.
È una guerra, per di più, destinata a proiettarsi in un futuro in cui sono in gioco non solo le sorti dell’Ucraina e (forse) della Russia ma gli equilibri geopolitici che caratterizzeranno il mondo nei prossimi decenni con cambiamenti epocali, a partire dal ruolo della Cina e di altri colossi emergenti. E non è una guerra isolata.

Ci colpisce in modo particolare perché è nel cuore di un’Europa che ha conosciuto decenni di pace (con la sola tragica eccezione della ex Jugoslavia) ma, nel mondo, i conflitti dimenticati o rimossi sono decine, in Kurdistan, in Palestina, nello Yemen, nel Myanmar per citare solo i più noti.

Ci stiamo abituando e la guerra diventa normale, parte del paesaggio planetario e delle rubriche fisse dei telegiornali. E, con l’abitudine, sono riemersi – incomprensibilmente solo con riferimento all’Ucraina – lo spettro del nazionalismo, la retorica della guerra giusta, il mito della “vittoria finale”. Ciò ha diviso, nel nostro Paese, quel che resta della sinistra. Così, compagni di sempre hanno letteralmente indossato l’elmetto e impugnato le armi proclamando che non c’è trattativa o compromesso possibile, anche se tutti sanno che la guerra finirà – dopo decine, o forse centinaia, di migliaia di morti evitabili – con un compromesso analogo a quello che si sarebbe potuto raggiungere nove mesi fa.

E non ci sono solo la guerra e, al suo fianco, la violazione dei diritti civili, diffusa più che mai anche in Europa (e nei Paesi con essa alleati). Ci sono, per continuare nel linguaggio bellico, una questione ambientale e una questione sociale esplosive.

La crisi climatica e ambientale è sotto gli occhi di tutti: basta aprire una finestra, scorrere il bollettino delle temperature, leggere i giornali (che descrivono, anche qui considerandoli eventi naturali e all’ordine del giorno, fenomeni atmosferici estremi che distruggono vaste aree di un mondo che si modifica sotto i nostri occhi distratti). A fronte di ciò, capi di governo e leader mondiali dichiarano, a parole, la propria consapevolezza e determinazione ma, in concreto, non ci sono interventi significativi, a meno di considerare tali le inutili proclamazioni conclusive di conferenze internazionali sempre più stanche e ripetitive, incapaci di rinunciare al mito della crescita infinita, delle risorse illimitate, dell’energia a ogni costo, delle grandi opere inutili, del dio mercato.

Non meno grave la (connessa) crisi sociale.
Ovunque, nel mondo, i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri diventano sempre più poveri. Il patrimonio netto dei 10 miliardari più ricchi si è più che raddoppiato (+119%), in termini reali, dall’inizio della pandemia, superando il valore aggregato di 1.500 miliardi di dollari, oltre 6 volte lo stock di ricchezza netta del 40% più povero, in termini patrimoniali, dei cittadini adulti di tutto il mondo (https://volerelaluna.it/materiali/2022/01/21/la-pandemia-della-disuguaglianza/).

È il trionfo della disuguaglianza. Ma non è solo un fatto quantitativo. «Tutto – come ha scritto papa Francescoentra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”». Il rischio è quello descritto con lucidità da Luigi Ferrajoli: «È del tutto inverosimile che otto miliardi di persone, 196 Stati sovrani dieci dei quali dotati di armamenti nucleari, un capitalismo vorace e predatorio e un sistema industriale ecologicamente insostenibile possano a lungo sopravvivere senza andare incontro alla devastazione del pianeta, fino alla sua inabitabilità» (Per una Costituzione della Terra, Feltrinelli, 2022).

Intanto, mentre sul piano individuale non ci siamo ancora ripresi dallo shock della pandemia (che ha svelato la nostra vulnerabilità e insicurezza, quando vivevamo nell’illusione che le scoperte scientifiche e le tecnologie ci avessero reso invincibili e padroni dell’universo), su quello collettivo sperimentiamo, ovunque, il deperimento degli istituti della democrazia a cui siamo stati abituati con la fuga dei cittadini dal voto (e conseguente riproposizione, pur rivisitata, dell’antico “governo dei meno”), l’accantonamento dei parlamenti a vantaggio dei governi (che, a loro volta, si dichiarano impotenti di fronte allo strapotere delle multinazionali private), l’insediamento all’est e all’ovest, nel guscio vuoto degli istituti della rappresentanza, di regimi autoritari (definiti appunto, con evidente ossimoro, “democrazie autoritarie”).

Se, poi, guardiamo al nostro Paese la situazione è segnata – oltre che dagli elementi sin qui descritti – da una deriva politica e culturale senza precedenti nella storia repubblicana. Per la prima volta abbiamo un Governo dalle esplicite ascendenze fasciste che, come ha sintetizzato da ultimo Francesco Pallante «mentre, a parole, si autoproclama difensore della nazione intera, nei fatti opera a smaccato beneficio soltanto delle parti “amiche”, favorendo l’ingiustizia tributaria, ammiccando all’evasione fiscale, sostenendo le regioni già ricche, dimenticando la sicurezza sui luoghi di lavoro, aumentando le occasioni di sfruttamento, propugnando l’autoritarismo nei confronti dei più giovani, contrapponendo studenti meritevoli e immeritevoli, operando per la privatizzazione della sanità, annullando le politiche per la casa, reprimendo l’immigrazione con la negazione di ogni umanitarismo, osteggiando i diritti civili vecchi (la libertà di associazione) e nuovi (la libertà di autodeterminazione della propria sfera sessuale e vitale)»(https://volerelaluna.it/commenti/2022/12/19/meloni-la-retorica-della-nazione-e-il-neoliberismo-autoritario/).
Inutile insistere oltre data l’evidenza dei fatti, pur minimizzati – ed è un ulteriore segnale della deriva che stiamo vivendo – dall’establishment politico, mediatico e culturale.

È in questo contesto che sta arrivando il nuovo anno. Non arriverà – è facile prevederlo – l’anno evocato, tempo fa, da Lucio Dalla in cui «sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno» e «ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno». Sarà, al contrario, un anno difficile nel quale le tendenze emerse nel 2022 proseguiranno e si consolideranno ulteriormente.

Eppure non è consentito cedere alla rassegnazione e allo sconforto. Le difficoltà e la regressione che stiamo vivendo non sono ineluttabili ma frutto di scelte e di comportamenti individuali e collettivi. In una parola, di una cultura.

