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Ferrara film corto festival

Ferrara film corto festival


Presto di mattina /
Zakhor, ricorda!

Un silenzio di attesa

La memoria è un silenzio che attende
L’eredità del silenzio.
I libri si accumulano per casa.
Coprono le pareti, riempiono gli scaffali dell’armadio.
Ci aspettano in silenzio
con le loro pagine serrate dove si infiltrano polvere e umidità.
Disciplinati, mostrano solo il dorso ricurvo ricoperto di pelle,
oppure sottile, stretto, cartaceo.
La memoria è un silenzio di attesa,
una prova di pazienza.
Ana Hatherly

Zakhor, ricorda!

‘Ricorda’, è l’imperativo stesso della fede e così risponde all’appello il salmista:

«In me si rattrista l’anima mia;
perciò di te mi ricordo
dalla terra del Giordano e dell’Ermon,
dal monte Misar.
Un abisso chiama l’abisso
al fragore delle tue cascate;
tutti i tuoi flutti e le tue onde
sopra di me sono passati.
Mia roccia!
Perché mi hai dimenticato?
Perché triste me ne vado,
oppresso dal nemico?
Mi insultano i miei avversari
quando rompono le mie ossa,
mentre mi dicono sempre:
Dov’è il tuo Dio?»
(Sal 42,7-8; 11).

«Quando nel mio letto di te mi ricordo
e penso a te nelle veglie notturne
A te si stringe l’anima mia:
la tua destra mi sostiene»
(Sal 63,7; 9).

«Mi ricordo di Dio e gemo,/ medito e viene meno il mio spirito»
(Sal 77,4).

E l’abisso risponde all’abisso rompendo il fragore del suo silenzio per bocca del profeta Ezechiele:
«Ma io mi ricorderò dell’alleanza conclusa con te al tempo della tua giovinezza e stabilirò con te un’alleanza eterna» (Ez 16,60).

Eredità di silenzio è la memoria, come biblioteca interiore e silente. Lo stesso vale per i libri sugli scaffali, alle pareti, negli armadi di casa, in attesa, muti. Essi sono la biblioteca che ci circonda, teca delle memorie, eredità del silenzio a noi più cara. I libri e la memoria sono così ai nostri occhi una quotidiana prova di pazienza. Entrambi sembrano chiederla anche per noi, chiamandoci a dimorare nella loro silenziosa e vivente attesa.

Personalmente vi cedo volentieri. E ancora una volta mi sono lasciato prendere da questo esercizio di pazienza. Ho raccolto nuovamente l’invito con tremore e timore perché ricordare, leggere e poi scrivere è far vivere sé stessi, farci uscire dall’oblio, liberarci dalla paura.

Ma anche provare a illuminare l’ignoranza di chi non sa ancora o smascherare l’inganno di chi si ostina a non voler sapere, negando la realtà. È una chiamata a varcare la soglia dei silenzi pieni di memorie, che attendono sempre di nuovo riscatto e liberazione. Memorie che hanno la loro fonte e il loro culmine nel memoriale per antonomasia: quello della Pasqua.

«Questo giorno sarà per voi un memoriale» (Es 12, 14). ‘Memoriale’, che traduce l’ebraico zikkarôn, è parola centrale nel Primo Testamento tanto da essere citata 24 volte. Si richiama al verbo zakhar, ricordare, che è presente 288 volte. In italiano l’espressione rimanda al cuore: un riportare al cuore per riaprilo alle memorie passate. Non pare quindi eccessivo affermare che ricordare è il verbo con cui si origina e si declina la fede stessa.

Nachman il Rabbi cantastorie

Ho cercato così due libri di Nachman di Braslev: uno curato da Martin Buber, Le storie di Rabbi Nachman, (Guanda, Parma 1994); l’altro La principessa smarrita, a cura e con un saggio di Giacoma Limentani e Shalom Bahbout (Adelphi, Milano 1981).

Rabbi Nachman diceva: «Il mondo è come un ponte molto stretto e l’essenziale è non aver paura». La sapienza è quella luce che attraversa questo ponte e accende nell’oscurità e negli abissi del mondo tante piccole luci. Queste piccole luci sono coloro che l’accolgono; scintille del trascendente nel mondo, che lo dispongono all’attesa della salvezza che verrà con il Messia; anzi ne affrettano la venuta, il disvelamento della sua presenza nascosta.

Aperture: «dall’esilio alla stabilità, dal grido al canto gioioso»

Nachman fu uno dei grandi maestri del Chassidismo, anche se durante la sua vita fu molto osteggiato ed ebbe molti detrattori. Il Chassidismo – scrive Martin Buber – sorto alla metà del XVIII secolo, l’ultimo e il più nobile stadio di sviluppo della mistica ebraica, di cui esso costituisce insieme il proseguimento e la confutazione.

Il Chassidismo è la Kabbalà divenuta ethos. Ma la vita che esso insegna non è ascesi. Al contrario è gioia in Dio. La parola chassid significa ‘pio’, ma quella cui qui ci si riferisce è una pietà inserita nel mondo. Il Chassidismo non è una forma di pietismo. Esso è privo di qualsiasi sentimentalismo e rifugge dall’ostentazione dei sentimenti.

Esso trasporta l’al di là nell’al di qua, lo fa dominare sulle realtà di questo mondo e dar loro forma, come l’anima dà forma al corpo. Il suo nocciolo consiste nell’addestrare all’estasi come all’apice dell’esistenza, nel modo più realistico possibile. Ma l’estasi qui non significa, come nella mistica tedesca, una «trasformazione» dell’anima, bensì la sua apertura» (Buber, Le storie, 13- 14);

Il Rabbi di Breslav diceva che «con la gioia la mente diviene stabile, con la malinconia invece va in esilio». Per lui cantare è la forma più gioiosa del narrare e più coinvolgente della stessa sapienza di Dio; e il chassidismo ha sempre attribuito una grande forza di elevazione mistica al canto e alla danza come luoghi di incontro e unione con Dio:

«Sappi che ogni sapienza che esiste al mondo ha un suo canto particolare. Un certo canto è particolare di una certa sapienza e un altro canto deriva da un’altra sapienza … A seconda del suo aspetto e del suo livello, ogni sapienza ha un canto particolare a essa relativo… La fede ha anch’essa un suo canto particolare, abbraccia tutti i canti» (La principessa smarrita, 322-323)

Così per il Rabbi ogni sapienza che risuona nel mondo ha un suo canto particolare e questo canto egli non lo esprimeva in detti o aneddoti come gli altri chassidim, ma lo faceva raccontando storie, inventando racconti, la cui finalità – ricorda Martin Buber – era quella di rivestire le dottrine spirituali e mistiche al fine di renderle visibili: le vie della mistica “non avevano vestito” e perciò attraverso le storie, rivestite di esse, potevano essere comprese e praticate, esse «dovevano costituire il vestito delle dottrine, erano storie che dovevano “risvegliare” ad una Presenza di Dio nel mondo».

Egli – scrive Buber – «voleva far germogliare nel cuore dei discepoli un’idea mistica o una verità di vita. Ma senza che lo avesse già in mente, il racconto prendeva forma nella sua bocca, cresceva al di là delle sue intenzioni ed esplodeva nella sua fioritura, finché non era più una dottrina, ma una fiaba o una leggenda.

Non per questo le storie hanno perduto il loro carattere simbolico, ma esso è diventato più segreto e intimo. Rabbi Nachman si ispirò a una precedente tradizione di fiabe popolari ebraiche… Tutto ciò che esisteva prima di lui era creazione anonima; qui per la prima volta c’è una persona, un’intenzione e una forma personale. Le storie furono messe per iscritto dai suoi discepoli, specialmente dal discepolo prediletto, Natan di Nemirov» (Buber, 36-37).

Le storie aprono vie di trascendenza

Le storie tracciano sentieri sull’abisso. Nel cammino delle parole i passi dell’uomo, le sue storie.

Nachman fu il pronipote del fondatore del chassidismo Ba’al Shem Tov/il Maestro del Buon Nome. Anche per lui era fondamentale la luce della preghiera, per scorgere gli oscuri cammini che portano nel mondo all’incontro con la redenzione promessa; che fanno avvicinare e ridestano la speranza della venuta del Messia.

Ma quando egli vedeva che i “canali superiori” si erano oscurati a tal punto che non era possibile percorrerli con la preghiera, il Rabbi di Breslav li ritrovava attraverso il racconto di storie. Diceva infatti che molte cose nascoste e molte cose elevate, anche se disperse, sono come le scintille di luce, indicano la presenza del divino nel mondo.

Nelle sue storie egli ammira il cammino della Parola: «La parola provoca una vibrazione d’aria che si trasmette di particella in particella, finché raggiunge l’uomo che accoglie la parola del compagno e con essa accoglie la sua anima e ne viene risvegliato» (ivi, 25).

La parola che sale dal profondo dell’anima – ricorda ancora Buber – è da considerarsi non già opera dell’anima, ma l’anima stessa, la sua presenza nascosta nel travaglio dell’umanità, nel processo che opera la redenzione. E nel suo insegnamento egli non pronunciò alcuna parola che prima non fosse passata attraverso il dolore e la nostalgia del suo popolo: che non fosse “cresciuta nelle lacrime”.

«Talvolta le mie parole entrano come in silenzio nell’ascoltatore e riposano in lui e agiscono più tardi, come un lento farmaco; talvolta le mie parole non agiscono subito nell’uomo a cui io parlo, ma quando lui poi parla a un altro esse ritornano verso di lui, entrano nel suo cuore in grande profondità e portano a perfezione la loro opera» (ivi).

Il mosaico della memoria nel mosaico delle parole narranti

Scrivere storie e raccontarle è mestiere di mendicanti. Così ho pensato leggendo il racconto de I sette mendicanti. Il termine kavzan, ‘mendicante’, significa anche ‘colui che raccoglie’. I sette mendicanti di Nachman sono come i cantastorie, che girano il mondo raccogliendo i frammenti di gioia che vi si trovano dispersi, per donarli agli uomini semplici. Con le loro storie tengono unito il mondo perché non si disperdano le scintille di gioia e di luce in esso.

Scrivere storie allora è come comporre un mosaico: una pratica di condivisione che spezza la solitudine che rinchiude, aiuta a guardare avanti, mostrando nuove strade nel futuro impenetrabile. Aggiungendo racconto a racconto come combinando tessera a tessera, memoria a memoria di un puzzle infinito, le nostre storie si scoprono illuminate dal di dentro, abitate da una presenza che come la principessa smarrita viene ritrovata e liberata dal “non bene”.

È questo il tema centrale del racconto: il ritrovamento della Shekinah – la principessa smarrita – prigioniera del “non bene”. Il termine è tradotto con “egli causò di dimorare”, dunque lo stabilirsi della presenza divina o la dimora di Yhwh sulla terra nascosto tra gli uomini. Alla ricerca della principessa parte il viceré, che simboleggia sia ogni persona, sia il popolo d’Israele, collaboratori di Dio nell’opera redentrice che consentirà l’avvento del Messia.

Raccontare storie poi libera dalla prigionia e dalla solitudine dei propri ricordi opprimenti, che imprigionano nel passato. Narrare storie aiuta a sopravvivere al dolore, libera dal suo irrigidimento (Hannah Arendt), perché dischiude un senso nascosto con cui costruire nuova memoria; è un tenere unita la propria memoria con la memoria collettiva, come in un mosaico infinito che non isola nessun tassello – anche quello più insignificante – inserendolo in un orizzonte più grande: l’abisso dell’immanenza umana congiunto e abitato da quello della trascendenza divina.

Fate memoria che questo è stato

«Meditate che questo è stato:/ Vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore (Primo Levi).

Zakhor, ricorda! Non è solo un imperativo per l’uomo, ma anche per il Santo, Benedetto è detto infatti di Lui nel libro della preghiera/tehillìm:

«Si ricordò della sua alleanza con loro
e si mosse a compassione,
per il suo grande amore»
(Sal 106, 45; Sal 105, 8, 42).

«Il Signore si ricorda di noi, ci benedice:
benedice la casa d’Israele,
benedice la casa di Aronne»
(Sal 115, 12)

«Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele»
(Sal 98, 3)

«Nella nostra umiliazione si è ricordato di noi,
perché il suo amore è per sempre».
(Sal 136, 23).

La parola appartiene a tutti

Scrive Giacoma Limentani: «Dicono i Maestri ebrei che lo zikkaron, la memoria, è il più prezioso tesoro che la vita mette a nostra disposizione. Come tale va tenuto in gran conto perché le esperienze passate, storiche come personali, aiutano a non ripetere gli errori commessi: solo in base a un loro ricordo critico si può vivere il presente in funzione del futuro…

Nachman dice che del passato si devono dimenticare i sentimenti provocati da eventi che hanno fatto soffrire. Se ci si libera l’anima da questi sentimenti, che a eventi trascorsi dovrebbero venir superati, è possibile oggettivare le cause che li hanno suscitati, e giudicarle con l’obbiettività indispensabile a ogni proficuo apprendimento morale.

La gioia si può e si deve ricordare perché la gioia aiuta ad amare, e infatti con profonda volontà di dare gioia Nachman lastrica le tavole del palcoscenico su cui pone i personaggi delle sue storie. Chassidim vi si mescolano alla pari con principesse vestite di luce, re, imperatori, giganti, briganti e animali parlanti. Su quel palcoscenico la parola appartiene a tutti. Vita vissuta e parola narrata vi si confondono in modo da dire e non dire, per trarre in inganno l’Altra Parte (il Non Bene, il Maligno).

Soprattutto con le sue favole Nachman insegna che trarre in inganno e rendere inoffensiva l’Altra Parte equivale a far risplendere la verità che costruisce questa parte: la parte in cui le creature di Dio devono tornare a vivere affratellate dalla consapevolezza di discendere tutte dall’unico Padre comune» (Nachman racconta. Azione scenica in due atti, Giuntina, Firenze 1993, 23-24).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

 

VIDEO-SETTING. VIDEOARTE: ORIGINI E SPERIMENTAZIONI
Dal 28 gennaio alla galleria Zanzara arte contemporanea

VIDEO-SETTING. VIDEOARTE: ORIGINI E SPERIMENTAZIONI

Zanzara arte contemporanea nasce nel cuore della città di Ferrara con l’obiettivo di sviluppare mostre e progetti con artisti nazionali e internazionali, riavvicinando e riconnettendo l’arte contemporanea al tessuto urbano e sociale della città. Con un programma espositivo che ha visto l’apertura al pubblico di due spazi, sviluppa virtuose connessioni al fine di promuovere il lavoro di artisti mid-career e artisti riconosciuti, partendo dall’assunto che “l’arte è una zanzara dalla mille ali” (Beuys, 1981). All’organizzazione di mostre interne agli spazi, si affianca il lavoro dell’associazione culturale che rivolge la sua attenzione all’esterno delle mura, per aprire dialoghi e costruire sinergie con il territorio e le altre realtà che operano in ambito culturale. L’intento di zanzara arte contemporanea è quello di promuovere e diffondere l’arte contemporanea in ogni sua forma, dotando la città di Ferrara di un nuovo centro di arte contemporanea, intesa come campo di ricerca trasversale e multidisciplinare. Proponendosi come nuovo centro per l’arte contemporanea, si posiziona nel panorama culturale della città come un punto di riferimento per artisti, curatori, studenti, addetti ai lavori e appassionati; luogo di incontro e contaminazione di idee.

L’associazione intende valorizzare la produzione culturale innovativa, con particolare attenzione alla sostenibilità dal punto di vista ambientale, economico e sociale, ed innescare processi di riqualificazione urbana e rigenerazione culturale. Aumentare l’indotto sul territorio, coinvolgendo artisti nazionali e internazionali, con lo scopo di aumentare nei residenti il senso di orgoglio e appartenenza alla comunità locale e al territorio.

Zanzara arte contemporanea ha iniziato il suo percorso a settembre 2022 inaugurando due mostre patrocinate dalla Regione Emilia-Romagna e dal Comune di Ferrara: Odessa Sole mio di David Grigoryan, fotoreporter e street-photographer ucraino e Anomaliae di Elisa Leonini, riconosciuta artista ferrarese. L’associazione ha collaborato nel mese di ottobre e novembre 2022 con il CNA di Ferrara nella costruzione dell’ultima edizione del Festival Cardini – Esperienze di Videoarte. Il programma espositivo prevede inoltre, lo sviluppo di una Project Room che si configura come contenitore sperimentale – collaterale e temporaneo – che accoglie proposte progettuali esterne, selezionate dal team curatoriale.

VIDEO-SETTING 

VIDEOARTE: ORIGINI E SPERIMENTAZIONI

Sabato 28 gennaio 2023 alle ore 16.30 prende il via la rassegna Video-Setting con conferenza e video proiezioni a cura di Carlo Ansaloni e l’apertura della mostra di Marco Caselli Nirmal.

 

Video-Setting – il cui titolo vuole rievocare Videoset, una delle manifestazioni di importanza internazionale promosse dal Centro Video Arte di Palazzo dei Diamanti di Ferrara negli anni Ottanta – si configura come una rassegna annuale la cui prima edizione, intitolata Videoarte: Origini e Sperimentazioni, si suddivide in 2 fasi. E’ articolata in sei conferenze sul tema, un’esposizione fotografica, alcune proiezioni video e due importanti mostre.

 

Video-Setting / Videoarte: Origini e Sperimentazioni sotto la direzione artistica di Maurizio Camerani, è organizzata da zanzara arte contemporanea con il supporto tecnico di Feedback APS e il patrocinio del Comune di Ferrara. La rassegna vede il coinvolgimento di alcuni tra i massimi esperti del settore e intende ripercorrere le tappe che tra gli anni Settanta e Ottanta hanno segnato la diffusione della videoarte in Italia – momento in cui il Centro Video Arte di Palazzo dei Diamanti ha rivestito un ruolo di assoluto rilievo – e offre una panoramica della scena contemporanea che illustra i percorsi in cui tale pratica è andata diversificandosi e modificandosi nel corso dei decenni.

 

Rivolgere l’attenzione alla videoarte e in particolare al Centro Video Arte, significa riappropriarsi e mantenere viva la memoria di ciò che ha reso Ferrara centro nevralgico di un’esperienza importante delle arti contemporanee.  Il Centro Video Arte, diretto da Lola Bonora con la collaborazione di Carlo Ansaloni, la cui pionieristica attività è documentata all’interno degli archivi delle Gallerie dArte Moderna e Contemporanea di Ferrara, è stato infatti la prima istituzione pubblica italiana dedicata alla videoarte. Grazie alla precedente esperienza e al lascito importante dell’esposizione ‘Videoarte a Palazzo dei Diamanti. 1973/1979. Reenactment’ organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e dalle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara nel 2015, che ha permesso di riportare alla luce una selezione di opere video degli anni ‘70 restaurate presso i laboratori La Camera Ottica e CREA del DAMS di Gorizia (Università di Udine), disponiamo di un patrimonio artistico la cui rilevanza storica è tra i temi centrali affrontati dai relatori.

 

Ad accompagnare gli interventi e nel corso della fase 1 della rassegna Video-Setting, sarà allestita una selezione di scatti del fotografo Marco Caselli Nirmal, a cura di Massimo Marchetti, che documenta l’attività del Centro Video Arte di Ferrara intorno agli anni Ottanta. Nel corso della rassegna, saranno inoltre proiettati alcuni video a cura di Carlo Ansaloni, Lisa Parolo e Maurizio Marco Tozzi che insieme a Cosetta G. Saba, Francesco Spampinato e LIUBA, sono i relatori della prima edizione di Video-SettingLa fase 1 di Video-Setting/ Videoarte: origini e sperimentazioni comprende i primi 3 incontri, elencati nel programma e si svolgerà dal 28 gennaio 2023 presso le Ex scuderie di zanzara arte contemporanea, in Via del Podestà 14A a Ferrara. La fase 2 partirà nel mese di settembre 2023. Le mostre e gli incontri della rassegna sono a ingresso libero.

 

PROGRAMMA

Video-Setting / Videoarte: origini e sperimentazioni Fase #1 | gennaio – febbraio

 

SABATO 28.01.23 | Opening Video-Setting | 1° incontro

– ore 16.30 | Set 1978-1988 / il Centro Video Arte nelle fotografie di Marco Caselli Nirmal

La mostra a cura di Massimo Marchetti, propone una selezione di fotografie di Caselli che ripercorre alcuni momenti importanti dell’attività del Centro Video Arte di Ferrara.

ore 17.00 | TALK | Il Centro Video Arte di Ferrara: le origini, la collezione

Relatore: Carlo Ansaloni, tra i fondatori del Centro Video Arte di Ferrara.

