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Ferrara cambia o si rifiuta? Siamo oggi a un bivio:
continuare con la Gestione privatistica di Hera o ripubblicizzare il Servizio Rifiuti adottando il sistema porta a porta

Torno ad occuparmi della vicenda della gestione urbana dei rifiuti e del suo ciclo nel Comune di Ferrara, perché probabilmente stiamo arrivando ad un punto di svolta. E’ una questione aperta da ormai molto tempo, perlomeno dalla fine del 2017, quando è arrivata alla sua scadenza la concessione della gestione dei rifiuti urbani ad Hera nel Comune di Ferrara, che, peraltro, continua a svolgere in un regime di proroga. Nella primavera del 2022, dopo lunghe vicende, si era giunti alla determinazione di affidare ad Unife uno studio di fattibilità per approfondire il passaggio ad una gestione svolta da una nuova azienda pubblica in house e con la modalità organizzativa della raccolta Porta a porta “spinto”.

Alcuni mesi fa, lo studio è giunto alla sua conclusione ed è stato presentato pubblicamente in una riunione della Commissione consiliare Ambiente il 6 giugno scorso.
Lo studio contiene alcuni spunti interessanti, ma è lacunoso in altri e, soprattutto, nel suo insieme, poco convincente nei suoi risultati e, ancor più, nella sua impostazione di fondo. Infatti, lo studio si conclude evidenziando che  il passaggio ad una gestione in house con il sistema del Porta a porta “spinto” comporterebbe un incremento di costo su base annua, rispetto al modello attuale, di poco più di 2milioni 800.000 €, pari al 10,44%, e che il costo iniziale per la costituzione di un’azienda pubblica in house necessiterebbe un fabbisogno finanziario oscillante tra i 4,5 e 5,2 milioni di €.

Lo Studio di fattibilità di Unife

Ora, il punto critico non è ovviamente tale risultato, quanto il fatto che non c’è alcuna relazione tra esso e gli obiettivi che si possono realizzare con il passaggio alla pubblicizzazione e al sistema Porta a porta. Lo studio di Unife è quindi viziato da un’impostazione economicista, che, inevitabilmente, si concentra unicamente su un punto: che un modello diverso da quello attuale di Hera sarebbe più costoso. 

Ma c’è persino dell’altro, ancora più grave, e cioè si dice esplicitamente che il passaggio al sistema Porta a porta non determina né una riduzione della produzione di rifiuti, né un incremento della percentuale, già molto alta, della raccolta differenziata nel Comune di Ferrara.
Vengono presentati come assiomi affermazioni che non sono fondate. Invece, dove si applica il Porta a porta e la tariffazione puntuale (quest’ultima anche a Ferrara), in generale, la produzione di rifiuti, uno degli obiettivi più importanti per una seria politica dei rifiuti, decresce notevolmente, come nel caso di Alea, azienda pubblica di Forlì e di altri 12 Comuni di quel territorio, dove essa ( e questo dato è riportato correttamente anche nello studio Unife) è pari a 255 kg/anno/abitanti equivalenti rispetto ai 357 kg/anno/ abitanti equivalenti di Ferrara, quasi il 30% in meno.

Per quanto riguarda la raccolta differenziata, poi, se è vero, da una parte, che il livello raggiunto a Ferrara, l’87% sul totale, è già alto, dall’altra, è ragionevole sostenere non solo che è ancora migliorabile, ma,  soprattutto, che il sistema Porta a porta riduce di gran lunga le impurità presenti nella raccolta a cassonetto (lo stesso studio Unife la  stima per la plastica a Ferrara a circa il 30%), incidendo in modo serio sulla minimizzazione dei rifiuti non riciclati, che è un altro indicatore fondamentale per giudicare una buona politica di raccolta dei rifiuti, ben di più della raccolta differenziata.
Ci sono poi diversi altri punti non soddisfacenti nell’analisi di Unife che, per brevità, riassumiamo in altre 2 questioni: la prima è che, nei costo del servizio, viene conteggiata una “remunerazione del capitale”, cioè il profitto garantito al gestore, di circa, 2,1 milioni di € ( cifra che, da sola, si avvicina molto ai maggiori costi presunti), voce che in una gestione pubblica non ha ragione di esistere, visto che essa ragiona in una logica di pareggio tra costi e ricavi. La seconda riguarda il tema dell’occupazione e della sua qualità, che è affrontata in modo laterale, mentre essi dovrebbero costituire altrettanti punti importanti per la qualità del servizio e per affermare una logica di valorizzazione del lavoro.

L’elaborato di Rete Giustizia Climatica

A fronte dello studio Unife, la Rete Giustizia Climatica di Ferrara ha messo a punto un proprio elaborato, che approda a indicazioni ben diverse.
Il documento di R.G.C. parte da un’analisi delle 307 gestioni del servizio dei rifiuti urbani esistenti in Regione e, assumendo come indicatore uno dei più significativi rispetto ad una buona politica dei rifiuti, e cioè la minore quantità degli stessi avviati a smaltimento, evidenzia come i dati migliori si riscontrano dove si applica, contemporaneamente, la tariffazione puntuale e il sistema Porta a porta, dato che poi si rafforza dove siamo in presenza di una gestione pubblica.

La stessa indicazione proviene anche per quanto riguarda i costi del servizio: dove c’è tariffazione puntuale e Porta a porta essi sono più ridotti rispetto al ricorso a tariffazione puntuale e sistema misto stradale/Porta a porta ( il caso di Ferrara).
Insomma – anche qui parlo in estrema sintesi- la strada della pubblicizzazione e della raccolta Porta a porta è quella che meglio risponde ad una politica dei rifiuti che si ponga sul serio l’obiettivo di scelte orientate dalla tutela ambientale e della salute dei cittadini. L’elaborato della Rete Giustizia Climatica, poi, si cimenta anche con il tema dei costi – ma sarebbe meglio dire dell’investimento necessario per la ripubblicizzazione. Prendendo qui a riferimento i dati provenienti dallo studio Unife, e cioè una cifra oscillante tra i 4,5 e i 5,2 milioni di €, si individuano 2 strade più che fattibili per recuperare tali risorse: la prima è quella di avvalersi delle notevoli riserve disponibili da parte della partecipata Ferrara Tua SpA, pari a circa 5 milioni di €; la seconda, intesa però in modo subordinato, di ricorrere alla vendita parziale delle azioni Hera non vincolate e in capo al Comune di Ferrara.

Due strade alternative davanti a noi

Insomma, ci troviamo di fronte a due prospettive decisamente alternative, che lo diventano ancor più alla luce degli ultimi sviluppi della discussione relative alle vicende dell’incenerimento dei rifiuti a Ferrara.
Pochi giorni fa, in una riunione della Commissione Consiliare Ambiente del 6 luglio, Hera ha presentato i risultati delle emissioni dell’inceneritore di Ferrara,, sostenendo che esse sono stazionarie se non migliorate, nonostante il passaggio nel 2021 da 130.000 tonn/anno a 142.000 – dato che a me non stupisce in un sistema in cui il controllore è lo stesso soggetto controllato,  e cioè Hera.
L’assessore Balboni (FdI)
ha preso la palla al balzo per dire che è venuto il momento di chiedere sostanziose compensazioni monetarie ad Hera rispetto all’utilizzo dell’inceneritore al massimo della capacità produttiva. Ovviamente, si è ben guardato dal commentare il fatto che, con l’aumento dei rifiuti bruciati, quelli speciali, provenienti sostanzialmente dal resto della regione e da altre parti d’Italia, hanno superato quelli bruciati relativi ai rifiuti urbani dei Ferrara (su circa 142.000 tonn. i primi ora arrivano a più di 76.000 tonn. e i secondi a di 65.000 tonn.), situazione che rende attuale e possibile la progressiva dismissione di una delle due linee dell’inceneritore di Ferrara.

Dunque, è  facilmente prevedibile che, nel prossimo autunno, entreranno in rotta di collisione due opzioni assolutamente alternative tra loro:

La prima, caldeggiata dall’Amministrazione Comunale, che si basa sulla messa a gara della gestione del servizio dei rifiuti urbani (con la facile previsione che venga aggiudicata ad Hera) e sulla permanenza per i prossimi anni a venire dell’incenerimento dei rifiuti al massimo della capacità produttiva dell’impianto di Ferrara, pagata con un po’ di compensazioni monetarie al Comune (svelando, peraltro, la totale ipocrisia dell’annunciata e persa nelle nebbie iniziativa giudiziaria nei confronti di Hera per l’aumentato ricorso all’incenerimento).
Si tratta di una prospettiva sciagurata, di totale mercificazione del sistema dei rifiuti, settore che diventa unicamente fonte di profitti contraddicendo qualunque obiettivo serio di politica ambientale e di tutela della salute dei cittadini e che viene scambiato con un po’ di denari ( in questo caso, forse un po’ più di 30!).

La seconda che, invece, guarda in prospettiva all’economia circolare, ai “rifiuti zero”, alla minimizzazione dei rifiuti prodotti e non riciclati e alla tutela della salute delle persone, costruendo in prospettiva la fuoriuscita dall’incenerimento.
Una opzione quindi diversa e totalmente alternativa, che si sostanzia nel passaggio alla ripubblicizzazione della gestione dei rifiuti urbani, alla modalità di raccolta Porta a porta e alla dismissione progressiva di una linea dell’inceneritore.

Insomma, occorre essere pronti, con la proposta, l’iniziativa e la mobilitazione per sbarrare la strada ad un’ipotesi che vede nel mercato e nel profitto gli unici regolatori della società e fare avanzare, invece, quella che guarda ai beni comuni e ai servizi pubblici, che sono orientati agli interessi generali della società e delle future generazioni. Anche per questo, sarebbe utile che si facesse sentire una voce alta da parte della politica e dei partiti ferraresi oggi all’opposizione, capace di opporsi alla destra mercatista e proporre una reale alternativa, anche in discontinuità con le scelte del passato.
Non mi sembra peregrino ricordarlo a meno di un anno dal voto amministrativo.

Leggi i documenti integrali:

– Studio Unife: Relazione finale progetto PAP 
– Documento Rete Giustizia Climatica di Ferrara:
Per la ripubblicizzazione

In copertina: Cesena, raccolta porta a porta rifiuti urbani

Per leggere tutti gli interventi su Periscopio di Corrado Oddi clicca sul nome dell’autore

Bologna 1 agosto 1980, seduto in quella sala d’aspetto: tra venti giorni compirò 20 anni, tra 15 ore tutto questo non esisterà più.

Basta menate.
Bologna, 2 ag0sto 2023.  43 anni dalla strage. Parla Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione familiari vittime 2 agosto 1980: “Noi vogliamo che i processi vengano fatti in tribunale, fino in fondo e correttamente. Basta con queste menate”. E attacca a fondo il  Governo: “Vogliamo parole chiare, non si può dire da una parte che è una strage fascista e dall’altra che sono stati i palestinesi e firmare per una commissione d’inchiesta su altre piste estere”.
Proprio così, e se il Presidente Mattarella parla chiaro: “la matrice fascista della strage di Bologna è accertata”, il Presidente del Consiglio e il Presidente del Senato tergiversano o restano in silenzio.
Cara Giorgia e caro Ignazio, abbiamo capito come la pensate. Vi abbiamo sentito tante volte rispondere che “il fascismo è consegnato alla storia”, che si è chiuso (per sempre) il 25 luglio 1943 con la fine del governo Mussolini, che finendo il fascismo, anche l’Antifascismo,  la Liberazione,  la Resistenza sono ormai arnesi del passato, robe vecchie da mettere in soffitta.
Invece, anche la strage fascista alla Stazione di Bologna ci racconta un’altra verità, la verità che coprite con il silenzio o le solite “menate”. Una verità tanto chiara quanto terribile: la bestia non è mai morta
.
(Francesco Monini)

I° AGOSTO 1980

È piovuto a Ferrara. Ieri. Al telefono Anna Maria si era lamentata “Ho dovuto spazzare acqua tutto il pomeriggio. Vedrai i tuoi libri come sono ridotti”. Controllo a caso alcuni volumi. La “Scienza nuova”, un volume scuro, ingiallito, ma integro. Lo sfoglio. In una delle prime pagine il mio nome e una data: 1980. Tra le mani mi scivola un foglio accuratamente ripiegato. È un verbale di contravvenzione. Venti luglio 1980, oblate 2.000 lire perché “trasportava altro passeggero su un ciclomotore non idoneo”. Un brivido mi percorre e resto lì a leggere quelle parole, mentre vedo un’auto avvicinarsi, sento il rumore del suo paraurti, poi mi ritrovo a terra, Anna Maria che mi chiama e dice “” Mi sono rotta una gamba”. L’ambulanza, l’ospedale, i carabinieri, l’operazione a Bologna.

Primo agosto 1980.” Domani la dimetteremo. Ci sarà solo da avere molta pazienza e fare bene la rieducazione”. Mi incammino verso la stazione.

È sera, non ricordo il perché, ma quel giorno non avevo preso l’auto per andare all’ospedale. Mi siedo nella sala d’aspetto di seconda classe e dalla borsa tolgo “Aut-aut” e comincio a leggere. Cerco di guardare l’ora, ma il mio orologio non c’è, si è rotto durante l’incidente. Alzo gli occhi verso quello della sala, le 19, tra venti minuti partirà il mio treno, tra venti giorni sarà il mio ventesimo compleanno, tra 15 ore tutto questo non esisterà più.
I miei vent’anni si aprivano con un’esplosione il cui eco non sarebbe mai cessato.

NOTA: Questo racconto ha vinto il premio nel concorso nazionale Racconta i tuoi vent’anni, indetto da Feltrinelli nel 2007

Guarda e ascolta [Qui] il racconto di Gian Paolo Benini letto a voce alta dall’attore Fabio Mangolini  nella rubrica Lo Cunto de li Cunti (tutta da scoprire). 

Cover: Foto Agenzia Dire

Ferrara Film Festival Ottava Edizione.
Dal 16 al 23 settembre: 8 giorni di kermesse, 40 eventi, 32 film in concorso, 21 anteprime, 20.000 presenze attese

Presentata l’ottava edizione del Ferrara Film Festival dal 16 al 23 settembre: un programma da record

Si è tenuta il 1° agosto presso la Sala Arengo della residenza municipale di Ferrara e in streaming la conferenza di lancio dell’8° Ferrara Film Festival (FFF8), in programma dal 16 al 23 settembre. 

Conferenza stampa, foto Elisa Catozzi
Conferenza stampa, foto Elisa Catozzi

Stiamo per assistere ad un Festival che ha saputo innovarsi e rinnovarsi”, ha sottolineato l’assessore Gulinelli, “che merita quindi un’attenzione particolare. Il Comune di Ferrara punta molto sul linguaggio del cinema per sviluppare un processo di identità e di identificazione della città anche come elemento chiave da trasmettere ai giovani. La decima musa compirà 130 anni nel 2025 e la nostra città è stata immersa dell’atmosfera cinematografica fin dall’inizio, con le prime riprese di Vittorio Emanuele (nel 1902), con la nascita del neorealismo di Luchino Visconti, con l’arrivo del cinema moderno di Michelangelo Antonioni, con i documentari di Folco Quilici, e sempre più spesso scelta come set contemporaneo, grazie anche al lavoro della Film Commission regionale”.

La città riconosce il mondo del cinema, Ferrara La Città del Cinema parla da sé, ma non solo, ne parla la sua stessa storia. Una città che non è solo sfondo ma contenuto culturale.

Anche la giuria di questo FFF8 si presenta interessante: “Sono l’orgoglioso Presidente di una Giuria davvero di alto livello”, indica Daniele Taddei, amministratore degli Stabilimenti Cinematografici Studios (storica e celebre eredità degli “Stabilimenti De Paolis”) – partner del Festival, “che abbraccia tutti i campi del cinema e composta da alcuni nomi d’eccellenza del mondo cinematografico: gli attori Martina Stella e Francesco Montanari, il regista Luca Ribuoli, lo scenografo Tonino Zera, la costumista Nicoletta Ercole, il fotografo e direttore della fotografia Roberto Rocco”.

Tonino Zera
Nicoletta Ercole
Martina Stella
Luca Ribuoli
Francesco Montanari
Daniele Taddei
Roberto Rocco

Ad essere grande protagonista il pubblico: tutti potranno partecipare attivamente agli incontri con i talent, gli attori, i registi nella Studios Lounge Live che prenderà vita in Piazza Trento Trieste, di fronte al Teatro Nuovo, e che darà la possibilità a chiunque di interagire con gli ospiti con domande e interventi. Un vero e proprio set “aperto”.

Dunque, ci aspetta un’edizione molto ricca di eventi, personaggi e sorprese (molte ancora da annunciare a fine agosto).

Maximilian Law

A presentare il programma, Maximilian Law, fondatore e direttore del FFF.

Ci saranno 40 eventi, 8 giorni di kermesse, circa 20.000 presenze attese, 32 film in concorso su oltre 2500 iscritti, provenienti da 42 Paesi nel mondo, 21 anteprime, di cui 4 mondiali, 3 europee e 13 italiane, 5 masterclass, 2 convegni e un parterre da tappeto rosso, come quello che accompagnerà gli ospiti fino all’ingresso del Teatro Nuovo, che diventerà centro nevralgico del Festival insieme a Piazza Trento Trieste.

Kevin Reynolds, Jeremy Piven, Cary Elwes, Lucrezia Lante della Rovere, Edoardo Leo, Francesco Zecca, Steven Bauer, Corey Johnson e Manuela Arcuri sono alcuni dei volti noti di questa edizione, che alza il sipario con la consegna del Dragone d’Oro alla Carriera a Giancarlo Giannini, icona del cinema italiano nel mondo, che ha recentemente ricevuto una stella sulla Walk of Fame di Hollywood.

In chiusura, sabato 23 settembre l’attesa cerimonia di premiazione che assegnerà i Golden Dragon Awards 2023.

Ad accompagnare le proiezioni e le Premières tanti appuntamenti: “Meet the Stars”, le masterclass con Giancarlo Giannini (promossa dallUniversità Telematica “Mercatorum”), Kevin Reynolds (regista di blockbuster mondiali come “Waterworld”, “Robin Hood: Il Principe Dei Ladri” e “Fandango”, di cui si celebrerà il 40º anniversario delle riprese), Steven Bauer (co-protagonista con Al Pacino in “Scarface”, di cui si celebrerà il 40º anniversario dell’uscita del film), Martina Stella (tra le più note attrici italiane e membro della Giuria in questa edizione), Francesco Grisi (fondatore di EDI – Effetti Digitali Italiani, leader italiano nel settore degli effetti speciali); “Ferrara Film Expo”, il contenitore culturale di importanti convegni che quest’anno vedranno protagonista la Giuria del Ferrara Film Festival e che metterà al centro temi attualissimi, tra cui l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale nel cinema; le opere esposte dell’artista Danilo Sciorilli, presenti in “Countdown”, i manifesti d’autore che riempiranno la città. Infine, l’appuntamento con UNICEF Italia, partner esclusivo del festival nel settore umanitario, per parlare di diritti dell’infanzia e dell’adolescenza anche attraverso il grande schermo.

Steven Bauer
Lucrezia Della Rovere
Kevin Reynolds

I FILM IN CONCORSO

Sono 32 le pellicole in concorso, con 21 anteprime distribuite nelle 4 categorie: Première Event e Première Autore (che raggruppano lungo e cortometraggi), Première Docu e Première Indie Emilia-Romagna. A questi si aggiungono i film, fuori concorso, collegati con i temi di Unicef, che fanno parte della categoria Premiere Unicef e le Premiere Retro, all’interno di un programma di retrospettive speciali.

Giancarlo Giannini

Saranno invece dodici i Premi assegnati, oltre al Dragone d’Oro alla Carriera nella recitazione, conferito a Giancarlo Giannini nella serata inaugurale del 16 settembre (evento presentato da Manuela Arcuri). Durante i Golden Dragon Awards, il 23 settembre, verranno assegnati i seguenti premi tra tutti i film in concorso: Miglior lungometraggio e Miglior cortometraggio Première Event, Miglior lungometraggio e Miglior cortometraggio Première Autore, Miglior lungometraggio Premiere Docu, Miglior film Première Indie Emilia-Romagna, Miglior regia lungometraggio e Miglior regia cortometraggio, Miglior attore lungometraggio e Miglior attore cortometraggio, Miglior attrice lungometraggio e Miglior attrice cortometraggio.

A giudicarli saranno quattro giurie: la Giuria Principale, a cui sono assegnati i lungometraggi e i documentari, e le Giurie “UNICEF”, WESHORT” e “FEDIC” alle quali sono assegnate rispettivamente le categorie UNICEF e tutte le categorie dei cortometraggi.

Categoria “Première Event”

Sono 15 i lungometraggi e cortometraggi in concorso nella categoria, i più attesi, di natura più commerciale, che richiamano l’attenzione di un ampio pubblico.

Categoria “Première Autore” e “Première Indie Emilia – Romagna”

Sono 15 i film in concorso nella categoria, che riunisce le pellicole di natura autoriale, divise tra lungometraggi e cortometraggi. Quattro di questi ultimi, di registi locali, saranno in gara anche nella categoria Première Indie Emilia – Romagna.

I Lungometraggi

Ad aprire l’8º Ferrara Film Festival sarà “Sweetwater (Première Event), del regista argentino Martin Guigui, in cui si narra l’avventura di Nat “Sweetwater” Clifton, entrato nella storia come il primo afroamericano a firmare un contratto della NBA, che cambierà per sempre il modo di giocare la pallacanestro. Il film ha un cast d’eccezione, tra cui Jeremy Piven, Cary Elwes, Kevin Pollak, Richard Dreyfuss, Jim Caviezel, Eric Roberts e Everett Osborne, nel ruolo di Nat “Sweetwater” Clifton. Il regista e parte del cast saranno presenti alla première.

A seguire, “Apaches: gang of Paris (Première Event) del regista francese Romain Quirot, che segue la storia di una giovane donna che si infiltra nel clan criminale che ha ucciso suo fratello con il piano di uccidere tutti i colpevoli, uno per uno, fino a che non si avvicina troppo al loro affascinante capo.

Al suo debutto sul grande schermo, L’incantevole Lucrezia Borgia” (Première Event) di Marco Melluso e Diego Schiavo, con Tullio Solenghi e Lucrezia Lante della Rovere, racconta l’appassionante storia di Lucrezia Borgia d’Este, donna tormentata da scandali e pettegolezzi e per secoli ritenuta simbolo di crudeltà e amoralità.

Una delle pellicole più attese di questa edizione è La verità secondo Maureen K. (Première Autore) del regista Jean-Paul Salomé, che narra la vera storia di Maureen Kearney, interpretata dalla pluripremiata attrice francese Isabelle Huppert. Una rappresentante sindacale della centrale nucleare di una multinazionale francese diviene un’informatrice denunciando accordi top-secret che scuotono il settore nucleare francese.

Il regista e scrittore libanese Bassem Breish dirige “Riverbed” (Première Autore), la dura storia di Selma alle prese con un doloroso passato che ritorna.

La bottiglia è quella del vino, il set è quello delle terre intorno a Pisa, teatro di Tre storie in bottiglia (Première Autore) di Giuseppe Gandini: tre giovani, tra cuore e lavoro.

In “Warhol” (Première Autore), di Corey Johnson, un giovane in cerca di celebrità interviene live ad una trasmissione radiofonica, ma i risvolti saranno inaspettati.

Infine, Peripheric Love, co-produzione svizzero-italiana diretta da Luc Walpoth, che racconta la storia di Maria, incinta, e suo marito Giorgio, sterile. Incapaci di comunicare, si allontanano l’uno dall’altro attratti da improbabili storie d’amore.

I Documentari “Première Docu”

Tre gli affascinanti documentari in concorso quest’anno, che affrontano temi di grande attualità. Dal tragico conflitto nel cuore d’Europa in “Sisters of Ukraine” di Mike Dorsey, in cui suore e volontari accompagnano i rifugiati nel lungo viaggio verso Barcellona, al tema dell’immigrazione e dell’integrazione con Yakub” di Anna de Manincor, un diciassettenne nigeriano che a Bologna trova la sua “casa”, fino alla voglia di recupero delle proprie origini italiane di una madre e un figlio, protagonisti di “Radici”, di Clenet Verdi-Rose.