A qualcuno potrà sembrare strano ma, negli anni a venire, lo scontro sarà sempre più sul piano culturale e comportamentale, cioè là dove si annidano i presupposti e le motivazioni delle scelte economiche, politiche, sociali, ambientali. E, qui, nella grande storia, facciamo capolino noi con la nostra piccola storia. Piccola ma importante.

Cosa può fare in questo contesto una realtà come Volere la Luna? La strada è tracciata da tempo: «proporsi quello che può sembrare impossibile a molti, ma che in realtà dovrebbe essere normale: cambiare radicalmente il proprio modo di essere, di pensare, agire, cooperare e aggregarsi, tenendo fermi i valori di riferimento di un solidarismo radicale. Il mondo è cambiato, è ora di cambiare noi stessi. E il nostro modo di stare insieme. A cominciare da tre obiettivi primari: contrastare le diseguaglianze, promuovere ma soprattutto praticare forme di partecipazione solidale, favorire la rinascita di un pensiero libero e critico. Cioè non limitarsi a proclamare i propri valori, ma praticarli concretamente, con azioni positive quotidiane, creazione di occasioni di prossimità, di spazi, anche limitati, di relazione, di strumenti di comunicazione aperti e critici» (dallo statuto di «Volere la luna»). Si tratta di consolidare quegli obiettivi, di allargare la nostra comunità a tutte e tutti coloro che vorranno continuare a sostenerci in questo percorso difficile ma affascinante, di creare alleanze e collaborazioni ovunque possibile.
Basterà? Non nei tempi brevi, ma a medio termine contribuirà ad avviare cambiamenti significativi.
L’importante è tenere la barra dritta, non accettare aggiustamenti e compromessi al ribasso e continuare, nonostante tutto, a volere la luna.

 

Livio Pepino,
Già magistrato e presidente di Magistratura democratica, dirige attualmente le Edizioni Gruppo Abele. Da tempo studia e cerca di sperimentare, pratiche di democrazia dal basso e in difesa dell’ambiente e della società dai guasti delle grandi opere. Ha scritto, tra l’altro, “Forti con i deboli” (Rizzoli, 2012), “Non solo un treno. La democrazia alla prova della Val Susa” (con Marco Revelli, Edizioni Gruppo Abele, 2012), “Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli” (Edizioni Gruppo Abele, 2015) e “Il potere e la ribelle. Creonte o Antigone? Un dialogo” (con Nello Rossi, Edizioni Gruppo Abele, 2019).

Elena Gianini Belotti dalla parte delle bambine

di Daniela Brogi

Tratto da DoppioZero del 28 Dicembre 2022 

 

Nel giorno della vigilia di Natale se n’è andata l’autrice di uno dei testi più rivoluzionari del secondo Novecento. All’epoca della prima edizione, nel 1973, Elena Gianini Belotti (1929-2022) non immaginava il successo che avrebbe avuto questo piccolo libro, tradotto in quindici lingue e arrivato a vendere più di mezzo milione di copie. Sono numeri che, per un lavoro saggistico, potrebbero corrispondere a un protagonismo pacifico nella storia della cultura italiana del secondo Novecento; eppure questa centralità è vera e non è vera, perché anche se in tante e in tanti, in questi giorni, ci stiamo ricordando del libro più noto di Gianini Belotti, in pochi casi, d’altra parte, potremmo confermare di averlo incontrato a scuola, o all’università, o in ogni caso di averlo sentito citare nel contesto di analisi complessive della società e di verifica dei poteri.

Le tradizioni, i loro assetti, i discorsi che le garantiscono, raccontano e fanno capire anche il modo in cui, producendo memoria pubblica, le istituzioni e i campi culturali definiscono e delimitano i criteri attraverso i quali riteniamo pensabile e indimenticabile il passato, la storia. E così, rispetto a questa parzialità, che molto spesso è stata orientata dalle medesime logiche sessiste dimostrate così bene proprio in Dalla parte delle bambine, il modo migliore di non tradire la memoria di Elena Gianini Belotti è mettere in salvo il valore pieno, passato e presente, di quell’esperienza. Dalla parte delle bambine, infatti, che tra l’altro è uscito venticinque anni prima dell’edizione originale di Il dominio maschile (1998) di Pierre Bourdieu, è un testo bello, importante e famoso, che potrebbe forse rischiare di continuare a essere considerato riduttivamente una lettura “da ragazze”, “da donne”, un libro “generazionale”, nel senso che è stato letto da una generazione intera (ed è vero), o pure nel senso (questo sbagliato) che può essere interessante solo per un pubblico nato in una particolare e lontana epoca. Ecco, questo è falso. Io stessa ho letto Dalla parte delle bambine quasi vent’anni dopo la sua uscita, e quando propongo di leggerlo a studenti che hanno vent’anni oggi, ogni volta, anche per loro, è una scoperta.

Si tratta di un libro che, con autorevolezza gentile, affronta, come dice il sottotitolo, “l’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita”. Ha quasi mezzo secolo, e lo porta benissimo. È un classico, proprio per la sua capacità di continuare a parlarci, a “saperci” parlare: con una sapienza, per l’appunto, fatta di cultura messa alla prova dall’esperienza diretta e dalla civiltà della relazione.

Questo “avere ancora da dire” accade per ragioni che in parte sono positive, in parte no: le prime riguardano la doppia felicità di scrittura e di metodo, perché Dalla parte delle bambine, fin dal titolo, che definisce così perfettamente uno spostamento di prospettiva rispetto a un mondo pensato essenzialmente al maschile, è un libro nuovo e sperimentale. Sperimentale non in senso retorico, ma concreto: sperimenta sguardo e narrazione lavorando sul campo.

Le ragioni negative della sua attualità riguardano invece la persistenza, anche nell’Italia di oggi, di una cultura della disparità legata al genere; riguardano la persistenza (o il ritorno) di un mondo in cui le convenzioni che hanno stabilito ciò che è tipicamente maschile e ciò che è tipicamente femminile, come spiegava Gianini Belotti, funzionano da dispositivi materiali e simbolici di disuguaglianza, di esclusione e di complessi di inferiorità.

m

Non è un manuale di comportamento, indirizzato solo a una certa categoria (quella, per esempio di chi affronta un’esperienza di genitorialità); è un testo che ci fa vedere dove portare gli occhi e far nascere i nostri pensieri, e in questo senso è una lettura fondativa per chiunque, perché mostra come per tanti aspetti il nostro destino si giochi attraverso il modo materiale (per questo l’educazione, come pratica, è così decisiva) in cui abbiamo imparato e ci è stato insegnato a stare al mondo. Ma volendo sinteticamente provare a fissare alcuni dei suoi meriti più importanti, potremmo intanto raccogliere quattro primi punti.