La conferenza, accompagnata da una selezione video a cura di Carlo Ansaloni, intende ripercorrere le principali tappe del Centro Video Arte di Ferrara, dalle origini ai successivi sviluppi. Intervengono: Carlo Ansaloni, Maurizio Camerani, Massimo Marchetti.

 

SABATO 11.02.23 | 2° incontro

ore 16.00 | TALK | La collezione video della Galleria del Cavallino di Venezia

Relatore: Lisa Parolo, AU di ArchiveOn Srl.

La conferenza, accompagnata da una selezione di video a cura di Lisa Parolo, mette in luce le pratiche artistiche e sperimentali di alcuni degli artisti più vicini alla Galleria del Cavallino che negli anni Settanta hanno collaborato con Paolo e Gabriella Cardazzo alle attività promosse dell’omonimo centro di produzione di videoarte (dal 1974 al 1980 circa). Intervengono: Lisa Parolo, Maurizio Camerani, Massimo Marchetti.

 

SABATO 18.02.23 | 3° incontro

ore 16.00 | TALK | Il Festival Internazionale di videoarte Over The Real

Relatore: Maurizio Marco Tozzi, direttore di Over The Real (Lucca)

La conferenza vuole essere una riflessione sulle Nuove Poetiche Digitali e di come la continua evoluzione tecnologica ha contribuito alla nascita di nuovi scenari nel campo del linguaggio audiovisivo. Intervengono: Maurizio Marco Tozzi, Massimo Marchetti, Maurizio Camerani.

Informnazioni utili

Video-Setting è un progetto di zanzara arte contemporanea
Date incontri fase 1: 28.01.23 (h17)– 11.02.23 (h16) – 18.02.23 (h16)
Date mostra fase 1: 28.01.23 al 18.02.23|giovedì h10-13/venerdì e sabato h15-18.
Luogo: zanzara arte contemporanea | via del Podestà 11/11A e 14A Ferrara

contatti
email  info@zanzaraartecontemporanea.it  
sito     www.zanzaraartecontemporanea.it
Instagram  | Facebook

ufficio stampa
email  press@zanzaraartecontemporanea.it

+39 3334573298/+39 3333942252

Storie in pellicola / Hometown – La strada dei ricordi

 

Una passeggiata per Cracovia, a ripercorrere difficili momenti della vita, l’idea molto speciale di due giovani registi polacchi Mateusz Kudla e Anna Kokoszka – Romer. Quella di restituire, con ironia, una memoria molto dolorosa, scegliendo, in tale avventura, due grandi artisti, il grande fotografo Ryszard Horowitz e il regista-attore-produttore Roman Polanski, tornati in Polonia per condividere i ricordi più personali della loro infanzia e giovinezza.

È Hometown – La strada dei ricordi, un prezioso e toccante dono, nell’ennesima Giornata della Memoria: dopo la proiezione alla Festa del Cinema di Roma, lo scorso 20 ottobre, il docufilm è appena uscito in sala, il 25 gennaio.

Sei anni di differenza, il primo nato a Cracovia nel 1939, il secondo a Parigi nel 1933, a Cracovia hanno frequentato lo stesso liceo artistico. Camminando per le strade dell’ex capitale polacca, la coppia Horowitz-Polanski ripercorre il passato e ricordano i momenti dolorosi della loro esistenza, durante l’Olocausto, quando si incontrarono nel ghetto ebraico costruito dai nazisti.

I due registi, che firmano anche la sceneggiatura e il montaggio del film, li seguono, invisibili e silenziosi, con discrezione e rispetto, fin dal loro incontro in aeroporto. Con essi rivedono la piazza principale della città, una sala cinematografica di quartiere, gli appartamenti in cui hanno abitato, il cimitero dove sono sepolti i cari, la scuola ebraica, la sinagoga, il muro della memoria, il ghetto. Luoghi che parlano da soli.

Raccontano una storia di sopravvivenza: come Horowitz, deportato piccolissimo ad Auschwitz, divenne uno dei bambini più giovani salvati dall’imprenditore Oskar Schindler (motivo per cui lo si intravvede in una rapidissima apparizione in Schindler’s List di Steven Spielberg) e come Polanski si nascose in un piccolo villaggio, dopo essere fuggito dal ghetto, nella casa di una povera famiglia contadina.

E pur molto diversi, la loro passione li ha tenuti insieme. Hanno saltato la scuola per andare al cinema, sviluppato le loro prime fotografie e si sono innamorati dell’arte. Nella triste realtà della Polonia comunista, contro il volere dei governi, hanno studiato i grandi artisti, scoperto la bellezza del jazz e iniziato a pensare di lasciare il paese.

Da quando Polanski ha lasciato Cracovia per girare film e Horowitz è fuggito a New York per perseguire la sua carriera nel campo della fotografia, non hanno mai avuto la possibilità di rivedersi in Polonia. Ora, dopo molti anni, tornano a vedere tutti i luoghi che li hanno resi quelli che sono oggi. E tornano non come artisti di fama mondiale, ma come persone con una lunga esperienza vissuta, i cui successi affondano radici nella consapevolezza della guerra e del totalitarismo, del trauma e dell’alienazione.

Due anime che parlano di argomenti che toccano ogni essere umano, come il passaggio del tempo, la memoria, la ricerca del senso e il tentativo di definire la propria identità.

Mi sembra tutto un sogno. Come avrei potuto pensare, da ragazzino del ghetto, che un giorno sarei stato accolto nella mia città con un tale applauso?”, ha detto Roman Polanski, pensando a lui e al suo amico d’infanzia che non solo sono sopravvissuti, ma hanno anche trovato il loro posto nel mondo, raggiunto incredibili successi e riconoscimenti a livello mondiale che, si direbbe, i ragazzi del ghetto di Cracovia non avrebbero mai potuto sognare.

Grande merito ai giovani registi, quello di aver gestito due geni, ognuno nel suo settore, fotografia o cinema. Li hanno resi spiritosi, grandi storyteller, e hanno rubato delle emozioni così private e antiche da creare un piccolo capolavoro. Muovendosi fra fantasmi e paure.

Dice, infine, Horowitz: “Le persone non imparano dalla storia. Non traggono alcuna lezione. La mancanza di rispetto per le religioni diverse, per le origini diverse o il colore della pelle è una cosa molto crudele, che dimostra che la storia si ripete. Tutto si ripete, dopo qualche decennio, la guerra o qualche disordine. Le persone sono sempre crudeli“. Amara verità.

Hometown – La strada dei ricordi, di Mateusz Kudla, Anna Kokoszka-Romer, con Roman Polanski, Ryszard Horowitz, Bronislawa Horowitz Karakulska, Stanislaw Buchala, Polonia, 2021, 75 minuti

Mateusz Kudła, classe 1991, è regista e produttore di film premiati, inclusi i famosi documentari Polanski, Horowitz. Città natale e Photo Film People. Per 11 anni ha lavorato per la televisione indipendente polacca TVN creando i suoi rapporti originali per TVN24 e per le notizie di prima pagina del più grande notiziario polacco Fakty.

Anna Kokoszka-Romer, classe 1988, è autrice di articoli sulla stampa e su internet. Ha lavorato in una stazione televisiva, oggi associata all’edizione principale del programma informativo e ha una laurea in Giornalismo, Comunicazione social e Culturale presso la Jagiellonian University. Nella tesi Il mito in bianco e nero dell’icona della cultura pop si è concentrata sulla presentazione dell’immagine di Roman Polanski nei media. È stata premiata con “The Audience Award” al Krakow Film Festival.

Immagini Robert Sluszniak, cortesia ufficio stampa Eliseo Entertainment

Mostra fotografica alla Biblioteca Bassani: Il giorno della Memoria sulle tracce del dottor Fadigati

 

Arcigay Ferrara riporta alla biblioteca Bassani la mostra curata da Roberto Carrara e Luciana Passaro

Arcigay Ferrara “Gli Occhiali d’oro” celebra il Giorno della Memoria ricordando la figura del dottor Fadigati, personaggio nato dalla penna di Giorgio Bassani, con la mostra  “Sulle tracce del dottor Fadigati – Immagini e luoghi interiori  IERI | OGGI” che sarà inaugurata sabato 28 gennaio alle ore 10 presso la biblioteca comunale Giorgio Bassani, in via Giovanni Grosoli, 42, e sarà visitabile fino all’11 febbraio.

La mattinata si aprirà con un intervento di Manuela Macario sul tema “Triangolo rosa: lo sterminio dimenticato” . A seguire si terrà l’inaugurazione della mostra fotografica, con la partecipazione di Silvana Onofri componente della Fondazione Giorgio Bassani e presidente di Arch’è.

L’esposizione mette a confronto passato e presente in una correlazione di fotogrammi tratti dal film “Gli Occhiali d’Oro” di Montaldo e immagini fotografiche realizzate dall’autrice Luciana Passaro.
Fotogrammi nei quali affiora il senso di emarginazione e solitudine del protagonista del romanzo, il dottor Fadigati, “reo” di essere omosessuale, costretto, come altri, a negare la propria identità, a vivere all’ombra di incontri fugaci, di desideri abortiti, di sentimenti non corrisposti. Immagini del presente nelle quali i protagonisti dell’oggi si sono riappropriati della propria identità, hanno conquistato la libertà di vivere alla luce del sole desideri e sentimenti.

La mostra, ideata e curata da Roberto Carrara e Luciana Passaro, già esposta in Ripagrande 12 nel 2020, è parte di un più ampio progetto dedicato al romanzo Gli Occhiali d’oro, e in questa occasione, a distanza di due anni, viene accolta e riproposta dalla Biblioteca Comunale Giorgio Bassani, in memoria dell’omonimo scrittore ferrarese e a eterna memoria di chi pagò con la vita la propria diversità.

Ai Ferraresi piace partecipare. Sempre di più: 100 persone all’ultima assemblea di quartiere contro il progetto Fe.ris.


Si è concluso mercoledì nel tardo pomeriggio,
il tris delle assemblee di quartiere direttamente colpite dal progetto Fe.Ris.

La riunione del Comitato via Scandiana – ex caserma ha radunato quasi cento partecipanti (in totale oltre 250 presenze nelle tre assemblee di quartiere effettuale, Ndr.), assiepati anche in piedi nella sala del Csv e nell’atrio.
Alessandra Guidorzi del Forum Ferrara Partecipata, l’architetto Malacarne di Italia Nostra e Marcello Toffanello, residente e storico dell’arte, hanno aperto i lavori illustrando i vari aspetti del progetto urbanistico della Giunta. “Questi incontri specifici dei Comitati di quartiere – ricorda Alessandra Guidorzi – hanno lo scopo di concretizzare la mobilitazione dei cittadini, ignari della vera portata dello sciagurato progetto della Giunta. Il Forum Ferrara Partecipata sta ridando voce alle persone, che invitiamo ad esprimere il proprio sogno di città. Nel nostro sito ferrarapartecipata.it, si trovano tutte le informazioni tecniche e organizzative”.

“Sventrare la zona Scandiana, abbattendo i muri per creare una piazza nel bel mezzo del quartiere – argomenta Andrea Malacarne – è uno sfregio alla storia della città. Il centro storico è una risorsa di cui vanno identificate le nuove funzioni con un processo democratico e trasparente, come è stato per il recupero delle mura della città con i fondi Fio.”

“Dove è finita la cucitura urbanistica tra Schifanoia, Bonaccossi, Marfisa? – si chiede Toffanello – Il parcheggio in via Volano e gli edifici nuovi incombenti su Schifanoia, previsti da Fe.Ris. ne fanno un progetto che smentisce il marchio Unesco sulla città”.

Nasce un dibattito vivace che declina dalla rassegnazione (“Se hanno firmato il preliminare per la ex caserma, c’è poco da fare. Purtroppo è una classica speculazione edilizia, come tante altre in passato”), alla creatività (“Bisogna fare manifestazioni e poi progettare usi innovativi degli spazi per piccole nuove imprese”), alla concretezza (“Bisogna bloccare il progetto e basta: dobbiamo aumentare la mobilitazione perché i politici promettono di ascoltarci per discutere, poi non si fanno più sentire, come l’assessore Balboni. Allora saremo noi ad informare i cittadini e ad approfondire con i tanti esperti che hanno aderito al Forum”).

C’è anche chi invoca la scesa in campo di Vittorio Sgarbi: “Un suo intervento sarebbe decisivo”), ma Andrea Malacarne fredda gli entusiasmi: “Lo abbiamo già invitato ad esprimersi durante un convegno di Italia Nostra, ma ha svicolato senza dire niente”. E’ proprio Italia Nostra ad aver presentato ricorso al Tar contro Fe.Ris., puntando il dito sulla palese assenza di interesse pubblico in tutto il progetto, e quindi la impossibilità di invocare la deroga alle norme del piano regolatore vigente.

In conclusione, è stata annunciata la prossima iniziativa del Forum: un flash mob nella mattina di sabato 4 febbraio in via Scandiana, proprio davanti al portone della ex caserma, di fronte alla Cavallerizza.

Saluti dal Parco Urbano:
un podcast sull’impatto ambientale dei concerti

La musica può ancora cambiare il mondo? Nel bene e nel male, la risposta non può che essere affermativa. Per più di cinquant’anni ci abbiamo provato a suon di canzoni, eppure, ciò di cui abbiamo bisogno adesso è una presa di posizione: delle semplici parole e dei piccoli gesti con cui i musicisti più influenti del pianeta possono sensibilizzare l’opinione pubblica, aiutandoci a ripensare alcune delle nostre abitudini.

Il podcast che ho realizzato assieme a Nicola Cavallini parla proprio di questo, cioè di una questione con cui abbiamo appena iniziato a fare i conti: l’impatto ambientale dei concerti sul nostro pianeta. Nel farlo, abbiamo preso spunto dalla vicenda più vicina a noi, ossia il chiacchierato e attesissimo concerto di Bruce Springsteen a Ferrara, del quale abbiamo già parlato più volte da queste parti.

Greetings from Bassani Park è quindi un mezzo per approfondire ulteriormente la questione, ponendo l’accento sulla responsabilità di tutti noi: dai fan ai musicisti, passando per gli organizzatori.
Il podcast è ascoltabile su Spotify [Qui] e Spreaker [Qui], nonché cliccando sul player qui sotto.

Ascolta “Greetings from Bassani Park – Il concerto di Springsteen a Ferrara e l’impatto ambientale dei tour” su Spreaker.

Parole a capo
Vito Antonio Conte: “Monolocale” e altre microstorie

Ogni evento può essere spremuto, concentrato in una poesia. Ogni fatto contiene in sé una carica che la poesia è pronta e in grado di raccogliere.
(Wisława Szymborska)

Monolocale

mi disse vieni
entrai
mi prese per mano
e salendo
su una scala a chiocciola in ghisa
mi portò sull’ammezzato
così basso che dovetti chinare il capo
per non toccare la volta
una di quelle volte di antica costruzione
a stella le chiamano quaggiù
e mi sembrò davvero
di essere in cielo
e di poterlo toccare
quando lei fu su di me
e
muovendosi piano
cominciò a sussurrarmi
parole mai più ascoltate

da “POLVERE DI SESSO
e altre (brevi) storie
(Luca Pensa Editore – 2004)

XXXIV

viaggio insieme
alla delusione di un momento
sotto questa luce lunare
che allunga le ombre
delle chiome degli ulivi

nella sterminata campagna
dove la mia tristezza
è vicina soltanto
alle carcasse delle cicale
schiattate
dopo tanto cantare

da “DI IMMUTATI RESPIRI
(Luca Pensa Editore – 2006)

XXV

T’ho baciata
Senza neppure sfiorarti
Per godere del tuo sorriso

da “RARE RONDINI A PRIMAVERA
(sempre più gabbiani lontani dal mare)
(Edizioni i Quaderni del Bardo Edizioni – 2016)

INEDITO (1)

Forte vento di scirocco
Spazzola un paio di grigi
(Forse più)
Mescolandoli nel cielo
Il cielo su di me
Poi la pioggia sferzante
(Non è giorno per la solita scrivania)
Potrei deviare verso Sud
Lasciare l’auto nello sterrato dei pini
Liberarmi della mia giacca di pelle consunta
Mettere sul piatto un vecchio vinile
Regalarmi tre note blues
E perdermi lassù insieme al volo del falco
Sognando un po’ intanto che foglie danzano

INEDITO (2)

a volte penso cose strane
(tra le tante) tipo:
quante cravatte
dio che gran quantità di cravatte
un numero pazzesco di cravatte
tutte le cravatte che ho avuto fin qui
tutte quelle che non ho più
(come tant’altro ormai)
nella smania di liberarmi
dell’inutile e del superfluo
adesso le campane che suonano a mezzogiorno
e il canto estenuante delle ranocchie
s’accordano bene a quel che indosso
(insomma niente di normale)
ma si sa importa come qualunque cosa
si porta in giro nell’altrui incedere

Vito Antonio Conte è nato per caso in uno dei tanti Sud e nonostante tutto e tutti lì sempre torna, spesso sta (anche quando non vorrebbe, ma gli tocca).
La sua scrittura è stata pubblicata (prevalentemente) da Luca Pensa Editore: un paio di romanzi brevi (o racconti lunghi, che dir sii voglia) e una decina di sillogi poetiche.
Suoi scritti sono anche presenti in diverse scritture corali, pubblicate sia in cartaceo che sul web.
La sua ultima pubblicazione è “Perse tra le carte” (Luca Pensa Editore, 2020). D’altro chi vorrà sapere, cercherà.
La rubrica di poesia Parole a capo, curata da Pier Luigi Guerrini, esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca[Qui]

“Profondo Lago”, l’ultimo libro di Gaetano Sateriale sulla difficile e gloriosa stagione sindacale al Petrolchimico di Ferrara

 

E’ il titolo del libro scritto da Gaetano Sateriale, la storia della più grave crisi della chimica italiana dei primi anni ’80, che colpì non solo il  Petrolchimico di Ferrara ma anche quelli di Mantova, Marghera e Ravenna. Ciò portò ad una durissima ristrutturazione e alla perdita di migliaia di occupati nel famoso “quadrilatero padano” a causa soprattutto del disinvestimento di tanti impianti produttivi in assenza di sostituzioni.

Nel libro di Sateriale, che sarà presentato il 26 gennaio, presso la mensa del Petrolchimico di Ferrara, la premessa recita: “Pochi sanno quanto sia (stato) decisivo il sindacato nella innovazione delle imprese e del lavoro: non lo sanno i partiti, non lo sanno le istituzioni. Delle relazioni industriali non c’è più memoria, nemmeno tra gli imprenditori e i sindacalisti. Qui una serie di sequenze dal vero di quei difficili anni. Quando, passato l’autunno caldo, arrivarono i momenti duri delle ristrutturazioni nelle aziende. Dove bisognava sporcarsi le mani per difendere i posti di lavoro e non bastava più sventolare le vecchie bandiere rosse. Faccia chi vuole le differenze tra allora e oggi. Era ieri, sembra passato un secolo”.

In effetti sembra molto lontano quel tempo fatto di una grande partecipazione, di dibattiti, confronti (anche aspri), ecc. che hanno portato a soluzioni e innovazioni fondamentali nel confronto tra le aziende e i sindacati su come ristrutturare l’assetto industriale, modificare l’organizzazione del lavoro, difendere l’occupazione, la professionalità, la parità di genere, la formazione continua, il rispetto dell’ambiente, ecc.

Fra queste importanti innovazioni,  un esempio è l’Accordo del 10 luglio 1986  sottoscritto tra il sindacato dei chimici, la società Himont e la  regione Emilia Romagna (rappresentata allora da Pier Luigi Bersani), col quale si stabilirono modalità e tempi di formazione e delle assunzioni presso il Centro Ricerche Giulio Natta di Ferrara, di 20 giovani all’anno (sia maschi che femmine) per il periodo 1986-90, con il quale iniziò la presenza delle donne negli impianti pilota a ciclo continuo.

Ferrara si caratterizzò inoltre per essere riuscita a raccordare la fase della ristrutturazione (che vide il ridimensionamento degli occupati) con la contestuale assunzione di donne e giovani grazie ad una capillare contrattazione  reparto per reparto dei fabbisogni necessari a rilanciare la fabbrica “ombra”, quella del futuro che aveva bisogno sia dell’esperienza dei lavoratori senior che dell’entusiasmo e dei talenti di nuovi giovani. Una scommessa completamente vinta perché su quelle basi avvenne il rilancio dell’impresa.

Una via del tutto originale che prevedeva l’aggancio tra coloro che erano vicini alla pensione e l’ingresso in organico della nuova generazione.  Un’esperienza che sarebbe opportuno riproporla più che mai oggi, mantenendo al lavoro in modalità part-time i lavoratori senjor (con mantenimento della paga fra stipendio aziendale e quota pensionistica) e assumendo giovani il cui costo sarebbe compensato dal minor esborso dello Stato per i prepensionamenti o altri strumenti economici di sostegno alla disoccupazione. In sostanza, una nuova fase di contrattazione  win-win, in cui cioè tutti vincono: i giovani, le imprese, lo Stato (che spenderebbe il meno possibile).