I Cortometraggi

Ci sono storie di vita famigliare ma anche di percorsi intimi tra i cortometraggi in concorso nella categoria Première Event. Come quella del piccolo Nicola, protagonista di Al di là del mare” (Première Event), che parte alla ricerca del padre “rapito dal mare”; o di Charlie, che in “Waving(Première Event) è alle prese con disturbi ossessivo compulsivi; dell’insegnante di arte protagonista di “Sir(Première Event), alle prese con forti dolori artritici alle mani; o la vicenda di una coppia appena fidanzata la cui relazione viene messa in discussione da un sacchetto di polvere bianca trovato su un aereo, raccontata da In plane sight” (Première Event). Ma anche racconti fantastici come quello di Scomparire” (Première Event), in cui un uomo, in una casa di montagna, si sveglia e si ritrova nel suo appartamento in una Torino del 2046; e di The delay” (Première Event) in cui protagonista è Arturo, un uomo che vittima di un tremendo bug che cambia totalmente la percezione che ha della sua vita. “The name” (Première Event) invece vede Caterina, una giovane ricercatrice, che viene inviata dal laboratorio in una misteriosa abbazia dei domenicani con il compito di supervisionare il funzionamento di una macchina speciale. Un compito che segnerà per sempre il suo destino e quello dell’intera umanità. Un cuore e due colori” (Première Event) è la storia di due ragazzi, appartenenti a due ceti sociali opposti di Napoli, che si sfidano sia nella vita che nel calcio. Poi il corto americano The end”, che vede una giovane donna costretta a combattere, da sola, contro un’organizzazione criminale. Storie di accettazione, come quella di un figlio ormai adulto nel suo disperato outing davanti al padre bigotto e morente sono al centro di A mia immagine” (Première Autore), di Giuseppe Bucci.

Miss Agata

La violenza nelle sue forme più brutali occupa la pellicola Miss Agata” (Première ER/Emilia-Romagna), di Anna Elena Pepe e Sebastian Maulucci, in cui la protagonista sviluppa anche un disturbo post traumatico.

Isabella e Viola sono le protagoniste di Nigredo” (Première ER), di Alberto Magnani e Andrea Pecci, determinate a trovare un equilibrio nelle proprie vite, sullo sfondo di un’avventura cosmica. Atti di profonda comprensione e amore sono al centro di Soluzione Fisiologica” (Première ER), di Luca Maria Piccolo con Stefano Accorsi, nati da una telefonata tra un uomo e un sex worker. Ricordi dolorosi e legami presenti e passati sono invece protagonisti di Les Rossignols” (Première Autore) di Juliette Saint-Sardos, e No air for angels” (Première Autore) di Erin Elizabeth. Layers” (Première Autore) racconta la storia di un senzatetto a Città Del Messico che, dopo un incontro inaspettato con una bambina, lo vede costretto a confrontarsi con la realtà.

Poi Attack” (Première Autore), un corto musicale di Davide Santi che racconta l’amore e l’educazione dei sentimenti ed infine Midnight Ride” (Première Autore), che racconta le vicissitudini di un “delivery man” di Londra costretto ad effettuare una rapina quando, a sua volta, gli rubano la bicicletta con tutta la merce della giornata.

I FILM FUORI CONCORSO

Première Retro

Torna anche l’appuntamento con una eccezionale selezione di retrospettive, due film cult e campioni dei botteghini che hanno fatto la storia del cinema mondiale: Scarface e Fandango.

Compie 40 anni Scarface, il film del 1983 diretto da Brian De Palma e scritto da Oliver Stone, con Al Pacino, Michelle Pfeiffer e Steven Bauer. Remake della pellicola dell’omonimo film del ’32 diretto da Howard Hawks e ambientato a Chicago, il film girato a Miami negli anni ’80 è uno spaccato della città nel periodo in cui ad imperversare è il narcotraffico, raccontato dalla brutale ascesa di un gangster cubano approdato in Florida.

Sono sempre gli anni ’80 ma cambiano le atmosfere nel capolavoro di Kevin Reynolds Fandango, con Kevin Costner, un road movie avventuroso e demenziale, un viaggio nel deserto messicano per dire addio alla giovinezza ed entrare nell’età adulta.

Première Unicef

Presentazione, all’interno del convegno “Ferrara Film Expo”, di due cortometraggi sul tema “Le emergenze non finiscono mai” per mostrare al mondo che, una volta spenti i riflettori dei media, difficilmente le crisi si risolvono in tempi brevi.

 

GLI EVENTI DA NON PERDERE

Nella giornata di inaugurazione e di chiusura 

Sabato 16 settembre

12:00, Piazza Trento e Trieste – CINE-VILLAGE – Inaugurazione

17:00, Teatro Nuovo – MEET THE STARS – Masterclass con Giancarlo Giannini

Nella giornata inaugurale del Festival prenderanno il via anche le masterclass aperte a tutti gli accreditati del festival e al pubblico su prenotazione, la prima delle quali vedrà un docente d’eccezione: Giancarlo Giannini, icona del cinema italiano, che insieme ad Anna Bisogno, professore associato di Cinema, Radio e Televisione dell’Università Digitale Mercatorum, affronterà il ruolo della formazione nella crescita personale e professionale dell’attore, ripercorrendone studi ed esperienze.

20:00, Teatro Nuovo – Cerimonia di inaugurazione

Manuela Arcuri

Nella splendida cornice del Teatro Nuovo di Ferrara si alza il sipario sull’ottava edizione del Festival. Ad aprire la serata, condotta da una madrina d’eccezione, l’attrice italiana Manuela Arcuri, sarà la consegna del Dragone d’Oro alla Carriera a Giancarlo Giannini. L’ambito riconoscimento, assegnato negli anni passati a star come Danny Glover e Jim Sheridan, celebra la lunga carriera di attore, regista, doppiatore (inconfondibile voce di Al Pacino e Jack Nicholson), scrittore, sceneggiatore e anche musicista di Giannini, fatta di personaggi dai mille volti, interpretati negli oltre 130 film girati con alcuni tra i più grandi registi italiani e internazionali.

A seguire prenderà il via il Concorso Internazionale con la prima delle Première Event che vedrà la proiezione di “Sweetwater”, il lungometraggio di Martin Guigui. Il regista e parte del cast saranno presenti alla première.

Da lunedì 17 a venerdì 22 settembre: il palinsesto completo e gli orari dei Film in Concorso e delle Masterclass “Meet the Stars” verranno pubblicati il 21 agosto, giorno in cui sarà anche attivata la prevendita dei biglietti online.

Sabato 23 settembre – 21:30 – GOLDEN DRAGON AWARDS – Cerimonia di Premiazione dell’ottava edizione del Ferrara Film Festival

Sul palco i film premiati nelle 6 categorie in concorso tra Première Event (lungo e cortometraggio), Première Autore (lungo e cortometraggio), Première Docu e Première Indie Emilia-Romagna.

Il Ferrara Film Festival è realizzato con il sostegno del Comune di Ferrara, Regione Emilia-Romagna, Ministero Della Cultura, Renault Italia, Mercatorum, Italo, OroPuro Caffè, Archivio Vittorio Cini e il sostegno di UNICEF Italia nel settore umanitario. La lista completa e aggiornata degli sponsor sarà pubblicata entro fine agosto 2023.

Tutte le informazioni su: www.ferrarafilmfestival.com

Foto cortesia Ufficio Stampa FFF, FLUIDA Comunicazione

 

Vite di carta /
Italo Svevo e la imprevedibilità della grandine.

Vite di carta. Italo Svevo e la imprevedibilità della grandine.

Luglio 2023, l’ONU diffonde la notizia allarmante: è stato il mese più caldo di sempre a livello globale. Se ne parlava già tre sabati fa, durante una bella cena a casa di un ex studente del mio Liceo, uno di quelli che dopo trent’anni dall’esame di maturità si impegna a contattare i vecchi compagni di classe e anche alcuni di noi professori.In realtà per l’occasione si è formato un piccolo gruppo di intrepidi che ha cercato e trovato recapiti e numeri di cellulari si può dire di tutti. Ma che caldo abbracciarsi a ogni nuovo arrivo, che caldo animarsi nella conversazione. Bello, però.

Ho portato un paio di foto della loro classe, scattate alla fine della seconda e della quarta Liceo Linguistico (con due lingue straniere moderne e latino) e subito è scattato il gioco del come eravamo. Dopo trent’anni siamo delle altre persone, portiamo dentro all’involucro del nostro corpo sedimenti di esperienze che ci hanno deformati. Poi certo, il nostro corpo è all’incirca lo stesso: quasi tutti siamo dentro un range di mille sfumature che sono cambiate, dal colore dei capelli, per chi ancora li possiede, al peso corporeo e fino alla gestualità, che normalmente  si è fatta più sicura.

Qualcuno soltanto è fuori range e si fatica a riconoscerlo, a saldare il corpo esile ritratto nella foto con l’individuo robusto che avanza oltre la soglia e ha colori modificati della pelle e degli abiti. Uno è al contrario talmente identico ad allora che lo si prende in giro: dove hai lasciato il quadro Dorian Gray? Sarai invecchiato sulla tela, dal vivo guardati lì, dimostri al massimo venticinque anni.

I libri. Eccoli intervenire nei nostri discorsi che, è inevitabile, cadono sul passato e su quando si stava insieme nella stessa aula per molte ore. Al netto della compiacenza con cui  ho ritrovato questi ex studenti, persone affettuose e dialoganti che ora sfiorano i cinquant’anni, ho il vero piacere di usare con loro verso il mondo le categorie che ci hanno lasciato alcuni buoni libri. Libri paradigmatici che abbiamo letto e discusso insieme quando loro erano adolescenti e io una giovane insegnante di materie letterarie.

il ritratto di dorian gray oscar wildeBen venga Il ritratto di Dorian Gray, il capolavoro di Oscar Wilde a cui viene facile fare riferimento se si parla di bellezza e di giovinezza. Oggi il riferimento all’eterna giovinezza è leggero, non si allude al degrado morale di Dorian che fa imbruttire il quadro per le colpe di cui egli va macchiandosi con la sua vita dissoluta. Oggi si vuole soltanto apprezzare questo compagno ritrovato che è in forma più che mai.

la coscienza di zeno italo svevoBen venga soprattutto La coscienza di Zeno, che qualcuno mi ricorda mentre siamo seduti in un piccolo gruppo al tavolo in giardino. Sciaguratamente, lo diedi da leggere durante le vacanze di Natale quando loro erano in seconda e sbagliando ancora di più creai aspettative altissime. Si tratta di un capolavoro. È un romanzo profondamente comico, che vi farà ridere.

Ricordo che al rientro a scuola alcuni di loro dissero con sincerità che era stata una lettura difficile, dando agli altri l’opportunità di fare sì con la testa. Vigorosamente.

E allora mi misi a rileggere in classe alcune parti, a spiegarne la bellezza, a evidenziare l’ironia dissacrante con cui Svevo promuove la relatività del caso come non regola dentro le nostre vite. A ridere davanti a loro della storia delle tre sorelle Malfenti, che Zeno corteggia una dopo l’altra, sposando poi la più bruttina, la terza, e divenendo ogni giorno più soddisfatto della sua non scelta. 

Volli rileggere l’episodio in cui Zeno accorre in ritardo al funerale del cognato Guido, ma si intrufola nel corteo funebre sbagliato e perde così l’opportunità di condividere con la famiglia l’estremo saluto al marito di Ada, la più bella delle tre sorelle, che lui a suo tempo ha corteggiato invano. Ma il recupero fortunato di una ingente somma di danaro, a cui Zeno dice di essersi intanto dedicato,  garantisce ora alla vedova la agognata tranquillità economica e alla fine procura a Zeno la sua riconoscenza.

Mi pare che oggi non me ne vogliano più per questa lettura ostica e alla fine muta per loro. Ribadisco sorridendo che la considero ancora  un’opera fondante, in grado di sostenermi quando vanno accettati i ribaltamenti del caso negli eventi quotidiani. La imprevedibilità degli esiti nelle scelte che facciamo.

Se li ritrovassi stasera, potrei raccontare del danno che ha provocato sulla mia casa la grandinata furiosa di sabato 22 luglio. Nel mese più caldo gli eventi atmosferici più violenti. Sono danni lievi, per fortuna, e conosco tanti casi più gravi del mio. Ma il caso vuole che siano rimasti colpiti proprio i pannelli fotovoltaici installati un anno fa. Ho avuto il tempo di calcolare quanto risparmio energetico mi abbiano fruttato in questi dodici mesi, ora dovrò capire per quanti anni il risparmio sui consumi servirà a recuperare la spesa per ripararli.

Nota bibliografica:

  • Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, Archimede, 1981 (traduzione di Marco Amante)
  • Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Principato, 1985 (prima edizione presso Cappelli, 1923)

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

Maternità surrogata: la critica di Gramsci all’antropologia del senatore Pd Andrea Crisanti

Le parole del senatore Pd Andrea Crisanti al manifesto sono l’oggetto, oltre un secolo fa, della critica feroce, moralistica secondo la cultura politically correct, di Antonio Gramsci

di Stefano Fassina
tratto da il manifesto del 28.07.2023

«Anche l’Organizzazione mondiale della Sanità definisce l’infertilità una malattia. La Gestazione per altri (Gpa) è una cura: se ho un deficit funzionale di tutti e due i reni, faccio un trapianto di reni… La Gpa è tecnicamente una donazione d’organo temporanea e reversibile». Sono le parole del professor Andrea Crisanti, senatore del Pd, a questo quotidiano. Sono l’oggetto, oltre un secolo fa, della critica feroce, moralistica secondo la cultura politically correct, di Antonio Gramsci.

Il leader dei comunisti italiani, su L’Avanti del 6 Giugno 1918, in un pezzo intitolato «Merce», scriveva: «Il dottor Voronoff ha già annunziato la possibilità dell’innesto delle ovaie. Una nuova strada commerciale aperta all’attività esploratrice dell’iniziativa individuale. Le povere fanciulle potranno farsi facilmente una dote. A che serve loro l’organo della maternità? Lo cederanno alla ricca signora infeconda … Venderanno la possibilità di diventar madri …. La vita, tutta la vita, non solo l’attività meccanica degli arti, ma la stessa sorgente fisiologica dell’attività, si distacca dall’anima, e diventa merce da baratto … simbolo del capitalismo moderno».

Nella agghiacciante visione antropologica del senatore Dem, proprio come descriveva Gramsci, la gravidanza, come il filtraggio compiuto dai reni, è una ordinaria attività corporea meccanica e una creatura umana è un organo inanimato, vivo, ma inanimato, come un rene appunto. Quindi, la Gpa diventa cura per l’infertilità. Poiché il commercio degli organi umani è vietato, coerentemente, si vieta anche il commercio della gestazione. Come per gli organi umani trapiantabili, se ne consente il dono. Quindi, sì alla cosiddetta «Gpa solidale», a maggior ragione in nome dell’autodeterminazione della donna, purché sia «una parente o un’amica che non è in uno stato di indigenza» (per autodeterminarsi è richiesto l’Isee).

I nodi sono complessi e sensibili, ma complessità e sensibilità o il timore dell’accusa di intelligenza con il nemico, non devono portare al silenzio complice sulla deriva di larga parte della classe dirigente “progressista”, da ultimo nella scelta compiuta di uscire dall’Aula, astenersi, finanche votare a favore (lodevole eccezione il No dei Verdi) sull’emendamento presentato alla Camera dall’onorevole Riccardo Magi per introdurre la Gpa solidale nella legislazione italiana.

Si deve parlare, per risalire la china.

Primo e decisivo punto: tra le persone coinvolte nella Gpa va riconosciuta, innanzitutto, la creatura portata in grembo da una mamma e poi ceduta. Non è cosa, merce o dono. Non può essere oggetto di scambio tra committente e fornitrice. La gravidanza, a differenza del filtraggio del sangue, scolpisce l’anima della vita nascente e della vita che la nutre. La separazione innaturale segna per sempre entrambe.

Secondo: l’autodeterminazione della persona, in particolare della donna, è sacrosanta e irrinunciabile. Ma la cultura del limite va parimenti affermata. I desideri, anche i più nobili come paternità e maternità, non diventano diritti soltanto perché il Mercato e la Tecnica, potenze amorali, lo consentono. Su tale punto, ripropongo quanto scrissi qui il 5 marzo 2016, in risposta a Bia Sarasini, intervenuta per stigmatizzare una mia intervista, a suo dire «proibizionista», ad Avvenire: «Nella logica dell’autodeterminazione, lasciamo ad ogni persona la disponibilità del proprio corpo anche quando i rapporti di forza tra chi compra e chi vende sono strutturalmente asimmetrici?».

Qui, arriviamo alla scappatoia ipocrita della Gpa fuori dal Mercato. Domanda: quante e quanti mamme e papà intenzionali, in piazza per la gestazione solidale, hanno ricevuto un vero dono? Come ha coraggiosamente denunciato l’onorevole Luana Zanella alla Camera per motivare il No alla proposta Magi, «la Gpa solidale è una mistificazione».

La sinistra per avere senso politico deve riconquistare alterità etica all’antropologia liberista: ritornare umanista, come nelle sue origini. Nella proclamazione di diritti di un individuo consumatore sovrano, senza cultura del limite, rimane a servizio del Mercato.

Cover: Il virologo Andrea Crisanti, senatore del Partito Democratico (foto dal web)

Alex Zanotelli: «Rompiamo il silenzio sull’Africa»
Il testo integrale della lettera appello

Ecco l’appello che il missionario comboniano Alex Zanotelli rivolge ai media dal sito della Federazione Nazionale della Stampa. L’ex direttore di Nigrizia e attuale direttore della rivista Mosaico di Pace chiede di presentare la realtà africana per quella che è invece di fare allarmismo sui flussi migratori, dando spazio ai peggiori istigatori di odio e paura. «Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo».

Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo come missionario uso la penna (anch’io appartengo alla vostra categoria) per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani. Trovo infatti  la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale. So che i mass-media, purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che vorrebbe. Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo.

Mi appello a voi giornalisti/e  perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa. (Sono poche purtroppo le eccezioni in questo campo!)

E’ inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa). Ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.

E’ inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba ,il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.

E’ inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.

E’ inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.

E’ inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.

E’ inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.

E’ inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.

E’ inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa, soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.

E’ inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia, Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU.

E’ inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.

E’ inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!!)

Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi.  Questo crea la paranoia dell’ ‘invasione’, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi. Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’ Africa Compact , contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti.

Ma i disperati della storia nessuno li fermerà. Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al sistema economico-finanziario. L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: ”Aiutamoli a casa loro”, dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo, con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica.

E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti.

Davanti a tutto questo non possiamo rimanere in silenzio. (I nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?). Per questo vi prego di rompere questo silenzio – stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Sorveglianza della RAI e alla grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti? Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un’altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi.

Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.

Parole e figure /
Un anno tra gli alberi

Un anno tra gli alberi”, un albo dedicato a un nonno che, mangiato un frutto, ne piantava il seme.

Leggevo da qualche parte, tempo fa, che uno dei regali più belli che si possa fare alla terra è camminare o passeggiare mangiando un frutto e gettarne poi il seme sull’erba.

Mi incuriosiva questo invito, un gesto che poteva parere pura e semplice maleducazione. Quel gesto, di primo acchito poco istintivo, celava ben altro. Non ci avevo mai pensato.

Poi, quasi per caso (anche se non credo che nulla accada per caso), eccomi a leggere la dedica di un bellissimo albo illustrato di Valentina Levrini e Irene Penazzi, “Un anno tra gli alberi”, Terre di mezzo editore. Valentina, autrice dei testi, lo dedica al nonno Vincenzo, che mangiato un frutto, ne piantava il seme. Un mondo di relazioni.

Ritratti di alberi, ciascuno con la sua peculiarità e bellezza, amici gioiosi e appassionati che risvegliano il desiderio di giocare all’aria aperta e invitano al rispetto della natura, oltre che a coltivarne l’amore. Una bella lezione per tutti, grandi e più piccini. Per riflettere sulla bellezza e la grazia che abbiamo intorno, per saperla vedere e riconoscere.

Ce ne sono molti, sono dodici. Il nocciolo comune, ribelle, perché ha sorpreso il mondo addormentato scegliendo l’inverno come occasione per fiorire. Con ardore e forza, in un ambiente che parrebbe ostile ma che per lui è la sua scelta di vita. E i bambini coperti da sciarpe e berretti colorati lo salutano ogni anno, come si fa con gli amici di sempre.

Non manca il faggio, che ha una chioma talmente fluente da far invidia. Foglie ondulate come ricci ribelli abilmente domati rendono il suo capello un poco sfacciato. Verde d’estate e arancione d’autunno, cambia acconciatura ad ogni stagione. Un po’ come un’elegante signora incurante del tempo che passa. Lei è bella, sempre, perché così si sente. Qualche rastrello e fogli di carta su cui disegnare e il ritratto del faggio è pronto.

Due gherigli abbracciati, che non si vorrebbero separare, introducono il noce, l’abete rosso aspetta il Natale. Solo che qui non è dietro le vetrine scintillanti e le sue lucine sono la luna e il sole, la sua musica gli uccellini, allineati sui rami come note su un armonioso spartito. Che bello potervisi arrampicare sopra…

La betulla bianca, alta e slanciata, ha un corpo atletico rivestito di occhi, qualche palla di neve la sfiora, lei osserva il gioco spensierato e pare sorridere a tanta felicità. Un giovane pupazzo di neve con un berretto alla Sherlock Holmes le fa l’occhiolino.

L’albero di Giuda porta in altra stagione, ha i colori dei fuochi di artificio, una vera esplosione, rosa shocking che abbaglia. Ci sta un bel picnic, di quelli con le tovaglie a quadretti e i cestini pieni di panini e dolcetti. Stendersi sull’erba è una vera pacchia…

Il ciliegio ha una folta chioma a pois, macchie rosse sulle manine, sui nasini, le ginocchia e le magliette, uhm che buone le sue ciliegie, ma chi sarà più svelto?

Il profumo del tiglio ibrido attira le piccole api che ne rubano il cuore, pura dolcezza ma qui bisogna stare davvero molto attenti, tutti al riparo sotto i cappelli a visiera … bbbzzzz

Il rifugio ideale resta, però, quello fra le chiome del gelso nero, un vero affresco vegetale che riappacifica con il mondo, una possente cupola verde che protegge; con le sue more grassottelle e succose da mangiare è un vero paradiso. Cosa volere di più?

La sfida? Fare come questi tre bambini…

Attenti pure alle foglie del fico, però, con il suo latte urticante, mentre i dolci paffuti e succosi sono deliziosi, non fai in tempo a raccoglierli che già li hai mangiati… Si possono anche seccare al sole per tempi più freschi. Con il cioccolato saranno una meraviglia.

Viali immensi e filari di grappoli di succosa uva viola dove perdersi porteranno al cotone del pioppo bianco, quella coltre leggera e soffice che pare già neve. Sono i semi portati dal vento che volano via, altrove, verso speranze e vite nuove. E tutto ricomincia. Più bello di prima. Magari saltando un poco la corda, insieme.

DA ANNOTARE

Irene Penazzi sarà ospite, sabato 5 agosto, di Look Ap, un progetto di arte diffusa in Appennino che intreccia realtà culturali e linguaggi diversi, un nuovo modo di vivere la montagna. Una rassegna di eventi in cui i bambini possano ascoltare storie e musiche di paesi lontani, perdersi nel bosco e lungo i sentieri, immergendosi totalmente nella natura e scoprendone le sue bellezze. Per maggiori informazioni

Irene Penazzi è un’autrice e illustratrice nata a Lugo di Romagna nel 1989. Laureata al corso specialistico di Illustrazione per l’Editoria presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, ha collaborato con l’Associazione Culturale Hamelin. Ha ricevuto menzioni in diversi concorsi di illustrazione nazionali e internazionali.

Valentina Levrini è mediatrice culturale, insegnante e progettista, ama sperimentare diversi linguaggi artistici con una predilezione per la fotografia e la poesia.

Per una bella intervista a Valentina e Irene

 

Valentina Levrini (testo), Irene Penazzi (illustrazioni), Un anno tra gli alberi, Terre di Mezzo editore, 2023, 32 p.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.

Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

Foto in evidenza disegni di Irene Penazzi, Terre di Mezzo editore

Risolto il giallo della panchina: individuato l'(ir)responsabile attentatore

Risolto il giallo della panchina: individuato l'(ir)responsabile attentatore

Manca meno di un anno alla scadenza del primo governo di destra a Ferrara, è dunque troppo presto per tentare un bilancio dei fatti e misfatti della presente amministrazione. Qualcosa però si può dire, sul carattere e l’inclinazione dei capintesta che abitano lo scalone di piazza Municipale.

Il sindaco Alan Fabbri, o Cetto La Qualunque o Novello Nerone o comunque lo si voglia nominare, si è dedicato con passione alla moltiplicazione dell’effimero: feste, addobbi, luminarie, mangiate, spettacoli, eventi di ogni tipo hanno occupato stabilmente la città e in particolare le piazze del centro storico e l’area verde del parco urbano.