Il primo riguarda la capacità di mettere al centro l’educazione dei bambini, intesa però non in senso prescrittivo, retorico, meritocratico, classista, ma pragmatico, vale a dire non spiegando teorie astratte, ma osservando e costruendo un metodo che si avvale del modello delle Case dei bambini di Maria Montessori e della lunga esperienza di costruzione di una cultura della preparazione delle madri al parto. Attraverso una struttura in quattro capitoli (rispettivamente dedicati a L’attesa del figlio: I; La prima infanzia: II; Gioco, giocattoli e letteratura infantile: III; Le istituzioni scolastiche: la scuola infantile, elementare e media: IV), che ripercorrono le principali tappe di quella che potremmo definire la carriera di un bambino o di una bambina,  Gianini Belotti ci fa vedere che a seconda di come trattiamo le nostre piccole persone (perché tali sono: persone) li educheremo a desiderare fortemente oppure no certe cose, a vivere certi spazi e esperienze come naturali oppure inaccessibili e impensabili. E così, accanto all’educazione, ecco che il secondo importante fuoco del discorso riguarda l’istruzione delle bambine: argomento affrontato dalle più importanti pioniere del femminismo, anche da Woolf in A Room of One’s Own, e violentemente attuale oggi che ci arrivano notizie sull’interdizione della scuola e dell’università alle donne.

Eppure, anche qui Gianini Belotti può aiutarci a non consolarci troppo attraverso la nostra distanza geografica dai territori talebani, perché le pagine su come i bambini maschi sono educati (attraverso il comportamento dei genitori, il gioco) a pensare di realizzarsi a seconda di ciò che saranno, mentre le bambine sono avviate a un mondo dove troveranno posto a seconda di ciò che daranno o di quanto saranno pronte a usare la seduzione per ottenere le cose, quelle pagine fanno male nel senso che fanno comprendere meglio tante narrazioni più vicine a noi – e fanno perfino capire che una coscienza bambina può essere anche quella di chi, pur avendo raggiunto o persino oltrepassato l’età adulta, non ha consapevolezza della propria oppressione.

La terza speciale eredità di Dalla parte delle bambine riguarda, oltre che questo libro, tutta l’opera di Gianini Belotti, autrice di quindici volumi, inclusi molti testi narrativi (romanzi storici per esempio), che continuano a sperimentare strade nuove per dare voce e racconto a punti di vista insoliti e silenziati dalle discriminazioni di genere, come quello di una bambina vissuta in epoca fascista (in Pimpì Oselì: 1995) o di una donna vissuta nella seconda metà dell’Ottocento artefice della scandalosa scelta di fare la maestra, in Prima della quiete (2003). Si tratta, in questo caso, di un romanzo ispirato a una biografia reale, quella di Italia Donati (1863-1886), portatrice di un nome ispirato alla nascita della Nazione, ma che d’altra parte ci parla anche di come l’unificazione italiana sia avvenuta sul corpo di tante donne oscurate dal racconto storico ufficiale. Attraverso il romanzo, qui come in molti altri casi, Gianini Belotti continua a cercare soluzioni nuove per inventare comunicazione, come dice il sottotitolo di un altro testo: Prima le donne e i bambini (1980).

E infine, ma solo per modo di dire perché con Gianini Belotti non si conclude mai ma si ricomincia sempre, il quarto importante punto che ci consegna è l’attitudine a ragionare di bambini, di bambine e di discriminazioni attraverso lo spazio della scuola, e ragionando in termini di logiche culturali complessive. Ecco, sinteticamente, perché sarà importante leggere e rileggere Dalla parte delle bambine. Finché ce ne sarà bisogno.

Presto di mattina /
L’uomo nascosto

 

Deus absconditus

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto (abscondito) in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13, 44).

Tu non sei il fiume
ma ti nascondi nel fiume,
non sei la foresta
ma sei nascosto nella foresta,
non sei il vento
sei il vento del vento:
e senza, non c’è tempo,
perciò viviamo
e saremo eterni.
(D. M. Turoldo, Ultime poesie, Garzanti, Milano 1999, 25).

Sto all’inizio del nuovo anno, come di fronte all’ignoto dei giorni ancora nascosti, inediti, con l’intimo desiderio di andare cercando, come anno dopo anno, il vangelo nascosto nella vita delle persone che incontrerò nel divenire dei giorni, pagine di nuovo vangelo.

Nel labirinto dei giorni tu sei
certezza di speranza in ogni inciampo,
filo d’Arianna a quanti van sperduti:
e il mostro è vinto, il Tesoro è trovato;
tesoro ai cuori, nascosto nel campo.
(Clemente Rebora, Le poesie 1913-1957, Garzanti Milano 1997, 337-338).

La prima e fondamentale ricerca di Dio la si fa senza conoscerlo, avventurandosi nella nube oscura della non conoscenza, come Mosè. Il suo mistero ci accompagnerà durante tutta la vita, anche dopo averlo incontrato, riconosciuto, creduto ed accolto.

Credenti o non credenti, appartenenti a questa o a quella religione, siamo infatti tutti spinti da un qualcosa in noi di indefinito, impalpabile, inafferrabile eppure capace di sommuoverci tutti o di esondare al di sopra di tutto – un poco come la musica o la gioia – di inquietarci interiormente e turbarci fino a scuoterci come il dolore, specie quello innocente, mistero che, possedendoci e facendoci sentire la fame e la sete di ciò che ci manca, ci butta oltre noi stessi pur restando profondamente e tenacemente radicato dentro noi stessi.

È quel mistero pure dell’uomo nascosto, intimo a noi più di noi stessi; l’uomo a venire della conviviale aperta a tutti; “l’uomo planetario” direbbe Ernesto Balducci.
Quest’esperienza ci accade quando non sappiamo ancora nemmeno nominare questa forza e presenza che ci inabita spiritualmente, così noi procediamo come a tentoni alla sua ricerca.
Ma cos’è questo mistero? questo Deus absconditus et ignotus e tuttavia non lontano da noi?

Eppure è così simile a quello che accade quando ci troviamo di fronte a qualcuno per la prima volta. Lo vediamo con gli occhi e ne conosciamo la figura, lo scrutiamo nella sua forma esteriore, sentiamo la sua voce, osserviamo il suo volto, il colore dei suoi occhi, ma in realtà, pur standoci di fronte, egli resta absconditus et ignotus.