Al tempo delle vicende raccontate da Sateriale nel suo libro “Profondo lago”, i sindacati si avvalevano anche di studi a cui partecipò Cds coop, come in occasione di quella formidabile esperienza che introdusse nel Petrolchimico di Ferrara (prima grande azienda in Italia) la cassa integrazione a rotazione (quadri e tecnici inclusi) che poi si estese a tante altre realta industriali italiane con la legge del 1984 sulla solidarietà passiva e attiva: una buona pratica che oggi nessuno mette in discussione. L’esperienza fatta nel Petrolchimico  ferrarese fu soprattutto possibile (e Sateriale ne evidenzia tutta la sua portata innovativa ) grazie all’alta sindacalizzazione della fabbrica che vedeva uniti operai a tecnici e quadri, che insieme possedevano ampie conoscenze dei processi industriali e organizzativi aziendali.

Il petrolchimico di Ferrara è stato, insieme ai computer di Adriano Olivetti, uno dei pochi casi in cui l’Italia ha avuto la leadership mondiale nelle tecnologie.

A Ferrara fu inventato il polipropilene (che fruttò a Natta il premio Nobel) e che diede via al secolo della plastica (la produzione mondiale è oggi di circa 400 milioni di tonnellate). Poi, negli anni ’80, proprio nel Centro Ricerche di Ferrara, in particolare nella Sezione CER-TEP sotto la validissima  direzione organizzativa di Pino Foschi, le innovazioni proseguirono con i fenomenali breakthrough del processo Spheripol, caratterizzato da notevoli risparmi energetici ed enormi vantaggi ecologici, seguito alcuni anni dopo dal processo Catalloy. Tutti processi inventati a Ferrara e applicati oggi in oltre cento aziende in tutto il mondo e per molte delle quali il sito ferrarese svolge ancora attività di consulenza.
Un patrimonio italiano che purtroppo è stato gradualmente ceduto, così come successe con Olivetti, ad aziende straniere.

Merito, comunque, di Sateriale averne rievocato col suo libro la memoria della capacita professionale delle maestranze; capacità, questa, che ha saputo perpetuare e rinnovarsi con le nuove generazioni, divenendo esse motore di consolidamento dello stabilimento ferrarese, nell’intento di garantirne un futuro sicuro.

IL VOLUME:  Gaetano Sateriale, Profondo Lago, Roma, Futura Editrice, dicembre 2022, € 20,00

Vite di carta /
Le realtà convesse e concave di Escher

 

Fino al 26 marzo è possibile fare visita al genio di Maurits Cornelis Escher presso lo Spedale degli Innocenti a Firenze. È possibile entrare nello spazio museale al piano terra dello storico brefotrofio costruito nel primo Quattrocento su progetto di Filippo Brunelleschi e per primo incontrare il buio di un breve corridoio. Sono andata avanti a passi incerti seguendo la voce registrata che illustra l’opera dell’artista olandese, incisore e grafico scomparso nel 1972 ma ancora attualissimo nella sua visione multiprospettica della realtà.

Non so agli altri visitatori, a me l’assenza di luce ha tolto ogni filtro, ha fatto tabula rasa di ogni resistenza ricettiva. Mi sono messa davanti alle opere – circa 200 – e una dopo l’altra ho lasciato che occupassero il campo visivo. Proprio così: un mondo immaginifico, i mondi che Escher mette in contatto tra loro – tra arte e matematica, tra fisica e design – hanno occupato l’ampiezza del mio sguardo, come se aspettassi da tempo una visione così totale.

Prima i paesaggi italiani riprodotti nelle opere  delle prime sale, con le vedute dei luoghi dove Escher ha vissuto o dove è passato negli anni della sua permanenza nel bel Paese, tra il 1922 e il 1935. Immagini della Toscana, di Roma, della Campania, immagini geometrizzate e tuttavia piene di lirismo e di un languore implicito che mi è sembrato di percepire con immediatezza.

M.C. Escher, Metamorphosis, 1939-1940

Poi opere come Metamorphosis, che dipana per i suoi quattro metri di lunghezza la lusinga della trasformazione dalle parole alle forme geometriche, agli animali che escono dal loro alveare per divenire pesci e poi uccelli librati nell’aria. Uccelli che nello stilizzarsi si deformano in cubi e finalmente in case arroccate attorno a una chiesa, da cui esce una scacchiera e finalmente il reticolo dei suoi quadrati si dissolve nelle parole iniziali da cui era partita l’opera. Anzi, è la stessa parola Metamorphose ripetuta in orizzontale e in verticale che forma un reticolo analogo a quello della scacchiera. Ho dovuto camminare a lato della lunga xilografia e ho fruito delle immagini come se mi parlassero del tempo che scorre: del suo sviluppo lineare e insieme della sua circolarità, come dire che diventiamo continuamente altro ma dentro un intervallo di esperienze pronte a riprodursi ciclicamente.

Quando mi sono accostata a opere quali Mani che disegnano o Relatività, ho percepito la forza espressiva della tridimensionalità che interseca piani di profondità diversa e volumi intrecciati dagli effetti paradossali.

Nel primo quadro sporgono da un piano di fondo due mani che si fronteggiano, entrambe impugnano una matita, ma è una sola che è all’opera per riprodurre l’altra nel medesimo atto di scrivere.

M.C.Escher, Mani che disegnano, 1948

Nella seconda si vedono delle figure umane salire le scale in ogni direzione, seguendo il movimento di ognuna si arriva a vedere uno scorcio sul mondo di fuori diverso ogni volta, ora sviluppato in orizzontale, ora in verticale. Come dire, è sempre questione di punti di vista.

M.C. Escher, Relatività, 1953

Quando comincio a realizzare che la Weltanshauung del mio amato Pirandello non è bastata più all’esile signore qui riprodotto in gigantografia, alto e barbuto e che si chiama Escher, mi invade un beato senso di familiarità. Sono a casa. Mi muovo leggera per entrare nella camera degli specchi dove la mia immagine si duplica in ogni direzione. Mi paro davanti a un’opera costituita da un pannello translucido che forma bolle qua e là a forma di mezze sfere riflettenti. Lì ci sono tutte le immagini fondamentali che posso avere di me: frontale non deformata sulla superficie piana, a testa in su ma deformata e come rimpicciolita sulle semisfere concave, a testa in giù in quelle convesse. Sono le mie io, che dipendono dalla relatività e dalla mutevolezza delle realtà di cui sono fatta.

La forza di Escher è avere coinvolto le scienze, di averle rese complici di una epistemologia costruita sulla capacità deformante del soggetto nel suo guardare il mondo. Lipersguardo, se posso chiamarlo così, è lo strumento per vedere le sue opere. Servono abitudine speculativa e immaginazione, più che i cinque sensi.

Scatto poche foto, non riesco a selezionare tra le opere che mi parlano con forza. Mentre esco fotografo uno spicchio di cielo che si infila nel chiostro dello Spedale e rimbalza sulla sfera gigantesca sistemata in un angolo.

Sotto la grandine vado al mio appuntamento all’Osteria dei Centopoveri. Sono attesa da una decina di persone sconosciute che vedrò tra poco. Di loro so che vengono da paesi diversi, me ne ha parlato la persona che mi ha dato il passaggio in auto fino a Palazzo Vecchio e che oggi sarà festeggiata durante il pranzo. Seduti a un tavolo per dodici ci scambiamo nomi e cortesie di approccio, poi ognuno ordina i piatti che desidera.

Durerà un paio di ore l’abbondante pranzo fatto di voci e accenti e mentalità diverse. Tra le domande gentili che mi vengono rivolte, una mi fa davvero sorridere: “Ti è piaciuta Firenze?”. Dovrei dire che la conosco da tanti anni, che ci sono venuta una numero imprecisato di volte, molte portando le classi in viaggio di istruzione. Ma dico solo “Si, anche stavolta mi è piaciuta moltissimo, ho visto una mostra che mi ha davvero colpita.”

E il discorso delle signore svia sulla bontà dei piatti, su alcune ricette delle loro terre, l’Albania, il Marocco, Cuba. Due sole commensali sfoggiano la parlata toscana, la lingua del sì della nostra storia linguistica. E di parola in parola vedo le nostre figure piegarsi su piani ora concavi ora convessi, come se fossimo entrati tutti nelle opere di Escher. Un gioco serissimo, in cui ognuno forgia l’immagine dell’altro mettendoci la lente deformante delle aspettative che aveva, sommate alle impressioni provvisorie che riceve. Tutte piccole facce del poliedro che ognuno è propenso a mostrare di sé in un momento così, a tavola, in un giorno di pioggia.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

Cover: fotografia dell’autrice

Ferrara: la partecipazione è contagiosa. Assemblea per dire No al progetto privatistico della ex caserma

E nato da poco ma sta crescendo in fretta.  Il Forum Ferrara Partecipata  è stato costituito a dicembre 2022 ma è già un protagonista della società e della politica cittadina. Ad oggi, hanno aderito al Forum una ventina di associazioni e circa 200 cittadine e cittadini di Ferrara.
Il primo obbiettivo del Forum è bloccare il progetto privatistico e ‘mangiaverde’ che la Amministrazione Comunale vuole imporre senza l’approvazione dei cittadini: l’ormai famoso Fe.Ris. (ne abbiamo già parlato ampiamente su Periscopio).

Ma il lavoro collettivo e la mobilitazione di Ferrara Partecipata, come suggerisce il suo stesso nome, non si ferma al No al Feris, ma si occuperà di tutte quelle questioni che interessano la cittadinanza e su cui i cittadini vogliono dire la loro: I Beni Comuni, la mobilità urbana, la politica culturale ecc.

Per conoscere questa realtà, espressione della società civile, assolutamente indipendente e autonoma dai partiti, c’è un bellissimo sito da consultare: https://ferrarapartecipata.it/

Intanto, all’interno del Forum Ferrara Partecipata sono nati 3 comitati di quartiere, proprio dove dovrebbero essere realizzati gli interventi previsti dall’inaccettabile Progetto Fe,ris. I comitati si sono già riuniti e  hanno in cominciato a informare gli abitanti del quartiere , distribuendo un volantino casa per casa.

Le assemblee dei residenti nei quartieri orientali della città “Caldirolo LIbera” svoltasi il 20 gennaio e quella della zona di San Giorgio il 23 gennaio hanno registrato circa 200 partecipanti e decine di interventi. Oggi ( 25 gennaio, alle ore 18, 30 presso il Centro Sevizi Volontariato di via Ravenna) è la volta  dell’assemblea dei residenti di Ferrara Centro.

Intanto, all’indirizzo del Forum Ferrara Partecipata e anche alla redazione a Periscopio, sono arrivati messaggi  di cittadini del quartiere via Bologna e del quartiere Barco che vogliono riunirsi in assemblea per discutere i loro problemi e avanzare proposte dal basso.

Evidentemente la partecipazione è contagiosa, ne sono una prova i lenzuoli  contro il Fe.ris che incominciano a spuntare a qualche finestra

 

mercoledì 25 gennaio, ore 18,30 

 

 

Dietro la supercazzola dantesca di Sangiuliano c’è il complesso d’inferiorità e l’ignoranza della Destra

Ci si è focalizzati del tutto sulla lunare affermazione del ministro della cultura, su Dante quasi fondatore del fascismo…. I più autorevoli dantisti, si sono incaricati, e divertiti, di smontare questa bufala. Impresa facile, a dire il vero, per contesti storici e valori politici del tutto imparagonabili.
“… se non sai collocare in che secolo ha vissuto Raffaello, non capirai mai l’artista che era..” scriveva Umberto Eco.
Contesto storico di Dante e valori, quindi, che, però, al più eminente intellettuale del governo Meloni, erano ignoti o sfuggiti. Eppure è, o dovrebbe essere, un uomo di cultura, perdio, dicono i suoi… E, in ogni caso, è pur sempre il ministro della cultura. Capisco il grave imbarazzo del governo per la benzina, ma non si può mica piegare perfino Dante alla ragion di stato delle accise…. A meno che l’illustre personaggio, il Ministro, sia davvero quello che si è palesato. E allora, amici della destra al potere, siete ancora una volta messi proprio male.
Perché, a mio parere, la parte più grave della spericolata esternazione del ministro, non sta su Dante (ovviamente di gravità estrema), ma peggio ancora sul….. contorno.
Esibendosi in una arrampicata davvero ardita, ha detto, infatti, che il fondamento della sua tesi, Dante ispiratore del pensiero politico della destra appunto, sta nella comunanza di valori fra il grande fiorentino e i vari Meloni, La Russa e i loro accoliti corifei.
E questo a partire dall’umanesimo dantesco, al rispetto dei diritti umani, delle persone, delle relazioni interpersonali e giù di lì di ciancia in ciancia….
Dante uguale a Meloni /La Russa, insomma.
E il mito del duce e del fascismo, che proprio a destra riemergono così spesso ancora orgogliosamente intatti?
O la nostalgia per il MSI, erede diretto di Salò e del fascismo, che è celebrato con commossi sentimenti nostalgici?
Oppure lo zoccolo duro dell’ elettorato di destra, fatto di Casa Pound, Forza Nuova e la miriade di gruppuscoli neo fascisti e neo nazisti sempre col braccio alzato, e mai veramente condannati?
Tutto questo è fantasia della sinistra, o realtà di ogni giorno nel nostro paese?
La nostra premier ha deprecato le leggi razziali e la shoah, ma, a differenza di Fini, non ha mai condannato il fascismo.
Si è limitata ai frutti, praticamente, ma non ha mai toccato l’albero. Forza Meloni è dura, ma prima o poi ce la farai… Intanto invece plaude ai golpisti Trump e Bolsonaro, due nemici dichiarati della democrazia (leggere interviste…). Amoreggia con Orban e Kashinsky, campioni europei di disprezzo dei diritti…. e in più anche un tantino razzisti: accolgono milioni di bianchi ucraini, e meno male, ma non qualche decina di neri africani…
Potremmo aggiungere tanto ancora. Ma quel Sangiuliano li, è scemo o ci fa? Queste cose le sa’ o è sceso da Marte? Io credo che non può non saperle, anche perché qualche volta le ha dette perfino il suo Tg2…. E allora è solo un problema di onestà intellettuale. Che viene meno quando dignità culturale, spirito di indipendenza e libertà personale, vengono barattati per un po’ di potere e qualche gallone.
Ma sei il ministro, perdio, Sangiuliano! E per giunta il Ministro della Cultura, quello cioè che dovrebbe “illuminare” gli intelletti di tutti, a partire proprio dal governo e fino a tutti noi.
Io, che pure credo di avere sempre avuto il culto delle istituzioni, affermo – cosa che non fregherà a nessuno e soprattutto a lui, lo so – che non lo riconosco come il “mio” ministro della cultura, tanto si è autodelegittinato.
La verità è che l’antico complesso di inferiorità culturale, che la destra ha sempre sofferto (e che, anche in questa occasione, il Nostro si è lasciato sfuggire richiamando l’egemonia gramsciana), ancora resiste. Nonostante che la destra possa vantare fior di intellettuali, ma che, evidentemente più attenta ai muscoli che al cervello, non ha saputo valorizzare come meritavano.
Certo, se crede di recuperare con questi “campioni” di intellettuali, poveri noi e, soprattutto, poveri loro.. Dal Ministro della Cultura, il minimo che ci si aspetta sono due cose: una solida cultura, appunto (e qui già nasce qualche dubbio), e soprattutto onestà intellettuale, dove dubbi non ce ne sono perche’, invece, difetta chiaramente alla grande.
Di sicuro, questo incidente di Sangiuliano, è l’ennesimo e, forse il più significativo e maldestro, esempio della fragilità strutturale e sostanziale di un governo che, nato con tanta sicumera e prosopopea, si rivela ogni giorno sempre più inadeguato alle sfide della realtà, della competenza, della intelligenza come capacità di competere in tempi difficili, in un mondo complesso.
Non durerà i cinque anni che dice la Meloni… Ma se dovesse accadere, dove porteranno questo paese una banda di improvvisati statisti come questa, che ad ogni curva sbanda o sbaglia strada?

Parole e figure / Il bigliettino generoso

Un leporello, parola magica, poco nota, non contemplata dai dizionari. Vocabolo interessante che deriva dal nome di Leporello, personaggio buffo dell’opera Don Giovanni di Mozart (è il servo di Don Giovanni), con libretto di Lorenzo Da Ponte.

Ma qui l’antonomasia non si riferisce tanto al suo modo di essere – arguto – quanto è connessa a una specifica azione scenica. Precisamente al momento in cui il servo, per sfuggire a una donzella già sedotta e abbandonata dal suo Don e rinforzarne il concetto di collezionista impenitente, tira fuori la lista (che lui cura) delle conquiste carnali del padrone. […] Guardate / questo non picciol libro: è tutto pieno / dei nomi di sue belle. / Ogni villa, ogni borgo, ogni paese / è testimon di sue donnesche imprese.

A noi interessa proprio questo libro di annotazioni che Leporello porta con sé. Da Ponte, sceneggiando, non precisa come dovesse essere rappresentato in scena fisicamente questo libretto e le regie hanno avuto secoli per sbizzarrirsi, contando che la prima rappresentazione fu a Praga nel 1787. C’è chi l’ha reso come un libro vero e proprio, chi come un fascio di fogli, chi come una serie di taccuini, chi con un rotolo a mo’ di papiro, e tanto altro. Qualcuno ha immaginato che fosse un libretto a fisarmonica. Ed ecco che in legatoria, soprattutto in quella artigianale, il leporello è diventato un libro / opuscolo che si apre a fisarmonica, che si presta a un’apertura a cascata che può riservare mille sorprese. Una rilegatura versatile, in pratica un foglio unico piegato a zig-zag, che può permettere una lettura consueta di pagina in pagina (di piega in piega) ma anche infilate complesse per tutta la sua lunghezza… se poi la carta è pergamenata il gioco è fatto.

Proprio in questo simpatico e curioso formato scenografico (la sorpresa più grande è che, alla fine, si apre a poster) è il libro che vi presentiamo oggi, Il Bigliettino, di Pilar Serrano Burgos (testo) e Daniel Montero Galán (illustratore), edito da Kalandraka.

È un racconto che regala una passeggiata nel quartiere di una città brulicante, affollata e affaccendata, sulle tracce di un messaggio curioso e sorprendente che scopriremo solo alla fine (e su cui non abbiamo intenzione di fare alcuno spolier…).

Un libro pieno di figurine e dettagli da sfogliare fino a distenderlo completamente su un soffice tappeto colorato per una lunghezza di quasi due metri. Ci si perde con la fantasia.

Il bigliettino misterioso si ritrova, suo malgrado, fra le mani di tante persone, nessuna delle quali lo trattiene per sé, ma generosamente lo fa passare, lo regala. Perché conterrà un fantastico dono, fatto di parole che salvano e che ormai non si ascoltano quasi più.

Ci sono Eva che va sempre di fretta per arrivare puntuale a scuola, chiacchierona e che da grande vuole lavorare nella fabbrica di Babbo Natale, che lo perde dal suo zaino mentre estrae i quaderni e lo appoggia sull’astuccio del suo compagno José, artista incompreso che non ama la scuola, che lo trova e, dopo averlo letto, lo lancia dalla finestra come se fosse un aeroplanino. Agustìn il socievole corriere che dispensa consigli lo lascia sul parabrezza dell’auto di Ana, la farmacista che prepara da mangiare per alcuni mendicanti, che, dopo aver temuto una multa, lo lancia per aria, per farlo catapultare nella carrozzina verde del figlioletto di Luisa, tecnico ambientale che lavora da casa.

Tutti lo leggono, tutti lo passano, nessuno lo trattiene.

Il bigliettino arriva al pediatra, poi a Vera e al suo papà che lo lascia su una panchina del parco dove i bambini giocano su un bellissimo e alto scivolo verde dalla bandierina svolazzante. L’attivista per la solidarietà Marisa passeggia – e qui, viaggio circolare in un linguaggio che sa di cinema, si ruota il leporello -, e, dopo la sua tranquilla camminata, si siede su quella panchina che accoglie anche un gattino. Il bigliettino è lì ad attenderla, finisce nel cestino della bici dell’amico architetto Miguel che porta con sé una lunga canna da pesca, pescare è il suo hobby preferito.

Mentre dalle finestre illuminate delle case si vede tanta vita che scorre, sottofondo del viaggio di quelle parole svolazzanti, il bigliettino continua la sua inarrestabile corsa.

Tanti tasselli di un’unica bella storia che desta crescente curiosità.