Il vicesindaco Nicola Naomo Lodi, invece,  passerà alla storia per la sua avversione per gli zingari, i drogati e gli extracomunitari, per l’utilizzo dell’insulto e del turpiloquio come unica forma di comunicazione, e per due suoi pallini, due ossessioni che lo hanno accompagnato in tutta la sua azione politica e amministrativa: le reti metalliche e le panchine.

Pallino numero Uno: le reti, le gabbie, i recinti, i cancelli. La storia politica di Naomo Lodi comincia e si sviluppa nel segno della chiusura degli spazi pubblici: piazze, parchi, giardini vengono chiusi e recintati. Com’è noto, l’ultimo prato ad essere insensatamente ingabbiato è il parco Giordano Bruno, quello che i ferraresi conoscono come “i giardini della mutua”.

Pallino numero due: le panchine. Tante panchine da togliere da sotto il sedere, ai ragazzi come ai pensionati, giudicandole, il nostro Naomo, pericoloso punto di sosta di spacciatori e delinquenti in genere. Ma anche panchine nuove di zecca da installare nei parchi e giardini dopo averli ingabbiati.

L’ultima disseminazione di panchine – tutta la città ne parla: male – è  quella recentissima all’interno del Parco Urbano, nel quadro di un generale quanto assurdo restyling dello stesso. Com’è noto, dette panchine non sono panchine, ma una sorta di incongrui frangiflutti, blocchi squadrati senza schienale del peso di alcuni quintali.

L’altra notte, così sembra, una di queste panchine è stata “vandalizzata”. Secondo un furioso video postato dal vicesindaco Naomo, prontamente rilanciato e commentato dalla equipe di Ferrara rinasce, questa panchina sarebbe stata divelta dal terreno e gettata lontano sul prato. Di seguito, se non vi spaventano gli insulti e le accuse senza fondamento, potete guardare il post di Naomo Lodi.

Il livello del Partito democratico e dei suoi supporter è questo. | By Nicola Lodi | Facebook

Nel caso specifico il ruspante vicesindaco non si limita però a lanciare le consuete accuse agli oppositori vigliacchi e piantagrane, ma punta il dito sul Pd, in particolare su Diego Marescotti, che sarebbe l’esecutore materiale dell’ “attentato alla panchina”.

Ora, è apparso subito chiaro a tutti che l’accusa di sabotaggio sia assolutamente infondata, oltre che ridicola. Come farebbe un ragazzo, pur nel pieno del vigore fisico della giovinezza, a sradicare un blocco di 150 chili (la panchina appunto) per poi scagliarlo a metri di distanza? Neppure Polifemo…

Per buona sorte, il vostro affezionato quotidiano ha sentito il dovere di aprire un’indagine, parallela a quella della procura, per accertare la dinamica del sabotaggio ed individuare il colpevole. L’indagine è ancora in corso, siamo ancora cioè nel campo delle ipotesi, ma il cerchio si restringe.

Il maggior indiziato – più di una persona l’ha intravisto bere sei galloni di birra scura all’Hangar verso le 23 e 15 – è quell’ecoterrorista che potete ammirare in copertina, il verde Hulk. “Mi è sembrato molto incazzato”, ha dichiarato un testimone che ha chiesto di rimanere anonimo. Lo possiamo capire: Hulk è da un po’ che ha lasciato film e cartoni per darsi alla politica. E’ un gretino convinto e si è iscritto a “Ultimissima Generazione.

Vi terremo informati, ma raccomandiamo a tutti molta prudenza, specie dopo il tramonto.

Che cosa APPrenderanno?

Che cosa APPrenderanno?

Serata estiva in pizzeria: dieci adolescenti, dopo aver consumato voracemente la propria pizza, prendono in mano il proprio smartphone e pensano a giocare, a chattare, a leggere, a guardare un video, a conoscere una nuova app. Il loro tavolo è insolitamente silenzioso.

Poco distante, una famiglia con figlio piccolo sta cenando: o meglio, i due adulti mangiano conversando fra loro mentre il piccolo, in seggiolone, sta guardando un video su un tablet.

In un altro gruppetto, due coppie parlano mentre i loro due figli, in età da scuola elementare, giocano con il cellulare fra loro in un video game condiviso; le uniche parole che pronunciano sono imprecazioni provocate da una situazione di gioco che evidentemente non va come loro desiderano.

Le immagini di quel gruppo, di quella famiglia e di quei due bambini mi fanno riflettere… non solo su di loro, ma su di noi.

So di essere ormai vecchio ma mi chiedo: come si apprende a socializzare se non stando insieme?
Come si impara ad occuparsi e a preoccuparsi degli altri se non sentendo i loro problemi e condividendo i propri?

Come si educa a parlare e a pensare, se non ascoltando e ragionando insieme?
Come si distingue il mondo reale da quello virtuale, se non partecipando attivamente alla vita di comunità, dando voce alle proprie emozioni e ai propri sentimenti?

Forse penso in modo vecchio, ma ho paura che questi bambini e questi ragazzi, cresciuti e protetti da APP sicuramente utili, rimangano giovani fiori APPassiti ed APPrensivi, APParentemente APPagati, con riflessi APPannati, APPetiti insoddisfatti, APPesi a fragilità insospettabili, che APPrendono in maniera APPartata ad APParecchiare la propria vita in maniera APPiattitita.

Nel mio piccolo, da maestro elementare, non cerco APProvazione o APPlausi, ma provo ad APPlicarmi, affinché si possano APPoggiare o APPigliare a qualcosa di più APPagante ed APPassionante, perché, come diceva Nelson Mandela, “Non c’è passione nel vivere in piccolo, nel progettare una vita che è inferiore alla vita che potresti vivere”.

Per leggere gli altri articoli di Mauro Presini clicca sul nome dell’autore

Via delle Erbe – Terraviva: favorire gli amici fa bene alla città?

Vicenda Terraviva: attraverso un percorso anomalo – o piuttosto, scandaloso – alla fine il Comune di Ferrara assegna l’area agricola di via delle Erbe agli amici degli amici.

La comunità di Ferrara possiede da 40 anni un piccolo tesoro, l’area pubblica a destinazione agricola di Via delle Erbe, 4 ettari all’interno della cerchia delle Mura, a pochi passi dal centro della città. Un caso più unico che raro in Europa.
Il Comune l’acquistò da un privato nel 1983, in modo lungimirante, per una somma modestissima (260mila euro al valore attuale). L’area è tutelata dalla Sovrintendenza come “raro brano di campagna in città”. Fino al 2000 fu gestita da meritevoli agricoltori biodinamici con una semplice convenzione col Comune. Nel 2000 subentrò l’associazione Nuova Terraviva che ha realizzato su un ettaro e mezzo giardini, alberi, un tunnel verde, arredi avviando campi estivi per bambini insieme ad una attività di corsi e incontri.
Nel 2007 subentrò, per la parte agricola, l’azienda biologica di Dalle Molle che, oltre a coltivare la vasta area agricola (2,5 ettari), vendeva frutta e verdura, organizzando eventi culturali e musicali.

Nel 2017 scade la convenzione col Comune ma i due gestori vogliono rimanere. Il Comune fa causa e nel febbraio 2020 il Tribunale gli dà ragione: devono liberare l’area (anche dai manufatti abusivi di legno costruiti). Il contadino bio Dalle Molle civilmente se ne va, così come i vecchi soci di Terraviva, a cui però subentra un gruppetto di privati che non solo non ottempera alla sentenza del Tribunale ma ottiene (incredibilmente) dal Comune la possibilità di gestire l’area pubblica temporaneamente.

Il Comune si rende però conto dell’insostenibilità di una concessione temporanea proprio a chi viola la legge e nel 2021 fa una gara che però annulla nel 2022, quasi conclusa, con le buste dell’offerta tecnica già aperte e pure valutate e dove a vincere non è Terraviva ma un gruppo di altre associazioni.

Mai si era visto una gara annullata dopo l’assegnazione dell’80% dei punteggi dell’offerta tecnica. Il Comune inventa la scusa che “non si era reso conto che prima della gara doveva essere approvato il PUG” (il Piano Urbanistico Generale). Ma è possibile che il Comune non sapesse del PUG (che peraltro nulla potrà cambiare dell’area essendo vincolata a verde dalla Sovrintendenza)? Il sospetto è che lo sapeva bene, ma visto che Terraviva non vince, annulla la gara.

Il sospetto si conferma dopo 6 mesi (e siamo ad oggi). Il PUG non c’è ancora, ma il Comune indice una nuova gara (in fretta e furia e da parte del Direttore generale, cosa insolita: decide lui o nomina dei commissari?) a cui possono partecipare solo gli enti del terzo settore con sede a Ferrara (come Terraviva), in modo da escludere imprese, università e altri. Non c’è più l’affitto (che nella precedente gara era almeno di 11mila euro all’anno) e in caso di interventi il Comune è disponibile a pagare ma non il 100%, cioè fino al 99%.

Una storia tristissima perché da un lato mostra come si voglia favorire non più un gruppo di volontari (come fu la vecchia Terraviva), ma alcuni privati che operano nell’area per interessi personali, dall’altro chi ci perde è la città che non valorizza una straordinaria area a beneficio di cittadini e turisti come sarebbe stato se nella prima gara avesse vinto il miglior progetto e se nella seconda si fosse aperta la partecipazione anche ad entità e imprese di rango nazionale con progetti di verde e sostenibilità per valorizzare un’area in pieno centro storico di valore europeo.
Invece è stata l’ennesima occasione per favorire gli amici degli amici anziché la città.

Giorgia Meloni, la vera radical chic:
come far guerra ai poveri in blazer rosa

“Il vero capolavoro di chi guadagna 20.000 euro è stato convincere chi ne guadagna 1.300 che la colpa è di chi ne percepisce 500”
(Anonimo in Rete)

Secondo alcuni coniatori di espressioni imbecilli che diventano di uso comune, esisterebbe il radical chic: locuzione con la quale si vorrebbe indicare una persona benestante che si professa di sinistra, ma a cui fondamentalmente non frega nulla dei “poveri”.

Questa stupidaggine parte dall’assunto che una persona di sinistra, in quanto tale, dovrebbe vestirsi di stracci, passare le ferie in un tugurio, ospitare immigrati in casa propria e donare i suoi averi al popolo, altrimenti è un ipocrita della peggior specie (se assume una persona per le pulizie di casa è un comunista col rolex; se poi si affida ad un’ armocromista per i colori da indossare, commette il peccato mortale: pretendere di avere uno stile).

Invece una persona di destra (tipo soy una mujer soy una madre soy cristiana Giorgia Meloni) può togliere il reddito di cittadinanza a centinaia di migliaia di persone (con comunicazione via sms: molto chic) perchè una pensione di invalidità superiore a 780 euro e un assegno di sussistenza non possono coesistere nella stessa famiglia. Non c’è stile in tutta questa povertà messa assieme: se sei malato o invalido non puoi essere anche bisognoso, o uno o l’altro.  Giorgia cristiana y mujer può fare tutto ciò indossando un blazer rosa molto chic, e nessuno deve avere nulla da ridire. Sono soldi suoi, li può spendere come vuole. Mica come il suo ministro del Turismo, che spende i soldi dello Stato e dei suoi dipendenti per andare in giro vestita come un albero di natale – di plastica. (Nota per l’alieno che piovesse sull’Italia chiedendo stupefatto: ma la Santanchè è ancora ministro del Turismo?! Alieno, non farti troppe domande: in Italia è normale)

La cosa meravigliosa è che questa cazzata del radical chic di sinistra che finge solidarietà col povero ma in realtà lo schifa – mentre loro lo affamano ma lo amano – è diventata “sentire comune”. Dipenderà anche dal fatto che Libero, Il Giornale, Il Tempo, la Verità, quotidiani di proprietà dei boss della sanità privata Angelucci (Antonio Angelucci, condannato in primo grado per falso e tentata truffa e insignito del Guinness di parlamentare più assenteista del mondo) titolano tutti “è finita la pacchia”, “la rivolta dei fannulloni” per osannare la fine di questa ingiustizia del povero protervo che pretende troppo.  Dipenderà anche dal fatto che trent’anni di mediaset-sottocultura hanno scavato nella testa delle persone un solco che ha perforato loro il cranio come una goccia cinese.

Sta di fatto che un sacco di gente legge questa roba, ed è davvero persuasa che l’insidia al proprio benessere calante sia imputabile a chi sta sotto di loro, non a chi sta sopra. E perciò, siccome rimango convinto che non angelucci o berlusconi, ma ciascuno rimanga responsabile delle proprie idee, ne concludo che un sacco di gente è diventata idiota, di una idiozia irrecuperabile.

EOLICO INDUSTRIALE. Fonte del Solstretto violata:
sono iniziati i lavori sul Giogo di Villore e sono iniziati i guai.

EOLICO INDUSTRIALE
Fonte del Solstretto violata: sono iniziati i lavori sul Giogo di Villore e sono iniziati i guai

I° parte

BIODIVERSITA’: se di mezzo ci sono grandi opere, cemento, soldi e visibilità politica non la tutela nessuno!

La conservazione della biodiversità è un concetto non sempre compreso da tutti, ma con il quale spesso i nostri amministratori, molto politici e poco conoscitori e tantomeno amanti della Natura e delle diverse forme vitali che la animano, si sciacquano la bocca nelle dichiarazioni e nei bei discorsi alla corte dell’Unione Europea.

Troppo spesso la esaltano nei meeting internazionali, o la ricordano all’apertura dei convegni o nelle occasioni che li vedono protagonisti di qualche battaglia pubblicitaria per la salvaguardia di un animale o di una specie vegetale ecc., ma una volta finita la cerimonia, quello a cui puntano con la loro politica è sempre e comunque lo sviluppo e la crescita….dell’economia del profitto!

Altro termine ormai abusato che esce dalle medesime bocche è “la cura“: la cura del territorio, la cura dell’ambiente, la cura delle persone, la cura del paesaggio…

A guardare bene gli unici che si stanno prendendo veramente ‘a cuore’ il territorio del Mugello, il suo paesaggio, l’ambiente, e di conseguenza le persone che ci vivono, sono i cittadini stessi che lo abitano, che lo conoscono approfonditamente, lo percorrono e vigilano perchè sia tutelato e protetto.

Già dall’estate scorsa, ma più intensamente da quando è arrivata la comunicazione dell’inizio lavori da AGSM-AIM per la costruzione dell’impianto industriale sul crinale del monte Giogo di Villore, che consta di 7 pale eoliche alte 170 m, stiamo monitorando assiduamente quei luoghi e testimoniando cosa succede lassù.

In questi ultimi due anni, in estate come in inverno, tra una passeggiata e una marcia, abbiamo percorso avanti e indietro moltissime volte quelle strade e quei sentieri e abbiamo accompagnato decine e decine di persone a Pian dei Laghi, a Porcellecchi, alla sorgente del Solstretto, sotto il sole e anche con la pioggia, osservando cosa succede e raccontando lo stravolgimento che questi magnifici luoghi finirebbero per subire una volta che i lavori fossero partiti.

E avevamo visto giusto.

Non mi soffermerò questa volta sull’abbattimento dei boschi e il sacrificio della vegetazione forestale per far posto al cemento, o del pericolo per gli uccelli, tra cui molti rapaci rari e protetti, che la realizzazione di questo impianto comporta, temi su cui già ci siamo già concentrati in altri articoli precedenti.

Voglio invece raccontare dell’acqua; quell’acqua pura, sorgente di vita preziosa per tutta la comunità di Vicchio, a cominciare dagli esseri viventi del crinale fino a quelli giù a valle nel paese, che siamo noi cittadini e cittadine, che spesso non sappiamo nemmeno da dove e come ci arrivi, ma che pure sappiamo che sicuramente non sgorga per natura dal rubinetto.

Quest’acqua ci viene per la gran parte proprio da questo crinale, è l’acqua della fonte del Solstretto, ad oggi preservata e incontaminata. A testimoniarne la qualità “superiore” è la presenza, accertata di una specie autoctona del gambero di fiume (Austropotamobius pallipes, Lereboullet, 1858), che di notte si affolla proprio in queste purissime acque.

Il gambero di fiume autoctono, Austropotamobius pallipes, è una specie protetta a livello europeo, che richiede interventi concreti per la sua conservazione a causa delle numerose minacce che subisce. La specie è iscritta nella Lista Rossa redatta dall’International Union for Conservation of Nature and Natural Resources (IUCN) (qui) , dove è classificata dal 2010 come specie “endangered” (a rischio di estinzione, lo stesso livello di minaccia del Panda gigante!).

La Direttiva CEE 92/43, che qualifica A. pallipes come “specie d’interesse comunitario per la quale devono essere individuate zone speciali di conservazione” (Allegato II) e come “specie assoggettabile a prelievi coerenti con specifici piani di gestione” (Allegato V), è stata recepita dall’Italia con i DPR 357/97 e DPR 120/2003.” (qui)

Diverse sono le Regioni italiane che hanno emanato provvedimenti legislativi specifici per tutelare questa specie, come la Lombardia, l’Emilia Romagna, il Piemonte, la Regione Marche, le province autonome di Trento e Bolzano… e la Toscana cosa ha fatto?

Perchè siamo noi a preoccuparci di questo raro gambero di fiume e di tutti gli altri animali rari, tra cui uccelli rapaci, chirotteri (pipistrelli), rettili ecc.. e non lo hanno fatto gli enti regionali preposti? Perchè il Settore per la Tutela della Natura e del Mare della Regione Toscana (l’acronimo è STNM), invece di tutelare le specie autoctone a rischio estinzione, si è limitato a chiederne al proponente il monitoraggio, più o meno approfondito, ante e post operam, per verificarne, durante e a fine lavori, il danneggiamento?

Perchè tutta la procedura della C.d.S. è stata una farsa, in quanto l’impianto doveva essere comunque approvato, a qualsiasi costo e a qualsiasi condizione, perchè serviva politicamente a raggiungere al più presto possibile gli standard dettati dalla U.E. di produzione di energia cosiddetta ‘sostenibile’ per la Toscana.

I tecnici di questo settore regionale si sono limitati infatti a dare delle indicazioni precauzionali che avrebbero la finalità di contenere (non si sa in che termini) i danni, che già prevedono per certo, saranno procurati dalla costruzione del megaimpianto eolico e dai cantieri industriali per la sua realizzazione e più tardi durante i lunghi anni di esercizio; questa è cosa ben diversa dal prendersi cura dell’ambiente appenninico e tutelarne le forme viventi e l’ecologia ambientale.

Tra l’altro ci chiediamo chi andrà a verificare mai l’adozione di tali precauzioni da parte delle ditte che lavoreranno lassù a 1000 m s.l.m. o lungo la viabilità di accesso, indistrubate? Proprio l’STNM nella comunicazione al settore V.I.A. -V.A.S. (sempre Regione Toscana) del 04/05/2021 prot. 196355 rileva che AGSM-AIM non è riuscita nemmeno ad eseguire compiutamente, cioè come previsto dalle “Linee guida per la valutazione di impatto ambientale degli impianti eolici” (2012) della Regione (qui), i monitoraggi ex-ante delle popolazioni delle specie naturali protette, indispensabili per conoscere la situazione di partenza e in seguito poterla confrontare con quella di esercizio e quella finale (ex-post).

Primi ritrovamenti di due esemplari di Austropotamobius pallipes nella Fonte del Solstretto – Villore- Vicchio (FI)

II° parte

Sul crinale del Monte Giogo di Villore non è presente la Regione Toscana (o chi per lei) ma noi cittadini ci siamo andati

Una mattina di giugno, alle 7.30 siamo saliti, come spesso è successo, sui crinali del monte Giogo di Villore e alla sorgente del Solstretto (che alimenta l’acquedotto di Vicchio e il torrente Botena), a cercare, con due lombrichi e una cannina, il gambero di fiume e, fortuna ha voluto, ne abbiamo trovati alcuni esemplari.

Per essere sicuri del ritrovamento e garantirci sul riconoscimento e classificazione abbiamo coinvolto due biologhe ricercatrici dell’Università di Firenze, Museo di Zoologia della Specola, e le abbiamo accompagnate in tarda serata (si tratta di una specie ad habitus prevalentemente notturno) alla sorgente.

Con grande meraviglia di tutti durante il sopralluogo sono stati contati una cinquantina di esemplari in un tratto di circa 100 m di corso d’acqua ed è stata evidenziata addirittura la presenza di individui femminili già predisposti all’ovideposizione. Le studiose, sono rimaste molto soddisfatte dall’eccezionale ritrovamento, a cui hanno fatto seguire una segnalazione alla Regione Toscana, in particolare al Settore Tutela della Natura e del Mare e al Settore Valutazione d’Impatto Ambientale, a compendio di una loro recente pubblicazione scientifica (qui), che segnalava la presenza del gambero nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi e di Campigno.

 

III° parte

Neanche il tempo di gioire per la buona notizia che subito ne è seguita una brutta

La nostra frequentazione della zona è continuata anche nelle settimane seguenti. Dopo neanche un mese dalla comunicazione del 1 giugno scorso, con cui AGSM-AIM informava le amministrazioni competenti di dare inizio ai lavori per l’impianto eolico industriale, a far data dell’8 giugno 2023, tornando sui luoghi interessati, abbiamo rilevato purtroppo che lungo la vena d’acqua del Solstretto era stato praticato un’escavo a formare una grande pozza di raccolta dell’acqua con almeno di 3 m di diametro e profonda, ad occhio, 80/100 cm.

Nello scavo era innestato un tubo collegato ad una pompa per il prelievo dell’acqua. Questa presa, per noi fuori programma, si trovava a poche centinaia di metri a monte della presa sulla sorgente del Solstretto che alimenta per buona parte l’acquedotto pubblico di Vicchio.

In prossimità del prelievo gli addetti della ditta Albanese perforazioni di Campobasso, stavano conducendo i carotaggi conoscitivi del sottosuolo in una delle aree dove dovrebbero essere innalzate le torri eoliche a scopo d’indagine geognostica, commissionata da AGSM-AIM.

L’acqua prelevata (abbiamo contato almeno 8 contenitori da 1000 l ciascuno che destinati ad essere riempiti e svuotati chissà quante volte), serviva appunto per permettere ai macchinari il raffreddamento degli organi lavoranti e il loro corretto funzionamento. Si tratta di trivelle molto potenti che devono perforare, andando fino a grande profondità, terreno e roccia, prelevandone delle carote rappresentative.

L’acqua che usciva, intrisa di gasolio e lubrificanti, si spargeva tutt’intorno. Ci siamo chiesti, dunque, se il prelievo e lo scavo fossero corretti. Non essendo a conoscenza delle procedure progettuali, ma trovando quanto verificato abbastanza curioso, per non dire al limite dello scorretto, abbiamo fatto una segnalazione ai carabinieri forestali, che ci auguriamo faranno i dovuti controlli e verifiche.

Siamo sempre più preoccupati per la situazione che si sta verificando sul crinale del monte Giogo di Villore: assenza di avvisi e segnaletica opportuna per avvertire i camminatori e i turisti, che si avventurano in zona, della presenza di un cantiere, con prelievo di acque naturali destinate all’uso potabile pubblico e la presenza di ditte che, approfittando dell’assenza di vigilanza da parte degli enti preposti, si muovono liberamente, stile Far west, e mettono a rischio l’integrità dell’ambiente e l’esistenza stessa delle specie rare e protette, come il gambero di fiume e altre specie rare della rete europea Natura 2000, scavando nella sorgenti e manomettendo il corso naturale dell’acqua e sversando tutt’intorno acque inquinate e inquinanti.

Se già all’inizio, prima ancora dell’apertura dei cantieri veri e propri ci si comporta in questo modo, senza alcuna premura per l’ambiente incontaminato dove si opera, cosa dobbiamo aspettarci per il proseguo quando i lavori saranno sempre più importanti e impattanti? Sinceramente, il greenwashing delle energie rinnovabili non vale certamente la distruzione degli ultimi preziosi scrigni di biodiversità che sono i nostri Appennini!

Se si inizia ad accettare questo scambio assolutamente perdente, l’energia prodotta è poca e intermittente e non abbatte assolutamente alcun impiego di fonti fossili, la biodiversità che viene a scomparire è unica e insostituibile, il nostro ambiente naturale non avrà più possibilità di sopravvivere e i danni del cambiamento climatico continueranno ad affliggerci sempre di più.

