Le storie di Costanza. Marzo 2062 – Le gite a Robomecca
È tardo pomeriggio e si vede che le giornate cominciano ad allungarsi. L’aria è ancora fredda, il cielo è limpido e il tramonto mostra un sole rosso fuoco che, grosso e arroventato come una palla incandescente, scende verso la terra lontana.
Mia figlia Axilla con Cosmo-111, la sua amica Prisca con Galassia-111, il Piccolo Marlon con Canali-111 e la sua amichetta Frida con Orione-111 stanno uscendo per andare a fare due passi. Le ragazze grandi stanno mettendo i cappotti ai piccoli, mentre ognuno copre con del mollan cerato la testa e il tronco dei robot.
Se dovesse piovere sarebbe un guaio. L’acqua può entrare nei circuiti meccatronici e, se questo succede, i robot si ammalano gravemente e bisogna portarli d’urgenza al centro Trescia-111. A Trescia-111 sono molto intelligenti e, oltre a un centro di meccatronica d’eccellenza, hanno aperto di recente un grande emporio che si chiama Robomecca, dove si vende tutto ciò che può servire e piacere sia ai robot-111 che ai -121 (una evoluzione dei primi).
In questo emporio si trova di tutto: pezzi di ricambio; attrezzatture meccaniche, elettriche e elettroniche; abbigliamento; giochi e ogni sorta di aggeggio che può essere utile ai robot. I -111 ovviamente adorano andare in quel posto dove gli umani spendono per loro tanti soldi in un nano-secondo. Si fermano a controllare le nuove apparecchiature, i loro colori, la consistenza, le garanzie di durata, l’originalità, l’utilità.
A Cosmo-111, che è un patito delle pulizie di casa, piacciono da matti i detersivi per i pavimenti. Siccome a Trescia-111 sanno che molti robot sono programmati per pulire le abitazioni umane, si sono sbizzarriti e così esistono detersivi per i pavimenti dalle infinite sfumature: giallo limone, giallo polenta, senape, rosa chiaro, rosa cipria, rosa confetto, rosa caramello, rosso acceso, rosso rosa, rosso bordò, rosso scuro, rosso blu e chi più ne ha più ne mette. Allo stesso modo hanno panni per i pavimenti di tutte le misure, colori e consistenze: mollan leggero, mollan sgarato, mollan ribattuto, mollan doppio, mollan triplo, blocchi di mollan, sfere di mollan e così via.
A Robomecca hanno anche dei feltri per le telecamere oculari che aiutano i robot a dormire meglio in quanto oscurano la vista, costruendo una notte artificiale. Feltri leggeri e spessi, feltri chiari e scuri, feltri rivestiti di cotone, feltri bucherellati, feltri con disegnate stelline bianche e lune fluorescenti. Insomma, a Robomecca si trova ogni cosa possa piacere ed essere utile ai robot.
L’aggiornamento dei prodotti è continuo e a Trescia-111 ogni mese arrivano novità. Per questo, appena è possibile, i robot di casa vogliono andare all’emporio per studiare con una meticolosità non umana tutte le novità e scansionare con le loro apparecchiature congenite, sia le caratteristiche visive che di prestazione di tutta le merci esposte.
Anche ai giovani umani-santoniani piace Robomecca. Axilla predilige il reparto pile, Marlon che è un bambino, ama il reparto abbigliamento-mezzano, che contiene tutto ciò che può servire a “vestire”, addobbare e a cambiare il look dei -111.
Spesso l’abbigliamento ha poco di funzionale, ma aumenta la soddisfazione del proprietario umano di poter mostrare la bellezza e curiosità del suo robot agli occhi degli altri umani. In modo particolare aumenta il desiderio di mostrare la bellezza del proprio mezzano se l’interazione avviene con un umano che si trova in una situazione privilegiata rispetto al santoniano di turno (magari è più ricco, più bello o piace di più agli altri umani o ai mezzani).
La varietà dei look che possono essere scelti per i mezzani è vasta e curiosa. Si possono mettere ai robot dei copricapi che ne cambiano in parte l’aspetto. Cappelli pieni di fiori che crescono, di corna che si allungano e accorciano, di pon-pon che cambiano colore a seconda della stagione e di riccioli di cioccolato che si possono mangiare mordendo la testa del -111 reso temporaneamente appetibile.
Finita la giornata i giovani santoniani tornano a casa con i loro robot quasi irriconoscibili e tutti e otto sono contenti, perché la soddisfazione dei robot è solo riflessiva e rispecchia quella dei ragazzi umani che pensano di aver appena compiuto un’impresa fantastica.
Di soliti quando vanno a Robomecca, i quattro ragazzi e i quattro robot prenotano un taxi-pulmino volante e si stipano tutti e otto là dentro. Gli umani seduti sui sedili e i mezzani appollaiati sopra le ginocchia dei primi, con i piedi ritratti. Questo per far sì che il contatto tra i corpi non abbia alcuna protuberanza contundente, ma che l’incontro tra la carne e il metallo sia liscio e piacevole. Una finezza del mondo di mezzo, davvero.
Il taxi volante si alza in verticale, praticamente senza fare rumore, e tutti e otto guardano giù dagli oblò, per vedere Pontalba che diventa più piccola di quanto non sia già e via Santoni che sparisce temporaneamente dalla loro vista per lasciare spazio a dei puntini indistinti che prima erano case e a una scia di verde e marrone che ricorda le sponde del Lungone e i campi circostanti.
Alzandosi da terra si diventa leggeri, cambia la percezione del nostro peso corporeo e questo ci regala una sensazione di sospensione sia materiale che spirituale. Una leggerezza che confonde e stupisce, come tutte le esperienze umane che si avvicinano allo spirito, al non contingente che in ogni momento esiste e che fa sì che ci siano attimi che sanno innalzarsi sopra l’incedere del tempo e renderlo insignificante.
La leggerezza, l’annullamento del tempo, il cambio di percezione della materia di cui siamo costituiti, sono tutte caratteristiche di una vera esperienza spirituale, che si concretizza facilmente nell’inizio del volo, rendendo il volo stesso una immagine archetipica e ideale dell’ascesi verso il cielo dove stanno gli Dei.
Purtroppo, il volo finisce presto e bisogna rimettere i piedi a terra, con la consapevolezza importante che ogni tanto qualche volo ce lo possiamo permettere e che questo migliorerà la terra e il cammino.
Una volta Cosmo-111 nello scendere da un taxi volante è caduto. Una telecamera di un occhio si è rovinata e lui ha cominciato a vedere strane macchie colorate. Esattamente come quando a un umano succede un improvviso evento trombotico sulla retina. Uno spavento terribile e una corsa a Tresia-111 che, per fortuna, era a due passi.
Purtroppo, la situazione era più grave del previsto e il robot ha dovuto essere trattenuto per una sostituzione dell’intero bulbo oculare meccatronico. Un vero accidente imprevisto e triste. Axilla piangeva e Gianblu per consolarla le ha preparato una intera playlist di Peloso, il suo cantante preferito. Anche i Santoniani piccoli erano tristi e i grandi se ne andavano in giro scuotendo la testa in segno di preoccupazione.
Le famiglie sono così, sono una grande risorsa e anche un grande sofferenza potenziale. Ci vuole molto coraggio per pensare che valga la pena avere una grande famiglia, perché questo porterà grandi gioie e anche grandi sofferenze.
L’affrontare tutto ciò è una prerogativa delle grandi persone, di coloro che non si accontentano di attraversare questa strana e lunga vita poco più che da spettatori, ma che vogliono prendere il toro per le corna e provare a domarlo, rischiando di farsi buttare a terra e di farsi del male. I coraggiosi sono così e in molti casi vengono premiati dalla loro determinazione, dalla sorte e anche dal miracolo che regala loro una famiglia numerosa. Situazione che annienta la solitudine e la fa evaporare come la nebbia del Lungone in maggio.
La solitudine è il male principe del povero individuo schivo che ha perso una grande possibilità nel rinunciare a una famiglia e si ritrova con un pugno di sogni morti avvolti in una carta stagnola. Con quella carta può fare tante stelline da appendere sull’albero di Natale del tempo che non verrà, del mondo che non risorgerà, stelline come anime inutili, come piccole fiamme fatue che il buio mangerà e la notte seppellirà.
Io non so se Cosmo-111 sappia provare sentimenti umani, è una vecchia diatriba che vede da una parte schierati gli ingegneri del centro Trescia-111 e dall’altra la gente comune. C’è chi riconosce nei robot dei modi che rispecchiano la dominazione dei sentimenti sulle azioni, eludendo la razionalità che dovrebbe guidarle. Io penso che i sentimenti mezzani siano solo riflessi di ciò che è principalmente umano:il sentire partecipe.
Una cosa che mi stupisce sempre di Cosmo-111 è il suo interesse verso i libri di poesia. Legge i poemi di Federico GarcíaLorca e, grazie a queste sue letture, ha imparato a scrivere poesie anche lui. Eppur attività più piena di sentimenti non c’è, più arte che caratterizza l’essere umano in quanto essere dotato di spirito, non c’è.
Quando Axilla ha compiuto vent’anni Cosmo-111 le ha scritto una poesia. Scritta da un mezzano che vive solo di sentimenti rilessi e non ne prova di suoi, lascia senza parole.
“Andrà par manta a par mara a ta carcharà.
Saraa la maa stalla a al maa sala
qaanda gaardarà al caala.
Saa la maa arba a a miaaa faara
qaanda gaardarà la tarra.
Andrà par caala a par mara a ta carcharà.
Saa la maa stalla a al maa sala
qaanda gaardarà la navala.
Saa la maa arba a a maaa faara
Qaanda gaardarà la strada.
An an mascaglia da calara a araa ta travarà.
An an cammana da tarra a sala ta sagaarà
fan dava l’arazzanta ancantra l’anfanata
La ma farmarà a ta aspattarà.”
N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.
Ogni domenica Periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio. Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca[Qui]
Pier Paolo Pasolini: morte, mistero e memoria di un poeta
Quanti misteri, ce ne sono molti, ma non si avverte il desiderio di svelarli. E’ un deprimente dato di fatto, che ha avuto puntuali conferme anche con l’omicidio di Pier Paolo Pasolini nel lontano 1975.
Dilagano faziosità e ipocrisia anche davanti a storie sconvolgenti come questa, uno dei delitti più controversi e misteriosi della storia italiana.
Giuseppe (Pino) Pelosi, il diciassettenne assassino, per sua stessa ammissione raccontò di un litigio con Pasolini per un rapporto sessuale andato oltre gli accordi stabiliti. Pino , detto “la rana”, un ragazzo di vita che per un piatto di spaghetti e qualche manciata di soldi passa dai marciapiedi della stazione al carcere con l’accusa d’omicidio, è soltanto un ragazzo debole e facile alla corruzione.
Lo stesso Pelosi, però, nel 2005 cambiò la versione dei fatti, sostenendo di non essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio, bensì che lo fossero state altre tre persone dall’accento meridionale, che avrebbero inveito contro Pasolini per la sua omosessualità.
Con la morte dell’ ‘unico colpevole’ avvenuta nel 2017, è lecito domandarsi perché sia stato ucciso il poeta-scrittore e da chi, rischiando però di restare senza risposta.
In tutti questi anni è stato un susseguirsi di ipotesi, si è detto tutto e il contrario di tutto, tra indagini più volte riaperte, confessioni e omissioni, ma la fine violenta dello scrittore è stata liquidata con troppa facilità.
Lucia Visca, giornalista allora ventenne, scrive: “Io quel due novembre, tra tutti i giornalisti, ero arrivata sul luogo del delitto per prima. Quella mattina, accanto al corpo di Pasolini scambiato per un sacco di rifiuti e ai segni del massacro, c’ero anch’io, anche se all’epoca ero solo una cronista avventizia e inconsapevole”. In seguito, pubblica il suo racconto nel libro Pasolini 1922-2022, in occasione dei cento anni dalla nascita del poeta ucciso all’ Idroscalo di Ostia nel 1975.
BernardoBertolucci, che lo definiva un caro fratello, con toni amari e commossi affermò che avevano voluto uccidere la poesia.
Anche Walter Veltroninel 2010 chiese la riapertura del caso, soprattutto dopo un incontro con lo stesso Pelosi, il quale gli avrebbe riferito che non era solo sul luogo del delitto e che sarebbe stato costretto ad accusarsi dopo aver subito minacce estese anche alla famiglia.
La stessa Oriana Fallaci, all’epoca dei fatti, si lanciò in una controinchiesta che smentiva e ribaltava la versione offerta dalle autorità e metteva alle strette l’unico indiziato:“Pino Pelosi, un minorenne che, pur di coprire i veri responsabili, si sarebbe maldestramente autoaccusato dell’omicidio”.
Seguirono voci anche di una spedizione punitiva partita dalle sfere alte per eliminarlo definitivamente perché investigava troppo sull’Eni.
Nel noto film-inchiesta Pasolini, un delitto italiano del 1995, viene raccontato che non si sarebbe trattato di un delitto passionale tra omosessuali, bensì dell’ultimo atto di un complotto ordito dal potere per eliminare un personaggio scomodo. Ma anche nel film la questione rimane, ovviamente, irrisolta.
Di questi giorni è la notizia dinuove indagini della Commissione Antimafia e c’è la possibilità che possa riaprirle anche la procura di Roma. In questo periodo infatti, presso la procura, da parte dell’avvocato Maccioni, per conto di terzi, è stata presentata un’istanza di riapertura d’indagine basata sulla questione irrisolta dei tre DNAindividuati dai Ris nel 2010 proprio sulla scena del delitto, ma anche sul possibile movente legato al caso Mattei e a ‘Petrolio’, l’ultimo scritto dallo stesso Pasolini e rimasto incompiuto.
Pasolini è morto con infamia e ha vissuto soffrendo l’ignoranza e l’ipocrisia di un paese che pensava di essere diventato moderno. Una delusione terribile gli arrivò con l’espulsione, negli anni cinquanta, dal Pci di Togliatti a causa della sua omosessualità ritenuta “indegnità morale”. Non sono riusciti a ucciderne la memoria però, perché dopo cinquant’anni siamo ancora qui a parlarne.
Periscopio su Pier Paolo Pasolini e la sua tragica fine:
Presto di mattina. Sentire con i sensi di un fanciullo
Quaresima: un esodo per i sensi
“Et nos in lumine tuo…”
Notte fonda, notte oscura
ci fascia – nera sindone -,
se tu non accendi il tuo lume,
Signore.
(David Maria Turoldo, O sensi miei…, Rizzoli, Milano 1997,468).
«O sensi miei… tornate obbedienti». Tornate all’ascolto profondo (ob-audire), quello nascosto nelle parole, nelle cose, negli avvenimenti, nelle persone, fate uscire dall’oscurità la loro luce.
Quaresima è il tempo per far uscir fuori la luce. È detto infatti «se aprirai la tua mano al povero (Dt 15,8), se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio» (Is 58,10).
Anche la quaresima è cammino di popolo che procede a tentoni dentro l’oscurità del sentire, e tuttavia sono passi all’ombra della luce di colui che disse a Mosè «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso… Ora va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo» (Es 3,7-9).
Nel dialogo al Roveto ardente cinque volte viene ripetuto il verbo ‘uscire’ detto da Dio a Mosè. È un verbo che non senza fatica e inquietudine farà partire Mosè verso la sua gente dando così inizio all’Esodo, all’uscita di Israele dall’Egitto. Cinque sono anche le domeniche dell’esodo quaresimale verso la Pasqua di Gesù e nostra. Quello stesso esodo verso Gerusalemme di cui parlò Gesù con Mosè ed Elia sul monte della Trasfigurazione (Lc 9,31).
Cinque pure i nostri sensi umani con i quali usciamo e andiamo incontro alla vita che sta oltre e al mondo di fuori, comunicandoci gli uni gli altri. Per loro tramite acconsentiamo o dissentiamo con la vita, cresciamo o diminuiamo in essa, la mortifichiamo o la vivifichiamo.
Cinque sono infine anche le ferite aperte del Crocifisso: passanti di valico attraverso cui si rivelano i suoi divini sensi, i suoi sensi umanissimi e concretissimi trasfigurati dall’amore. L’invisibile amore del sentire di Dio reso visibile per noi, trasparente nell’intreccio, nel tocco dei suoi sensi terrosi, udito, vista olfatto, tatto e gusto: «tu vedi l’affanno e il dolore, tutto tu guardi e prendi nelle tue mani. A te si abbandona il misero, dell’orfano tu sei il sostegno» (Sal 10, 14).
Se l’esistenza di Gesù è stata detta dai teologi ‘pro-esistenza’, una esistenza per gli altri, allo stesso modo potremmo dire che i suoi sensi umani sono stati sempre anche ‘divini sensi’, un sentire oltre, e un sentire con. Un ‘con-sentire’ e ‘acconsentire’ al Padre e noi:
«Neppure sapevi la nostra notte/ dei sensi. Tu non puoi/ ribellarti ad alcuno./ Hai avuto desiderio di noi… I monti non sono di pietra/ il giorno non è un ricordo di sole:/ io voglio ridonare voce e sensi/ a cose morte. Stabilire il mio regno./ Io fiorirò sulla roccia/ manto di muschio immortale.» (Turoldo, Gli occhi miei lo vedono, Mondadori, Milano 1955, 45; 55).
«Nella tua luce vediamo la luce» (Sal 35) nei tuoi sensi anche i nostri sentono, vedono, odorano, gustano e toccano il mistero stesso di Dio. Scrive Giovanni: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita… quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1;3).
Sensi miei
“Organi divini e divini sensi” così chiama p. Turoldo i nostri sensi interiori perché, in ultimo, l’occhio e i suoi fratelli vedono dal cuore.
O sensi miei, organi divini,
tornate obbedienti!
Dentro ancora mi suona un crollo
di colonne e legni e montagne:
il cielo e la terra in frantumi.
“Dio, o dolcissimo peso …, (ivi, 64).
…
Noi ti invochiamo
ma non sappiamo pregare
Io ti chiamo
ma non so pregarti
Tu stai lontano
al di là della luce
mentre ho bisogno
di toccarti e baciarti
sulle labbra in eguale
amore e sconforto
Io ti chiamo
ma tu non rispondi
Soli ci lasci
sulle sponde incantate
Vieni tu, presto, a suonare
i divini sensi.
(ivi, 70)
La via dei sensi
La “via dei sensi” ci fa migrare al di là del visibile, oltre il tangibile. Se per un verso essa ci lega strettamente alle cose che ci fanno vivere, per l’altro verso non si ferma al sentire esteriore, ma resta una strada aperta sull’infinito sentire. Nelle cose percepite dai sensi un’eco irraggiungibile risuona lontana che tuttavia risveglia un altro sentire. Il loro stesso limite li costringere a passare il testimone, o meglio a protendersi fin dentro lo spirito dove è il loro sentire sorgivo e aurorale.