Tanti personaggi: vicini, bambini, genitori, amici, pensionati, commercianti, artigiani, professionisti. Le loro storie al completo, con mille originali dettagli, sono nel retro del libro, insieme a quelle di alcuni animaletti loro fedeli compagni, in una sorta di poster curioso che si apre come un immenso fazzoletto bordato di giallo…

Da un lampione cui è finito appeso, il bigliettino passa a un tavolino di un bar all’aperto dove Luis prende un caffè per portarlo al bancone dove la cameriera Manuela lo legge. C’è scritto…

Il bigliettino, di Daniel Montero Galán, Pilar Serrano Burgos, Kalandraka, 2022, 40 p., Libri per bambini +3

Daniel Montero Galán è nato a Madrid nel 1981. Lavora come illustratore da oltre 15 anni e ha pubblicato più di 30 libri. Fra questi El gran Zooilógico (Jaguar, finalista al premio Golden Pinwheel della CCBF China Shanghai International Children´s Book Fair nel 2016),  Lettere nel bosco (Logos) e Mistero nel bosco (Logos).

Pilar Serrano Burgos è anch’essa nata a Madrid, nel 1977. Lavora come maestra in una scuola pubblica dalla quale tate molte delle sue storie, che elabora e combina. Crede che i libri non abbiano età, perché “se funzionano con i più piccoli, funzioneranno anche con i più grandi”. Innamorata del suo lavoro e appassionata di letteratura d’infanzia, inizia a pubblicare nel 2014. Da allora non si è più fermata.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti.
Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.

Dalla Crisi post pandemia si può uscire a Sinistra ma anche a Destra. Vincerà chi conquisterà il consenso dei ceti deboli

 

A Davos si incontra il gotha dei “potenti” della Terra (2.700 tra politici, banchieri, finanziari, imprenditori) invitati da Scwhab, presidente del World Economic Forum (Wef).

L’Italia quest’anno lo snobba, ci va solo il ministro dell’Istruzione Valditara. Il 2023 è un anno ‘novus’, perché la guerra in Ucraina ha rotto uno schema globalista e neo-liberista che andava avanti da 23 anni.

Con la pandemia (2020-21) la finanza e le grandi multinazionali avevano raggiunto i massimi profitti, guadagnando in 2 anni più che negli ultimi 20 anni. Ma nel 2022 la guerra ha sovvertito tutto e fatto perdere solo alle 5 principali big tech un terzo di capitalizzazione in borsa (mille miliardi su tremila).

Le cose non vanno troppo bene per il “business” e c’è molta preoccupazione tra i partecipanti a Davos (dice Scwhab) perché il 2023 porta con la guerra in Ucraina vari problemi:
1. una forte inflazione (che durerà per almeno due anni) con conseguente ulteriore impoverimento delle fasce povere (ma anche del ceto medio) sia in America che in Europa.
2. Il debito pubblico e privato  che è altissimo (360% del Pil mondiale, era al 100% a fine anni ‘70).
3. conflitti geopolitici con Cina e Russia che possono portare a guerre (Taiwan,…).
4. Potenziale nuovo sistema monetario mondiale con relativo declino del dollaro e difficoltà nei rifornimenti energetici e di materie prime.
5. crisi climatica che, da un lato, reclama radicali cambiamenti nel modo di produrre e consumare, dall’altro potrebbe confliggere con i nuovi business dell’ambiente se si traducono in ulteriori sacrifici, date le enormi disuguaglianze, per le classi più povere e il ceto medio, che potrebbero “rivoltarsi contro il sistema”.

C’è anche una “gara” tra sinistra e destra per avere i voti dei ceti più deboli (già impoveriti negli ultimi 20 anni), ma che lo saranno ancora di più in futuro.
Tra i banchieri e la finanza c’è la coscienza che dopo le “magnifiche sorti e progressive” del neo-liberismo avviato dopo il crollo dell’URSS, la crisi del 2008, sfociata col fallimento di Lehman Brothers, non è affatto superata. La modifica avviata nel 1999 su come operano le banche e la finanza accentua le disuguaglianze e non aiuta imprese e famiglie a prosperare nell’economia reale.
La forte spinta alla recente iper inflazione è venuta proprio dalla speculazione di 54 banche occidentali e 154 fondi finanziari che hanno acquistato tutto il possibile alla borsa del gas Ttf di Amsterdam un anno prima dell’invasione dell’Ucraina, con aumenti del prezzo del gas già dieci mesi prima dello scoppio del conflitto russo-ucraino e hanno contribuito all’inflazione più della guerra stessa.
Poiché nel frattempo l’Europa politica non è nata e gli Stati si sono indeboliti, chi domina è la finanza, mentre i cittadini subiscono le conseguenze degli speculatori e delle grandi corporations.

Adesso ci si è messa di mezzo anche la Russia, invadendo il Donbass ucraino e ciò costringe a vari dilemmi: negoziare con Cina-Russia e riprendere la vecchia via o sperare di sconfiggere la Russia a costo di un allungamento del conflitto (o di un conflitto nucleare) con un ulteriore impoverimento anche dei nostri cittadini (e non solo di ucraini e russi)?
Se si sconfiggesse la Russia si potrebbe togliere alla Cina un partner importante, ma quali sarebbero le conseguenze geopolitiche della “scomparsa” della Russia? E se la crisi continua e si fa lunga, come voteranno in futuro i ceti deboli?
Rafforzeranno la destra estrema o la sinistra estrema? Difficile infatti pensare che di fronte a un radicalizzarsi delle condizioni, continuino a votare per soluzioni moderate vicine all’attuale establishment che governa l’Occidente.

Non è la prima volta che sinistra e destra si sfidano per l’egemonia sui ceti più deboli.
Quando scoppiò la crisi nel 2008, il protagonismo fu assunto da movimenti sociali di sinistra (Indignados, Occupy Wall Street, Nuit debout,…costruendo il retroterra per la nascita di formazioni politiche nuove (Podemos, France Insoumise,…) o per la svolta a sinistra di partiti democratici (Labour in UK, Sanders in Usa,…).
Ma col tempo la destra si è mostrata più capace di attrarre consensi, specie con Trump: matto come un cavallo, ma che ha difeso i salari e l’occupazione local a costo dell’uscita dalle guerre Usa e dell’imposizione di dazi, che hanno reso più caro il made in China del 13%. Anche i paesi dell’Est Europa lavorano molto sul nazionalismo e la difesa dei propri cittadini, della propria identità e infatti in Spagna sta crescendo l’estrema destra di Vox. In Svezia ha vinto dopo decenni la destra.

Se si guarda ai primi passi del Governo Meloni, si nota l’intento di smarcarsi da un allineamento solo europeista-americano (non sulla guerra), favorendo la Germania (Lufthansa preferita al fondo finanziario Usa in Ita, la cordata cipro-israeliana per il polo chimico di Priolo anziché il fondo Usa; un ruolo maggiore dello Stato che gli stessi operai vorrebbero: all’Ilva votano per la nazionalizzazione, per esempio, il 98%).
Ci sono alcune politiche attente verso i ceti deboli (110% che diventa 90% escludendo le seconde case e limitato ai redditi più bassi, i bonus per l’energia alle fasce deboli…).
Già negli anni Venti e Trenta l’avvento del fascismo dimostrò che le ipotesi dei socialisti della II internazionale, i quali pensavano che da una crisi nascesse per forza una svolta a sinistra e una società più giusta, non erano così scontate.

Rosa Luxemburg (ma soprattutto Gramsci) scrissero invece che un impoverimento poteva proprio creare il terreno ideale per le forze di conservazione. Forze che oggi  sono (a mio avviso) le multinazionali e la finanza, che si vantano di essere innovatori perché propongono il digitale e l’intelligenza artificiale.

Gli Stati sono accusati dai globalisti  / neo-liberisti di essere la causa del nazionalismo, del populismo, del sovranismo che impedisce politiche comuni, per esempio a favore della natura. La Polonia difende il suo carbone e si oppone al new deal europeo dell’ambiente. Ma è anche vero, come dice Daniele Conversi in Cambiamenti climatici – Antropocene e politica ( Mondadori) che gli Stati possono cambiare, proteggendo i propri cittadini e diventando protagonisti di buone pratiche di eguaglianza e di sostenibilità.

La sfida è coniugare il nuovo sviluppo con la difesa delle classi deboli. Si pensi al problema dell’efficienza energetica delle case per ridurre l’inquinamento. L’Europa chiede che entro il 2030 le case abbiano una efficienza di classe E (tipo gli edifici costruiti tra gli anni ‘90 e i 2000 in Italia, che consumano 91-120 chilowattora al metro quadro), per poi progredire entro il 2033 alla classe D (con 71-90 kWh per mq), un salto che richiede il taglio del 25% dei consumi.
Ma oggi il 60% delle case in Italia (le più povere) è in classe F o G. Se questi ceti deboli non venissero aiutati ci sarebbe un enorme rivolgimento contro l’Europa, che sarebbe vista come la longa manus delle multinazionali dell’immobiliare, pronte ad acquistare le case svalutate da una, in teoria, “giusta” politica di riconversione ambientale.

Cover: Le prime fasi di spostamento del quadro di Pellizza Da Volpedo “Il Quarto Stato” nella Galleria del Futurismo al museo del ‘900 a Milano, 27 aprile 2022 (ANSA/MOURAD BALTI TOUATI)

Il laboratorio di Testaperaria per la giornata della memoria

Continuano per tutto il mese di gennaio i laboratori e le narrazioni della libreria Testaperaria di Ferrara, un vero e proprio spazio per gli artisti, piccini e meno.

Spazio alla fantasia, dunque!

In un ambiente caloroso e accogliente, gli ospiti di Rita e Paola potranno assistere ai laboratori creativi di Sara Fabi (@linea.retta) mercoledì 25 gennaio alle 17h30 (il tempo di arrivare da scuola…), alla scoperta dei volti di frutta di Arcimboldo (il 18 gennaio c’era già stato Hopper).

 

In occasione della Giornata della Memoria, seguirà il 27 gennaio alle 17,30 una narrazione, intitolata “la cosa più importante”, ad opera di Simonetta Sandri, che sul nostro giornale segue la rubrica dedicata alle letture per bambini e ragazzi Parole e figure.

Sarà una lettura di un delicato albo illustrato (che non sveleremo) che parla di rispetto, amicizia e collaborazione.

Attesissimo, ma ne riparleremo, il corso di tecniche di invenzione “Aiuto non so cosa scrivere!” che Luigi dal Cin – massima autorevolezza del settore letteratura per ragazzi – terrà sabato 4 e sabato 11 marzo dalle 9h30 alle 12h30 e dalle 15h alle 18h30.

Sarà l’occasione per capire come inventare un racconto e carpire qualche segreto della scrittura narrativa.

Dallo sguardo “alla Pessoa” agli appunti “alla Perec”.

Per ogni informazione aggiuntiva e per le iscrizioni, contattare la Libreria Testaperaria, Via de’ Romei, 19A, tel.0532-202823, info@testaperaria.it

Fantasmi /
Il pioppo di Albino

La letteratura, per fortuna, non ha alcun debito 

Il pioppo di Albino

verso la verità storica,
tuttavia mi piace attestare il “vero per soggetto” di questo racconto.
Il suo nucleo, lo stupore per un incontro inatteso e abbagliante, viene da una storia di mio padre,
cui l’aveva a sua volta raccontata un indimenticabile capomastro, un
uomo della ‘Bassa’.
Da chi lui l’avesse appresa non è dato di sapere.
Io bambino lo ricordo già vecchio, ma ancora forte, grande,
alto come una quercia: la mia mano scompariva nella sua.
E ricordo che quando lo incontravo avevo la certezza che quella storia anonima fosse vera,
la storia di lui bambino in un Novecento appena nato.

ue figure sfocate, una grande e una piccola, camminano una fianco all’altra. Non si vedono, ma il narratore è certo della loro presenza. Si sentono i colpi secchi dei passi sull’erba ghiacciata. Non un altro rumore. C’è solo notte e nebbia intorno. E quando la prima si alza, la seconda resiste, si oppone alla luce con il suo grande dorso di animale addormentato. Ma infine qualcosa si vede, lo stradone della bonifica dritto dritto che parte e finisce nel niente. A destra e a sinistra, la terra arata nera come la cioccolata. Il padre e il figlio che camminano senza parlare.

La scena non cambia mentre passa il tempo. Lo stradone, le zolle nere, il battito ineguale dei passi dei due viaggiatori. Unica prova dell’avanzare del giorno è la nebbia sempre più spessa, padrona assoluta del campo visivo, e sempre più bianca. Non si sa da dove arriva quel bianco, non ha una fonte, un’origine, un punto di irradiazione. Scaturisce da ogni punto dello spazio, dall’interno stesso della materia, come la luce della pancia di una lucciola cosmica.

Il padre si ferma e fa un cenno con la mano. E’ il momento per fare una sosta. Il figlio ha sette anni, i capelli bagnati, il petto che si alza e si abbassa dentro un cappotto scuro troppo largo. Il padre gli tende il pane senza incrociare il suo sguardo, sulla faccia del figlio c’è un’ombra che non vuole vedere. Mangiano in silenzio, e in silenzio il freddo si infila sotto i vestiti.

Il padre fa un breve cenno. Riprende a camminare e parla sottovoce; “E’ ancora lontana. Non arriveremo prima di mezzogiorno.”

“Posso levarmi le scarpe?”
“No, devi abituarti. In città senza scarpe non si può stare”
“Sempre con le scarpe?”
“Sempre.”
“Sempre sempre?”
“Nossignore – ride il padre – quando vai a letto te le togli.”
“Come sono i letti di città?”
“Più morbidi credo. Credo che i letti di città siano più morbidi. E si dorme da soli. Avrai un letto solo per te, questo è deciso. Ho parlato con don Antonio. Fa parte dell’accordo: un letto con lenzuola bianche e un cuscino di piuma. E un vestito nuovo. E libri fin che ne vuoi.”
“Ma io non voglio fare il prete. Io sto bene dove sto.”
“Non vuoi vedere la città?”
“Voglio andarci e poi tornare indietro con te.”
“Tornerai a Pasqua. Poi a Natale. Poi dopo qualche anno, ti stancherai di tornare a Nuvolè. Non c’è niente a Nuvolè.”
“Io non voglio fare il prete.”
“Cosa ne sai?”
“So che non voglio.”
“Lo sai che i preti mangiano bene e viaggiano in carrozza?”
“Ma io voglio stare con voi.”
“Perché sei una testa dura.”
“Voglio stare a Nuvolè e della città faccio senza. Le scarpe mi fanno male ai piedi. Non mi va di portare le scarpe tutto il giorno.”
“E vediamo, testa dura, come farai a imparare a leggere?”
“Tu mica sai leggere.”
“Io no, ma tu sì. Tu sei nato nel nuovo secolo. Imparerai a leggere e a scrivere, è deciso. E vedrai che il mondo non è tutto piatto come a Nuvolè. E dopo, alla fine andrai anche in America e mi scriverai una lettera lunga così.”
“Ma perché proprio io?”
“Basta Albino, pensa a camminare!”

Albino, Il figlio che imparerà a leggere e scrivere, Albino che diventerà un grand’uomo, Albino che attraverserà il mare, adesso Albino non parla più. E’ arrabbiato con suo padre, con le scarpe, con la città, con don Antonio che l’ultimo Natale è venuto in visita e se n’è ripartito con il loro unico cappone. Cosa se ne fa del loro cappone don Antonio che è già grasso come un maiale?
E cosa c’è da vedere? Cosa c’è da imparare? Cosa c’è di più bello di Nuvolè?
Albino cammina gli occhi a terra. Ogni tanto calcia via una zolla. Cammina con i piedi stretti in quelle stupide scarpe. Cammina e non guarda niente.

Nel cielo è apparso un disco bianco. Adesso, anche se Albino ancora non lo sa, la nebbia batte in ritirata e il mondo ha finalmente un sotto e un sopra, e una linea diritta nel mezzo.
Albino, come se un amico lo avesse chiamato al gioco, alza la testa di scatto e rimane fermo a mezz’aria. Sente la sua bocca che si apre, si apre sempre più, ma non esce nessun suono- Sente caldo, sente la testa che gira, sente da qualche parte una cosa ingombrante che gli riempie le mani e le braccia, le gambe, il petto.
“Allora Albino, vuoi muoverti?”. Il padre si è voltato, ma subito gli passa la rabbia. Guarda incantato il figlio con gli occhi incantati.
“Allora Albino?”. Questa volta la sua voce è quasi un sussurro.
“Cos’è quello papà? Quello alto alto?”.
“E’ un albero.”
“Un albero?”
“E’ un pioppo. E stai sicuro che ne vedrai molti altri. E vedrai un mucchio di altre cose, più tutte quelle che ci sono dentro i libri.”
“Un albero pioppo?”
“Te lo spiegheranno a scuola cos’è un albero. E ti spiegheranno che a Nuvolè una volta c’era solo acqua. E adesso solo terra nera. Terra bassa e niente alberi.”
“E da dove arriva questo albero? A cosa serve?”
“E’ sempre stato lì quel pioppo. Tutti gli anni, quando vado in città, lo trovo al suo posto. Fermo, immobile. Vuol dire che siamo fuori dalla bonifica, fra poco incroceremo la strada grande che porta a Ferrara.”
“E perché è così alto?”
“Dai Albino, cammina che è tardi. Il Pioppo ti aspetta. Sarà ancora lì quando tornerai dall’America”:

Il racconto: 
Francesco Monini, “Il pioppo di Albino”, sta in Alberi Secolari, Ferrara, Corbo Editore, 1996

“Spostate il mega concerto dal Parco Urbano!”
Adesso si fa sul serio: ecco la lettera di diffida al Sindaco di Ferrara

Da molti mesi un foltissimo gruppo di cittadini sta portando avanti una pacifica mobilitazione per tutelare l’inestimabile patrimonio naturalistico e l’avifauna del Parco Urbano intestato a Giorgio Bassani. Si chiedeva semplicemente, e ancora si chiede, di individuare una location più idonea dove ospitare il mega concerto di Bruce Springsteen in programma il prossimo maggio.
Esistono alternative concrete alla location nel parco, ma il Comune di Ferrara non le ha mai prese seriamente in considerazione. E neppure, nonostante le ripetute richieste, ha disposto uno studio sull’impatto ambientale sul delicato equilibrio del parco urbano che provocherebbero 50.000 persone e migliaia di decibel.
L a grande petizione online (vedi sotto)  con 43.000 firme è stata ugualmente snobbata dal Sindaco e dalla Giunta di Ferrara. (le varie puntate della vicenda potete leggerle su Periscopio cercando le parole: parco urbano, Ndr)
Visto il silenzio e il disinteresse per le richieste di tanti cittadini da parte delle  Autorità Comunali, si è deciso di battere un’altra strada.
La lettera che trovate più sotto era già stata recapitata al Comune di Ferrara per vie normali nelle settimane scorse, non ricevendo alcuna risposta. A questo punto, la presente lettera di diffida da’ 7 giorni di tempo al Sindaco Alan Fabbri.  Se entro il 25 gennaio non si avrà riscontro, si procederà con il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica,
La lettera di diffida è stata inviata, tramite posta PEC, in nome e per conto dell’Associazione Animal Liberation, ITALIANOSTRA,  Associazione Piazza Verdi ed altre, e a nome e per conto dei 43.000 firmatari della petizione online. Crediamo importante renderla nota a tutta la cittadinanza.