Così, l’incontro con una persona ci spinge a cercarla ancora e ad andare più in profondità, a procedere oltre, a cercare l’uomo nascosto nel cuore, gettando la fiducia come il seminatore il seme, senza fermarsi all’esteriorità della prima volta. Non basteranno una volta e neppure cento; occorreranno tutti i giorni dell’anno, tutti quelli della nostra vita per sollevare un poco il velo.

E nondimeno, anche così, questa persona resterà nascosta ed ignota nella sua realtà più profonda, pur camminandoci a fianco ogni giorno, fino a quando non sarà lei stessa a manifestarsi a noi e a farci entrare nell’intimità della sua esistenza. Se così è con le persone, perché non dovrebbe esserlo con colui che il profeta attesta: «Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio di Israele, salvatore», (Is 45, 15).

Homo cordis absconditus

L’uomo nascosto nel cuore, è l’uomo in noi che sta al di dentro, potenziale, in gestazione, non ancora venuto alla luce: «homo qui intus est» (2 Cor. 4, 16), l’uomo interiore, «interiorem hominem» (Rom. 7, 22), quello del cuore, «absconditus est cordis homo» (1 Pt. 3, 4).

Più di quella esteriore – sembra dirci l’apostolo Pietro – è la bellezza interiore. Una bellezza segreta, che ci fa da guida perché capace di generare l’uomo ancora nascosto, in embrione in ciascuno di noi: mistero a noi stessi, che attende di disvelarsi e mostrare il suo “volto scoperto”.

Si potrebbe dire allora con Jürgen Moltmann che l‘identità umana nasconde in se stessa una profonda non identità: un’identità a venire. Che – secondo Moltmann – caratterizza pure l’identità cristiana: «non è un’identità chiusa, aggressiva, del tipo di quella che si profila nei rapporti ispirati allo schema amico/nemico, ma identità aperta, invitante, accogliente e salvante.

È quell’identità in cui gli esseri umani non solo giungono a se stessi, ma da se stessi pure escono; non solo vengono radunati, ma anche inviati. È l’identità che nasce dal movimento che va dall’uno ai molti, quindi non un’identità statica, di cui potremmo dire “semper idem“, ossia sempre la stessa, ma di tipo processuale, che si forma nel processo dell’effusione dello Spirito “ogni carne”.

Ogni identità personale nella fede in Cristo “trascende” se stessa nella speranza del regno di Cristo che viene; ogni identità di gruppo che si forma nelle comunità particolari “trascende” i propri limiti per aprirsi ad “ogni carne”» (La pienezza dei doni dello Spirito, in Concilium, 1 (1999), 60-61).

Non solo ecumenico ma anche planetario è l’homo absconditus cordis. Ce lo ha ricordato padre Ernesto Balducci (1922-1992) nel suo libro: L’uomo planetario. Testimone di pace a profezia di quei miti che erediteranno la terra, artigiano di pace pure lui, nonostante fosse oggetto di molte censure e “controlli” ecclesiastici e allontanamenti forzati.

Ma il soggiorno romano gli permise di avere parte alla primavera del concilio e di sostenerne in modo accorato la riforma. Fondatore della rivista Testimonianze e delle Edizioni Cultura della Pace diceva di se stesso di essere stato «fedele più che alle istituzioni alle coscienze delle persone».

Proprio oggi desidero ricordarlo alla chiusura dell’anno centenario della sua nascita. Significativa è così la scelta dell’ultimo giorno dell’anno sulla soglia di quello nuovo, tra quel che muore e quel che nasce: l’uomo ancora inedito si specchia in una storia e prassi di chiesa ancora da scrivere. (Cfr. scheda del Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani).

Beatitudini: il mondo dell’uomo nascosto

L’espressione “uomo nascosto” è ricorrente nei testi di Balducci come nelle sue conferenze sulla pace, specie in quella di Boves a Cuneo del 1989. In quell’occasione egli indicava Gesù di Nazaret come l’uomo nascosto che si rivolge all’uomo ancora inedito, non ancora modellato da una particolare cultura, soprattutto da quelle che rivendicano la pretesa di essere uniche ed esaurienti espressioni in sé dell’umano.

Gesù indica non tanto la cultura ma la profezia, come l’espressione più vera dell’uomo; egli si rivolge al non ancora nascosto, all’uomo potenziale, piuttosto che al già delle culture che tendono a rinchiuderlo, egli rivela e risveglia così nelle coscienze, con la parola e l’azione il non ancora dell’uomo che tuttavia gli abita dentro:

L’uomo nascosto è per un verso quello che porta in sé il sigillo dell’atto creativo di Dio e che aspira alla pace; nell’atto creativo Dio orienta l’uomo alla pace”. Nella risurrezione l’uomo nascosto di Nazaret sarà colui che affiderà ai discepoli la consegna della pace dicendo loro “pace a voi”. Egli è pure il Figlio dell’uomo nascosto negli uomini e nelle donne delle Beatitudini, sono questi, secondo Balducci, che vanno plasmando “il mondo dell’uomo nascosto”, la terra nuova dell’uomo planetario.

Così «le prospettive di vita enunciate nelle Beatitudini sono anche – si pensa poco a questo aspetto – enunciazioni di possibilità dell’uomo. Chiunque dicesse: “è impossibile per l’uomo essere mite” contraddice il Vangelo perché il Vangelo ha legittimato questa aspirazione come possibilità umana. E così: “è impossibile che i perseguitati siano beati”; chi dice così, mentisce, contraddice al Vangelo perché il Vangelo dice: “Beati i perseguitati”.

Le Beatitudini hanno questo di proprio hanno una enorme carica di consolazione perché legittimano, dinanzi a noi stessi, aspirazioni che la cultura in cui siamo delegittima e squalifica. C’è una porzione di noi che è screditata, vilipesa dalla cultura dominante, al punto tale che noi stessi ce ne vergogniamo e la rimuoviamo da quella sfera interiore dentro cui ci raccogliamo quando vogliamo costruire le linee del nostro esistere.

Le Beatitudini ci esortano a non conformarci ai modelli di vita dominanti, a guardarli con sospetto metodologico e a recuperare la fiducia in certe aspirazioni che invece il mondo esistente sconsacra e deride. Le Beatitudini ci restituiscono alla piena solarità interiore» (Il mondo dell’uomo nascosto. Le Beatitudini, E. Balducci et al., Borla, Roma 1991, 65-66).