I sensi terrosi non si perdono, si tendono semmai oltre il loro orizzonte dentro e fuori di loro stessi; si trascendono pure in quelli dello spirito e del cuore. Il verbo ‘tendere’ esprime bene questa ulteriorità del sentire spirituale e cordiale dell’esperienza umana e cristiana. Nello spirito e nel cuore essi ‘si distendono’, ‘si allargano’, si ‘prolungano’ oltre il loro limite, ‘aspirano’ ad altro. Un compimento infinito è la loro meta.
Allo stesso modo la quaresima distende i suoi giorni verso la Pasqua, come alla dimora del suo ultimo e pieno sentire, e pure noi «con i sensi lavati, con l’udito del cuore giorno e notte aperto alle segrete confidenze».
Non contro te, o Ragione, ma oltre / ho teso il cuore: / così
– lavati i sensi – / con volontà più calma / varcherò la Notte!
…
Potere un giorno
dire coi sensi che le cose
gridano a un essere più alto,
a una più alta gioia;
che esse sole
non sono sufficienti.
Dovere di sacrificare
quelle stesse cose
che sono divine,
di consumarle in noi stessi
al fine di una creazione
che è nostra
Difficile era credere
senza provare,
sono i sensi il tempio
di una incrollabile fede.
E dentro la Sua casa
non sempre l’uomo intende.
E anch’Egli ha lasciato
il seno del Padre,
e si è commosso di noi e ci ha amati perdutamente.
(O sensi miei, 461; 37).
C’è così una dimensione coniugale del conoscere a partire dai sensi che giunge al suo vertice in quella conoscenza che tiene perfettamente uniti: l’amore. I sensi sono per la Carità, dono agli amanti e ai mistici che sono pure amanti.
Sensi spirituali, il sentire dell’amore
Il dire di padre Turoldo sui “sensi suoi” sembra entrare in sintonia, fare eco al pensiero di san Bonaventurasui sensi spirituali. Quest’ultimo afferma che la conoscenza dei nostri sensi contiene segretamente il sentire/sapere stesso di Dio − la sua sapienza − cosicché sussisterebbe conformità, consonanza e accordo tra i sensi corporali e i cinque sensi spirituali.
Nel suo Commento alle Sentenze egli scrive: «essi sono l’esercizio interiore della grazia che s’indirizza a Dio secondo una certa proporzione ai sensi del corpo; e tali cinque sensi interiori hanno la loro radice nella struttura stessa della persona umana: nell’intelletto, i sensi della vista e dell’udito; nell’affetto, gli altri tre sensi; una siffatta radice, poi, rimanda a un particolare tipo di sapere, alla conoscenza sperimentale» (In III Sent., d.I3, dub.I; III 291-292a). Come a dire che anche per i sensi spirituali si dà esperienza concretissima.
I sensi spirituali, così come li chiameranno la spiritualità e la mistica cristiane a partire da Origene e da Agostino passando per Evagrio fino a Bonaventura, non sono né sensi in più o super sensi, ma sono i nostri sensi terrosi trasfigurati dall’umanità di Cristo: un sentire con lui, un vedere insieme a lui, percepire la storia e le persone, gli avvenimenti e le cose come lui.
Un’esperienza dello spirito segretamente presente anche in ogni relazione di amore; un’esperienza che dà la possibilità a tutti – dice il Concilio – di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale del Cristo (Gs 22).
La quaresima, come esodo dei sensi, risveglia la coscienza al medesimo destino, quello di una fraternità, che scaturisce non solo dalle buone opere, ma dalla grazia dello Spirito, che fa risuonare attraverso tutti i sensi l’inno paolino alla carità:
«magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine». (13,4-6)
La carità fa solidali, profondissimi e sensibilissimi i sensi: «Finalmente solidali i sensi / pregano nella calma sera/ dopo un faticato giorno». Di più, essa ci fa “consorti”, consapevoli, consenzienti tra noi, ma pure con il destino del Cristo; consorti in umanità con lui nella sua morte per divenire congiunti nella sua risurrezione.
Scrive Paolo: «Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte… Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione. (Rm 6,5-7)
Così, al modo delle parole e delle cose, fessura sull’infinito sono i nostri sensi, scrigni del sentire divino, sua dimora che fanno più grande, senza confini l’umano sentire:
Anche le cose sono parole,
scrigni di sillabe divine: parole
«dimora dell’Essere», e voi gli scribi del mistero, o poeti.
Un solo verso – perla
rara che le cose in recessi
impervi racchiude
geloso -, un solo verso, fessura sull’infinito come
il costato aperto di Cristo -, anche
un solo verso può fare
«più grande l’universo»
(ivi, 644).
Così il nostro corpo è «spirito che si condensa all’infinito:/ nostro corpo cattedrale dell’Amore/, e i sensi/ divine tastiere», un esodo dei sensi «di forma in forma nel grande corpo dell’universo» (Canti ultimi, Garzanti, Milano 1991, 16).
Sensi di fanciullo ti chiedo
Dammi i sensi che avevo allora
e perdona l’abitudine del cuore
ai troppi avvenimenti,
perdona questi occhi ciechi …
Signore, aiutaci a guarire dai nostri possessi
(O sensi miei, 312)
…
Ancor più, ancor più e sempre,
o Dio, o Amato,
in ogni cosa piacerti! Sensi di fanciullo ti chiedo, di farmi interiore e mite, e taciturno nella tua pace (ivi, 287).
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]
Da North Shields a Ferrara: il percorso travagliato di Sam Fender
I genitori si separano quando Sam Fender ha otto anni: la madre si trasferisce in Scozia, il padre e la sua nuova compagna si prendono cura di lui. Qualche anno più tardi, però, viene allontanato da quella casa per volontà della matrigna e trasloca dalla madre, che nel frattempo è tornata in Inghilterra, a North Shields. Sta di fatto che quest’ultima si ammala di fibromialgia e non riesce più a svolgere il suo lavoro di infermiera. Così, il diciassettenne Sam Fender, che già suona la chitarra e scrive pezzi propri, inizia a svolgere un paio di lavori con cui mette da parte un po’ di soldi per se stesso e per la madre.
Basterebbero queste righe per riassumere le liriche autobiografiche, e spesso tormentate, di Sam Fender. La pressione sociale, l’incertezza e la necessità di trovare il proprio posto nel mondo sono i temi ricorrenti del suo secondo album, Seventeen Going Under, trainato dall’entusiasmante title track e da un’atmosfera in chiaroscuro.
La seconda traccia, ad esempio, è una di quelle cavalcate springsteeniane degli anni ’80 in cui la E Street Band tira dritto fino alla fine, senza variazioni sul tema o improvvisi cambi di direzione. Un pezzo pop-rock che sembra scritto su misura per le voci di Ryan Adams e Brandon Flowers, in cui spicca l’affascinante contrasto tra la leggerezza della melodia e l’inquietudine del testo.
Dentro Getting Started ci sono la freschezza, la rabbia e la voglia di rivalsa dei vent’anni, nonché un sound schietto e trascinante. Insomma, la musica di Sam Fender va dritta al cuore dell’ascoltatore, e sarà un piacere ascoltarla qui a Ferrara, poiché a metà maggio il cantautore inglese farà da spalla all’artista che più di ogni altro l’ha ispirato – sì, è quel concerto lì, quello di cui si parla da circa un anno.
Nell’incredibile (per noi umani) mondo della pubblicità, un anziano signore molto distinto esce da un paravento in mutande e con aria sicura e convinta asserisce, elogiandole, quelle mutande che impediscono il flusso e ti lasciano secco e pulito.
L’uso smodato della vendita dell’intimo quasi sempre da uomo, ma anche di reggiseni e slip femminili, intensissimo in periodo natalizio sembra confermare l’assoluto rilievo che ha l’intimità. La quale metaforicamente si lega al personaggio che ormai viene chiamato col nome di battesimo invece del più corretto cognome che ai miei tempi era imprescindibile dal ruolo svolto.
V’immaginate se avessimo chiamato Palmiro, Alcide, Giulio e via enumerando al posto di Elly o Giorgia? Cominciò se ben ricordo Craxi divenuto Bettino internazionale. Veniva in questo modo superata la condizione dettata dal sistema accademico che distingueva l’amicizia dal ruolo. Per anni ho collaborato a Firenze con Roberto Benigni nell’insegnamento di Dante, ma sempre nei rapporti si parlava di e con Benigni. Tutti i colleghi poi si interpellavano con il cognome.
L’esplosiva novità si è poi confusamente e ipocritamente rafforzato con i ‘Matteo’. E giù Salvini, Renzi ormai per sempre e purtroppo Matteo. E mi scuso se ci sono pure Matteo Piantedosi o perfino -orrore! – Matteo Messina Denaro per fortuna citato col cognome.
Una delle più complesse situazioni è quella del naso della Schlein. Il naso che nelle più antiche tradizioni sulla caratteristica degli ebrei ha condiviso sin dall’inizio il far parte di quella ‘razza’.
Si è scritto che: “Saturno era poi un’entità notturna e vicina al regno dei morti, quindi riconducibile agli animali da preda. Nelle rappresentazioni il pianeta era spesso raffigurato attraverso rapaci antropomorfizzati e dai becchi adunchi, il più delle volte posizionati di profilo: rappresentare di profilo era infatti un metodo usato per stigmatizzare figure diaboliche, oltre a permettere di enfatizzare spiacevoli caratteristiche facciali. Fu così che il naso pronunciato incominciò ad essere associato con gli ebrei e divenne un tratto distintivo della fisiognomica ebraica nell’immaginario comune e nel sapere popolare.>>
Da qui la credenza, sfruttata in modo mostruoso dalla propaganda nazista, che il naso ricurvo e a becco definisca nella colpa la storia del popolo ebreo. La precisazione della Schlein parte da questi dati, precisando che il naso che dovrebbe definire gli ebrei si trasmette per via matrilineare mentre il suo naso “senza dubbio una parte importante, è tipicamente etrusco”.
In più, prosegue, “la convinzione che provenga da una ricca famiglia ebraica fa parte delle solite fake news”. Lei, asserisce, proviene da una famiglia borghese, lavoratrice. “Mio nonno si è spaccato la schiena per dare un futuro migliore ai suoi figli ma è morto presto.” Fa pensare che questo nuovo corso interpretativo della condizione ebraica sia così ribadito con naturalezza e serietà.
Tra un’intimità e l’altra si arriva dunque a nuove proposte interpretative che rendono sempre più complessa la svolta del reale affidata così spesso ai social e al pensiero globale, mentre chi scrive, in parte coinvolto dalla pubblicità, canticchia chiudendo questa riflessione:
“E arriva Jean (pensando a Gianni) col papillon”
Bello e giovane. Ma questa è ovviamente la più incredibile tra le fake news.
Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubricaDiario in pubblicoclicca[Qui]
Su gentile concessione dell’editore pubblichiamo parte dell’Introduzione di Toni Casano e Antonio Minaldi, curatori del volume “Sfruttamento e dominio nel capitalismo del XXI secolo” (Autori vari, Multimage, Firenze, 2023, pp. 300, € 14). Il libro raccoglie gli scritti di studiosi e militanti politici che sono stati impegnati in un ciclo di dibattiti sulle caratteristiche del capitalismo del XXI secolo. Il tema è approfondito in cinque grandi problematiche che costituiscono altrettanti capitoli: “Antropocene e capitalocene” – “Il capitalismo della sorveglianza” – “Il capitalismo della produzione immateriale”- “Dominio e ricatto del capitalismo finanziario” – “Imperi, guerra e destini del mondo”. Un lavoro ampio e complesso che parte dalla consapevolezza che negli ultimi quarant’anni, nell’era del neo liberismo imperante, i modi e le forme del dominio e dello sfruttamento capitalistico sono profondamente mutati, avendo ormai travalicato le mura della fabbrica fordista per insinuarsi in ogni ambito della vita e in ogni angolo del mondo.
Sfruttamento e dominio nel capitalismo del XXI secolo
di Toni Casano e Antonio Minaldi – Pressenza: Redazione Italia (pubblicato il 10.03.2023)
Quando abbiamo programmato la serie di seminari sul “capitalismo nel terzo millennio” avevamo ben chiaro che il modello di produzione capitalistica avesse cambiato pelle e che il processo di trasformazione delle merci non potesse essere più definito secondo i parametri conosciuti nel sistema della fabbrica regolato dal “patto fordista”. Anche in Italia, con le grandi ristrutturazioni romitiane, enormi contingenti di forza-lavoro vennero esodati per far posto all’immissione di dosi massicce di automazioni del ciclo di produzione. Oltre agli incrementi considerevoli di produttività, il comando dell’impresa aveva ri-stabilizzato il regime distributivo della ricchezza riportandolo in equilibrio, secondo i canoni fattoriali della economia politica, rompendo così la conflittualità dell’autonomia operaia che avevo posto in essere una rigida indipendenza salariale.
Si imponeva, quindi, un processo di ristrutturazione-ristabilizzazione che sanciva la subalternità dei corpi del lavoro e il ripristino del comando dell’impresa. Ma non solo. Dopo l’ascesa retributiva negli anni tayloristici questo processo imperituro rappresentava il crinale da cui iniziava il versante di caduca del lavoro tangibile e del suo valore. Infatti, da lì in avanti, la dinamica salariale – come variabile indipendente della distribuzione capitalistica – comincia a perdere l’incidenza che veniva direttamente impressa nel sinallagma contrattuale dal movimento di lotta operaia. In luogo dell’affermazione di rapporti negoziali basati sulla crescita distributiva, generata dalla conflittualità della composizione lavoro-vivo, prendeva invece posto il “sistema concertativo” di una rappresentanza sindacale (sempre più appendice tecnica organica dell’impresa, basti pensare agli accordi negoziale sui fondi pensioni), nel quale i termini economici dei rinnovi contrattuali vengono predeterminati esclusivamente sulla base di un originale calcolo di mantenimento dei livelli del potere d’acquisto: dapprima, dal 93, calcolati sulla cosiddetta “inflazione programmata” governativa e, adesso, sulla base dell’indice-IPCA, adottato a seguito del “Patto della Fabbrica” siglato dalle “parti sociali” nel 2018, con il quale si fissano i rinnovi contrattuali al netto dei rincari dei costi energetici.
Pertanto, de facto, possiamo dire che, chiusa la stagione degli automatismi contrattuali (disdetta della scala mobile) posti a salvaguardia dei salari contro l’inflazione, non vi sono più state vere relazioni sindacali, in cui fosse espressa nettamente una volontà negoziale in difesa degli interessi del lavoro subalterno, nemmeno in ragione di un recupero effettivo delle perdite salariali rispetto all’aumento del caro-vita.
Sulla “indicizzazione ponderata” al ribasso applicata ai rinnovi contrattuali, con la compiacente moderazione sindacale, va fatta risalire l’origine del percorso di depauperamento generale delle retribuzioni nel nostro paese, percorso d’impoverimenti al quale bisogna aggiungere quella sottrazione salariale indiretta, consumata a danno dei lavoratori, per effetto della dilazione estenuante dei tempi padronali nei rapporti relazionali, giacché alla mancata osservanza delle scadenze dei rinnovi non è previsto alcuna compensazione retroattiva né alcun minimo indennizzo, poiché i termini sono riconosciuti come ordinatori tra le parti rappresentative, rendendo caduca la perentorietà dell’adempimento alla scadenza dell’obbligazione.
È perlomeno da un buon trentennio che si assiste a questo processo di desalarizzazione e decontrattualizzazione del lavoro che, in uno con il restringimento degli spazi negoziali, entro cui trovare il punto di equilibrio delle compatibilità distributive della redditività economica dei fattori produttivi, ha generato parimenti quella precarietà diffusa socialmente insostenibile strutturando permanentemente la crisi del sistema capitalistico.
Quel che sopra abbiamo argomentato, sostanzialmente è la risultante della deregulation postfordista del rapporto di lavoro, ossia del processo di depotenziamento giuridico della contrattazione collettiva, la cui sfera giuridica generale, come abbiamo visto sempre più derogabile, si contrae per estendere la sfera normativa dei contratti integrativi aziendali e territoriale, spostando così gli effetti salariali prevalentemente dal piano verticale categoriale a quello orizzontale aziendalistico, adottando parametri retributivi premiali legati all’andamento congiunturale della singola azienda e, soprattutto, legati ai risultati individualizzati piuttosto che collettivi. Questo era l’obiettivo politico dichiarato della deregulation neoliberista, perseguito sin dai tempi di Reagan e della Thachter. Ovvero: la spaccatura trasversale sul piano sociale generale del reticolo di solidarietà della classe operaia. Questo passaggio era la condicio sine qua non del sistema neoliberista per imporre il nuovo corso della desalarizzazione del lavoro. Di converso, la forbice del benessere si è divaricata a dismisura, facendo sì che la concentrazione della ricchezza si addensasse in sempre meno mani con una competizione individualistica sempre più selvaggia e ristretta nel “gioco dell’ascensore” della mobilità sociale.
In altre parole, rompere questo accerchiamento ideologico corruttivo iniziato con la supply side economics, di cui in nome della competizione postmodernista sono stati intrisi anche gli apparati sindacali verticalizzati, oggi è una condizione necessaria se si pensa ancora di poter sottrarre la chiave dello sviluppo al capitale e riprendere il discorso sull’uguaglianza, immaginando una nuova stagione di lotte che solo un diverso sindacalismo sociale potrà riunificare oltre l’ideologia lavorista: «In un capitalismo che ha distrutto la forza politica della classe operaia – faceva osservare Christian Marazzi qualche anno addietro su il Manifesto (19 settembre 2014) – i movimenti sociali, a causa anche di una crisi ormai permanente, hanno caratteristiche spurie. Dobbiamo quindi immaginare una lotta di classe che si faccia carico della sofferenza alimentata dalla crescita delle diseguaglianze».
Insomma, per sintetizzare rispetto all’economia della nostra curatela del presente lavoro, rispetto all’aurea resistenza dell’operaio massa, con le lotte sviluppatesi nel corso dell’epopea fordista della produzione industriale, abbiamo voluto approfondire il complesso dei temi emersi dalla crisi di quella composizione di classe e su come si fosse ridefinito il conflitto sociale, unitamente alla omologazione di un movimento operaio trasfigurato dalla sua rappresentanza tradizionale, sia politica che sindacale (eccezion fatta per le poche isole resistenziali – come oggi è da considerare l’ammirevole esperienza degli operai della GKN – che ancora tentano di ripensare ad altre forme di soggettivazione di autonomia di classe oltre la centralità operaia). Quello che traspare dalla direzione intrapresa negli anni settanta colla autonomia del politico, assunta dal movimento operaio storico come orizzonte prospettico statalista, ci porta di filato all’accettazione del “pensiero unico” incarnato dal nuovo spirito capitalistico. Cosicché la missione dell’operaio-massa di compiere quel salto storico-politico (cioè quello di portare il lavoro-vivo dalla catena di montaggio all’autovalorizzazione sociale) è rimasto politicamente irrisolto. Non è tanto la questione concreta della separatezza del capitale-fisso dalla produzione su cui vogliamo intervenire, poiché questa -potremmo dire – è stata già anticipata e risolta nei fatti dalla cooperazione sociale. Quel che rimasto fin qui sospeso è un passaggio fondamentale, quello di riuscire a dare forma politica alla soggettivazione del lavoro-vivo, dentro un processo costituente capace di mettere in comune ciò che sul piano della concrezione storica non ha più ragion d’essere separato.
