Adesso, fuori dall’emotività e dalle esultanze, è tempo di chiedercelo: ma chi credeva davvero a un nuovo centro commerciale di 12mila metri quadrati in via Caldirolo? Chi credeva (al di là della necessaria riqualificazione) nella trasformazione dell’ex caserma di Cisterna del Follo in un Moloch capace di far convivere uno studentato da 600 posti, case private, locali pubblici, nani e ballerine? Chi credeva nel maxi parcheggio cementato di viale Volano a sovrastare le Mura?
Alzi la mano chi ha creduto a una sola di queste eventualità. Se si tratta di un comune cittadino, passi: è come credere che la Spal vada ai playoff e conquisti la serie A, ma ci può stare. Se è un esponente politico del centrosinistra, può galoppare sulla scia dell’entusiasmo per il flop di Fabbri & C. in Consiglio, ma senza sentirsi John Wayne in Ombre Rosse. Se invece è un componente di giunta o di maggioranza, o ammette di aver mentito a se stesso, o è meglio che abbandoni la politica per dedicarsi al taglio e cucito.
Per non fare il fenomeno, ammetto che persino io ci avevo creduto un po’. Perché in passato ho visto cose al cui confronto il progetto Feris è una scatola del Lego. Ho scritto per decenni del Palazzo degli Specchi, dai ‘cavalieri catanesi’ ai tritoni; ho visto la nascita di Darsena City (basta guardare la torre ellittica, vuota da quindici anni, per parlare di abnormità); pensiamo all’ospedale di Cona, che da solo varrebbe il confino per chi lo ha voluto e realizzato in quel posto.
Restando ai centri commerciali, che dire dell’IperConad nato per iniziativa (mettiamola così…) degli allora vertici Ascom, e poi diventato IperCoop Le Mura? Potrei continuare, perché l’elenco delle scempiaggini è lungo.
Ma qualcuno è sembrato dire: se gli altri hanno potuto fare tali demenze, avremo pure il diritto di fare una ca***ta anche noi! In politica l’equivalenza morale è sancita dalla costituzione, basta invocare gli errori (e gli orrori) di chi ti ha preceduto, per fare lo stesso. O di peggio.
Restiamo però alla leggenda Feris.
E ai miti evocati lunedì in Consiglio Comunale, secondo cui hanno vinto i cittadini a colpi di sbiciclate e lenzuola; ha vinto l’opposizione con le sacrosante ragioni di definire strampalato il progetto; ha vinto la giunta, capace di dialogare e ravvedersi; hanno vinto i ‘ribelli’ di Ferrara Nostra capitanati da Francesca Savini, rischiando di far saltare il banco e costringendo l’intera maggioranza a sconfessare se stessa, oltre che sindaco, vice, assessori, dirigenti e giù fino ai messi comunali; ha vinto persino Rossella Arquà, capace di essere Arquà dopo essere stata Ardilà (politicamente, intendo).
Con tutti questi vincitori, non basterebbero i carri del Carnevale di Cento, e comunque qualche sconfitto ci vuole, rende meglio il clima epico. Lo sconfitto è il sindaco Fabbri? Se credeva che il progetto passasse per come era stato strombazzato – il termine non è appannaggio degli ex barbieri – è senz’altro sconfitto. Ma io non mi azzarderei a definirlo tale (al limite, incazzato per dover dire ai Caprotti che per ora deve obbedire a Caprini). Lo sconfitto è il pool di imprese private che avevano fiutato il maxi business? Non definirei sconfitto chi si sarebbe accollato un investimento spropositato dai ritorni meno che incerti, e che adesso è costretto – ahilui? – a riprogrammare un intervento meno costoso e magari remunerativo. Ha perso la città, in termini di riqualificazione, posti di lavoro, maxi sponsorizzazioni a maxi concerti, ricchi premi e cotillons? In qualche modo sì, se il flop del Feris in Consiglio Comunale – perché tale è stato – si trasformasse in uno scusiamoci abbiamo scherzato. Con l’ex caserma abbandonata ad altri colpevoli decenni di silenzi, topi e ramaglie, e con la libera iniziativa commerciale impastoiata nelle diatribe ideologiche.
La dico chiara: Esselunga ha pieno diritto d’insediarsi a Ferrara, con la stessa legittimità di fare concorrenza a Coop, Famila, Despar, Tosano e discount vari; la fiaba di città sature di ipermercati non tiene conto delle norme e delle regole del mercato, le prime e le seconde dettano legge, non le simpatie di amministrazioni di vario colore.
Per comprendere a questo punto che ne sarà del progetto Feris, del sindaco e della sua (dis)articolata maggioranza, dell’opposizione che spesso non si rende neppure conto di essere tale, di residenti sugli scudi (pardon, sui sellini), è utile ricordare il film Slevin con Bruce Willis. E la sua mitica ‘mossa di Kansas City’. Dice a un certo punto Mister Goodkat: “La mossa Kansas City è quando loro guardano a destra e tu vai a sinistra”.
Oddio, non mi immagino Fabbri prendere la tessera del Pd e strappare a Ilaria Baraldi e Francesco Colaiacovo il poster di Elly Schlein. Né che il consigliere di Pura Luce Benito Zocca diventi il carismatico leader di Potere al Popolo. Non mi azzardo nemmeno a capire perché, al momento del dietrofront, molti nella maggioranza sorridessero. Forse perché quanto votato in aula è solo un atto d’indirizzo politico, e in Conferenza dei Servizi il progetto è ancora tal quale. O perché in fondo si sorride anche per non mostrare a se stessi di aver pestato una classica. No, semplicemente guardo a quello che potrebbe essere al posto di ciò che non sarebbe mai stato.
Ovvero un’Esselunga (in versione light) in una location adeguata. C’è chi parla dell’ex Carlux di viale Volano, ma sarebbe a ridosso delle Mura. Come pure l’ex Amga di via Bologna angolo piazza Travaglio, in pieno centro storico anche se ci si potrebbe giocare la fiche della rigenerazione. Idem per un’altra sede (con annessa mezza voce) che ancora non rivelo, perché non so come sciogliere il rebus viabilità. Poi ci sono aree ugualmente potabili lungo via Beethoven in direzione Fiera, dove qualche anno fa si immaginava una sede logistica di Ikea, e infine vari supermercati, chiusi e dismessi, sparsi nelle periferie. E se proprio Esselunga volesse spendere millemilamilioni di euro per sbarcare a Ferrara, con molto meno potrebbe comprare lo stesso IperCoop le Mura o l’Interspar di via Darsena, con pertinenze annesse.
Al di là del gioco al fantasupermarket, una possibilità auspicabile è comunque un intervento misurato sull’ex caserma. Con buona pace anche di chi, fra residenti vip o pseudo tali, auspica invece il sonnacchioso statu quo. Un progetto Feris che non ‘Ferisca’ – la battuta è orrenda ma non mi è venuto di meglio – sarebbe utile alla città, come lo è stata la nascita del Meis (a proposito, e i lavori?); come la riqualificazione di Palazzo dei Diamanti, come l’organizzazione – al netto delle polemiche sulla sede – del concerto di Bruce Springsteen.
Se il progetto saltasse del tutto, con l’alibi di un contrasto cinico e baro di comunisti e sobillatori, quella sì sarebbe una disfatta politica. E più che giostrine o vuote panoramiche, più che il Grattacielo trasformato (a chiacchiere) in un Bosco Verticale, ci sarebbe da andare in tournée all’estero su un carro di Tespi.
Attenzione perciò alla Mossa di Kansas City, alla possibilità che facendo cadere strategicamente un’iperbole a sinistra non si metta in atto qualcosa di parabolico a destra. Ma oltre a Bruce Willis, mi piace ricordare un ex comandante dei vigili urbani di Portomaggiore, che pedinando negli anni ’70 un soggiornante obbligato scrisse nel verbale: ‘Entrava facendo finta di uscire’. Ecco, forse la realtà del progetto Feris è tutta qui.
Non dire, mostra: l’omosessualità nell’arte visiva, nella fotografia e nella musica
Dopo il ciclo de ‘Il Lunedi dei libri proibiti’, dedicato alla letteratura a tematica omosessuale, Arcigay Ferrara ‘Gli Occhiali d’Oro’ presenta la nuova rassegna culturale a tematica LGBTI+‘Non dire, mostra’, che si terrà presso la sala Agnelli della Biblioteca Ariostea.
L’omosessualità nell’arte visiva, nella fotografia e nella musica è il fil rouge che lega i tre incontri della rassegna, che si pone l’obiettivo di approfondire come, nella storia, siano state rappresentate le identità queer e quale ruolo abbiano avuto le arti nella costruzione di un immaginario collettivo in riferimento all’orientamento sessuale e all’identità di genere.
Lunedì 6 marzo alle ore 17
Lla rassegna aprirà con ‘Una “nota” dolente’, in cui si parlerà dell’omosessualità nel mondo della musica colta tra pregiudizio e contraddizioni. Dai castrati ai grandi compositori, tra finto accademismo eterosessuale e revisionismo storico sarà l’argomento che il professore e contralto Marco Ciatto affronterà nella sua relazione.
Lunedì 3 aprile alle ore 17
La rassegna proseguirà con ‘Lo sguardo fluido’, la fotografia come linguaggio e strumento di rappresentazione di identità non conformi alla norma sociale, con la visione di reportage realizzati da Luciana Passaro visual designer e fotografa impegnata da anni nell’ ‘ARTivismo’ sociale.
Lunedì 8 maggio alle ore 17
La rassegna si chiuderà la presentazione dell’ultima opera di Vincenzo Patanè‘Icone gay nell’Arte. Marinai-Angeli-Dei’(De Luca Editore d’Arte), una storia dell’arte e
dell’omosessualità che descrive il modo in cui l’immaginario visivo ha dato vita a uno spazio per artisti e pubblico in cui esplorare una pletora di desideri, sensualità e identità. Dialogherà con l’autore Manuela Macario, presidente Arcigay Ferrara “Gli Occhiali d’oro”. L’incontro rientra nelle attività dell’associazione dedicate alle giornata internazionale contro l’omotransfobia.
Arcigay Ferrara ‘Gli Occhiali d’Oro
Cover : Roberth Mapplethorpe e Patti Smith – foto di Norman Seef, 1969
Il Piano Nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) è il documento predisposto dal governo italiano per illustrare alla Commissione europea come il nostro paese intende utilizzare i fondi che arriveranno nell’ambito del programma Next Generation Eu.
Tale programma è uno strumento temporaneo di rilancio europeo volto a risanare le perdite causate dalla pandemia. Si tratta di oltre 800 miliardi di euro che sono stati inseriti all’interno del bilancio europeo 2021-2027 ed è destinato a tutti gli stati membri [vedi qui]. Con il PNRR l’Italia ha a disposizione complessivamente 235,12 miliardi di euro ed è il primo beneficiario, in valore assoluto, delle risorse del Next Generation EU [vedi qui].
Il PNRR è, a parer mio, interessante per i contenuti e per le modalità con cui è stato redatto e presenta, in diversi suoi capitoli, dei chiari riferimenti alla parità tra uomini e donne. Si sviluppa attorno a tre assi che sono: la parità di genere, la protezione e la valorizzazione dei giovani, il superamento dei divari territoriali. La parità di genere è quindi uno dei cardini di tale documento programmatico che vuole affrontare alcune gravi criticità:
La bassa occupazione femminile, che è associata a due problemi: il tetto di cristallo (segregazione orizzontale e verticale delle progressioni di carriera) e il gender pay gap (differenziale retributivo che fa sì che a parità di ruolo e di mansione le donne guadagnano di meno);
La gestione familiare. Si registrano squilibri nella gestione delle attività domestiche e nell’accudimento di bambini e anziani, per cui il carico è prevalentemente sulle donne.
La presenza di stereotipi di genere che influenzano, tra l’altro, i percorsi scolastici delle ragazze.
La violenza di genere.
Cercare con un unico documento una risposta a questi annosi problemi è un intento apprezzabile.
In coerenza con il Next Generation Eu, il PNRR si articola in 6 missioni che sono:
(1) Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo.
(2) Rivoluzione verde e transizione ecologica.
(3) Infrastrutture per una mobilità sostenibile.
(4) Istruzione e ricerca.
(5) Inclusione e coesione.
(6) Salute.
Ciascuna missione contiene interventi per favorire, direttamente o indirettamente, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e ad attenuare le asimmetrie che ostacolano il raggiungimento delle pari opportunità anche in ambito familiare e scolastico, oltre che occupazionale.
In modo particolare la Missione 1 si pone l’obiettivo di garantire le Pari Opportunità nel lavoro, nelle progressioni di carriera, nel bilanciamento tra vita professionale e vita privata. La Missione 4 propone il Piano Asili Nido, l’estensione del tempo pieno a scuola, l’aumento delle competenze nelle materie STEM (Science Technology Engineering Mathematics, cioè Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica), per le studentesse. La Missione 5 presenta il sostegno all’imprenditoria femminile e l’introduzione del sistema nazionale di certificazione della parità di genere. La Missione 6 il rafforzamento dei servizi di prossimità.
A sostegno dell’imprenditoria femminile il PNNR prevede l’avvio del Fondo impresa donna finalizzato ad avere un impatto diretto su alcune dimensioni che concorrono al raggiungimento di una maggiore parità di genere. Il fondo intende supportare la nascita di nuove imprese femminili e lo sviluppo e consolidamento di imprese femminili esistenti. Sono ammesse a finanziamento le imprese di produzione di beni nei settori: industria, artigianato, trasformazione prodotti agricoli, forniture di servizi, commercio e turismo. Sono invece escluse quelle connesse alla produzione primaria di prodotti agricoli, pesca, acquacultura e silvicultura.
Con la legge di Bilancio 2022 e la legge n. 162/2021 è stato istituito il sistema di certificazione della parità di genere in grado di rispondere a uno dei requisiti della Missione 5 PNRR. Tale certificazione, potrà essere rilasciata a tutte le aziende che dimostreranno l’effettività e l’efficacia delle proprie politiche in tema di parità di genere tra uomo e donna.
Il 24 marzo è stato, inoltre, siglato il documento con la prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022[vedi qui], che definisce criteri, prescrizioni tecniche ed elementi funzionali alla certificazione di genere. La certificazione riguarderà le opportunità di carriere, la parità salariale a parità di mansioni, la politica di gestione delle differenze di genere e di tutela della maternità.
Allo stato attuale, i progetti finanziati dal PNNR sono in fase di avvio e non sappiamo cosa davvero riusciranno a fare. Mi sembra che alcune attività siano più legate alla volontà del decisore pubblico locale, altre a quelle delle aziende private, altre ancora siano legate ad un investimento che ogni singola donna può decidere di fare sul suo futuro.
Una criticità è legata alla effettiva capacità della macchina del PNRR di allocare finanziamenti dove esiste il bisogno, senza che intervengano fattori distorsivi che causano una dispersione dei finanziamenti in arrivo.
Una seconda criticità è legata alla effettiva capacità di chi li riceve di utilizzarli al meglio. Aldilà di quanto scritto sui documenti programmaci e sui progetti conseguenti, diventa necessario attuare le azioni progettate con efficienza ed efficacia.
Una terza criticità è quella di rendere i risultati degli interventi duraturi nel tempo e trasferibili (verso organizzazioni con strutture simili, verso organizzazioni con missioni simili).
Per quanto riguarda l’attuazione del principio di pari opportunità, permangono alcuni stereotipi di genere che influenzano decisioni e orientano comportamenti. Lo stereotipo è un nucleo cognitivo che alimenta il pregiudizio. Il pregiudizio è a sua volta la tendenza a giudicare in modo sfavorevole le persone che appartengono a un determinato gruppo sociale (le donne in questo caso).
Stereotipi e pregiudizi sono parte della cultura e del senso comune. Vengono appresi con la socializzazione e trasmessi da una generazione all’altra. Sono costruzioni sociali che dipendono da specifiche condizioni storico-sociali che si stanno vivendo.
L’immagine stereotipata ha effetti sulla formazione dell’identità e capacità delle persone, al punto che può influenzare e bloccare lo sviluppo delle potenzialità dell’individuo (si pensi alle poche donne laureate in Italia nelle materie STEM e al collegamento di questo dato che la permanenza dello stereotipo sulla maggiore propensione delle donne verso i lavori di accudimento come la maestra, l’assistente sociale, ma anche il medico e la dirigente scolastica).
Mi sembra però che il cammino accidentato verso la parità presenti in Italia dei segnali positivi da non sottovalutare e che il PNRR si stia muovendo nella direzione giusta. Tale passo in avanti è rilevante e può essere motivante per tutti i professionisti che, a vario titolo e con ruoli e mansioni diverse, si troveranno a dover attuare le prescrizioni del PNRR cercando di attualizzarle nel loro territorio e nel loro ramo d’attività.
Faccio due esempi: All’European Women on boards (gennaio 2022) è stato presentato il Gender diversity index 2021, che analizza la rappresentanza di genere nei consigli di amministrazione e nei vertici aziendali delle più grandi realtà europee. Lo studio, che ha preso in esame 668 società quotate di 19 Paesi europei, ha misurato l’effettiva capacità delle aziende di garantire pari opportunità a uomini e donne.
L’Italia presenta un Gender Diversity Index pari a 0.62, valor leggermente superiore alla media europea e in crescita rispetto al 2020. I dati indicano che il nostro Paese ha la più alta percentuale di donne nei Comitati dei CdA/Consigli di Sorveglianza (47%) e che è in terza posizione per numero di donne a capo dei CdA (15%) [vedi qui].
È infine possibile guardare con ottimismo ai datiIstat, relativi allo scorso anno. A crescere è non solo il tasso totale di occupazione, che torna a livelli pre-pandemici (59%), ma anche il tasso di occupazione femminile che sale al 50,5%. Si registra quindi una diminuzione della disoccupazione e dell’inattività delle donne [vedi qui].
Per leggere gli altri aricoli di Catina Balotta clicca[Qui]
Ognuno di noi si sforza di comprendere quale sia il senso supremo della vita, ma, quando finalmente lo capisce, ormai lo spettacolo si chiude. “Sipario” diceva Maurizio Costanzo per chiudere il suo show, ma siamo sicuri che il sipario si sia chiuso per sempre, oppure, in altri luoghi dell’eternità, egli non sia già pronto a fare un nuovo show?
Noto per il suo modo innovativo di intrattenimento con ospiti anche strani e curiosi, dando loro la possibilità della notorietà, il giornalista veniva anche attratto dai grandi temi della psicologia umana e interessato alla dura condizione dei più infelici spesso protagonisti delle sue ospitate.
Un giornalista sempre attento alla misera condizione umana, motivo per lui di tristezza e di evidente rammarico.
A tal proposito la poetessa Alda Merini, invitata molte volte allo show di Costanzo e scomparsa nel 2009, scriveva in una lettera: “…vorrei dirti caro Maurizio, che nessun uomo si è mai seduto vicino a me con tanta deferenza e rispetto e nessun uomo mi ha guardata così profondamente negli occhi per scoprirvi quelle lacrime che nessuno ha mai visto…”
L’immensa sofferenza di questa donna deve aver fatto comprendere a Costanzo la delicatezza, l’infelicità e l’umiltà della persona che aveva di fronte, doti che poi lui ha fatto conoscere e amare al grande pubblico.
Mi è d’obbligo però ricordare anche che, tra le numerosissime interviste e le rispettose ospitate nei confronti dei suoi ospiti, alcune risultano invece con toni amari indimenticabili. Per esempio l’imbarazzante intervista al giovane cantautore Rino Gaetano, morto a soli trent’anni in un incidente nel 1981, alla presenza della signora Susanna Agnelli. Costanzo, con fare indisponente, lo presentò così: – E’ un cantautore che fa canzoncine ironiche, così… scherzose, scanzonate e aggressive.
La canzone scomoda a cui si riferiva è “Nuntereggae più“, una critica ai potenti dell’Italia dei tempi: gli Agnelli, i politici e i giornalisti, compreso lo stesso Costanzo. Occorre ricordare che erano gli anni successivi alle lotte studentesche, alle contestazioni politiche che davano grande spazio a comicità, vignette e, appunto, ai testi di molti artisti e cantanti. Susanna Agnelli, invece, dimostrò d’accettare e giustificare il giovane cantautore e il suo sarcasmo, dichiarando con garbo che, probabilmente, al posto suo avrebbe composto la stessa canzone.