Quando io annuncio ad un’assemblea qualsiasi: “Beati i poveri, beati i miti”, qualcuno può sentirsi a disagio, ma in realtà, dentro di lui, una risposta si leva: è l’uomo nascosto che si alza in piedi, che sente annunci di cui ha avuto il presentimento. Ecco perché il linguaggio profetico dà gioia: dichiara che l’impossibile è possibile. Nell’uomo nascosto c’è il futuro. Il suo tempo è il futuro e non il passato. Il linguaggio profetico è il linguaggio che mette in rapporto l’uomo nascosto e il suo futuro» (ivi, 74-759).

Uomo edito e uomo inedito

«Il futuro dell’uomo nascosto non è il tempo a venire i cui contenuti sono già nel presente – il futuro dei futurologi -, è il tempo che ci viene incontro portando con sé, come possibilità oggettive, nuovi modi di essere rispondenti alle possibilità soggettive latenti in noi. Ci manca, ed è questo il nostro vero dramma, una mappa delle possibilità umane, perché siamo imprigionati in un’immagine univoca di uomo costruita e imposta, con tutte le iridescenze dell’universalità, dalla cultura in cui siamo cresciuti.

Quell’immagine si sta lacerando e proprio per questo si riapre dentro di noi la dialettica tra uomo inedito e uomo edito. In forza di questa dialettica acquista senso la circostanza che è totalmente nuova nella storia: la compresenza, anzi in certi casi la convivenza di molte umanità, ciascuna delle quali ci apre un distinto spiraglio sulla totalità umana.

Di più: noi oggi sappiamo, come mai nel passato, che il destino dell’uomo e quello del cosmo sono tra loro indisgiungibili, sia nella loro origine, perché l’uno e l’altro prodotti da un medesimo processo evolutivo, sia nel loro fine, perché il mondo così com’è è un prodotto della versatile creatività umana, sia perché l’uomo così com’è è il centro di unificazione dei processi cosmici.

Per questo la verità dell’uomo non è nel rifiuto del mondo, è, semmai, nel suo oltrepassamento o per meglio dire nel suo farsi carico del gemito che sale dalla creazione e che, secondo la forte immagine di Paolo, non è il gemito di un morente, è il gemito di una partoriente» (La terra del tramonto. Saggio sulla transizione, Ed. Cultura della Pace, Fiesole 1992, 55-56).

Ed ancora: «Come l’uomo, anche dio ha mille nomi, ma la pluralità nominabile trova il suo senso unificante nell’asse che, sotto le forme storicamente espresse, corre dall’uomo nascosto, gravido di una universalità ancora inedita, al dio nascosto nel cui seno quell’universalità potenziale ripone se stessa, al sicuro dalle usure del tempo e dalle menomazioni delle culture.

In quanto tengono vivo questo trascendimento, le religioni sono una garanzia della libertà dell’uomo, o meglio della sua non identità con se stesso… Il senso delle religioni è il servizio all’uomo nella sua dimensione di trascendimento perenne fino al contatto con Dio, fino a quel disvelamento che aprirà definitivamente l’uomo a Dio e Dio all’uomo» (ivi, 128- 134-135).

«Ti rendo lode, Padre, hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.» (Mt 11,25)

Francesco d’Assisi – ha scritto ancora padre Balducci – è colui che ci permette di renderci conto dello stupore e dell’entusiasmo che suscitò nei suoi contemporanei, e continua a suscitarlo in noi, l’uomo nascosto disvelato nella sua vita.

Si riconoscono in lui, rispetto alla cultura e alla fede del suo tempo, i tratti di un profeta, di un uomo nuovo inedito per il suo tempo e per la sua stessa chiesa: «Potremmo dire che Francesco fece apparire possibile quanto per la cultura del tempo appariva “impossibile”, fece apparire ragionevole quel che appariva “irrazionale”», fece apparire del tutto ovvio quel che appariva “strano”.

E questo non con uno stravolgimento delle misure a cui la natura umana deve attenersi per non uscire dal proprio asse, ma perché, com’è nel potere dei profeti, egli portò alla luce l’uomo nascosto, voglio dire l’uomo che nelle sue inesauribili possibilità resta represso nel modello che l’educazione gli impone, dandogli così identità ma dividendolo da se stesso.

È da questa porzione inedita di umanità che salgono, tenute a bada dalla sorveglianza della ragione, le aspettative di nuove forme di vita che lascino uscire al sole e all’aria le possibilità mortificate dal divieto della cultura dominante.

Tutto sembrava ormai condannato alla vecchiaia, così Tommaso da Celano, testimone diretto di Francesco, apre il suo Trattato dei Miracoli: “quand’ecco, all’improvviso, emerse sulla terra un uomo nuovo, e all’apparire subitaneo di un nuovo esercito, i popoli furono ripieni di stupore davanti ai segni della rinnovata età apostolica. È ora d’un tratto portata alla luce la perfezione già sepolta della Chiesa primitiva, di cui il mondo leggeva sì le meraviglie, ma non vedeva l’esempio (3 Cel, 1)» (Francesco d’Assisi, Ed. Cultura della Pace, Fiesole 1989, 57-58).

Ne L’uomo planetario leggiamo infine: «Da qui trae origine una nuova forma di pietas, il cui contenuto è la premura amorosa per la specie in quanto tale e, più generalmente, per ogni forma di vita in cui si svela la profonda parentela dell’uomo con il cosmo.»

Una libellula rossa è passata ed è andata a posarsi su una palizzata, proprio davanti a me. Mi sono alzata con il cappello in mano per prenderla, quando …” , così scrisse un’allieva del collegio Sanyo Fukuhara Eiji, sopravvissuta all’eccidio di Hiroshima. La mano infantile tesa verso una libellula nell’attimo stesso dell’apocalisse è come un simbolo di questo amore fragile dell’uomo per tutto ciò che attorno a lui narra il poema della vita» (Ed. Cultura della Pace, Fiesole 1992, 1990, 8).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

 

IL PANTHEON DELLA DESTRA E DELLA SINISTRA

 