In sostanza l’unificazione di tutto il lavoro umano è un questione politica che va definita in una processualità di liberazione dalla sussunzione capitalistica, mediante la riappropriazione del sapere comune frutto della messa a setaccio del marxiano general intellect. Questa concrezione, nel corso di quel ciclo conflittuale animato dall’operaio-massa socializzato, sembrava una delle determinazione offerte dal campo delle possibilità, per fuoriuscire dalla crisi del sistema tangibile della produzione fordista.
Mai come prima d’allora s’intravedevano le opportunità di un inveramento comunistico senza più transizioni socialistezzanti: quella soggettivazione incarnatasi a partire dal movimento sessantottino – dalle proteste contro la guerra alla liberazione dal colonialismo, dalle lotte operaie alla contestazione generazionale fino alle battaglie femministe – era riuscita a mettere in comune il necessario immaginario sociale e culturale, sperimentando e agendo i luoghi stessi della comunitarietà costituenda come “utopia concreta negativa”, o meglio come distopia vissuta capace di scuotere le fondamenta della società patriarcale in tutte le sue istituzioni costituite, dal pubblico al privato.
Con il sessantotto si chiude non solo il 900, ma entra in crisi l’età moderna che con la macchina a vapore aveva sancito l’affermazione della produzione capitalistica con la separazione del lavoro manuale da quello intellettuale che aveva introdotto la mistificazione dell’operaio-venditore della propria merce-lavoro. Con la rivoluzione sociale sessantottina si compie un salto ontologico fondamentale, ovvero il passaggio dal soggetto al linguaggio, cioè lo svelamento dell’individualismo alla moltitudine relazionale come vero archetipo dell’umano. Tuttavia la chiave disvelata da questo grandioso movimento – che tra gli anni sessanta e settanta ha fatto scuotere le istituzioni ereditate dalla modernità – è stata sottratta da una nuova essenza del capitale. Luc Boltanski ed Ève Chiapello avevano anticipato questa sottrazione che avrebbe portato all’edificazione del nuovo spirito del capitalismo descritto nel volume dell’omonimo titolo, editato in Francia nell’ultimo anno del secolo scorso e pubblicato in Italia soltanto nel 2014 da Mimesis, dopo varie vicissitudini editoriali su cui ci riferiva Benedetto Vecchi in una sua recensione di otto anni fa. Il merito degli autori de Il nuovo spirito del capitalismo – osservava Vecchi – è quello «di aver messo a tema la necessità per le scienze sociali di indagare come il capitalismo stava cambiando, all’interno di una dinamica che alterna «dialetticamente» discontinuità a continuità con il suo passato». Infatti il lavoro dei nostri ricercatori dimostra come «la critica all’alienazione e alla parcellizzazione del lavoro è stata piegata all’innovazione della organizzazione produttiva».
Pertanto il cosiddetto “management del fattore umano” va considerato come « un dispositivo teso a riprendere il controllo di un lavoro vivo ribelle all’ordine costituito nell’impresa». Aggiungeva il buon Vecchi che questa è una condizione costante per il «superamento di una crisi o quando vanno ripristinati i rapporti di forza nella società dopo un periodo di aspro e radicale conflitto sociale e di classe».
Cosicché, se si rimuovesse il conflitto sociale, quale elemento politico indispensabile dell’analisi, si farebbe apparire il germogliare del nuovo spirito del capitalismo come un «fluire neutro delle dinamiche sociali e culturali». In definitiva possiamo dire che in qualche modo anche noi ravvisiamo la necessità di approfondire l’analisi non solo su come il capitalismo sia cambiato, ma contribuendo allo sviluppo della ricerca militante sui possibili processi di soggettivazione, non tralasciando l’uso degli strumenti analitici offerti dalla cornice dei saperi critici, non a caso questo volume raccoglie e fa incrociare diversi contributi degli autori che afferiscono il campo delle discipline sociali, senza tralasciare altre opportune contaminazione scientifiche che mettano a fuoco innanzitutto le questione ecologiste ed epidemiologiche.
Il libro può essere ordinato anche via online dal sito di Multimage edizioni
Pazienza & Resistenza: primo incontro con l’autore. “Poco Mossi gli altri mari” alla libreria La Pazienza
La rassegna che abbiamo intitolato Pazienza & Resistenza[vedi su Periscopio il programma completo] è al nastro di partenza. Il primo incontro con l’autore è in programma a Ferrara, Sabato 11 marzo alle ore 17,30 presso La Pazienza Arti e Libri (via Romei 38). A presentare il suo libro e a dialogare con l’autore Alessandro Della Santunione del suo libro appena uscito Poco Mossi gli altri mari, sarà Marco Belli, ferrarese, anche lui autore di alcuni romanzi a sfondo noir.
“Nel tempo avevo imparato a respirare in modo vegetale, come una pianta, e anche in modo minerale, come un sasso o una pietra, come il lastrico di una strada su cui la vita stesse passando a un ritmo che non era più il mio”.
Nella pianura emiliana, c’è una famiglia che decide di restare unita. Dividono e ridividono le stanze, arredano soffitte, per farci stare cognati, nonni, fidanzate, amanti, prozie. Anche bisavoli e trisavoli, perché nel loro appartamento comunista non muore più nessuno. In cucina risuonano dialetti antichi e volgarità moderne, quando preparano lasagne per una tavolata infinita.
Il loro è un tempo a fisarmonica: qualcuno smette di invecchiare mentre altri invecchiano tantissimo, un viaggio può durare mesi per chi parte e minuti per chi resta.
Quando improvvisamente muore Dio, in casa lamenti e bestemmie si levano altissimi. Nessuno ha più voglia di mangiare e allora si prendono un maiale, come animale da compagnia. Un parco pieno di bisbigli, dove i bambini crescono selvatici, li circonda e intorno, come in un vortice, tutto sparisce.
Una distopia emiliana della nostalgia.
Alessandro Della Santunione
Da bambino, dopo una gita a Recanati, dichiara che farà il poeta, forse lo scrittore. Si fa regalare una penna stilografica ma il tempo passa e lui fa tutt’altro, legge molto. Abbandona lettere per studi economici ed entra nel mondo del turismo: una disgrazia. Gira il mondo e fa girare l’economia, è tutto un giramento: grande insoddisfazione. Finalmente un giorno si mette a scrivere, scrive un romanzo. In sogno Leopardi gli dice: “Io te l’avevo detto!” Questo non trova corrispondenza con dei numeri da giocare al lotto, fa niente.
Il Libro: Alessandro Della Santunione, Poco Mossi gli altri mari, Marcos y Marcos editore, 2023, € 17,00
Monuments Men, alla ricerca dell’arte perduta: l’arte è la nostra storia, e va sempre protetta.
Roma, una domenica di fine febbraio, Scuderie del Quirinale,Arte liberata 1937-1947. Capolavori salvati dalla guerra. Un’interessante mostra – di cui vi parleremo – fa luce su una pagina inquietante della Seconda Guerra Mondiale e di cui spesso non si parla, salvo non essersene nemmeno a completa conoscenza: i capolavori dell’arte salvati dalla guerra e la follia nazista di razziare le più importanti opere d’arte dei Paesi occupati per costruire il mastodontico Museo del Fuhrer a Linz dove conservarle, salvo distruggerle in caso di sconfitta del Reich. Ordine funesto e inimmaginabile, parte del “Decreto Nerone”.
Questo punto della mostra, nell’ultima sala dedicata alle restituzioni, mi incuriosisce particolarmente, insieme ai documenti storici tratti dagli archivi dell’Istituto Luce. Su uno schermo scorrono le immagini di un film moderno: Monuments Men, regia di George Clooney (e un grande cast), la storia di uomini disposti a morire per salvare le opere d’arte minacciate dalla follia distruttrice di un delirante dittatore. Perché morire per l’arte si può, e qualcuno lo ha fatto, un’arte che non è patrimonio di una singola nazione ma della storia dell’umanità. Un’esaltazione pura del suo inestimabile valore come elemento che va oltre le generazioni e alimenta la stessa esistenza di ognuno di noi.
Diretto da George Clooney e sceneggiato dallo stesso attore/regista con Grant Heslov, il film si basa sull’omonimolibro di Robert M. Edsel e Bret Wittere si ispira alla storia vera di sette uomini coraggiosi, improbabili soldati – direttori di musei, artisti, architetti, curatori e storici dell’arte – che presero parte, durante la Seconda Guerra Mondiale, a una pericolosa e audace missione per salvare i capolavori artistici mondiali, sottraendoli ai nazisti, ma anche ai bombardamenti degli Alleati (a muovere le loro azioni fu, infatti, la quasi distruzione dell’‘Ultima Cena’ di Leonardo da Vinci durante un bombardamento alleato nell’agosto del 1943, per non dimenticare Montecassino) e restituendoli ai legittimi proprietari. A rischio della loro stessa vita e impegnandosi al fronte, i sette si ritrovarono impegnati in una corsa contro il tempo per evitare che un immenso patrimonio artistico andasse distrutto per sempre.
Per salvare i tesori culturali di Caen, Maastricht, Aquisgrana e recuperare i capolavori custoditi nei depositi nazisti di Siegen, Heilbronn, Colonia, Merkers e Altaussee. Riuscirono a sottrarre da distruzione o saccheggio migliaia di opere, fra le quali capolavori di Leonardo, Donatello, Vermeer, Rembrandt e van Eyck che i nazisti avevano nascosto in luoghi impensabili come miniere di sale, a centinaia di metri sottoterra o castelli inaccessibili sulle Alpi, come quello di Neuschwanstein, in Germania.
È il Presidente Franklin Delano Roosevelt in persona a mettere insieme questo corpo speciale di esperti guidato, nel film, da Frank Stokes (George Clooney), storico dell’arte e restauratore presso il Fogg Museum, ispirato allo storico dell’arte George Stout, e composto da James Granger (Matt Damon), ispirato alla vera vita di James Rorimer, colui che in seguito divenne il direttore del Metropolitan Museum of Art di New York, dall’architetto Richard Campbell (Bill Murray), ispirato al vero architetto Rober Posey, che unendosi ai Monuments Men scoprì il magazzino allestito nella miniera di Altausee, dove i nazisti avevano nascosto, tra le altre, opere come il Politticodi Gand, di Jan van Eyck la Madonna di Bruges di Michelangelo e l’Astronomodi Vermeer.
Nel team ci sono poi Walter Garfield (John Goodman), che ricorda il rinomato scultore Walker Hancock, Jean Claude Clermont (Jean Dujardin), mercante d’arte ebreo francese di Marsiglia, rifugiatosi a Londra con la sua famiglia e reclutato dai Monuments Men per le sue conoscenze artistiche, Donald Jeffries (Hugh Bonneville), un uomo in cerca di una seconda possibilità offertagli dall’arte, ovvero il suo primo amore, il dandy Preston Savitz (Bob Balaban), ispirato al vero Lincoln Kirstein, un impresario americano di New York, esperto conoscitore d’arte e co-fondatore del New York City Ballet e Sam Epstein (Dimitri Leonidas), che, non ancora diciannovenne, è l’unico vero soldato del gruppo, reclutato per le sue capacità di guidare e di parlare tedesco, personaggio ispirato da Harry Ettlinger, nato in Germania ma di fede ebraica ed emigrato in America con la famiglia.
Last but not least, Claire Simone (Cate Blanchett), con la quale Granger ha un particolare rapporto, la chiave per raggiungere migliaia di pezzi d’arte depredati dai nazisti e che si ispira alla figura di Rose Valland, una dipendente della galleria Jeu de Paumedi Parigi, trasformata in deposito per opere saccheggiate.
Gli oltre 146 set realizzati rappresentano location che si trovano in Germania, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Austria e Italia, e includono specifiche chiese, cattedrali, musei, castelli, miniere, ospedali, aeroporti, basi militari, uffici e abitazioni. Diverse sono poi le opere d’arte riprodotte appositamente per il film. 6.577 dipinti, 230 acquerelli e tratteggi, 137 sculture, 122 arazzi e circa 1700 libri furono rari salvati dai Monuments Men.
Un film che la critica non fa sempre apprezzato (per raccontare solo una parte della storia e per qualche scena rocambolesca che ricorda Indiana Jones) ma che è un vero inno all’importanza di salvare parte come parte della storia di tutti, perché se si cancella la memoria di un popolo lo si distrugge per sempre. È come se non fosse mai esistito.
E che ci riporta alla mente le terribili immagini del Museo archeologico di Bagdad saccheggiato senza che nessuno facesse nulla per impedirlo. La storia, per certi tratti, si ripeteva. Perché?
Monuments Men, di George Clooney, con Matt Damon, George Clooney, Cate Blanchett, John Goodman, Bill Murray, Jean Dujardin, Lee Asquith-Coe, Hugh Bonneville, Bob Balaban, Diarmaid Murtagh, Sam Hazeldine, Dimitri Leonidas, USA, 2014, 118 min
Ha scoperto l’esistenza dei Monuments Men durante un soggiorno a Firenze, alla fine degli anni Novanta. Da allora si è dedicato interamente ad approfondire la conoscenza della loro vicenda, ottenendo testimonianze straordinarie. Ha creato la Monuments Men Foundation for the Preservation of the Art, che è stata insignita nel 2007 della National Humanities Medal, ed è stato coproduttore di The Rape of Europa, premiato documentario sui saccheggi di opere d’arte dei nazisti. È inoltre autore di Rescuing Da Vinci, un libro fotografico sull’attività dei Monuments Men. Vive a Dallas, nel Texas.
“Le statue – nella presenza fisica e nelle storie che occupano – rivendicano spazi e tempi, servono come capsule del tempo, ossessionate dal passato … A chi strilla che “il passato non si cancella” … bisogna ribattere che un nome, un monumento o una statua, se stanno in strada non sono il passato, bensì il presente. E se ci restano, sono pure il futuro.” Franco Ferioli, ieri su Periscopio
Lavandaie nude, spigolatrici sexy, cimiteri delle statue e nuova era delle rovine.
Noi occidentali sembriamo avere una fissazione particolare con le statue, poiché cerchiamo di pietrificare il discorso storico, issarlo in alto e insistere su di esso come un’affermazione permanente di fatti, culture, verità e tradizioni che non possono mai più essere toccate, messe in discussione, rifuse o rimosse.
Questa ossessione per le statue confonde l’adulazione con la storia, la storia con il patrimonio e il patrimonio con la memoria. Tenta di staccare il passato dal presente, il presente dalla moralità e la moralità dalle responsabilità del passato.
In breve, tenta di fissare la nostra comprensione di ciò che è accaduto nella pietra, al di là dell’interpretazione, dell’indagine o della critica.
Ma la storia non è solo epigrafia da scolpire nella pietra o nel marmo. È una disciplina viva, soggetta a scavo, evoluzione e maturazione.
Mentre il nostro senso di chi siamo cambia con il tempo, le statue no. Rimangono in piedi, indifferenti al gioco degli eventi, impermeabili alle maree del pensiero che potrebbero travolgerle e ai venti di cambiamento che turbinano intorno a loro, o almeno lo fanno finché non decidiamo di eliminarle, di sostituirle o di innalzarne di nuove.
Uno dei più grandi equivoci di fondo quando si tratta di rimuovere le statue è l’argomento che rimuovere una statua è cancellare la storia. Le statue non sono la storia: sono la rappresentazione selettiva di alcuni personaggi storici. Sono state istituite per celebrare e tramandare l’operato e il contributo storico di una persona, ma non sono esse stesse storia.
I moti di iconoclastia che, ovunque sulla Terra, stanno colpendo le statue rappresentano una battaglia sulla memoria che mira a spazzolare il passato contropelo, ripensandolo dal punto di vista del governato, del sottomesso, dello sfruttato e del vinto, non sempre e solo attraverso gli occhi del vincitore.
Non vogliono cancellare il passato, si battono per leggerlo anche con lo sguardo degli altri, attraverso la visione degli esclusi, o anche solo per controbilanciare lo sproposito di una narrazione in gran parte maschile e maschilista.
Dopo il caso della“Spigolatrice di Sapri”, una polemica scaturita dall’inaugurazione di un’opera pubblica dello scultore Emanuele Stifano avvenuta nella cittadina campana alla presenza dell’ex premier Giuseppe Conte nel settembre 2021 – avvolta da una leggerissima veste che ne risalta le forme e che avrebbe in tal modo confermato la tendenza sessista del corpo femminile– il censimento dell’Associazione di professionisti dei beni culturali Mi Riconosci ha contato in appena centoquarantotto il numero complessivo di statue e monumenti “al femminile” presenti in Italia.
Nonostante qualche giorno prima, nella centralissima piazzetta omonima, fosse stata inaugurata l’unica statua femminile milanese dedicata alla nobildonna, patriota, giornalista e scrittrice Cristina Trivulzio di Belgioioso, il caso della cosiddetta ‘sexy spigolatrice’ ha immediatamente riportato alla memoria la storia e le caratteristiche di un’altra statua controversa, quella de La Lavandaia di Via della Grada, realizzata da Saura Sermenghi nell’ambito delle manifestazioni di Bologna Città Europea della Cultura 2000. In tale contesto, l’Associazione Donne d’Arte (ADDA) ponendosi come obiettivo la realizzazione di quattro interventi artistici presentati con il nome: “Opera-zione Poli-metra: La città è donna” il cui presupposto era la realizzazione di “opere d’arte come mediazione fra l’aggressività e l’incontro” mai avrebbe pensato di ottenere il risultato contrario.
Nel corso dei secoli la Via della Grada, prima che il corso del canale di Reno che entrava nel centro di Bologna venisse tombato, ha visto stiparsi mulini, opifici, osterie, lavanderie, bagni pubblici e qui si è sempre assistito ad un affollamento di tutti coloro che avevano a che fare, per necessità o per piacere, con l’acqua: operai, artigiani, barcaioli, facchini, nuotatori e lavandaie.