Per onestà di cronaca, devo ammettere che v’è il dubbio che lo stesso Costanzo, in quella “infelice” intervista, abbia finto di prendere in giro il giovane cantautore, d’accordo in questa sceneggiata proprio con lo stesso Rino Gaetano.
Successivamente, mentre Costanzo aveva continuato a criticare il cantautore in vari articoli, Vincenzo Mollica scriveva: – Questo giovane cantautore aveva il coraggio delle sue azioni, nomi e cognomi di tutti e in tempi in cui fare il nome e cognome di qualcuno era molto difficile.
Alla fine anche lo stesso Costanzo, scorrendo i suoi articoli, ammise: – Dico subito che Rino Gaetano era un artista e la canzone “Nuntereggae più”, più che una canzone, è un manifesto, un coro di protesta.
Dopo circa quarant’anni chissà se Costanzo e Rino si incontreranno di nuovo…
Amazzonia, questa meraviglia sofferente, il luogo che l’Essere Umano sta distruggendo senza pietà e dove, invece, dovrebbe e potrebbe ritrovarsi. La deforestazione aumenta, a causa degli appetiti irrefrenabili di un famelico uomo (con la u minuscola), sia perché da esso provocati sia a causa del cambiamento climatico ormai inarrestabile.
Raccontare questa emergenza ai più piccoli e far comprendere quanto le foreste siano importanti per il clima oltre che immenso scrigno di biodiversità da salvaguardare, è non solo importante ma fondamentale.
Sul tema, arriva oggi uno straordinario albo illustrato dove domina il nero (un colore insolito in un libro per bambini) dell’artista peruviana Fabiola Anchorena, Aspettando l’alba, Kalandraka editore. Opera che ha vinto il prestigioso XV Premio Internazionale Compostelaper Albi Illustrati nel 2022.
Con una nota alla fine della storia, l’artista – classe 1983, laurea in architettura – dedica il suo lavoro alla foresta amazzonica, nella quale nel 2019 si è verificato uno dei peggiori incendi degli ultimi anni che ha colpito il Brasile, il Perù e la Bolivia. Alla fine del 2019, anche l’Australia aveva iniziato a bruciare, devastando la fauna selvatica e mettendo in difficoltà tre miliardi di animali. Poi era arrivato il turno degli incendi in California ed Europa (Spagna, Romania, Portogallo, Francia, Croazia, Italia e Grecia). Il 2021 aveva annoverato un altro avvenimento importante: il Generale Sherman, una sequoia gigante di oltre 80 metri d’altezza che potrebbe avere oltre 2000 anni – età precisa non nota ma la più grande al mondo -, e altre sequoie millenarie della Foresta Gigante della California, sono state avvolte, dalle radici, in enormi teli ignifughi per proteggerle dagli incendi che minacciavano il Parco Nazionale. Da questa crisi, un racconto.
La storia inizia con un viaggio: le creature del magnifico ecosistema forestale che è l’Amazzonia lo iniziano per capire perché manca la pioggia lenta che scende, perché il cielo è sempre buio pesto. Nemmeno la luna argentina fa più capolino tra le stelle.
Gli animali affiorano da quel buio come fantasmi. È da molto che non vedono l’alba.
Sembra che il sole se ne sia andato via. Pare si sia nascosto nel profondo della foresta.
Tutti gli animali sbucano dai loro nascondigli e attraversano l’oscurità per cercare quell’alba che non vedono più. Una ricerca affannosa e affannata.
Che il sole si sia stancato di sorgere? Forse è troppo grande la fatica di sorgere, ogni mattina? E perché mai fa questo? Ha perso il lume della ragione? Li ha dimenticati?
C’è chi gracchia, chi ruggisce, chi fischia e chi ulula… la carovana degli animali avanza strisciando, nuotando, volando-svolazzando e saltando-saltellando!
Ma dov’è il calore del sole? Dove si è nascosto il colore dell’aurora?
Poi un calore finalmente si avvicina e li avvolge: Ma non è IL SOLE! Non è L’ALBA!
Quella luce crudele li brucia e li scotta, non è fatto così l’abbraccio del sole…
Spavento, terrore. Gli animali fuggono, scappano per mettersi in salvo.
Solo la pioggia (e con lei la pace e la speranza) può far rifiorire lentamente la foresta.
Solo quell’acqua che salva può far riapparire la casa accogliente. Eccola.
Con essa mutano anche i colori delle pagine del racconto, dal nero si passa all’azzurro, al bianco, all’arancione, al giallo, al rosso, al verde smeraldo, ai colori tenui.
Tornano le farfalle. Nessuno è più quello di prima ma la foresta è rifiorita. Sperando quei colori restino, per sempre, in una casa che deve essere piena di vita.
Forse un albo illustrato non può fermare le organizzazioni che vedono l’Amazzonia come un’opportunità per arricchirsi, dice l’autrice, ma può far pensare, può dare voce a tutti gli animali che vedono la loro casa distrutta in nome di qualcosa che ignorano: il profitto.
Può far sognare un mondo pieno del giallo del sole, del rosso dei pappagalli, dell’azzurro del cielo e delle farfalle, del verde delle foreste, i polmoni della terra.
Un libro-protesta dove ogni immagine sembra un piccolo quadro che scivola dal nero, al celeste, al bianco, al verde smeraldo: un inno all’immensa bellezza del nostro pianeta. Quella bellezza che non resterà a lungo se non ce ne curiamo, ogni giorno.
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreriaTestaperaria di Ferrara.
Elly Schlein, la Road Runner che corre e vince per Willy il Coyote
Elly Schlein vince, e vince partendo da Bologna. Bologna la Rossa, Bologna la grassa, che digerisce tutto – al punto da digerire Pierferdinando Casini come candidato del PD nel collegio delle politiche – si è presa la sua rivincita. La svolta della Bolognina da oggi non è più solo quella di Occhetto, ma anche quella del quartiere e della città in cui Elly Schlein da Lugano (ma trapiantata a Bologna) doppia le preferenze date a Stefano Bonaccini da Campogalliano. Che si può scrivere anche così: la vicepresidente della regione rossa straccia il suo presidente. A suon di voti, e di votanti. Mi fermo un attimo su questo.
Nel 1948 furono poco più di 2 milioni gli italiani aventi diritto al voto che non si recarono alle urne, meno del 10%. Nel 2022 questo numero è salito a 17 milioni, che fa ancora più impressione della percentuale sul totale degli aventi diritto, ormai prossima al 40%.
Anche le “primarie” del PD hanno registrato un trend simile. Si va dai 3,5 milioni che votarono, in larga maggioranza, Veltroni al milione che ha scelto, con maggioranza più stretta, Elly Schlein. Però questa volta c’è un elemento di novità: una parte di quel milione che si è mosso per votare Schlein non si muove più per le elezioni generali. Un’altra parte di coloro che l’hanno votata, da tempo non vota PD. Infine ci sono gli iscritti/simpatizzanti che hanno scelto lei invece di Stefano Bonaccini.
Pur non essendo io un istituto demoscopico, sospetto che quest’ultimo sottoinsieme sia minoritario rispetto agli altri due che vanno a comporre il milione. Vale a dire: la nuova segretaria del PD è stata eletta prevalentemente da persone che non votano PD. Strano? Paradossale? Sì, ma fa parte dei rischi insiti nella scelta di far votare alle primarie di un partito tutti quelli che vogliono farlo, iscritti, simpatizzanti o meno. E’ una delle poche cose che mi sono piaciute, fino ad oggi, del PD.
Grazie a questa scelta del voto aperto a tutti, Elly Schlein ha riportato e riporterà verso il PD persone che non lo frequentavano più, se non alla sagra dell’anguilla: ma per l’anguilla, non per il PD. Molte di queste persone (a dire il vero lei stessa, che fu una delle artefici di Occupy Pd) lo hanno aspramente criticato, quel PD per la cui segretaria si sono mossi.
Anzi. Si sono proprio incazzati con lui, come quando te la prendi con chi ti delude di più, perchè era lì che riponevi le maggiori aspettative. L’ incazzatura – almeno la mia – ha raggiunto l’apice quando il partito erede (almeno in parte) della tradizione del PCI si è fatto promotore e artefice del Jobs Act, un insieme di norme funzionale a rendere ab origine precario il rapporto di lavoro, cioè a rendere ab origine incerto e non pianificabile il futuro delle persone giovani. Non che prima fosse molto meglio: le leggi sul lavoro che (dagli anni novanta in poi) hanno precarizzato, chiamandolo flessibile, il lavoro (trasformandolo in una pura merce) hanno spesso paternità “di sinistra”, e hanno prodotto un crepaccio tra la base sociale e la base politica dentro il quale sono precipitate passioni, militanze, ideali, voglia di sbattersi.
All’inizio era un boato, poi ci si è abituati al peggio, e alla fine si è sentito solo il “puff” della nuvoletta, come quando, al termine dell’ennesimo assalto fallito a Road Runner, Willy il Coyote precipita dal burrone e si schianta al suolo. Un animale descritto da Mark Twain come “una vivente allegoria dell’Indigenza: ha sempre fame, è sempre povero in canna, scalognato e senza un amico al mondo”.
Elly Schlein non ha nulla di Willy il Coyote. Ha un pedigree che è la quintessenza di ciò che un cretino definirebbe radical-chic. Figlia di professori aschenaziti di storia e diritto, nipote di avvocati socialisti, sorella di diplomatiche e matematici, secchiona, tripla nazionalità, poliglotta. Possiede la rapidità, la scaltrezza, persino la silhouette di Road Runner. Corre, instancabile, lungo le strade del suo futuro.
Se sarà lasciata da sola, potrebbe avere successo personale ma diventare imprendibile e antipatica, proprio come Road Runner (o Beep Beep come lo chiamano in molti). Se sarà aiutata e saprà farsi aiutare – che è diverso da farsi condizionare, anche se una delle sue abilità è stata di farsi appoggiare da una parte della nomenklatura – allora potrà inverare quel “Parte da Noi” che è stato lo slogan della sua campagna, e potrà essere – non da sola – la voce di quei tanti Willy il Coyote che non ce la fanno mai. Intanto lei ce l’ha fatta, e io non me l’aspettavo.
Essere una donna di 37 anni che cerca di cambiare un partito balcanizzato riaprendone le porte alla partecipazione civile non è semplice.
Esserlo in Italia, un paese bloccato e foderato di patriarchi, aggiunge un coefficiente di difficoltà supplementare.
Sono decenni che vediamo italiane e italiani – non solo “eccellenti” – che, per prendere un ascensore sociale, emigrano altrove, dove si mangia male ma si lavora bene, dove non è obbligatorio essere l’ingranaggio di una trasmissione familista, di casta o di corporazione per trovare il proprio posto nel mondo, nella politica, nel lavoro, nella cultura o anche semplicemente in un bar. Dove si è retribuiti per il lavoro fatto, senza dover ringraziare per il fatto di averne uno sottopagato. Contemporaneamente, siamo il territorio di frontiera maggiormente esposto agli arrivi di persone che si portano dentro un altro tipo di disperazione: quella della guerra, della violenza, della povertà assoluta, della crisi climatica.
Invece di fare la punta alle scarpe chiodate di questa donna, come già vedo fare, almeno oggi facciamole i complimenti e cerchiamo di chiodare le nostre, di scarpe. Nessuno può scalare da solo certe falesie, ma lei sta dimostrando di avere l’energia e la preparazione per provare a fare il capocordata.
Alla fine la Partecipazione ha piegato il FE.Ris. Ma continua la mobilitazione…
Nella serata di lunedì il Consiglio Comunale di Ferrara ha approvato all’unanimità una mozione che modifica radicalmente il progetto Feris e. di fatto, accantona il progetto originario.
Infatti, nella mozione si riconosce la necessità di avviare un processo partecipativo nella città, si stralcia l’ipotesi di costruire una nuova grande struttura commerciale in Via Caldirolo (pur mantenendo aperta la porta per una sua diversa localizzazione) e si avanza l’impegno a destinare quell’area a Parco Urbano con conseguente inedificabilità, si abbandona l’idea del parcheggio in viale Volano per vincolare quella zona a verde pubblico, si individua l’utilità, per la ristrutturazione della ex Caserma di Cisterna del Follo, di un suo dimensionamento rispetto alle ricerche storico-archeologiche da effettuarsi e, in una relazione con l’Università, di prevedere uno studentato, ma a prezzi calmierati.
Questi impegni rappresentano senza dubbio un risultato e una vittoria importante per la città, che sarebbe stata irrimediabilmente deturpata da un intervento privo di
pubblica utilità e fortemente invasivo nei confronti del sistema delle Mura, come previsto nel progetto originario di Feris.
Registriamo positivamente l’evidente retromarcia dell’Amministrazione Comunale rispetto al progetto presentato alla fine di luglio in Consiglio comunale. Ciò è stato reso possibile dal lavoro del Forum Ferrara Partecipata e dalla forte mobilitazione dei cittadini espressa in particolare in queste ultime settimane, ed anche dal recepimento delle loro istanze da parte di diversi consiglieri comunali che hanno dato vita alladiscussione in Consiglio Comunale.
Siamo soddisfatti anche dal riconoscimento che, anch’esso in modo unanime, è stato dato alla partecipazione e alla mobilitazione dei cittadini e delle Associazioni e ci auguriamo che di questo si tenga conto anche in futuro, smettendo di insinuare che essi siano animati da pregiudiziali di tipo ideologico, come è stato fatto a più riprese nei mesi passati.
Per quanto ci riguarda, continueremo nel nostro lavoro e nel nostro impegno con l’obiettivo, in primo luogo, di vigilare sugli impegni assunticon la mozione approvata in Consiglio Comunale e di consolidare ulteriormente questo risultato, a partire dal fatto di non dare corso all’apertura di una nuova struttura commerciale in una città che non ne ha bisogno. Soprattutto, andremo avanti nel coinvolgimento dei cittadini perché il progetto di ristrutturazione della ex Caserma sia effettivamente indirizzato all’utilità pubblica e alle necessità di una città che vuole guardare al futuro.
Anche per questo Forum Ferrara Partecipata ha già previsto di organizzare per martedì 14 marzo alle 18 un’assemblea pubblica a Grisù (via Poledrelli 21) per raccogliere le idee e le proposte dei cittadini in proposito. In attesa e anche come stimolo perché parta il processo partecipativo da parte dell’Amministrazione Comunale indicato dalla mozione approvata in Consiglio Comunale.
FORUM FERRARA PARTECIPATA
Nota di redazione: Mobilitarsi contro il progetto FE.Ris., lottare per difendere la città e il suo verde, rivendicare il diritto dei cittadini ad esprimersi e a contare, ha significato anche liberare la propria fantasia e creatività. La città si è riempita di lenzuoli con tante scritte diverse, molto decise ma anche originali, simpatiche, ironiche. Ad esempio, “Il FE.Ris. ferisce Ferrara”. Ma come non documentare quel ferraresissimo MAIAL (MAI AL FERIS) che è riuscito ad arrivare fino in braccio a Girolamo Savonarola?
“Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”: eh sì caro Nino, tu lo scrivesti un secolo fa e a tutt’ora il mondo nuovo tarda a comparire. Con una grossa differenza rispetto ai tuoi terribili anni, tu, voi, avevate la speranza che il mondo nuovo fosse diverso, migliore, giusto, libero. Noi no, non vediamo nessun mondo nuovo alle porte che non sia ancora peggiore di quello che stiamo vivendo ora.
Il mondo vecchio muore, per eccesso di egoismo, vittorioso e tronfio nel liberismo più sfrenato, dove il privato è bello anche nei beni primari, nella salute, nella sanità, nella scuola, nell’ambiente, nella vita. Dove col denaro si acquista tutto, dove il guadagno, il target, il budget, la ricchezza senza limiti viene perseguita sui cingoli dei carri armati, sulle ali degli aerei da guerra, sui sofisticati droni killer. Un mondo, quello nostro, dove le guerre non sono tutte uguali, dove gli eserciti di occupazione cambiano nome a seconda di chi li sta guardando. Guerre a difesa dei confini, guerre a difesa della democrazia, guerre contro il pericolo nero, guerre contro il pericolo rosso, guerre al terrorismo, guerre contro i dittatori, guerre di liberazione, guerre difensive, guerre primordiali, guerre per il petrolio, guerre per l’acqua, guerre per la terra.
Il mondo nuovo, Nino, non sarà baciato dal sole dell’avvenire, ma oscurato dal pulviscolo atomico, incendiato dai raggi prepotenti del sole, dalla polvere della siccità, dai venti impetuosi dei cambiamenti climatici. Una transizione da un terribile mondo ingiusto a un terribile mondo invivibile, dove solo i ricchi potranno galleggiare.
Quanto vorrei che nascesse un nuovo Antonio Gramsci, un nuovo Marx, una nuova Rosa Luxemburg, quanto vorrei ritrovarvi vivi. Ma forse lo siete già, basta sfogliare un libro, basta leggere e comprendere ciò che da un paio di secoli ci dite.
Ray Bradbury nel suo visionario e distopico romanzo Fahrenheit 451lo aveva capito, che in un terrificante futuro il mondo avrebbe visto i libri come primo e totale nemico. Le parole scritte, i sogni, le utopie, non muoiono con la morte dei loro autori, ma rimangono a disposizione per sempre, divenendo sempre più pericolose, perché alle volte descrivono il futuro.
Nel romanzo le squadre speciali di Vigili del fuoco, appiccano gli incendi nelle case di chi detiene libri, uccidendo spesso anche le persone che vi abitano, così come effetto collaterale, inevitabile e naturale. Nel cielo volano aerei da guerra, come presagio, che poi alla fine si avvererà. Rimangono, mal vestiti, affamati e ammalati solo sparuti gruppi di detentori di cultura, che conoscono alcuni libri a memoria, nella speranza che dopo la fine, dopo la distruzione totale, si potrà far rivivere l’umanità a partire dalla stampa di quelle vecchie parole scritte.
Come è possibile essere ottimisti in questo nostro spietato mondo moderno? Ci si trincera dentro le mura della propria casa e della propria famiglia, per chi ce l’ha. Al di fuori tutto brucia, macerie in ogni dove, i sogni rimangono nelle menti dei bambini, non riusciamo nemmeno più a sperare in un noi.
Chi ci rappresenta Nino, chi ci presta una spalla a cui poterci aggrappare, chi cammina con noi e dipinge la speranza di un mondo nuovo e più giusto, dove i confini siano orizzonti, dove le armi siano al bando, dove la guerra sia una medioevale prassi senza significato?
Le stesse parole oggi non hanno più lo stesso contenuto, un agguato fascista diventa una zuffa tra ragazzi, anche la stessa maledetta e schifosa parola guerra ha mille significati e mille sfumature, diviene pure giusta a seconda dello specchio sulla quale è riflessa. Oppressore, invasore, assassino, cambiano volto a seconda di chi li dipinge, dire che la guerra, così come Peppino disse della mafia, è una grande montagna di merda suscita dei se, dei ma e dei però.
Non esiste un assolutismo della vita e dell’amore, esiste un totalitarismo latente o palese della morte.
Dove sono le masse che hanno cambiato in meglio il mondo? Sono tutti morti? Sono vecchi e stanchi? O siamo noi figli del benessere, creato grazie agli altri, ad essere automi schiavi di circuiti elettrici che tramite interruttori ci fanno aprire o chiudere la bocca in un sorriso indotto?
Il potere, i potenti, i sultani, sono esseri umani che occupano quello spazio, perché una moltitudine silente non glielo impedisce, perché gli schiavi indossano una divisa, una tuta, un’uniforme, un abito firmato, sono spogli e nudi.
Siamo noi.
Nino, tu potessi vedere lo scempio di questo mondo moderno, fatto di luci, lustrini, schermi al litio da una parte e una umanità morente, assetata, affamata, bombardata e ammalata dall’altra.