Abbiamo assistito nei giorni scorsi alle polemiche sulle dichiarazioni di nostalgico amore per il MSI, da parte di esponenti di vertice della destra al potere.
Niente di particolarmente elevato, in questo dibattito, eppure non privo di significato tale da suscitare qualche riflessione.
Il Presidente del Senato e una sottosegretaria del governo, La Russa e Rauti, i protagonisti di questa impresa. Oltreché due cariche istituzionali di prima grandezza, sono due nomi pesanti nella storia politica del nostro paese. Entrambi legati alla nascita e alla vita del Movimento sociale fiamma tricolore, erede diretto di Salò.
Figli d’arte dei fondatori fascisti di quel movimento e delle sue emanazioni ancora più estreme e, se possibile, ancora più fasciste. Come Ordine Nuovo, famigerata e funesta aggregazione terroristica di nazifascisti, di cui Pino Rauti fu creatore e ideologo. Come il padre di La Russa, che fu un caporione dell’ancien regime mussoliniano.
Commemorarne il 75mo anno della nascita, coincidente, scherzo della storia, con lo stesso anniversario della costituzione, democratica e repubblicana, nata, vedi tu, proprio dalla Resistenza a quell’ infausto regime. Se ne è dibattuto.
Ci si è scandalizzati, sono state chieste le dimissioni dei due, dalle importanti cariche istituzionali. Fuffa. La storia non si può riscrivere a piacimento. Così fu e così resta. Certo non è un bel servizio a quella democrazia, che ha consentito loro di scalare il potere, e che ora sono chiamati a rappresentare con “dignità e onore”. Semmai è proprio questo, la dignità e l’onore che difetta, segno di una incompiuta conversione alla democrazia.
Il fatto ci dice, invece, che questo è il Pantheon della destra oggi vincente. Se vogliamo dargli una verniciatina culturale si può aggiungere Gentile, Evola, Erza Pound. Ma questi chi li evoca mai?
La Russa, la nostra seconda carica dello stato, è un fanatico collezionista dei busti del Duce! Tutto qui, il pantheon e la cultura basica della destra nostrana.. Roba di una miseria da vergognarsi.
Eppure la maggioranza del paese li ha votati. Disperazione o straniamento?
Messo a confronto con la ricchezza del Pantheon della sinistra democratica, cattolica e socialista, non c’è proprio paragone che tenga. Valori culturali, politici, umanitari, democratici, testimoniati spesso con il sacrificio violento della vita, ad opera di quel terrorismo che, anche quando appariva di estrema sinistra, aveva sempre stretti e confusi rapporti con gli epigoni di quella cultura politica di destra, dei suoi gruppuscoli violenti, e dei suoi mille oscuri rapporti col peggio della società, fino a comprendere mafia e P2. Matteotti, don Minzoni, Moro, La Torre, Mattei, Ruffilli, Tarantelli, Bachelet…e quanti altri…
Ma anche chi ci ha lasciati morendo nel suo letto, da Berlinguer, a don Milani, La Pira, Jotti, Anselmi e tanti altri ancora, il patrimonio morale e culturale della sinistra è immenso. Di valore e di valori perenni.
Moderni. E non, certo, archeologia culturale.
Oggi che nella crisi del PD, avviato ad un surreale congresso, si cincischia intorno alla “ricerca di una identità”, nella illusione di un incerto rilancio, viene da imprecare il destino “cinico e baro”.
Che destino proprio non è, ma frutto di un tradimento di quanti hanno dimenticato e dilapidato quella eredità morale e politica, svendendola per il biblico piatto di lenticchie.
Un potere sterile senza più ideali e valori. Che nulla ha prodotto per la promozione umana e sociale di quelle classi più sfortunate ed emarginate, che è la missione irrinunciabile di una vera sinistra. “Sconfiggere la povertà non è un atto di carità ma di giustizia” diceva Mandela. Ciò che non viene fatto, però, se il potere si gestisce come interesse personale e non come servizio…
Quel potere che corrompe, se si tradisce il patrimonio ideale di riferimento, dal quale, e solo da esso, può trarre ancora alimento.
C’è davvero da domandarsi come possa essere accaduto che un popolo, il più povero, un tempo blocco sociale della sinistra, possa affidare il destino della sua vita ad una destra senza radici, senza cultura e senza valori. Abbandonando così quello straordinario patrimonio di ideali e sensibilità, ispirati invece a quell’ “umanesimo integrale” (Maritain, Mounier…) di vero riscatto.
Eppure è accaduto. In pochi anni ben sei milioni di elettori hanno voltato le spalle al Pd.
Ha ragione Cuperlo a dire che su questo deve riflettere il congresso del PD, e dare ragione delle responsabilità di avere dilapidato un patrimonio di così grande valore.
È per questo che occorre quella radicalità, su temi e regole, che inizia con il ricambio totale del vecchio gruppo dirigente e regole rigorose sulle ricandidatura, ad evitare che ci sia chi accumula sette legislature e, non pago, porti anche la moglie in parlamento! Vergogna, arroganza, avidità riprovevoli.
Ma fondamentali sono anche le battaglie sociali e di civiltà da affrontare con decisione e passione, a cominciare dalla lotta alla disoccupazione, alla precarietà e alle disuguaglianze. Con una speciale attenzione ai giovani, alle donne, ai poveri, all’ambiente.
Ma con politiche concrete e creative, e non con vuote e retoriche declamazioni, come è accaduto fino ad oggi. Recuperando così quel senso della vita sociale e individuale, partendo dalle classi più disagiate.
“Solo i poveri conoscono il vero significato della vita” scrive Bukowski. Un legame intimo e profondo da recuperare nella convinzione che la società è pervasa da un prevalente spirito di sinistra ideologica e sociale, che non può non tornare alla sua casa naturale. Questa la mia speranza. Questo il compito del nuovo partito democratico.

Lunga vita al Re

 

Non è mio uso commemorare i defunti con post strappalacrime e strappa like sui social, tantomeno cercare di scrivere un pezzo ad ogni scomparsa eccellente. Ma oggi è diverso. Ieri all’età di 82 anni è morto il Re, colui che sta al calcio come Elvis sta alla musica. Scriviamolo per intero: Edson Arantes Do Nascimento, per tutto il mondo Pelé.

Non mi appassionano i paragoni tra giganti. Era più forte Maradona? Di Stefano? Crujiff? Eusebio? Messi o i due Ronaldo?
Non è importante, ognuno di noi appassionati o ex appassionati di calcio ha il proprio idolo personale. Ma Pelé era diverso. Un padre calciatore sfortunato, la miseria come status sociale, la fibra, tutti i tendini del suo corpo assorbiti dall’Africa, trasformatisi in strumenti di difesa per gli schiavi che scappavano alla ricerca della libertà nelle foreste del Brasile dominato dai Portoghesi. Quegli stessi schiavi che divennero comunità nella foresta Amazzonica, ritrovando in un altro continente i colori e i sapori della loro terra lontana. Ed è lì che nasce il calcio bailado, la musicalità come strumento contro l’oppressione, la danza e l’autodifesa mischiate assieme nella capoeira, un’ arte marziale che si basa fondamentalmente sulle acrobazie mischiate all’eleganza dei movimenti. Ecco, lì nasce il mito, tra quel groviglio di rami, radici, umidità e calore, si sviluppa il gioco che per quaranta anni Edson diffonderà via etere di là e di qua dall’oceano.