La fonte del Solstretto, prima di essere scavata
la pozza scavata dalla ditta Albanese Perforazioni per prelevare l’acqua
pompa dell’acqua per il prelievo
pozza con tubo di prelievo dell’acqua
carotaggi ordinati per il trasporto
cantiere di carotaggio
macchina perforatrice per estrazione carote
cantiere con botti per l’acqua

Epilogo

Sono i cittadini le uniche vere sentinelle a tutela dell’Ambiente!

Oggi, 19 luglio, abbiamo saputo che i Carabinieri Forestali della Stazione di Borgo S. Lorenzo, a seguito delle segnalazioni dei cittadini, hanno fatto due verbali alla ditta Albanese Perforazioni, uno per il prelievo non autorizzato dell’acqua dal Solstretto e uno per gli sbancamenti che la ditta ha fatto per creare le piazzole utili per posizionare le macchine e fare i carotaggi.

taglio e sbancamento piazzole
individuazione del punto da campionare
preparazione del carotaggio
carote inserite negli appositi contenitori
cantiere di carotaggio con taniche d’acqua da 1000 l.

Per certi versi /
La radice più profonda

La radice più profonda

Stavo assopito
Stavo
Per abbandonarmi
A Morfeo
Mi strattona
La voce
Di mio babbo
Che chiama
Mamma
Mamma
In una gola
Di echi
Si affaccia
Mia nonna
La sua voce
Dolce
La radice
Più forte
Più profonda
Della mente
È quella voce
Perfino in una
Malattia
Che deturpa
La coscienza
La madre
Resta
Madreperla
Protegge
Aiuta
Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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Complemento d’arredo per un Parco più bello che pria!

Intendiamoci, io a ‘sto punto voglio solo dare una mano. Finiamola con le critiche a buon mercato: il nostro Sindaco è uno che si rimbocca le maniche, un uomo che tira su un grattacielo in 3 giorni.
In un momento di sconforto lo avevo paragonato a Cetto La Qualunque, ma forse mi ero sbagliato, il paragone era imperfetto, Alan Fabbri vola molto più in alto. Più che un sindaco mi fa l’effetto di un Imperatore, uno che decide da solo, non perde tempo, non si mette certo a discutere con il popolino.

C’era una volta un Parco con un “un grande prato verde” trasformato in una fangaia, roba da mettersi le mani nei capelli, invece Alan non si è perso d’animo, ha fatto un fischio e ha messo al lavoro architetti, giardinieri e operai. In meno di un mese, ha sentenziato, il parco rinascerà più bello e più superbo che pria!

Riuscirà in questa opera titanica? Lui, proprio Lui che è il responsabile delle grandi ferite inferte al parco, riuscirà a creare un parco più bello del precedente?
Molti, moltissimi a Ferrara ne dubitano, anche io, ma a onor del vero, a favore di Alan c’è un illustre precedente. Raccomando la visione di questo  strepitoso assolo di Petrolini , oltre a divertire, ci aiuta ad entrare nella psiche  di un piccolo sindaco leghista di provincia con manie di grandezza.

Non ci è noto se Nerone  – ultimamente alcuni storici l’hanno rivalutato – prima di essere liquidato dal Senato, sia riuscito a ricostruire “come voleva lui” almeno qualche pezzo di Roma: case popolari palazzi nobiliari o templi per Dei diversi da quelli precedenti. In ogni caso, il suo emulo Alan Fabbri sembra avere il suo stesso modus operandi e il suo stesso amore per l’alcolma ha davanti a sé un compito un po’ meno oneroso: non deve rifare una Capitale, ma solo la meravigliosa ‘addizione verde’ ideata da Paolo Ravenna.

A che punto siamo? I giornali di regime (Il Carlino e la Nuova Ferrara) ci informano sullo stato dell’arte dei lavori di “sistemazione e abbellimento” del Parco.  Gli stradelli sono diventate strade carreggiabili in (“ecologico”) asfaltolarghe come fiumane” (ma al Vate non sarebbero punto piaciute). Sono stati piantati una gran quantità di lampioncini ‘in stile‘, copiati pari pari  da quelli  dei Giardini di Kensington di Wendy e Peter Pan. Infine le panchine, un modello vagamente “razionalista”, molto snob ma decisamente inservibili per chiunque si voglia riposare su una panchina.

Insomma, siamo avanti con i lavori, drammaticamente vicini alla inaugurazione in pompa magna del  “nuovissimo” Parco Bassani. Manca solo qualche particolare, la ciliegina sulla torta. Ed è per questo che mi sono attivato e ho fatto funzionare il cervello. Subito, colpo di genio, mi sono venuti in mente i Sette Nani.

Una volta, appena passato Po, li vedevo nei giardinetti delle villette geometrili abitate dagli ex poveri.  Funzionavano come “abbellimento”, Sette Nani erano sparsi sul prato, insieme a Biancaneve, con eventuale aggiunta di qualche fungo rosso a pallini bianchi. Tutti di gesso, che con la pioggia il colore sbiadiva.
Adesso i nanetti sono calati anche in Veneto. Ma continuano ad andare forte in America, in Australia e in Giappone. Adesso li fanno in vetroresina, che è molto più comodo e, sempre in vetroresina, si sfornano aironi, trampolieri, albatros e cicogne… Sono magnifici, assolutamente perfetti, e non costano nemmeno tanto. Gli manca un po’ il carattere, fermi impalati, ma sono indistruttibili.  Eterni.

Per farmi capire ho messo in copertina due nanetti, ma è solo una pagina del catalogo, c’è un ricchissimo repertorio che il sindaco e i suoi tecnici possono consultare. Dovrebbero farci un pensiero: il gruppo Biancaneve e i sette nani, in più copie, starebbe benissimo nel nuovo Parco, sotto i lampioncini, vicino a una panchina osso di seppia o al limitare degli alberi. Sugli uccelli in vetroresina consiglio di non fare economie. Ce ne vogliono almeno qualche centinaia, e bisogna piazzarli ovunque. Il concertone ha creato uno sconquasso nella avifauna (morti, feriti e scappati) ed è venuta l’ora del ripopolamento.
Signor sindaco, faccia lei, ma li raccomando vivamente nanetti e uccelli di plastica; sarebbero un perfetto complemento d’arredo.

Presto di mattina /
In ogni cosa c’è una parola che attende

Presto di mattina. In ogni cosa c’è una parola che attende

Rorate cieli de super

«… Finché un poeta inseguirà l’umano di Dio nei suoi versi, avrai materia per i tuoi mattutini. Non scoraggiarti e non temere, mio caro don». Così un carissimo amico mi ha scritto dopo l’ultimo mattutino a refrigerio dei miei “arsi calami”. Come rugiada, la sua parola amica, nel cespuglio arido, dal quale tuttavia, nell’umido della notte rinasce una promessa di parole nuove, ancora rosate, irrorate, asperse – dice la sua raffinata etimologia.

E così ricambio l’amicizia con parole antiche ma molto rugiadose: quelle di Ugo Foscolo nell’Adelchi (Coro Atto IV):

Come rugiada al cespite
Dell’erba inaridita,
Fresca negli arsi calami
Fa rifluir la vita,
Che verdi ancor risorgono
Nel temperato albor;
Tale al pensier,
Discende il refrigerio
D’una parola amica.

Così le parole nascoste negli steli riarsi delle espressioni logorate dall’uso sono come il Messia veniente cantato dal salmo 109 (110): “dal seno dell’aurora come rugiada sono generate». E allora sì «Rorate! stillate ancora o cieli dall’alto» e anche voi poeti continuate senza posa, perché si possa trovare ancora questa umanità di Dio che attende in ogni cosa.

Oggi il pensiero religioso e la stessa teologia soffrono di autoreferenzialità, prigionieri o di un linguaggio specialistico o di un devozionalismo superficiale, estetico e non estatico, senz’anima. Entrambi mancano di un’intima immaginazione, del soffio vitale. Eppure continuando su questa strada non avranno futuro. Senza immaginazione creativa, incapaci di pensare e dire l’umano di Dio, che attende in ogni cosa, in ogni esperienza, in ogni avvenimento e relazione, lo stesso vangelo resterà muto.

Scrive il teologo Pierangelo Sequeri: «Nella comunità cristiana come anche, rispettivamente, nella società civile, la teologia è praticamente senza peso. In entrambe, sia pure con le debite differenze, la dichiarazione di non voler aver nulla a che fare con la teologia dei teologi suona come un crisma di attendibilità, e rispettivamente di autenticità della testimonianza della fede.

La fede non è un’ideologia, non è una teoria, non è una morale, non è una politica, ripetono tutti. In questo senso, i più coraggiosi aggiungono: non è neppure una teologia. Naturalmente, tutto questo ha una sua essenziale verità: la fede non è una teoria» (Vita e pensiero, 4 2021, 71-72).

La teologia e il pensiero religioso devono così tornare a dischiudere il mistero nascosto in ciascuno e in ogni cosa, a partire dall’esperienza umana di tutti gli uomini. E lo potranno fare a condizione di un mutamento dell’immagine del divino e di un recupero della dimensione estetico-affettiva.

Continua Sequeri: «Diverso è l’orizzonte, se il campo di conoscenza e di azione del regno di Dio – ossia il piano del realismo della fede – è il mondo dato, la vita esistente, l’umano che è comune. Il futuro secolare avrà una teo-logia se la teologia cristiana cesserà di essere un semplice strumento di addestramento dottrinale del personale ecclesiastico…

Non sono necessariamente gli intellettuali più frequentati dalle accademie teologiche. Ma lo dovranno diventare, nel futuro della teologia. Perché nell’epoca che viene la teologia che scaturisce dell’adorazione di Dio in spirito e verità farà tesoro della testimonianza della samaritana e del pubblicano, non dell’isolamento dei leviti e dei sacerdoti» (ivi, 74; 76).

Per selve a me oscure perché la via era smarrita

walt whitman foglie d'erbaE così oggi ho intrapreso un sentiero sconosciuto verso quella selva oscura che è Foglie d’erba, l’opera poetica di Walt Whitman. Foglie d’erba che a un tempo simboleggiano il singolo, distinto e unito nell’uguaglianza agli altri individui, fili d’erba in una lussureggiante distesa di un popolo.

Inizio un cammino, ma non da solo, in compagnia di una buona guida, Antonio Spadaro sj. Scrittore, critico letterario e direttore de La Civiltà Cattolica, studioso della letteratura italiana e di scrittori statunitensi, e in particolare di Whitman. E così grazie a lui dal filo d’erba spero di riuscire a veder le stelle e in carne d’uomo e di donna il verbo incarnato e amante.

Credo che un filo d’erba non valga meno del lavoro
giornaliero delle stelle,
E la formica è parimenti perfetta, e un granello di sabbia,
e l’uovo dello scricciolo,
E il rospo volante è un chef-d’oeuvre supremo,
E la mora di rovo ben potrebbe ornare i saloni del cielo,
E la più sottile giuntura della mia mano si fa beffe di qualsiasi
macchinario,
E la mucca ruminante a testa bassa la vince su ogni statua

Credo che le zolle fradice diverranno un giorno amanti
e fiaccole,
E che compendio dei compendi sia la carne di un uomo
o di una donna,
E che culmine e fiore sia il sentimento che l’uno nutre
per l’altra

Io credo che quelli come te dovranno star per forza con le
mie poesie, e che anzi sono loro stessi le mie poesie,
poesie dell’uomo, della donna, del bambino, del ragazzo,
della moglie, della madre, del padre, del
giovane e della giovane. 
(Foglie d’Erba, Meridiani, Milano 2017, 141; 139; 237)

“Quel premere, quel premere delle onde verso terra. Eternamente in cerca della riva” (ivi, 1147)

L’opera poetica di Whitman consiste, si radica e si amplifica nella visione di una terra, sull’immensità sconfinata della sua terra, compresa non tanto nel suo essere ma nel suo divenire. Un popolo e una terra proiettati verso un futuro oltre le frontiere. I suoi scritti stanno al centro del canone letterario statunitense. Testi a cui la comunità ha riconosciuto un particolare valore, la cui influenza ha segnato anche la letteratura italiana del novecento.

Sarebbe meglio dire allora che le sue parole, i suoi versi, attestano piuttosto un’aspettativa insperata e pur attesa; l’attesa di una visione, come onde sempre in cerca di un nuovo approdo. Uno sguardo che guida il presente con una mano amica verso ciò che gli sta oltre.

Altri adornano il passato – ma voi, oh giorni presenti, siete voi che io
adorno!
Oh giorni del futuro, io credo in voi!
Oh America, poiché tu costruisci per l’umanità, io costruisco per te!
Oh scalpellini tanto amati! Guido quelli che decisi e abili, fanno
progetti,
Guido il presente con mano amica verso il futuro.

Questa notte sono felice,
Mentre guardo le stelle che brillano, mi viene un pensiero sulla
chiave dell’universo e del futuro.
(Foglie d’erba, Newton Compton Editori, Roma 2014, 268; 335).

Scrive Antonio Spadaro che quello di Whitman è «il tendere inesausto verso una novità radicale, la profezia di un rapporto pieno tra l’uomo e la sua terra, di una fratellanza radicale tra gli uomini, di una laboriosità maestosa che sia reale con-creazione del mondo, l’attesa di una parola “vera” che dica la realtà e non resti solamente appesa a fantasie. Ogni verso di Whitman vive dell’immagine realizzata di questo desiderio» (La Civiltà Cattolica, 3671, 2003, 440).

Celebro me stesso,
E ciò che immagino tu immaginerai,
Perché ogni atomo che appartiene a me appartiene davvero anche a
te.
Io fantastico e invito l’anima mia,
Mi adagio e fantastico a mio piacimento, soffermandomi su un filo
d’erba estivo
(ivi, 196).

La verità della terra non è una massima, ma un principio vitale.

Infinita ricerca è allora la sua poesia, quella di parole che attendono solo in ciò che vive, solo ciò che è vivo e rende vivi.

Tenere insieme gli uomini con carte e sigilli, o con la forza, a nulla
serve,
Solo ciò che è principio vitale tiene gli uomini uniti, come ciò che
unisce le membra del corpo o le fibre delle piante.
(ivi, 269)

La verità nell’uomo non è una massima, ma è parte vitale come la
vista,
Lì dove c’è un’anima, lì è la verità – dove c’è un uomo o una donna,

è la verità – dove c’è uno spazio fisico o morale, lì è la verità,
Se c’è volontà o equilibrio, lì è la verità – qualunque cosa vi sia sulla
terra, lì è la verità.
O verità della terra! O verità delle cose! Sono pronto a percorrere
tutta
la strada verso di te,
A sondare la tua voce! Dietro di te io scalo montagne o mi tuffo nel
Mare
(ivi, 232-233).

In lui, pertanto, la creatività poetica non è semplicemente espressione del sentimento o immaginazione fantastica, ma confronto con la vita, slancio vitale suo e di un intero popolo: slancio vitale che sboccia più fragrante delle rose dalle vive gemme, quando le piogge estive le gonfiano di rugiada. È un’immaginazione concreta, celata nel reale proprio perché partecipata e condivisa:

La terra non si nega, ma piuttosto è generosa,
Le verità della terra aspettano di continuo, e non sono neppure così
nascoste,
Sono calme, sottili, incomunicabili sulla carta,
Sono impregnate di ogni cosa e con gioia entrano in relazione,
Comunicando un sentimento e un invito della terra – non mi stanco
di
ripetere,
E io non parlo, ma se tanto tu non mi senti, a cosa ti posso servire?
Generare – migliorare – se manca questo, a cosa posso servire?
(ivi, 432)

Mentre guardo le stelle che brillano, mi viene un pensiero sulla
chiave dell’universo e del futuro
(ivi, 335).

Le verità attendono in tutte le cose

«Occorre lasciar vivere questa attesa, scrive Spadaro, e leggere Foglie d’erba come un libro che a partire dal presente dice un paradiso che sempre vivrà nel cuore dell’uomo, al di là di ogni realizzazione storica di quell’ideale… il desiderio e l’attesa di una pienezza umana al di là di ogni compimento», (Spadaro, 441).

Ogni verità attende in ogni cosa,
Non affretta il proprio parto né oppone resistenza,
Non ha bisogno del forcipe del chirurgo,
L’insignificante per me è grande quanto il resto,
Che cosa è più o meno importante del toccare?
La logica o un sermone non convincono mai,
L’umidità della notte arriva più a fondo nell’anima mia.
Solo ciò che arriva a dimostrarsi a ogni uomo o donna è quel che è,
Solo ciò che nessuno smentisce è quel che è
(Meridiani, 139)

Resta da chiarire un dubbio, si domanda ancora Spadaro: «Whitman è il bardo degli Stati Uniti? È, insomma, solamente un poeta nazionalista o liberista? Sarebbe un abbaglio sostenerlo. È l’ampia storia della ricezione dei suoi testi a dirci che non è così. I suoi versi, radicati in una terra e in un popolo, sono in grado di parlare a chiunque, come dimostra il numero e la varietà di scrittori che a lui si sono ispirati» (ivi, 433).

Non è lui allora, anche se “celebra se stesso”, il messia del nuovo mondo. Il messia veniente e presente al tempo stesso lo riconosce semmai nel volto di un giovane morente: «un volto né infantile né adulto, calmissimo, di un bel tono d’avorio, / O giovane, io credo di conoscerti – credo che questo è il volto di Cristo, / Morto, divino e fratello di tutti: che qui di nuovo è morto» (ivi, 442).

Il Cristo è sempre oltre, in divenire e tuttavia nascosto e in attesa nell’umanità dei suoi fratelli e sorelle: «Ricordati di Cristo, fratello dei reietti – fratello degli schiavi, dei criminali, degli idioti e dei matti e dei malati… Se non riesci ad afferrarmi subito, non ti scoraggiare, Se non mi trovi in un posto, cercami in un altro, Io da qualche parte mi fermo ad aspettare te» (Foglie d’erba, Newton Compton 370; 155).

Camminando e navigando attraverso lo spazio e il tempo

«Spazio tempo! Ora vedo che quel che intuivo era vero, quel che intuivo reclino sull’erba…/ E ancora camminando sulla spiaggia sotto le stelle che al mattino impallidiscono» (ivi, 126-127).

Così, per Whitman, la strada, le frontiere dei mondi, gli approdi dei mari, degli universi spirituali ed esistenziali costituiscono i luoghi in cui incontriamo gli impeti e le delicatezze delle sue visioni e il venire alla luce della sua immaginazione. Non le crea le immagini, ma le riceve strada facendo, lo attendono in ogni cosa. Così lungo la via canta le gioie della vita, le gioie di tutti: della natura e degli uomini e delle donne in cammino.

Camminando:

Sopra le floride canne da zucchero, sopra la pianta di cotone,
sopra la bassa umida risaia
Sopra il grano saraceno bianco e bruno, vibrante e frusciante
Come tutto il resto.
Sopra il verde scuro della segala che s’increspa e fa ombra nella
brezza,
Scalando montagne, sollevandomi con prudenza, reggendomi su rami
bassi e scheletriti,
Camminando lungo il sentiero battuto nell’erba e battendo contro le
foglie degli arbusti,
Dove la quaglia fischia tra i boschi e i campi di grano,
Dove il pipistrello vola nelle serate di luglio, dove il grande scarabeo
d’oro cade giù attraversando il buio,
Dove la trebbiatrice batte il tempo sul pavimento del fienile,
Dove il ruscello sgorga dalle radici di un vecchio albero e scorre
verso il pascolo.
(ivi, 127-128).

Conosci tu le gioie eccellenti della giovinezza?
Le gioie dei cari compagni e della parola allegra e del
viso ridente?
La gioia del lieto giorno radioso, la gioia dei giochi di ampio
respiro?
La gioia della dolce musica, la gioia della sala sfavillante
e dei ballerini?
E tuttavia, O anima mia suprema!
Conosci tu le gioie dell’assorto meditare?
Le gioie del cuore libero e solo, del cuore tenero e mesto?
Le gioie della passeggiata solitaria, dello spirito piegato
ma fiero, della sofferenza e della lotta?
Gli spasimi dell’agone, le estasi, le gioie delle solenni
riflessioni diurne o notturne?
Essere un marinaio nel mondo alla volta di tutti i porti
Esser la nave stessa (a guardare queste vele che dispiego al sole e all’aria).
Una nave veloce gonfia di vento, colma di parole preziose,
colma di gioie
(Meridiani, 421-423; 425).

Vai! Uno ti cammina accanto

E strada facendo, attraversando le colline della Giudea, Whitman incontra pure lo “splendido Dio gentile” che gli si avvicina e cammina con lui giorno e notte, quando arretra e quando avanza, quando è pieno e quando è vuoto, instabile o bramoso e conosce tutte le sue vie.

Approdando ad ogni porto per traffici e avventure,
Trascinato dalla folla moderna avido e volubile come chiunque altro…
Camminando per le antiche colline della Giudea, con lo splendido
Dio gentile [beautiful gentle God by my side] al mio fianco

Correndo [speeding thru] attraverso lo spazio, correndo attraverso il cielo e le stelle,
Correndo attraverso i sette satelliti, e l’ampio anello, e il diametro di
centomila chilometri,
Correndo con stelle comete, gettando globi di fuoco come fanno gli
altri,
Infuriando, gioendo, programmando, amando, ammonendo,
Arretrando e riempiendomi, apparendo e scomparendo,
Giorno e notte percorro queste strade
(ivi, 153-155)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

La panchina incompiuta

La panchina incompiuta

C’erano una volta dei sentieri
nel Parco Bassani di ieri.
Ora sono dei vialoni
che aspettano le sorelle circonvallazioni.
Mancano passaggi pedonali
dossi e incroci autostradali,
i semafori arriveranno
prima della fine dell’anno.
Attrezzato con libro e giornale
mi son detto “adesso mi siedo
e mi appoggio allo schienale”.
Mi guardo attorno e vedo
un cubetto maledetto
che starebbe meglio alla Biennale,
sono anziano ma devo stare attento
perché se mi addormento
potrei cadere tra i pensieri
e mandare accidenti non è
tra i richiesti pareri.

(Pier Luigi Guerrini)  

In copertina: Parco Urbano Bassani di Ferrara, nuovissima panchina anti- ergonomica con stradello cementato e un bel cane – Foto di  Barbara Goberti

Diario in pubblico /
Luoghi tempi persone

Diario in pubblico. Luoghi tempi persone

 C’è un senso nel riconoscere nei nomi un destino, una rivelazione, una verità nascosta. Nella mia lunga vita ho abitato luoghi tra i più belli del mondo, non solo nella loro reale posizione, ma anche nel nome che hanno. Uno fra tutti che è e rimarrà esemplare: Via di Bellosguardo a Firenze.

Altri invece nel nome-destino portano misteriosamente un legame che la titolazione stessa evoca: Via Ricasoli sempre a Firenze, dove comprai un appartamento che ricorda il personaggio storico, Bettino, la cui esistenza comporta un aggancio storico-politico con Ferrara.

La via in cui abito a Ferrara invece suggerisce un riferimento storico nazionale che ha soppresso nel nome la sua condizione di maggior via d’acqua per approdare alla residenza dei duchi estensi in Castello. Ma la peggiore intitolazione forse in ogni senso è via Zanella al Lido degli Estensi ora giustamente chiamata ‘la Via del Rumore’.

Non mi ha fatto cambiare idea nemmeno il fondamentale studio critico di uno tra i 5 miei amici del cuore Anco Marzio Mutterle che nel 1988 scrisse Il professore ombroso. Quattro studi su Giacomo Zanella. Erano gli anni eroici della visitazione della letteratura moderna e contemporanea e a lui, compagno inseparabile della nostra avventura pavesiana, toccò il compito della rivalutazione di uno scrittore che a noi giovani intellettuali sembrava un relitto da cancellare, o perlomeno da ‘non ti curar di loro ma guarda e passa’.

Ma il luogo forse più carismatico, quello che segnò per sempre la mia storia esistenziale e culturale fu il Bagno Alpemare al Forte dei Marmi, che la generosità della famiglia Volterra ci aveva messo a disposizione. Lì incontravo Eusebio-Montale, lì confluivano quegli intellettuali che poi si radunavano al Caffè Roma, lì mi sentivo orgogliosamente ultra-radical-chic, altro che la Capalbio del ventunesimo secolo, a cui dedica un acuto commento Ritorno a Capalbio Massimo Gramellini nel Corriere del 25 luglio, dove la constatazione “Capalbio è un marchio di infamia snobistica un modo di dire e di sfottere” che andrebbe approfondito.

  Ora l’Alpemare è il bagno alla moda (naturalmente secondo dopo quello del Twiga Beach Club della intraprendente madame d’Asburgo Santanchè) gestito dal cantante Boccelli; ma – è questione di gusti – che resta dell’aura culturale? Francamente non lo voglio sapere. Per fortuna nel mio Laido degli Estensi forse la nota più positiva risiede nella cucina del Bagno Onda Blú, ottima e a prezzi accessibili ai comuni mortali anche se intellettuali….