Il benessere, la libertà e i sogni voi volevate fossero per tutti, non solo per quelli che se li potevano comprare.
Cosa c’era di sbagliato in questi tuoi pensieri? Perché ad un certo punto della storia sono stati messi da parte, sono diventati il male, sono diventate idee dalle quali vergognarci, sono state derubricate a ideologie assurde ed irraggiungibili?
Perché?
C’è stato un momento preciso in cui il tuo pensiero è stato ritenuto superato? E io che sono nessuno, ma che credo ancora in quelle tue folli idee, chi sono o meglio cosa sono? Un antico, un superstite, un ottuso, vivo scollegato dalla modernità, sono un bivalve agganciato allo scoglio del rassicurante passato?
Troppe domande e nessuna avanguardia in grado di rispondermi.
E comunque Nino, io ti voglio bene. Non me ne vergogno, anzi credo che le tue parole siano futuro e non passato, credo che siano la speranza, scritte dietro le sbarre della dittatura quasi un secolo fa, che volino laggiù verso la primavera.
E’ quello Nino il nostro cammino, e barcollando, depresso, ammaccato ma vivo, continuerò a camminare verso il rosso di quell’alba lontana.
Maupal: “Cercasi eredi”, omaggio a una generazione che se ne va
Lo street artist romano Mauro Pallotta, Maupal, fa sempre parlare di sé.
Classe 1972, è brillante, innovativo, originale, ironico non teme critiche né rivali, è un po’ il Banksy nostrano. In poche parole, libero. Anche nella scelta dei materiali utilizzati per le sue opere, dagli iniziali materiali, talvolta di recupero, all’utilizzo successivo della lana d’acciaio, a fungere contemporaneamente da tela e da materiale scultoreo.
Diventato famoso per il murale del “Super Pope” realizzato nel 2014 che raffigura il pontefice nella classica posa di Superman con in mano la valigetta dei “Valores”,
Maupal aveva completato il tris su papa Francesco con altra apparizione in via dei Tre Archi, nella zona di piazza Navona, con un Papa in monopattino (“EcoPope”, 2021) e con un altro, sul muro di Borgo Pio, a pochi metri dal Vaticano, che gioca a tris con il simbolo della pace e una guardia svizzera che fa da palo (nel 2023, cancellato il mattino dopo dai vigili antidegrado, molto attenti a questo caso e non alle terribili imbrattature cittadine…).
A Trastevere, lo avevamo visto nel 2020, quando, a settembre, era apparso un murale su un furente Donald Trump con un triplice fungo atomico che si propaga dall’improbabile capigliatura del futuro candidato premier americano e la scritta “Yes I can”.
Oggi, a farmi interessare ancora a lui – lo seguo, con ammirazione, da tempo – il suo post sulla pagina Facebook che ricorda l’opera del 2022 posizionata a Santa Sofia (Forlì-Cesena), un paesino meraviglioso nell’appennino tosco-romagnolo: “Cercasi eredi”.
Si tratta di un omaggio a una generazione incredibile che sta svanendo. I nostri padri e madri, per i più giovani i nonni o, per quelli ancora più fortunati, i bisnonni.
Gli anziani di oggi, che abbiamo visto sparire come leggere e sfortunate libellule nel periodo della pandemia, sono quelli che hanno superato guerre, povertà, terrorismo e pandemie. E senza avere molte di quelle opportunità ed evoluzioni tecnologiche che oggi a noi migliorano la vita. Non c’era internet, quello che si apprendeva arriva dai giornali o dai discorsi dei vicini. Il telefono arrivava solo ad alcuni, la televisione pure.
Ho parlato a lungo con molti di loro, negli anni, in famiglia, nei luoghi di ritrovo incluse le case di riposo, oggi fatico a trovare quei valori in cui loro hanno tanto creduto, quelli per cui hanno lottato, anche per noi. La cultura dello scarto, tanto temuta da Papa Francesco, non risparmia nessuno, soprattutto loro.
“I nostri anziani italianihanno creato un’epoca nel rispetto dell’etica, nella disciplina, nel lavoro sodo, nelle lotte e nelle conquiste sociali. Una generazione che ha fatto grande la nostra penisola, una Nazione che ora, da alcuni di noi, viene spesso offesa, sfregiata, snaturata, vilipesa. L’Italia è piena di ricchezze spesso sprecate, poco valorizzate. Una eredità quasi lasciata, letteralmente, nella spazzatura. Il mio è un monito alle giovani generazioni e un omaggio agli anziani di tutta l’Italia!” “Con quest’opera vorrei invogliare le nuove generazioni, ma anche le vecchie, a sfruttare al meglio le potenzialità del nostro paese nel rispetto dell’altro e del pianeta intero. Il mio è un monito alle giovani generazioni e un omaggio agli anziani di tutta l’Italia!” afferma Maupal.
Onore a loro, dunque. Ricordiamocene sempre. Con immenso rispetto.
Mauro Pallotta, in arte MAUPAL
Nasce a Roma nel 1972, dove frequenta il Liceo Artistico A. Caravillani e l’Accademia Delle Belle Arti di Roma. I luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza dell’artista hanno senza dubbio influenzato i contenuti delle sue opere: la vicinanza ai luoghi della politica e al Vaticano e gli stimoli intellettuali di una città multiculturale come Roma. Dopo aver raggiunto il successo nel campo della Fine Art, con esposizioni personali a Roma, a Londra e a Miami, nel 2014 l’artista elegge a proprio ambito di interesse la strada e sposta il proprio focus creativo sulla Street Art. La prima opera street, il “Super Pope”, raggiunge subito un grande successo in tutto il mondo, in quanto rappresentazione contemporanea e impenitente di Papa Francesco, simbolo di una possibile modernizzazione della chiesa cattolica.
A scrivere di lui sono tutti i principali giornali internazionali, dal Wall Street Journal a El Pais. Nel 2016 la rivista newyorkese ARTNET l’ha inserito nella classifica dei trenta street artist più influenti al mondo. Oggi collabora a iniziative sulla Street Art a livello nazionale e internazionale e le sue opere sono presenti nelle gallerie e nelle fiere di tutto il mondo.
MI RICORDO, MI RICORDO, MI RICORDO TASS
A 10 anni dalla scomparsa: 26 febbraio, ore 18, Scuola di Musica Moderna di Ferrara
Mi ricordo che, all’indomani della morte di Gide, Mauriac ricevette questo telegramma: “Inferno non esiste. Impazza pure. Stop. Gide”. Mi ricordo che Kruscev ha sbattuto una scarpa sulla tribuna dell’O.N.U. Mi ricordo un ballo che si chiamava la Raspa. Mi ricordo che la parola “robot” è una parola ceca, inventata, credo, da Carel Capek. Mi ricordo che tutti i numeri la cui somma dà un totale di nove sono divisibili per nove (a volte passavo interi pomeriggi a controllare…). Mi ricordo lo yo-yo. Mi ricordo tre modi per fissare gli sci, nella scanalatura del tacco, con un cavetto teso molto avanti sul piede, e con delle cinghie. (George Perec, Mi ricordo, Bollati Boringhieri, 2013)
Nel suo bellissimo libro “Mi ricordo”, George Perec mette in fila sulla pagina i suoi ricordi. In maniera scientifica, quasi tassonomica: i ricordi ci devono essere tutti, nessuno escluso. E in maniera caotica, assolutamente casuale: perché non puoi sapere quando un ricordo sale in superficie. Perec vuole dirci, o almeno così l’ho inteso, che “noi siamo i nostri ricordi”. E poco altro: un po’ di presente, una briciola di futuro (e non in tutti), tutto il resto è un enorme baulone di ricordi. Di cui non conosciamo neppure il fondo. Insomma, contro Shakespeare, la nostra materia non sarebbe fatta di sogni ma di ricordi.
Qualche ricordo, qualche persona ti rimane impigliata nel cuore e nel cervello, e allora il ricordo “ti ritorna su” continuamente, anche se è già passato un anno, o cinque, o dieci anni. Cosi, nel decennale della sua morte, tante persone che l’hanno amato e che lui ha amato, hanno unito in un libro i loro ricordi di Stefano Tassinari, per tanti di noi semplicemente Tass. Di seguito, trovate alcuni contributi che ho estratto a occhi chiusi dal volume.
“Sul filo del ricordo : la mutanza politica, il lavoro culturale, le passioni di Stefano Tassinari raccontati dalle compagne e dai compagni di strada” (REDSTARPRESS, 2022), viene presentato a Ferrara domenica 26 febbraio alla Scuola di Musica Moderna. Per tutti l’appuntamento è per le ore 18,00
A CURA DI
Agostino Giordano e Stefania De Salvador
CONTRIBUTI DI
Vic Albani, Checchino Antonini, Marco Baliani, Matteo Belli, Paolo Bernardi, Nicola Bonazzi, Pino Cacucci, Paolo Capodacqua, Stefano Casi, Mauro Collina, Mauro Covacich, Fausto Bertinotti, Alberto Bertoni, Giulio Calella, Salvatore Cannavò, Isabella Carloni, Daniele e Angelo (“Le Bistrot” di Dozza), Stefania De Salvador, Roberto Formignani, Paolo Fresu, Luca Gavagna, Rudi Ghedini, Agostino Giordano, Massimiliano Gregorio (Casa del Vento), Claudio Lolli, Gigi Malabarba, Roberto Manuzzi, Luigi Monfredini, Alberto Ronchi, Mauro Pagani, Alfredo Pasquali, Darwin Pastorin, Andrea Satta (Têtes de Bois), Roberto Serra, Marino Severini (Gang), Michele Terra, Riccardo Tesi, Fabio Testoni, Filippo Vendemmiati, Wu Ming 1, Yo Yo Mundi.
VECCHIO TASS
Lo chiamavamo così, Stefano. Non perché fosse tanto più anziano di noi, vi erano solo quattro o cinque anni di differenza, anche se, in quei giorni, potevano sembrare un’epoca intera, ma perché gli riconoscevamo una sua particolare saggezza. Certo, lui continuava ostinatamente ad appassionarsi per i Rolling Stones, quelli con Brian Jones degli anni sessanta, noi eravamo immersi nel post punk della fine degli anni settanta, primissimi ottanta, ma la sua capacità di costruire quasi miracolose iniziative, di realizzare concretamente le sue piccole utopie, richiamavano istintivamente quel do it yourself che era uno dei capisaldi della cultura anglosassone che più invidiavamo e cercavamo maldestramente di imitare.
Stefano era quello che aveva fondato la Cooperativa Charlie Chaplin, cui era immediatamente seguita la Scuola di Musica Moderna. Uno spazio realizzato da e per i musicisti di Ferrara, dove si potevano ascoltare e imparare chitarra acustica ed elettrica, sax, tromba, batteria, contrabbasso, basso elettrico, colmando le lacune di una scuola che relegava la cultura musicale al solfeggio e al flauto dolce. Un’intuizione talmente potente che ancora oggi la Scuola è uno dei fiori all’occhiello del panorama culturale ferrarese.
Poi, insieme a Laura Magni e altri collaboratori, aveva dato vita a «Luci della Città», senza dubbio la rivista, con i suoi deliziosi inserti fotografici, più bella e raffinata della storia editoriale ferrarese.
Ecco, la collaborazione, Stefano era un uomo del “noi”. Riusciva a coinvolgere le persone e questo coinvolgimento era una delle sue grandi soddisfazioni. Era naturalmente presente, ma evitava di accendere tutti i riflettori su di sé, ipotizzando un modello di lavoro dove tutti, a partire da lui, erano coinvolti in ogni fase realizzativa. Con il passare degli anni ha mantenuto e rafforzato queste sue caratteristiche, riuscendo, tra le tante iniziative ideate e organizzate, a portare pubblico e scrittori alla mensa universitaria di Ferrara per incontri letterari, preceduti da ordinate file pronte a servirsi del cibo preparato dalla mensa. Il titolo, immediato e geniale, non poteva che essere In Mensa con l’Autore.
Non si può nemmeno dimenticare, già negli anni 2000, l’omaggio a Demetrio Stratos, realizzato al Teatro dell’Argine di San Lazzaro, uno dei luoghi a lui più cari, dove è riuscito non soltanto a riformare gli Area, ma a far imbracciare di nuovo, dopo decenni, un basso elettrico ad Ares Tavolazzi.
Tutto questo e tanto altro, era strettamente legato a una precisa visione del mondo, a una coscienza politica che, aldilà del trotskismo a cui si richiamava, era, ancora una volta, concretamente, fatta di richieste alle istituzioni modeste rispetto ai progetti presentati e alla mole di lavoro ipotizzata (perché i soldi pubblici sono pubblici, appunto), ma, soprattutto, di prezzi popolari, nella convinzione che tutti, ma proprio tutti, dovessero avere accesso alla cultura. La coerenza tra quello che si pensa e quello che si fa, dote oggi quasi completamente scomparsa, era la linea guida seguita da Stefano. Sicuramente poteva essere eccessiva e fastidiosa, a volte, ma, in alcune occasioni raggiungeva momenti quasi surreali, che non potevano non far sorridere e renderlo, lui, un po’ serioso come tutti i sessantottini, estremamente simpatico. Come quando, dalla gradinata della Spal, rimproverava da solo, urlando, gli ultras della Curva Ovest a cui sfuggivano sberleffi vagamente razzisti nei confronti di un giocatore avversario. Ed è proprio così che mi piace ricordare il Vecchio Tass. Alberto Ronchi
LA SINISTRA NEL PALLONE
Ci sono sere che racchiudono speranze, segreti, sorprese. Sere tra amici, tra gente come te, specchio di un mondo che non finirà mai, perché in questo mondo regnano la tolleranza, la libertà, il rispetto per gli altri, la voglia di stare insieme. In sere così si può parlare di calcio, che è poi uno dei tanti percorsi della nostra vita, dove s’intrecciano, in sottili arabeschi, amore e politica, gioia e dolore.
Festa di Liberazione a Bologna, sull’affacciarsi di una notte tiepida e nello sciabordare di una nostalgia di ritorno, Stefano Tassinari, scrittore di spessore, ci ha portati nella sala dibattiti: Rudi Ghedini, Michele Serra e io, l’unico juventino del gruppo. Gli altri, interisti sfegatati, con Tassinari che conosce una sua salvezza nel tifare anche per la Spal. Lo spunto è dato dal libro, bellissimo, di Ghedini, “Semifinale”, che narra di una vittoria preludio di una sconfitta nella finale (a San Siro, contro tedeschi senza arte né parte: questo è, in maniera ormai iconografica, il destino di chi, sui quarant’anni, è nerazzurro), ma pure di passioni amorose, sociali, di dubbi e verità, contraddizioni e certezze, dove possono giocare, fianco a fianco, Manicone e Karl Marx, Rummenigge e Batman. Titolo della serata: La sinistra nel pallone, e come poteva essere diversamente?
Ci siamo divertiti, certo: sberleffi, ricordi dolceamari, la Juve operaia di Heriberto Herrera, l’Inter del Mago, Carletto Dell’Omodorme e Cerilli, Vladimiro Caminiti e Gianni Mura, ma anche considerazioni su un pallone che ha perso le sue radici e la sua identità, che vorrebbe cancellare la favola del Chievo. Stefano, Michele e Rudi sono stati, come sempre, magnifici; io giocavo in trasferta ma sono riuscito a difendermi – penso – con onore, puntando, come si conviene, sul contropiede. Ho avuto l’onore di leggere pagine di Frei Betto e di Eduardo Galeano, di riportare sul verde del prato Garrincha (Mané Garrincha sono io!). Soprattutto, ho avuto la fortuna di trascorrere una serata vera, intensa, leggera, tra belle parole
e belle persone. Nel suo romanzo, Rudi Ghedini schiera in campo la squadra della sua vita. Scrive: «Per una scelta davvero autobiografica, non ha senso selezionare in base alle vittorie. Altrimenti, spiccano gli eroi dei quattro scudetti (Burgnich, Facchetti, Jair, Mazzola, Corso), insieme ai campioni del mondo (Marini, Oriali, Altobelli, Bergomi), e la formazione sarebbe già fatta con Zenga e Suarez nei ruoli mancanti. Ma certi giochetti devono sfuggire alle classifiche di rendimento, ai rigorosi moduli tattici, se non per escludere una squadra senza portiere e con quattro centravanti. Procedo dunque per sottrazione. Lascio da parte i calciatori in attività, poi quelli che, praticamente, non ho mai visto all’opera ed ecco il risultato: Bordon, Oriali, Brehme, Marini, Mozzini, Mandorlini, Fanna, Mazzola, Boninsegna, Matthaus, Rummenigge». Io sfido questa Inter con la mia Juve del cuore: Zoff, Gentile, Leoncini, Furino, Brio, Scirea, Causio, Tardelli, Anastasi, Cinesinho (chiedo scusa a Platini, ma Sidney Cunha Cinesinho ha giocato nel Palmeiras), Bettega. Vittoria scontata. Per noi. Darwin Pastorin da Tempi supplementari. Partite vinte, partite perse, Feltrinelli, 2002.
STEFANO; SE TU SAPESSI QUANTO
Stefano, se tu sapessi quanto
mi ha dato la tua vita, e la disarmonia
che, col gioco di prestigio dell’incanto
e la magia
delle parole che ti ostini a pronunciare
in questo porto misero di mare
come se il mondo fosse nei tuoi libri,
cerchi di allontanare
allora i viaggi nella vecchia Ford
e il pilota automatico a guidare
a parlare
di testi che nessuno leggerà
guardarsi dentro non è mai importante
ma quando tu tacevi, cuoco strano,
tifoso della Spal
Ferrara ed un bambino
giocare a calcio e poi
verso quel chiosco verde di gelati
correre insieme
tenendosi per mano. Claudio Lolli
(da Rumore rosa, Stampa Alternativa, 2004)
C’è un bellissimo sito a lui dedicato, messo insieme pezzo per pezzo dai suoi amici. Raccoglie un numero incredibile di scritti, documenti visivi, progetti, testimonianze, forse un decimo di quello che Stefano ha sognato di fare e ha fatto nella sua vita operosa, un centesimo della persona che è stato e che tanti hanno avuto modo di conoscere. Il sito è bellissimo, con in cima la sua firma in rosso. Se volete visitarlo lo trovate[Qui]
Gran parte dell’intrattenimento online ha assunto le fattezze di un prodotto usa e getta: lo consumiamo nel minor tempo possibile e con il minor sforzo possibile, assecondando nel frattempo i nostri gusti e le nostre convinzioni. Che ci piaccia o meno, ci stiamo abituando al ritmo dettato dagli algoritmi delle piattaforme di streaming e dei social network, i quali, tra l’altro, sono nel bel mezzo di una crisi d’identità.
Sta accadendo tutto in fretta, ed è proprio a causa di tale fretta che la nostra soglia dell’attenzione è calata a una velocità sorprendente. Se diamo un’occhiata alla musica del 21esimo secolo, la durata media delle canzoni più popolari è scesa di circa 50 secondi in poco più di vent’anni: si è passati dai 2 minuti e 45 secondi del 2000 al minuto e 57 secondi del 2022, e il dato continua a scendere.[Qui]
L’accorciamento delle canzoni diventa più evidente a partire dal biennio 2017-2018, cioè da quando TikTok si è pian piano intromesso nel nostro rapporto con la musica, mischiandola con l’intrattenimento istantaneo dei social network. Non a caso, le canzoni – o sarebbe meglio dire i ritagli di canzoni – che hanno più successo su TikTok durano in media 19,5 secondi. [Qui]
Inoltre, avere a portata di mano un catalogo musicale sconfinato può renderci meno pazienti, e quindi più inclini a “skippare”, cioè a saltare di brano in brano dopo pochi secondi di ascolto. Se non ci piace una canzone, o comunque non è adatta ad accompagnare ciò che stiamo facendo, sappiamo che ci sono milioni e milioni di alternative.
Di conseguenza, ascoltare un album dall’inizio alla fine sta diventando un’abitudine in via d’estinzione, quasi al pari dell’acquisto degli stessi dischi – fatta eccezione, forse, per il recente revival del vinile. Il mercato va in un’altra direzione, che è quella dei singoli, dei featuring e della ripetizione in loop della stessa canzone. D’altronde, se la durata media di un brano è di due minuti, non ci resta che riprodurlo più e più volte per sentirci appagati.