Certo, c’è chi dice che Pelé mai giocò in Europa, con una malcelata supponenza velata anche da una sorta di razzismo, ma chiedetelo a Burgnich che era stopper perfino nel nome, Tarcisio, oppure a Trapattoni, chi era quel numero dieci con la maglia verde-oro.

I numeri e i record sono su Wikipedia. L’età del suo esordio in nazionale e la Coppa Rimet vinta in Svezia a diciassette anni, le altre due coppe del mondo, i suoi mille e duecento e passa goal in partite ufficiali, la sua media vicina a un goal a partita.
Ma non sono i numeri che fanno grande Pelé, è la sua essenza, il calcio non come sport, ma come gioco, la ginga (attacco e schivata) come stile e riproposizione dei colpi che tutti noi bambini abbiamo cercato di imitare nei cortili e nelle strade. Palleggio, sombrero, tunnel, dribbling, rabona, non per coglionare gli avversari, ma per divertirsi e divertire. La suola come parte fondamentale del piede, il goal come apoteosi, come orgasmo che coinvolge una moltitudine.

Pelé ballava e con la palla ci faceva all’amore, non la calciava, la accarezzava. Il pallone era la sua ragione di vita, proprio come noi bambini degli anni ’70 vedevamo nel super Santos (appunto) il motivo della nostra felicità. Ancora un rimbalzo e la palla tocca il muro del cortile, dentro il contorno di una porta segnata con uno spezzone di laterizio. E da lì esplodeva la gioia.

Insomma, nulla a che vedere con quel simulacro di sport per culturisti miliardari che è diventato “il gioco più bello del mondo” negli ultimi trent’ anni. Soldi, doping, target, budget, plusvalenze, sceicchi, americani, dollari, petrolio, una poltiglia percolante che ha trasformato i tifosi in fruitori passivi di un servizio.  La passione derubricata a audience.

Lo stadio sostituito dal divano, il telecomando come simulacro di libertà, la finta partecipazione nascosta dietro agli schermi viola dei telefonini.

Ecco, Pelé con tutto questo non c’entra nulla, lui è il Re dalle movenze sfumate in bianco e nero, come gli unici colori che indossò in carriera, il Santos come religione e il suo numero dieci come Dio.

Nulla più, nulla meno.

Assurdità statistica: Pelé non vinse mai il pallone d’oro, così come Maradona. L’incoronazione del più forte, del più bravo è da sempre espressione del Capitale, di chi detiene il potere, decide e definisce i canoni. E quali sono i canoni? Lasciamo stare le decine di campionati Paulisti vinti, quelli Brasileiri e pure quello del soccer nord americano dove Edson andò a fine carriera a dollarizzare i suoi ultimi tocchi, ma tre campionati del mondo? Migliaia di goal, certo, alcuni in partite non ufficiali, e con ciò? Le decine di record?

Ma è ancora poco.

Magari sarà banale ricordare senza la finezza del sapiente tecnico calcistico, che il ragazzo nato nelle favelas di Três Corações non aveva un piede preferito, non aveva un ruolo definito, lo decideva il campo, il pallone cercava il suo padrone, la forza fisica, l’incredibile elevazione, il dribbling, la finta, l’acrobazia, la danza.

Perché sprecare tempo in similitudini, senza senso, ritorniamo alle parole di Tarcisio nostro dopo la finale persa dall’Italia a Città del Messico: “Prima dell’ingresso in campo pensai: è di carne e ossa come me, mi sbagliai”.

Il calcio è quello sport nato in Inghilterra alla metà dell’800 – forse ne esistevano tracce ataviche anche nelle ere precedenti – morto il 29 di dicembre del 2022 a San Paolo in Brasile.

Ma il pallone, una rovesciata in un campetto senza porte, un dribbling fatto in strada con una lattina di birra schiacciata, una maglia bianca con il numero dieci disegnato col pennarello, non moriranno mai, finché ci sarà un bambino di qualunque età che rincorrerà il rimbalzo di un super tele in una strada di periferia.

Lunga vita al Re.

La ginga

figlia della capoeira

arma di difesa degli schiavi,

nel sangue la libertà e la musica.

Sangue rosso

figlio dell’Africa

gioia di vivere

nata nel fango della favela.

Riscatto di un popolo

nel gioco del pallone

una danza acrobatica

sopra gli altri giocatori.

Piedi nudi e palleggio

coi frutti dolci dei tropici

poi scarpette nere

e una maglia bianca.

Tu sei il metro di misura

il paragone

a cui tutti dopo di te

hanno reso omaggio.

Arrivederci O’Rey

il calcio è morto

il sogno di un goal in rovesciata

invece, non morirà mai.

Storie in pellicola / Odio il Natale

Ne parlano tutti, le recensioni non si contano, tutti la cercano, tutti la vedono, c’è chi è entusiasta e chi meno. Ma la curiosità è tanta, se non altro per il gran parlare (e scrivere) che se ne è fatto. È la prima serie italiana di Netflix, a disposizione sulla piattaforma dal 7 dicembre, Odio il Natale, commedia romantica in 6 episodi (ognuno di circa 30 minuti).

Remake della serie norvegese (in due stagioni sempre su Netflix) Natale con uno sconosciuto di Per-Olav Sørensen, la serie è diretta dai CRIC (Davide Mardegan e Clemente De Muro), ed è ambientata in una Chioggia fatta di lucine e presepi che odorano di muschio, che le regala una delicata atmosfera romantica.

Protagonista l’imperfetta ma sensibile trentenne Gianna (Pilar Fogliati) alla ricerca dell’amore (e non solo a Natale, che lo richiede) e del suo posto nel mondo.

Gianna (che i genitori hanno chiamato così a causa della canzone di Rino Gaetano, poteva andarle peggio, dice, potevano chiamarla Rina o Gaetana…) è un’infermiera con solide amicizie, il suo lavoro è una vocazione, ama il prossimo ma… non ha un fidanzato. È tremendamente single, e a Natale davvero non si può… È quindi convinta che il Natale ce l’abbia con lei, la odi e la giudichi.