Un articolo di Concita De GregorioLe due eredi designate, apparso nella Repubblica del 23 luglio 2023, prende in esame le eredi del potere politico-sociale-economico del nuovo corso italiano, Giorgia Meloni e Marina Berlusconi, sottolineando quanto sia complesso essere donne al potere e quanto costi tenere a freno le inevitabili pretese della superiorità maschile.

E ormai a livello occidentale la presenza delle donne in politica è straordinariamente cambiata rispetto a pochi decenni fa. Inutile fare la conta, basta consultare qualsiasi sito specializzato che ci informa sulle quote un tempo dette rosa per renderci conto della consistente presenza femminile .

Con questo non si vuole assolutamente affermare che sia meglio essere governati dalle donne, ma semplicemente constatare l’innegabile aumento delle donne alla guida di importantissime strutture sociopolitiche in Occidente. La prova provata rimangono, in Italia, le due signore in oggetto e la presidente del PD Elly Schlein, che ancora fatica, e lo scrive uno dei suoi elettori, a trovare la via di una ripresa consistente della sinistra italiana.

L’aria si fa più leggera se devo riferirmi alla autorevole presenza giornalistica al femminile, ma la consuetudine con le signore mi rende l’impresa facile e consolatoria: Natalia Aspesi, prima inter pares e, alla rinfusa, scusandomi di dimenticarne molte: Lucia Annunziata, Lilli Gruber, Giovanna Botteri, Barbara Palombelli, Luciana Litizzetto, Stefania Battistini, Dacia Maraini, Michela Murgia;

le storiche e straordinarie testimoni della Shoah: Lia Levi, Edith Bruck, Liliana Segre ; inoltre le studiose dell’ebraismo Dora Liscia, Igina Bemporad, Jael Liscia e anche Portia Prebys e Paola Bassani. Nell’ambito ferrarese poi studiose che hanno svolto anche attività giornalistica come Ethel Guidi, Mirna Bonazza, Maria Teresa Gulinelli e le sue sorelle.

Come si può notare e che ci conforta comunque nell’attesa di una possibile parità invocata, ma troppo spesso elusa, è che non è più eccezionale la presenza di una donna che illustri con il suo esempio il mondo intero, che al loro tempo si chiamavano Maria Callas, Edith Piaf, Elsa Morante, le mie amatissime.

E, forse, l’atteggiamento più adatto a coloro che desiderano e pretendono la eguaglianza tra le due parti del mondo va ancora indicato in un precursore troppo spesso dimenticato: Pier Paolo Pasolini.

Per leggere gli altri articoli di Diario in pubblico la rubrica di Gianni Venturi clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Considerazioni (in)attuali di un sociologo urbano. In risposta al prof. Farinella

Considerazioni (in)attuali di un sociologo urbano.
In risposta al prof. Farinella

Le riflessioni promosse dal prof. Farinella nel suo denso intervento mettono al centro una serie di problematiche che vanno al di là della specificità del contesto ferrarese e toccano il governo delle città in questa epoca di crescente incertezza e difficoltà.
Taluni aspetti della contemporaneità evidenziano quanto le città siano divenute, o meglio ridivenute, luoghi sempre più centrali nelle politiche sociali, economiche e culturali. In altre parole, la scala urbana assume un ruolo decisivo nel progettare e nell’implementare interventi che alimentano a livello locale dinamiche talvolta anche in conflitto con le leggi nazionali, come anche recentemente si è assistito sul caso di figli e delle figlie di coppie omosessuali, oppure le cosiddette citta santuario dove si accolgono migranti e rifugiati contro le limitazioni legislative dei governi centrali. Tale autonomia di governo è un valore significativo nel momento in cui il decentramento decisionale permette di essere prossimi alle istanze dei cittadini, di essere vicini alle problematiche territoriali e, infine, di conseguire obiettivi simbolici e pratici dentro alla logica dell’inclusione e della piena cittadinanza. Tuttavia, lo sappiamo molto bene, questo orizzonte si scontra con realtà, “troppo” spesso e volentieri, in cui le dinamiche di potere locale conseguono specifici interessi di parte, relegando eventuali critiche, progetti alternativi quali fastidi rispetto alle proprie scelte ritenute del tutto appropriate.
Da queste sintetiche osservazioni, nel solco aperto da Farinella, sorge un problema urgente sul quale è oltremodo necessario riflettere, ovvero il rapporto tra città e democrazia. Negli ultimi anni la sociologia urbana ha affrontato temi importanti all’interno di questa relazione, ad esempio la gestione degli spazi pubblici, le politiche abitative, le politiche di welfare, le strategie di sviluppo socio-economico e le trasformazioni delle istituzioni e delle amministrazioni per far fronte alla complessa articolazione dei problemi (crisi economica e sanitaria, aumento delle povertà, transizione ecologica).
Sulla base di un ampio repertorio di ricerche condotte in diverse città e aree metropolitane europee emerge un quadro sufficientemente chiaro: la chiave di volta per affrontare tale complessità, come richiamato in maniera esemplare da Farinella, è ridefinire e innovare i processi di partecipazione democratica dei cittadini e delle cittadine al fine di condividere priorità e finalità dell’agire pubblico.

Partecipazione e cittadinanza attiva

La parola magica partecipazione è presente nella maggior parte dei progetti europei e nazionali cha hanno quale loro scopo la gamma degli interventi nelle città, dalla progettazione sul sociale alla riqualificazione urbana nelle loro distinte variazioni. Anche in questo caso, sovente, l’effettiva partecipazione rimane nell’alveo delle buone intenzioni, configurandosi quale retorica del consenso piuttosto che divenire strumento democratico e di emancipazione collettiva. In altre parole, i processi partecipativi si caratterizzano per il loro essere in molti casi mera consultazione invece di raffigurarsi nella dimensione della reale co-progettazione in riferimento sia alla definizione del problema, sia alla ricerca delle risposte compatibili con esso. Dal lato dei singoli, o gruppi organizzati, di cittadini il tema della cosiddetta cittadinanza attiva risulta oltremodo significativo in questa prospettiva. Il termine presenta una certa variabilità concettuale così come nella sua manifestazione. Il filo rosso che tiene insieme questa articolazione sta nella costituzione di ambienti, relazioni e pratiche condivise tra le persone per avanzare problemi, costruire possibili soluzioni, promuovere inclusione e responsabilità collettive.
La cittadinanza attiva è un valore aggiunto nelle dinamiche democratiche locali poiché esercita il ruolo e la funzione di soggetto politico nel senso nobile della parola di occuparsi delle questioni e delle scelte di pubblico interesse. In diverse occasioni le prerogative di tale attivazione possono assumere i contorni di un conflitto con l’esercizio del potere locale. Forse è necessario ribadire che il conflitto, termine diventato oramai quasi blasfemo, è una palestra di democrazia, un terreno dove si apprendono e maturano competenze politiche e sociali decisive e dove si sperimenta l’agire cooperativo, quest’ultimo fattore determinante nel prossimo futuro per contrastare gli effetti delle problematiche che abbiamo in precedenza delineato. Altresì il conflitto ha effetti benefici sugli attori e sulla configurazione del potere locale poiché potenzialmente innesca circoli virtuosi di apprendimento delle problematiche espresse, di individuare nuove competenze nell’amministrazione e, non certamente ultimo, di aumentare la capacità di leggere e di rispondere alle questioni via, via emergenti. Di conseguenza, non si deve aver timore di affrontare eventuali istanze conflittuali, ma viceversa cogliere l’occasione per aprire spazi e luoghi di confronto entro i quali esercitare il gioco democratico.
Questo non significa assolutamente annullare in una sorta di immaginaria pace sociale le differenze di visione, o peggio, di appiattire le specifiche diverse culture politiche. Sarebbe altrettanto dannoso. Si tratta, viceversa, di alimentare e vivificare il rapporto tra società urbana nella sua articolata composizione e democrazia nel momento in cui appare all’orizzonte la minaccia di un progetto politico di governo autoritario delle città, tema su cui insieme al professore Farinella stiamo da tempo lavorando.

La città autoritaria

Per “autoritario” s’intende identificare dinamiche che escludono progressivamente i cittadini dalla loro capacità di mobilitazione, dal loro riconoscimento in quanto soggetti attivi e, al contempo, un’egemonia del valore commerciale sul valore sociale della città che ha un effetto di ridurre i problemi solo nella loro valenza economica.
Il rischio di ciò che abbiamo chiamato città autoritaria è l’esito di dinamiche che rispondono a un modello neoliberista ritenuto l’unica medicina per curare quegli stessi mali che ha contribuito a creare. Sarebbe opportuno ripensare tale modello il quale reca con sé l’incapacità di creare le condizioni per promuovere l’eguaglianza, l’equità e la sostenibilità socio-ambientale che, al contrario di quanto la vulgata asserisce, saranno le imprescindibili fondamenta per uno sviluppo economico di un determinato territorio.

Il caso Ferrarese

Riflettendo sul caso ferrarese è del tutto evidente che siamo di fronte a una situazione entro cui si possono individuare elementi rilevanti. La costituzione del Forum Ferrara Partecipata raffigura un esempio significativo all’interno di una cornice di rinnovata relazione tra cittadinanza e governo. Infatti, la mobilitazione non si pone solo su un piano di esclusiva critica a una scelta amministrativa ma si propone anche diffondere saperi e di integrare la singolarità dell’intervento all’interno di una visione più ampia dell’abitare un luogo, di per sé contradditorio e mai definito una volta per tutte. Qui sta il senso più deciso della cittadinanza attiva: ampliare i confini del diritto alla città nell’ottica di scenari democraticamente disegnati, discussi e condivisi. La democrazia è una continua pratica di rivendicazione, di ascolto, di proposte e di dialogo. Non si può esimersi da questa semplice, forse banale, constatazione.
Ferrara in tal senso è sicuramente un laboratorio di cui è assolutamente decisivo coglierne l’opportunità.

L’università e la città

Infine, alcune brevi considerazioni sul ruolo dell’Università come discusso da Farinella. Al di là delle evidenti valutazioni che si possono fare sull’importanza dell’Ateneo in termini di ricadute economiche sulla città, è chiaro che ciò non è sufficiente.
Il mondo accademico negli ultimi tempi è chiamato nelle sue componenti ad aprirsi alla città. Termini quali “terza missione”, “public engagement”, i quali appaiono un filo oscuri a chi non ha certe frequentazioni, delineano questo obiettivo secondo le nuove linee ministeriali di valutazione dei singoli atenei. Il fatto che venga istituzionalizzato il rapporto tra territorio e università è sicuramente un fatto di cui essere piuttosto contenti. Tuttavia, è altrettanto rilevante riflettere sulle modalità con cui tale rapporto dovrà stabilirsi e, in particolare, quali possano essere i contenuti sui quali lavorare congiuntamente. Su questi aspetti il dibattito è aperto: da un lato, l’università può assumere un ruolo di sostegno a politiche socio-economiche che assecondano il sopra citato modello neoliberista; dall’altro può promuovere saperi e competenze capaci di gettare le basi per una seria alternativa socio-economica e socio-culturale.

Nel mezzo di questa polarità, ovviamente, ritroviamo tante sfumature, tanti differenti percorsi non riconducibili fedelmente a uno dei due. Conseguentemente dentro alle mura universitarie appare urgente definire quali indirizzi dare a questa inedito rapporto attraverso il continuo dialogo con la complessità amministrativa, l’articolazione sociale ed economica espresse dalla città nel suo insieme. E ciò deve essere fatto nel modo più trasparente e pubblico possibile al fine di dare impulso a una effettiva rigenerazione che tenga insieme i frammenti sparsi di un mosaico di cui, purtroppo, ancora non conosciamo l’immagine conclusiva.

Salario minimo legale:
perchè conviene

Salario minimo: la situazione nel mondo

Il salario minimo è stato introdotto in quasi tutti i 38 paesi OCSE e negli Stati Uniti[1] in quanto viene considerato uno strumento utile in quelle economie che hanno un problema di crescente disuguaglianza, con una quota estesa di persistenti bassi salari e di lavoro povero. L’Italia non fa eccezione in quanto ci sono circa 5,2 milioni di dipendenti (il 30-31% del totale) che guadagnano da 5 a 10 euro all’ora. Sono quelli dei settori commercio, pulizie, sicurezza, sport, ricreazione, arte, viaggi e servizi vari alle imprese, operai e apprendisti che in percentuale del 20-40% guadagnano meno di 1.200 euro netti al mese, pur lavorando molte ore. Nel dettaglio, Istat indica in 2.945.877 coloro che percepiscono meno di 9 euro all’ora (ma c’è chi ne prende anche 4 o 5), poi ci sono 2.248.308 che ne prendono tra 9 e 10 euro all’ora e infine altri 11,5 milioni che prendono più di 10 euro. Anche nel “ricco” Centro-Nord sono 1.970.150 lavoratori che prendono meno di 9 euro all’ora (15,9% del totale). Al Sud crescono al 25,1% (1.032.262; 17,2% è la media nazionale tra i dipendenti). L’alta inflazione ha ridotto tutti i salari nel 2022 (in media del 7,5%, -8,4% al Sud), dato record in Europa se si pensa che in Francia e UK sono cresciuti, in Usa sono calati di -2,3%, in Germania -3,2%. Rispetto al 2008 le paghe si sono ridotte al Sud del 12% (fonte Svimez). Le cause principali sono la minore occupazione nella manifattura e una crescita di occupati nei servizi e turismo (che pagano meno) e usano di più part-time e lavoro stagionale (al Sud gli occupati a termine sono il 22,9%).

In alcuni Paesi ci si è opposti (pochi per la verità) perché più alti salari minimi scoraggerebbero alcune assunzioni e favorirebbero il lavoro nero, ma l’esperienza di 30 paesi nell’Ocse su 35 mostra il contrario, che salari minimi ragionevoli non riducono affatto l’occupazione, anzi. In Usa il salario minimo è 7,25 dollari per ora (8 euro), un livello molto basso specie per i lavoratori delle aree urbane. Per cui alcuni Stati (Massachusetts,…) lo hanno alzato fino a 14,25 dollari (se non si hanno altri sussidi pubblici). L’evidenza mostra piuttosto che il salario minimo riduce le disuguaglianze aiutando quel 20-25% circa di lavoro povero che esiste in quasi tutti i paesi occidentali (e sta crescendo). Ovviamente il salario minimo non è la panacea di tutti i mali e andrebbe accompagnato con altri provvedimenti, ma è comunque un tassello utile a tutela del lavoro povero.

Il salario minimo legale non peggiora l’occupazione

David Card, Joshua Angrist, Guido Imbens sono stati insigniti del premio Nobel per l’economia 2021 in quanto i loro studi “hanno fornito nuove informazioni sulle dinamiche del mercato del lavoro e le relazioni causali”. Gli studi di Card sono di grande attualità, nonostante risalgano ai primi anni ’90, quando dimostrò che l’aumento del salario minimo nei ristoranti fast food del New Jersey da 4,25 dollari a 5,05 all’ora non solo non provocò una riduzione di occupati in quel settore ma neppure un trasferimento dei costi sui prezzi dei clienti, come sostiene da sempre l’economia neo-liberista che va per la maggiore. Gli studi in America sono per alcuni versi molto interessanti, in quanto c’è una situazione del tutto speciale dovuta alla presenza di 50 Stati con regole spesso diverse ma con condizioni socio-economiche comparabili e che sono quindi ideali per fare confronti. Gli effetti dell’aumento del salario minimo in New Jersey videro (contrariamente alle aspettative) un incremento del 13% sull’occupazione, mentre nulla avvenne nel vicino Stato della Pennsylvania che non aveva effettuato l’aumento di salario minimo. Studi analoghi in altri contesti confermarono cose simili. Come mai ciò può accadere? Qualcosa di simile avvenne anche in Italia negli anni ’70 quando l’aumento significativo dei salari produsse un aumento dell’occupazione a causa di un vincolo (ragionevole) posto dai sindacati alle imprese di non poter contare su bassi costi salariali e doversi “dare da fare”, avviando quasi sempre un’innovazione organizzativa e dei macchinari che portò ad un aumento della produttività del lavoro nelle singole imprese e ad un aumento delle esportazioni e, di conseguenza, anche dell’occupazione. Una strategia “win-win” che non si è più ripetuta negli anni successivi. E’ comprensibile che i datori di lavoro resistano ad aumenti in quanto con bassi costi salariali “il business è più remunerativo e semplice”, ma da sempre il valore delle imprese è dato soprattutto dai lavoratori (il cosiddetto capitale umano) e quando un’impresa crea un clima favorevole è lei per prima a trarne vantaggio. Lo sanno bene le piccole imprese che si litigano gli operai migliori e le grandi che glieli rubano.

I sindacati italiani per anni hanno resistito ad una legge sul salario minimo perché non vogliono perdere il “potere contrattuale” che tramite il salario è in grado di mobilitare i lavoratori ed ottenere altre rivendicazioni, ben al di là del salario base. Tuttavia oggi ci troviamo con quasi mille contratti nazionali (molti “pirata”) e 3 milioni di lavoratori (2 al Nord e 1 al Sud) che hanno tariffe salariali molto al di sotto di minimi contrattuali decenti (anche 5 euro con contratti firmati) e quasi un terzo di chi ha avuto un lavoro nell’ultimo anno ha avuto un salario inferiore alla linea di povertà Istat (vedi Michele Bavaro su lavoce.info). Per questo sono in molti a chiedere che anche in Italia ci sia una legge per un salario minimo decente com’è in tutta Europa (fissato in genere al 40-50% del salario mediano).

Oltre all’Italia in Europa solo Austria, Svezia, Finlandia, Danimarca non hanno il salario minimo, e di recente anche un paese povero come Cipro l’ha introdotto. In Austria e nei tre Paesi nordici ci sono già buoni minimi salariali in tutti i settori e per questo non è stato ancora introdotto. Significativo è che anche il conservatore Boris Johnson abbia proposto di aumentare il salario minimo inglese da 8,55 a 9,05 sterline (11 euro) che comporterebbe circa 900 sterline annue di aumento per i salari bassi.

La lotta contro i contratti “pirata”

Il problema in Italia è anzitutto per quei lavoratori che sono pagati 4-5 euro all’ora con contratti “pirata”. Nel Sud il costo della vita è del 20-30% inferiore a quello del Nord e quindi, in presenza di un minimo nazionale, potranno essere poi le singole regioni del Nord ad aumentare il minimo. La questione impatta anche col Reddito di Cittadinanza, che al Sud è stato fissato (come al Nord) ad un livello alto (550 euro circa), per cui l’incentivo a lavorare in regola diminuisce, diversamente dal precedente Reddito di Inclusione (che prevedeva un sussidio minore – circa 350 euro-, ma, intelligentemente, se il povero trovava un lavoro manteneva 2/3 del sussidio). Chi invece trova lavoro col Reddito di Cittadinanza perde l’80% del sussidio e ciò è un disincentivo a lavorare e a prendere solo il sussidio, arrotondandolo poi con 200-300 euro in nero al mese che è più facile da ottenere al Sud e che implica spesso un minor numero di ore di lavoro di un compenso regolare (che però porta più dignità e anche entrate per lo Stato). Questa era la riforma da farsi: invece il nuovo Governo ha proceduto semplicemente togliendo il RdC a circa 800mila persone single che potenzialmente possono lavorare (e per un massimo di 8 mesi anziché 18), al fine di risparmiare 3 miliardi sugli 8 di spesa pubblica annua per questa misura.

[1] Vedi www.dol.gov/agencies/whd/minimum-wage/state. Nel gennaio 2023 variano da 8,5 dollari a Porto Rico a 16,5 nella città di Washington. In media sono su 12-13-14-15 dollari.

Il volo libero di Zaki e il capitombolo di Giorgia

Per il nostro amico e fratello Patrick, per i suoi familiari, il suo avvocato e per i tantissimi che in Italia hanno partecipato alla campagna di Amnesty International, è stata una settimana al cardiopalma. Nel breve giro di 3 giorni (condanna – grazia – scarcerazione) Patrick Zaki si è liberato dal filo spinato che lo avvolgeva da due anni e che minacciava di spezzare completamente la sua vita. Appena due giorni dopo, col passaporto in tasca, ha preso un normalissimo volo di linea (class economy) e domenica pomeriggio è atterrato nella sua amata Bologna.

Mentre gioivamo per il volo libero di Patrick Zaki, Giorgia Meloni capitombola sul rifiuto dello stesso Zaki di salire sul Volo di Stato, messo “generosamente” a disposizione dal governo italiano. Poi, per trovare una via d’uscita al grande imbarazzo istituzionale, Giorgia cerca di intestarsi il merito della liberazione di Zaki.  

Per comprendere la furbata (non riuscita) di Giorgia, per vederla scivolare a terra con un penoso capitombolo, bisogna concentrarsi sulla “riconoscenza”. Che è una parola un po’ ottocentesca, una parola che, come il suo sinonimo “gratitudine”, si usa ormai così poco che può succedere di dimenticare il suo significato, o addirittura di usarla attribuendole un significato inverso. E quello che è successo a Giorgia Meloni, quella che parla- interviene-promette tutto “a 360 gradi” (vedi un magnifico blob diventato virale).

Secondo il vocabolario della lingua italiana La riconoscenza è  il “Sentimento o manifestazione di devozione per un benefattore, di solito associato all’intenzione di ricambiare il beneficio: avere, sentire r. per (o verso) qualcuno; assolvere a un debito di r”. Ne deriva che:
1 ) la riconoscenza è un sentimento che può provare il beneficiato verso il beneficiante per un dono o un favore ricevuto. Non è un obbligo, ma solo una possibilità;
2 ) che non è previsto quindi che il beneficiante possa pretendere o anche semplicemente aspettarsi la riconoscenza del beneficiato. Diversamente il suo non sarebbe stato un dono o un favore gratuito;
3 ) ancora più impossibile “aspettarsi riconoscenza” per un dono e un favore che non si è mai fatto. Per intenderci: se Antonio regala 10.000 euro a Riccardo (ridotto sul lastrico), Antonio può aspettarsi la riconoscenza di Riccardo (anche se non è molto fine), ma è escluso che possa aspettarsi riconoscenza Alessandro che non ha mosso un dito per aiutare il povero Riccardo.

Quando Patrick Zaki rifiuta il Volo di Stato e l’incontro con Giorgia Meloni e ministri vari, dice senza dirlo quello che tutti sanno o dovrebbero sapere: che è tornato libero senza che il governo italiano possa vantare alcun merito.

Di conseguenza, la risposta di Giorgia Meloni assume un aspetto surreale, ridicolo, farisaico:
“Non mi aspetto riconoscenza”.  Ma per cosa? Ma quando mai?
“Era giusto liberarlo”. Come se a liberarlo fosse stata la pressione diplomatica italiana sul il presidente egiziano.

Naturalmente, l’abitudine alla menzogna, il vizio di raccontar balle agli italiani, non nasce con Giorgia e il suo governo di destra. Rimaniamo in Egitto. Sono passati 7 anni dal sequestro, le sevizie e l’omicidio di Giulio Regeni, In tutte le piazze italiane rimane appeso lo striscione giallo della grande campagna promossa da Amnesty International, proprio quella campagna che lo stesso Zaki aveva portato anche in Egitto e che gli era costata l’arresto.
Lo sappiamo, l’Egitto è un grande partner commerciale dell’Italia. C’è il petrolio da importare. Ci sono le nostre armi da vendere all’esercito egiziano. Ci sono le aziende italiane che fanno affari e lavorano in Egitto. Lo sappiamo, è sempre stato cosi, per tutti i governi: gli affari vengono prima dei diritti. Quindi non si può fare nessuna azione concreta, nessuna pressione commerciale, nessuno sgarbo diplomatico: la Verità per Giulio Regeni, come la liberazione di Patrick Zaki non si può pretendere. Al massimo si può sperare nella clemenza di un dittatore, e se sei abbastanza cinico, aspettarti un grazie

“Non mi aspetto riconoscenza. Era giusto liberarlo”
Dichiarazione di Giorgia Meloni dopo il rifiuto di Patrick Zaki di imbarcarsi nell’Aereo di Stato

La riconoscenza non esiste in natura, è dunque inutile pretenderla dagli uomini.
Cesare Lombroso

I riconoscenti − una farsa.
Elias Canetti

La Gabri Scaccianuvole

Il nome del locale è un omaggio alla Bandabardò, una delle band preferite di Gaia, ma vale anche come manifesto. Allo Scaccianuvole si sono tenute nel tempo riunioni, confidenze, presentazioni, cene che precedevano o seguivano eventi del Movimento Nonviolento come delle più diverse associazioni ferraresi, culturali e di volontariato. Essendo situato a poche decine di metri dalla stazione e nel quartiere dove più spesso il confronto tra culture diventa scontro, la sua vetrina accesa è un riferimento importante. Gabri e Gaia sono l’anima di questo posto, e anche altro.