Ciò che possiamo fare, quindi, è domandarci se e quanto l’accorciamento delle canzoni mainstream continuerà a farci compagnia. Beh, a meno che l’industria discografica non collassi improvvisamente, è probabile che le piattaforme di streaming continuino a dominare e a indirizzare il mercato ancora per un po’. Lo fanno da circa un decennio, e al momento rappresentano circa l’85% degli incassi. Lo stesso discorso vale per TikTok, che, al netto della recente decisione della Commissione Europea, ha avuto un’influenza fin troppo evidente sui suoi concorrenti e sulle nostre abitudini musicali.
Tuttavia, è altrettanto plausibile che tra qualche anno non ci ritroveremo a canticchiare singoli di 35 secondi, né tanto meno a perdere del tutto la nostra capacità di concentrazione. Il futuro lo stiamo già scrivendo, e non è detto che sarà più arido o meno genuino del passato. Seppur con rivisitazioni, ripescaggi di sonorità e ritornelli a tutto volume, si tratterà pur sempre di arte, e non di matematica – a meno che l’intelligenza artificiale non sviluppi la sensibilità artistica di Paul McCartney o Peter Gabriel; in tal caso abbraccerei più che volentieri la retorica del “signora mia, dove andremo a finire?”.
Per il momento, parafrasando una delle scene più “memate” da noi millennial, potremmo dire semplicemente che le cose cambiano, si evolvono. E pure in fretta. Forse troppo in fretta.
Mani, voce del verbo misurare, preparare, costruire, riparare, tendersi, dischiudersi, aprirsi. Mani che stringono, aprendo l’intimità; mani che trattengono, liberando dall’estraneità; mani che lottano conquistando dignità; mani che si abbassano per rialzare, mani che tengono per mano e intrecciano nel presente il domani.
Tendo la mano al sole d’oriente
e non ritrovo l’alba né salvezza
alcuna solo l’ombra di una pianta
secca cresciuta tra le rocce nude
nel nulla infisse le radici senza
terra fa giorno in questa fredda plaga
occidentale fa giorno e nessuno
si risveglia migliore tutto è come
ieri non sopportabile da vite
senza voce da corpi senza luce
abbandonati al giogo della roba
d’altri desiderata contro leggi
degli uomini e di Dio riconosco
il volto del dolore di chi tende
la mano per toccare un’altra mano
amica e si ritrova con un soldo
che tinge il palmo di vergogna senza
pietà le pagine del mondo scorrono
mentre l’ombra del vincitore
devasta il formicaio ed una lunga
notte mostra gli artigli che imprigionano
il sole che si spegne ad occidente
Non vivere domani il tuo presente
(Gianpaolo Anderlini, Distopie, Fara editore, Rimini 2020, 22)
Fiducia e fede nelle mani
«Una volta Rabbi Pinhàs di Korez si sentì turbato nella sua fede in Dio e non trovò altro rimedio che di andare a trovare il Baalshem. Udì allora che egli era appunto arrivato nella sua città. Pieno di gioia corse alla locanda. Diversi chassidim si erano raccolti intorno al Maestro, ed egli stava parlando su quel versetto della Scrittura che dice che le mani di Mosè, tese in alto nell’ora della battaglia contro Amalek, erano “emuna”, cioè fiducia, fede.
“Avviene talvolta – diceva il Baalshem – che si è turbati nella propria fede in Dio. Il rimedio contro questo è di pregare Dio di rafforzare la fede in noi. Ché il vero male che Amalek arrecò a Israele fu che con il suo fortunato assalto fece raffreddare la loro fede in Dio. Perciò Mosè, con le sue mani tese al cielo, che erano come la fiducia e la fede stesse, insegnò loro a pregare Dio che li rafforzasse nella fede, e questo solo è ciò che importa nell’ora della battaglia contro la potenza del male”. Rabbi Pinhàs l’udì, e il suo udire stesso fu preghiera, e già nella preghiera sentì la sua fede farsi forte» (Martin Buber, I racconti dei Chassidim, Garzanti, Milano 1979, 103-104).
Giù le mani
«Giù le mani dall’Africa. Non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare». È stato questo il grido di papa Francesco nei suoi tre giorni in Africa, durante la sua visita nella Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan.
Giù le mani dalla dignità di un popolo e da coloro che con la loro vita e il loro sangue lo riscattano dalla corruzione. Nel suo intervento ha ricordato Floribert Bwana, ucciso a 26 anni a Goma per aver bloccato il passaggio di generi alimentari deteriorati, che avrebbero danneggiato la salute della gente:
«Avrebbe potuto lasciare correre, non lo avrebbero scoperto, anzi ci avrebbe guadagnato… Mantenere le mani pulite, mentre le mani che trafficano soldi si sporcano di sangue… Se qualcuno ti allungherà una busta, ti prometterà favori e ricchezze, non cadere nella trappola, non farti ingannare, non lasciarti inghiottire dalla palude del male. Non lasciarti vincere dal male, non credere alle trame oscure del denaro, che fanno sprofondare nella notte, vinci il male con il bene!… Diciamo insieme: no alla corruzione».
Queste parole le ha ripetute in Sud-Sudan: “no” alla corruzione, ed ha aggiunto “no” ai traffici di armi, ricordando i minori costretti alla guerra; essi sono come «un grido che sale a Dio e che accusa gli adulti che hanno messo le armi nelle loro piccole mani»; un «crimine abominevole» che deruba i bambini «della loro infanzia, della loro innocenza, del loro futuro, tante volte della loro stessa vita. Diciamo invece “sì” all’incontro e al dialogo. Solo così potrà esserci sviluppo, la gente potrà lavorare in pace, i malati curarsi, i bambini andare a scuola».
Riferendosi in particolare all’ex Zaire e alle sue innumerevoli risorse nel nord Kivu ha evidenziato lo sconcertante paradosso che in questo paese «i frutti della sua terra lo rendono “straniero” ai suoi abitanti… un dramma davanti al quale il mondo economicamente più progredito chiude spesso gli occhi, le orecchie e la bocca».
Nelle mani
Nel testo poetico di Anderlini, Distopie (utopie negative), risuonano, si intrecciano le parole del Papa. Il quale, prendendo tra le sue mani le piaghe del paese africano, ha ascoltato le testimonianze dei sopravvissuti alle atrocità e al massacro nel Kivu, le sofferenze delle molte persone vulnerabili esposte alle sofferenze indicibili dovute a corruzione, sfruttamento indiscriminato delle risorse, incursioni di bande armate, mancanza di medici e medicine, ai pregiudizi sociali.
Di fronte a questo fosco scenario, paragonabile a un buco nero di fronte al quale anche la fede è turbata, egli sì è domandato: «vale la pena impegnarsi di fronte a un oceano di bisogno in costante e drammatico aumento? Non è un darsi da fare vano, oltre che spesso sconfortante?». Come a dire: vale la pena battersi là dove gli sfruttatori neo coloniali, «l’ombra del vincitore/ devasta il formicaio ed una lunga/ notte mostra gli artigli che imprigionano/ il sole che si spegne ad occidente?».
Dai giovani, che erano in 65 mila festosi e danzanti ad accoglierlo nello stadio di Kinshasa, è venuta a Francesco la risposta: «voi mi avete detto ne vale la pena e c’è bisogno che soprattutto i giovani vedano questo: volti che superano l’indifferenza guardando le persone negli occhi, mani che non imbracciano armi e non maneggiano soldi, ma si protendono verso chi sta a terra e lo rialzano per riconsegnarlo alla sua dignità…
In questo Paese, dove c’è tanta violenza che rimbomba come il tonfo fragoroso di un albero abbattuto, voi siete la foresta che cresce ogni giorno in silenzio e rende l’aria migliore, respirabile. Non mi avete fatto un elenco di problemi sociali, enumerato dati sulla povertà, ma mi avete fatto incontrare nomi e volti».
Non solo denuncia ma la profezia deve tradursi in un faccia a faccia, in operosità etica e corresponsabilità. Ecco allora l’invito a «fuggire l’autoritarismo disarmando i cuori bellicosi; favorire libere elezioni, trasparenti e credibili; estendere ancora di più la partecipazione ai processi di pace alle donne, ai giovani, ai gruppi marginalizzati; rafforzare la limpida presenza dello Stato lottando contro la corruzione e contrastando le ingerenze straniere che destabilizzano intere aree geografiche… Tutto questo investe di responsabilità delle comunità cristiane, cattoliche e di ogni altra tradizione e denominazione».
Guardate dentro alle vostre mani
…ovunque capiti
di vivere mattino pomeriggio
e sera forse domani si recita
a soggetto con libere parole
e liberi pensieri ed una smorfia
di piacere impigliata tra le labbra)
(e se) così comincia l’avventura
(oggi) in quel domani che non viene
(provassimo) così come sperato
(a sognare) nel fango dell’attesa
(senza maschera) sono nudo e tremo
(“Echi”, Distopie, 52)
…
mi consolo dicendo che bisogna
riportare la terra in terra e il cielo
in cielo e ritrovare l’orizzonte
per evitare che la terra torni
piatta ed il maelstrom (gorgo) della vita sbucci
ginocchia e mani di chi ancora prega
e chiede di tornare a casa oggi
e non l’ottavo giorno quanto tutto sarà per tutti casa e più nessuno
sarà lontano dal suo luogo ora
domani è solo un oggi che si attarda
(Gianpaolo Anderlini, Incontri, Fara editore, Rimini 2020, 64)
Così in questo oggi che fatica a divenire domani papa Francesco ha detto ai giovani che riempivano lo stadio della Capitale congolese il 2 febbraio: «Sono felice di avervi guardato negli occhi, di avervi salutato e benedetto mentre le vostre mani levate al cielo facevano festa.
Ora vorrei chiedervi – ha proseguito Francesco – per alcuni momenti, di non guardare me, ma proprio le vostre mani. Aprite i palmi delle mani, fissateli con gli occhi. Amici, Dio ha messo nelle vostre mani il dono della vita, l’avvenire della società e di questo grande Paese.
Fratello, sorella, le tue mani ti sembrano piccole e deboli, vuote e inadatte per compiti così grandi? Vorrei farti notare una cosa: tutte le mani sono simili, ma nessuna è uguale all’altra; nessuno ha mani uguali alle tue, perciò tu sei una ricchezza unica, irripetibile e incomparabile. Nessuno nella storia può sostituirti.
Chiediti allora: a che cosa servono queste mie mani? A costruire o a distruggere, a donare o ad accaparrare, ad amare o ad odiare? Vedi, puoi stringere la mano e chiuderla, diventa un pugno; oppure puoi aprirla e metterla a disposizione di Dio e degli altri».
Come un diamante nel creato è il vostro paese e «la Chiesa e il Papa hanno fiducia in voi, credono nel vostro futuro, in un futuro che sia nelle vostre mani e nel quale meritate di riversare le vostre doti di intelligenza, sagacia e operosità… Coraggio, fratello e sorella congolese! Rialzati, riprendi tra le mani, come un diamante purissimo, quello che sei, la tua dignità, la tua vocazione a custodire nell’armonia e nella pace la casa che abiti. Rivivi lo spirito del tuo inno nazionale, sognando e mettendo in pratica le sue parole: “Attraverso il duro lavoro, costruiremo un Paese più bello di prima; in pace”».
Cinque nomi per le dita della mano
«Giovane che sogni un futuro diverso, dalle tue mani nasce il domani, dalle tue mani può venire la pace che manca a questo Paese. Ma come fare concretamente? Vorrei suggerirvi alcuni “ingredienti per il futuro”: cinque, che potete associare proprio alle dita di una mano.
Al pollice, il dito più vicino al cuore, corrisponde la preghiera, che fa pulsare la vita. Può sembrare una realtà astratta, lontana dalla concretezza dei problemi. Invece la preghiera è il primo ingrediente, quello fondamentale, perché da soli non ce la facciamo. Non siamo onnipotenti e, quando qualcuno crede di esserlo, fallisce miseramente. È come un albero sradicato: anche se grande e robusto, non si regge in piedi da solo…
…Ora guardiamo al secondo dito, l’indice. Con esso indichiamo qualcosa agli altri. Gli altri, la comunità, ecco il secondo ingrediente. Amici, non lasciate che la vostra gioventù sia rovinata dalla solitudine e dalla chiusura. Pensatevi sempre insieme e sarete felici, perché la comunità è la via per stare bene con sé stessi, per essere fedeli alla propria chiamata. Invece, le scelte individualiste all’inizio sembrano allettanti, ma poi lasciano solo un grande vuoto dentro.
…Preghiera, comunità; arriviamo al dito centrale, che si eleva al di sopra degli altri quasi a ricordarci qualcosa di imprescindibile. È l’ingrediente fondamentale per un futuro che sia all’altezza delle vostre aspettative. È l’onestà! Essere cristiani è testimoniare Cristo. Ora, il primo modo per farlo è vivere rettamente, come Lui vuole.
Ciò significa non lasciarsi imbrigliare nei lacci della corruzione. Il cristiano non può che essere onesto, altrimenti tradisce la sua identità. Ma – mi chiedo – come si sconfigge il cancro della corruzione, che sembra espandersi e non fermarsi mai? Ci aiuta San Paolo, con una frase semplice e geniale, che potete ripetere fino a ricordarla a memoria. Eccola: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rm 12,21).
…Siamo al quarto dito, l’anulare. Lì si mettono le fedi nuziali. Ma, se ci pensate, l’anulare è anche il dito più debole, quello che fa più fatica ad alzarsi. Ci ricorda che i grandi traguardi della vita, l’amore anzitutto, passano attraverso fragilità, fatiche e difficoltà.
Ma, nelle nostre fragilità, nelle crisi qual è la forza che ci fa andare avanti? Il perdono. Perché perdonare vuol dire saper ricominciare. Perdonare non significa dimenticare il passato, ma non rassegnarsi al fatto che si ripeta. È cambiare il corso della storia. È rialzare chi è caduto. È accettare l’idea che nessuno è perfetto e che non solo io, ma tutti quanti, hanno il diritto di poter ripartire.
…Preghiera, comunità, onestà, perdono. Siamo all’ultimo dito, il più piccolo. Tu potresti dire: sono poca cosa e il bene che posso fare è una goccia nel mare. Ma è proprio la piccolezza, il farsi piccoli che attira Dio. C’è una parola chiave in questo senso: servizio. Chi serve si fa piccolo. Come un minuscolo seme, sembra sparire nella terra e invece porta frutto.
Secondo Gesù il servizio è il potere che trasforma il mondo… Servire non è restare con le mani in mano, è mobilitarsi. Tanti si mobilitano perché calamitati dai propri interessi; voi non abbiate paura a mobilitarvi nel bene, a investire nel bene, nell’annuncio del Vangelo, preparandovi in modo appassionato e adeguato, dando vita a progetti organizzati, di lungo respiro. E non abbiate paura di far sentire la vostra voce, perché non solo il futuro, ma anche l’oggi è nelle vostre mani: siate al centro del presente!».
Il gesto e la parola le tue due mani per riparare il mondo
Sento ancora il respiro delle cose
amate e la carezza di una mano
amica l’onda lunga di un abbraccio
e il lento spandersi del bene nelle
pagine aperte e non ancora scritte
Moltiplica la grazia e forse il male
si siederà lontano all’orizzonte
opaco del passato e sentirai
l’affanno delle mani rifiutate
ed il respiro corto del dolore
altrui (prova da solo a riparare
il mondo con titanica tenacia
e non lasciare nulla d’intentato
perché non ci sarà nessuno a fare
qui ed ora la parte che ti attende)
Basta un sorriso a riparare il mondo (?)
(Orme, in Distopie, 17).
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]
Anche se non avete mai giocato, se non conoscete le regole, le mosse, strategie e tattiche per attaccare e difendersi, sapete benissimo come funziona la storia. C’è un re, una regina e un esercito bianco che combatte (fino alla morte) contro un re, una regina e un esercito nero. Nel “gioco di guerra più antico del mondo” (ma sicuramente si ‘giocava alla guerra’ molto prima dell’invenzione degli Scacchi) c’è un’ unica regola d’ingaggio, un solo obbiettivo: VINCERE. E per vincere si possono ‘sacrificare’ alfieri e cavalli, perfino la regina, ma soprattutto i pedoni, la massa dei soldati semplici.
Negli Scacchi – nella guerra simulata come in ogni guerra polvere e sangue – vittoria e sconfitta non sono i soli due esiti possibili. La terza strada, quando i giocatori si rendono conto di essere in ‘stallo’, che si può continuare all’infinito ma vincere sarà impossibile, è quella della ‘patta’.
‘Fare patta’ non significa ‘fare la pace‘. La pace, il tempo della gentilezza e dell’abbraccio, potrà arrivare molto dopo: ci vorranno anni, decenni per scordare il sangue della guerra. Ma intanto ‘si fa patta’, si depongono le armi. L’odio per il nemico c’è ancora, ma si capisce che nessuno può vincere, che continuare la guerra non servirebbe a nulla. Nel gioco degli scacchi sarebbe solo tempo perso. Nel realtà, invece, continuare il gioco della guerra, non serve più a vincere, ma a vendere altre armi, fomentare i nazionalismi e moltiplicare il numero dei morti.
Scena Seconda: quel comunista di Rodari
A poco più di 100 anni dalla nascita (Trieste 1920) la stella di Gianni Rodaricontinua a brillare. Le sue filastrocche parlano ai bambini e agli adulti di tutto il mondo: in Europa, in Russia, in America. Per tutti, e non da oggi, Rodari non è più, classica diminutio: “un autore per l’infanzia”, ma un grande scrittore e poeta. in assoluto.
Pochi invece ricordano che l’autore della celebre Grammatica della fantasia era un convinto comunista, scomunicato nel 1951 dalla Chiesa Cattolica. Come mai questa amnesia? Insomma, non serve tanta fantasia. Qualcuna, per fortuna, ce lo ricorda: rimando al bell’articolo di Vera Roghi sul manifesto di oggi: Gianni Rodari, il comunista delle filastrocche.
La pace era un chiodo fisso di Gianni Rodari. Il no alla guerra, la ragione della pace (pace ovunque: tra i piccoli come tra i grandi) ritorna in decine di sue poesie e filastrocche. Lui la guerra l’aveva vissuta direttamente, e per tutta la vita continuerà a scrivere dell’idiozia della guerra e della bellezza della pace. Su Periscopio ne abbiamo scritto spesso, anche ieri Simonetta Sandri, La luna di Kiev di Gianni Rodari.
Scena Terza: quando la guerra diventa inutile
Oggi 24 febbraio 2023 è un anno esatto dal giorno dell’invasione russa in Ucraina. In realtà la Guerra del Donbass era cominciata molto prima, nel 2014, quando l’esercito regolare ucraino si opponeva alle forze separatiste russofone, ma si sa che ai media e ai libri di storia piacciono le date precise, quindi oggi sarebbe l’anniversario. Un anno di guerra, moltissimi morti dall’una e dall’altra parte, militari e civili, bambini compresi.
Una guerra orrenda e fratricida perché tra russi ed ucraini ci sono mille legami: linguistici, culturali, familiari. Una guerra voluta e guidata da grandi potenze e da grandi interessi economici e militari. Infine, e oggi la cosa è sotto gli occhi di tutti, una guerra in utile. Più inutile di qualsiasi guerra, anche ammettendo ci siano guerre utili e giuste, perché tutti i commentatori e gli esperti militari ammettono che questa guerra è senza sbocco. La Russia non potrà vincere. L’Ucraina non potrà ricacciare i russi oltre le sue frontiere.
L’unico esito certo di questa guerra è che non avrà un esito. Non ci sarà un vincitore e un vinto. Si continuerà a combattere all’infinito, a conquistare e a perdere questo o quel villaggio, avanzare e ritirarsi da quel pezzo di terra, arriveranno altri missili e carrarmati. ma nessuno può ragionevolmente sperare nella vittoria.
Scena Quarta: se non ora quando?