Spett.li
COMUNE FERRARA
FONDAZIONE TEATRO FERRARA
APT SERVIZI EMILIA ROMAGNA
FERRARA TUA
p.c. BARLEY ARTS SRL
Oggetto: delibera 508\22 Convenzione per lo svolgimento del concerto di Bruce Springsteen
Scrivo la presente […] ad integrazione della mia precedente comunicazione per chiedere lo spostamento del concerto del 18 maggio 2023 in località diversa dal Parco Urbano “Bassani” di Ferrara.
Oltre all’Aeroporto di Aguscello che si è reso disponibile ad ospitare tale manifestazione, le associazioni mi hanno recentemente fatto presente che anche l’aeroporto di Ferrara aveva fornito la propria disponibilità.
A nome pertanto anche di Tommaso Mantovani, consigliere comunale che rappresenta l’adesione di 42700 firmatari della petizione online, si chiede di voler valutare  di spostare l’evento in altra località.
Il 18 maggio 2023 è stato programmato lo svolgimento del concerto di Bruce Springsteen nel Parco Urbano “Bassani” di Ferrara.
Per quanto l’iniziativa del concerto possa portare prestigio alla città di Ferrara, con tutti gli indotti conseguenti, i miei assistiti ritengono che la località prescelta per lo svolgimento del concerto possa nuocere in modo irreparabile alle specie vegetali e animali presenti all’interno del parco.
Al riguardo l’Aeroporto di Aguscello si è reso disponibile ad ospitare tale manifestazione.
Nella convenzione stipulata tra le parti, all’art. 5 è stato previsto il Parco Bassani come luogo di svolgimento dell’evento ma non sono stati considerati i rischi per le specie vegetali e animali che l’evento comporterebbe.
In particolare, come indicato dal biologo dott. Alessandrini, nella relazione qui allegata, “la posa in opera dei cavi per l’alimentazione elettrica richiederà lo scavo di trincee che danneggiano gli apparati radicali delle specie vegetali presenti, siano esse erbe o specie legnose. Qualora gli apparati radicali degli alberi venissero seriamente danneggiate, non è possibile escludere che gli alberi stessi mostrino immediatamente o a distanza di anni sofferenze fino alla morte”.
Allo stesso modo, l’ornitologo dott. Tinarelli ha evidenziato come il Parco urbano Giorgio Bassani è caratterizzato da elementi seminaturali di pregio quali prati, laghetti, boschetti, siepi e alberi isolati, che ospitano una ricca ed interessante comunità ornitica.
Lo svolgimento del concerto comporterebbe inevitabilmente degli impatti, sulla fauna presente e in particolare sugli uccelli, causati da emissione di rumori e incremento della presenza antropica nell’area con conseguente sottrazione di spazi seminaturali che determina la perdita temporanea di habitat per la fauna ivi presente.
Non deve essere trascurato che i rumori improvvisi e ad alto volume determinano l’immediato allontanamento degli uccelli con conseguente rischio di:
a) collisione con cavi di linee elettriche e vetrate di edifici illuminati se il disturbo avviene di notte,
b) raffreddamento (e quindi morte) di uova e piccoli e/o loro predazione se il disturbo avviene durante la riproduzione,
c) perdita di interesse verso siti idonei alla riproduzione se il disturbo avviene durante il periodo di insediamento,
d) perdita di interesse verso siti idonei all’alimentazione e alla sosta in ogni periodo dell’anno e del giorno.
Con la presente, pertanto si chiede di voler individuare un’altra località per lo svolgimento del concerto, evidenziando che, in assenza di altre “location”, l’Aeroporto di Aguscello si è reso disponibile ad ospitare tale manifestazione, avendo un’area di 120,000 mq disponibile.
Si chiede di dare riscontro alla presente nel termine di 7 giorni, eventualmente motivando l’inopportunità di individuare altre sedi per ospitare l’evento.
In difetto di riscontro l’associazione Animal Liberation si riserva la possibilità di adire il Presidente della Repubblica per esperire un ricorso finalizzato alla sospensione dell’efficacia della convenzione.
In attesa di riscontro si porgono distinti saluti.

Avv. Massimo Rizzato

 

Non hai ancora firmato la petizione popolare “Salviamo il parco Giorgio Bassani di Ferrara #Save the Park“?

Aperte le iscrizioni e le proposte alla seconda edizione di Eirenefest

 

La seconda edizione di Eirenefest, festival del libro per la pace e la nonviolenza si svolgerà ancora a Roma dal 26 al 28 di Maggio nel quartiere di San Lorenzo. Anche quest’anno Pressenza sarà media partner dell’iniziativa.

Le macro aree scelte dal comitato promotore per quest’anno sono riconciliazione personale e sociale,  libertà e diritti, conflitto e conflitti e conoscenza e futura umanità: come al solito si invitano realtà editoriali, associazioni e singole persone a iscriversi e a fare proposte di attività nell’ottica partecipativa che caratterizza il festival tramite un apposito form che verrà inviato a tutti gli iscritti che ne faranno richiesta.

Tutte le attività saranno gratuite e gestite da volontari: chi fosse interessato a dare una mano si iscriva precisando come vuole aiutare e verrà ricontattato dalla segreteria del festival.

Una novità di quest’anno sarà quella di un maggior coinvolgimento delle scuole nelle attività e di una apertura maggiore a livello internazionale sia come invitati che come associazioni e realtà editoriali partecipanti.

Quest’anno il Festival è sostenuto con i fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese.

Cover:  Vandana Shiva sul palco di Eirenefest 2022 (Foto di Associazione Futura)

Casa Triste Casa: l’altra faccia della transizione energetica.
La bidella Napoli-Milano, le casa green dei ricchi e i poveri costretti a vender casa

 

Giuseppina di 29 anni è diventata la bidella più famosa d’Italia: abita a Napoli ma lavora a Milano per 1.165 euro al mese. L’affitto le costerebbe 600 euro e, tra bollette e vitto, non ce la farebbe, le “spese obbligate” sarebbero infatti ¾ del salario, quindi prende il treno da Napoli alle 5.09 che arriva alle 9.40, giusto in tempo per lavorare dalle 10.30 alle 17. Poi riprende il treno alle 18.20 che arriva alle 22.53 a Napoli (salvo ritardi), ma spende meno (400 euro al mese) e così ce la fa anche se fa 10 ore in treno al giorno.
Ma anche il bidello Rocco Scoleri da Bovalino (Reggio C.) che prende 1.229 euro di ruolo da 2 anni dopo 9 anni di precariato non se la passa molto meglio a Modena. Affitto condiviso in 4 in una casa di 100 mq. con servizi in comune che gli costa 400 euro al mese più le utenze. Anche a Modena ci sono gli studentati a 24 euro al giorno (730 al mese) che però non sono sostenibili.

Giuseppina e Rocco fanno parte di quei 4-5 milioni di lavoratori poveri (su 23 che lavorano in Italia) che lo stanno diventando sempre di più con l’alta inflazione. Il lavoro si genera sempre più nelle grandi città dove affitti e case costano sempre di più. Mentre cresce l’impoverimento generalizzato per l’alta inflazione, crescono nell’eurozona i banchieri che guadagnano oltre un milione di euro all’anno: dai 1.383 del 2020 a 1.957 del 2021. In Italia sono 351 (fonte: Autorità bancaria UE).

Un’indagine dei sindacati negli anni ’80 aveva dimostrato che tra i poveri c’erano anche quei dipendenti che lavoravano nelle grandi città e che erano in affitto; inoltre che le spese maggiori erano quelle per il dentista (loro o dei figli). Negli ultimi 40 anni non solo nulla è cambiato, ma le cose sono peggiorate, con affitti sempre più alti nelle città e mancanza di un servizio pubblico per i denti.

Così a Firenze studenti e lavoratori non ne possono più degli affitti alle stelle e parte il referendum per impedire che gli studentati diventino “di lusso” (a 50 euro al giorno) e che il Comune consenta la trasformazione di edifici pubblici in ennesime case acquistate dalle immobiliari per i turisti che impediscono a chi lavora e studia di trovare una casa o un affitto a prezzi decenti. Firenze sta diventando gradualmente (come Venezia e Milano) sempre meno accessibile a chi vi lavora e studia, per essere disponibile ai turisti e ai “ricchi nomadi” di tutto il mondo.

Mentre peggiorano le condizioni materiali della grande maggioranza dei lavoratori e dei pensionati, nonni che spesso sono il welfare famigliare (aiutando figli e i nipoti a studiare), avanza la transizione digitale e “verde” che vuole rendere le case più efficienti. Per il digitale saranno “sollevati” i Comuni dal dare l’autorizzazione alle antenne di 28 metri del 5G, come chiedono le big company e l’Europa propone che si arrivi entro il 2030 alla classe E, ed entro il 2023 alla classe D. Per l’Italia alcuni stimano 8 milioni di case (ma l’Ance dice che sono solo 3,7 milioni) per un risparmio energetico stimato del 15%. Quanto costerebbe per appartamento/casa? Dai 20mila ai 40mila euro. Sarebbero 30-100 miliardi di investimenti all’anno per 7-10 anni. L’ipotesi è che almeno il 50% delle spese sia detraibile a carico dello Stato in 5 anni. Ma in questo caso gran parte delle famiglie povere non si potranno permettere di spendere il 100% e poi recuperarne la metà in 5 anni. Se la detrazione fiscale salisse al 90% si potrebbe fare, ma lo Stato può permetterselo? Vedremo.

I paesi più ricchi e le famiglie più ricche preferiscono stare in affitto, si spostano frequentemente in altre case e luoghi o per lavoro o per abitare in una casa più grande e sono invece i paesi più poveri ad avere un’alta percentuale di proprietari, perché tutto quello che hanno lo investono nella loro casa. L’Italia ha il 70% di proprietari, contro il 60% della Germania e il 50% della Svizzera. In quei paesi le proprietà sono spesso di grandi immobiliari che hanno le “spalle larghe” per poter ristrutturare e/o rivendere, mentre in Italia le spese sarebbero tutte o in parte a carico del singolo proprietario.

In Italia le case dove bisogna intervenire entro il 2033 sono in teoria il 76% del totale: 34,3% in classe G, 25,4% in classe F, 16,3% in classe E. Le altre sono: 9,8% in classe D; 4,4% in classe B; 7,3% in classe A. Le tre classi più energivore (E, F, G) avevano prima del superbonus 110%, il 77% delle case, ora sono il 76%. Ciò significa che l’80% degli interventi è stato fatto sulle case che avevano meno bisogno.
Sono 62 i miliardi di lavori pagati dallo Stato per il 110% che sono andati a 360mila case (inclusi condomini, stime Ance) per 4/5 alle fasce medio alte e seconde case (che sono 5,6 milioni) che avevano quindi già buone case in classe A, B, C, D.

Il superbonus è vero che ha prodotto un aumento degli occupati, del PIL e delle imposte riscosse (stime indicano il 43% di quanto lo Stato ha speso) e non voglio dire che fosse una cattiva misura (è anche un modo per generare moneta aggiuntiva), ma proprio alla luce di questa direttiva che avanza (e che immagino fosse conosciuta) doveva essere meglio disegnato con sussidi meno generosi e per un tempo più lungo e soprattutto con incentivi tanto maggiori quanto più le case erano in classi energetiche basse (per es. max 80-90% ma poi a scalare per chi ha case meno energivore); infine privilegiando i condomini ed escludendo le seconde case.
Così, dopo un’alzata di genio italico (per certi versi è una misura innovativa), ci troviamo messi quasi come prima nella maggioranza delle case e dei condomini energivori, in quanto il 110% è intervenuto solo nel 5% delle case unifamigliari e nello 0,8% di case plurifamigliari o condomini e per 4/5 in case delle classi migliori.

Secondo l’ANCE (Associazione Nazionale Costruttori Edili) servirebbero per 10 anni circa 40 miliardi all’anno solo per gli edifici residenziali (più altri 19 per gli immobili strumentali), per un totale di 59 miliardi all’anno, cioè il doppio annuo di quanto avvenuto col 110% e solo per intervenire su 3,7 milioni di immobili (il 15% dell’intero patrimonio). Sarebbe un intervento di enorme portata che potrebbe determinare un ingolfamento dei lavori e un aumento di tutti i prezzi come avvenuto col 110%. Bisogna quindi capire bene come sarà congegnata la proposta dell’Europa. Al di là delle imprese edili (che non abbiamo), sono in grado le famiglie più povere di pagare 15-40mila euro per efficientare la loro casa/appartamento (seppure agevolata al 50-60%)?

Chi sarebbero gli interessati? Uno studio della Fondazione Di Vittorio ci dice chi sono i “poveri energetici”: 6,4 milioni di persone (10,9% della popolazione), molti anziani che vivono soli e hanno poche conoscenze, dei quali la metà “vulnerabili”, che si trovano in condizione di difficoltà ad acquistare un paniere minimo di servizi energetici e che, oltre alla condizione di disagio economico, vivono in una casa non efficientata, 31% sono vedove/i, che vivono da soli o in due, 2/3 sono donne e nel 42% con la licenza elementare. Molti sono in affitto e 4/5 abitano in una casa costruita prima del 1970.
Le spese di efficientamento energetico degli edifici sono state affrontate da circa il 65%, dal 35% tra i vulnerabili e 25% tra i poveri. Si riscaldano con il camino tradizionale a legna o con gas e gasolio.  Solo il 5,5% ha pannelli solari o fotovoltaico e il 10% non ha proprio alcun riscaldamento. Spendono circa 650 euro per anno, mentre per la casa sui 900 euro per anno. Solo il 18% conosce i “bonus”.

L’ipotesi è un intervento non obbligatorio, in quanto una ristrutturazione di tutto lo stock in classe E, F, G non sarebbe possibile neanche con Mandrake alla presidenza del Consiglio, per cui le case e condomini non ristrutturati (sostanzialmente quelli dei più poveri che non hanno i soldi per farlo), verrebbero svalutati e molti, alla prima difficoltà economica (se perdono il lavoro o non riescono a pagare il mutuo), sarebbero costretti a vendere una casa svalutata. Una ghiotta occasione per le grandi immobiliari che non aspettano altro. Il che produrrebbe forse un milione di altri poveri. Spiace che sia la destra sociale a sollevare il problema, in altri tempi lo avrebbe fatto la sinistra, che oggi privilegia l’ambiente e non sempre chi lavora e i ceti deboli.

La transizione verde va coniugata con le reali condizioni dei cittadini, altrimenti il principio della “libertà di scegliere (che ben si adatta al “sovrano consumatore”) porta a dover vendere la propria casa svalutata e ad impedire di vivere nella propria città per chi ci lavora.
Due modi diversi di un neoliberismo che si richiama alla “libertà di”, senza tener conto della “libertà da condizionamenti di sopravvivenza delle persone.

Un capitalismo che si ammanta di “verde” ma che diventa predatorio e riduce il livello di vita e la natura attorno a noi e che rischia ora di espropriare la casa ai più poveri e impedire a chi ci vive e lavora di abitare nelle belle città italiane ai ceti deboli, all’insegna della “libertà teorica” di consumare. Così vanno le cose nel secolo XXI.

Reportage Palestina: “Nel cuore di Nablus c’è un campo di battaglia.”

di: Michele Giorgio
(da Pagine Esteri del 20-01.2023)

Pagine Esteri, 20 gennaio 2023 – Il traffico è quello caotico di tutti i giorni. Fabbriche, laboratori di artigiani e negozi sono aperti. Come fanno ogni mattina gli studenti dell’università al Najah a passo veloce raggiungono il campus e di pomeriggio affollano i caffè intorno all’ateneo riempiendo l’aria di suoni, parole, risate. Nablus sembra vivere una tranquilla quotidianità. È solo apparenza. La seconda città palestinese della Cisgiordania dalla scorsa estate vive in un clima di guerra, una guerra che si combatte soprattutto di notte e che non risparmia nessuno. Il campo di battaglia principale è la casbah, la città vecchia. Gli uomini delle unità speciali dell’esercito israeliano, i mistaravim in abiti civili che si fingono palestinesi, di notte con azioni fulminee aprono la strada ai blitz dei reparti dell’esercito a caccia di militanti della Fossa dei Leoni, il gruppo che riunisce combattenti di ogni orientamento politico diventato l’icona della lotta armata palestinese. Incursioni che sono accompagnate da intensi scontri a fuoco e che terminano con uccisioni di palestinesi, compiute quasi sempre da cecchini.

«Viviamo come se fossimo in guerra, con gli occupanti (israeliani) che entrano quasi ogni notte nella città per uccidere o catturare qualcuno e spesso a pagarne le conseguenze sono i civili» ci dice Majdi H., un educatore che ha accettato di accompagnarci. «La casbah è l’obiettivo principale di Israele – aggiunge – perché rappresenta il rifugio della resistenza. Però i raid avvengono ovunque e si trasformano in battaglia alla Tomba di Giuseppe». Majdi si riferisce alle «visite» notturne periodiche dei coloni israeliani al sito religioso all’interno dell’area A, sotto il pieno controllo palestinese. Il loro arrivo, con una scorta di dozzine di soldati e automezzi militari, innesca scontri a fuoco violenti con la Fossa dei Leoni. «Vogliano vivere la nostra vita, senza più vedere coloni e soldati ma non ci viene permesso» prosegue Majdi che da alcuni anni svolge, assieme ad altri colleghi, attività di sostegno psicologico ai minori. «Sono i più colpiti da questo clima – ci spiega -, bambini e ragazzi sono i più esposti ai danni che procura questa guerra, a bassa intensità ma pur sempre violenta». La situazione attuale, ricorda a molti l’operazione Muraglia di Difesa lanciata da Israele nel 2002, quando l’esercito, nel pieno della seconda Intifada, rioccupò le città autonome palestinesi. Calcolarono in circa 300 i morti palestinesi a Nablus attraversata e devastata per mesi da carri armati e mezzi blindati. Oggi come allora, i comandi militari e il governo israeliano giustificano il pugno di ferro con la «lotta al terrorismo» e alle organizzazione armate palestinesi responsabili di attacchi che in qualche caso hanno ucciso o ferito soldati e coloni.La bellezza della casbah di Nablus è paragonabile solo a quella della città vecchia di Gerusalemme. I lavori di recupero avviati negli anni passati dalle autorità locali, grazie anche a progetti internazionali, hanno ridato nuovo splendore a edifici antichi e ad angoli nascosti. Gli hammam (bagni) che contribuiscono a rendere nota la città, sono stati ristrutturati così come le fabbriche di piastrelle e del sapone all’olio d’oliva e i laboratori a conduzione familiare che producono le gelatine ricoperte di zucchero a velo. «Ma la regina dei dolci di Nablus era e resta la kunafa» puntualizza Majdi riferendosi a una delle delizie della cucina palestinese. L’atmosfera è piacevole. Dopo la moschea al Khader si incontrano ristorantini con vasi fioriti e luci colorate che si riflettono sulla pietra bianca delle abitazioni. I commercianti espongono merci di ogni tipo e gli ambulanti a voce alta descrivono la bontà di frutta e verdura che hanno portato in città.conflitto

Entrati nel rione Al Yasmin, Majdi si fa più serio e teso. «Siamo nella zona rossa, questa è la roccaforte della Fossa dei Leoni e di altri gruppi armati. Qui ci sono scontri a fuoco quasi ogni notte tra i nostri giovani e i soldati israeliani. Non puoi scattare foto e se incontriamo i combattenti, mi raccomando, non seguirli troppo a lungo con lo sguardo. Il timore di spie e collaborazionisti è forte» ci intima a voce bassa. Sopra le nostre teste, nei vicoli, sono stati stesi lunghi teli neri per nascondere ai droni israeliani i movimenti degli armati. I muri sono tappezzati di poster con i volti di martiri vecchi e nuovi, quelli uccisi durante la prima Intifada trent’anni fa e quelli colpiti a morte nelle ultime settimane. Una sorta di mausoleo ricavato in una piazzetta ne ricorda i più famosi, tra cui Ibrahim Nabulsi, che lo scorso agosto, circondato da truppe israeliane, preferì morire e non arrendersi. Nabulsi prima di essere colpito a morte inviò un audio alla madre virale per mesi. Per i palestinesi è un eroe. Per Israele invece il primo leader della Fossa dei Leoni era un «pericoloso terrorista» e tra i responsabili di gravi attacchi armati a soldati e coloni. I mistaravim israeliani hanno già decapitato un paio di volte i vertici della Fossa dei Leoni ma il gruppo vede crescere i suoi ranghi ogni giorno di più. Ne farebbero parte tra 100 e 150 abitanti di Nablus e dei villaggi vicini. Un paio di loro ci passano accanto, non possiamo fotografarli o fermarli per fare qualche domanda, ci ribadisce secco Majdi al quale nel frattempo si è unito Amer, un suo amico che vive nella casbah per garantirci un ulteriore «lasciapassare». L’uniforme degli armati è nera, il volto è coperto dal passamontagna, una fascia colorata con il logo del gruppo avvolge la parte superiore della testa. L’arma è quasi sempre un mitra M-16.

Una «divisa» simile la indossano i membri del Battaglione Balata nel campo profughi più grande della città, noto anche per essere un bastione della resistenza alle forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese che tanti a Nablus, anche del partito Fatah del presidente Abu Mazen, ormai considerano «al servizio» di Israele. Le operazioni di sicurezza (repressive) a Nablus delle forze speciali dell’Anp sono la causa di proteste violente e le strade del centro cittadino si trasformano in terreno di scontro tra giovani e poliziotti. «Chiediamo, invano, da decenni la fine dell’occupazione israeliana, il problema principale di Nablus, di ogni città, di ogni palestinese» dice Osama Mustafa, direttore del centro culturale Yafa nel campo di Balata. «Ci abbiamo provato con gli accordi di Oslo, con i negoziati ma non è servito a nulla, restiamo sotto occupazione, le colonie israeliane ci circondano» aggiunge Mustafa. «Israele afferma che la sua pressione su Nablus è dovuta alla presenza in città di uomini armati e attua misure punitive che colpiscono tutta la popolazione». La frustrazione è palpabile, l’esasperazione per il disinteresse dei paesi occidentali deteriora il rapporto con l’Europa. «Al centro Yafa svolgiamo attività culturali e a favore dell’infanzia» spiega Mustafa «sono progetti civili, quasi sempre per i bambini. Eppure, per assegnarci i finanziamenti l’Ue chiede di firmare dichiarazioni di condanna della resistenza all’occupazione. Lo fa perché è Israele ad imporlo. Ma nessun palestinese può farlo».