Ho conosciuto Gabriella Ludergnani molti anni addietro, ero poco più che bambina e frequentavo la parrocchia del mio quartiere dove lei era un punto di riferimento, come educatrice e in tutte le attività. Era insegnante allora, di educazione fisica in un istituto superiore, un mestiere che ha svolto con fermezza e passione come tutte le cose. Intanto, alla Caritas, era tra i volontari nella cucina della mensa.

In parrocchia con la figlia, Gaia, qualche anno più giovane di me, mi ritrovavo a strimpellare canzoni, dagli Alleluia a Edoardo Bennato, e a organizzare giochi per i bambini, caccie al tesoro, scenette improvvisate. Gaia poi con il teatro ha continuato e ne ha conservato la presenza scenica, il sorriso, la discrezione, la voce squillante e gioiosa.

Ferrara è circondata dalla cinta muraria (“forse le più belle del mondo”, direbbe Piero Pinna) e lì ho ritrovato la Gabri qualche anno dopo, sempre in zona stazione, in un chiosco aperto nei mesi estivi. Lo gestiva insieme alla figlia. Nel resto dell’anno si concedevano qualche viaggio importante da cui tornavano con tisane e ricette insolite.

Erano diversi gli ingredienti della loro attività: fermezza e passione, anche qui, ma poi ricercatezza – degli ingredienti, delle proposte – e semplicità nell’offrire, nel rispettare le persone. Non hanno mai blandito nessuno, un pregio che altri gestori dovrebbero imparare. Offrivano le loro specialità con piacere e convinzione per il desiderio di far star bene le persone con il loro lavoro, ma non facevano giravolte per compiacere il cliente.

Gabriella Ludergnani, Gabri per tutti

Capitava che gruppetti di immigrati dal nord Africa o dall’Est Europa si avvicinassero al chiosco o stazionassero nelle panchine poco distanti. La Gabri era netta nell’accogliere tutti allo stesso modo esigendo però un uguale rispetto delle regole di convivenza. Erano tempi in cui alcuni gruppi politici facevano dell’immigrazione e della microcriminalità una bandiera. Lei ci teneva molto a che le due cose non venissero confuse. “Io dico a quei ragazzi: «Perché non venite nel tardo pomeriggio, quando ci sono gli anziani, così vi presento!? Questo è Tonino, questo è Luigino, e vedrete che se vi conoscono smettono di avere paura di voi». (È inteso che nel suo discorso battezzava Tonino e Luigino i cittadini stranieri, non gli anziani autoctoni; un passaggio di per sé significativo del suo modo di andare alla sostanza che ci rende eguali).

Allo stesso tempo la Gabri, classe 1942 cioè non più giovanissima, rimetteva in riga tutti e non aveva paura di nessuno. “Vengono sulle mura a bere, a ubriacarsi, e poi buttano le bottiglie. L’altro giorno ho urlato: «Eh no, non si fa mica così! Adesso venite giù, le prendete e le buttate nel cestino!» Han cominciato a protestare, ma io: «Venite giù ho detto. Non potete lasciare le mura in queste condizioni. Poi vi lamentate se gli italiani dicono che non avete rispetto. Scendete a pulire!»”.

Sembra una sciocchezza, non lo è. Conosco poche donne oltre la sessantina che da sole parlerebbero a quel modo a un gruppo di giovanotti ubriachi che si esprimono in una lingua sconosciuta. La Gabri aveva questa scorza apparentemente ruvida, maturata in una vita di cui conosco poco ma credo non facile, unita a una risata franca e diretta, un’ironia sferzante, un’apertura sincera.

Quando le Belle Arti hanno deciso che i chioschi sulle mura cittadine, e quindi anche il suo, deturpavano il paesaggio (argomento discutibile già allora, e ancora di più per come la città si è trasformata in seguito) in tanti siamo rimasti increduli. Lo commentavamo insieme a Daniele Lugli apprezzando l’attività, e mentre scrivo sono certa che se fosse qui questo articolo lo scriverebbe lui, in un modo bellissimo e ironico che non so nemmeno immaginare. Attività di quel tipo, più che uno sfregio a un monumento erano una luce accesa in un quartiere di cui si parlava solo per le risse, lo spaccio, il degrado e la prostituzione. Si sa che praticare i luoghi moltiplicando le occasioni di incontro e di conoscenza tra le persone è un modo per renderli più sicuri. Per dare un contributo in questa direzione, nel nostro piccolo abbiamo organizzato al chiosco qualche presentazione di Azione nonviolenta

Daniele Lugli a un dibattito sulla nonviolenza

Sfortunatamente la decisione della Sovrintendenza è stata irrevocabile ma la Gabri e Gaia non si sono perse d’animo. Hanno rilevato un ristorante pizzeria a pochi metri dal chiosco e hanno portato avanti entrambi gli esercizi finché è stato possibile per poi concentrarsi decisamente sullo Scaccianuvole, dove la filosofia è la stessa, con una gamma più ampia di possibilità consentite dall’essere un luogo che funziona anche sotto le intemperie, dove si trascorre più tempo e si può gustare di tutto, dalla pizza all’antipasto al dessert. Tra i segni di inclusione apprezzo sempre la presenza di dolci senza lattosio (per noi intolleranti è raro), o senza glutine, o per diabetici, e una politica dei prezzi che va incontro a tasche diverse. E poi c’è la voglia di giocare e di variare, di sperimentarsi, con le serate a tema e gli abbinamenti tra la cucina e altri modi di stare insieme.

Quando si entra allo Scaccianuvole si dà uno sguardo ai tavoli. Generalmente c’è qualcuno da salutare. Molto associazionismo per i diritti umani, la salvaguardia dell’ambiente, la pace, la cultura e l’arte… ruota attorno a questo locale, dove si spazia dalla grigliata mista a quello che io chiamo “vegano gaudente” (in opposizione al vegano penitenziale, innegabile), e dove le incursioni nelle cucine di altre culture si coniugano bene con le tradizioni locali.

Non per niente la Gabri – si legge dietro alla foto che Gaia ha preparato per distribuirla agli amici, all’ultimo saluto del 24 luglio scorso nella Chiesa di San Cristoforo – è una “mamma amatissima, cintura nera di cappellacci e di zuppa inglese”.

Parole a capo
Poetare in verso: diverse sensibilità tra vissuto e realtà quotidiana

Quando uno scende nella poesia
non trova più l’uscita…

(Vladimir Holan, traduzione di Serena Vitale)

 

 

Coniugata con la vita

La mia pelle è un cielo

di cui prendere le misure

Sempre chiaro il suo colore

punteggiato di stelle scure

(Miriam Bruni)

 

Forse hai smarrito il mio cuore

Forse hai smarrito il mio cuore,

le mie palpebre,

i gomiti induriti a scriverti,

il corpo piegato come un arco

quando ti aspetto e

 

con la colonna vertebrale a pezzi

quando smetto di aspettarti

forse hai capito che la tenerezza

è una esagerazione,

forse è stato un sollievo

non dover più aprire le braccia,

forse soltanto hai pensato

quanto la mia chioma bianca

può essere ancora pericolosa.

(inedita)

(Natalia Bondarenko)

 

52 

Vita che non paga. silenziosa vita. vita rarefatta. savia e sottotono. silenziosa vita. vita mirata.

sfrondata. lasciata all’orizzonte. disadorna vita. vita sfrenata dai capelli sulla china. vita lanciata nella

corsa. folle. a cinquantadue metri all’ora. una striscia d’olio sull’asfalto. e un sospetto di veleno. lui che

sbanda apposta l’evasione.

(Loredana Semantica)

 

30

Arida la lingua senza sole. nonostante sembrasse un pozzo senza fondo. nonostante avesse in corpo.

slanci d’azzurro e verdi foglie. anche a pescare con la schiumarola. niente affiora. nessun suono.

nessuna parola. questa l’ora trentesima. risacca dell’insignificanza. pena nera. nera pietà del mondo.

(Loredana Semantica)

Le due precedenti poesie sono tratte da “L’informe amniotico – Appunti numerati e qualche poesia” , Limina mentis Editore, 2015)

 

Le poesie taciute

Le poesie taciute

sono parole lasciate sepolte nel sangue

parole che rimbalzano

come sassi piatti sull’acqua

pulsano come sassifraga

nella roccia

e si moltiplicano

in nuovi prodigi

si innalzano

come sciame unico di farfalle

come il suono dell’erba

nel suo germinare

dalla terra che profuma di rosso

(inedita)

(Rita Bonetti)

 

 

Notturno d’estate

nella burrasca di notte

l’acqua si confonde,

si nasconde nel mare

prima di uscire sulla battigia

si era chiesto seriamente

se ne valeva la pena,

se la sentenza era adeguata

ai possibili incontri,

per dare slancio a questa vita

grigia, di cronaca comune

il frutto della riflessione

aveva il profumo

dell’universo naturale.

Il caldo dell’estate

si mescolava

al freddo slargo di mare

pieno di stelle affacciate.

(inedita)

Pier Luigi Guerrini

 

Ho stretto amicizia con una pianta

Ho stretto amicizia con una pianta

dell’androne, accanto al portaombrelli.

Le racconto dei girasoli — di come

è grande la mia gioia quando saltano

agli occhi da un cavalcavia: chissà

se può immaginare i loro dolori.

Vedo stralci di Milano dalle vetrate

sbeccate del portone, uomini e donne

con le buste della spesa, bambine

svelte sui gradini. Qualcuno c’è

che mi saluta senza più sorpresa.

Da qualche mese vivo arresa —

accampata finché non torni

in fondo alla rampa delle tue scale.

(inedita)

(Lara Pagani)


LO  SCAFFALE POETICO
Alcune segnalazioni editoriali interne al mondo della poesia.

  • Fare poesia (a cura di Paola Springhetti e Gian Carlo Olcuire), Editrice A.V.E., 1994
  • Roberto Dall’Olio, I ragazzi dei Giardini, Pendragon, 2022
  • Roberta LippariniLavanda per l’orco, Secop edizioni, 2023

la rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Emilia Romagna: da illusorio «modello» a «hotspot della crisi climatica».
Quale futuro immaginare?

di Wu Ming
Pubblicato su

Pochi giorni fa si è svolto a Cesena il convegno di Energia Popolare, la «non-corrente» (sic) bonacciniana del Partito Democratico. Tra gli ospiti Romano Prodi, che ha parlato della necessità, da parte del PD, di un «radicalismo dolce». Numerosi gli articoli e i servizi tv – per non dire delle photo opportunities su Facebook e Instagram – dedicati a quest’ennesimo pseudoevento politicante, ovviamente svoltosi in una sala con l’aria condizionata.

Mentre i notabili di Bonaccini – tutti con curriculum ominosi: alfieri della cementificazione, difensori di un’economia ecocida, favorevoli ai rigassificatori e quant’altro – se la cantavano e se l’applaudivano, nel mondo si batteva ogni record di temperatura e aumentava la frequenza di fenomeni estremi e disastri. L’Europa cuoceva a fuoco rapido. Le foreste canadesi bruciavano da mesi. Il fumo faceva tossire persone a migliaia di chilometri di distanza.

In capo a poche ore, sulla stessa Romagna che ospitava il convegno si sarebbe abbattuta, di nuovo, la furia degli elementi. Ma l’aria condizionata dà sollievo, aiuta a non pensare, a continuare col tran tran anche se fuori, letteralmente, si crepa di caldo e le città sono sempre più roventi… anche a causa dei condizionatori.

La mente condizionata della classe dominante

Quello che chiamano «mercato» è un circolo vizioso di stupidità e brevimiranza. Il mercato ha una mente bacata: se gli chiedi la soluzione al problema dell’afa, ti venderà macchine che aggravano il fenomeno, pompando aria calda all’esterno e aumentando consumi di elettricità ed emissioni climalteranti.

La maggior parte di noi ha un’esperienza dell’aria condizionata intermittente, passa da ambienti con ad altri senza, e da spazi chiusi a spazi aperti. Della canicola, quantomeno, se ne accorge. Invece la classe dirigente, a ogni livello, vive in una bolla pressoché interamente condizionata, passa da un ambiente di comfort artificiale all’altro, e crede di poter continuare a farlo. È uno dei fattori che rendono la gravità della situazione non ponderabile, impensabile. Lo ha detto bene un’attivista climatica filippina, Natasha Tanjutco, intervistata dal New Yorker: «No one can make a proper decision from an air-conditioned room».

Bisognerebbe sabotare gli impianti di condizionamento delle sedi istituzionali e dei quartieri generali delle grandi aziende, per vedere l’effetto che fa.

«La Romagna batte l’alluvione»

Il 20 luglio, accanto agli articoli al vuoto pneumatico sul convegno di Energia Popolare, il supplemento bolognese del «Corriere della sera» sparava un titolo che attirava la nostra attenzione:

Crescono fatturati e occupati, la Romagna batte l’alluvione: «Ora intervenire sui mutui»

Si parlava di un rapporto di Confindustria Emilia-Romagna. Siamo abituati da tempo all’angustia mentale e all’indolenza intellettuale dei padroni, eppure il titolo ci è parso oltraggioso – viste tutte le persone ancora in ginocchio, rovinate, traumatizzate – e soprattutto idiota, proprio nel senso originario di incompetente, ignorante. Tra noi abbiamo commentato: «La Romagna batte l’alluvione… fino alla prossima pioggia».

Di lì a poco, neanche a farlo apposta, sulla Romagna e sull’Emilia orientale, come in altre parti di val Padana, sono cadute grandinate inaudite, palle di ghiaccio del diametro di 10-15 centimetri hanno devastato le coltivazioni risparmiate dal fango del maggio scorso. È una conseguenza del surriscaldamento dell’atmosfera: l’aria calda rispinge più volte verso l’alto i chicchi di grandine, che continuano a ingrossarsi, e quando finalmente cadono sono enormi.

Oltre alla grandine, tempeste «downburst» – impropriamente chiamate  «trombe d’aria» – hanno colpito diversi centri, tra i quali Conselice, cittadina-simbolo dell’alluvione, scoperchiando tetti, distruggendo automobili, abbattendo decine di alberi e persino tralicci.

«Le prime tre file di ombrelloni»

Nel mentre, poco più a Sud, si abbatteva un’onda definita «anomala». Così la raccontava il 22/07 l’edizione pesarese del Resto del Carlino:

«Mentre la gente prendeva il sole e, a pochi chilometri da lì, in Emilia Romagna, una tempesta di grandine e vento aveva travolto gran parte della regione, si è formato un improvviso cumulo di nubi sempre più scuro, come se stesse per abbattersi sulla spiaggia una tromba d’aria. Raffiche di vento sempre più vigorose hanno cominciato a battere la spiaggia. Poi è stata questione di qualche secondo: un’ondata, o meglio un’improvvisa marea, ha raggiunto le prime tre file degli ombrelloni […] L’evento si è manifestato con intensità diversa un po’ su tutta la riviera, da levante a ponente fino a Senigallia, Portonovo e Ancona.»

Episodio meno anomalo di quanto sembri: rientra nel sempre più frequente susseguirsi di «mareggiate» che in realtà semplici mareggiate non sono. Finora accadeva più spesso d’inverno, quando al mare non c’era nessuno. Stavolta – ma non è la prima – ne hanno fatto esperienza i turisti. Non sono semplici mareggiate bensì manifestazioni di eustatismo, cioè di innalzamento del livello del mare dovuto al suo riscaldamento e al disgelo delle calotte polari.

Lo facciamo notare da anni: svariati studi dicono che entro il 2100 l’Adriatico potrebbe alzarsi di circa un metro e sommergere l’attuale entroterra nord-adriatico. I territori in cui entrerebbe più a fondo sono i polesini veneti e ferraresi, ma è a rischio un’area che va dal nord delle Marche a Trieste.

2100

L’area nord-adriatica nel 2100 in caso di innalzamento dell’Adriatico di 1 mt. Immagine tratta dall’ormai “classica” proiezione di Alex Tringle, realizzata a partire dal 2007. C’è però un problema semiotico: l’acqua di cui stiamo parlando non sarà per niente blu. Non sarà nemmeno acqua, vedi sotto.

Il fenomeno è già in corso. Una sua avanguardia è il «cuneo salino», la risalita dell’acqua di mare lungo corsi d’acqua indeboliti da lunghi periodi di siccità. Durante l’estate, l’acqua salata risale il corso del Po di decine di chilometri. Quell’acqua non solo è inutilizzabile per irrigare i campi, ma permea il terreno, mettendo in pericolo la vegetazione e nel tempo contaminando le falde d’acqua potabile.

Non è che l’inizio del problema, perché quella che arriverebbe nei territori non sarebbe semplice acqua, ma una melma altamente infetta e tossica.

Dopo decenni di speculazioni spinte dal turismo di massa, la costa adriatica è pesantemente urbanizzata, cementificata. Passando in quelle aree, l’acqua salata si comporterebbe come quella dei fiumi emiliano-romagnoli esondati nel maggio scorso. Le alluvioni hanno fatto scoppiare le fogne, travolto cassonetti e discariche, trascinato via quantità inimmaginabili di liquami e spazzatura, strappato a case, negozi, magazzini e fabbriche ogni sorta di sostanze chimiche e carburanti. «Consumo di suolo» vuol dire anche questo: sempre più schifezze sono dove non dovrebbero essere.

L’acqua del mare farebbe lo stesso, ma su una scala ben più vasta.

Nelle proiezioni da qui al 2100, la linea di costa recede in modo drastico, cedendo terreno a un Adriatico – questo nelle mappe non si vede – via via più inquinato. Un vasto entroterra reso inabitabile, profughi climatici, scomparsa di terreni agricoli, perdita di falde d’acqua potabile, inquinamento dell’aria, miasmi annusabili a decine e decine di chilometri di distanza… Anche i territori non raggiunti direttamente dalla melma subirebbero conseguenze gravissime.

Accadrà, se non si fa qualcosa prima, qualcosa che non sia un mero rattoppo, un tentativo di prolungare il presente e ritardare l’inevitabile.

Fai il bagno in mare e ti viene la candida

Già oggi, dopo l’arrivo dei fanghi delle alluvioni, in riviera l’Adriatico è una broda infetta. Un’amica farmacista ci racconta che decine di persone le chiedono prodotti contro infezioni genitali e intestinali, tutte insorte dopo il weekend in spiaggia. Altre testimonianze parlano di eczemi ed eruzioni cutanee di vario genere. «Correlazione non è causalità», ma è lecito pensare che la decisione di dichiarare l’Adriatico balneabile sia stata più politica che altro.

Qualcuno ci ha detto che il mare fa schifo al tocco. «Raramente l’ho trovato così sporco», riferisce un amico. Forse dovremmo rovesciare l’assunto: difficilmente lo vedremo ancora così pulito.

La testa nella sabbia

Da qualunque parte lo si guardi, il turismo balneare in riviera non ha futuro, è condannato. Già oggi è tenuto in vita con un meccanismo che pare escogitato da Zeus per punire Sisifo: ogni anno, in vista della stagione, si importano colossali quantità di sabbia – da altri luoghi devastati ad hoc – per ricreare le spiagge consumate.

Su quest’aspetto e altri che riguardano l’erosione delle nostre coste consigliamo l’agile ma denso libretto di Alex Giuzio La linea fragile. Uno sguardo ecologista alle coste italiane (Edizioni dell’Asino, Bologna, 2022).

Giuzio descrive molto bene il convergere di vari processi: la cementificazione e le attività estrattive targate ENI causano subsidenza – abbassamento del suolo – proprio mentre il mare s’innalza. Descrive anche una classe di amministratori che

«davanti all’inevitabilità del problema, anziché ragionare di piani di arretramento gestito, interruzione delle cause antropiche dell’erosione e conversione e decementificazione delle attività turistico-balneari, si sono sempre concentrati a conservare una situazione a misura di turista, limitandosi a ributtare ogni inverno la sabbia perduta per far trovare la spiaggia pronta per la stagione degli ombrelloni.»

Agosto 2018. Una spiaggia dei lidi ravennati dopo una «mareggiata».

Amministratori non solo miopi ma servi dei servi di ENI:

«Nel ravennate, per esempio, le piattaforme “Angela” e “Angelina” di ENI – situate ad appena due chilometri dalla costa – hanno provocato l’abbassamento del suolo di 45 centimetri dal 1984 al 2011, con le spiagge di Lido di Dante, Lido Adriano e Punta Marina che sono letteralmente sprofondate e che sono oggetto di continui ripascimenti finanziati in parte da fondi pubblici e in parte dalla stessa ENI: la potente multinazionale dal 1993 firma infatti un accordo triennale col Comune di Ravenna che prevede il versamento di cifre importanti (nel triennio 2018-2020, l’ultimo disponibile, si trattava di tre milioni di euro all’anno) a titolo di compensazione dell’impatto ambientale della propria attività estrattiva al largo. Tali fondi sono usati soprattutto per costruire e manutenere i pennelli anti-erosione e per ripristinare con i ripascimenti la sabbia perduta […] oltre a questi tre milioni di euro annui, la presenza di ENI nel ravennate significa migliaia di posti di lavoro e altri milioni di euro in sponsorizzazioni per qualsiasi evento culturale e sportivo – dalle stagioni teatrali alle partite di volley e pallacanestro, dai concerti di Riccardo Muti al “mese dell’albero in festa” durante il quale i bambini di tutte le scuole elementari e dell’infanzia piantano nuovi alberi – cittadini e amministratori locali non sono propensi a contestare la potente multinazionale.»

En passant: stante questa subalternità ai combustibili fossili, a chi li estrae e a chi ne incentiva l’uso, non c’era da attendersi alcun dissenso sul rigassificatore a Ravenna. Certo non a livello locale, e nemmeno a livello regionale: Bonaccini il rigassificatore lo volle, sempre volle, fortissimamente volle, tanto da “blindarlo” contro le critiche – comunque poche – circolate nella sua coalizione.

Non rattoppi ma ripristino di ecosistemi

Non si può continuare così. Né si può pensare di ergere dighe o scogliere artificiali pur di tenere in vita il turismo e, in generale, lo status quo.

Giuzio accenna a «piani di arretramento gestito, interruzione delle cause antropiche dell’erosione e conversione e decementificazione delle attività turistico-balneari».

Per convertire l’attuale economia rivierasca è indispensabile partire da una constatazione: quel modello è comunque destinato al tracollo.

Permetteteci, da scrittori, di mediare al rialzo, cioè di prefigurare scenari che i politici non osano o non sono in grado di immaginare. Tanto saranno loro a mediare al ribasso, in nome di una realpolitik sempre più staccata dalla realtà.

La costa adriatica va decementificata e depavimentata il più possibile, per ripristinare gli ecosistemi precedenti all’urbanizzazione – dune e foresta litoranea – e, in alcuni casi, alle bonifiche.

Attuate un po’ ovunque negli immediati entroterra di Friuli, Veneto ed Emilia-Romagna, dalla fine dell’Ottocento a oggi le bonifiche hanno privato quei territori di preziose zone umide, ecosistemi ideali a catturare e immagazzinare carbonio. All’epoca dei prosciugamenti non si poteva sapere, e l’ordine di problemi era un altro, ma oggi si sa, e avrebbe senso invertire la rotta. Del resto, molte bonifiche furono controverse, contestate già all’epoca e oggi ritenute fallimentari. Sul caso ferrarese, si può vedere il bel documentario Dall’acqua ai campi, dai campi al silenzio (2016).

I posti di lavoro – sovente lavoro precario, supersfruttato, sottopagato – nel turismo di massa sarebbero sostituiti da nuovi e meno frustranti impieghi, quelli generati da una grande riprogettazione ecologica del territorio e da un grande recupero, seguito da una cura perenne, degli ecosistemi.

Lido degli Scacchi, riviera ferrarese. Dune che resistono. Dove ci sono ancora, vanno liberate dal cemento intorno e dalla pressione antropica. Dove c’erano, devono tornare.

Tutto questo costituirebbe una barriera reale e sensata all’erosione costiera e alla catastrofe ambientale nell’entroterra. Non solo: potrebbe attrarre una nuova curiosità ecologica ed estetica, su cui fondare un “turismo” – urge coniare un nuovo termine – lontano da quello omologato e rapace di oggi.

È un approccio che si può traslare e adattare a tutti i territori minacciati. Alcuni dei quali possono diventare strategici laboratori. È il caso del basso ferrarese, del quale ci siamo più volte occupati, e su cui torneremo.