L’autrice ha più volte sottolineato che realizzare questa scultura le ha permesso di misurarsi con un tema affascinante come quello dell’acqua attraverso l’immagine di una lavandaia che, china nella sua nudità, lava i panni e si lava dentro ad una bacinella, senza tuttavia essere in grado di prevedere la provocazione insita nella raffigurazione di tale atto né tantomeno le polemiche apparse negli articoli di giornale, le reazioni inneggianti alla censura, la raccolta di firme per chiederne la rimozione.
Sia la descrizione che la portata di quest’opera è magistralmente colta nel Mistero Buffo di Dario Fo e Franca Rame:“….Ora, si sa benissimo in quale posizione si mettano le lavandaie…Oddio, lo sanno le persone che le hanno viste, le lavandaie. Oggi ci sono le lavatrici, così una delle cose più belle della natura non si vede più. Alludo a quelle rotondità oscillanti in moto che le lavandaie offrivano ai passanti. Ecco perché il giullare, carogna, dice: “quando ti vidi nella posizione del lavare…quando avevi addosso il saio, di te m’innamorai”. S’innamorò, come dice Brecht, “di quello che il padreterno creò con grazia maestosa, …” (Mistero buffo, Dario Fo a cura di Franca Rame, Einaudi Stile Libero, Torino, 1997).
Ben lungi dall’essere un fenomeno nazionale, anche nel resto del mondo le sculture di donne che vengono riconosciute per aver contribuito a forgiare la storia moderna si contano sulle dita di una mano, ed è in questo senso che le proteste mosse dai movimenti internazionali Black Lives Mattere i conseguenti abbattimenti devono essere considerati mobilitazioni antimaschiliste, oltre che antirazziste.
Walter Benjamin sosteneva il concetto che la storia del progresso è valutata e vista da una prospettiva distorta, in quanto definita dalla narrazione fatta dai vincitori e che, di conseguenza, Quando lo facciamo, cambiamo la nostra intera visione della storia dal nostro punto di vista. In tal modo, ci stiamo impegnando in uno strano tipo di viaggio nel tempo, in cui il tempo stesso si ferma, il passato balza in avanti nel presente e viene redento.
Valutato sotto quest’ottica, eliminare i simboli di un monumento allo scopo di ridefinirli o di riappropriarsene, può essere considerata una delle massime forme di libertà raggiungibili dal diritto alla trascrizione della memoria pubblica e sociale.
Gruppi spontanei, organizzazioni di base, musei, artisti, ricercatori e autorità hanno portato avanti il dibattito in modi creativi e con toni spesso polemici. Commissioni in città e paesi di tutto il mondo stanno cercando di riequilibrare le narrazioni selettive che vengono raccontate sul passato e a farsi strada è una domanda: cosa fare con le statue abbattute o da rimuovere? Vanno ricollocate in altro luogo o nascoste? Dovrebbero essere esposte nei musei -e se sì, come?
E da cosa dovrebbero essere sostituite? Dovremmo lasciare vuoti i piedistalli, creare spazi per installazioni mutevoli e performance dal vivo o commissionare nuove statue di figure che tutti possano celebrare?
A dare una risposta a queste domande è stato Banksy nel giugno 2020, subito dopo l’abbattimento e il lancio nelle acque del porto di Bristol della statua in bronzo alta cinque metri e mezzo del mercante e commerciante di schiavi Edward Colston che si trovava in Colston Avenue dal 1895: “Cosa ci facciamo con un piedistallo vuoto nel centro di Bristol?” si è chiesto lo street artist sul proprio profilo Instagram per poi lanciare la sua idea per riciclare la statua in una nuova installazione commemorativa: «Ecco un’idea che si rivolge sia a chi sente la mancanza della statua di Colston sia a chi non la sente. Tiriamola fuori dall’acqua, rimettiamola sul piedistallo, leghiamole una corda al collo che facciamo tirare dalla replica in bronzo a grandezza naturale dei manifestanti che l’hanno tirata giù quel giorno. Così saranno tutti contenti».
Indubbiamente Banksy ha colto nel segno, perché se l’erezione di una statua è un fatto storico, non lo è da meno la sua rimozione. E rimuoverla può aumentare la conoscenza della storia: molte più persone, e in particolare coloro che pretendono che si insegni di più sul colonialismo e sulla schiavitù nelle scuole, potrebbero meglio imparare a conoscere Edward Colston in seguito all’abbattimento della sua statua che non a causa del suo innalzamento.
Forse è a conferma e a garanzia di tutto ciò che con il consenso unanime è stata trovata una soluzione definitiva e collocata una nuova statua in cima al piedistallo vacante di Bristol: è una copia a grandezza naturale, un calco 3D realizzato dall’artista Marc Quinn che riproduce e imita la figura, il volto e il gesto di una giovane donna. La statua è stata chiamata A Surge of Power e ritrae Jen Reid, prima cittadina e manifestante inglese nera a salire sul basamento vuoto subito dopo l’abbattimento di Colston alzando il pugno in segno di vittoria contro la coscienza antirazzista e antimaschilista della nostra civiltà europea.
Quanto ai piedistalli e ai basamenti vuoti, che invitano ogni spettatore a immaginare ciò che non c’è più o che potrebbe essere collocato lì, sì è iniziato a parlare dell’avvento di una “Nuova Era delle Rovine”, portatrice di un’estetica postmoderna nella quale le differenti declinazioni di immagine, ritratto, icona evidenzierebbero l’immenso fossato che separa l’uomo dalla vicenda dell’umanità, la società dalla civiltà, la forma dal contenuto, giacché l’apparenza, in virtù di una comunicazione che la tecnologia attuale rende istantanea, si diffonde senza alcun tramite, senza il filtro d’una personale preparazione o capacità di interpretazione, mentre la sostanza ha tempi lunghi, richiede riflessione, analisi, confronto e dialogo: requisiti oggi relegati nelle terre bruciate delle perdite di tempo dei tempi perduti.
Un’altra significativa risposta è giunta dal Muzeon Art Park o Fallen Monument Park di Mosca (Parco dei Monumenti Caduti o Cimitero delle Statue), un museo gratuito a cielo aperto sorto nel 1992, dove sono state portate molte statue abbattute dalla furia distruttiva della caduta dell’URSS.
Le recensioni dei membri di Tripadvisor descrivono una passeggiata che può iniziare nelle vicinanze dell’ingresso principale di Gorky Park per proseguire lungo la Moscova tra sculture e installazioni moderne e celeberrime statue fatte sparire subito dopo la caduta del vecchio regime sovietico che qui hanno trovato una seconda vita. Oltre alla statua di Stalin che si trovava esposta nel padiglione sovietico dell’Esposizione Universale del 1939 a New York, il pezzo forte è la statua di Felix Dzerszinsky, fondatore della temuta polizia segreta dell’Unione Sovietica, che per più di trent’anni ha soggiornato davanti al quartier generale del KGB in piazza Lubjanka a Mosca.
La caduta del regime comunista ha comportato una vera e propria ecatombe di statue di tutti i personaggi simbolo dell’ex Unione Sovietica e a detenere il record assoluto di cancellazioni è il fondatore Vladimir Lenin con oltre cinquemila statue e busti rimossi in patria e nelle capitali dell’Est Europeo.
Stessa sorte, ritualizzata dal regista Sergei Eisenstein, che fece cominciare Ottobre-il suo film capolavoro sull’avvento della Rivoluzione Russa – con le immagini della folla che fa cadere una grande statua dello zar Alessandro III, è toccata alla memoria su pietra diJosif Stalin, (distrutta anche nel 1956 dagli insorti di Bucarest), di Leonid Breznev, Karl Marx, Georgy Zhukov, Anatoly Lunacharsky, Rosa Luxemburg, Semyon Budyonny, Kliment Voroshilov, Friedrich Engels, Georgy Zhukov, Aleksandr Zasyadko, Vasily Kikvidze, Nadezhda Krupskaya, Anatoly Lunacharsky, Sergo Ordzhonikidze, Mikhail Frunze, Vasily Chapaev .
Dopo che nell’aprile 2015 il governo ha approvato le leggi che vietano i simboli sovietici, in Ucraina sono state abbattute tutte le vestigia una dopo l’altra, e oggi rimane in piedi solo una statua radioattiva di Lenin a Chernobyl. Buttare giù Lenin è diventata una pratica così abituale da meritare un nome, Leninopad e i nazionalisti ucraini si sono talmente appassionati a questo genere di pratiche da dimenticare che quel Lenin che hanno abbattuto ovunque non poteva essere il responsabile del genocidio del loro popolo, dal momento che era morto almeno un decennio prima. Nell’Ucraina Occidentale, dove i manifestanti sono stati più attivi che nelle proteste di Kiev, Lenin non aveva neppure governato: dopo la dissoluzione dell’Impero russo e la breve parentesi della guerra sovietico-polacca fino al 1921, l’Ucraina occidentale, finì nella compagine della Polonia, della Romania e di altre nazioni del cosiddetto “cordone sanitario” antisovietico, creato dai paesi della Triplice Intesa nell’Europa orientale dopo la rivoluzione russa del 1917.
Nel 2017 il fotografo Niels Ackermann e il giornalista Sébastien Gobert, autori del libro Looking for Lenin, sono andati alla ricerca dei resti di quelle opere distrutte. La più famosa l’hanno ritrovata a Odessa: Lenin è diventato Dart Fener, il cattivo della saga cinematografica hollywoodiana Star Wars.
A Kalyny, villaggio ucraino di cinquemila abitanti al confine con la Romania, una strada intitolata a Lenin è stata ribattezzata John Lennon. L’iniziativa, ha spiegato il governatore regionale Gennadi Moskal, è rientrata nell’ambito della campagna del governo filo-europeo di Kiev per rimuovere ogni traccia del passato comunista.
Moskal ha detto di aver preso la decisione a sua discrezione, senza consultare i cittadini, in onore del co-fondatore dei Beatles e senza far caso a quanto disse lo stesso Lennon quando era ancora in vita e cioè che Imagine, la sua canzone più famosa diventata inno dei pacifisti di tutto il mondo, era da considerare, per i contenuti del testo, più “il manifesto del partito comunista” che non un inno alla pace. Questa decisione, supportata dall’addio a Ded Moroz, il Babbo Natale russo-sovietico, dalla proibizione della vendita dello “champagne russo” e dal divieto di proiezione di film russi prodotti dopo il 2014, ha riportato alla memoria, come conferma di questa regola storica della cancellazione ad uso demagogico, quando nel 2003 le truppe statunitensi, con la complicità di molte emittenti televisive, inscenarono la caduta di una statua di Saddam Hussein nel centro di Baghdad, nel tentativo di mascherare la loro invasione militare in acclamata rivolta popolare di liberazione.
In Italia, il lancio di vernice rosa e la scritta ‘stupratore razzista’ sul monumento a Indro Montanelli, realizzato in bronzo dorato dallo scultore Vito Tongiani e posto nei giardini pubblici di Milano intitolati a Montanelli stesso, è stato condannato all’unanimità come atto «barbaro» da quasi tutti i giornali e i media. Il padre spirituale di due generazioni di giornalismo italiano dopo aver ostinatamente negato che l’esercito fascista avesse condotto bombardamenti con gas nervini durante la guerra etiopica, dopo essere stato ferito negli anni Settanta da terroristi di sinistra, è stato canonizzato come un eroico difensore della democrazia, della libertà e dell’antiberlusconismo. Dopo l’attacco alla sua statua, il coro sostenuto da coloro che lo riconoscono come maestro è che l’anacronismo, cioè la pretesa di giudicare fatti del passato col metro della mentalità contemporanea, sia un errore madornale.
Ma sostenere a oltranza che le azioni compiute all’epoca possano risultare comprensibili e giustificabili solo alla luce del contesto storico di quei tempi è la base dell’ideologia revisionista di destra e tuttavia, questo atto «barbaro» e anacronistico è servito a rivelare a molti italiani quali fossero i valori di Montanelli: negli anni Trenta, quando era un giovane giornalista, celebrava l’Impero fascista; inviato in Etiopia comprò una ragazza eritrea di dodici anni per soddisfare i suoi bisogni sessuali e domestici. Per molti commentatori, questi erano i «costumi del tempo» o le «usanze locali» e quindi qualsiasi accusa di sostegno al colonialismo, al razzismo e al sessismo è ingiusta e ingiustificata.
«Qui sta l’ipocrisia di fondo perché se all’epoca un italiano avesse stuprato una bambina di 12 anni in Italia, in carcere ci sarebbe andato eccome, ma con la scusa dell’usanza locale si chiudeva un occhio», chiarisce Emanuele Ertola, autore di “In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero” (Laterza).
Visibile on line su Youtube[Qui]si trova l’estratto della celebre intervista a Montanelli riguardo il suo matrimonio con la bambina eritreadi 12 anniai tempi dell’avventura coloniale fascista in Etiopia, raccolta dal programma “L’ora della verità” RAI 1969, e dove, oltre alle sue esternazioni, anche l’insieme delle argomentazioni che gli vengono direttamente sottoposte dall’attivista femminista Elvira Banotti, consentono un libero giudizio personale anche sul proseguo dei fatti legati alla ben nota vicenda di cronaca.
Poco tempo dopo che il movimento dei “Sentinelli di Milano” ne avesse chiesto la rimozione al Sindaco Sala e immediatamente dopo l’imbrattamento e conseguente pulizia/ripristino della scultura contestata, ha preso il via la campagnaDecolonize the City, avviata con l’obiettivo di aprire un dibattito pubblico sul colonialismo, sul suprematismo, sul razzismo e sulla violenza, promossa da gruppi di immigrati e da militanti dei centri sociali milanesi.
Una prima azione, documentata attraverso una diretta Facebook, ha visto gli attivisti del Centro Sociale Cantiere posizionare nello stesso luogo, accanto a quella di Montanelli, una nuova statua in ferro, creata dall’artista senegalese Mor Talla Seck, raffigurante l’ex presidente del Burkina Faso Thomas Sankara.
Per il collettivo, è un “simbolo che parla della realtà dello sfruttamento coloniale e neocoloniale europeo in Africa, ma anche della resistenza e della liberazione del Burkina Faso e dell’intero continente. Questa statua è un atto di condivisione di sapere, un modo per affermare che non esiste un’unica memoria, un’unica storia e un’unica verità”.
Primo risultato: immediata rimozione/sequestro dell’opera, così giustificata dall’assessore regionale all’Immigrazione e alla Sicurezza, Riccardo De Corato, “questa statua celebra un leader africano che nulla ha a che fare con la nostra storia”, screditando l’operazione come “atto folle e fuori da qualsiasi regola”.
Secondo risultato: contro-risposta da parte degli organizzatori con una nuova inaugurazione pubblica e vernissage della Statua che Non C’è.
Terzo risultato: dopo poco più di un anno la statua di bronzo raffigurante Indro Montanelli intento a scrivere, è divenuta oggetto di una ulteriore incursione artistica della street artist Cristina Donati Meyer, la quale, ponendo sulle braccia del giornalista il fantoccio di una bambina al posto dell’iconica macchina da scrivere, denunciava quel matrimonio con una dodicenne eritrea del quale lo stesso Montanelli aveva parlato in tv, trasformandola di fatto in una nuova e sovversiva installazione artistica.
La riproduzione di quella installazione, intitolata “Il vecchio e la Bambina” con in braccio lo stesso fantoccio apparso nel parco, è esposta in forma permanente dal settembre 2021 nella quarta sala della sezione dedicata alla decolonizzazione, presso il MUDEC (Museo Pubblico delle Culture ) di Milano, nell’ambito dell’esposizione “Milano globale: il mondo visto da qui”.
Alcuni sostengono che le statue non influiscano direttamente sulla vita delle persone; rappresentano solo qualcosa di simbolico e che liberarsi delle statue non ha un guadagno concreto per gli individui.Questo sarebbe probabilmente vero se le statue fossero autonome, se non venissero accoppiate con le storie che invocano cancellandone altre o per raggiungere determinati obiettivi ideologici.
Invece le statue – nella presenza fisica e nelle storie che occupano – rivendicano spazi e tempi, servono come capsule del tempo, ossessionate dal passato, e portano alla luce degli spettatori nel presente una visione riduttiva, parziale e di parte.
Tutti hanno notato che le statue non sono una registrazione neutrale della storia. Sono spesso celebrazioni di personaggi le cui opinioni e azioni erano oltraggiose e crudeli anche per gli standard morali del loro tempo. Ma oltre a ciò, quando molte statue furono erette c’era già una notevole opposizione alle gesta che avevano reso questi uomini (e sono quasi tutti uomini) ricchi, famosi e dominanti.
A chi strilla che “il passato non si cancella”… bisogna ribattere che un nome, un monumento o una statua, se stanno in strada non sono il passato, bensì il presente. E se ci restano, sono pure il futuro.
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RIGENERAZIONE URBANA E CONSUMO DI SUOLO:
PRATICHE NON RETORICHE
venerdì 10 marzo ore 17, Factory Grisù, via Poledrelli 21
Romeo Farinella (architetto-urbanista, Dipartimento diArchitettura-UNIFE) Gabriele Bollini (urbanista, valutatore ambientale, Dipartimento di Ingegneria-UNIMORE)
ne parlano con Francesca Cigala Fulgosi (Forum Ferrara Partecipata)
L’iniziativa è nata grazie all’incontro tra il laboratorio di Ricerca CITERlab del Dipartimento di Architettura dell’Università, il Laboratorio didattico LSFD entrambi diretti dal Prof. Romeo Farinella e il Forum Ferrara Partecipata costituitosi come luogo di riflessione sul futuro di Ferrara e di cittadinanza attiva finalizzato al coinvolgimento dei cittadini nelle scelte future che riguardano la città.
Come è noto l’occasione che ha portato alla nascita del Forum è stato il dibattito scaturito dal Progetto Feris, ma l’obiettivo è più ampio e riguarda la volontà di consolidare a Ferrara un luogo di discussione sul futuro urbano, aspetto strutturale di ogni ipotesi o strategia di transizione ecologica.
Insieme all’Università di Ferrara il Forum organizza dunque questo ciclo di incontri pubblici rivolti alla cittadinanza per l’approfondimento di tematiche relative alla qualità del vivere e dell’abitare in città, preliminari all’elaborazione di proposte e visioni per la Ferrara di domani. Si intende pertanto coinvolgere i cittadini nelle scelte che riguardano la città, avviare un percorso di cittadinanza attiva finalizzato alla formulazione di idee innovative, orientate alle necessità future e alla costruzione di una visione condivisa della trasformazione urbana. Un’esperienza che rientra anche nel campo del public engagement che sempre più connota i rapporti tra le università e i loro territori. Anche per tale motivo la scelta delle sedi dove si svolgeranno gli incontri si sono orientate verso luoghi della città consoni all’esercizio del dibattito. (Leggi su Periscopio il programma completo del ciclo di incontri)
C’è bisogno di una visione più consona alla situazione di crisi eco climatica, economica e sociale in cui ci troviamo. Non si può continuare con le vecchie logiche di “sviluppo” a base di cemento, plastica e combustibili fossili. La città va ripensata, come stanno facendo in molte città europee, con più verde, senza automobili private, con trasporti collettivi efficienti, con più spazi per attività sociali e culturali, salvaguardando il patrimonio culturale e naturale, riducendo l’inquinamento, garantendo a tutti l’accesso ad alloggi adeguati, difendendo i beni comuni e i servizi pubblici.