(le foto in copertina e nel testo sono di Michele Giorgio)

Michele Giorgio
Nato a Caserta, dopo aver conseguito a Napoli la laurea in Scienze Politiche, si è formato come giornalista pubblicista a Radio Città Futura – Campania. Trasferitosi in Medio Oriente e divenuto giornalista professionista, lavora per il Manifesto di cui è corrispondente a Gerusalemme. Ha realizzato reportage e servizi da vari paesi del Medio Oriente e dell’Asia centrale e ha scritto tre libri su Israele e la questione palestinese. Dal 2021 è direttore della rivista di affari internazionali online Pagine Esteri.

Presto di mattina /
Di cosa parliamo quando parliamo di “consolazione”

Consolate

«A chi ti confronterò? A chi t’eguaglierò, o figlia di Gerusalemme? A chi t’assomiglierò per consolarti, o vergine figlia di Sion? Immenso come il mare è il tuo cordoglio: chi mai ti appresterà rimedio?» (Lam 2,13-15).

Il 17 gennaio è stata la giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo ebraico-cristiano. Nell’Evangelii gaudium leggiamo che «la Chiesa condivide con l’Ebraismo una parte importante delle Sacre Scritture, considera il popolo dell’Alleanza e la sua fede come una radice sacra della propria identità cristiana (cfr. Rm 11,16-18)» (n. 247).

La riflessione comune parte sempre da un testo delle Scritture e quest’anno si è scelto un passo del profeta Isaia. È un annuncio di consolazione per il popolo, chiamato a stare saldo nella fiducia che il suo Signore non lo abbandonerà: «Nahamù nahamù ‘ammì, Consolate, consolate il mio popolo» (Is 40,1).

Il testo isaiano ha una specifica collocazione nella liturgia ebraica: si situa al termine di tre settimane, in estate, segnate dal digiuno e dalla preghiera, durante le quali si ricordano le distruzioni del primo e del secondo Santuario di Gerusalemme insieme ad altri eventi luttuosi della storia ebraica.

All’inizio vengono letti testi profetici minacciosi che promettono guai per l’infedeltà e l’ingiustizia che Dio trova nel suo popolo, ma poi alla fine di questi tre sabati di desolazione e di minacce e di abbandono seguono sette sabati di consolazione. Come a dire il prevalere in modo esponenziale, esondante della consolazione sulla disperazione; la volontà smisurata di prossimità al posto dei pensieri minacciosi di separazione e lontananza.

Così le parole di Isaia si mutano da ostili, inquisitorie e sfavorevoli in parole di consolazione, di condivisione e di presenza dentro all’afflizione. «Il popolo di Israele, pur colpito da sciagure, sa che dopo il lutto viene la consolazione, la vita riprende, il legame con il Signore torna ad esprimersi su toni più sereni, nell’attesa fiduciosa della completa redenzione, su questo percorso il messaggio è sempre valido» (dal testo del Consiglio dell’Assemblea Rabbinica Italiana).

Isaia profeta dalle duplici profezie

I capitoli dal 40 al 55 di Isaia formano come un libro a sé chiamato Il libro della consolazione. Non per caso infatti viene detto: “Geremia ferisce Isaia risana”. Ma Isaia è anche il profeta delle doppie profezie: «Tutti i profeti fanno profezie semplici, tu invece le fai duplici: “Svegliati, svegliati” (Is 51,9; 51,17); “Gioisci, gioirò” (61,10); “Io, io” (51,12) e “Consolate, consolate” (40,1)» (in Pesikta de-Rav Kahana 16). Quasi un invito a credere veramente che l’ultima parola non è sventura, desolazione ma il suo contrario.

Ripetizione che intende rafforzare la veridicità e la certezza di queste parole: «”Io, io sono il vostro consolatore”. Perché si dice due volte “Io, io”? Perché sul Sinai ricevettero due io: Io sono il Signore tuo Dio (Es 20, 2). E Io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso (Es 20, 5). Per questo il Santo – sia benedetto! – è il vostro consolatore con due io: Io, io sono il vostro consolatore».

Il secondo io svela un’appartenenza di amore. Una doppia firma per un’alleanza nunziale, irrevocabile, ulteriore continuità della promessa a una duplice fedeltà, autenticata due volte, quasi a sottolineare la tenacia di una parola data, di un amore geloso.

Nei sette sabati si leggono selezioni di brani profetici disposti come a formare un dialogo ideale, un intreccio dialogico tra le parole dei profeti, del popolo e del suo Dio. Un’omelia rabbinica riporta questi dialoghi. Dapprima Dio manda Abramo, Isacco e Giacobbe con messaggi di consolazione, ma essi falliscono nel dare consolazione.

Poi ci riprova con i profeti, ma anche le loro parole non riescono a consolare. I sentimenti del popolo restano infatti confusi e incerti perché ad ogni parola di consolazione il popolo – rappresentato nella figura della figlia di Sion – ricorda anche le precedenti parole di minaccia e di ostilità, tanto da generare una grande insicurezza e profonda inquietudine.

Così il popolo diffidente, disperato e provato dalle sciagure non sa darsi consolazione e dice: «il Signore mi ha abbandonato, il mio Signore mi ha dimenticata» (Isaia 49,14). E ogni volta gli inviati ritornano a Dio senza esser riusciti nella loro impresa. Da ultimo ci proverà il profeta Malachia, pure lui senza esito; così dopo quell’ultimo tentativo andato a vuoto Dio prenderà una decisione: quella di andare lui stesso a consolare il suo popolo.

Nella seconda Omelia (Sete del Dio vivente, Omelie rabbiniche su Isaia, Città Nuova, Roma 1981, 83-84) la figlia di Sion dice al profeta Malachia: «Ieri mi hai detto: Non c’è in me alcun compiacimento di voi, dice il Signore delle schiere (Mal 1, 10). Ed ora tu dici: Voi sarete terra di compiacimento? A che crederemo? Alle prime parole o alle ultime? Come mi consolate invano! Perché? Perché delle vostre risposte non resta che perfidia! Di parole come queste ne ho udite molte, voi tutti siete consolatori di afflizione”. Tutti i profeti vanno dal Santo – sia benedetto! – e gli dicono: “Signore del mondo, abbiamo cercato di consolarla e non ha accettato!”. Dice loro il Santo – sia benedetto! -: “Venite con me. Io e voi andremo da lei e la consoleremo”».

Rifiutando le consolazioni dei profeti, perché vane, e volendo Lui solo, la figlia di Sion lo attira a sé. Sion ha vinto sul cuore di Dio; la consolazione del cuore è opera propria di Dio; essa viene raffigurata nei profeti a volte con l’immagine di una madre o con quella del pastore e infine essa viene rappresentata con la sponsalità.

«Sì, non ti si dirà più abbandonata e alla tua terra non si dirà più desolata, perché tu sarai chiamata: “Il mio compiacimento è in lei” e alla tua terra si dirà “Sposata” perché il Signore si compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo» (Is. 62, 4).

È questo è il vertice della consolazione, il punto ultimo della storia: «Tutte le Scritture sospingono qui, al compimento perfetto di ogni desiderio di Dio e di ogni desiderio dell’uomo. Anche la liturgia sinagogale ha cura di custodire la tensione del cuore verso questo punto, celebrando assai spesso il tema delle nozze. Ogni settimana Israele va incontro al sabato come alla sposa e nel mistero del sabato celebra l’unione trasformante di Dio con la sua creatura (Abrahm Joshua Heschel, Il sabato)» (ivi 101).

Duplice pure l’“Amen” del Cristo

Viene in mente l’evangelista Giovanni quando, a differenza degli altri sinottici, ripete due volte l’amen di Gesù ogni qual volta egli vuol sottolineare l’importanza decisiva di una sua parola: «Amen, amen dico vobis/ in verità, in verità io vi dico». Amèn è parola dell’ebraico biblico (aman) che significa fermo, stabile. Indica i pilasti di una porta, ma anche le braccia che portano un bambino e lo educano. Esprime così affidabilità, ma anche tenerezza come un cuore che sta sicuro, fidente davanti alla parola di Dio. Traslitterata nel greco del Nuovo Testamento significa ‘è così’, ‘così sia’; e come avverbio significa ‘certamente’, ‘in verità.

In Giovanni il doppio amen compare 25 volte e nell’Apocalisse giovannea diventa una parola personificata: il Cristo è designato come ò Amèn/ l’Amen di Dio, il testimone fedele e veritiero. E Paolo ricorderà che tutte le promesse di Dio hanno il loro «sì» in lui. Perciò pure per mezzo di lui noi pronunciamo l’Amen alla gloria di Dio. (Cf. 2 Cor 1,20).

Va sottolineato ancora come, nel vangelo di Giovanni, Gesù indichi indirettamente se stesso come il Consolatore, colui che è chiamato vicino, quando prometterà ai discepoli alla sua partenza la venuta di un altro consolatore: «pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi… In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi» (Gv 14, 16-17; 12).

Così lo Spirito santo aggiungerà consolazione a consolazione fino a fare di voi stessi capaci di consolazione. È l’intuizione di Paolo: “consolati per consolare”: «Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare” quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio»(2 Cor 1,4).

L’Amen è un compimento, un punto di arrivo della stessa fede ma pure un nuovo inizio; l’Amen è quella soglia raggiunta che dà stabilità e che permette una ripartenza che rimette in cammino, nell’amen la forza di ricominciare a sperare.

Di cosa parliamo quando diciamo consolazione?

Parliamo di un luogo di prossimità, di una terra di mezzo, una pratica di umanità nel tempo presente, nell’oggi. Consolazione come esercizio quotidiano, dare e ricevere il pane, farsi vicino e chiamare vicino che tiene insieme il già e il non ancora, l’utopia e il disincanto, direbbe Claudio Magris. La consolazione è la trama che permette la resistenza di comunanza nelle cose avverse; un passo ancora del cammino tra questi due poli; chi consola fa strada, avanza in compagnia, oltre ogni impedimento.

Scrive Magris: «Il destino di ogni uomo, e della storia stessa, assomiglia a quello di Mosè, che non raggiunse la Terra Promessa, ma non smise di camminare nella sua direzione. Utopia significa non arrendersi alle cose così come sono e lottare per le cose così come dovrebbero essere; sapere che il mondo, come dice un verso di Brecht, ha bisogno di essere cambiato e riscattato.

Il risveglio religioso, che pure così spesso degenera nei fondamentalismi, ha la grande funzione di ridestare il senso dell’oltre, di ricordare che la Storia profana di ciò che accade s’interseca di continuo con la Storia sacra, col grido delle vittime che chiedono un’altra Storia e che, nel Giorno del Giudizio, presenteranno a Dio o allo Spirito del Mondo il libro dei conti e li chiameranno a rendere ragione del mattatoio universale» (Utopia e disincanto, Garzanti, Milano 1999, 11).

Levatrice di speranze

Quando parliamo di consolazione parliamo di speranza. Essa è levatrice di speranza che paradossalmente nasce proprio nel travaglio del disincanto e del disamore: «Il disincanto, che corregge l’utopia, rafforza il suo elemento fondamentale, la speranza. Che cosa posso sperare? La speranza non nasce da una visione del mondo rassicurante e ottimista, bensì dalla lacerazione dell’esistenza vissuta e patita senza veli, che crea un’insopprimibile necessità di riscatto. Il male radicale – la radicale insensatezza con cui si presenta il mondo – esige di essere scrutato sino in fondo, per essere affrontato con la speranza di superarlo.

Charles Péguy considerava la speranza la virtù più grande, proprio perché l’inclinazione a disperare è così fondata, così forte, ed è così difficile, come egli dice nel Portico del Mistero della Seconda Virtù, riconquistare la fantasia dell’infanzia, vedere come tutto avviene e nondimeno credere che domani andrà meglio.

La speranza è una conoscenza completa delle cose, non solo di come esse appaiono e sono, ma anche di come devono diventare per essere conformi alla loro piena realtà non ancora dispiegata, alla legge del loro essere. Essa s’identifica con lo spirito dell’utopia, come insegna Bloch, e significa che dietro ogni realtà vi sono altre potenzialità, che vanno liberate dalla prigione dell’esistente. La speranza si proietta nel futuro per riconciliare l’uomo con la storia, ma anche con la natura, ossia con la pienezza delle proprie possibilità e delle proprie pulsioni. Questo spirito dell’utopia è custodito soprattutto nella civiltà ebraica, nell’indomita tensione dei suoi profeti» (ivi, 14).

Consolazione è un fuoco tra i rovi

Quando parliamo di consolazione parliamo di un roveto ardente simile a quello visto da Mosè al Sinai: l’esserci dell’altro tra le nostre spine, come un fuoco che brucia senza consumare: «Il Santo, benedetto sia, disse a Mosè: “Non senti che io sono nel dolore proprio come Israele è nel dolore? Guarda da che luogo ti parlo: dalle spine! Se così si potesse dire, io condivido il dolore di Israele”. Perciò si legge anche (Isaia 63,9): “In tutte le loro angustie Egli fu afflitto.”» (da Esodo Rabhah, 2,5).

Consolazione: il silenzio narrante degli alberi

Dicendo consolazione parliamo pure del silenzio degli alberi in inverno, spogli e gocciolanti sotto la pioggia, in pianto. Stando in mezzo a loro, consola la compagnia del loro silenzio, quella che si fanno l’uno all’altro, il silenzio di uno custodisce il silenzio degli altri; parole nel silenzio, le loro, in attesa che la nudità scheletrica del legno si rivesta ancora una volta di foglie e fiori fruttiferi.

Di queste azzurre argille, alberi, sono
come voi, figlio e tutti qua mi siete
dunque fratelli…
Qui frutto
divien quasi ogni fior; ma, sorta appena,
ogni speranza tua cade e si perde.
È vero; è peggio anzi ora: un nudo tronco
screpolato or son io: piante sorelle,
consolatemi voi! Foglie non ho
né frondi più da riparare un nido;
e d’invocar mi resta, unica e vera
grazia per me, la scure.
Oh tu, soave
brezza, che su dal mar prossimo spiri
e queste frondi amiche in un amplesso
lieve ed ampio commuovi, agita pure
col fresco soffio i pensier miei. Tu, vento
impetuoso, forse, in alto mare,
or brezza qui, d’un naufragio orrendo
vieni a cercar tra queste foglie oblio?
Pace è qui tutto: qualche foglia teco
vola, poi lenta cade a terra, dove
ferme radici han gli alberi. Da un altro
più fosco mar son qui venuto anch’io
per pace, come te.
Qualche bizzarra
storia d’uccelli, alberi miei, col lieve
frusciar continuo delle foglie, mentre
all’ombra vostra giaccio, orsù, narrate.
(Luigi Pirandello, Sinfonia rurale, Poesie sparse, in La vita letteraria, Roma, anno IV, n. 7, 22 febbraio 1907).

La consolazione della liturgia

Amico è colui che è invocato e chiamato vicino: il consolatore. Nella liturgia sinagogale del venerdì sera si dice: «Vieni, amico, incontro alla sposa [il sabato]; il volto del sabato accoglieremo».

Ancor più suggestivo è questa invocazione per la liturgia del sabato:

O Amico dell’anima,
Padre delle misericordie,
attira il tuo servo nel tuo beneplacito,
correrà il tuo servo come un cerbiatto,
adorerà prostrato davanti alla tua gloria,
gli piaceranno i tuoi amori
più del nettare di miele e di ogni sapore.
O Magnifico, o Amabile, o Splendore eterno,
l’anima mia è malata del tuo amore,
ti prego, o Dio, orsù, guariscila,
facendole vedere
la dolcezza del tuo splendore;
allora sarà forte e sana
e avrà gioia eterna.
O Antico, si commuovano infine
le viscere della tua misericordia,
abbi pietà del figlio della tua diletta,
perché di questo languisce.
Desiderando desidero con ardore
di vedere lo splendore della tua gloria.
Questo brama il mio cuore.
Abbi pietà, infine, e non nasconderti.
Rivelati, dunque, o mio diletto,
e stendi su di me
la tenda della tua pace.
Risplenda la terra della tua gloria.
Esulteremo e ci allieteremo in te,
affrettati, o Amato,
perché viene il tempo
ed abbi pietà di noi
come ai giorni dell’eternità. Amen.
(nel libro Rinnàt-Israel, in Sete del Dio vivente, 101-102).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

 

Autonomia differenziata, fermate quel treno!
di Domenico Gallo, magistrato

(da. Volerelaluna del 20.01.202)

Uno

Secondo l’ultimo comunicato di Palazzo Chigi, il Consiglio dei Ministri ha «definito il percorso tecnico e politico per arrivare, in una delle prossime sedute del consiglio dei ministri, all’approvazione preliminare del disegno di legge sull’autonomia differenziata». In questo modo è stato messo sui binari il treno che porterà all’approvazione dell’insano progetto dell’autonomia differenziata sulla base della proposta di “legge di attuazione” dell’art. 116, 3 comma Costituzione presentata dal ministro Calderoli. Grazie all’attivismo del ministro leghista, il dibattito sull’autonomia differenziata è uscito fuori dalla clandestinità ed è diventato di pubblico dominio. Per questo è importante chiarire all’opinione pubblica in cosa consista l’autonomia differenziata e quali sono i pericoli che si prospettano.

La possibilità di concedere alle Regioni non a statuto speciale «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», la cosiddetta “autonomia differenziata” trova origine nella riforma del titolo V della Costituzione approvata nel 2001. La riforma ampliò notevolmente l’autonomia legislativa delle Regioni. L’art. 117 definì (nel secondo comma) gli ambiti riservati alla legislazione esclusiva dello Stato e assegnò (nel terzo comma) alle Regioni la competenza concorrente in 23 materie, precisando che «nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata allo Stato». Gli effetti di questa riforma hanno determinato un contenzioso, che ha tenuta impegnata la Corte Costituzionale per oltre un ventennio, per tracciare i confini esatti fra la competenza delle Regioni e quella dello Stato per ciascuna materia. E tuttavia nella riforma c’è un criterio che rende modificabile il confine per le Regioni che siano interessate ad acquisire maggiori forme di autonomia, cioè più potere. L’art. 116, terzo comma, infatti, recita: «Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate nel secondo comma del medesimo articolo alle lettere l, limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, ed s, possono essere attribuite ad altre regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la regione interessata». È bene precisare che si tratta di una mera facoltà e non di un obbligo costituzionale, che non può essere avulsa dalla tela dei rapporti fra organi costituzionali e diritti dei cittadini come delineati nel testo costituzionale. Se le Regioni ottenessero la competenza piena in tutte le materie di competenza concorrente e nelle materie di competenza esclusiva dello Stato (norme generali sull’istruzione, tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali), verrebbe surrettiziamente ribaltata la norma che ha tracciato i confini fra i poteri dello Stato e quelli delle Regioni, senza ricorrere al procedimento di revisione della Costituzione, di cui all’art. 138. Verrebbe pregiudicata anche l’eguaglianza dei cittadini, in aperto contrasto col principio fondamentale di cui all’art. 3. Per non parlare dell’istruzione dove la possibilità di attribuire alle Regioni la competenza sulle norme generali si scontra con la disposizione di cui all’art. 33, che statuisce: «La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione».

Due

Le disposizioni di cui al terzo comma di cui all’art. 116, sono compatibili con l’impianto costituzionale solo ove se ne dia un’interpretazione restrittiva. Vi sono materie che non possono essere parcellizzate per esigenze specifiche di un territorio: scuola, autostrade, ferrovie, salute, tutela e sicurezza del lavoro, grandi reti di produzione e trasporto dell’energia, chiamano in causa un indivisibile interesse nazionale. Invece, le richieste delle Regioni capofila – Veneto, Lombardia e, in misura ridotta, Emilia Romagna – hanno di mira tutte e 23 le materie di competenza concorrente e persino le due o tre materie che rientrano nella competenza esclusiva dello Stato. In altre parole si è aperto un processo politico che mira ad utilizzare il “baco” inserito nell’art. 116 della Costituzione come una breccia per squarciare l’intero impianto costituzionale e ribaltare il principio fondamentale dell’unità della Repubblica, trasformando l’Italia in una serie di repubblichette semi-indipendenti. Non a caso la legge Calderoli è stata denominata “lo spacca Italia”. Si tratta di un progetto “sovversivo” dal punto di vista della legalità costituzionale e particolarmente insidioso per le sue modalità procedurali. Infatti l’autonomia differenziata, una volta concessa, sarà potenzialmente irreversibile. Questo perché il processo di determinazione dell’autonomia differenziata si fonda sulle intese stipulate fra il Governo e la Regione richiedente e, raggiunta l’intesa, il Parlamento non può modificarla, ma solo approvarla in blocco o rigettarla. Una volta deliberata, inoltre, la legge che approva le intese non può essere sottoposta a referendum abrogativo. Né l’intesa potrebbe essere modificata con una nuova legge perché occorrerebbe il consenso della Regione interessata, senza il quale l’intesa raggiunta è destinata a durare in eterno.