È chiaro che simili suggestioni vanno contro l’interesse immediato di troppe lobby e potentati economici, contro abitudini diffuse e consolidate, contro la spinta inerziale dell’esistente. Per questo non verranno mai raccolte dall’attuale classe dirigente – locale, regionale, nazionale o europea che sia. Classe dirigente di cui sarebbe d’uopo, e urgente, sbarazzarsi.

La precondizione per sbarazzarsene è saper immaginare un futuro diverso.

I punti di forza erano in realtà punti deboli

La val padana – cuore pompante del capitalismo italiano, nonché area tra le più inquinate, cementificate e surriscaldate d’Europa – è il territorio che subisce nel modo più spettacolare gli sconquassi del caos climatico.

In val padana, l’Emilia-Romagna è la regione più flagellata da eventi «estremi». E non è un caso.

Come abbiamo scritto in articoli precedenti, le attività e produzioni su cui si basano il mitico «benessere» e il mitico «buongoverno» emiliano e romagnolo sono quanto di più tossico e climalterante si possa immaginare. I presunti punti di forza dell’economia di queste parti  – un mix di plastica, motori, cemento e tondino, poli logistici, agroindustria, allevamenti intensivi e turismo di massa – si stanno rivelando punti deboli. Sembravano punti di forza, e si menava vanto del loro successo, perché si tenevano ambiente e clima fuori dal quadro. Ora ambiente e clima sono rientrati con violenza, e l’economia emiliano-romagnola si rivela la peggiore possibile.

Facciamo un solo esempio: la plastica.

La plastica ci sta avvelenando, come ha titolato di recente il New Yorker. Lo fa perché si decompone in micro- e nanoplastiche (MNP) che si disperdono nell’ambiente, raggiungendo gli angoli più remoti del pianeta, infiltrando gli organismi a monte e a valle della catena alimentare. Il mare è pieno di MNP. Tutto è pieno di MNP. Le mangiamo e le beviamo. S’infilano nel nostro cervello e aumentano il rischio di Alzheimer e altre malattie degenerative; sono nei nostri fluidi corporei e mettono a forte rischio la fertilità maschile (andrebbe fatto notare ai fascisti, che si lamentano della «denatalità» e al tempo stesso difendono l’industria della plastica!); sono nella placenta umana, ancora non si sa con quali conseguenze.

Riciclare la plastica non solo è una falsa soluzione, ma aggrava il problema, perché il processo produce ulteriori microplastiche e secondo sempre più ricerche la plastica risultante è tossica e può contaminare gli alimenti con cui entra a contatto.

Come? La «bioplastica»? Ma figurarsi… La bioplastica, o «plastica compostabile», è plastica e basta. Il suo uso è al centro di una grande truffa ideologica. Come ha ben titolato The Atlantic«la plastica compostabile è spazzatura».

L’unica via praticabile è vietare la produzione e l’uso di plastica monouso, superare la cultura dell’usa-e-getta. Poi andranno trovati modi di decontaminare, rimuovere la maggior quantità possibile di plastica dai corsi d’acqua, dai mari, dall’ambiente. Ma prima va fermata la produzione.

Infografica – con refuso nel termine-chiave – tratta dal sito artea.it.

A fronte di tutto questo, è accettabile, è all’altezza della situazione e delle sfide del nostro tempo il fatto che in Emilia-Romagna la «Packaging Valley» sia considerata un’eccellenza, un fiore all’occhiello, una realtà da tutelare così com’è, anziché un grosso problema?

Parliamo delle circa duecento aziende situate nel cuore dell’Emilia che fabbricano, citiamo da un entusiasta reportage del Sole 24 Ore,

«apparecchi che dosano e impacchettano sigarette, medicine, saponi, cosmetici, bibite, alimenti, mobili… Tutto ciò che ogni giorno passa tra le nostre mani con una confezione rigida o flessibile attorno».

Produzione incentrata sulla plastica, finalizzata alla diffusione di plastica, fondata sulla cultura dell’usa-e-getta.

Sono le stesse aziende che dal 2019 si sono opposte a una modesta, inadeguata tassa sull’uso di plastica monouso per gli imballaggi, neanche fosse una misura rivoluzionaria, facendone rinviare l’introduzione e infine riuscendo a farla saltare.

Bonaccini, com’è ovvio, stava dalla loro parte.

La destra, la «sinistra» e l’ipocrisia climatica

Il caso di studio dell’Emilia-Romagna dimostra… plasticamente che il problema non sta solo nella destra «negazionista» e nel circolo vizioso da cui essa trae beneficio, ben descritto da George Monbiot sul Guardian:

George Monbiot

«Mentre l’impatto dei nostri consumi si fa sentire a migliaia di chilometri di distanza e le persone arrivano ai nostri confini cercando disperatamente rifugio da una crisi che non hanno avuto quasi nessun ruolo nel causare – crisi che può includere vere inondazioni e vere siccità – [le destre] annunciano, senza un briciolo di ironia, che siamo “inondati” o “prosciugati” dai profughi, e milioni di persone si uniscono al loro appello a sigillare i nostri confini […] Quando i governi si spostano a destra, bloccano le politiche volte a limitare il collasso climatico […] Se volete sapere come si presenta un possibile futuro – un futuro in cui si permette a questo ciclo di accelerare – pensate al trattamento dei rifugiati attuali, amplificato di diversi ordini di grandezza. Già oggi, alle frontiere europee, i profughi sono respinti in mare. Vengono imprigionati, aggrediti e usati come capri espiatori dall’estrema destra, che allarga il proprio appeal incolpandoli di mali in realtà causati dall’austerità, dalla disuguaglianza e dal crescente potere del denaro in politica […] Ovunque, possiamo aspettarci che il successo [della destra] sia seguito da una riduzione delle politiche climatiche, con il risultato che un numero sempre maggiore di persone non avrà altra scelta se non quella di cercare rifugio nelle zone sempre più ristrette in cui la nicchia climatica vivibile rimane aperta: spesso proprio le nazioni le cui politiche li hanno cacciati dalle loro case.»

Vero, ma parziale.

Con tutto lo schifo che fa l’estrema destra, e con tutti i pericoli che d’ora in poi ci farà correre, la maggiore responsabilità dell’attuale situazione ce l’hanno il centro e la «sinistra» neoliberali. Sono stati loro a governare la globalizzazione capitalistica climalterante, a farci sprecare tempo prezioso con finte politiche climatiche come l’«Emission Trading», e sono loro a fare greenwashing mentre tutelano gli interessi di multinazionali ecocide e portano avanti i modelli di sempre.

Quanto agli orrori dei respingimenti, dei porti chiusi e delle morti in mare, delle detenzioni e violenze in Libia, l’ideologo di tutto questo è stato Marco Minniti, dirigente del PD, dal dicembre 2016 al giugno 2018 ministro degli interni di un governo italiano di «centrosinistra». È un dato di fatto noto a livello internazionale, tanto che, nel marzo 2019, Minniti fu accolto alla London School of Economics da contestatori e contestatrici con le mani imbrattate di sangue finto.

Londra, 12 marzo 2019. Il «comitato d’accoglienza» a Marco Minniti.

Tornando alle questioni climatiche, mentre la destra dichiarata se ne fotte in modo esplicito, la «sinistra» è più ipocrita: finge di averle a cuore, ma se ne fotte almeno altrettanto.

Se c’è un luogo dove tale atteggiamento è giunto al suo picco, quel luogo è l’Emilia-Romagna. E se c’è una capitale dell’ipocrisia climatica, quella è Bologna.

Qui da noi si può definire «opera simbolo della transizione ecologica» un’autostrada a diciotto corsie che passerebbe dentro la città, aumentando il traffico urbano – sono stime dei proponenti stessi – di 25.000 veicoli al giorno e facendo da volano a decine di altre opere asfaltizie – allargamenti, raccordi, bretelle, svincoli, parcheggi – a Bologna e nel suo circondario.

Qui da noi il Comune disegna erba e fiori intorno ai cassonetti perché «nessuno abbandonerebbe un sacchetto di rifiuti in mezzo a un prato», mentre si distrugge il verde vero, disboscando e buttando giù alberi ovunque.

Non può durare.

Il vento delle tempeste rimuoverà il velo.

Le lotte dovranno fare il resto.

In copertina: 22 luglio 2023, traliccio abbattuto dalla tempesta «downburst» nel Ravennate – Foto tratta da meteoweb.eu.

I 5 Pilastri (traballanti) del Memorandum Tunisia – Unione Europea:
la nuova filosofia ‘olistica’ anti migranti di Giorgia Meloni

Domenica 16 luglio è stato siglato a Tunisi l’ormai famoso “Memorandum Tunisia – Unione Europea”. Gran commis Giorgia Meloni, ritratta in tutte le pose sorridenti e stringimano possibili. Il nome “memorandum” evoca il patto siglato con le milizie libiche e fior fiore di criminali vari di quel disgraziato paese, dal governo italiano nel 2017, per volere di Minniti. Sarebbe bastato questo per suggerire a un ghost writer avveduto, di usare un altro termine.

Comunque sia, lasciando da parte la propaganda e le foto opportunity, la prima cosa che salta agli occhi scorrendo il testo, al capitolo “Migrazione e mobilità”, è quel rifiuto da parte della Tunisia, scritto nero su bianco, di diventare futuro luogo di centri di detenzione per migranti respinti e deportati dall’Europa. Dei “cinque pilastri”, come li hanno definiti, che compongono il memorandum, è inutile che Giorgia Meloni, Ursula Von Der Layen e l’olandese Rutte, tentino di nascondere il fatto che proprio questo era quello portante.
Gli accordi sulla “stabilità macro – economica”, sulla ’”economia e il commercio”, sulla “transizione energetica verde” e sul ”unire le persone”, altro non fanno che da contorno al piatto forte, quello di cui italia ed europa hanno “fame”: come bloccare le persone migranti prima che arrivino sulle coste continentali, e come far diventare la Tunisia, un paese terzo da poter utilizzare come il Regno Unito vorrebbe utilizzare il Rwanda. Un paese in grado di detenere il numero sempre più alto di respinti che si annuncia con la ulteriore restrizione del diritto di asilo, contenuto del nuovo “Patto su Migrazione e Asilo” già sottoscritto dai ministri degli interni dell’Unione e in via di approvazione definitiva a Bruxelles.
L’approccio “non predatorio”, la formula “radicale” usata da Meloni per tentare di occultare l’impostazione “leggermente” neocoloniale che trasudano viaggi e tramestii nei paesi mediterranei dell’Africa, nel Memorandum è diventato “approccio olistico” sulla migrazione. Un’abbondante retorica illustra i vantaggi per lo sviluppo dei paesi, rappresentati da un rapporto corretto con il fenomeno migratorio, nello spirito migliore dei padri costituenti e bla bla bla.
Come quando si tira di fioretto, i ghirigori attorno al corpo del nemico, quasi a definirne dolcemente i contorni, preparano l’affondo, dritto al cuore. E infatti, dopo questi olistici bla bla bla, uno sprazzo di verità si affaccia tra le righe: il patto serve a “stroncare la migrazione irregolare”.
Per uno che voglia vedere la realtà, la stessa che ha costretto obtorto collo la “campionessa dei blocchi navali” e della “difesa dei confini a ogni costo”, a fare i conti con mille sbarchi al giorno e 75mila arrivi da inizio anno, la “migrazione illegale” è inversamente proporzionale ai canali di accesso e agli strumenti di protezione ed asilo che noi offriamo.

Più si chiude la possibilità per donne, uomini e bambini, per famiglie divenute erranti per costrizione, di avere il modo di migrare dove scelgono di voler provare a vivere, e più aumenterà la “migrazione illegale”.

Migrare, un diritto umano riconosciuto nella Dichiarazione Universale, non può essere “illegale”. E soprattutto, le persone che migrano non possono essere illegali. Nessun essere umano è illegale.

E dunque tutto questo Memorandum, la sua filosofia di fondo, rivela il vero scoglio culturale sul quale alla fine rovinano, sbattendo addosso alla realtà, tutti i condottieri a parole che il Mediterraneo ha conosciuto in questi ultimi anni. Le persone arrivano, provano, insistono, usano ogni mezzo possibile per tentare di fuggire da situazioni assurde e insostenibili, che non hanno scelto nemmeno in minima parte.
Il Memorandum, così olistico, partorito una domenica di luglio a Tunisi, va letto bene: quello “stroncare” diventa fare la guerra alle persone che migrano. Il nemico, sui quali contorni il fioretto indugiava prima di puntare al cuore, alla fine sono le donne, gli uomini e i bambini.
E certo, il tutto va letto in maniera assolutamente olistica: la transizione energetica “verde” di cui si blatera, andrebbe messa insieme al tema delle concessioni a favore dei colossi europei del “nero” petrolio e del gas, che pompano dal sottosuolo miliardi di extraprofitti in cambio di pochi spiccioli per chi li ci abita.
O la “valorizzazione della società civile”, capitolo incredibile e davvero da leggere, dovrebbe essere raffrontata allo scioglimento in Tunisia di ogni cosa democraticamente eletta, all’arresto degli oppositori politici e dei giornalisti scomodi, al potere concentrato su un solo uomo, grazie a un referendum farsa celebrato senza popolo.
Kaïs Saïed, altissimo presidente dittatore, non vuole solo milioni di euro o dollari per evitare che una guerra civile di gente affamata lo spazzi via. Bisogna nutrire anche la sua vanità, il suo ego, come quello dei molti capi di stato e di governo africani convocati a Roma per il loro momento di notorietà.
Saïed è un’autocrate che per prepararsi alla firma del Memorandum, ha fatto catturare casa per casa 1200 migranti che abitavano in Tunisia, e li ha fatti deportare in due diversi pezzi di deserto, uno al confine con la Libia e uno al confine con l’Algeria. Sono morti a decine, bambini, donne incinte, di sete, di caldo del giorno e di freddo della notte.
Sorridevate per quello nelle foto con lui, cari rappresentanti della civiltà cristiana e democratica europea? Certo, perché Saïed ha detto, nonostante foto e video che hanno fatto il giro del mondo, che si tratta di “fake news” delle Ong. Sempre lui, nel discorso di febbraio con il quale ha dato il via alla campagna di odio razziale contro i “neri”, parlava di un piano per la sostituzione etnica in Tunisia. Viene il dubbio che questo stretto rapporto tra Italia e Tunisia, preveda la condivisione tra i due governi anche dei responsabili della comunicazione.
Ma comunque, tutto si muove nel Mediterraneo. Le navi del soccorso civile ci sono e aumentano, nonostante il tentativo di criminalizzazione e di sabotaggio con i “porti lontani”.
La Geo Barents ha effettuato 11 operazioni di soccorso in sequenza, coordinata dalla Guardia Costiera italiana. La Libia, per far vedere che è cambiata, si è intestata il salvataggio alla frontiera con la Tunisia, nel deserto, di parte dei deportati abbandonati da Saïed. Speriamo che ora non li “accolgano” in un lager. Il Parlamento Europeo ha votato per acclamazione una mozione in cui chiede una missione di soccorso in mare europea. Salvini parla di tasse, perché non sa come spiegare agli elettori cornuti di Pontida, che il “suo” governo ha fatto il decreto flussi per migranti in ingresso per lavoro, più grande da dieci anni, per mezzo milione di migranti.  La rozza e brutale “dottrina Minniti”, a causa della quale tanti e tante sono stati uccisi e violentati nei lager in questi anni, o sono morti in mare, sembra lasciare il passo ad una più raffinata strategia “olistica” di parternariato come si deve.
E nel frattempo, perché tutto si muove, non solo i giochi elettorali e geopolitici fatti sulla pelle dei più disperati, le reti dei rifugiati stanno organizzando un contro vertice a Roma. Da una parte i capi di Stato africani, dall’altra gli africani. C’è un “underdog” con cui fare i conti sempre, cara Giorgia.

(pubblicato sulla pagina Fb dell’autore)

In copertina: Tunisi 19.07/23: la stretta di mano tra il Presidente del Consiglio italiano  Giorgia Meloni e il Presidente Dittatore tunisino Kaïs Saïed dopo la firma del Memorandum (foto da Avvenire)

Parole e figure /
Il giardino incantato: una statua e la sua voce d’incanto

Appena uscito in libreria “Il giardino incantato”, di Luca Tortolini e Maja Celija. Un delicato albo che sa vedere oltre, oltre il giardino.

Canto e incanto, la voce fuori campo di un’elegante statua marmorea che, scolpita con abilità e delicatezza, stagione dopo stagione, racconta i piccoli mutamenti che osserva, nel corso del tempo, che scorre lento, in un piccolo giardino. Panta rei. E lei assiste.

È la magia dell’albo illustrato di Luca Tortolini (che ci ha abituato a libri bellissimi, ricordiamo quello sul giovane Truffaut), illustrato da Maja Celija, Il giardino incantato, Orecchio Acerbo editore.

Un mondo fatato. Con la primavera tutto comincia a muoversi: i bambini tornano a giocare agli esploratori, i piccoli animali a mostrarsi, i fiori a sbocciare. In aprile il tempo pare accelerare il suo movimento, il giardino si risveglia al canto festoso e allegro degli uccelli. Lumache pallide, mosche svolazzanti, talpe impiccione e formiche frettolose fanno capolino e corrono di qua e di là.

Durante l’estate c’è un bel viavai, i colori sono più intensi, gli scrosci di pioggia si alternano alle brezze che puliscono il cielo. Odori, rumori e mutamenti continui, luce soprattutto.

In autunno, col vento sempre più teso, il giardino si svuota e le foglie si ammucchiano. Il caldo lascia spazio al freddo, in venti iniziano a soffiare più ostinati e fastidiosi, sempre meno persone visitano il giardino, salvo il giardiniere che è sempre presente. I colori cambiano ancora, le foglie imbrunite danzano al ritmo di note immaginarie e il vento se le porta via. Delicatamente.

Poi arriva il silenzio che annuncia l’inverno e che si fa ascoltare: tutto si ferma, il giardino si chiude su sé stesso, quasi a farsi forza. Il giardino dorme e sogna.

Ed è in questa solitudine, quando nessuno guarda o ascolta, che la narratrice di pietra, una statua, si concede la sua passeggiata. Con un misterioso amico che i piccoli animali del parco le hanno costruito, per farla sentire meno sola. Lei che non smette(rà) mai di amare quel luogo.

Fino al giorno in cui una nuova piccola gemma si affaccia, riscaldata da un tenue raggio di sole. Il giardino sonnolento, sbadigliando, ritrova il desiderio del risveglio. E tutto ricomincia.

Una favola meravigliosa, avvolgente e carica di speranza, di quelle da leggere e rileggere, a tutte le età, a tutte le ore e in tutte le stagioni.

Luca Tortolini è scrittore e sceneggiatore. Vive a Macerata e ha pubblicato, tra gli altri libri: “La volpe e l’aviatore” (selezionato al Prix Nénuphar de l’album jeunesse, 2018 Francia), “Il catalogo dei giorni”, “La vera storia di King Kong” (Kite edizioni) e “Anna e la famosa avventura nel bosco stregato” (Bao Publishing). È docente di scrittura, ama i gatti, i giardini e i libri. I suoi libri sono tradotti in diverse lingue. Nel catalogo di orecchio acerbo: “Le case degli altri bambini” illustrato da Claudia Palmarucci (Menzione Speciale Opera Prima al Bologna Ragazzi Award 2016, e selezionato al premio Janusz Korczak 2017 in Francia), “Ernest e Biancaneve” illustrato da Alice Barberini (2022) e “Io e Charlie” illustrato da Giacomo Garelli (2019).

Maja Celija è nata a Maribor (Slovenia) nel 1977. A cinque anni si trasferisce con la famiglia a Pula, in Croazia, dove compie gli studi classici. Nel 1995 segue il corso di illustrazione preso l’Istituto Europeo di Design di Milano e si diploma nel 1998. Nel 2002 consegue inoltre il diploma di grafica presso il C.F.P. Bauer di Milano. Da allora lavora come illustratrice per diverse riviste. Ha esposto le sue illustrazioni in molte mostre collettive e personali in Italia e all’estero ed è stata selezionata alla Mostra del Libro per Ragazzi di Bologna nel 1999, 2005 e nel 2007. Nel 2005 ha rappresentato l’Italia alla Biennale dell’Illustrazione di Bratislava. Attualmente vive e lavora a Pesaro.

Maja si racconta

Luca Tortolini, Maja Celija, Il giardino incantato, Orecchio Acerbo editore, 2023, 44 p.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

note disordinate di un urbanista per il futuro di ferrara

Note disordinate di un urbanista sul futuro di Ferrara

NOTE DISORDINATE DI UN URBANISTA SUL FUTURO DI FERRARA

Il Parco Urbano Giorgio Bassani: l’addizione verde

La vista della colata di asfalto dei nuovi “stradelli” larghi circa sei metri (una strada a due corsie) del parco urbano Giorgio Bassani conferma che non si tratta di manutenzione stradale. Non è nemmeno l’adeguamento di un’area verde: è una scelta politica, forse una provocazione.

Uso questo termine perché il parco urbano, oltre a essere un’area verde, è in fondo anche un simbolo di questa città: è stato chiamato l’«addizione verde». Non è un bosco o una foresta, ma in tutti questi anni ha fortemente rafforzato la sua componente naturale e la sua biodiversità e costituisce un punto di partenza straordinario per costruire un vero bosco urbano, intrecciato con pratiche agro-ecologiche, che lo potrebbero rendere un diffuso e articolato servizio ecosistemico.

Ciò lo renderebbe il riferimento centrale di una futura trama verde e blu in grado di mettere in relazione centro, periferia e frazioni, puntando sulla qualità ambientale, paesaggistica e sulla mobilità ciclabile. Insomma, uno spazio da contemplare attraversandolo in silenzio, dove non tutto è immediatamente visibile, grazie ai giochi delle masse alberate e ad una campagna arricchita di vegetazione, ma dove la Porta degli Angeli e le mura, le ciminiere del petrolchimico, le masse edificate del Barco, di Pontelagoscuro o Francolino, ci rammentano che la città lo attornia.

Come ci insegna Leopardi, l’esperienza della percezione non si esaurisce nella vista immediata dell’immenso, ma si alimenta grazie all’esperienza del limite, della soglia, del passaggio da una dimensione all’altra che, generando stupore, diviene sublime. Le nuove strade di bitume di fatto trasformano il parco in un’area «fiere e mercati», come si diceva un tempo, per ospitare eventi e chissà cos’altro; comunque chi le ha progettate è a digiuno delle più basilari cognizioni di architettura del paesaggio (ricordo che le panchine si progettano con lo schienale, e si ombreggiano, in particolare nei parchi frequentati da persone anziane e da molte persone che amano sedersi all’ombra per leggere un libro).

I Parchi nel mondo

Nei social sta girando il messaggio di un avvocato (nel CDA della Fondazione Teatro Comunale), che ha affermato che tutti i parchi hanno le strade asfaltate; quindi, che cosa vogliono i contestatori di Save the Park? Perché rompono le scatole? In realtà le parole che ha usato sono più scurrili, forse è così che si parla nelle riunioni in Teatro, in ogni caso chi ha «postato» questo testo ha citato parchi non comparabili con quello ferrarese, perché tutti dentro ad aree urbane e non al limite esterno come il nostro.

Il Central Park di New York è grande quanto Ferrara dentro le mura ed è uno snodo di strade ciclabili che connettono quartieri diversi consentendo agli abitanti anche di recarsi al lavoro. A Londra, Hyde Park è appena più piccolo di Ferrara ed è attraversato da strade, mentre nell’Englischer Garden di Monaco vi sono addirittura sedi di istituzioni che devono essere raggiungibili.

A Parigi la quasi totalità dei parchi è in stabilisée, quindi terra compatta a granulometria variabile, per essere drenante (che si poteva usare anche a Ferrara al posto del bitume). L’asfalto o il bitume non si usa più, anche perché è un indicatore di consumo di suolo. Solo a Berlino il Tempelhof Park ha un grande asse asfaltato, ma è un ex aeroporto, oggi trasformato in parco e luogo di eventi. Questo dovrebbe insegnare qualcosa.

A queste considerazioni si sono poi aggiunte le recenti banalità di Moni Ovadia, il quale, per giustificare la risistemazione del Parco urbano (operata dalla Fondazione Teatro Comunale, di cui l’attore è consulente, e che forse si sta trasformando in società di ingegneria visto che asfalta strade), ha addirittura tirato in ballo le origini del teatro, a cielo aperto. Chissà se si riferisce ai riti dionisiaci, quindi pagani, basati su componimenti lirici dal ritmo, noti come “ditirambo”, che portavano anche al sacrificio di capre e capretti?