Le domande dei parenti poi, “non sei ancora fidanzato/a?”, “stai con qualcuno/a?”, “sei ancora single?”, “cosa aspetti ad avere dei bambini?” sono sempre lì in agguato, un po’ come l’insopportabile “cosa fai a Capodanno?”

Tra canali, ponti e piazzette, sempre in sella alla sua bicicletta rossa, Gianna, che dialoga direttamente con lo spettatore in una sorta di videodiari, cerca la sua direzione fra appuntamenti quasi al buio con il liceale Davide (Nicolas Maupas, che abbiamo visto in Mare fuori o in Un Professore), con il ricco ma sfortunato Carlo (Marco Rossetti) o lo stranissimo Mario (Alessio Praticò).

Con Gianna ci sono le fedeli amiche, la donna in carriera Titti (Beatrice Arnera), l’ancora vergine Caterina (Cecilia Bertozzi) e una sorella, Margherita (Fiorenza Pieri) in crisi con un marito assente. Sarà proprio Caterina a vivere uno dei momenti più poetici della serie, quando Diego, un ragazzo sordomuto (Alan Cappelli Goetz) trova il coraggio di esprimerle i suoi sentimenti. Era lui che le lasciava degli origami nel cestello della bicicletta. Nella lingua dei segni, le apre il suo cuore: “Eri tu che trasformavi i miei giorni in vita”.

Ma il Natale continua a parlare di coppia e famiglia e lei avrà 24 giorni per presentarsi accompagnata alla cena della vigilia, la prova generale. Inizia il conto alla rovescia per presentarsi in coppia dai genitori (interpretati da Sabrina Paravicini e Massimo Rigo).

Un mix di racconti, sorprese, risate e sentimenti che fanno bene.

Tanti sono i motivi per vedere questa simpatica serie e passare momento spensierati sorridendo ma anche riflettendo. Siamo (o almeno siamo stati) tutti Gianna, tra errori e malintesi, voglia di starsene insieme ma anche di abbandonare chi, in fondo, ci faceva solo stare male (e quanto tempo per rendersene conto, a volte). Abbiamo avuto spesso voglia di confessarci, di essere ascoltati e presi per mano o sottobraccio, di ammettere errori e fragilità, senza essere giudicati.

La complicità femminile, fra le risate, e l’attesa della persona gusta, ci accomunano.

E ancora, come per Gianna, a sorreggerci ci sono famiglia e amici, quel calore rassicurante che avvolge e protegge. I pilastri che non crollano mai.

E poi ci sono le luci di Natale riflesse dall’acqua, i mercati del pesce, la nebbia del primo mattino, il calore di una comunità dalle antiche abitudini e tradizioni che continua a vivere la festa più attesa dell’anno come una benedizione. Oltre al piacere di ritrovarsi, di stare tutti insieme attorno a un tavolo imbandito, per condividere bei momenti. Sorridendo.

E poi e poi…Pilar Fogliati, l’attrice che ha esordito al cinema con Forever Young di Fausto Brizzi e che abbiamo visto nelle serie di successo Un passo dal cielo o Cuori, oltre che al timone di Extra Factor con Achille Lauro, è davvero bravissima.

Ecco perché Odio il Natale è da vedere, anche per ritrovare un po’ della magia perduta di questa bella festa, travolta dal consumismo.

In attesa della seconda stagione, intuita dal finale aperto (un clamoroso cliffhanger…) e già confermata.

Foto in evidenza di Erika Kuenka, Netflix

Emergency resterà in Afghanistan

da Emergency

EMERGENCY conferma di proseguire il suo impegno in Afghanistan nei suoi 4 ospedali e oltre 40 posti di primo soccorso pur esprimendo grande preoccupazione in merito al recente annuncio del Ministero dell’economia afgano secondo il quale organizzazioni non governative, sia nazionali che internazionali, non potranno più assumere donne afgane. Si tratta di un ulteriore provvedimento che mina i diritti delle donne e punta a ridurre il loro ruolo in diverse sfere della vita pubblica, dall’educazione al lavoro.

Il personale sanitario non rientra nel provvedimento previsto dalla legge, ma EMERGENCY chiede comunque alle autorità di riconsiderare questa decisione e permettere alle donne di continuare a contribuire allo sviluppo del loro Paese.

EMERGENCY dal 1999 ha garantito cure gratuite e di alta qualità a più di 8 milioni di persone in Afghanistan e attualmente gestisce tre centri chirurgici, un centro di maternità e 41 posti di primo soccorso distribuiti nel paese. Nel suo staff include e forma afgani in tutte le sue strutture; dello staff nazionale fanno parte 365 donne, 21% del totale. Le colleghe afgane sono una componente fondamentale del team, e permettono di curare pazienti donne che senza di loro correrebbero altrimenti il rischio di venire escluse dall’assistenza sanitaria.

Il Centro di Maternità di EMERGENCY ad Anabah, nella Valle del Panshir, è completamente gestito da donne e dal 2003 assicura cure prenatali, parti e cure postnatali a madri e bambini, contando oltre 470.000 visite ambulatoriali, 97.000 ricoveri e 73.000 nascite.

L’attività di questa struttura ha contribuito a ridurre la mortalità materno-infantile in una delle aree più complesse del Paese. Qui lavorano 114 donne tra ostetriche, ginecologhe, infermiere e personale non sanitario, e la sua scuola di specializzazione in ginecologia sta formando al momento 12 professioniste.

Qualsiasi tentativo di proibire l’assunzione di donne afgane avrà un impatto importante sulla capacità del personale di EMERGENCY di fornire cure e danneggerà, soprattutto, le attività rivolte a donne e bambini, incluse le prestazioni legate alla maternità, quelle ginecologiche e pediatriche.

EMERGENCY ha sempre dimostrato la propria sensibilità verso le differenze culturali durante il suo operato in Afghanistan, e si impegna a continuare le proprie attività finché sarà in grado di fornire assistenza a tutti coloro che si trovano in stato di necessità, senza discriminazioni e per mantenere la propria indipendenza. Le strutture di EMERGENCY proseguono nel loro lavoro come sempre con tutte le colleghe afgane che continuano a svolgere le proprie mansioni.

Attualmente EMERGENCY sta cercando di comprendere quali saranno le conseguenze di questa politica, quali le esenzioni del settore sanitario e l’impatto di questa decisione sulle sue attività.

Emergency

Cover: Foto di http://www.rimaflow.it