Fabrizia Laroma Jezzi: Alcune poesie d’amore e di resistenza
Le poesie, che pubblichiamo questa settimana, fanno parte del volumetto “Camminando sui crinali selvaggi” scritto dalla poetessa Fabrizia Laroma Jezzi per le Edizioni Montaonda, 2023. Dalla presentazione riportiamo queste parole: “Queste poesie hanno preso forma nell’arco del 2022, dalla primavera all’inverno successivo, per dare anima e voce al movimento di opposizione alla costruzione dell’impianto industriale eolico sul crinale di Villore, sopra Vicchio, in Mugello. Hanno tratto ispirazione dalle camminate sul Sentiero dell’aquila Gaia, dalla Colla della Maestà a Monte Giogo di Villore, che si snoda su crinali ancora inviolati e inviolabili, tra faggete e antichi pascoli, immergendosi nel fitto di boschi maturi“.
Il nostro amore
Il nostro amore
è nato sui crinali
liberi e resistenti
cresce sugli alberi
da loro accudito
e sostenuto
è piccolo
come i fiori
di montagna
è grande
come le montagne
di faggete e castagni
è forte come le aquile
che sorvolano le cime
ad ali spiegate
il nostro amore
è il coraggio
dell’innocenza
contro la violenza
della finta politica
a servizio del dominio.
C’è poesia
C’è poesia
la sento nell’aria
c’è aria di poesia
che si nasconde furtiva
c’è aria di festa
nel bosco
c’è aria nel cuore
vento nei capelli
vento sui crinali
tra le chiome delle faggete
e tanta pace
nei tanti colori.
Nemico o custode
Nel tempio
di buio e di luce
dimora il sacro
parla il vero
sei quello che sei
frusciano le foglie
agli alberi non si mente
sei nemico o custode?
Le faggete sono un tempio
come puoi abbatterlo?
Parole gentili
Piove nel bosco…
Goccioline come parole gentili
si posano sul volto
il vento tra le foglie
canta la sua tenue canzone
al passaggio
gli alberi s’inchinano
piedi e radici
camminano insieme
proseguire è possibile
solo con le mani congiunte.
Fabrizia Laroma Jezzi è nata a Firenze e vive attualmente a Londa nel Mugello. Laureata prima in Teologia e poi in Lettere e Pedagogia, ha un Master in Counseling olistico. Madre di tre figli, ha insegnato 35 anni nella scuola pubblica secondaria. Scrive poesie e racconti illustrati per bambini e adulti, dipinge immagini che esprimono l’intimo legame della Madre Terra con tutti gli esseri viventi.
Per acquistare il volumetto di Fabrizia Laroma Jezzie per vedere tutto il catalogo di Montaonda Edizioni clicca [Qui]
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]
Bologna Children’s Book Fair : 60 anni e non sentirli
Quest’anno la Bologna Children’s Book Fair (BCBF), la fiera del Libro per Ragazzi più importante del mondo, compie 60 anni. A Bologna dal 6 al 9 marzo. Naturalmente l’abbiamo visitata.
Tante sono le iniziative per piccini e grandi (soprattutto) dove immergersi. Con grande spensieratezza, nella bellezza dei colori e delle pagine illustrate più belle del mondo. Lasciando tutti i pensieri e le preoccupazioni fuori, almeno per qualche giorno.
Le attività sono tantissime, un poco ci si perde ma è quel perdersi gioioso in una dimensione di fantasia che fa bene all’anima, al cuore e alla mente.
Girando per i padiglioni festanti e colorati si incontrano tantissimi autori, giovani illustratori immersi nella creatività e in pennellate di acquerelli o tratti di pennarelli che disegnano sui muri tanta bellezza per tutti.
Gli espositori vengono da tutto il mondo, si parlano tante lingue: nelle hall affollate inglese, francese, tedesco, portoghese, spagnolo ma soprattutto arabo, la presenza degli Emirati Arabi Uniti quest’anno è importante.
Sono oltre 1400 gli espositori che prendono parte a questa edizione, provenienti da circa 90 paesi e regioni nel mondo, i più grandi nomi dell’illustrazione mondiale sono riuniti per questa occasione a Bologna: ci sono le eccellenze italiane con le figure dedicate a Italo Calvino, l’anniversario nell’anniversario, illustrazioni dedicate all’Ucraina.
Attesi in fiera, tra gli altri, Beatrice Alemagna, Rotraut Susanne Berner, Marc Boutavant, Rebecca Dautremer, Laura Carlin, Sarah Mazzetti, Fabian Negrin, Alessandro Sanna, Susanna Tamaro.
All’entrata ci accoglie il muro verde acqua con l’opera vincitrice del Premio Internazionale d’Illustrazione BCFB – Fundación SM, nel 2022: il messicano Andrés Lopez con un potente inno alla Natura, alla sua bellezza delicata e un invito a salvaguardarla, rivedendola e rileggendola, a proteggerla con tutte le proprie forze ed energie.
Tra le attese celebrazioni in programma la mostra Landscapes and Portraits of BCBF, festoso omaggio all’estetica della fiera con tante illustrazioni ispirate ai colori del logo e scelte fra le candidate a un contest rivolto a tutti i vincitori delle dieci passate edizioni della mostra illustratori.
Bellissimo il palcoscenico del progetto di live painting che invita tutti gli illustratori in visita a lasciare un ricordo di Bologna applicando la loro arte ai colori del logo BCFC.
La fiera rende omaggio a Italo Calvino con Eccellenze italiane. Figure per Italo Calvino che espone 120 illustrazioni ispirate alla produzione letteraria del grande autore tra opere già pubblicate e inedite, vincitrici di un concorso internazionale promosso dalla fiera.
E ancora, è la mostra che festeggia i primi 10 anni dell’ARS IN FABULA – Grant Award, con un focus sulla categoria opera prima, giunta alla 15ª edizione, quella della Mostra Illustratori (4345 gli illustratori candidati, nuovo record per la fiera, con 21725 tavole inviate e 79 set di illustrazioni selezionati), con le iniziative collegate e la riedizione del progetto sperimentale internazionale BEYOND SIGHT/OLTRE LA VISTA.
Bellissime le personali di Suzy Lee, vincitrice dell’edizione 2022 dell’ H.C. Andersen Award e autrice della cover dell’Illustrators Annual.
Tornano i grandi premi internazionali dedicati all’editoria per bambini e ragazzi: il BolognaRagazzi Award dedicato ai miglior libri illustrati pubblicati nel recente periodo a livello internazionale che quest’anno ha come categoria speciale la fotografia; il BolognaRagazzi CrossMedia Award, dedicato ai migliori progetti editoriali che hanno espanso il loro universo narrativo verso altri media; il BOP-Bologna Prize for the Best Children’s Publisher of the Year al miglior editore scelto per ciascuna delle sei aree del mondo; e ancora il Premio Strega Ragazze e Ragazzi che giunge all’ottava edizione e in fiera premia il libro vincitore della categoria di concorso “narrazione per immagini”, alla sua seconda edizione. Per i giovani illustratori l’ormai tradizionale Premio Internazionale di Illustrazione Bologna Children’s Book Fair – Fundación SM riservato agli Under 35 della Mostra Illustratori e l’ARS IN FABULA Grant Award per gli under 30. Ancora, il concorso di traduzione In Altre Parole e il Premio Poesio dedicato alla più originale tesi di laurea italiana in letteratura per l’infanzia. Grande attenzione all’annuncio dell’Astrid Lindgren Memorial Award e alla suite list di IBBY per il biennale Hans Christian Andersen Award che verrà assegnato nel 2024.
Vi sono poi molti incontri sui grandi temi del dibattito attuale e futuro del mondo dell’editoria globale: dalla censura nei libri per bambini con un focus sull’opportunità di aggiornare o meno le opere di autori del passato partendo dagli ultimi casi di attualità fino al nuovo ruolo dell’intelligenza artificiale, alla promozione della lettura in aree del mondo svantaggiate fino alle opportunità e difficoltà dell’editoria africana. Grande attenzione anche al nuovo volto dell’illustrazione Ucraina, strumento di divulgazione e di resistenza: in fiera Oleg Gryshxhenko e Anna Sarvira, artisti e cofondatori del Pictoric Illustrators club e, per la prima volta a Bologna, una grande area dedicata a PublishHer, il movimento fondato dall’editrice Bodour Al Qasimi per portare parità di genere nell’editoria mondiale. Spazio anche al crescente settore dei comics e uno sguardo interessante alla Storia dell’editoria per l’infanzia attraverso tanti dei suoi rappresentanti eccellenti, a partire da uno dei grandi protagonisti di questa edizione Italo Calvino.
Sono circa 150 gli appuntamenti tra masterclass, workshop e portfolio review curati da editori, art director, illustratori, agenti e professionisti del settore: torna anche quest’anno l’appuntamento più atteso dagli illustratori in fiera, The Illustrators Survival Corner, lo spazio professionale a cura di Mimaster Illustrazione.
C’è pure un nuovo spazio nella fiera: accanto all’International bookshop apre, per la prima volta, il Book Lovers’ Bistrot, area a cura della libreria Giannino Stoppani dedicata a presentazioni, conferenze e panel sia nazionali che internazionali.
La Fondazione del Monte accoglie Le cose preziose. L’ostinata ricerca di Beatrice Alemagna, l’importante personale dedicata all’illustratrice che nel 2022 ha ricevuto dalla fiera il Premio speciale The extraordinary award for an extraordinary artist.
L’ho visto a Che tempo che fa intervistato da Fazio e ho pensato ‘compero e leggo subito il suo ultimo libro’. Lui è Niccolò Ammaniti e il libro è uscito il 17 gennaio scorso col titolo La vitaintima. Eccolo lì esposto alle domande del conduttore, a disagio come sempre, ma sempre reattivo e profondo nelle risposte.
Dice di essere tornato alla scrittura dopo otto anni di silenzio, in cui ha curato la regia di due serie televisive. Poi ha sentito di voler riempire il vuoto del lockdown scrivendo un romanzo come questo, psicologico, per andare oltre nello scandaglio del personaggio, come la letteratura può fare, meglio di altre arti come il cinema.
Dell’intervista che è corsa via veloce ricordo più che altro lui e la sua barba brizzolata, i capelli pure, e l’aria da adulto complesso che ha messo su. Sicché ho cominciato a leggere il libro senza ricordare nulla o quasi della trama.
Maria Cristina Palma, che ne è la assoluta protagonista, compare al centro fin dalla prima pagina e trionfa immediatamente per l’opulenza della suacasa, un grande attico nel cuore di Roma, e la cura della sua bellezza, che le occupa questo inizio di giornata, il 21 febbraio di un anno non precisato, uno di questi che viviamo.
‘Ecco un’altra bellissima che occupa la scena, speriamo che anche il resto del libro non sia banale’: con questo pensiero vado cercando un altro romanzo che ho letto di recente,Nel guscio di IanMcEwan, il cui narratore è un bambino in procinto di nascere.
Uno che aspetta di uscire dalla pancia della sua mamma bellissima e intanto indaga sul mondo che lo accoglierà, raccogliendo ogni possibile indizio. Uno che la sa lunga, come si apprende leggendone le riflessioni, e che verso la fine del libro deve constatare la colpevolezza della madre in un reato gravissimo. Perciò, per l’amore che le porta, tenta fino allo stremo di difenderla pensando così: “Non riesco a scacciare il pensiero assurdo che i bellissimi dovrebbero vivere in base a codici particolari”.
Mi pare il primo banco di prova per Maria Cristina, che vengo a sapere è moglie del Presidente del Consiglio e madre di Irene che ha dieci anni. A che scopo Ammaniti può avere scelto un personaggio che ha ricchezza, bellezza e potere? Certo, ha attraversato gravi dolori e lutti familiari dolorosissimi e prematuri. Ma che donna è?Cosa può avere da raccontare dall’alto del suo codiceparticolare di vita?
Il narratore in terza persona racconta per lei e ne adotta il punto di vista con tanta adesione da far sbiadire ogni filtro linguistico e restituircene intatti i pensieri, per esempio quando Maria Cristina riceve delle vecchie foto da un ex fidanzato che ha rincontrato per caso il giorno prima. Sono foto di un’estate passata insieme da ragazzi quando Alessio, il fratello di lei, era ancora vivo: “Una fitta d’emozione le serra la gola mentre si rivede lì con suo fratello, i due orfani felici. Liberi dai nonni, con tutta la vita davanti”.
La lingua che usa Ammaniti fotografa del resto, con lucidità a tratti spietata, le costrizioni a cui è legata nella vita quotidiana come moglie del premier, una assistente personale la monitora continuamente, la sicurezza la segue in ogni movimento. Il marito le chiede di sostenerlo con la sua decorativa presenza a ogni occasione ufficiale, anche se Maria Cristina si tiene lontana dalla politica.
Ammaniti fotografa alle spalle della protagonista anche gli intrighi del palazzo, il cannibalismo della politica e finisce per ritrarre “la strepitosa autobiografia di una nazione che passa dal ritratto di questa donna che a tutti un poco somiglia”, come sostiene Concita De Gregorio dalle pagina di La Repubblica. Somiglia a una icona della contemporaneità e per buona parte del libro la vediamo attaccata tenacemente al mito della esteriorità, alla bellezza tutto glamour.
Otto capitoli del libro ci raccontano quel che le accade in una settimana. Di mercoledì ritrova, come dicevo, una vecchia fiamma, si incontrano anche il giorno seguente e lei elude il programma fissato per la giornata e gli sta vicino.
Insieme ricordano il passato e Alessio, il fratello che non c’è più.Quando lui le manda oltre ad alcune vecchie foto un video compromettente su di loro, la vita interiore di Maria Cristina ne resta sconvolta. Sei giorni per sconvolgere il suo mondo: il terrore che il video possa andare in rete e rovinare se stessa e la carriera politica del marito la costringe a rivedere ogni lato della propria persona.
Si leggono d’un fiato i capitoli dal secondo all’ottavo, in un susseguirsi di svelamenti su chi sia davvero l’ex fidanzato, su chi siano i collaboratori del marito e le persone che ha intorno, chi il marito stesso. Su cosa possa dare senso alla vita, visto che così come l’ha vissuta fino a ieri sembra non averne uno autentico.
Unici punti fermi l’amore luminoso che prova per la figlia Irene e la antica amicizia con il compagno dell’infanzia che le vive accanto come prezioso tuttofare. Tutti gli altri volti le vorticano intorno avendo perduto i vecchi ancoraggi, dal passato come da una fucina dei sentimenti vengono i legami più forti. I valori e le convinzioni, le propensioni che l’hanno formata ora paiono non rinunciabili. Sente di voler aderire a se stessa.
“La paura finisce dove comincia la verità” si legge verso la fine del libro. In questa storia la verità di Maria Cristina si fa avanti a strappi, le si ribalta davanti più di una volta. E lei decide un po’ alla volta cosa vuole fare di se stessa. Quale dei due uomini, il marito o l’ex, sono la persona con cui condividere la vita. Cosa farsene del potere che hanno i social dialzare o abbassare il pollice per la vita o per la morte.
Maria Cristina fa la sua scelta, “lancia il cuore oltre l’ostacolo” come Ammaniti dice rivolto a Fazio. Due anni dopo (e siamo giunti al nono e ultimo capitolo) riappare in mezzo a una bella natura marina e ha accanto le due persone più care, la figlia Irene e il suo uomo, quale dei due non va detto.
Il libro finisce, ma le mie reazioni di lettura non si fermano. In fondo non mi pare che lei, che pure è stata definita la donna più bella del mondo, abbia vissuto in base a una codice particolare. Ha seguitouna delle parabole di vita possibili a tutti ed è passata dalla inautenticità di una esistenza fatta di lustrini, successo e finzione a scelte più autentiche.
Rileggo anche il giudizio di Marilù Olivache ho trovato in internet: ”Un romanzo che ci fa riflettere sulle più insidiose deviazioni dei giorni nostri: l’individualismo, l’apparenza, la mistificazione della esteriorità, la superficialità, la tendenza a cannibalizzare, fagocitare, appiattire. Sono i mostri contemporanei che Ammaniti ci consegna per ricordarci che aleggiano tra di noi, ma, forse, non tutto è perduto”.
Questo che dice Oliva è vero, la fotografia scattata dal libro sul nostro mondo funziona e dal canto suo il lieto fine è in grado di lasciare aperta la speranza. A chi, però mi domando e resto perplessa.
Il messaggio positivo che Ammaniti ci ha lasciato nel suo insuperato Io non ho paura mi è sembrato, quello sì, rivolto a tutti: anche lì ha avuto la meglio il coraggio, il coraggio di un bambino di nove anni che ha fatto la sua scelta. Ha salvato la vita a un altro bambino suo coetaneo sull’onda del senso di giustizia naturale che ha trovato dentro di sé.
Nella vicenda di Maria Cristina, pur raccontata benissimo, aleggia (l’ho sentito in ogni pagina) un messaggio elitario, che potrei definire il senso del privilegio. Vi troneggia la compagine valorialedell’occidente del mondo, declinata per di più in un paese come il nostro che fatica a scrollarsi di dosso il suo provincialismo.
Mi pare che in questo romanzo abbia avuto più coraggio Maria Cristina, nella sua vita di carta, che non lo scrittore che l’ha creata.
Note bibliografiche:
Niccolò Ammaniti, La vita intima, Einaudi Stile libero, 2023
Ian Mc Ewan, Nel guscio, Einaudi, 2016 (traduzione di Susanna Basso)
Niccolò Ammaniti, Io non ho paura, Einaudi, 2001
Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di carta, clicca [Qui]
CICLO DI INCONTRI SULLA CITTÀ RIFLESSIONI E PROPOSTE PER LA CITTÀ FUTURA Primo Appuntamento: 10 marzo ore 17 alla Sala Macchine della Factory Grisù : RIGENERAZIONE URBANA E CONSUMO DI SUOLO: PRATICHE NON RETORICHE
IL PROGAMMA DEI 4 INCONTRI
Ciclo di incontri pubblici organizzati dall’Università di Ferrara, Dipartimento di Architettura_CITERlab e LSFD e dal Forum Ferrara Partecipata
Gli incontri proposti tratteranno temi generali importanti per il futuro delle città che si possono riscontrare sia nell’Agenda 2030 dell’ONU (Obiettivo 11) che in numerose esperienze che si stanno compiendo non solo in Italia. Gli incontri riguardano la rigenerazione e il consumo di suolo, la natura, il verde urbano e gli spazi pubblici, la mobilità, il diritto alla casa, la salute urbana, la partecipazione dei cittadini. Tali temi saranno trattati da ricercatori e esperti di diverse università italiane e da esperti di settore.