Joe Biden è volato a Kiev da un raggiante Zelensky promettendo 25 miliardi di dollari per armare l’Ucraina. Subito dopo è arrivata una ridicola Giorgia Meloni in cerca di una piccola gloria anti Macron. Sembra che nessuno tenga conto che l’unica fine possibile a questa guerra è accettare una patta. Solo questa consapevolezza, solo un sano realismo può portare alla trattativa, alla tregua, quindi alla pace.
Proprio oggi, venerdì 24 febbraio, c’è molta attesa per la proposta di trattativa avanzata dalla Cina. Si può sperare che si tratti di una ipotesi concreta e realistica e non, come fino ad oggi, di parole vuote e proclami propagandistici. Certo sarebbe stato meglio se, invece di moltiplicare le sanzioni e di inviare armi, fosse l’Europa (fiancheggiata dall’ONU e svincolata dagli Stati Uniti)) a farsi promotrice di un piano di pace, convincendo le due parti in conflitto a un immediato cessate il fuoco.
Ma come si fa a ‘fare la pace’ dopo anni di una guerra sanguinosa? Come è successo per altri conflitti, l’accordo di pace potrebbe prevedere la temporanea costituzione della regione del Donbass come territorio smilitarizzato, sotto la tutela delle forze ONU. Un territorio pacificato né russo né ucraino, dove però siamo garantiti tutti i diritti civili sia alla popolazione di lingua ucraina sia a quella russofona. Solo al termine di questo governo provvisorio (ad esempio di 5 anni) si potrà pensare ai passi successivi.
Una piccola morale pacifista
Non credo, anche se lo spero. che l’anniversario della guerra porterà un po’ di giudizio e di realismo nella mente di Putin e di Zelensky , almeno per risparmiare altro inutile sangue ai loro popoli. Dovrebbero essere gli altri Capi di Stato europei a fargli capire che la trattativa e la pace è l’unica soluzione percorribile. Anzi, ad imporglielo.
Dall’inizio del conflitto, e fino ad oggi, è stato il movimento pacifista a sostenere questa tesi. Tantissimi gli appelli, le iniziative, le manifestazioni, compresa la marcia dei 150.000 del novembre scorso a Roma.
Sono stati trattati, i pacifisti, come sognatori o disfattisti. Dei terribili piantagrane.
Erano invece gli unici con i piedi per terra.
Joy Story, un corto sull’importanza della gentilezza
Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile. Sempre. Platone
I cortometraggi animati sono pillole preziose di messaggi importanti, perle che arrivano dritti al cuore e alla mente. Pochi minuti, in un mondo pervaso dalla fretta, che tutti possono trovare nelle lunghe, interminabili e affollate giornate.
Ci sono tante produzioni di tale tipo, Pixar, ad esempio, ne produce molte.
Empatia, comprensione, solidarietà e gentilezza sono i pilastri di Joy Story, una produzione cinese del 2018, diretta da Kyra Buschor, Constantin Paeplow e Kenneth Kua. Omaggio alla Cina nell’anno del cane, il 2018 appunto.
Con questi teneri, simpatici e muti quattro minuti, restiamo sorpresi dal potente effetto di donare con tutto il cuore: ogni buona azione porta con sé una meravigliosa e inattesa ricompensa. Lo scopriremo cammin facendo.
È la storia di Joy, un buffo e sospettoso cagnolino bianco con un grande naso che va a pescare con il padrone e si scontra con un airone un po’ fastidioso e invadente, Heron, un animale che nella cultura orientale simboleggia la bontà.
Joy è felicissimo di andare a pesca, saltella qua e là nel vedere pesci e libellule, scodinzola. Finché sulla barca arriva un alto, allampanato e strano animale che sembra volere proprio i vermi che si trovano nell’appetitoso e ghiotto cestino delle esche.
Un dispetto al suo amato padrone? Il furto va evitato, a tutti i costi.
Il cielo è limpido e il mare è calmo, ma la pesca notturna pare turbata da quell’intruso. Inizia la lotta, un vero – e divertente – braccio di ferro fra i due animali. Il padrone non è cosciente di quanto accade, anzi rimprovera Joy per quella confusione che non comprende. La scena si ripete.
Ma perché mai quell’airone ruba le esche? Cosa se ne fa?
Non diamo nulla per scontato, non fermiamoci alle apparenze, non traiamo mai conclusioni affrettate. Dietro le apparenze e i comportamenti strani, ci sono persone con bisogni diversi. Per le proprie azioni, ognuno ha le sue ragioni. Lo capiremo sul finale.
Joy Story, di Kyra Buschor, Constantin Paeplow, Kenneth Kuan (creative director), 2018
La Marcia della Pace Perugia-Assisi. Nel buio della notte, in cerca della luce
di Luca Liverani,
inviato a Perugia (su Avvenire, venerdì 24 febbraio 2023)
Conclusa all’alba alla basilica di San Francesco l’edizione straordinaria della manifestazione del movimento pacifista nell’anniversario dell’invasione dell’Ucraina. “Cessate il fuoco e negoziati”.
Mancano cinque minuti alle sei del mattino – e ancora una mezz’ora all’alba – quando, tra i portici della piazza Inferiore di San Francesco, il bagliore delle fiaccole annuncia l’arrivo ad Assisi della Marcia della pace. Un migliaio di coraggiosi ha percorso nel buio della notte oltre 20 chilometri di strada. Sono partiti poco dopo la mezzanotte da Perugia, nei primi minuti di questo 24 febbraio, primo e doloroso anniversario dell’invasione russa in Ucraina, per dire “No alle guerre”, come recita lo striscione nero che apre questa manifestazione straordinaria. E’ il culmine delle iniziative in 100 città italiane di Europe for peace, il cartello di associazioni, enti locali e sindacati che compongono il movimento per la pace. E si chiudono domani sera in piazza del Campidoglio a Roma con una fiaccolata.
La partenza della marcia a Perugia – Foto Liverani
Alla partenza ai Giardini del Frontone di questa marcia straordinaria, notturna e fortemente simbolica arrivano ragazzi, anziani, suore, frati, sindaci con la fascia tricolore. Ci sono anche due giovanissime ragazze ucraine strette nella loro bandiera. Tutti chiedono ancora una volta a una politica sorda, distratta e incosciente di attivare la diplomazia per un cessate il fuoco, propedeutico a una conferenza di pace. Vogliono che l’Italia e l’Europa abbandonino la scorciatoia pericolosa e a senso unico delle armi. Tante le bandiere arcobaleno, come quella lunga venti metri che segue la testa del corteo. E poi quelle delle Acli (c’è il presidente Emiliano Manfredonia), dell’Anpi, di Emergency, e i gonfaloni degli enti locali.
La partenza della marcia a Perugia – Foto Liverani
Flavio Lotti, il coordinatore della Marcia, ha una coccarda con i colori dell’Ucraina appuntata sul petto e da Perugia dà il via. Nella notte umida e fredda (fortunatamente non troppo) si cammina alla luce delle fiaccole, in un’atmosfera suggestiva e intensa. Il pensiero va a chi da un anno vive notti da incubo, tra gli allarmi antiaerei, senza luce e senza riscaldamento.
Nel buio della ragione. Il corteo sfila per Ponte San Giovanni, Collestrada, Bastia Umbra. La strada è lunga e le fiaccole pian piano si consumano.
La partenza della marcia a Perugia – Foto Liverani
Ad accogliere la marcia, dopo l’ultimo chilometro in salita, è una Assisi inedita: silenziosa, buia e deserta. Il canto dei merli che annuncia l’aurora regala un anticipo di primavera. Le fiaccole lunghe un metro ora sono ridotte a meno della metà. Lo striscione arcobaleno si stende nella piazza Inferiore della basilica, poi – spente le torce – si entra nella basilica per scendere alla tomba di San Francesco. C’è il custode del Sacro Convento di San Francesco di Assisi, padre Marco Moroni, ad accogliere i marciatori che silenziosamente, con le bandiere arrotolate, scendono nella cripta per chiedere aiuto al Santo della pace.
Padre Moroni prega a nome di tutti: “Frate Francesco, uomo di pace, abbiamo camminato insieme, abbiamo scelto di fare fatica per condividere le fatiche di chi è schiacciato dall’arroganza dei prepotenti. Di notte, sapendo che per molti la notte è dura da troppo tempo. Nel freddo, pensando a chi non ha né legna né affetti con cui riscaldarsi. Ora davanti a te – prega il frate – imploriamo il dono della pace, consapevoli che anche i nostri cuori non sono disarmati e ancora dobbiamo imparare la difficile arte del perdono”.
L’arrivo della marcia ad Assisi – Foto Liverani
Al giovane che da soldato si fece frate e andò a parlare col Sultano d’Egitto armato solo della fede, padre Moroni chiede di intercedere “per la pace per ogni popolo che soffre ingiustizia, per le nazioni in conflitto. Sia pace negli occhi dei bambini che già troppo hanno visto e subito violenza. Sia pace nelle fantasie dei giovani e in chi ha il dovere di educarli. Sia pace nei cuori delle donne che aspettano notizie dei loro cari, in quanti coltivano un’esistenza fatta di egoismo e sono sopraffatti dall’odio”.
E soprattutto “sia pace finalmente – chiede il Custode – in coloro che portano nel cuore progetti di morte. Frate Francesco, vinca la pace nei pensieri dei governanti di ogni nazione, degli aggressori e degli aggrediti, degli oppressori e degli oppressi, dei potenti e dei sottomessi. E possa ciascuno con saggezza creativa, con geniale intraprendenza, con tenacia costruttiva, con sacrificio infaticabile e con il tuo aiuto intuire e realizzare percorsi nonviolenti di riconciliazione e di pace”.
Il cammino dei costruttori di pace si ferma, ma non è finito. Prossimo appuntamento domenica 21 maggio per l’edizione ordinaria, diurna – e affollata come sempre – della Marcia della pace Perugia Assisi, che stavolta accoglierà anche tanti ragazzi delle scuole. Nella speranza che qualcosa sia cambiato nei tanti luoghi dove è ancora buio.
Cover. l’arrivo all’alba della Marcia per la Pace ad Assisi – Foto Liverani
“I pensieri sono come le onde del mare, vanno, vengono, si increspano, spumeggiano si infrangono, svaniscono.”
(Romano Battaglia)
I BACI
Un bacio tra due donne
come un ibrido di rosa
bicolore sfumato lieve
profumato d’intesa.
Un bacio tra due uomini
come rami nel pineto
odorosi e verdi, rumorosi e secchi
di resina appiccicati.
Un bacio tra due sessi diversi
come schiuma nella sabbia
assorbita con fragore nel silenzio
indifferente agli occhi della gente.
(Poesia edita “Controfobie” – Eretica edizioni, 2021)
A PIEDI UNITI
In quel punto esatto
dove a piedi uniti
premo sulla sabbia bagnata
leggermente sprofondano
pensieri, azioni ed intenti.
Guardo quell’ombra formarsi intorno
e permango in attesa
di un’onda, dell’onda
della forza che m’inonda.
Affonda e ritorna
la spuma circonda
come nebbia spettrale
l’assenza e l’essenza
la gioia e il tormento.
Mi getto mi bagno respiro
vivo. Acqua sabbia sale
un pane bagnato
indissoluto
sotto i miei piedi.
Coraggioso attendo,
il vento.
(Poesia edita “Controfobie” – Eretica edizioni, 2021)
CHIEDILO ALLA NEVE
Chiedilo alla neve perché ci amiamo:
si scioglierà per divenir sorgente
o muterà in ghiaccio che scalfiremo.
Poi un giorno diverrà vapore
e moriremo lievi.
Poesia edita “Oltre la neve” – La Vita Felice, 2022
DOVREI
Dovrei guardare oltre lo scalino
dove poggia la pianta del piede
al prossimo passo ed invece
inciampo sempre nello spigolo,
ripetutamente batto la punta
e cado. È il rialzarsi che duole,
lo spigolo è intatto ma la scarpa
è smussata – le manca un pezzo.
(Poesia inedita)
CIELO FERMO
Staccano le nubi
di ritorno al vento
e indietreggio.
Il cielo è fermo
a guardare chi s’inventa
per sopravvivere.
L’uomo è debole
di fronte al buio cade
-essere ciechi aiuterebbe.
(Poesia inedita)
Antonio Corona,
Nato a Sassari (1972) vive a Torino dal 2008. Veterinario di professione, appassionato di poesia, arte e cucina partecipa alla fondazione dell’Associazione Culturale Vivere d’Arte di Torino di cui è tuttora consigliere. Solo in età adulta decide di pubblicare (2020) le sue due prime sillogi poetiche “I segreti del cuore” (Ensemble Edizioni) e “Ritorneremo ad essere” (Albatros, Il Filo). Vincitore del Primo Adrenalina 6.0 nella sezione poesia, pubblica nel 2021 “Controfobie” con Eretica Edizioni e partecipa all’antologia poetica “Dalla stessa parte – uomini contro la violenza sulle donne” (La Vita Felice).
Partecipa a numerosi concorsi nazionali ed internazionali aggiudicandosi importanti premi e piazzamenti anche nel settore della narrativa (racconti brevi), tra cui il primo posto al Premio Internazionale Fōrma Cultura 2022. Inserito tra i poeti accreditati al portale WikiPoesia, è attualmente impegnato nella diffusione della poesia attraverso il gruppo di “Vivere d’Arte-Letteratura”, il blog letterario “Leggere Poesia” e fa parte della redazione della rivista poetica e di critica letteraria Nuova Euterpe. Ha condotto con successo una rubrica d’arte per l’innovativo portale web StyLise Magazine. È membro dell’Associazione Culturale Euterpe (Jesi) e di Periferia Letteraria (Torino). La sua più recente pubblicazione: “Oltre la neve” (la Vita Felice, 2022).
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]
Un titolo qualsiasi dai giornali di oggi, 23 febbraio 2023: “Attacco hacker all’Italia dopo la visita di Meloni a Kiev: colpiti siti del governo, imprese, carabinieri e banche”. I presunti responsabili scrivono che hanno colpito i “siti russofobi” (Sic!). mentre il nostro governo assicura che questa volta l’agenzia per la cybersicurezza si è mossa tempestivamente, evitando danni permanenti ai siti sotto attacco. Episodi del genere sono comunque sempre più all’ordine del giorno e né i siti pubblici né quelli privati possono dirsi sicuri e protetti al cento per cento. L’articolo del nostro collaboratore Alberto Poggi affronta proprio questo tema. (La redazione di Periscopio)
C’era una volta Cappuccetto rosso nel paradiso di internet…
Poi ha incontrato i pirati.
Un bilancio dei danni provocati nel nostro Paese dall’attacco informatico segnalato dalla Francia qualche giorno fa, è ancora in corso di definizione, ma ciò che più sconcerta, stando alle indicazioni della nostra Agenzia per la cybersicurezza è che decine di aziende non sanno neanche di essere sotto attacco, mentre dovrebbero immediatamente aggiornare i loro sistemi.
A dispetto della scarsa attenzione mediatica riservata alle problematiche connesse con la sicurezza informatica, l’Italia è, secondo diverse fonti [vedi Qui] e [Qui], nella top five dei paesi più colpiti al mondo dai malware digitali. A fronte di questa alta vulnerabilità, l’Italia investe appena lo 0,08% del PIL in cybersicurezza, ultimo tra i Paesi del G7, anche se il trend sembra avviato finalmente verso una crescita decisa.
Anche l’impatto sulla nostra quotidianità non è trascurabile. Se solo scorriamo le cronache dello scorso anno, sono diversi i disservizi provocati da attacchi hacker. Nella lista troviamo il CUP della Regione Lazio, Trenitalia ed Eni.
I danni economici diretti o indiretti di questa guerra non-convenzionale sarebbero ingenti, ma si sa, noi italiani – dalla pubblica opinione alla leadership politica – nutriamo una forte idiosincrasia per la prevenzione. Secondo le stime della nostra Agenzia per la cybersicurezza, mancherebbero centomila figure professionali specializzate. Ma anche una formazione di base diffusa sui rischi connessi con la digitalizzazione se, come sembra da una prima ricostruzione, l’ultimo grave episodio di pirateria sarebbe riconducibile in primis al mancato aggiornamento di uno specifico software.
I consigli della mamma
Chiunque usi un computer dovrebbe infatti sapere che per navigare in rete con una relativa tranquillità, non basta attenersi alle poche avvertenze comportamentali che anche la mamma faceva a Cappuccetto rosso:
1 ) Non accettare inviti allettanti da sconosciuti. Ovvero non cliccare sul primo link interessante che ci viene offerto, senza prima averne verificato la fonte.
2 ) Evitare di abbandonare il sentiero già battuto per scorciatoie poco note. Fuor di metafora, non visitare siti di cui non si hanno riferimenti o referenze.
3 ) Non scartare pacchetti o regali offerti senza ragione. Quindi, mai aprire allegati di email sospette o ambigue, anche se inviate da indirizzi noti. Molto spesso infatti, le porte ai malintenzionati vengono aperte dall’interno, per negligenza, sciatteria o superficialità.
Qualcuno potrebbe obiettare che il grido d’allarme sul cybercrime proviene soprattutto da organizzazioni del settore, ovvero da coloro che hanno tutto l’interesse a “gonfiare” stime e reale entità del fenomeno. Purtroppo, questo non è vero. I dati raccolti, infatti, si riferiscono ai soli “eventi” in qualche modo documentati e/o documentabili ed a riprova di questo, basterebbe citare, ad esempio, il Global Risk Report del World Economic Forum che dal 2019 ha posto il rischio derivante dagli attacchi informatici di varia natura e finalità, al primo posto per impatto e probabilità di accadimento, insieme ai disastri naturali ed agli effetti globali del climate change.
I nuovi pirati
A ingarbugliare questa già complessa matassa, contribuiscono anche i risvolti geopolitici. La pirateria informatica ha infatti tanti tratti comuni con quella immortalata nel celebre romanzo “L’isola del tesoro”. I corsari che attaccavano le navi per impadronirsi di quanto di prezioso c’era nei loro carichi, compresi importanti personaggi, per i quali poi veniva richiesto un adeguato riscatto, rimandano immediatamente all’attualità, ovvero agli attacchi volti al furto di dati e alla tecnica del Ransomware, un neologismo inglese formato da ramsom (riscatto) e da malware (software malevolo).
Molto spesso i corsari che attaccavano i galeoni spagnoli erano al soldo di Francia ed Inghilterra, o comunque godevano della loro tacita copertura politica. La collocazione dei principali gruppi hacker sembra essere ad est e rimandare alla Russia ed alla Cina. Prove ufficiali evidentemente non ce ne sono, ma forti indizi sì. Non a caso la presidenza Biden è partita proprio subendo due gravissimi attacchi informatici.
“Il primo è il Solarwinds hack: in sintesi, un attacco che ha compromesso gli aggiornamenti del software di Solarwinds, fornitore globale di soluzioni per il monitoraggio dell’infrastruttura IT (…); l’attacco è stato in realtà molto mirato, ignorando gran parte dei clienti Solarwinds, e andando dritto alla meta (governo Usa ma anche altri soggetti di interesse)… Il secondo è l’attacco ai server Exchange di Microsoft, mosso in questo caso attraverso una serie di vulnerabilità che permettono la compromissione della posta e delle reti interne di intere organizzazioni.” (tratto da Guerre di Rete – una newsletter di notizie cyber; a cura di Carola Frediani N.100 – 21 marzo 2021)
La reazione del governo federale non si è fatta attendere, con la costituzione di una task-force proprio dedicata al cyber-crimine, in particolare al ransomware. Negli Stati uniti, nel 2021, sono state 2400 le organizzazioni colpite con questa tecnica criminale. Comprese 1700 tra scuole ed università, 560 strutture sanitarie. L’incremento sul 2019 è stato del 300%, rimarcando quindi una tendenza ormai ineludibile, almeno laddove esistono dati ufficiali in materia ed un accesso alla rete non soggetto a controlli governativi, quindi in gran parte dei paesi OCSE.