I luoghi per gli eventi

I termini usati per inquadrare i “rompi……” di cui parla il consigliere del teatro comunale o altre persone vicine all’amministrazione, evidenziano un astio nei confronti di chi non la pensa alla stessa maniera di chi sta governando la città. Sono toni quasi infantili, tipici del ragazzino prepotente che ha alle spalle un padre importante.

Spesso chi esercita un potere legittima il suo essere diventato potente con la foto di rito (la photo opportunity) dove abbraccia la star del momento, che ha nel contratto anche la foto con il committente (che sia Springsteen o Morandi fa lo stesso).

Del resto, una star illumina chi è nei suoi paraggi, ma è una luce effimera, un effetto momentaneo, non si passa alla storia per questo, al massimo si attraversa velocemente la cronaca. Premetto che in questo lungo dibattito sul diritto alla città e allo spazio pubblico, e l’imposizione di grandi eventi da parte dell’amministrazione comunale, nessuno si è mai dichiarato contrario agli eventi, si sono solo suggeriti altri luoghi. Questo è un punto di partenza da ribadire.

Ricerca scientifica e valutazione dei risultati

Le ragioni serie di chi si è opposto sono state ridicolizzate in nome di una euforia della leggerezza divenuta nuovo standard di felicità e spensieratezza (che in sé è del tutto lecita e condivisibile), ma espressa spesso attraverso una volgarità oratoria contro chi si opponeva, senza mai prendere in considerazione le argomentazioni, come se gli «ambientalisti» volessero togliere ai ferraresi il diritto al divertimento.

Una importante ricerca, a detta del sindaco, afferma che il concerto di Springsteen ha avuto un indotto di 10 milioni di euro. Bene, a beneficio di chi? Quali categorie di cittadini hanno tratto beneficio? Quali settori e quartieri della città hanno goduto di questi denari?

Trovo singolare che si dia conto di una ricerca condotta da ricercatori solo attraverso la sintesi giornalistica derivante dalle parole di un amministratore. La mia esperienza mi dice che una ricerca viene di norma presentata in una conferenza stampa o in un seminario dai ricercatori stessi, mentre il committente spiega il perché ha commissionato questo lavoro.

Vengono precisate le metodologie, la scelta degli indicatori, la griglia di valutazione adottata, insomma una ricerca, specie se di interesse pubblico, deve creare le condizioni per essere capita in profondità, ma anche per essere contestata, non ponendosi mai come una verità rivelata, come ci ha insegnato Karl R. Popper.

Ad esempio, l’indotto milionario ci sarebbe stato anche se il concerto si fosse svolto in un altro luogo? Avremmo avuto un risparmio senza i lavori di ripristino del parco urbano? E il disagio per la cittadinanza è economicamente valutabile? In ogni caso una analisi costi-ricavi con una ripartizione tra pubblico e privato sarebbe stata utile, altrimenti si prosegue “un tanto al chilo”.

Ferrara Summer Festival:  ricaduta sull’occupazione

Le star del Ferrara Summer Festival stanno facendo tournée in questo momento in tutta Italia; i concerti ferraresi non sono quindi un’esclusiva. Si presume quindi che il pubblico venga da località vicine, usa la città e probabilmente lascia poco denaro. Anche in termini occupazionali il risultato sembra effimero: qualche posto precario nella ristorazione o nella sorveglianza, che svanirà con la fine degli eventi.

Tra l’altro le narrazioni esaltate dell’amministrazione sugli effetti benefici di questi eventi dovrebbero essere arricchite da dati sulla provenienza del pubblico che non sembra restare in città, probabilmente sono solo passaggi momentanei, come dicevamo. I dati sul turismo presentati in questi giorni non rassicurano ed evidenziano una realtà diversa da quella che viene raccontata. Chissà se nel quadro conoscitivo del PUG, in corso di elaborazione, queste dinamiche sono misurate? Sarebbe interessante una bella presentazione pubblica dello stato di salute della città, ma è una richiesta vana.

Ferrara Summer Festival: inquinamento acustico

Va segnalato anche un altro aspetto affrontato alcuni anni fa in una ricerca del CNR, ovvero che l’inquinamento acustico, oltre alla nostra salute, danneggia anche il patrimonio architettonico-paesaggistico e ci sono ricercatori che studiano la protezione dei beni culturali dagli effetti delle vibrazioni meccaniche circostanti, incluse quelle percepite dall’orecchio umano come rumore (es. un concerto da 100 decibel).

Alcuni anni fa nel Duomo di Milano furono installati dei sensori acustici per misurare e proteggere il monumento dai rumori. È stato fatto per la cattedrale e il campanile? Sarebbe interessante conoscere il parere di chi si occupa di conservazione e restauro dei monumenti.

Sicuramente il rumore eccessivo crea problemi alla salute, all’udito e all’equilibrio psico-fisico, di chi non riesce a dormire, come denuncia anche chi abita in zona darsena. Non è difficile quantificare il disagio essendo noto che i concerti normalmente oscillano tra i 100 e i 120 decibel mentre a 110 decibel si possono verificare danni all’udito anche dopo soli due minuti di esposizione.

Ferrara Summer Festival: effetti economici sulle attività commerciali

Ormai il dibattito riguardante la città su social e stampa locale è molto ricco, ma viene probabilmente percepito come un fastidio, trovo invece che sia una spia di dinamicità in una città da sempre definita silente e introversa (dagli stessi ferraresi).

In realtà, in questi giorni si sta leggendo di tutto sulla stampa locale, spesso con errori o grandi approssimazioni. Tornando alla piazza, parlando con molti commercianti del centro, gli effetti degli eventi sulle loro attività sono nulli se non controproducenti, anzi molti ferraresi (dicono questi commercianti di cui ometto il nome) non vanno neanche più in centro e la logica del concerto è che il pubblico verso le 18 inizia ad entrare nell’arena e quindi non interagisce più con la città.

Le mie sono considerazioni “da bar”, perché non ho dati statistici, ma misurano l’umore. L’immagine del commercio in centro non trasmette l’idea di una città prospera, certo si mangia e beve molto, ma sull’asse che dal Castello va a Porta Reno (ma anche nelle vie Mazzini e Garibaldi) le insegne chiuse da anni testimoniano una difficolta del commercio, vi sono anche due storici caffè chiusi da tempo immemorabile.

Alcuni marchi di abbigliamento prestigiosi e attrattivi hanno lasciato parecchi anni fa il centro storico (al contrario di altre città più dinamiche) per localizzarsi in un centro commerciale, dove i turisti non vanno. Chi propugna la «città dei 15 minuti», come strada verso la prossimità del commercio e dei servizi, deve essere consapevole che, per realizzarsi, nelle nostre città vanno chiusi (o ridimensionati) i centri commerciali, altrimenti è solo retorica o greenwashing comunicativo.

Inoltre, la crisi climatica ci pone nella condizione di ripensare anche il disegno degli spazi pubblici e delle strade per assorbire gli effetti generati dagli eventi meteorici estremi, aspetto segnalato da un gruppo di cittadini che vivono il problema ormai ricorrente dell’allagamento dei loro quartieri.

Ci aspetta un grande lavoro di adeguamento delle nostre città che, se ben indirizzato, costituisce una grande opportunità per migliorarle, anche con lavoro qualificato. Nel frattempo, percorrendo il vallo delle mura i segni del degrado di questo straordinario spazio sono sempre più evidenti: il percorso è molto degradato e pericoloso, il prato andrebbe gestito che non significa sfalciare tutto, ma mettere un po’ di ordine visto che molte panchine non sono più praticabili, molti tratti delle mura sono infestati da erbe e muschi e tra non molto non saranno più visibili.

Mobilità urbana

Dagli interventi sulla stampa letti in questi giorni, diversi rappresentati di enti economici, professionali ed esperti si sono espressi sul futuro della città e sono emerse questioni strutturali, come ad esempio la mobilità, ma anche molta confusione.

Il presidente dell’Ordine degli Architetti, dopo aver giustamente ribadito che il listone non è lo spazio adatto per grandi concerti ripetuti, ha addirittura dichiarato che per far vivere la città bisognerebbe aprirla totalmente alle auto, perché così fanno a Città della Pieve, in Umbria (7 mila abitanti), ma Ferrara dovrebbe confrontarsi con città come Utrecht, Bordeaux, Siviglia, Avignone che vanno in tutt’altra direzione.

Inoltre, l’odore di benzina che si respira sempre a Città della Pieve, e che viene citato come fattore di dinamicità, è dannoso alla salute, e le polveri sottili sono cancerogene, mentre nel 2035 non dovrebbero più essere vendute auto con motori termici come ha stabilito la Commissione Europea.

Il tema della mobilità urbana è strategico se si vuole transitare ecologicamente verso un futuro decarbonizzato. Ma lo è se si investe sul trasporto pubblico e ciclabile; in realtà a livello nazionale questa consapevolezza è affossata da politiche che continuano a identificare il futuro della mobilità nell’automobile privata. A Ferrara quali sono le politiche di futuro in termini di trasporto pubblico?

Internazionalizzazione di Ferrara: il ruolo dell’Università

Si è parlato molto anche della internazionalizzazione della città, ma Ferrara lo è da secoli e all’estero è molto più conosciuta di quanto si creda, ovviamente per la sua storia, la sua cultura e la sua università. La città era nei percorsi del Grand Tour, grazie all’Ariosto e al Tasso e quale città di provincia in Italia può vantarsi di avere avuto tra i suoi concittadini figure come Giorgio Bassani e Michelangelo Antonioni? Mi fermo qui.

Oggi la città potrebbe diventare un grande campus in grado di distribuire su tutto il territorio comunale gli effetti culturali ed economici indotti dal suo ateneo. Ma è un processo che va pianificato, mettendo attorno ad un tavolo stabilmente tutti gli attori coinvolti ed elaborando un progetto strategico di internazionalizzazione incentrato su «Ferrara Città-Campus».

L’università, oltre ad essere una delle principali imprese della città, è anche uno straordinario attore di rigenerazione urbana in maniera diretta (visto che è proprietaria e/o gestrice di edifici e spazi) e indiretta (viste le dinamiche sociali, economiche e culturale indotte: dagli studenti che richiama in città, dall’attivismo del suo corpo docente e dai numerosi eventi internazionali che organizza).

Certamente bisogna affrontare in maniera strutturale diversi problemi, in particolare la mobilità pubblica e ciclabile e l’alloggio che sono punti critici cha da tempo gli studenti segnalano, in tutta Italia (oltre alla carenza di spazi).

Si è tenuto recentemente un seminario organizzato da ASCOM sul tema del fabbisogno abitativo, non solo studentesco, e sono emersi temi importanti, ma anche alcuni limiti che, nella visione strategica che citavo, potevano essere affrontati prima.

Il tema è nazionale, e non solo ferrarese, ma l’impressione è che si tratti di processi lunghi, mentre le proposte da parte dei privati sembrano deboli, incentrate su richieste di detassazione, quando delle misure in realtà ci sono già, come il canone calmierato o la cedolare secca, che però non vengono sfruttate perché probabilmente gli affitti brevi fanno più comodo.

L’amministratore delegato di Nomisma ha fornito un quadro chiaro dei punti critici, indotti anche dal non aver affrontato il tema “alloggi” per tempo, e ribadisce giustamente che ci sarebbe bisogno di un intervento pubblico, ma l’impressione è che a Ferrara, ad esempio, nessuno abbia associato il tema degli studentati pubblici ai fondi del PNRR (spero di essere smentito), mentre un rischio è che si possa creare tensione tra chi ricerca alloggi in locazione e le esigenze abitative degli studenti.

Il ricorso al Co-housing residenti/studenti proposto da CIDAS può essere un palliativo dall’effetto molto limitato, per tante ragioni, come dimostrano esperienze di altre città. Si tratta di numeri piccoli, in ogni caso il contributo di un’azione di tale tipo potrebbe essere più efficace se inserito dentro la prospettiva strategica di cui parlavo prima, ma che pare al momento non prendere forma.

A livello nazionale nel dibattito sul PNRR emerge la mancanza totale di una politica pubblica per il diritto allo studio, mentre sono stati dati milioni di euro di fondi pubblici a gestori di studentati privati, che praticano una politica dei prezzi non certo calmierata.

Il recente piano per la casa del Comune di Bologna, presentato ad aprile scorso, ha programmato 200 milioni per i prossimi 5 o 10 anni, per circa 3 mila alloggi dedicate alle fasce più marginali, agli studenti, a chi cerca un affitto a canone agevolato: una esperienza di grande interesse come, del resto, il recupero dell’area delle Vele a Scampia, Napoli, dove i fondi PNRR sono stati utilizzati per avviare un grande progetto di rigenerazione urbana insieme ad associazioni, comitati e cittadini e che vede l’università come attore importante.

Infine, la distribuzione degli studenti al di fuori delle mura pone seri problemi di mobilità pubblica, che dovranno prima o poi essere affrontati seriamente, come dicevo sopra. Ferrara insomma è una città che potrebbe diventare un campus esteso, dove la vita universitaria si intreccia virtuosamente con quella della città, dove la dimensione locale si alimenta di scambi internazionali ma bisogna pianificarlo, non lo diventa da sola.

L’impressione è che in città l’università venga vista come una opportunità economica per alcuni, ma anche come un corpo un po’ distaccato dalla città e dalla sua vita sociale e culturale. Questo è quanto mi sento spesso ribadire nei vari consessi democratici e partecipativi dove vengo invitato.

Governare la complessità

Insomma, le questioni emerse in città, in queste settimane, sono rilevanti non solo localmente. In questo momento storico lo sono ancora di più perché, per garantirci la sopravvivenza, dobbiamo necessariamente «decarbonizzare» il nostro ambiente e le nostre menti. Questo significa anche mettere in discussione le nostre abitudini e i nostri modelli di sviluppo, forse molti non ne sono ancora consapevoli.

Rientrati dalle vacanze, vista la ricchezza del dibattito, delle opinioni espresse da vari attori, visti anche i tanti silenzi di soggetti e cittadini, con ruoli importanti, che non si sono mai espressi, potrebbe essere interessante se le testate giornalistiche ferraresi organizzassero alcuni momenti di confronto pubblico, o una giornata di dibattito, sereno, tranquillo, argomentato, su come potrebbe cambiare Ferrara nella prospettiva della transizione ecologica, consapevoli che il futuro di Ferrara e del pianeta, non è riconducibile solo alle logiche del mercato, che il futuro del mondo non può essere appannaggio degli interessi del «privato», con il «pubblico» nel ruolo di facilitatore,  e che nemmeno il “soluzionismo“ tecnologico può regolare tutti i problemi.

La transizione ecologica richiede a tutti delle scelte di campo e la tecnica, se deve essere oggettiva, non significa che debba essere neutrale rispetto a scelte che si intrecciano con i problemi sociali e delle disuguaglianze. Probabilmente la risposta è nel governo della complessità e non nel pensare gli elementi (lavoro, mobilità, cultura, diritti, ecc.) in sé stessi, ricercando soluzioni individuali o per settore.

Se vogliamo rendere i nostri stili di vita, i modi di produzione e di organizzazione sociale compatibili con la necessità di mantenere abitabile il pianeta bisogna iniziare a disinquinare il dibattito pubblico, demolendo le false promesse o le illusioni. È necessario essere lucidi su questi temi per il bene di chi verrà dopo di noi.

Ferrara: il culto dell’asse urbano

Una riflessione finale su Ferrara. Stiamo parlando di una città storica unica per le sue caratteristiche urbane. La piazza Trento Trieste e il largo del Castello costituiscono il punto di contatto tra due modelli di città: quella lineare, medioevale e l’addizione erculea. Quest’ultima è l’adattamento ad una città reale, ad un sito geografico particolare, di un modello teorico rinascimentale.

Ferrara è la città dove prima di altre il culto dell’asse diviene fatto architettonico e urbano allo stesso tempo (il Corso Ercole I° d’Este). Il culto dell’asse urbano è uno dei grandi temi che il pensiero architettonico e urbano italiano ha dato al mondo, partendo da Ferrara, passando per la Roma di Sisto V°, transitando per il barocco, arrivando a Versailles per essere poi enfatizzato dalla Parigi di Haussmann.

Panos Koulermos, professore greco di architettura alla UCLA di Los Angeles, quando mi vedeva mi ricordava sempre che Ferrara è l’unica città dove dal centro si vede (idealmente) la campagna, e questa ancora esiste dentro la città, fattore che stupisce sempre chi riesce a scovarla.

Il Corso e prima ancora Via Savonarola (addizione Adelarda), sanciscono la nascita della via “palazziale” che poi verrà esaltata dalla Strada Nuova di Genova, mentre l’architetto Sebastiano Serlio, portato alla corte di Francia dal Cardinale Ippolito II d’Este, costruendo a Fontainebleau per il prelato la residenza della Grande Ferrare, fisserà per un secolo i caratteri degli hôtel particulier costruiti dall’aristocrazia parigina a Parigi e in Francia.

Non mi dilungo sulla Ferrara novecentesca. Ecco perché Ferrara è già internazionale, questo patrimonio va trasformato in un progetto consapevole e non effimero. Ferrara non è un evento (il che non significa che non possa ospitarli nei posti adatti) è un palinsesto intrecciato di storia materiale e immateriale.

Ferrara, come scrisse lo scrittore francese Michel Butor , è una città sognata che non ha mai avuto del tutto luogo e quindi il quadrivio e altre parti sono dei morceaux réels d’une ville rêvée. Credo sia necessario ripartire da questo sogno per costruire una visione di futuro fondata sui problemi di oggi, drammatici, per contrastare la trasformazione di un sogno in un incubo.

 

Le Voci da Dentro /
Habeas corpus

Le voci da dentro: Habeas corpus

Il testo che propongo questa volta ci ricorda l’origine storica di un aspetto importante della moderna giurisprudenza; ci aiuta inoltre a ragionare sul corpo come materia e su tutto ciò che corpo non è ma fa comunque parte dell’identità di una persona. (Mauro Presini)

Habeas Corpus

di Lorenza Cenacchi

Torniamo indietro nella storia. Siamo nell’Inghilterra medievale. Ai tempi di re Giovanni d’Inghilterra. È il 1215, Re Giovanni senza terra (che è lo stesso della storia di Robin Hood, per intendersi), è costretto da alcuni nobili a sottoscrivere un documento per limitare gli arbitrii del sovrano, si tratta della Magna Charta libertatum, riconosciuta ancora oggi come la Carta fondamentale della monarchia inglese.

Subito dopo, conscio di aver perduto il suo potere scrive una lettera al papa implorandolo di annullare il documento che, dice, gli sia stato estorto con le minacce.

Il papa lo accontenta, i baroni si ribellano e scoppia una guerra civile.

Giovanni muore poco dopo di dissenteria e, per risparmiarsi problemi con i baroni riottosi, il suo successore dichiara la Magna Charta di nuovo valida.

Essa conteneva un cenno all’Habeas corpus, il principio dell’inviolabilità personale.

Dalle testimonianze giunte fino ai giorni nostri, tale disposizione venne usata per la prima volta nel 1305, ma il ricorso a questo istituto iniziò a intensificarsi nel XVII secolo, quando venne espressamente ribadito prima nella Petition of Rights del 1627 e poi nel 1679 con la promulgazione dell’Habeas Corpus Act.

In seguito quest’atto, non fu applicato con continuità.

Ad esempio fu sospeso nel 1793 per paura che gli avvenimenti della Rivoluzione francese potessero ispirare moti di ribellione anche in Inghilterra.

Il diritto fondamentale alla corporeità è stato più volte sospeso nel XX secolo, ad esempio durante la Prima e la Seconda guerra mondiale e durante il conflitto dell’Irlanda del Nord.

Ancora oggi è oggetto di dibattito sul tema del terrorismo.

Nella nostra Costituzione è contenuto nell’articolo 13.

L’espressione habeas corpus deriva da habeas corpus ad subiciendum judicium, ossia “che sia esibito il corpo (dell’accusato) per sottoporlo a giudizio”.

Ciò indicava l’ordine per cui si chiedeva alle guardie di condurre il “corpo”, ossia la persona dell’arrestato, entro tre giorni dall’arresto, al cospetto dei giudici, per evitare le detenzioni illegittime e soltanto ad essi spettava il compito di esaminare il caso e di confermare o annullare l’arresto.

“Fai portare fisicamente l’imputato nel tuo tribunale”.

“Toglilo dalla prigione e sottoponilo a un regolare processo”.

Gli arresti arbitrari, che erano all’ordine del giorno, furono vietati, ma continuarono ad essere praticati.

Ed erano vietate anche le detenzioni prima del processo per più di tre giorni.

Questa norma fondamentale venne ribadita nell’Inghilterra del Seicento in una nuova “legge generale” chiamata Bill of rights (Carta dei diritti 1689).

Essa è diventata un faro che, nel corso dei secoli, ha ispirato le norme giuridiche e le Costituzioni più avanzate del mondo, rappresentando di fatto uno dei più importanti strumenti a salvaguardia della libertà individuale contro l’azione arbitraria delle autorità.

Nella Costituzione della Repubblica italiana il principio dell’Habeas Corpus è sancito in diversi articoli, in particolare nell’articolo 13.

Esso verte sulla libertà personale, il più importante dei diritti civili.

La libertà di fare ciò che si vuole del proprio corpo, ma non completamente.

In altre parole il corpo reale vissuto soggettivamente sottoposto ad una sanzione penale, che fine fa? Il corpo inquisito è trasformato dai mass-media in un titolo, in un caso giudiziario, e la comunicazione del corpo è sostituita da un’immagine diversa da quella vissuta e riconosciuta dal proprietario reale.

Il corpo pertanto perde la propria identità e la propria memoria per divenire un’immagine mediatica.

Oggi, dopo l’atto pubblico del processo, con la detenzione e l’internamento, il corpo del soggetto perde visibilità, diventa astratto, invisibile.

L’individuo reale scompare e con esso la vita di relazione, per divenire un uomo astratto, caricato del significato simbolico delle aspettative della comunità, che crede di poterlo recuperare appropriandosi del suo corpo.

Un uomo privato della possibilità di comunicare chi è veramente, soggetto a interventi che mirano ad espropriarlo della propria identità, della sua immagine e della sua progettualità non potrà costruirsi un nuovo futuro perché non riuscirà a confrontarsi con ciò che è in suo possesso.

La parte più intima della persona è racchiusa nel corpo e si pensa che, attraverso la pena corporale della detenzione, si possa arrivare a trasformare la coscienza di chi lo abita.

Il corpo nella sua materialità contiene un individuo dotato di pensieri, affetti, dubbi, sofferenze, ambizioni, speranze, gioia, amore e queste ultime componenti sono barattate per vivere nell’oblio quel processo di purificazione dalla colpa, che le nostre società hanno affidato al sistema penitenziario.

Il corpo nella visione meccanicistica è altro dalla vita e diventa oggetto di scambio, talvolta fonte di guadagno.

Nel Mercante di Venezia Shylock chiede ad Antonio una libbra del suo corpo qualora non onorasse il suo prestito.

Il corpo di Antonio diviene merce ed è utilizzato come pegno, come garanzia.

E voglio darvene dimostrazione.

Venite insieme con me da un notaio, e avanti a lui firmatemi, voi solo, un impegno formale, con la clausola (ma soltanto così, per uno scherzo) che qualora in tal giorno ed in tal luogo non mi doveste rendere la somma o le somme indicate nel contratto, la penale sarà una libra esatta di carne, della vostra bella carne, da asportarvi dal corpo di mia mano dalla parte che più vi piacerà.”

Quanti Shylock incontriamo oggi vittima e carnefice di qualche Antonio? È un’illusione pensare al corpo come ad un mero contenitore materiale di cellule soggette al ciclo della vita, separato dall’anima? Cos’è il corpo?

Quanti Shylock incontriamo oggi, vittima e carnefice di qualche Antonio? Pensare al corpo come ad un mero contenitore materiale di cellule soggette a leggi fisiche, separato dall’anima che quelle cellule fa muovere in direzione della vita universale?

 


Si chiama Astrolabio il giornale della Casa Circondariale di Ferrara. Ed è un progetto editoriale che, da qualche anno, coinvolge una redazione interna di persone detenute insieme a persone ed enti che esprimono solidarietà verso la realtà dei detenuti. Il bimestrale realizza il suo primo numero nel 2009 e nasce dall’idea di creare un’opportunità di comunicazione tra l’interno e l’esterno del carcere. Uno strumento che dia voce ai reclusi e a chi opera nel e per il carcere, che raccolga storie, iniziative, dati statistici, offrendo un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali.

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