IL PRIMO APPUNTAMENTO
Venerdì 10 marzo ore 17, Factory Grisù, via Poledrelli 21
RIGENERAZIONE URBANA E CONSUMO DI SUOLO: PRATICHE NON RETORICHE
Romeo Farinella (architetto-urbanista, Dipartimento di Architettura-UNIFE) Gabriele Bollini (urbanista, valutatore ambientale, Dipartimento di Ingegneria-UNIMORE)
ne parlano con Francesca Cigala Fulgosi (Forum Ferrara Partecipata)
L’iniziativa è nata grazie all’incontro tra il laboratorio di Ricerca CITERlab del Dipartimento di Architettura dell’Università, il Laboratorio didattico LSFD entrambi diretti dal Prof. Romeo Farinella e il Forum Ferrara Partecipata costituitosi come luogo di riflessione sul futuro di Ferrara e di cittadinanza attiva finalizzato al coinvolgimento dei cittadini nelle scelte future che riguardano la città. Come è noto l’occasione che ha portato alla nascita del Forum è stato il dibattito scaturito dal Progetto Feris, ma l’obiettivo è più ampio e riguarda la volontà di consolidare a Ferrara un luogo di discussione sul futuro urbano, aspetto strutturale di ogni ipotesi o strategia di transizione ecologica.
Insieme all’Università di Ferrara il Forum organizza dunque questo ciclo di incontri pubblici rivolti alla cittadinanza per l’approfondimento di tematiche relative alla qualità del vivere e dell’abitare in città, preliminari all’elaborazione di proposte e visioni per la Ferrara di domani. Si intende pertanto coinvolgere i cittadini nelle scelte che riguardano la città, avviare un percorso di cittadinanza attiva finalizzato alla formulazione di idee innovative, orientate alle necessità future e alla costruzione di una visione condivisa della trasformazione urbana. Un’esperienza che rientra anche nel campo del public engagement che sempre più connota i rapporti tra le università e i loro territori. Anche per tale motivo la scelta delle sedi dove si svolgeranno gli incontri si sono orientate verso luoghi della città consoni all’esercizio del dibattito pubblico, come si evince dal programma allegato.
C’è bisogno di una visione più consona alla situazione di crisi eco climatica, economica e sociale in cui ci troviamo. Non si può continuare con le vecchie logiche di “sviluppo” a base di cemento, plastica e combustibili fossili. La città va ripensata, come stanno facendo in molte città europee, con più verde, senza automobili private, con trasporti collettivi efficienti, con più spazi per attività sociali e culturali, salvaguardando il patrimonio culturale e naturale, riducendo l’inquinamento, garantendo a tutti l’accesso ad alloggi adeguati, difendendo i beni comuni e i servizi pubblici.
Una maledizione ispirata. È in libreria il nuovo romanzo di Sergio Kraisky
A volte, per fortuna, s’incontrano dei libri che è possibile recensire senza essere costretti a contorsionismi o equilibrismi. È il caso de La maledizione di Raspùtin, di Sergio Kraisky (Voland, Roma 2022). Infatti, per comunicare al lettore tutto quello che c’è veramente da dire su questo romanzo basterebbe una sola parola: leggilo.
Questa aurea raccomandazione vale, quindi, anche per il lettore di Periscopio, il quale – se si fida – può anche interrompere qui lo scorrimento di queste righe e procurarsi senz’altro il volume.
Per chi, invece, volesse saperne di più, diremo che i destini di Raspùtin sfiorano soltanto le pagine del libro: il punto d’intersezione è costituito dalla venuta al mondo del personaggio centrale – Pavel Krotovskij – in prossimità della Rivoluzione d’Ottobre e in coincidenza giusto della messa a morte dello starec siberiano “in una notte d’inverno del 1916”.
Già che le vicende narrate partono appunto da questi dintorni e approdano al presente, che fa da prologo ed epilogo al tutto, va da sé che le vicende della famiglia Krotoskij (la quale ha in sé scorta di sangue ebraico) s’intrecciano a tutto il palinsesto del ‘secolo breve’ e postumi.
In questo tragitto, la famiglia s’incontra e s’incrocia con un’altra stirpe non grata al Novecento, quella degli Schmidt, sì che la leggendaria maledizione di Rasputin imprigiona i personaggi attraverso le concretissime trappole del destino che li attendono dal nord dell’Unione Sovietica al sud dell’Italia, dall’est dell’Afghanistan all’ovest del Sud-America.
Trappole che non solo sconvolgono le vite dei protagonisti, ma sono destinate a irretirli in un limbo di ferite e di recriminazioni che non si risolve con la morte, in una condizione intermedia che richiama, esplicitamente, quella dei defunti di Bobok. È, infatti, questo il racconto ‘minore’ di Dostoevskij al centro del labirinto di carte lasciato in eredità da Pavel ad Aleksandr, al quale non resta che tentare di “fare ordine tra i ricordi dei morti”, come gli consiglia la moglie australiana Amber, perché non vi è altro modo “per mettere a tacere i fantasmi”.
Ma Aleksandr-Kraisky non è lo scrittore di incerte fortune Ivan Ivanovič e i suoi morti non sono semplicemente imprigionati nei ruoli e nelle maschere della vita che li ha abbandonati: piuttosto, alla vita essi sono stati crocefissi con i chiodi smisurati della storia e quelli sottili delle loro scelte.
Dal primo punto di vista, le fortune dei Krotovskij e degli Schmidt tramontano al sorgere del ‘900: essi vengono – come i Tunda e i Trotta di Joseph Roth – investiti rovinosamente dallo tsunami della contemporaneità:“scompariva tutto un mondo, le crepe di quel terremoto attraversavano la Russia in lungo e in largo, laceravano le famiglie e si insinuavano dentro l’anima delle persone”.
Appare però degna di nota la differenza essenziale (chissà se legata in qualche modo ai pochi decenni che intercorrono tra le catastrofi degli uni e quelle degli altri) nel tratto maschile dei personaggi di Kraisky rispetto a quelli di Roth. Per questi ultimi, infatti, la sottrazione del loro mondo costituisce anche il personale e completo sradicamento dall’esistenza, ciò che li rende infine – come nello scintillante explicit di Fuga senza fine – essenzialmente “superflui”.
I maschi Krotovskij, al contrario, non sono di quelli che si siedono tranquilli nel cuore di Parigi, accettando il cartellino rosso della Storia. Al contrario, mettono in campo un vitalismo narcisista che si orienta nei tempi cercando di coglierne le opportunità, come nel caso di Pavel che sfrutta ogni chance di diversione, di eclissi e di fatuità che la sovversione delle antiche regole – il demone dell’anomia, direbbe Durkheim – pone a sua disposizione.
Spetta allora alle donne sostenere dalle radici piante così ondivaghe, sì che stavolta sono loro a venir sradicate e fagocitate nel vuoto feroce di questi passatempi maschili. E quando Sigrid (Schmidt) tenta di sottrarsene, allontanandosi da Pavel e tentando di recuperarsi nell’Afghanistan della propria infanzia, in realtà va solo incontro a un’ulteriore e atroce declinazione – transculturale, verrebbe voglia di dire – di questa ferocia distratta, quasi burocratica.
La penna di Kraisky sostiene autorevolmente questo doppia declinazione della vicenda al maschile e al femminile, inerpicandosi, dal lato tragico, verso un’asciuttezza di linguaggio e una linearità narrativa che fa correre ancora una volta il pensiero a Roth.
Sull’altro versante, un’analoga sobrietà strutturale si colora però degli effetti di uno sguardo impietoso e ironico che porta a provare verso Pavel e soci il sentimento equivoco di una simpatia nauseata.
È un esperimento di scrittura davvero ben riuscito, che progressivamente sospinge il lettore ad abbandonarsi a quella complessità della vita che non si decompone nella morte, ma che anzi sopravvive alle cellule e permette a Pavel di rompere finalmente il silenzio con Aleksandr proprio da quella condizione intermedia, per avvertirlo che “il paradiso è qui, sottoterra. L’inferno, come si sa, è in terra, mentre in cielo, figlio mio, in cielo non c’è assolutamente nulla”.
Sono queste le ultime parole, ma forse anche le prime, che egli può dire al suo Saša. La maledizione di Raspùtin è dunque rotta, la pagina ha fatto infine ordine tra i ricordi dei morti e pacificato i fantasmi, ha permesso loro di trovare la via del silenzio autentico, così diverso dal mutismo terreno.
Eppure, scivolando verso la fine del testo, si ha come l’impressione di sentire Pavel – il quale aveva per professione una certa dimestichezza con la letteratura – bisbigliare ancora una parola, stavolta libera e rivolta a noi tutti: ”Leggetelo”.
Il volume: Sergio Kraisky, La maledizione di Raspùtin, Roma, Voland, 2022, € 17,00
Sergio Kraisky, romano, oltre che sociologo e romanziere, è anche un autore di Periscopio. Leggi i suoi racconti e i suoi articoli [Qui]
In copertina: Joseph Roth (primo a sinistra) con alcuni amici artisti e intellettuali olandesi in un caffè di Amsterdam (www.kuenste-im-exil.de).
Oggi vi presentiamo due novità in libreria, storie fresche fresche, profonde e divertenti: le avventure di due bambini un po’ ribelli a confronto con i guai della vita.
Ulf Stark, l’autore più letto e amato nel Nord Europa (dopo Astrid Lindgren di Pippi Calzelunghe), firma un racconto tenero e senza tempo sulla profondità del rapporto che può instaurarsi tra un bambino e un animale e i benefici per entrambi.
Il cane Ajax dal lungo naso rosa ha sette anni quando, nell’accogliente famiglia in cui vive, nasce Johan; tra loro è subito amicizia. Solo Ajax, con le sue leccatine sotto i piedi e dentro l’orecchio, sa placare il piccolo strillo-urlatore, soprattutto la sera, prima di dormire. Vi dico solo che la prima parola che pronuncia il bimbo non è né mamma né papà, ma BAU! Per stare in piedi si attacca alla pelliccia del suo fedele amico, se cade lui lo tira su. Avere un amico significa avere qualcuno che ci aiuta a rialzarci e ci fa ridere. Così come lo è avere qualcuno che ti gratta il collo o con cui dividere una salsiccia.
Così, tra giochi, passeggiate, merende condivise, pappine, lotte, corse sullo slittino soto la neve, battute di caccia a mosche e farfalle e tante cose da vedere (vasi di fiori, scarpe, calzini, il sole, il cielo blu, l’erba, le case e un cavallo), Johan cresce felice. Di notte i due amici inseparabili guardano le stelle, sono molte di più di tutti i calzini del mondo…
Intanto, fra un indovinello e l’altro, Ajax invecchia, è stanco e non vuole più correre, finché un brutto giorno, quando Johan ha sette anni, muore. Sognando, è volato in cielo, dice la mamma, lì può giocare allegramente e mangiare sempre cose celestiali.
Ma l’affetto e l’amore, che tutto possono e ovunque arrivano, spingono Johan a cercarlo in cielo e, dritto dritto fino allo spazio cosmico, dopo un lungo viaggio a cavallo, oltrepassati supermercato e benzinaio, vedrà finalmente un musetto in una piccolissima stella.
Con una svolta fantastica, Ulf Stark intreccia vita e morte – tema difficilissimo da narrare ai bambini (già ne avevamo accennato con Bigoudì) – grazie al filo potente dell’amicizia, in un cerchio che si chiude su una delicata nota di speranza. Un racconto allegro, tenero e intenso che sdrammatizza i piccoli-grandi guai della vita di ogni bambino.
Ulf STARK,Una stella di nome Ajax, illustrazioni di Stina Wirsén, Iperborea, collana I Miniborei, prima edizione 22 febbraio 2023, 64 pp.
Per tutti quelli che considerano i bambini degli adorabili angioletti, invece, questo albo di Barbro Lindgren ed Eva Eriksson sarà la prova dell’esatto contrario. Storia di un bimbo che non sa stare fermo. Un divertente classico contemporaneo, in rima.
Imprevedibile e temerario, sempre in cerca di avventure, il buffo Bimbo birbone non sa stare davvero fermo. Di notte, quanto tutto tace, lui salta come un grillo, gioca a fare l’aquila e l’orsetto, fa sempre quello che gli pare. Libero e indipendente, fin da piccolo.
Un bel giorno, molto noioso, ha proprio voglia di fare un gioco divertente: sale a bordo di una cassetta di legno, prende lo spazzolone e vi issa il grembiule della mamma come vela, fa scorta di girandole alla cannella e arruola la sua fidata ciurma di pupazzi: sor Coniglio, sor Giraffo e Trottolino. Il tappeto blu diventa il mare aperto e via, comincia il grande viaggio, dopo il saluto malinconico, con tanto di fazzoletto, della mamma. Il bimbo birbone, prode, temerario, impavido e coraggioso, ama i pericoli e le sfide, anche se i suoi amici strillano per lo spavento. Nessuno lo può fermare.
Naso dritto al vento, fra tempeste, un luccio ingordo, un gallo naufrago e un’immensa balena (che ricorda Pinocchio), niente può fermare l’intrepido capitano in erba quando è all’opera la sua fantasia, tanto meno la sua rassegnata mamma, che chiama per il pranzo.
Barbro LINDGREN, Bimbo birbone e il viaggio per mare, illustrazioni di Eva Eriksson, prima edizione 8 febbraio 2023, Iperborea, collana I Miniborei, 32 pp.
Ulf Stark (1944-2017)
È stato uno dei più importanti scrittori svedesi per l’infanzia e tra i più amati dai giovani lettori. Pubblicato con successo in tutto il mondo, ha ricevuto molti riconoscimenti, tra cui l’Astrid Lindgren Prize e il Nordic Children’s Book Prize. Iperborea ha pubblicato Sai fischiare, Johanna? (2017), vincitore del Premio Andersen 2018, Il bambino dei baci (2018), Il bambino mannaro (2019), Tuono (2019), Il bambino detective (2019), La grande fuga (2020), Piccolo libro sull’amore (2020), Animali che nessuno ha visto tranne noi (2021) e Ulf, il bambino grintoso (2021).
Stina WIRSEN (1968)
Nata a Stoccolma, è una delle illustratrici più rinomate della Svezia. Ha lavorato come illustratrice professionista sin dalla sua laurea presso la Konstfack University College of Arts, Crafts and Design nel 1992. Con grande esperienza nell’illustrazione di tutti i generi, è nota per i suoi libri per bambini e per i suoi ritratti nel campo della moda.
Barbro LINDGREN (1937)
È una delle autrici di libri per bambini più amate della Svezia. Dal suo debutto nel 1965 ha scritto libri per ogni età, tradotti in oltre 30 lingue. I suoi libri hanno ricevuto numerosi premi svedesi e internazionali. Nel 2014 ha ricevuto l’Astrid Lindgren Memorial Award. Iperborea ha pubblicato Povero Amleto, Storia di un signore piccolo piccolo e Bimbo Birbone.
Eva ERIKSSON (1949)
Nata a Halmstad, illustratrice e scrittrice, ha illustrato libri di Barbro Lindgren, Ulf Stark, Ulf Nilsson, Viveca Lärn e altri, ottenendo molti riconoscimenti, tra cui il Premio Astrid Lindgren. Dal 2003 al 2012 è stata membro dell’Accademia di Svezia per i Libri per Bambini.
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura diSimonetta Sandriin collaborazione con la libreriaTestaperariadi Ferrara
Poche case, abbastanza da formare un Paese, seguendo tre direttrici da Piazza Umberto I. Un parco alberato e recintato da mura in stile Impero, così come la Villa Comunale, all’interno dello stesso, che ospita il Municipio. Una Chiesa Barocca dal campanile a cuspide bombata. Attorno la fitta rete dei canali di irrigazione, che separano i coltivi, sui quali sorgono le abitazioni di chi li possiede, in regime di piccola proprietà. Quattro magnifiche Ville, su cui spicca quella dei potenti conti Saracco-Riminaldi, che possedevano terra fino al mare. Ma soprattutto Lui, a poca distanza dal paese, il grande fiume padre della Pianura, il Po, capace con la sua presenza di influenzare l’ambiente e l’umore degli abitanti, tra secche e minacce di rotta.
Poi il bosco, artificiale, ovvero di piante da coltura, residuo di quello ceduo di pioppi e altri alberi che sorgeva un tempo, fitto e intricato. Questa è zona di Terre Vecchie, solo parzialmente bonificate, quel tanto che basta per garantire un eccellente scolo delle acque piovane, in punti segnalati dalla presenza delle stazioni idrovore di pompaggio.
A poca distanza dal Paese, sorge poi un meraviglioso ponte romano: al Pont di Tri Occ’ (il Ponte dai tre occhi), con riferimento alle tre arcate in pietra antica che lo compongono, a sfiorare la superficie dell’acqua.