Nelle raccomandazioni elaborate dalla task-force statunitense, troviamo l’espressa richiesta di avviare anche azioni diplomatiche nei confronti di quegli Stati che danno copertura e/o tacita protezione alle organizzazioni di pirateria informatica. Difficile segnare il confine tra la propaganda e la reale consistenza di queste indicazioni. Ancora più complesso trovare informazioni sufficientemente attendibili su queste materie, ormai terreno di scontro aperto soprattutto tra Stati Uniti, Russia e Cina. Di mezzo ci sta la governance della rete e sostanzialmente due idee opposte della stessa.
Governance sotto accusa
La governance attuale è nata circa 50 anni fa negli Stati Uniti. Il modello è sinteticamente definibile amulti-stakeholder, poiché dall’inizio degli anni 90 del secolo scorso, il controllo della rete, fino ad allora strettamente nelle mani del governo federale USA, viene aperto ai privati. “Tale decisione cambiò radicalmente lo sviluppo della tecnologia ed influenzò profondamente quella che sarebbe diventata la struttura dell’Internet governance. Durante quegli anni di espansione della tecnologia, Internet venne fondato su una governance limitata e ristretta. Il ruolo statale e governativo nella gestione di tale tecnologia venne quindi fortemente ridotto, privilegiando piuttosto l’autonomia e la libertà di azione del settore privato.” (Carolina Polito “Il futuro dell’Internet governance e le crescenti spinte verso una sovranità cibernetica” in “LA GEOPOLITICA DEL DIGITALE”, Edizioni Nuova Cultura per l’Istituto Affari Internazionali, 2019).
Questo modello si è sostanzialmente perpetuato fino ai giorni nostri, solo che la visione per certi aspetti utopica della rete quale “paradiso libertario di autodeterminazione individuale”, ha lasciato il posto ad una realtà molto più complessa e segnata da interessi economici e geopolitici ben precisi (su questi aspetti si veda ad esempio il testo di Evgeny Morozov, “L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet”, ed. Codice, 2011).
Senza entrare troppo nei dettagli tecnici, possiamo dire che tale governance, a forte trazione statunitense, è stata fortemente contestata da diversi governi: Russia e Cina in primis, ma anche India e Brasile, per citare solo i principali. Sostanzialmente due le contestazioni sollevate: quella della sicurezza e, strettamente collegata a questa, il ruolo dell’ICANN, ovvero dell’organismo che rappresenta per così dire il cervello di internet. “Coloro che hanno contribuito alla progettazione di questa rete (…) si sono concentrati sulle sfide tecniche legate allo spostamento delle informazioni in modo rapido e affidabile. Quando pensavano alla sicurezza, prevedevano la necessità di proteggere la rete da potenziali intrusi o minacce militari, ma non prevedevano che gli stessi utenti di Internet un giorno avrebbero usato la rete per attaccarsi a vicenda.” (Craig Timberg, “A Flaw in the Design”, in The Washington Post, 30 maggio 2015)
Quello della sicurezza e quindi della pirateria informatica, è dunque una indiretta conseguenza del tipo di architettura usata per la sua costruzione, ovvero delle priorità che la sua governance si è data. Sono i limiti posti alla sovranità degli stati nello spazio cibernetico che ne impedirebbero, secondo molti governi, la sicurezza.
La prima occasione in cui queste critiche si sono espresse in modo organizzato, è stata durante il vertice della International Telecommunication Union (ITU), l’Agenzia delle Nazioni Unite responsabile per la definizione degli standard internazionali per le telecomunicazioni.
Siamo nei primi anni Duemila e gli incontri dell’Agenzia incentrati sul “digital divide”, allo scopo di sostenere lo sviluppo delle tecnologie informatiche nei paesi più poveri, si spostano sul tema della governance della rete. E’ il delegato brasiliano a denunciare lo strapotere degli Stati Uniti all’interno dell’ICANN. La negoziazione in materia si conclude nel 2012 con un nulla di fatto: 89 Paesi sottoscrivono il nuovo accordo, 55 si dichiarano contrari.
Il sovranismo conquista la Rete
L’epilogo si ha l’anno dopo, nel 2013, a seguito delle rivelazioni di Edward Snowden, il militare cherende pubblica la massiccia e duratura operazione di sorveglianza del governo degli Stati Uniti, attraverso la National Security Agency (NSA), in numerosi Paesi, anche alleati.
Il ruolo egemone degli USA e delle multinazionali statunitensi che a questa operazione da Grande Fratello hanno prestato occhi e orecchi, non può più reggere, aprendo così all’attuale capitolo della breve, ma intensa, vita di internet. Questo inevitabile processo di globalizzazione della governance della rete, paradossalmente sta portando alla sua regionalizzazione, con un nuovo e per diversi aspetti pericoloso, protagonismo dello stato-nazione.
E’ del 2019 l’annuncio della Russia del proprio test di disconnessione dalla rete internet, con il varo di RuNet.[Vedi qui] Tale varo fu dichiarato a scopo “difensivo”, con esplicito riferimento ad eventuali attacchi hacker dall’esterno. Che precedettero invece l’invasione dell’Ucraina, fino al tentativo, ad ostilità avviate, di impadronirsi della sua rete, condizionandone le possibilità di connessione verso l’esterno. [Qui]
Analoga capacità sta pianificando la Cina, che nel proprio 14° Piano quinquennale per lo sviluppo economico (2021-2025) comprende la cosiddetta Digital Silk Road (la via della seta digitale) che, se da una parte è finalizzata a potenziare la connettività digitale del Paese con il resto del mondo, dall’altra non prevede affatto l’apertura della propria rete.
Il sovranismo nella rete diventa così la riaffermazione della sicurezza, con tutto quello che questo può comportare, anche in termini di flusso informativo. Su questa scia si stanno incanalando anche altre entità statali come l’India o l’Iran. Interessante a questo proposito l’intervento del presidente francese in occasione dell’Internet Governance Forum tenutosi a Parigi nel 2018, laddove auspica il superamento della falsa dicotomia in cui finora ci si è mossi: da una parte la completa autogestione della rete, dall’altra un internet frammentato e pienamente controllato da stati autoritari.
Purtroppo si predica bene, ma si razzola male, anche nell’UE, come sembrano indicare le scelte sulla gestione dei dati in cloud.
Tre Cappelli e un volto per costruire una Storia: iscriviti in biblioteca al laboratorio di scrittura creativa
Ascoltare e raccontare storie è un modo per prendersi cura della vita. È questa, dopotutto, la ragione di “25: le storie di Elin e gli altri”, il laboratorio pensato da Elena Buccoliero e Miriam Cariani prendendo spunto dai ritratti dipinti da Miriam ed esposti alla Biblioteca comunale “Niccolini”, in Via Romiti 13 (a pochi passi dalla Biblioteca Ariostea), fino al 25 febbraio.
I volti sono quelli di venticinque bambini e bambine migranti conosciuti dall’autrice nel suo lavoro presso l’Ufficio Stranieri della Cgil di Ferrara.
L’occasione è importante per provare a capire la necessità da cui sono mossi ma è, tutto sommato, ininfluente quando si è dinanzi a quegli occhi bambini, belli per quanto sono espressivi e veri, non per una probabile condizione di bisogno nella situazione personale o familiare.
Sono i volti di 25 piccoli cittadini che hanno un vissuto da raccontare e diritti da esercitare per diventare grandi in modo equilibrato.
La proposta, per chi vorrà raccoglierla, è quella di tratteggiare le storie che quei volti potrebbero raccontare. O, se lo si preferisce, immaginare una favola dedicata a loro, come si inventa una fiaba prima di dormire.
Il laboratorio si sviluppa grazie a tre cappelli che rimarranno disponibili alla “Niccolini” anche oltre il termine della mostra. Ogni narratore ne estrarrà tre elementi: un nome, una cosa, una persona.
Il primo è il nome attribuito da Miriam a uno dei suoi ritratti. (Al partecipante verrà donata la riproduzione del ritratto in dimensione ridotta in modo che possa tenerla con sé, coccolarla, lasciarsi interrogare da quello sguardo bambino.
Il ritratto tutto intero potrà rivederlo quando vorrà, negli orari di apertura della biblioteca: Martedì e Giovedì dalle 15.00 alle 19.00 e Mercoledì e Sabato dalle 9.00 alle 13.00.
Nel secondo cappello sono contenuti biglietti che riportano i nomi di oggetti, sarà chi scrive a stabilire se sono oggetti magici oppure di uso quotidiano.
Il terzo cappello, infine, riporta l’indicazione di personaggi da mettere in relazione con il protagonista come compagni di viaggio, aiutanti, antagonisti…
Nell’infinita libertà della scrittura, si propone a 25 persone di cucire una trama che riguardi uno di quei bambini, associandolo all’oggetto e al personaggio estratti. Potrà essere un racconto fantastico o un viaggio di formazione, una favola, un’avventura, una poesia, una lettera, una storia familiare o di amicizia. Ogni trattazione è ammessa, entro due pagine di word, in modo che tutte le storie possano essere lette ad alta voce sabato 8 aprile, dalle ore 10 in avanti, presso la Biblioteca “Niccolini”.
Il laboratorio non ha limiti di età, è gratuito ed è possibile partecipare singolarmente o come gruppo, ad esempio una classe potrebbe fantasticare insieme su uno di quei volti.
Infine, chi si iscrive è vivamente pregato di inviare una email a elineglialtri@gmail.comindicando il proprio nome e quello del bambino, o della bambina, che ha estratto, in modo che sia possibile monitorare l’evolversi del laboratorio.
Il contatto e-mail servirà anche per raccogliere i testi prima della lettura e per impaginarli in un quaderno digitale insieme ai volti che li hanno originati.
Dove trovi i 3 cappelli:
BIBLIOTECA CASA NICCOLINI Orari Contatti Martedì e giovedì 15.00-19.00 Mercoledì e sabato 9.00-13.00 Mar, gio e ven 9-12,30 (su prenotazione per gruppi organizzati)
Contro la guerra: “La luna di Kiev” di Gianni Rodari (1955)
La luna di Kiev di Gianni Rodari è una poesia scritta nel 1955, tratta dalla raccolta Filastrocche in cielo e in terra, edita da Einaudi, nel 1960. Un commovente appello alla solidarietà tra gli uomini, oggi più necessario e attuale che mai.
Ricordarci che siamo tutti sotto lo stesso cielo e che andiamo tutti incontro allo stesso destino dovrebbe bastare a far capire l’idiozia e l’insensatezza della guerra.
La luna è sempre la stessa, non cambia, da qualunque punto di vista e luogo la si guardi, e brilla sulle tragedie dell’umanità come un simbolo incondizionato di pace.
È democratica, perché si fa ammirare da tutti, è intelligente perché lascia spazio a ciascuno. È umile perché non ostenta la sua bellezza. Regina incondizionata dei cieli, vigila su un mondo che non ha confini, non chiede documenti a nessuno.
Inno senza tempo alla fratellanza dei popoli, oggi La luna di Kiev riappare in una delicata edizione illustrata da Beatrice Alemagna, per Einaudi, il cui ricavato è devoluto alla Croce Rossa Internazionale, Emergenza Ucraina.
Perché la Luna di Kiev è la luna di tutti.
Rileggiamola insieme.
Servono parole giuste, da gridare con forza.
Dopo giorni che sembrano anni una botta risveglia i ricordi, spesso suscitata dalla scomparsa di persone care. Essi si allontanano e sembrano non tornare e il fragile filo che li trattiene minaccia di spezzarsi. Occorre immediatamente ricoverarli nella mente e nel cuore.
In questo modo con volontà tenace ti adopri a mettere in atto il concetto di fratellanza. E per spiegarne le modalità e il senso è necessario ricorrere alla più grande studiosa di quel tema, la ferrarese, fiorentina, sassarese Monica Farnetti autrice dell’affascinante libro Sorelle. Storia letteraria di una relazione Carocci editore, 2022, del quale mi sto apprestando a darne conto in una articolata recensione.
Sorelle ma anche fratelli, cioè coloro che vuoi trattenere accanto a te per accompagnarti nella modificazione e sviluppo del tuo essere al mondo e nel mondo. Possono essere congiunti di sangue o mediatici che per casi assai complessi non ubbidiscono più a quel richiamo.
Si crea quindi una presenza/assenza che può far male, molto male, e che ineluttabilmente t’impone alla presa di coscienza di ciò che sta avvenendo. Tutti coloro che ti stanno accanto seguono una inesorabile via di cambiamento.
Pensano – giustamente – di non sottrarsi alla fraternità del cuore, quella che per anni hanno condiviso con te e con chi ti sta più vicino compagno o compagna di una vita, ma di fatto ciò avviene; allora tutto sembra sfaldarsi e ritornare confusamente nel grande mare dell’essere.
Disperatamente i ricordi fanno da barriera, ma vengono respinti dalla ineluttabilità del cambiamento. Solo qualcuno eletto dal destino si piega al tentativo del contrasto. È necessario allora ricorrere allo scatto della mente e a riconoscere che solo usando quella (e meglio ancora se accompagnata dai moti del cuore) saprai forse sconfiggere il subdolo progetto della dimenticanza.
Tu puoi consapevolmente e fiduciosamente ricorrere agli amici più fidi, pronti a tutto per aiutarti: libri, musica, arte. Specchiandoti in loro potrai ritornare alla vita.
Per leggere tutti gli altri interventi di Gianni Venturi nella sua rubricaDiario in pubblicoclicca[Qui]
“Re Dollaro” può generare la futura crisi finanziaria mondiale?
Avete presente quando all’orizzonte si affacciano enormi nuvole nere? Beh, siamo in una situazione simile. Le banche centrali stanno operando la più grande stretta monetaria di tutti i tempi, alzando i tassi di interesse per frenare l’enorme inflazione. Significa che i mutui costeranno di più mandando in sofferenza milioni di famiglie e imprese e ciò porterà ad una recessione nel 2023. Ma il grosso problema è che oggi c’è una fragilità finanziaria enorme rispetto a 20 anni fa. Ciò a causa della enorme crescita della speculazione, per cui nel mondo ci sono 600mila miliardi di derivati tipo i Cds (Credit Default Swap) che servono a imprese, fondi pensione, etc. per assicurarsi in caso di fallimenti per forti variazioni nelle valute o nel prezzo delle merci, dovuto all’aumento delle materie prime. E poi ci sono i “margin call”, quegli anticipi che oggi bisogna dare se variano molto i prezzi (come nel caso del gas). E il rischio è che ci siano fallimenti di alcuni fondi pensione, imprese, grandi banche (Credit Suisse…) che trascinerebbero nel baratro l’economia reale, com’è avvenuto nel 2008.
Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve Usa dal 2006 al 2014, ha preso il premio Nobel per l’economia 2022 avendo “inventato” il Quantitative Easing, cioè una immissione di liquidità senza precedenti (che è peraltro proprio una delle cause dell’inflazione Usa), strumento che poi usò anche Draghi. Che poi a pagare siano state non le banche che hanno generato la crisi (e i loro manager), ma milioni di lavoratori americani ed europei è un dettaglio che poco interessa all’Accademia svedese: ciò che conta è premiare nuove stilizzazioni economico-finanziarie, che siano in grado di garantire la finanza e le banche anche quando falliscono (a spese dello Stato e dei cittadini).
Così crescono ovunque i tassi sui mutui casa (in UK sono volati al 6%, non accadeva dal 2008) con debiti pubblici e privati che nel mondo occidentale sono saliti a 305mila miliardi: un’alta inflazione è un toccasana per gli Stati (occidentali, non per i paesi poveri) mentre per i privati sono guai seri (sia occidentali che dei paesi poveri).
Siamo avviati dunque verso una nuova recessione: la BCE (Banca Centrale Europea) ha ridotto le stime di crescita del Pil del 2023 dal 2,1% allo 0,9%. Al di là del PIL, è l’occupazione che preoccupa perché il rischio, con bollette alle stelle e alta inflazione (che è prevista durare 2-3 anni), è la chiusura di migliaia di piccole e medie imprese con una perdita eccezionale di monte ore lavorate e conseguente impoverimento complessivo – peraltro, in modo strisciante, già in atto nell’ Unione Europea da almeno 20 anni per la maggior parte della popolazione. A rischiare sono le imprese europee che pagano ora il gas agli Usa 6-7 volte tanto di quanto pagavano alla Russia e che, diventando meno competitive di quelle americane e asiatiche, perderanno quote di mercato indebolendo l’Europa. Il fatto che Ucraini e Russi se la passino peggio di noi non è una consolazione: il detto “mal comune mezzo gaudio” in questo caso non vale.
Recessione e alta inflazione sono frutti della guerra in corso in Europa ma soprattutto di quella “mondiale” e finanziaria tra Cina-Russia da una parte, e Usa dall’altra, per un Nuovo Ordine Monetario Internazionale, in cui Cina e Russia vogliono uscire dal dominio del dollaro come unica moneta internazionale di riserva e si apprestano a creare una loro moneta internazionale scambiata nell’altra metà del mondo che non è l’Occidente. Se il dollaro si basa sulla finanza, lo yuan si baserà sulle materie prime. Entrambi posseggono gli altri due pilastri necessari per disporre di una moneta internazionale: potere economico e potere militare.
Questa “guerra mondiale” economica e geopolitica è forse una delle cause di fondo della guerra tra Russia e Ucraina: nel momento in cui la Russia si è resa conto che non poteva più contare su un’alleanza con l’Europa, ha sciolto ogni riserva a favore della Cina, contrapponendosi agli Usa (e all’Europa, sua fida alleata). Gli indizi sono i seguenti: a) il dollaro ha iniziato la sua ascesa già da giugno del 2021 (9 mesi prima dell’invasione russa) dopo il meeting della Nato proprio sulla Russia; b) nella primavera del 2021, 54 banche d’affari e 154 fondi speculativi sono entrati nel mercato del gas Ttf di Amsterdam, che oggi è gestita da ICE, una società americana i cui azionisti sono i più potenti fondi finanziari americani, che controllano anche la borsa Nyse di Wall Street.
Oggi il 90% degli scambi in valuta estera e il 50% dell’export e dei crediti bancari avviene in dollari Usa. Il Dollar Index, un paniere che calcola l’andamento del dollaro in rapporto ad un paniere di alcune valute (tra cui euro, yen, franco svizzero, e sterlina) è cresciuto del 23%, il livello più alto da 20 anni e l’euro è sceso sul dollaro da 1,22 a 0,97, sotto i valori del 2002. Si consideri che 1 euro al suo massimo di espansione sul dollaro -2008- valeva 1,60 dollari: da allora è sceso in modo costante fino a 0,97 di oggi. Lo yen è calato in un anno del 25%, euro e sterlina del 20%, dollaro australiano del 16%, dollaro canadese del 9%.
Così, mentre tutti i paesi sono costretti a vendere le proprie riserve in dollari pur di difendere il loro cambio e non svalutare la propria moneta oltre certi livelli, i prezzi delle importazioni (in dollari) crescono, come il pagamento (sempre in dollari) dei loro debiti: 5.500 miliardi di dollari è l’ammontare dei debiti che devono rimborsare i paesi poveri entro l’anno(fonte Institute International Finance, Iif). Si rischia quindi una nuova crisi finanziaria globale finché non si arresterà la crescita del tasso di interesse della Federal Reserve (ora al 3,5%, con un ulteriore rialzo previsto fino al 4,25%) per contenere l’inflazione Usa (ora al 9%).
Intanto le bollette di gas e luce in Europa sono alle stelle. Il fenomeno non è tanto dovuto al mancato approvvigionamento di gas russo, che ormai è solo il 15% del totale dei consumi europei, né ai contratti che hanno fatto i nostri importatori con Gazprom che, essendo decennali, hanno un prezzo del gas 10-20 volte inferiore a quello spot del Ttf; è dovuto alla speculazione, che è in mano agli americani.
L’idea di fondo era che ci sarebbe stato un accordo di lungo periodo con la Russia non solo da parte della Germania ma anche dell’Europa. Ma la Merkel non aveva messo nel conto l’invasione dell’Ucraina e la vittoria dei socialdemocratici e dei verdi tedeschi, molto più legati ai dem americani. Così la politica “estera” tedesca si è accodata pedissequamente agli Usa, che non vogliono nel modo più assoluto un accordo Russia-Europa per evitare che si crei un secondo competitor mondiale oltre alla Cina. Alleati sì, ma chi comanda sono loro (come in Afghanistan e nel resto del mondo).