L’art. 117 della Costituzione, inoltre, precisa che spetta alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Sono passati oltre venti anni e questa funzione non è stata mai esercitata per ragioni oggettive, visto che in Italia ci sono forti differenziazioni nella erogazione delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, per cui trovare un punto di equilibrio accettabile per tutti imporrebbe di mobilitare ingenti risorse che, in tempi di austerità, sarebbe stato difficile trovare. Ora, l’esigenza di procedere alla determinazione dei LEP è stata considerata un presupposto necessario per poter attribuire alle Regioni le risorse necessarie per l’esercizio delle nuove competenze trasferite dallo Stato. Per risolvere questo problema, che si trascina da vent’anni, il Ministro Calderoli ha innestato il turbo, facendo inserire nella legge di bilancio una decina di commi con i quali si prevede una procedura accelerata che, entro il dicembre del 2023, dovrebbe portare alla determinazione dei LEP, che avverrà con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM). Come si è visto, la Costituzione prevede che devono essere le assemblee elettive, con legge, a determinare quali prestazioni e quali livelli essenziali devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Nel disegno Calderoli, inserito nella legge di bilancio, invece, è il Governo che stabilisce i diritti che devono essere garantiti ai cittadini e il loro ambito di applicazione. Quello che è ancora più assurdo è che si pretende di fare questa operazione a costo zero. Il risultato sarà che l’asticella dei diritti civili e sociali sarà necessariamente determinata a un livello piuttosto basso. In questo modo verranno cristallizzate le disuguaglianze che affliggono il nostro paese, soprattutto a svantaggio del Meridione e delle Isole. Questo perché lo stesso disegno di legge Calderoli, nella norma relativa al trasferimento delle funzioni e delle risorse (art. 4), stabilisce che «le risorse necessarie per le funzioni relative a ciascuna materia o ambito di materia sono determinate in base al criterio della spesa destinata a carattere permanente (cioè la spesa storica) sostenuta dallo Stato nella Regione per l’erogazione dei servizi pubblici corrispondenti». Secondo gli ultimi dati, la spesa pubblica pro capite è pari a poco meno di 19.000 euro in Lombardia, viaggia sui 16.000 in Veneto, mentre si ferma a poco più di 14.000 in Sicilia, in Calabria a 15.000, in Campania a 13.700 euro. La determinazione dei LEP a costo zero non inciderà su questa situazione di disuguaglianza, ma la consoliderà. Pertanto il finanziamento della maggiore autonomia prefigura un drenaggio di risorse a favore delle regioni economicamente più forti. In sintesi, la proposta di legge di attuazione presentata da Calderoli apre la via, da un lato, alla frammentazione del paese in repubblichette semi-indipendenti e, dall’altro, a un sicuro aumento delle diseguaglianze e dei divari territoriali, tra cui in specie quello strutturale Nord-Sud.

Se il processo di spostamento della competenza legislativa dallo Stato alle Regioni venisse portato a compimento, per tutto ciò che riguarda le scelte fondamentali inerenti il sistema produttivo e la vita civile nel nostro paese, come l’istruzione, i trasporti, le comunicazioni, le reti dell’energia, le condizioni di lavoro e dei lavoratori, l’ecologia, l’ambiente, la sanità, al posto di una disciplina legislativa ne dovremmo avere venti, ognuna con efficacia territoriale limitata. Al posto del contratto collettivo di lavoro, torneremo alle gabbie salariali. Di fronte a una nuova pandemia, avremo l’impossibilità di determinare delle regole di profilassi comuni. Non sarà possibile programmare una politica energetica per la transizione ecologica e la decarbonizzazione dell’economia. Venti mini Stati regionali faranno decollare la spesa pubblica legata al costo degli apparati amministrativi. Si tratta di una scelta insensata, inefficiente, costosa e caotica.

Tre

L’insieme delle considerazioni fin qui svolte ha indotto il Coordinamento per la democrazia costituzionale a presentare una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, sostenuta da circa 120 costituzionalisti, docenti universitari di varie discipline, studiosi, sindacalisti, esponenti della società civile, recante una modifica degli art. 116, comma 3, e 117.

La scelta di una legge di iniziativa popolare trova la sua ragione in una recente (2017) modifica del regolamento del Senato (art. 74) che assicura si giunga al dibattito in aula. Un riscontro si è avuto da ultimo con la legge costituzionale n. 2 del 7 novembre 2022, che ha introdotto nell’art. 119 il riconoscimento dell’insularità, iniziando il suo percorso in Senato come legge di iniziativa popolare sostenuta da 200.000 firme raccolte in Sicilia e Sardegna. Dunque, è oggi possibile creare un contesto in cui le forze politiche siano chiamate a prendere chiara e pubblica posizione sull’autonomia differenziata nella sede appropriata, dove un confronto sul tema non c’è finora mai stato, pur essendo il tema dal 2018 una priorità nell’agenda di tutti i governi. E sarebbe battuto il tentativo del ministro Calderoli di ulteriormente emarginare il Parlamento.

Nel merito, la proposta punta a correggere i punti deboli prima evidenziati nell’impianto degli articoli 116, comma 3, e 117, togliendo così il fondamento normativo alle scelte perseguite dal ministro Calderoli. Quanto all’art. 116, comma 3, viene cancellata la natura pattizia, causa della potenziale irreversibilità dell’autonomia una volta concessa, recuperando una opportuna flessibilità. Viene altresì sottolineata la connessione a specificità proprie del territorio, per evitare la bulimia di competenze che nulla hanno a che fare con la regione richiedente, e viene introdotta la possibilità di referendum nazionali sia approvativi nel momento della concessione dell’autonomia che successivamente abrogativi. Nell’art. 117 vengono spostate dalla potestà legislativa concorrente a quella statale esclusiva le materie strategiche per il sistema-paese, l’unità e l’eguaglianza nei diritti, dalla scuola e università alla tutela della salute e al Servizio sanitario nazionale, al coordinamento della finanza pubblica, al lavoro, alla previdenza, alle professioni, all’energia, alle grandi reti di trasporto e navigazione, ai porti e aeroporti di rilievo nazionale e interregionale. Inoltre, i livelli “essenziali” delle prestazioni vengono ridefiniti come livelli “uniformi”. Infine, si introduce una clausola di supremazia riferita all’unità giuridica ed economica della Repubblica e all’interesse nazionale.

Il treno dell’autonomia differenziata lanciato da Calderoli ormai è partito ma può essere ancora fermato. Bisogna far conoscere a cittadini/e cosa c’è in fondo a questo processo: se lo conosci, lo eviti. La proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare può essere firmata con lo SPID sul sito www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it.

Domenico Gallo
Magistrato è presidente di sezione della Corte di cassazione. Da sempre impegnato nel mondo dell’associazionismo e del movimento per la pace, è stato senatore della Repubblica per una legislatura ed è componente del comitato esecutivo del Coordinamento per la democrazia costituzionale. Tra i suoi ultimi libri “Da sudditi a cittadini. Il percorso della democrazia” (Edizioni Gruppo Abele, 2013) e “Ventisei Madonne Nere” (Edizioni Delta tre, 2019).

Fantasmi /
Una svegliata

a sveglia suona.
Per spegnere quell’aggeggio infernale mi sono dovuta trascinare, lungo il corridoio, fino al comodino in ingresso. L’altra me, di ieri sera, ha tirato questo brutto scherzo perché mi vuole bene.
Il treno è tra meno di un’ora. Devo fare la valigia; ma perché la me di ieri non l’ha preparata? Ci butto dentro tutto quel che capita anche il ferro da stiro. Mentre mi lavo i denti penso che no, proprio no, il ferro da stiro insieme ai vestiti non si può: potrebbe strapparli con la punta d’acciaio. Torno in camera, sporgendomi sulla valigia aperta per terra, con lo spazzolino tra i denti. Scivola dalle labbra la schiuma del dentifricio. Gocce, bianche come latte, sul vestito di seta. No! Lo strofino sotto il getto d’acqua. Con il fiato del phon lo asciugo. L’alone più chiaro rimane. Chiudo la valigia. Meglio chiamare un taxi. Il mio cellulare si sta scaricando. Cerco il cavo. Lo trovo dentro a un libro. Nel prenderlo rovescio una birra aperta. Al diavolo! Attacco il cavo alla presa. “Sì grazie… Sì esatto al civico 47…. Scendo tra dieci minuti”. Oh! Stavo per dimenticare il regalo. È già stato infiocchettato dal negoziante per fortuna. E le mie solite scarpe basse e comode? Non c’è spazio.
Manca il bigliettino!
Calma! Respira. Espira. Scriverò una frase in treno.
Salgo sui tacchi.

“Ehi! Siamo arrivati!” Mi sono addormentata. Scendo dal taxi. Corro saltellando sui sampietrini. Uff! Mi lascio cadere sul sedile del treno. Vengo cullata. Mi riaddormento.

Il fischio mi fa trasalire. “Arriiivaaatiiii!”  Nella folla vedo qualcosa saltare, un braccio si agita. È la mia amica. “Ma quanto sei bella” mi bacia “Ma che fai la timida?” “Ma no! Ma che dici, è che sai, non sono riuscita a chiudere occhio da ieri”. “Per l’emozione! Che carina! Mi vuoi proprio bene tu”.
Mi piego in due per passare attraverso la porta del suo appartamento vuoto. Ci sono solo due sacchi a pelo in terra. “Staremo come ai vecchi tempi stanotte” mi dice. Istintivamente poggio le mani sui reni, ma lei me le prende stringendole tra le sue. “Per chiudere il cerchio bisogna ripartire dall’inizio!” Apre l’armadio e tira fuori il vecchio abito da Pluto. “Non posso credere che tu l’abbia conservato per tutto questo tempo”, mi viene da ridere. Era il primo costume costruito insieme, secoli fa, per carnevale. Rido, rido, rido forse troppo.  La mia risata diventa un singhiozzo. “Ma quanto mi vuoi bene tu! Sei più emozionata di me”. Mi abbraccia.
Sta per esplodere il mal di testa. Non so come ma ce l’ho fatta. Sono vestita a festa e pure pettinata: ho uno chignon. Siamo intorno a una tavola immersa tra ranuncoli e non ti scordar di me. Vicino c’è anche una piscina illuminata. Mi guardano. Perché mi fissano? Si aspettano il brindisi da me? Devo dire qualcosa? Oh cavolo… mi accorgo ora di non avere scritto il bigliettino da accompagnare al regalo. Vedo passare un vassoio di mousse traballanti. Vorrei essere una di quelle mousse per andarmene via su quel piatto d’argento. Non riesco a deglutire. La lingua è incollata, anzi, la sento più grande del solito. I piedi sono rigidi a paletta. Le gambe senza consistenza, da invertebrato, come pongo. Ma possibile che io non abbia proprio nulla da dire? Piccoli percussionisti battono le mie tempie. Vedo le parole, che non riesco a pronunciare, veleggiare per poi cadere infrangendosi in terra.
Mi guardano.
Continuano a fissarmi.
Ho candele di cera al posto delle orecchie: prima si incendiano e poi si sciolgono. Nella mia testa i percussionisti hanno chiamato l’artiglieria, colpiscono sempre più. Un sottofondo musicale emoziona la festeggiata. “Uuuh ragazze! Questa la dobbiamo ballare tutte insieme”. Lei mi tira per le braccia. “Andavamo matte per questa canzone al liceo. Ti ricordi?”. “Sì, sì! No! No! Davvero… dai! Vi guardo da qui… Vi scatto le foto.” Appena si allontanano, mi schiaffeggio, immergo i polsi nel secchiello del ghiaccio del vino bianco che tengo in grembo sotto la tavola. La bottiglia dell’acqua è troppo distante da me. Ho sete. Un gancio diretto allo stomaco mi lascia senza fiato. Un altro scherzo dei miei nemici invisibili. Ma guardati! Stai qua da sola nel tuo vestito in seta stile impero. Quello che avevi scelto con cura per starci comoda dentro. Ed eccoti qui, invece, incollata alla sedia strizzandoti il ventre. E pensare che attendevo da mesi questa serata. Volevo davvero star bene, divertirmi, condividere questa sua felicità. Oddio tornano! Tutte allegre e saltellanti loro. Le odio! Prima che propongano qualcos’altro devo inventarmi qualcosa. Qualcosa che le tenga calme e ferme. Mi butto e propongo: “Facciamo il gioco dei segreti!”. “Sì dai!”. “Ognuna deve dire il segreto che secondo lei nasconde un’altra”. “Secondo me tu sei gelosa che Sara si sposa.”. Abbasso la testa ma subito la rialzo. Guardo negli occhi il cecchino mascherato da biondina slavata che ha appena parlato. Sara fa un gridolino. Ha cambiato abito. O meglio si è mascherata. Indossa il vestito da Pluto. Soltanto ora riconosco la mia amica. Adesso sì che vorrei stringerla e abbracciarla forte, forte. È luminosa e tiene sotto il braccio, come fanno gli schermitori col casco, la testa di Pluto. Tutte ridono e poi si ammutoliscono mentre lei perde l’equilibrio cadendo in piscina. Riemerge. Tra i capelli gocciolanti solo il suo sorriso. È bellissima.
È così che voglio ricordarla.
Socchiudo gli occhi mescolando il passato al futuro:
siamo entrambe vestite di bianco, sull’altare delle nudità, con quel Sì che soltanto Sara ha pronunciato per gioco.
In quel Sì io sono rimasta impigliata.
Le altre si tuffano una dopo l’altra. Non le distinguo più.
Gli abiti, rigonfi d’acqua, danzano immersi in quel rettangolo turchese. Sembra sia caduto il cielo in terra con tutte quelle stelle galleggianti. Mi metterei seduta per terra, a gambe incrociate, per dipingere queste emozioni in un colore rosa pallido, argento e viola plumbeo. Vorrei fermare l’immagine per sempre.
Questa festa ormai è un quadro da appendere alla parete del passato.
Intorno tutto è indistinto e gommoso. Mi sento all’interno di uno di quei budini gelatinosi all’amarena che sfilano ora sulla tavola. Anche le note fanno fatica a muoversi trattenute da quell’aria densa.
È il momento della torta.
Abbraccio la pancia.  Prendo lo scialle, che avevo poggiato sullo schienale della sedia, lo annodo intorno alla vita, intorno all’alone bianco di dentifricio.
Mi alzo.
Prendo uno di quei budini vermigli e lo posiziono al centro della sedia del cecchino.
Ora sì che posso uscire di scena. Sono libera. Libera di non dare spiegazioni. Libera di lasciare gli altri interpretare. Libera di liberarmi. Libera di vomitare.
Scendo dai tacchi.

In copertina: Roma, Villa Doria Pamphilj. “Chi è la sposa solitaria tra le due? ” (Foto di Francesca Alacevich)

Parole a capo
Lucia Boni: alcune liriche da “Lembi e le sette chiese”

“La scrittura è l’ignoto. Prima di scrivere non si sa niente di ciò che si sta per scrivere e in piena lucidità.”
(Marguerite Duras)

(da “Lembi e le sette chiese”, La Carmelina editrice – Ferrara 2016)

lembi d’inverno

novedodici

lacrime
non le trattengo
in questi giorni ascolto
musica segreti
in queste foglie
d’inizio di dicembre
note piegate e secche
sul Platano e tenaci al
fremito forte del sottile vento
neri e rugosi
i toni più profondi
solchi nel tronco dell’Acacia
piume di struzzo verde-soffio invece soffice
sulle mani con le fronde
si manifesta e maschera di gialli
intensi e radi
chiari di tromba e ottoni
ori e illusioni
l’Acero dai ritti rami
espansi suoni dalla terra questi
fini altri così fini
sul capo e sui capelli campanelli
d’argento ha
il Pioppo bianco spoglio
Sophora intreccia fitto il cespo
verde vibra d’armonium
la cupola e la piccola cappella
suona nascosta e dolce
clausura la sua ombra tonda e scura
[nessuno sa se sotto sono i rami
come io li conosco serpentini
percorsi
liquidi] e intanto scende zigzagante
sulle guance di nebbia
la canzone

 

daccapo la mattina

a grovigli

muri d’albe d’inverno
superati ogni giorno al
buio fine che infine
io dipano

e daccapo

 

sempre

amo le
strade rare di incontri
scivolati così senza parlare

e gli spigoli rossi e le paraste
in aliti di nebbie e di misteri

ecco i ciottoli e curvo sui pedali
cigola l’uomo apparso e poi svanito

senti che da finestre lampi rossi
danza di radio e di cucchiai usciva

le porte logore talune
altre di ottoni lucidi e di rame

io raccoglievo mazzi di profumi
d’oltre i muri e venivo fuori

dagli androni umidi e dal buio
per trovarmi ancora oggi in faccia al sole

non metto mai le lenti scure amo
avere da ogni cosa il suo colore ai

passi non suggerisco le andature
e vado lenta e lesta grave o lieve

sempre

 

germinare a gennaio (I)

passa che passa
saltano lo steccato
interi ovili

nuvole di lana sul soffitto
ora su ora
e passa anche la notte

alle tue spalle
arriva tardi il sole
siepi di nebbia

estraniano la strada
ti aspettano davanti
poi spostano le quinte

di fronte ti confondono le
forme bulbi che pulsano
di deboli lumi

vanificano presto
fatue le cose
– strisciando avanza intimorito dondola

di tulle
pallido e a tratti ti urta
il giorno già di fine

dicembre – è breve
ed è gennaio

pronto a germinare

 

germinare a gennaio ( II )

qui è la provvidenza
e la pianura
a germinare giorni fermi e stesi

germinare nel gelo
nel contrasto di strati

duri glauchi di sopra sotto
e più giù nero di carbone e già calore
al confronto

ed è riposo lento e
senza strappi sereno tutto
d’aria tersa e terra

e lunghe – lunghe le ore
in notti e giorni

attenta avanza

di lentissimi passi
la natura con
estrema saggezza

accoglie il germe
fragile e lo fa forte
– ma nascosto – al fine di

futura fioritura

(Ringraziamo l’autrice per aver autorizzato la pubblicazione di queste sue poesie)

Lucia Boni. Nata nel 1952, vive e lavora a Ferrara. Ha coltivato una formazione artistica (conseguendo i titoli all’Istituto d’Arte “Dosso Dossi” di Ferrara e di Scultura all’Accademia di Belle Arti di Bologna) e la passione per la parola con gli studi di Logopedia presso l’Università di Padova.
È insegnante e dal 1982 al 2015 ha svolto la sua attività presso il “Laboratorio delle Arti” dell’Istituzione Servizi Educativi e Scolastici del Comune di Ferrara, progettando ed organizzando situazioni educative finalizzate a sensibilizzare ai linguaggi artistici ed espressivi. Nel suo lavoro ha collaborato con altri Enti ed Istituzioni come il Teatro Ragazzi del Comunale di Ferrara e con la Direzione della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, ha curato i rapporti con artisti nei percorsi espositivi a carattere didattico, come testimonia il volume generale “Palazzo dei Diamanti dal 1963 al 1993. Mostre, artisti, cataloghi”, con il Centro di Documentazione Raccontinfanzia ha curato diverse pubblicazioni didattiche del tra cui: “Porta su-la Torta”, “Creta. Terra in movimento” e le più recenti “Parole in un vaso. Il teatro e le arti visive nella scuola”, “La Visita attiva. Un incontro con l’arte”, “Incontro con l’arte. Un passo che vede e che sente”.
Dal 2000 collabora alla Direzione Artistica della Galleria “del Carbone” per l’associazione culturale Accademia d’Arte “Città di Ferrara” aps.
Ha pubblicato: “Imbuti di Cristallo” – Ferrara, La Carmelina Edizioni nel 2009; “Pensieri di cioccolato e menta” – Ferrara, Ideagramma, nel 2010; “noci & bauli” – Ferrara, La Carmelina Edizioni (2014) Primo Premio Narrativa al X Concorso Niccolini nel 2015; “Lembi e le sette chiese” – Ferrara, La Carmelina Edizioni nel 2016; “Custode di dune” – Udine, Campanotto Editore (2018); “Imbuti di Cristallo” – 2 ^ edizione riveduta ed ampliata – Ferrara, La Carmelina Edizioni (2021).
Suoi testi di poesia e prosa sono stati pubblicati su antologie, raccolte e riviste di letteratura. Inoltre sono presenti suoi scritti a commento e presentazione degli artisti, nei cataloghi della Galleria “del Carbone” Via del Carbone 18/a Ferrara.
Nella rubrica Parole a Capo sono state pubblicate altre poesie di Lucia Boni il 26 agosto 2021 e il 9 marzo 2022.