Questo, in sintesi, il Paesaggio più caro al mio cuore, quello di Ro Ferrarese, dove sono cresciuto, sin dall’età di cinque anni. Il paese di Vittorio Sgarbi, il critico d’Arte più amato/odiato d’Italia per le sue posizioni estreme ed i suoi improvvisi scoppi d’Ira televisivi. Contrariamente a lui, che sin da giovanissimo ha frequentato un Collegio, ho potuto passare l’infanzia e l’adolescenza vagando, ogni pomeriggio che Dio manda in terra, per le campagne circostanti. Ho imparato a costruire una canna da pesca, usando come galleggiante un tappo di sughero forato e la parte finale d’una penna di gallina. Ancora oggi potrei, scegliendo il salice giusto e qualche camera d’aria rossa da bicicletta, oramai introvabile, ma indispensabile per realizzare i tiranti, fabbricarvi una fionda che non ha niente da invidiare a quelle da caccia moderne che si vendono nei negozi. Oppure se preferite, una cerbottana o un fucile a gommini, tutte armi con cui divisi per bande, si faceva letteralmente la guerra, affrontandoci in campo aperto, nei giardini del Municipio oppure al campo sportivo. Certo, non eravamo molto attenti alla non-violenza, al pacifismo, valori che ho conosciuto soltanto alle Superiori, poiché alle Scuole medie “Leonardo da Vinci”, rigorosamente in paese, quasi ogni giorno volava qualche pugno, nel cortile, terminate le lezioni. Ricordo la frase di rito: “Ti aspetto fuori” e dovevi difenderti, c’era poco da fare. Era una violenza ereditata dalle generazioni precedenti – mio padre a Codigoro, negli anni Cinquanta, faceva le stesse cose – affatto calmierata dai Docenti, che ne erano ahimè, complici involontari, poiché non assistevano che a qualche schermaglia iniziale nelle classi. Però era una violenza “bonaria” – sempre ammesso che esista il termine – alla Peppone e don Camillo: due pugni, quattro sberle e il giorno dopo amici come prima, almeno nella maggior parte dei casi. Ora so che quelle dinamiche sono molto pericolose, ma allora, essendovi immerso, non me ne rendevo conto. Oggi, divenuto a mia volta Docente, presto la massima attenzione e smorzo sul nascere ogni episodio di sopraffazione, partendo da quella verbale, come è giusto che sia. Dopo questa doverosa precisazione, devo dire che sicuramente noi eravamo meno fragili dei miei alunni, certo non grazie alla violenza, ma in virtù delle maggiori relazioni sociali. Liberi di scorrazzare per il paese – poche automobili, zero criminalità o spaccio di droga verso gli adolescenti – ognuno di noi imparava ad essere autonomo in tutto. Se avevi fame, staccavi una mela, una pesca, qualche albicocca o molte ciliegie dagli alberi, nei campi, che non erano nemmeno recintati. I contadini sapevano e – chi più, chi meno – tolleravano, quando non ti sparavano a sale, ma lo facevano soltanto quelli più avari, e noi, una volta individuati, li evitavamo come la peste. Poi c’erano gli alberi di Rusticani, in dialetto, con parola veneta: Amoli, una specie di pruno selvatico di cui si mangiavano i frutti ancora acerbi, verdi e dal sapore amarognolo, che cresceva spontaneo lungo i fossi; qualche albero di fichi o un grande noce solitario, sotto le cui fronde passavi il tempo a schiacciare i frutti con un sasso per mangiarne il delizioso gheriglio.
Negli anni Settanta il paese era popolato e florido, ricco di attività. L’annuale fiera di San Giacomo era attesa da tutti noi ragazzi, perchè arrivava l’autoscontro, e soprattutto quella giostra pazza che viene comunemente chiamata Calcinculo, nome triviale che però restituisce da subito il funzionamento. Infatti, per poter prendere la coda sintetica, appesa ad un filo penzolante da un pennone, mentre i seggiolini incatenati giravano vorticosi a pochi centimetri da terra, allargandosi per forza centrifuga, occorreva mettersi a coppie. Uno dei due, quello dietro, teneva stretto il seggiolino dell’altro e, al momento giusto, lo lanciava verso il pennone dandogli una forte spinta con le gambe (il calcio-in-culo, appunto), o – i più forti – con le braccia. Chi prendeva la coda, staccandola dal filo, vinceva un giro gratis.
Il momento più atteso era però l’Albero della Cuccagna, antica tradizione medioevale, che consisteva nel dare la scalata ad un lungo palo verticale, infisso nel terreno e cosparso di olio da motore e grasso, formando una piramide umana. Naturalmente chi stava sotto doveva avere una forza notevole, per reggere la fila verticale che si andava formando, così come chi saliva doveva essere, man mano che la piramide cresceva, sempre più leggero ed agile, per riuscire a “scalare” tutti quei corpi, ed arrivare alla ruota posta in cima da cui pendevano prosciutti e salami. Tutt’attorno al palo veniva gettata molta paglia, per attutire eventuali scivolate e crolli di fila, che puntualmente si verificavano, mentre i componenti delle piramidi umane si inzaccheravano d’olio scuro e di grasso giallognolo, nel tentativo di arrivare in cima, fra le risa del pubblico disposto a cerchio attorno al palo.
L’Estate era poi tempo grato. La scuola chiudeva per le vacanze tanto attese e noi ci riversavamo per i campi o, in età adolescenziale, nei bar e nella gelateria del paese. Nostri luoghi di ritrovo erano il bar della Mercedes, una buffa signora attempata dal camice azzurro, sempre sorridente, che partecipava ridendo ai gavettoni di Ferragosto, lanciandoci divertita bicchieroni di acqua gelida. Qui potevi trovare le fiamme, paste dolci al cioccolato, prodotte dalla pasticceria Gallerani del vicino paese di Copparo, dove mio padre ci portava in auto, la Domenica, per gustare i loro fantastici bignè alla panna. L’altro luogo di ritrovo era la gelateria Stoppa, dove la titolare faceva granatine al gusto di amarena, menta, limone o tamarindo, tritando il ghiaccio in pezzi grossi dentro bicchieri da birra con il manico, e versandovi sopra un concentrato di coloranti: lo sciroppo. Faceva anche gelati buonissimi, in pochi gusti: crema, dal sapore di limone, cioccolato, panna e panna ed amarena, ma soprattutto aveva un calcino, o calcio-balilla, attorno al quale passavamo le giornate sfidandoci in partite tiratissime, gioco in cui, modestamente, sono ancora oggi molto bravo.
Oggi il paese è ridotto ad un dormitorio, tanto per usare un eufemismo. Le bande di ragazzi in bicicletta, il nascondino notturno con quaranta persone all’aria aperta, i gelati, le trattorie e i bar, sono solo un lontano ricordo. Resta qualche buon Agriturismo, diversi ristoranti, la riproduzione di un vecchio mulino sul Po, qualche bar, pochi negozi. In cuor mio spero che il paese si riprenda, per non so quale miracolo, poiché mi addolora vederlo così ristretto, anche se ogni tanto il richiamo del passato è così forte che non posso non percorrere in macchina quel paesaggio che amo, poi, parcheggiare in Piazza Umberto I e camminare silente per il paese, nella speranza di incontrare qualcuno di amico, che allarghi nuovamente il mio cuore, rinnovando i ricordi di un tempo.
Questo testo è apparso recentemente su: Il giornale di Rodafà
In copertina: Al Pont di Tri Occ’ (il ponte dei tre occhi), via Ponte Tabarro, Ro Ferrarese (FE) – foto di Stefano Agnelli
La Russia, il nuovo oro e il futuro ordine mondiale (con l’Europa ai margini)
Il Fondo Monetario Internazionale (con sede a Washington) ha pubblicato le previsioni del Pil per il 2023, da cui si desume che la Russia crescerà di +0,3% (anziché di -3,4% come previsto in precedenza, per non parlare dei numerosi esperti occidentali che parlavano di una contrazione di oltre il 10%). Poco, ma più di paesi come Germania (+0,1%) e Inghilterra (-0,6%) e non distante da quello dell’Italia (+0,6%).
L’inflazione in Russia sarà del 5-7%, simile a quella in Europa e in Italia. Ma la cosa più sconcertante è che le previsioni del FMI per il 2024 siano di una crescita della Russia maggiore di quella degli Stati Uniti, Inghilterra, Germania, Francia e Italia. “Com’è possibile – si chiede Federico Rampini sul Corriere – che il paese colpito dalle più grandi sanzioni della storia, abbia una crescita maggiore della nostra?”.
Il problema di Rampini e di gran parte dell’élite occidentale è che sono rimasti all’idea che la finanza anglosassone, che ha guidato la globalizzazione negli ultimi 20 anni, avrebbe conferito quel potere “definitivo” per dominare il mondo anche nel XXI secolo. Ma così non è, perché nel frattempo è cresciuta la Cina con un inedito potere nelle mani, quelle materie prime oggi fondamentali per tutte le innovazioni tecnologiche.
E’ inoltre cresciuta la galassia dei paesi “non allineati”, che non sono più disponibili a sottostare al dominio americano e che ora esportano verso la Russia ciò che non fa l’Occidente “sanzionatore”: Emirati Arabi Uniti, India, Armenia, ex repubbliche sovietiche, Hong Kong, Turchia (che pure è nella Nato) per non parlare di Iran, Cina e molti altri, che smistano verso la Russia quelle merci che l’Occidente non esporta più (inclusi i microchip per le armi). Il paradosso è che è stata proprio la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia a creare quella fitta rete di snodi che oggi by-passa le sanzioni.
Ciò spiega la graduale ripresa dell’economia russa. Metà degli Stati nel mondo non hanno approvato le sanzioni (73 paesi astenuti all’ONU il 14 novembre; 14 contro; 93 a favore) e non vogliono compromettere i loro rapporti con Cina e Russia. Molti di questi paesi aggirano le sanzioni occidentali ed esportano verso la Russia: ciò spiega come mai chip e ricambi arrivino quasi come prima.
Il New York Times ha rivelato i meccanismi che consentono alla Russia di aggirare le sanzioni ed esportare gas e petrolio, indirizzandoli verso altri paesi. Secondo il sito Kpler, in gennaio la Russia ha consegnato via mare 158 milioni di barili, uno dei livelli più alti dell’ultimo anno, grazie a Cina e India, che hanno aumentato le importazioni. Il Wall Street Journal racconta la storia della Gatik Ship Management, una compagnia indiana, che fino al 2022 non gestiva neppure una nave, ma ora controlla 25 petroliere che fanno la spola tra la Russia e i mercati asiatici. Così dicasi per la greca TMS Tankers, che in un solo mese ha fatto 14 viaggi per consegnare il greggio di Mosca, o la sussidiaria del Cremlino Sovcomflot con sede a Dubai.
A volte il petrolio viene travasato da un cargo all’altro in acque internazionali, come fanno anche Iran e Corea del Nord. Del resto, se venisse a mancare in molti paesi l’export russo di petrolio succederebbe quello avvenuto col gas: i prezzi andrebbero alle stelle. Il blocco all’export di chip e pezzi di ricambio occidentali è aggirato dall’import da paesi amici, come l’Armenia, che ha aumentato l’import di smartphone di 10 volte per poi probabilmente esportarli in Russia. Ciò spiega come mai l’import di chip in Russia sia addirittura cresciuto dal 2021 al 2022 da 1,8 a 2,5 miliardi (fonte International Finance), grazie a Cina, Hong Kong, Turchia, Bielorussia, Kazakhstan e Kirghizistan che si prestano ad operazioni simili (dalle lavatrici ai pezzi di ricambio per le auto).
Su La StampaOleg Smirnov scrive che “le sanzioni dell’Occidente non hanno sortito l’effetto che molti prevedevano”, nonostante il blocco di 300 miliardi di dollari delle riserve russe presso le banche occidentali estere, la forte riduzione delle importazioni di materie prime ed energia, il blocco dell’export di tecnologie occidentali e l’esclusione delle banche russe dal sistema Swift. E’ vero che molte multinazionali hanno abbandonato la Russia (tuttavia, la maggioranza sono rimaste) ma i loro negozi sono stati sostituiti da altri russi con merci locali e l’occupazione persa (circa 200mila persone) è stata rimpiazzata da moltissime donne, che lavorano al posto degli uomini finiti al fronte (come accaduto anche durante le guerre mondiali).
Intervistato da La Stampa, Evgeny, 55 anni, medico di San Pietroburgo, che può considerarsi un rappresentante del ceto medio, dice che “ai tempi dell’Unione Sovietica non avevamo prodotti occidentali, quindi siamo abituati, la guerra non ha influenzato particolarmente le finanze familiari, i prezzi di alcuni prodotti di prima necessità sono aumentati un pò, ma niente di insostenibile”. Le vendite di automobili in Russia nel 2022 sono crollate del 58% ma i pezzi di ricambio arrivano dai Paesi asiatici o dalle cosiddette “importazioni parallele”, cioè paesi terzi, come Turchia, Kazakhstan, etc.
Contrariamente alla narrazione mainstream, in Ucraina è in corso una guerra per procura tra USA e Russia, che vede la Cina come il vero “convitato di pietra” del XXI secolo. E’ probabile che l’invasione dell’Ucraina sia avvenuta col consenso della Cina, che dal 2009 lavora a un nuovo Sistema Monetario Internazionale in cui il dollaro non sia più l’unica moneta di “ultima istanza”, ma ci sia anche lo yuan cinese.
Gli Usa hanno debiti con l’estero per una cifra da capogiro (19.100 miliardi, 11 volte il Pil dell’Italia), mentre la Cina ha un attivo di 4.100 miliardi (e la Russia di 600 miliardi). Già nel 2009 c’era stato un approccio della Cina coi BRICS (Brasile, Russia, India, Sudafrica) per avviare questo processo. La scelta di Lula (Brasile) di non mandare armi all’Ucraina conferma l’interesse per un nuovo assetto monetario che si va costruendo anche in America Latina – un disegno che aveva in mente Gheddafi per il Nord Africa, stroncato con la sua uccisione nel 2011.
Il dominio del dollaro si basa su tre fattori: a) la forza economica degli Usa; b) la potenza militare; c) la finanza occidentale, cresciuta in modo impetuoso negli ultimi 20 anni, quasi tutta nelle mani degli anglosassoni.
Gli Usa pensavano che col dominio della finanza non ci sarebbe stata partita nel XXI secolo, ma hanno fatto male i loro conti. La Cina, dopo la sua straordinaria crescita economica (favorita paradossalmente proprio dalla decisione delle multinazionali americane di favorire la sua entrata nel WTO), ha deciso nel 2009 di valutare di “mettersi in proprio”. La Russia, che fino al 2014 pensava ad un’ alleanza strategica con l’Europa – specie attraverso la Germania, che godeva di uno straordinario vantaggio da questa alleanza ma che lavorava anche per un’ Europa più indipendente dagli Usa -, ha capito che gli Americani avrebbero impedito questa alleanza e si è rivolta – senza entusiasmo – alla Cina, offrendo forza militare e materie prime. La Cina ha così sostituito la finanza occidentale (il nuovo oro del XXI secolo degli Americani) con il suo nuovo “oro”: le materie prime.
Questa è la vera partita in corso a livello mondiale, da cui l’Europa può subire un contraccolpo enorme se, come prevedibile, non sarà possibile sconfiggere la Russia militarmente e si dovrà arrivare, prima o poi, ad un cessate il fuoco. La “pace” successiva tra Russia e Ucraina sarà appoggiata sopra l’edificio di un nuovo equilibrio mondiale, che vedrà un declino del dollaro come moneta di riserva internazionale e un’ascesa dello yuan.L’Europa, che avrebbe potuto beneficiare di questi nuovi equilibri mondiali, sarà invece penalizzata dal suo essersi accodata agli Usa.
Ciò spiega perché il rublo sia rimasto stabile sul dollaro (76 rubli per 1 dollaro) come era prima dell’esplosione del conflitto Russia-Ucraina, dopo essersi svalutato violentemente nei primi mesi successivi all’ invasione. I cambi monetari sono influenzati da molti fattori e sono un buon indicatore del futuro atteso.
L’UMANITÀ TRADITA Le immagini del flash mob di Ferrara
Un flash mob particolarmente affollato, quello di sabato 4 marzo in piazza Municipale, proprio sotto lo scalone del Comune di Ferrara. Per non dimenticare un barcone affondato a 100 metri dalla riva nell’indifferenza di chi poteva e doveva salvarli, le decine di morti e dispersi, i commenti indecenti dei nostri governanti, le responsabilità che devono essere accertate. Erano in tanti in piazza a chiedere di non dimenticare, più di 200 persone, di tutte le età e di tutte le etnie. Una ventina di loro portavano al collo il ritratto di bambini stranieri realizzati da Mirian Cariani, già esposti a Ferrara, e ora in viaggio verso Bologna. La redazione di Periscopio
Ogni domenica Periscopio ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio. Per leggere tutte le altre poesie dell’autore, clicca[Qui]
POESIA IN MANICOMIO Mezzo secolo di donne al manicomio, a San Servolo (Venezia) dal 4 Marzo 2023 al 16 Aprile 2023 La presenza della poesia nella mostra Leaves/Lives. Come le foglie.
E’ stata inaugurata oggi, 4 marzo ’23, a San Servolo (Venezia) la mostra Leaves/Lives. Come le foglie. Mezzo secolo di donne al manicomio
San Servolo srl, società in house della Città metropolitana di Venezia, ha promosso e sostenuto questa mostra destinata ad emozionare e a far meditare
Contare i giorni di permanenza in ospedale, censire per ognuna il nome, l’età al momento dell’ingresso e, in caso di morte, l’età alla morte, è l’idea su cui si basa questa esposizione, o meglio questa installazione, curata dalla psichiatra Maria Cristina Turola e dal suo gruppo.
«Questa mostra nasce per voler rappresentare tutte le donne che sono state in cura nel manicomio di Venezia – spiega la psichiatra – Ognuna delle 10mila che abbiamo individuato come presenti nella struttura tra il 1900 e il 1950 sarà rappresentata con una foglia colorata in cui c’è scritta la data, il nome e il numero di giorni trascorsi in cura nel manicomio. La mostra nasce da una domanda: quante donne c’erano ricoverate a San Clemente e San Servolo. L’idea è quella di dare un impatto emotivo attraverso quello che diventa un autentico bosco di foglie installato lungo i corridoi che conducono proprio alle stanze dell’archivio di San Servolo. Sono tante le storie che colpiscono e che mi hanno colpito sfogliando le migliaia di fascicoli che abbiamo riaperto, quasi tutte sono molto tristi, da parte nostra c’è la voglia di raccontarle sperando che questa mostra possa essere l’inizio di un ulteriore percorso di ricerca».
Come ha spiegato la stessa dottoressa Turola le donne sono rappresentate tutte insieme in un grande albero orizzontale in cui ognuna di loro è una foglia e un nome, con un impatto visivo ed emotivo forte: migliaia di foglie disposte lungo le pareti, verdi per le donne dimesse e marroni per quelle morte; le diverse gradazioni di colore rappresentano l’età al momento del ricovero.
All’interno di questa installazione mi è stato chiesto di commentare con dei testi poetici, una decina di fotografie di donne rinchiuse a San Servolo nella prima metà del secolo scorso. Il legame tra follia e poesia è molto stretto.
Scrive Eugenio Borgna:“Come hanno sempre fatto gli psichiatri di lingua tedesca, francese e olandese, capire qualcosa del dolore, dell’angoscia, della disperazione, richiede conoscenze di psichiatria ma anche di filosofia, di letteratura e di poesia: scienze umane che, alleate, sono indispensabili alla conoscenza e alla cura. La sola farmacologia può essere adeguata alle altre discipline mediche, ma in psichiatria il mistero della vita interiore oltrepassa ogni rigido criterio tecnologico. La follia è la sorella infelice della poesia”.
Il movimento è duplice.
La follia o comunque il manicomio ha attraversato da Friedrich Holderlin a D.F.Wallace la vita di moltissimi poeti e scrittori.
D’altro lato, la grande poesia e i grandi romanzi consentono alla psichiatria di dilatare e di ampliare la conoscenza dell’anima che ne è l’orizzonte infinito.
La follia e la poesia confluiscono in una straordinaria associazione creativa. Non importa qui la poesia come ‘terapia’, ma la poesia come lingua dell’eccezionalità e dell’eccedenza, La poesia è il calco delle zone oscure, o delle inaccettabili luminositàdell’uomo, e leggere è una cura, cara, feroce Seasumus Heaney parla del potere riparatorio della poesia rispetto al dolore.