A farne le spese saremo così noi cittadini europei e soprattutto molte delle nostre piccole e medie imprese, spazzate via dall’impoverimento e sostituite da catene di multinazionali (americane?). Come diceva Alfredo Reichlin 30 anni fa: “I mercati guidano, i tecnici eseguono e i politici vanno in tv”.
E’ interessante osservare che i grandi fondi speculativi (Vanguard, Blackrock,…) che controllano la borsa privata ICE Endex di Amsterdam (il famoso Ttf) sono gli stessi che controllano le grandi case farmaceutiche che hanno prodotto i vaccini mRna. Dopo la pandemia, ora tocca al mercato del gas di restituire la massima remunerazione.
L’importante è operare sulla paura, il più potente dei tranquillanti per tenere a bada il popolo. Il Financial Times calcola che sino ad oggi gli Stati Europei hanno speso per mitigare appena gli aumenti di gas e luce circa 500 miliardi (di cui 49,5 li ha spesi l’Italia), e siamo solo all’inizio. Difficile pensare che Scuola e Sanità (ormai al collasso) possano avere iniezioni di spesa pubblica nei prossimi anni. I soldi servono per le armi e per mitigare le bollette alle stelle.
Chissà che la gente non si svegli e capisca che l’Europa deve pensare anche ai suoi interessi (come ha fatto Israele, approvando l’annessione della Crimea nel 2014). Ciò dovrebbe significare l’introduzione di prezzi amministrati per gas e luce, la creazione di un grande settore pubblico dell’energia con acquisti comuni (anziché comprare in 27),come fece Mattei con ENI contro lo strapotere delle 7 sorelle anglo-sassoni negli anni ’60, visione che forse gli costò la vita in quel tragico volo. Ma per fare questo bisogna essere indipendenti da qualcuno. “Il nostro modello ha dei limiti” ha detto Ursula von der Leyen. Bontà sua.
Sul concetto di Donazione: morte cerebrale, stato vegetativo e donazione gestazionale
“Prima un morto lo riconosceva anche un bambino. La morte era legata alla cessazione del battito del cuore. Bastava appoggiare l’orecchio sul cuore, sentire il freddo che avviluppa un corpo nel quale il sangue cessa di fluire, per riconoscerla. Oggi non è più così, oggi c’è anche la morte cerebrale e la dichiara un team di medici. Una nuova forma di potere su cui riflettere.”
Scrivevo così in un articolo pubblicato su Periscopio qualche tempo fa [vedi qui]. Ecco, oggi è venuto il tempo di ragionare sul termine donazione, su come viene intesa oggi da certa medicina e anche da certa filosofia, parola che da positiva e solidale si è trasformata in una parola disincarnata, ad uso delle teorie transumaniste più spaventose.
Anna Smajdor, docente di bioetica medica all’Università di Oslo ha scritto un paper dal titolo Whole body gestational donation (WBGD)[Qui], nel quale espone i motivi per cui sarebbe valida e addirittura auspicabile la pratica di usare come madre surrogata una donna dichiarata morta cerebralmente. La filosofa si ispira a Rosalie Ber, ricercatrice israeliana, che nel lontano 2000 aveva già scritto a riguardo suggerendo di utilizzare donne in stato vegetativo (PVS)per le gravidanze surrogate.
Anna Smajdor con una lucidità cinica impressionante analizza cosa comporta una gestazione in una donna morta cerebralmente; perché a suo dire è meglio usare donne in stato di morte cerebrale che in PVS , come suggerito da Ber: analizza le possibili controindicazioni, ma anche gli enormi vantaggi rispetto all’utilizzo di una donna viva (e già questo paragone fa rabbrividire).
Una delle controindicazioni mediche è la ventilazione artificiale utilizzata per tenere un cadavere, che cadavere non è, con il fluido sanguigno attivo, il corpo caldo e di colore roseo; pratica che lei stessa dice essere considerata una pratica medica eticamente discutibile, perché gli stessi sanitari sono riluttanti “a prolungare uno stato di morte in vita”.
Salvo poi però giungere a dimostrare che se in molti paesi ormai la donazione di organi salvavita ha lasciato posto anche alla donazione di organi non salvavita, quali cornea, occhi, tessuti , mani, etc. allora per chi è a favore della donazione e del trapianto di organi, il WBGD, cioè la donazione di tutto il corpo per la gestazione, non dovrebbe essere un problema.
Anzi, la donazione del proprio corpo per dare la vita potrebbe essere una soluzione persino ad evitare le gravidanze fisiologiche che per lei sono patologiche. Se tentiamo di eradicare il morbillo con la vaccinazione, perché non eradicare la gravidanza che ha una morbilità e mortalità più alta del morbillo?
Questo il ragionamento di Anna Smajdor: “Non c’è alcuna ragione medica evidente per cui non sia possibile avviare tali gravidanze. In questo articolo esploro l’idea della donazione gestazionale di un corpo intero. Considero una serie di potenziali contro-argomenti, tra cui il fatto che tali donazioni non sono salvavita e che possono reificare il corpo riproduttivo femminile. Suggerisco che, se siamo felici di accettare la donazione di organi in generale, le questioni sollevate dalla donazione gestazionale integrale sono differenze di grado piuttosto che nuove preoccupazioni sostanziali. Inoltre, identifico alcune possibilità intriganti, tra cui l’uso di corpi maschili, forse aggirando così alcune potenziali obiezioni femministe.”
Unico limite che intravede nell’utilizzo di un corpo maschile è che tale uomo potrà portare a termine una sola gravidanza perché non avendo un utero, ma essendo dimostrato che altri organi possono soddisfare le esigenze di una gravidanza, quali il fegato, è ovvio che il ‘parto’ ne compromette definitivamente la vita, ma tanto è morto e dunque se muore nel parto poco cambia.
Smajdor spiega che ottenere il consenso per tale pratica dovrebbe, a livello legislativo, essere piuttosto semplice, e cita le leggi inglesi che richiedono un consenso piuttosto “blando”: “Le recenti modifiche legislative nel Regno Unito, ad esempio, fanno sì che gli organi di una persona possano essere donati senza che vi sia una chiara indicazione della sua volontà in tal senso”. E poi aggiunge “Certamente, il livello di informazione ritenuto sufficiente come base per il prelievo di organi è minimo se paragonato ad altre procedure invasive significative prima o dopo la morte.”.
Ed è su questo che mi voglio soffermare anche se tutto il paper della Smajdor dovrebbe, oltre che farci inorridire, portarci a riflettere sulla filosofia e sulla scienza medica che ha sostenuto lo sviluppo dell’ideologia nazista, ipotizzando l’esistenza di una razza, di caratteristiche umane precise, per le quali si aveva diritto alla vita e su come questo sembra riaccadere oggi.
Per me il vero punto oggi è, disvelare l’inganno che si cela dietro al linguaggio legislativo, scientifico, filosofico, economico, letterario, cinematografico, e grazie al quale molte pratiche, che tempo fa erano inaccettabili, oggi invece non solo diventano accettabili, ma vengono sostenute dal Sistema come ‘cose buone e giuste’.
Neppure la morte è più una parola dai confini chiari. Si può essere morti, ma di una morte decisa dall’uomo stesso, quella cerebrale appunto e questo, anche se non lo avevamo pensato, apre a raffigurazioni aberranti come quelle che troviamo nel paper della Smajdor.
È da quando mi occupo di maternità surrogata che mi imbatto in parole che sembrano aver perso il loro significato originario. Quanti tra intellettuali, medici, filosofi, legislatori, economisti considerano un dono fare un figlio per chi non lo può avere, al punto che pagare o rimborsare l’affitto di un utero e della vita stessa della donna è cosa buona e giusta? Quanti considerano buono strappare il neonato dal grembo materno se fatto per una buona causa, quella di regalare un figlio a chi non lo può avere?
In tutti questi anni ho faticato a trovare intellettuali pronti a esporsi su questo tema, eppure la letteratura medica che racconta del legame tra madre e feto è infinita e non è neanche necessaria, perché ad oggi tutti siamo nati da donna e quel legame è impresso sulla nostra pelle.
Però addirittura oggi sembra che avere un figlio, geneticamente proprio – senza correre rischi per sé e per la salute del bambino – sia diventato un diritto ed è diventato il cavallo di battaglia delle ‘democrazie progressiste’. La stessa parola ‘madre’ viene spezzettata con l’intento di cancellare il valore simbolico ancestrale legato al concetto di madre; c’è una madre biologica, una madre donatrice di ovuli, una madre portatrice.
La cosa più incredibile è che le definizioni si modificano mano a mano che la natura sembra svelare il tranello che contengono. Penso ai contratti per la surrogata, nei quali prima c’erano ‘i genitori committenti’, definizione che lasciava intendere una transazione, e che oggi sono diventati ‘genitori di intenzione’, o ‘a maternità surrogata’.
Il termine ‘surrogazione’, che è un vocabolo preso in prestito dalle transazioni giuridiche, oggi si trasforma in GPA, ‘gestazione per altri’, o alle ‘madri contenitori’, che lentamente ma inesorabilmente vengono cancellate dal lessico e dalle immagini, non hanno più un nome e diventano invisibili; penso anche all’uso ormai consueto degli acronimi, nelle accademie nei contratti, tipo WBGD (donazione gestazionale di tutto il corpo), che appunto hanno la funzione di nascondere l’idea che ci sta dietro.
E qui viene il bello. La parola donazione, che tutti associamo al ‘fare un dono’, è però anche una parola giuridica: “La donazione è il contratto con il quale, per spirito di liberalità, una parte (donante) arricchisce l’altra (donatario), disponendo a favore di questa di un diritto proprio, presente nel patrimonio, o assumendo verso la stessa una obbligazione.”
La morte cerebrale è fortemente legata a questa definizione, senza che molti di noi lo abbiano mai pensato. La prima definizione di coma irreversibile fu elaborata nel 1968 da un comitato creato ad hoc dell’Harvard Medical School. I criteri di Harvard per l’accertamento della morte cerebrale sono poi diventati la base di tutte le legislazioni nazionali proprio per favorire la donazione degli organi.
Certo, il tema è complesso; oggi esistono macchine che possono tenere in vita chi in altri tempi sarebbe morto e si apre il tema tanto discusso dell’accanimento terapeutico. Però è anche vero che è proprio la ventilazione artificiale che permette la donazione degli organi e che, come abbiamo letto nel paper della Smajdor, creava problemi di etica medica, al punto che si era decisa la ventilazione solo per la donazione e il trapianto di organi salvavita, salvo poi osservare che da questo si è passati alla donazione di tutti gli organi e oggi a ipotizzare addirittura di utilizzare donne ‘morte’ per gravidanze.
La domanda che credo sia venuto il momento di farci è se ciò che fino ad oggi abbiamo percepito come progresso lo sia veramente. Se i protocolli medici e burocratici e le definizioni giuridiche, strumenti ritenuti necessari dalle nostre democrazie per garantire la serena convivenza tra i cittadini, siano diventate le armi invece per annientare il patto sociale che ci lega, distruggendo il senso stesso di umanità e la sua integrità.
Abbiamo appena vissuto il tempo della pandemia, in cui i principi base delle nostra tradizione medica, primum non nocere e del patto sociale che ci tiene uniti, il principio di autodeterminazione e l’inviolabilità dei corpi, sono stati minati dai nostri stessi governanti e dal Sistema nel quale viviamo.
Nella pronuncia della Corte Costituzionale, riguardo all’obbligatorietà dei sieri sperimentali anti Covid, troviamo scritto – sempre in linea con la propria giurisprudenza- che “il rischio remoto, non eliminabile, che si possano verificare eventi avversi anche gravi sulla salute del singolo, non rende di per sè costituzionalmente illegittima la previsione di un trattamento sanitario obbligatorio, ma costituisce semmai titolo all’indennizzo”.
L’essere umano è contabilizzato, ha un valore di mercato, noi tutti siamo contabilizzati, ed è su questo che ormai sono costruite le definizioni e i protocolli che ci riguardano. Ecco perché oggi è possibile che circolino papers come quelli della Smajdor, che escano da contesti accademici senza che nessuno si scandalizzi, perchè senza comprenderlo a fondo, abbiamo contribuito a dar valore all’idea che sia cosa e buona e giusta immettere sul mercato i corpi e i pezzi di corpo.
La vita stessa ha un valore di mercato e le leggi di mercato sono fatte su misura degli interessi delle grandi corporazioni e multinazionali, su cui le Smajdor di turno contano per garantirsi un valore economico più alto.
Siamo dentro al Sistema fino al collo, ma finché non faremo i conti con il fatto che non vogliamo essere responsabili di questi obbrobri, non potremo smantellare il Sistema.
Cover: Rembrandt, La lezione di anatomia del dottor Nicolaes Tulp (1632)
Le giornaliste di Avvenire – uno dei pochi grandi quotidiani italiani che ‘canta fuori dal coro’ e con cui ci sentiamo spesso in sintonia – inaugurano oggi un’iniziativa che ci pare di grande valore. Dare voce alle bambine, alle ragazze e alle donne afghane. E, soprattutto, ripetere questo impegno ogni giorno (fino all’8 marzo), non una tantum, inseguendo la notizia eclatante. come è in uso nei media mainstream italiani e stranieri. Solo, infatti, attraverso un impegno giornalistico costante ed appassionato è possibile restituire ai lettori la ricchezza di voci dell’altra metà del cielo e dell’altra parte del mondo. Periscopio riporterà ogni tappa del viaggio delle giornaliste di Avvenire, mentre invita tutte le sue lettrici e lettori a dare il proprio contributo al Progetto di Scolarizzazione per le donne afghane (vedi in calce all’articolo tutti gli estremi per aderire).
(La redazione di Periscopio)
Il suo caffè a Kabul distrutto in un attentato: Zahra non vuole tornare
Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all’8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l’università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l’appoggio della Caritas.QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE
La giovane ora vive in Austria: il suo locale dava lavoro ad altre donne ma è rimasto coinvolto in una esplosione che ha ucciso 300 persone.
Giovane, bella, laureata, economicamente indipendente: cosa poteva fare se non scappare quando i taleban hanno ripreso il potere in Afghanistan? «Rivendicavo per me e per le altre donne il diritto a prendere tutte le decisioni importanti della nostra vita. Ho scelto di farlo attivamente, schierandomi e manifestando ogni volta che ho potuto». E, ma questo va da sé, pagandone le conseguenze: l’avventura imprenditoriale di Zahra Rizaye, 36 anni, ha avuto vita breve. “Nel 2016, insieme a due amiche, ho aperto un Caffè nel centro di Kabul, perché speravo di creare opportunità di lavoro per le donne. È stato entusiasmante, finché è durato, avere uno spazio simile, dover rendere conto solo a noi stesse del nostro lavoro, senza nessun uomo a dirigerci, a controllarci, a dirci cosa fare. Abbiamo investito 45mila dollari, andati in fumo nel 2017 a causa di una grande esplosione avvenuta nelle vicinanze che ha ucciso quasi 300 persone».
Non è certo che il caffè fosse tra i bersagli mentre è certo che dopo l’esplosione il locale ha chiuso i battenti: «Abbiamo perso ogni cosa: il Caffè ha chiuso i battenti e tutti i nostri sogni di essere imprenditrici. Di riuscire a essere utili anche ad altre donne noi si sono infranti per sempre».
Le donne afghane sono estremamente vulnerabili dopo la caduta del governo nelle mani dei taleban: «Per questo – dice Zahra – mi consola e mi dà speranza sapere che i Paesi europei come l’Italia continuano a sostenerle, non le dimenticano come sarebbe facile. Tutti possono vedere quanto sia diventata difficile la vita per loro, è importante tenere desta l’attenzione sul problema».
Prima impiegata presso l’Unione Europea e poi alle dipendenze di una Ong australiana che sostiene i diritti delle donne afghane, Zahara oggi vive in Austria, “Un paese pacifico – lo descrive – con molte opportunità per crescere, dove spero di riuscire a esaudire qualcuno dei miei sogni. Non ho ancora un lavoro qui, però, mi ci vorrà ancora un po ‘di tempo per imparare la lingua».
E qualche giorno per partorire il secondo figlio, una bambina: «Si capisce perché non ho intenzione di tornare nel mio Paese, un posto dove le ragazze e le donne sono prigioniere nelle loro case e non possono studiare e lavorare. Non possono neppure muoversi senza un uomo che le accompagni e non sono al sicuro da nessuna parte. Eppure, sono milioni le famiglie in cui sono unicamente le donne a garantire il pane quotidiano, a essere il vero capofamiglia. No – ripete Zahra – non farò mai più ritorno perché non posso vivere in quelle condizioni e non imporrei mai questa condizione i miei figli. Non l’ho voluta per me, come potrei volerla per loro?».
Eppure, si può soffrire di nostalgia anche per un Paese come l’Afghanistan: «Certo che sì. Amo ogni angolo della mia amata terra, con tutta la mia anima e il mio cuore. Ho tutti i miei ricordi laggiù e mi manca ogni giorno quello che facevo nel mio Paese, quello che facevo per il mio Paese. Vorrei che tutti gli afghani vivessero in pace e non morissero per arricchire Paesi più potenti. Vorrei – prosegue – che ciascuno avesse abbastanza cibo da mangiare e abbastanza tranquillità per vivere. Vorrei uguali diritti per tutti, ma non tutto il potere per una sola etnia».
Cover: Zahra Rizaye – Z.R. – A.N
Per leggere tutte le testimonianze raccolte dalla giornaliste di Avvenire, clicca su; Donne afghane
Un incontro miracoloso fra passato e presente, fra le preziose stampe giapponesi su seta o carta di riso raffiguranti uccelli e fiori, chiamate KACHO-E, di Koson Ohara(pseudonimo di Matao Ohara), uno dei maestri nel mondo delle stampe naturali del primo Novecento (Hokusai e Hiroshige sono considerati i maggiori dell’Ottocento) e l’autrice e illustratrice Cristina Petit, creativa donna moderna.
Di Cristina Petit vi abbiamo già presentato, Vieni con me? e Un giorno, un ascensore. Essendoci molto piaciuta, oggi vi vogliamo parlare di due bellissimi albi illustrati, diversi dai precedenti, che andrebbero sfogliati insieme. Il filo conduttore è l’atmosfera delicata delle illustrazioni giapponesi di Kason Ohara.
Il formato verticale del libro ricorda quello di un tanzaku(biglietto scritto su carta tradizionale giapponese con desideri e preghiere, appesi agli alberi di bambù, in occasione della festa delle stelle di Tanabata). I testi sono scritti in maiuscolo per una maggiore facilità di lettura anche per i più piccini, accompagnati dalle tavole pittoriche di Ohara Koson, in perfetta e alchemica armonia.
La luna che scompare, notizia clamorosa, e la neve che dipinge il mondo, la mattina presto, rendendo tutto più bello, sereno, silenzioso, candido e lieve.
La luna piace molto ai bambini (pure a me che bambina più non sono) che la guardano ammirati dalla finestra della loro cameretta, ma anche agli animali che la salutano, leggera, dal bosco o dal piccolo mondo in cui vivono. Per alcuni animali notturni è fondamentale un lampione di latte. Un volto tondo e poetico che tutti riconosciamo.
Finché un bel giorno di settembre alle oche chiacchierone e agitate arriva l’incredibile notizia/pettegolezzo che quella sera la luna non si sarebbe presentata. Scatta l’allarme. Molto fermento e tanta preoccupazione nel bosco. Ma niente panico per il tranquillo e calmo babbuino, che non batte ciglio, anzi osserva e ride.
Nemmeno la tigre si preoccupa. Dal fiume l’allerta velocemente arriva all’anatra e alla carpa, la mosca avverte la rana che fa spallucce, nemmeno il gufo si preoccupa, non è un problema suo. Ogni animale ha le sue caratteristiche, pregi e difetti, il suo vizio e la sua virtù, proprio come tutti noi umani.
Le oche sono sempre più agitate e svolazzanti: la luna non si presenta e nessuno se ne cura. Un qua qua qua!!! insopportabile aleggia nell’aria. E questi animali rumorosi possono continuare per ore… un bel problema.