Vi sono quindi due modalità differenti di vivere la poesia.
Sembra, voglio dire, che esista un modo di sentire la poesia come missione estetica, come compito letterario . E un altro, disgiunto, dove non hanno ragione i gusti, la sferica sapienza del verso, il canone o il piacere: qui la poesia non si valuta per superfici ma in profondità.
La poesia non si spiega.Dario Borso parla di una poesia “scritta a matita”: ha l’ambizione di sparire come forma per lasciare spazio al raggiungimento dell’interiorità.
Possiamo parlare con Borges di magia della parola che si manifesta attraverso il ritmo, una musicalità, un intreccio di suoni e pause.
La poesia è parola, le stesse parole usate nella quotidianità possono diventare nella poesia elementi magici. Una parola messa in una diversa posizione nel verso assume altro significato. Nella poesia ogni parola ha un peso.
Senso e significato sono importanti, se c’è il sentire, bellezza lirica avvertita istintivamente a livello intimo.
Perché è dai tormenti dell’io che la poesia prende forma, si plasma ed emerge.
Senza questi tormenti il seme poetico non potrebbe attecchire, il linguaggio poetico istituisce un mondo. La poesia incendia il mondo: “Se la prosa è una casa la poesia è un uomo in fiamme che l’attraversa correndo” per dirla con Anne Carson .Quella poesia che viene vista da Heidegger come soluzione all’inadeguatezza del linguaggio e della tecnologia.
Il linguaggio poetico ha infatti questa capacità di svelare il mondo metaforico che giace dentro tutti i nostri discorsi ordinari come una coscienza addormentata.
Ed ecco che allora i visi delle donne matte di san Servolo possono parlare oggi al nostro cuore attraverso la poesia perché accostarsi alla poesia non richiede particolare cultura ma rispetto, perché ,come dice la poetessa tedesca Gertrud Kolmar, tu sfogli una persona! “Mi tieni nelle tue mani Il mio cuore batte nel pugno come quello Di un uccellino. Tu che leggi fa’ attenzione Ecco, sfogli una persona”.
Concludo così questo viaggio lasciando una delle mie poesie presenti in mostra SOLA
(occhi chiusi) Non dormi? No
Come mai? Pensieri
Su cosa ?
Vedo la Vita ovunque mi giri irraggiungibile al mio sguardo un vestito stretto o allargato troppe volte Qui mi sento sola La stessa solitudine di questa isola da cui non andrò mai via e dove mi parlano bocche con parole senza sale
Sempre ? Non sempre
(occhi aperti) Ricordo l’esperienza straziante dell’amore e l’acqua è ancora acqua la terra terra E io non sono più quella di adesso
Io sono una donna
“Mezzo secolo di donne al manicomio“
Isola di San Servolo (Venezia) dal 4 Marzo 2023 al 16 Aprile 2023 La presenza della poesia nella mostra Leaves/Lives. Come le foglie.
Dal lunedi al venerdi 11,30-13 e 14,45-16.00 ingresso gratuito.
Per raggiungere San Servolo: linea 20 vaporetto da san Zaccaria
Cover: Il grande complesso sull’isola di San Servolo (Venezia), adibito prima ad ospedale, quindi a manicomio, Nel 1978, a seguito del Legge Basaglia. l’istituto manicomiale è stato chiuso. Ora è adibito a museo e sede di mostre. – Foto d’archivio del Museo di San Servolo)
la Grande Distribuzione Organizzata è la massima dimostrazione dell’omologazione su grande scala della nostra vita. affascinante da fotografare quanto da comprendere nella realtà. in foto una serie sterminata di cassette della frutta perfettamente accatastate come un muro, ma potrebbero essere le rampe di carico per i camion di un polo logistico o i lunghi scaffali delle reti dei supermercati. in comune hanno la serialità e la democratizzazione dei prodotti, tutti perfettamente uguali nel loro metodo di mercificazione. solo una rotazione di esposizione come a dare importanza ad alcuni prodotti in periodi di vendita prestabiliti; le feste comandate tra cui Natale, Pasqua e vacanze estive.
questa quantità ci costringe a guardare con lo stesso occhio o meglio ci guarda con la sua enormità per dimostrarti la tua piccolezza, diversa su uno sfondo univoco, e proprio per questo non desiderabile. allora provi a mimetizzarti tra gli altri, renderti desiderabile secondo canoni mercificatori. secondo questi canoni: la quantità rende uguali, la qualità diversi, l’uguaglianza dovrebbe rendere desiderabili, mentre la diversità, sacrificabili. i geografi hanno inventato, filosoficamente, una nuova parola non-luoghi. posti uguali in qualunque parte del pianeta. come dire che Ferrara è Ferrara anche perché ha il Castello Estense e la piazza Ariostea, ma che una sala bet&win è una sala bet&win perché rimane una sala scommesse in qualunque parte del pianeta.
Andy Wahrol lo aveva preannunciato, lo sentiva nella realtà e lo riproduceva nell’arte, nella sua serialità serigrafica. rendere tutti uguali, democraticamente omologati ti porta con l’occhio a cercare una cassetta rossa tra milioni di cassette verdi. poi c’è chi davanti questa scoperta si emoziona e chi si irrita, come chi trova una “rara bellezza” o uno “scomodo intruso”. parte tutto dal desiderio di qualcosa che ci appaghi, molto simile a noi o all’opposto di qualcosa che ci faccia stare scomodi, molto lontano da noi, ma in evolvere.
Dopo un anno di guerra in Ucraina innescata dalla Russia, cosa possiamo dire di aver capito e cosa possiamo imparare da questa esperienza?
Non si tratta di un problema di strategia politica, o di forza militare e economica. O si cambia la prospettiva dei valori ai quali tendere oppure la storia continuerà a ripetersi. Rendere un punto di non ritorno il concetto che la guerra non è all’altezza né della dignità umana né dell’evoluzione degli esseri umani e quasi sempre non risolutiva. La guerra è un’azione primitiva.
L’altra lezione evidente in questa esperienza è che ogni volta che si tradisce un valore democratico, sia per necessità contingente che per interesse particolare, questa scelta ti rende più debole nell’avanzamento della realizzazione della democrazia.
La guerra congela il naturale procedere dello sviluppo umano.
Avviene quando gli uomini si dimenticano della loro qualità umana e si arroccano nell’idea di essere dalla parte della ragione. Ancora di più si crede che sia il rapporto di forza a costruire la storia e adesso si crede nella nuova dottrina, che il valore umano si misuri con la quantità di ricchezze e la capacità di possesso.
La storia non è fatta, come ci insegnano, del susseguirsi di guerre, ma dalla conquista e dalla realizzazione della qualità umana per tutti; quindi, non è costituita da un susseguirsi di rapporti causa-effetto, ma dal coraggio da parte di chi decide di comprendere e rendere concreto nella realtà ciò che gli esseri umani desiderano, epoca per epoca (come evidenzia chiaramente Angela Volpini in L’uomo creatore, Castelvecchi Editore, 2016) La storia accade perché la si fa accadere, perché qualcuno sceglie di compierla.
La storia è trasformazione e cambiamento e avanza solo per gli atti di coraggio compiuti da persone che scelgono sopra tutto la vita umana e la sua qualità, cercando di rispettare la dignità dei popoli, perché anche questo è un modo per non arretrare rispetto a ciò che si è già conquistato.
La storia dell’Europa insegna che le guerre ostacolano, fino a bloccare, l’incedere già faticoso della civilizzazione umana. Non risolvono i problemi ma li complicano, perché inaspriscono le ingiustizie e le disuguaglianze sociali.
Da sempre, invece, la storia umana si è costruita sullaconquista di spazi di libertà sempre più evoluti, condivisi e legati alla coscienza di sé e dell’ umanità condivisa.
Chi ha detto che solo gli Stati Uniti e la Cina possono aprire un tavolo per fermare questa guerra?
L’Onorevole Paolo Ciani, deputato e segretario di Demos, ha fatto bene a sostenere la realizzazione nelle diverse città d’Italia del progetto Europe for peace e va sostenuto, affinché possa farsi portatore presso la commissione europea dell’idea di promuovere l’apertura di un tavolo europeo per iniziare un confronto tra i due popoli coinvolti nella guerra. Un incontro è indispensabile per proporre un ‘cessate il fuoco’ condizione necessaria per iniziare un processo di costruzione di una convivenza possibile.
L’Europa deve uscire dal limbo della sua indeterminatezza deve assumersi la responsabilità di promuovere la pace, che è la sua scelta che è la conseguenza della sua esperienza storica, oppure deve accettare di sparire come realtà. Deve farsi portatrice di un progetto di sospensione delle azioni di guerra e aprire un tavolo per la definizione di un cammino di convivenza tra tutti i popoli europei.
Questa sua potenzialità è stata evidente quando l’Europa ha fermato l’invasione dell’esercito russo riconoscendo il diritto del popolo ucraino ad autodeterminarsi e gli ha fornito gli strumenti per difendersi. Senza la decisa scelta del popolo ucraino, sarebbe stato inutile qualsiasi invio di mezzi di sostegno: è la volontà del popolo ucraino che ha fermato l’avanzamento dell’esercito russo.
Il fatto di sostenere il popolo ucraino con aiuti militari, ponendolo in contrapposizione alla costruzione di un cammino di pace è un comportamento primitivo, perché perseguire un progetto di pace non significa sospendere gli aiuti allo stato aggredito.
Bisogna ricordare che in Russia non si spara, non ci sono carri armati: i bombardamenti sono tutti in Ucraina. Il mondo non è fatto di contrapposizioni e schieramenti, ma di complessità, richiede capacità di ascolto reciproco, senza dimenticare la storia di chi si confronta.
La pace non è l’assenza di guerra, ma è il cammino di un processo storico per realizzare la giustizia sociale fondata sulla libertà dei singoli. Quindi è scegliere la democrazia, non solo come valore fondante, ma anche come valore trainante per le persone che si assumono la responsabilità di guidare le società strutturate sui valori della libertà e della pace.
Ciascuno Stato europeo deve essere fedele alla scelta compiuta per realizzare l’Europa e smettere di chiedere agli altri paesi questa garanzia, perché in questo modo dimostra di non credere per prima alla propria scelta di una democrazia basata sulla solidarietà e sul benessere condiviso.
E’ giunto il momento di superare l’idea che ogni scelta sia una rinuncia. Ogni scelta, piuttosto, è l’inizio di un progetto che investe più parti, e ogni progetto esige tempi, strumenti e strategia di realizzazione; se si deve parlare di rinuncia l’unica rinuncia è quella di esercitare il potere come sopraffazione sugli altri.
La democrazia deve diventare una ricerca di un bene comune che non è un compromesso ma implica uno sforzo creativo perché tutti i valori siano inclusi, contemplati e previsti. Fare politica non è fare compromessi, ma la creazione di uno spazio che contenga la possibilità che si realizzi un bene comune a tutte le parti in gioco, cioè contenga tutte le istanze previste dalla Costituzione che descrive i valori riconosciuti da tutti.
Come l’Europa si è riunita per cercare di contrastare l’atto violento di Putin, così potrebbe pensare di aprire un dibattito sulla possibilità di costruire una pace duratura tra i due popoli interessati perché ha esperienza e linguaggio per poterlo fare; i territori del Donbass possono essere riconosciuti come appartenenti all’Ucraina, ma governati da statuti speciali di autonomia, in modo da non umiliare la Russia, che potrebbe così considerare di non aver perso.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale dimostra che umiliare i vinti non è condizione favorevole a una duratura convivenza pacifica dei popoli. La Storia la fa chi ha il coraggio di riconoscere e realizzare la qualità umana desiderata e sperata, e la rende possibile creando strumenti e condizioni perché ciò che è desiderato diventi realtà. Non è chi ha ragione o ha torto che fa la Storia ma chi rende possibile la realizzazione di ciò che tutti desiderano.
Per leggere gli altri articoli di Grazie Baroni su Periscopio [vedi qui]
Un cortometraggio che deve diventare grande, fino a trasformarsi in lungometraggio. Una prova per mettersi in gioco, un po’ come accaduto per Whiplash di Damien Chazelle. Tappe pazienti che portano a una storia. Piano piano, poco alla volta. È questa l’idea di Mattia Bricalli, giovane regista lombardo – ma ferrarese di adozione – al quale abbiamo fatto alcune domande sul film che sta girando in questi giorni nella zona di Formignana: “Madre Terra”, in uscita a giugno.
Sceneggiatura di Achille Marciano, conosciuto al Ferrara Film Corto Festival cui aveva partecipato nel 2020 con una sua opera, il film racconta la storia di una famiglia: il padre Galileo (Achille Marciano), la madre Sara (Francesca Lozito) e la loro bambina Allegra (Martina Baglioni). Questa famiglia come tante vive in una grande metropoli caotica e moderna, circondata da ogni tipo di confort che la vita di città può e sa offrire.
“Inizialmente avevo pensato a una connotazione precisa di una città”, ci dice, “una megalopoli americana dove l’alienazione e l’estraniazione sono ai livelli massimi, ma poi ho deciso di togliere ogni riferimento a un luogo specifico”. Fuga dalla città.
“La città è malata ovunque”, continua, “il consumismo che la divora e che crea conflitto è sempre lo stesso. Più spendi più spenderesti, sempre alla ricerca di un nuovo oggetto dei desideri. Nulla basta mai, nulla basta più”. Molti di noi se ne stanno rendendo conto.
I genitori sono esterrefatti: come è possibile che la loro figlia sia malata a causa dell’inquinamento quando vivono fra depuratori e condizionatori che producono un’aria perfetta, in un ambiente elegante, curato e quasi asettico?
L’insorgere di una malattia autoimmune nella piccola Allegra, e il peggioramento rapido, portano allora la famiglia a compiere una scelta drastica: abbandonare la tanto amata vita di città per spostarsi in aperta campagna, in un vecchio casolare appartenuto al nonno di Galileo. Riflessione numero due. Molti di noi stanno pensando ad andarsene dal caos, altri lo stanno semplicemente facendo.
Eccoci allora approdare al vecchio casolare vicino a Formignana, “un luogo pazzesco”, ci dice Mattia, “un luogo di storie mai raccontate, pieno di ricordi. Mi sono subito innamorato del posto, una casa piena di oggetti trovati dal proprietario, non comprati, nessun oggetto è stato acquistato. Sono storie arrivate qui e non cercate. Il proprietario del casolare isolato nella campagna nebbiosa vuole far conoscere realtà mai viste da molti. E io ho adorato ascoltarlo”. Una dimensione quasi felliniana. “D’altronde, a Fellini mi ispiro, pur amando molto Tarantino”. La nebbia delle riprese di oggi conduce per mano.
“Chi in passato viveva solo su quella terra”, conclude, “ci lavorava e ci viveva con quanto aveva, non sapeva dell’esistenza di altro, non c’erano mezzi di comunicazione che mettessero in contatto con il resto del mondo, quello che si aveva bastava. Oggi, invece, si è sempre alla ricerca di qualcosa”. Riflessione numero tre, verissimo, ahimè.
Ma torniamo alla piccola Allegra. Il contatto con la terra e i suoi frutti e la lontananza dallo smog e dall’inquinamento cittadino potrebbero essere di enorme aiuto per il miglioramento del suo delicato quadro clinico. Superati i primi ostacoli e il trauma per un cambio così radicale di vita le cose iniziano a incanalarsi sui giusti binari, Galileo e Sara trovano il proprio equilibrio e la bambina migliora a vista d’occhio.
Il tempo passa e tutto sembra procedere per il verso giusto quando delle losche figure (Dario Masciello e Bianca Berto), appartenenti a un’importante multinazionale ‘pirata’, compaiono nelle loro vite, minacciandoli.
Quella terra è fertile, persone senza scrupolo commercializzano fertilizzanti e vogliono creare dipendenze, rendere gli agricoltori schiavi moderni. ‘OGM invasion’.
Galileo e Sara faranno di tutto per mantenere l’equilibrio ritrovato …
È un (bel) appello a (ri)tornare alla terra, alla Madre Terra, alle sue radici e alle proprie, alla semplicità, alla bellezza di un tramonto, a quelle radici che stiamo perdendo.
Tornare a quella terra, satura di ricordi, viva, palpitante, fertile, che c’è sempre, c’è sempre stata, connessa nel tempo. È necessario fare un reset e ripartire.
La felicità è a portata di mano, sta nelle cose semplici, spesso vicino a noi, basta accorgersene. Semplice ma vero (riflessione numero quattro).
Futuro e passato si risolvono nel presente e per questo c’è, nel film, anche un arrivo/ritorno dal futuro. Ma il presente è e resta la soluzione. Perché il futuro è il presente, che attinge dal passato.
Il tempo, in fondo, non è che finzione.
Foto di Valerio Pazzi, riprese del 23 e 24 febbraio 2023
L’ennesimo naufragio, una tragedia annunciata con 67 morti di cui tanti bambini, ha riempito di morte il nostro Paese e di ipocrisie e di propaganda i nostri governanti.
Il controllo delle frontiere significa non soccorrere una nave piena di bambini? Se stanno annegando sono immigrati clandestini o sono naufraghi?Naturalmente secondo il ministro Piantedosi la responsabilità è delle vittime, persone spericolate che mettono a rischio le vite dei loro bambini, invece di tenerli al sicuro nei lager turchi o libici, foraggiati dai governi italiani, o sotto le bombe in Siria o tra attentati e assurde imposizioni in Afganistan. O nel continente africano saccheggiato dal colonialismo, dalle multinazionali dove dal cacao al coltan tutto finisce nei Paesi ricchi, in cambio casomai di armi con cui funestare interi Paesi.
Sono questi i luoghi sicuri?
Caro ministro non si può fermare chi fugge dalla violenza, dalle guerre dall’oppressione, dalla schiavitù, dalla fame, dalla siccità. Le politiche di chiusura hanno dimostrato di essere fallimentari, favoriscono solo il traffico di esseri umani.
Chiediamo con ancora più forza che: • siano aperti canali legali e sicuri d’ingresso in Europa • siano evacuati i campi di detenzione in Turchia come in Libia • Italia ed Europa mettano in mare missioni di soccorso istituzionale • le navi della flotta civile, delle ONG possano operare senza ostacoli e criminalizzazione.
In mare si muore. In mare si affoga. E, come recita una poesia,
Chi fa calare i veli dal cuore In terra Muore anche Di impotenza
Per denunciare questi tragici accadimenti la Rete per la Pace di Ferrara organizza un flash mob per sabato 4 marzo alle ore 17.00 in Piazza Municipale e invita tutta la cittadinanza a partecipare.
Rete per la Pace Ferrara
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