Allora il babbuino scende dall’albero e spiega alla mosca che la pazienza è la virtù dei forti e che spesso tutto non è come appare.
E gentilmente chiede alla luna che sta facendo il bagno di sorgere il prima possibile perché le oche sanno facendo un caos terribile e insopportabile e lui, come tutti, voleva dormire. Un favore personale chiesto da un saggio che sa farsi ascoltare. La luna comprensiva sale allora velocemente in cielo per far smettere quel quaqquare, far dormire la tigre, indicare la strada alle lucciole e rilassare i pesci. E quella sera, anche la mantide religiosa, che non si accorge mai di nulla, nota che la luna è molto più pulita.
Le oche possono fare il loro volo sincronizzato che preparano da mesi. Nel cielo limpido, alla luce di una splendida, calda e gioiosa luna. Le devono ammirare. Ma tutti stanno dormendo…
Le immagini sono veramente bellissime: la profonda conoscenza naturalistica crea tavole illustrate precise, animate da un segno fine elegante e illuminate, nei loro grigi eleganti, da bagliori di colore acceso, quello del becco delle oche, dei contorni degli occhi del babbuino, del caco sul ramo, delle zampe dell’anatra, dei pesci nel fiume, della pancia della mantide. Immagini che arrivano diritte al cuore, che la natura fa vibrare.
E se da una notte lunare passiamo a una giornata innevata? Dal bianco al bianco.
Ha nevicato, è domenica mattina presto e tutti ancora dormono: qualcosa è cambiato, la neve ha dipinto il mondo e lo rende ancora più bello. Il candore quasi acceca.
Se i bambini iniziano a fare palle di neve, cosa fanno invece gli animali?
Il corvo impavido, la tigre aggressiva, l’anatra fifona, tutti pensano a giocare insieme alle palle di neve. Qualcuno è più timoroso di altri, ma la sfida piace. C’è voglia di divertirsi.
La battaglia comincia. Tutti contro tutti! Pim, pum, paff, bum, splash.
Le anatre si nascondono, i passerotti si uniscono, dopo aver chiesto il permesso alla mamma, arrivano anche l’aquila, il pavone, la cinciallegra e l’upupa, non manca più nessuno, e poi il falcone cui fare attenzione, tutti si divertono. Rincorrersi in picchiata è pericoloso per qualcuno, beccate e colpi d’ala, meglio fare un bel pupazzo di neve.
Gli animali giocano per ore, sperando non vi sia mai fine, ma le cose belle sono tali proprio perché finiscono. Basta godersele, magari a piccole dosi, e al momento giusto.
Il sole tramonta, per oggi la battaglia è finita, magari domani si ricomincia.
Su quel grande e immenso bianco scende la notte nera. Prima di dormire, ciascuno pensa a quanto si è divertito. Penne bagnate e qualche ammaccatura, ma è stato bellissimo.
“Il giorno dopo tutti avrebbero giocato ancora e ancora. Perché gli animali, proprio come i bambini, adorano la neve. E la neve adora loro”. E noi con loro.
Cristina Petit
Autrice e illustratrice di quasi cento libri con molte case editrici, tradotta in molte lingue tra cui il francese, l’inglese, il giapponese, lo spagnolo, il coreano, ha vinto il premio Zanibelli per il romanzo Salgo a fare due chiacchiere e la menzione speciale Nati Per Leggere 2019 per l’albo illustrato L’arte dell’amicizia. Con Un giorno, un ascensore è stata finalista per il premio Nati per leggere – Crescere con i libri 2021. Ha insegnato per oltre vent’anni e ora si dedica alla scrittura e all’illustrazione a tempo pieno. Insegna alla scuola di scrittura Bottega Finzioni di Bologna.
Koson Ohara
Pseudonimo di Matao Ohara, è nato Kanazawa nel 1877 e morto a Tokyo, nel 1945. Di lui, nonostante la prolifica produzione artistica, si san ben poco. Ha studiato presso la scuola tecnica della Prefettura di Ishikawatra dove ebbe come insegnante di pittura il maestro Suzuki Kason. Successivamente fu anche nominato professore al nuovo Istituto di Belle arti di Tokyo, dove incontrò Ernest Fenollosa, curatore d’arte giapponese al Museum of Fine Arts di Boston. L’incontro tra i due segna l’avvio della carriera artistica di Koson, che da quel momento in poi, sarà più celebre all’estero che in patria, dove gli verranno commissionate opere da parte di collezionisti americani ed europei. Negli anni ’30, molte sue opere comparvero anche in mostre nei musei europei e americani.
Foto in evidenza del fotografo russo Vadim Trunov, che ha ripreso gli scoiattoli nel bosco fuori da Voronezh
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.Rubrica a cura di Simonetta Sandriin collaborazione con la libreriaTestaperariadi Ferrara.
L’articolo si propone di indagare e comprendere perché questo personaggio femminile è così presente nella produzione artistica. Chi era Giuditta? E chi è stata per gli artisti che hanno deciso di dipingerla?
ll Libro di Giuditta (greco Ιουδίθ, iudíth; latino Iudith) è un testo contenuto nella Bibbia cristiana cattolica. È composto da 16 capitoli che descrivono la storia dell’ebrea Giuditta. È ambientato al tempo di Nabucodonosor (605-562 a.C.),“re degli Assiri”.
Giuditta, eroina del popolo ebraico, liberò la sua città assediata dagli Assiri. Della sua bellezza si invaghì il generale assiro Oloferne, il quale la trattenne con sè ad un banchetto credendo di poterla possedere. Vistolo ubriaco, Giuditta gli tagliò la testa con la sua stessa spada e poi ritornò a Gerusalemme. Gli Assiri, trovato morto il loro condottiero, furono presi dal panico e messi in fuga.
La decapitazione di Oloferne è stata rappresentata molte volte attraverso dipinti. Tra le rappresentazioni più famose si ricorda quella di Caravaggio. Precedentemente si cimentarono con questo tema Mantegna, Michelangelo (nella volta della Cappella Sistina), Veronese, Tiziano, Carracci, Klimt e diverse pittrici come Artemisia Gentileschi e Fede Galizia. Cosa trovarono di così interessante in Giuditta tutti questi autori così diversi per periodo, inclinazioni e stile?
Possiamo supporre che Michelangelo non fosse particolarmente interessato alla figura di questa donna, la rappresentò nei “lunettoni” della Cappella Sistina così come rappresentò la scena di Davide e Golia. Ai suoi occhi, come a quelli dei suoi contemporanei, le due scene veicolavano lo stesso contenuto. Entrambe raccontano infatti di una miracolosa vittoria del debole sul forte e servono a glorificare la potenza di Dio.
Quale esempio di maggior disparità di forze che quella di una avvenente fanciulla a confronto con un uomo d’arme indurito dalla battaglia? Giuditta ha un posto d’onore nella Cappella Sistina grazie alla sua supposta ‘fragilità’. È un simbolo della debolezza umana che riesce a vincere affidandosi alla potenza divina.
Dopo la riscoperta critica di Artemisia Gentileschi, le sue opere sono spesso state confrontate con quelle di Caravaggio, compresa la decapitazione di Oloferne. Caravaggio, Giuditta e Oloferne, Roma, Palazzo Barberini
Nell’opera di Caravaggio la scena è dominata dalla testa di Oloferne e dalla rappresentazione pittorica del suo urlo raccapricciante, del sangue che sgorga dalla ferita. Giuditta non è al centro del quadro. La si vede giovane (per essere vedova) e aggraziata nei gesti che risultano privi di tensione e forza. È lontana dal corpo della vittima e il contatto fra i due corpi è ridotto al minimo. La sua avvenenza è messa in risalto dalla presenza della sua serva, che Caravaggio sceglie di rappresentare anziana.
Sembra che Caravaggio si identifichi con Oloferne che, diventando vittima, ruba la scena alla sua assassina. Va in scena il timore di Caravaggio di fare una fine violenta. Quest’opera viene infatti datata intorno al 1602. Nel 1601 Caravaggio era già stato in prigione e, di lì a poco, verrà condannato alla morte per decapitazione. Da quel momento iniziò la sua eterna fuga.
L’opera di Artemisia Gentileschi ci racconta una Giuditta diversa. La pittrice si identifica con Giuditta e mette in scena una lotta violenta, fisica e drammatica. La tensione del corpo e dei gesti della fanciulla, l’espressione del viso, sono straordinariamente intensi. Artemisia Gentileschi è una donna che ha subito violenza. Non solo, a questo drammatico episodio, ha fatto seguito un processo per lei umiliante e doloroso. Nella sua opera, la rabbia e l’umiliazione diventano forza e violenza. Una specie di vendetta personale.
Klimt, per citare un altro grandissimo pittore, realizzò due versioni della decapitazione di Oloferne. Le Giuditta di Klimt sono donne sensuali, pallide e discinte.
Osservando la Giuditta del 1901 si ha l’impressione che la fanciulla ci osservi dall’alto con gli occhi socchiusi in una posa languida. Sembra consapevole del nostro sguardo e si espone ad esso, con il seno scoperto. Adorna di gioielli, bella e pericolosa incarna una nuova tipologia di donna: la donna fatale.
Nell’opera di Klimt, Oloferne scompare. Si vede un accenno della testa in un angolo, ma tutta la scena è occupata da Giuditta, la vera e unica protagonista. La donna rappresentata da Klimt ha così perso la fragilità e la rabbia. È pericolosa, affascinante, consapevole della propria sensualità, trasgressiva. Un’immagine che si contrappone all’idea della donna angelo, pura e ingenua e che mette a fuoco una nuova, possibile, interpretazione.
Nel corso della storia dell’arte Giuditta è così cambiata, ha indossato volti diversi, raccontato storie diverse, è stata un potente schermo di proiezione dei rapporti uomo-donna, delle diverse società nella quale i pittori che l’hanno raffigurata si trovavano. Forse perché, proprio Giuditta, usurpa un ruolo tipicamente maschile, quello dell’eroe che salva il suo popolo. Giuditta non è la principessa salvata ma è lei la salvatrice. Per tutto questo e forse per altro ancora, Giuditta viene ripetutamente risignificata in un processo che ha reso la sua storia eternamente attuale.
Cover: La Giuditta di Artemisia Gentileschi (a sinistra) e la Giuditta di Caravaggio a confronto
Federico Buffa al Teatro Nuovo;
un incontro tra calcio e musica che diventa metafora della vita
Una suggestione, un dettaglio: è da una piccola nota di un evento che Federico Buffa è partito per allestire l’epopea di un incontro tra “Amici fragili”, incastonato tra calcio e musica al Teatro Nuovo di Ferrara. Gli amici in questione sono il cantautore Fabrizio De André e il calciatore Gigi Riva.
Federico Buffa con Marco Caronna
Teatro Nuovo di Ferrara – foto Luca Pasqualini
L’attaccante del Cagliari che ha fatto sognare gli italiani indossando la maglia azzurra e segnando con quella il record di 35 reti in 42 partite, va a trovare De André nella sua casa di Genova. L’episodio risale al 14 settembre del 1969, dopo una partita a Genova di un Cagliari che proprio quell’anno avrebbe vinto l’unico, e storico, scudetto. Da qui Federico Buffa parte per raccontare un incontro tra due mondi e due vite apparentemente distanti, che si confrontano nel segno della passione per l’epica del calcio e per la poesia della musica.
Ne esce di fatto un ritratto inedito del cantante contestatario, che sconta quasi come un peso la sua origine borghese e benestante, e del calciatore che con quella palla al piede ha spuntato prima di tutto la rivalsa di un’infanzia e giovinezza costellate da drammi e sacrifici.
Ma il teatro della vita unisce fortune e disgrazie. La lettura che ne fa Buffa illustra con collaudato impeto il modo in cui si capovolgono i destini, facendoli andare su e giù per i calanchi dell’esistenza, regalando talvolta gloria inaspettata e, in altri momenti, tragedie quasi insostenibili. Ecco allora che l’umile e riservatissimo orfano di Viggiù si riscatta con quella capacità di segnare gol che ha del prodigioso e che ne ha fatto un idolo indiscusso nella terra di Sardegna, dove gioca con la maglia rosso-blu del Cagliari. Il cantante si ritrova, invece, in quella stessa amata Sardegna a scontare le sofferenze di una prigionia ai confini con la tortura per un rapimento dettata da un equivocato eccesso di ricchezza.
Federico Buffa con Marco Caronna e Alessandro Nidi
“Amici fragili” – foto Luca Pasqualini
Nato professionalmente come giornalista e telecronista sportivo, Buffa ha un talento per la narrazione che lo ha reso un’icona per tutti gli amanti dello sport e fa rimanere incantati dalle sue parole come da un inaspettato richiamo seducente. Tra il pubblico si notano infatti diversi giovani e molti volti assidui dello stadio e dei palazzetti sportivi ferraresi.
Per Buffa è un ritorno a Ferrara e al Teatro Nuovo, dove nel novembre 2019 aveva portato “Il rigore che non c’era”, mettendo in scena lo sport come strumento che porta speranza dove nessun altro arriva.
Federico Buffa
Marco Caronna – foto Luca Pasqualini
Qui Buffa si conferma il talentuoso narratore rivelato dal piccolo schermo, capace di stabilire collegamenti inediti, creare connessioni inaspettate e aprire digressioni che tengono col fiato sospeso come su una giostra di parole ed emozioni. A fare da collante per questi passaggi di tempo e memorie, di luoghi geografici e spazi intimi ci sono le canzoni di De André e la parte musicale affidata ai bravi Marco Caronna (voce e chitarre) e Alessandro Nidi a pianoforte e tastiere.
Perché tutto questo casino sul caso Cospito?
E’ l’antica ricetta della destra: fomentare il disordine … per riportare l’ordine.
Ho da sempre avuto un particolare fascino, per il romanticismo del vero movimento anarchico. Tant’è che nel mio testamento morale, la prima delle musiche che ho chiesto per il mio funerale è “Addio Lugano bella”. Quella che dice che “… la nostra idea è solo idea d’amor”. Le manifestazioni violente e terroristiche, anche di questi giorni, in nome dell’anarchia, sono un tradimento e un deplorevole imbroglio.
Il caso Cospito, che resta decisamente serio, sembra quindi niente di più che un pretesto, per dare sfogo a pulsioni violente di alcune teste calde, sempre pronte a bruciare. Anche perché non aiutano, certamente, la causa di quel poveretto, sciagurato che più non si può.
Però, ha davvero senso questo rigore della legge? O, per dirlo meglio, è sensata la procedura seguita finora? E ancora, è accettabile il modo con cui la politica e la destra di governo è intervenuta sul caso Cospito?
Dal punto di vista legale, il ministro Nordio ha spiegato bene quanto sia complesso il caso. E comunque, i margini di discrezionalità che avevano i giudici, sono stati usati con inusuale rigore restrittivo.
Dal punto di vista politico, la destra di governo fa la destra, come sempre. Niente di meglio per lei per dimostrare il legalismo giustizialista, che è una cifra distintiva della sua propaganda. Non c’era da aspettarsi da loro, insomma, il minimo di spirito umanitario, per un detenuto che sta morendo per lo sciopero della fame. Il dibattito parlamentare, e la coda di commenti e di insulti lo hanno confermato.
Personalmente, aldilà di tutti i bizantinismi dei legulei e della propaganda politica della destra, l’idea che mi sono fatto come semplice cittadino, è che tutto considerato – condizione umana, situazione legale e responsabilità personali – tenere Alfredo Cospito al 41 bis sia una crudeltà gratuita.
Il vero senso di giustizia e di umanità, è quello che fa uno stato forte, perché alberga nell’animo sia delle persone perbene, i più, sia di uno stato come il nostro, che li ha consacrati nella sua Costituzione.
Sostituire il rispetto di questi valori, politici e morali, con la pratica di prove muscolari dimostrative, è solo brutale ottusità capace di generare soltanto danni.
Gli altri aspetti, quelli più direttamente politici, lasciano davvero allibiti. E fanno sorgere una domanda: perché tutto questo casino sul caso Cospito? C’è probabilmente un disegno rozzo che, associato all’ignoranza e imperizia dei protagonisti governativi, costituisce un vero pericolo per la democrazia.
In primis, vediamo personaggi totalmente inadeguati ai ruoli di alta responsabilità a cui sono preposti, che maneggiano carte e informazioni delicate dello Stato, come fossero lettere commerciali o posta del cuore ai giornali. Cosi, anche se il ministro della Giustizia è intervenuto in parlamento, assicurandoci che gli atti resi pubblici dal deputato di Fratelli d’ItaliaGiovanni Donzelli non sarebbero secretati (ma i giudici non concordano con Nordio), la sparata di Donzelli, vicepresidente del Copasir, appare di una gravità inaudita.
Chi ha vissuto a lungo posti di responsabilità pubblica, con atti e notizie altamente sensibili (in Borsa, dove lavoravo, c’è addirittura uno specifico reato, quello di insider) non può che essere sconcertato e preoccupato. E so’ bene di cosa parlo, avendo personalmente rifiutato anche di collaborare con gli stessi servizi segreti, che mi hanno chiesto più volte di avere da me, informazioni riservate a… pagamento. E questo per rispettare, con rigore, il dovere di riservatezza.
Questi esponenti politici della maggioranza di governo si dimostrano totalmente privi di senso dello stato. Incapaci di distinguere il ruolo di partito, da quello di governo. Di capire ciò che si può fare, da ciò che non si può fare. Le parole in libertà della campagna elettorale, da quelle che non sono consentite a chi ricopre un ruolo di così alta responsabilità.
L’attacco poi, reiterato e violento, al Pd, manipolando fatti e parole, non è soltanto un’azione irresponsabile e uno sfregio al galateo istituzionale, ma è anche clamorosamente falso nei contenuti. Un attacco a freddo, immotivato e gratuito, quindi anche vigliacco.
Ma perché? viene da domandarsi. Per quanto ignoranti, maldestri e spregiudicati, non convince la casualità della vicenda, che è da supporre coperta politicamente dalla stessa presidente Meloni, visto che non scarica, ma difende i suoi due sciagurati scherani. Non solo, ma se non prende nettamente le distanze, vuol dire che per lei va bene così. Se così fosse, la vicenda sarebbe ancora più inquietante.
Credo che Giorgia Meloni si stia trovando di fronte, nella realtà interna e in quella internazionale, molti più problemi di quanto immaginasse. Magari pensava, sbagliando di grosso, che per governare bastasse conquistare il potere. Ha fatto promesse eclatanti e irresponsabili, sue e dei suoi alleati, che non può mantenere. Ha in vista, nell’economia e nella realtà sociale, una situazione in potenza esplosiva. Trova in Europa difficoltà che pensava, in modo infantile e superficiale, di gestire a suo piacimento. E invece è inconcludente, isolata, impacciata.
Non vorrei che, aizzando le piazze dell’estremismo politico, pensasse a spostare sull’ordine pubblico quella attenzione che ne farebbe una nuova emergenza, da gestire col manganello e la polizia. Gli strumenti di governo che la destra preferisce da sempre. Ricordiamo Genova G8 e Bolzaneto. E quella di allora era una destra moderata rispetto a quella che ci troviamo di fronte oggi. Una strategia quindi che tenderebbe a oscurare e lasciare in secondo piano, tutte le vere emergenze, che sono compito primario di un governo responsabile, quale che ne sia il colore.
Che questo sia un disegno studiato, o solo la conseguenza degli errori sconsiderati che hanno commesso, il rischio di finire in un pericoloso pantano mi sembra oggettivo. e molto elevato. La presidente del consiglio non può essere così ipocrita da invocare di abbassare i toni… e nello stesso tempo, consentire ai suoi scalmanati fedelissimi di esercitarsi ogni giorno in nuove provocazioni.
Legge e ordine è l’antica ricetta della destra, buona ovunque nel mondo. Ma quale ordine? Piuttosto il contrario. La sensazione è che, con vari artifici, si produca il disordine, per poi esercitarsi a riportare un ordine si’, ma di polizia.
Possiamo stare tranquilli?
Ma si certo, tanto c’è Giorgia!
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