La rubrica di poesia Parole a capo, curata da Pier Luigi Guerrini, esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca[Qui]

Edward Hopper e le finestre illuminate

 

La notte è un buio pozzo magico che inghiotte le vicende del giorno. Le notti d’inverno, poi, sono ancora più buie, di un nero pece che compare presto, dura molto e non sbiadisce nemmeno con la luna piena. Sono le notti in cui le finestre illuminate delle case raccontano le storie più intense, parlano di vite, abitudini, segreti, stuzzicano l’immaginazione di chi passa col naso rivolto all’insù e per un momento si sente partecipe.

Non è una questione di voyeurismo ma un richiamo inevitabile, irresistibile, di quelle luci che trapelano e offrono sensazioni di calore o gelo, felicità o tristezza, perché ogni finestra racchiude i presupposti di amore o distacco, solitudine, disperazione, allegra convivialità.

La finestra è il confine tra il mondo interiore, teatro di sentimenti privati e il grande mondo esteriore, pericoloso, imprevedibile; una membrana tra il dentro e fuori che segna il confine, traccia le differenze, rivendica una sua presenza nel panorama urbano.

La finestra diventa il soggetto irrinunciabile e pretestuale nell’arte di Edward Hopper (Nyack 1882 – Manhattan 1967), pittore e illustratore statunitense, uno dei grandi artisti del realismo americano. Nella sua ricerca artistica, preferiva vagabondare per le città osservando, disegnando e dipingendo ciò che vedeva. Ed ecco che prendeva forma il famoso dipinto Room in New York del 1932, mentre camminava per le vie di notte nel quartiere di Washington Square, I nottambuli del 1942, Hotel room del 1931 e molti altri.

In Room in New York, l’intimità di una vita di coppia viene scrutata attraverso una finestra, che diventa la porta di accesso all’anima dei protagonisti. L’uomo è immerso nella lettura del giornale, la donna strimpella annoiata e senza convinzione sui tasti di un pianoforte. Immagini di una grigia ordinarietà della vita domestica.

Edward Hopper, Room in New York, 1932

I nottambuli descrive una scena attraverso l’ampia vetrata di un bar notturno: tre figure al banco, due uomini e una donna, ciascuna immersa nei propri pensieri, un cameriere intento nel proprio lavoro. Il desolante isolamento di ciascuno di essi è immediatamente raggiungibile e palpabile come l’indifferenza che li circonda.

Edward Hopper, Nighthawks, 1942

In Hotel room, 1931, una esile figurina di ragazza è seduta sul letto di un’angusta stanza d’albergo, con un libro in mano, ricurva su se stessa in una pausa di riflessione che esprime stanchezza esistenziale. Tutt’intorno i bagagli sono rimasti chiusi, le scarpe rovesciate sul pavimento, abiti e cappello sparpagliati qua e là. Tutto esprime un’intima sofferenza in un momento di passaggio.

Edward Hopper, Hotel room, 1931

Le finestre rivelano verità, permettono di esplorare e fanno scoprire momenti, solitudini, inquietudini. Le finestre d’inverno lasciano scorgere ombre gesticolanti sui muri, richiamando a una discussione accalorata, mostrano madri con neonati in braccio in attesa che si addormentino; si scorgono silhouette che percorrono avanti e indietro stanze troppo piccole per contenere irrequietezza, mobili vissuti, giganti piante d’appartamento o fiori secchi.

Alcune finestre mantengono luci e decorazioni nonostante il Natale sia passato da un po’, perché è difficile lasciare la festosa leggerezza appena trascorsa. Una nonna in sedia a rotelle è perennemente affacciata alla sua finestra, la sua vetrina sul mondo e anche un gatto comodamente accucciato sul davanzale scruta l’universo. Gli allegri commensali di una tavolata accanto alla finestra contagiano con la loro esuberanza mentre su un’altra facciata si scorge un uomo intento ad appendere uno scaffale.

Le finestre lasciano intravvedere candele accese che, accanto a un accenno di risparmio energetico, fanno riscoprire un romanticismo perduto. Finestre che rimangono buie, tristi, vuote, indice di assenza o abbandono, finestre oscurate con tendaggi che decretano lo stacco tra il giorno e la notte, finestre da cui esce la fredda luce dei led negli ultimi uffici a chiudere.

Oggi la finestra ha però perso parte del suo ruolo simbolico e con esso il suo fascino, sostituita dall’iPad, l’interfaccia di Facebook o Pinterest che, con meno charme, portano dentro casa il mondo.

Le storie di Costanza /
Gennaio 2062 – Fiori-FF e ortaggi-JV

 

È cominciato da poco il 2062 con molte preoccupazioni e molte speranze, come l’inizio di tutti gli anni che ricordo.  Cosmo-111 è qui, sul tappeto di mollan a quadri rossi e marroni del nostro soggiorno, che canta la sua solita canzone: “Saputo, saputo aku aku, saputo saputo aku totù”.

Ogni tanto si ferma e mi guarda: “Valeria saa ballassama, anza stra-ballassama! (Valeria sei bellissima, anzi stra-bellissima)”. Già, bellissima. Bellissima forse lo sono stata quando avevo vent’anni, ma in aprile di quest’anno ne compirà quarantotto e ormai la mia bellezza è indissolubilmente legata all’investimento affettivo che ciascuno può fare sulla mia persona.

Sempre in aprile di quest’anno la zia Costanza compirà novant’anni, quella straordinaria donna ha raggiunto una ragguardevole età ancora arzilla. Le organizzeremo sicuramente una festa. Novant’anni sono tanti, vissuti come li ha vissuti lei, pieni di eventi, impegni e imprevisti, sono tantissimi.

Alla zia l’idea di festeggiare il compleanno non piace particolarmente, dice che si sente a disagio, che non le sembra bello festeggiare una vecchia tutta piena di rughe e con i capelli bianchi quale è diventata; invece, a noi piace proprio perché è così: sarà vecchia ma ha ancora uno spirito molto frizzante ed è sempre creativa.

Scrive ancora con lo pseudonimo Alba Orvietani e le sue poesie vendono sempre bene. Chissà se mai si deciderà a raccontare alla stampa che la Orvietani è lei. Credo che non lo farà, ormai è passato molto tempo da quando è nato questo pseudonimo e, nonostante il trascorrere degli anni, la zia non ha mai cambiato idea su questo mistero da svelare. Credo che si diverta così e che consideri Alba Orvietani un pezzo indissolubile di Costanza Del Re. Come se una sua falange avesse acquisito un nome proprio invece di chiamarsi solo, e un po’ banalmente, “falange”.

La zia non riesce più a correre, nuotare e marciare come quando aveva sessant’anni, ha smesso molto tardi con queste attività sportive, però è ancora atletica. Dice che le feste la intristiscono perché le ricordano i suoi parenti morti, i suoi nonni, i suoi genitori e alcuni suoi amici, tra i quali Albertino Canali, che ci ricordiamo tutti. Ma noi vogliamo organizzarle una festa lo stesso e faremo il possibile perché non sia una giornata di rimpianti, ma di buoni presagi per il futuro. Ormai ci sono molte persone che superano i cent’anni e noi speriamo che lei sia tra queste.

Mia madre Cecilia ha ottantantadue anni, anche lei non è più giovanissima. La sua folta chioma di capelli biondi è diventata candida e la sua altezza si è un po’ ridimensionata. Resta comunque alta e bella, come è sempre stata.

Gyanny, l’ultimo arrivato del grande clan dei Santoniani (gli abitanti di via Santoni Rosa o discendenti dei primi) ha un anno e mezzo, cammina, parla e gioca con Orsino-121, il robot che funziona con una pila a fissione nucleare e che ha delle prestazioni stupefacenti. Gliel’ha regalato mio marito Luca per il battesimo.

Il robot è resistente, veloce e sa eseguire compiti complessi, sovrapposti e multipli. Sa camminare, cantare, contare e verificare la presenza di altri robot tutt’assieme, neanche fosse un umano. La sua pelliccia di mollan marrone piace tanto ai bambini che, quando lo vedono con Gyanny, gli corrono incontro e cominciano ad accarezzarlo, a parlare con lui e ad offrirgli caramelle e marzapane.

Orsino-121 non ha alcun bisogno di mangiare per produrre l’energia che gli serve per funzionare, ma mangia lo stesso, per far contenti i suoi fans. Se ha già la bocca piena, mette l’ultima caramella ricevuta in tasca e la regala al primo robot-121 che incontra.

I bambini gli regalano anche mattoncini di Prigo, quei cubetti che stanno insieme perché dotati di calamite e che hanno colori sgargianti, oppure sono trasparenti o luccicanti. Ci sono anche Prigo che al loro interno hanno ologrammi, altri dei piccoli caleidoscopi colorati, altri ancora che si possono annusare e, quando i sensori interni al mattoncino individuano un naso umano in avvicinamento, emanano un forte profumo di rose, o di lillà, o lavanda.

I fiori da cui provengono queste essenze esistono ancora “in natura”, anche se il pianeta Terra è molto diverso da quello che ha visto la nascita della zia Costanza e, ancor di più di, da quello che ha accolto i natali della bisnonna Adelina.

Il modo in cui si propagano e annusano i profumi è sicuramente cambiato da quando la zia Costanza era piccola o da quando la nonna Anna stava a Cremantello e vendeva il profumo “La violetta di Parma” estraendo, le bottigliette di vetro che contenevano l’essenza, dal cassetto centrale della merceria di sua madre.

In questo nostro mondo attuale non ci sono solo i fiori naturali, ma ci sono anche quelli meccatronici che spuntano vicino agli altri e rendono i prati colorati in qualsiasi momento dell’anno. Anche in novembre, quando le giornate sono corte e nebbiose e lungo le sponde del Lungone si respira un’umidità sorprendente e malsana, si possono vedere i nostri fiori meccatronici sbocciare. Li si vede sbucare dalla terra come palline, distendere i petali, aprire il pistillo, girare verso la luce e diffondere l’essenza per cui sono stati programmati.

Ci sono così le viole-FF, le rose-FF, le margherite-FF che hanno la stessa fragranza delle loro antenate naturali. Ci sono anche le Giafio-FF, le Rofio-FF, le Viofi-FF fiori che presentano una fragranza sintetica complessa. Giafio-FF ha un aroma di margherita e bergamotto, Rofio-FF di rosa e menta, Viofi-FF di viola, calendula e limoncello.  Questi fiori sintetici possono sbocciare in qualunque periodo dell’anno e profumare intensamente e a lungo.

La zia Costanza dice che a lei quegli -FF non piacciono, che rovinano il vero profumo delle sponde del Lungone. A me invece piacciono, sono coloratissimi, resistenti e profumati. Il fatto che siano meccatronici, non vedo che differenza possa fare.

C’è molta resistenza all’apprezzamento dei fiori-FF, soprattutto da parte delle persone che appartengono alla generazione della zia Costanza. Sembra che proprio questi boccioli incarnino una idea di progresso discutibile, un’evoluzione verso un mondo con caratteristiche non migliori del precedente.

La zia Costanza pensa che se le peculiarità del novo mondo non sono belle, allora è meglio tornare al vecchio. Non sa cosa farsene dei fiori-FF, li trova un’orrenda deriva di questo mondo arrivato al 2062. Considera inimitabile l’efflorescenza naturale, la profumazione dei ‘fiori veri’ che colorano le sponde del Lungone soprattutto in primavera.

La presenza dei fiori meccatronici cambia radicalmente l’estetica delle sponde del fiume e lei li detesta.  Non li vuole nel suo giardino e non le fa nemmeno piacere che ce ne siano nelle vicinanze. Dice che rovinano il profumo delle sue ortensie che è più delicato, meno percepibile ma anche molto particolare, unico.

Io credo che ognuno debba poter fare come preferisce. Dove ci sono persone che non apprezzano i boccioli-FF bisogna avere l’accortezza di non incubarli. Ognuno ha il diritto di definire i confini e le caratteristiche del suo ‘mondo’, almeno per quel che riguarda la sua casa, i muri perimetrali che circondano i giardini privati e gli orti di famiglia.

In alcuni orti ci sono anche alcune verdure meccatroniche. Stanno negli orti per abbellirli. Ovviamente non le si può mangiare. Avere ferraglia in bocca non piace a nessuno. Ma i finocchi-JV, le rape-JV e le cipolle-JV possono fare bella mostra di loro in qualunque periodo dell’anno e riempiere l’orto di colore e di profumo di verdura in ogni momento, con qualunque tempo ed evento meteorologico, fatta eccezione per le catastrofi come i terremoti, i maremoti e le glaciazioni.

Gli ortaggi-JV stanno sempre lì e danno l’impressione che il padrone di casa sia un ortolano provetto. Ma se ci si avvicina bene, si vede chiaramente che sono dei -JV anche perché, se sono in vena, ti schiacciano l’occhio e ti salutano. “Ciao”, dicono. Non sanno dire altro, almeno per ora.

Per tutto ciò, la zia Costanza prova molto scetticismo e di finocchi che salutano non ne vuole proprio sapere. “Se a qualcuno piacciono, se li tenga pure” dice. “Io non li voglio. Mi fanno impressione e hanno un odore che mi infastidisce”. Dice che la verdura non deve parlare, che i fiori non devono sbocciare d’inverno e che le cipolle-JV puzzano quanto quelle vere senza servire a nulla, se non a far piangere i bambini che hanno gli occhi particolarmente sensibili.

Una volta, in un momento di nervosismo, che ogni tanto le viene e che ha caratterizzato tutta la sua lunga vita, ha preso tre cipolle meccatroniche che le avevano regalato i bambini di Parda e, saltandoci sopra con gli zoccoli, le ha distrutte. Poi ha raccolto la ferraglia rimasta e l’ha buttata nella pattumiera.

Subito dopo, con molta soddisfazione, ha estirpato tutte le palline di boccioli-FF che stavano per “squbare”, le ha cosparse di alcol etilico e le ha bruciate saltellando di qua e di là sempre con i suoi zoccoli malefici. Infine, finalmente tranquilla, si è dedicata alle sue ortensie.

La zia è cresciuta in un mondo diverso che il suo cuore e la sua pelle non hanno dimenticato. Vive con ciò che le piace e che considera familiare e così facendo annienta un pezzo della nostra storia recente e anche un pezzo della tecnologia che avanza e che sta affiancando ciò che di ‘vero’ esisteva già. Ma Costanza è Costanza e, a noi che la conosciamo da sempre, continua a piacere così.

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Resa dei conti in Vaticano con vista sul Conclave

Il 31 dicembre scorso nel monastero Mater ecclesiae in Città del Vaticano è morto all’età di 95 anni il papa emerito Benedetto XVI.

Giovedì 5 gennaio si sono svolte a San Pietro le esequie, con una messa solenne presieduta da papa Francesco e celebrata dal cardinale decano Giovanni Re.

L’atmosfera di silenzio e raccoglimento di una piazza gremita da sacerdoti, cardinali, vescovi, capi di Stato, re, premier, delegazioni di altre religioni, oltre a decine di migliaia di fedeli attorno alla bara di cipresso, è però stata rotta da una serie di dichiarazioni che hanno fatto parlare e scrivere di un clima da resa dei conti.

Un clima alimentato dalle parole di Georg Gaenswein, ex prefetto della Casa Pontificia, fidatissimo segretario di Joseph Ratzinger, prima da pontefice in carica e poi per nove anni da papa emerito, dopo le clamorose dimissioni il 12 febbraio 2013.

In un’intervista rilasciata al settimanale cattolico tedesco Die Tagespost del 5 gennaio, don Georg alza il velo su quanto sia stata scomoda e sofferta la coabitazione tra Francesco e Benedetto: in pratica, due personalità distanti anni luce nell’interpretazione della pur comune dottrina cattolica.

Il dito è puntato sul Motu Proprio Traditionis Custodes (luglio 2021), con il quale papa Francesco ha messo un freno alla messa in latino, ammessa come rito “straordinario” da Benedetto XVI con il precedente Motu Proprio Summorum Pontificum (luglio 2007), a fianco del rito “ordinario”, definito da Paolo VI alla fine del concilio Vaticano II.

Una mossa, quella di Bergoglio, che avrebbe “spezzato il cuore a Benedetto”, secondo Gaenswein: “quello è stato un punto di svolta”, è stata l’accusa.

Frasi che non potevano passare sotto semaforo e infatti il 9 gennaio papa Francesco convoca padre Georg in udienza privata. La notizia è stata diffusa da un bollettino della sala stampa vaticana. Poco o nulla si sa del faccia a faccia, ma il fatto che lo stesso Bergoglio all’Angelus di domenica 8 gennaio abbia detto che “Dio è nel silenzio” e che martedì 10 gennaio la stampa abbia riportato la frase: “adesso devo stare zitto” di un “amareggiato” Gaenswein, qualcosa lascia intendere.

L’amarezza di monsignor Georg – come scrive Gian Guido Vecchi sul Corriere della Sera il 10 gennaio – fa riferimento alle interpretazioni “malevole” degli stralci “fuori contesto” del suo libro, diffuse proprio mentre in piazza San Pietro si svolgevano i funerali di Ratzinger.

Il volume scritto a quattro mani con il vaticanista Saverio Gaeta s’intitola Nient’altro che la verità (edizioni Piemme, gennaio 2023), ed è stato pubblicato a meno di una settimana dalla sepoltura di Benedetto XVI.

Ne scrive Jean-Marie Guénois su Le Figaro il 10 gennaio. Uno dei dolori di padre Georg, scrive, è stato quando papa Francesco gli avrebbe ritirato la responsabilità di Prefetto della Casa Pontificia dopo la controversa pubblicazione del libro del cardinal Robert Sarah con un saggio dell’emerito Ratzinger Dal profondo del nostro cuore, uscito in Francia per i tipi di Fayard nel gennaio 2020. Il caso scoppiò per l’uscita ad orologeria di un libro che prendeva posizione in senso conservatore sull’intoccabilità del celibato dei preti, mentre papa Bergoglio con l’esortazione apostolica Querida Amazonia si accingeva a trarre le conclusioni del Sinodo del 2020, che aveva chiesto un’apertura sul sacerdozio dei diaconi sposati in Amazzonia.

Non si è mai capito quanto quel saggio di Ratzinger fosse stato dato consensualmente al cardinale Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti, in pratica il ministro della Santa Sede per la liturgia.

Sulla questione ho scritto su Periscopio nel gennaio 2020 [Vedi qui]

Anche in questo caso, dunque, la liturgia è terreno di scontro ecclesiale.

Ma il libro e le frasi di Gaenswein non sono l’unico motivo delle acque agitate.

Un altro libro-intervista in uscita dell’ex custode della dottrina cattolica cardinale Gerhard Muller, scritto con la vaticanista Franca Giansoldati, già si annuncia come una prossima bomba. In buona fede è infatti il titolo di un testo che conterrebbe profonde critiche al pontificato di Bergoglio.

Del resto, chi ha letto il libro di Massimo Franco Il Monastero (2022) sa quanto Mater ecclesiae, ossia il luogo del ritiro di Ratzinger in Vaticano, sia stato meta di cardinali e teologi conservatori con la loro lista di doglianze sul pontificato di Francesco.

Va detto che Ratzinger, ad eccezione forse del caso sul libro del cardinale Sarah, “ha respinto ogni tentativo di usarlo contro Francesco”, come scrive anche Alberto Melloni (Ispi on line 31 dicembre 2022), per quanto – afferma Nina Fabrizio su QN (5 gennaio) – lo stesso Gaenswein avrebbe regolato l’agenda del papa emerito “agevolando” quella processione di malumori.

Indiscrezioni riportate dalla stampa (Open.online, 8 gennaio), poi, parlano addirittura di un “piano segreto articolato su più assi e fasi per costringere Francesco alle dimissioni”.

Fra i motivi di preoccupazione ci sarebbe la “deriva protestante” verso cui la linea del papa regnante starebbe conducendo la Chiesa.

D’altronde non è un mistero la posizione di ostilità al pontefice argentino dell’influente episcopato statunitense, come da tempo racconta bene Massimo Faggioli, anche su Il Regno del 15 dicembre scorso.

Come pare evidente, oltre i dissidi e rancori personali emersi in concomitanza con i funerali di Benedetto, si ha l’impressione che nella Chiesa si stia giocando una partita ben più ampia dagli esiti imprevedibili.

Cosa c’è dietro lo scontro tra il papa e i tradizionalisti?”, si chiede infatti Massimo Franco sul Corriere della Sera il 9 gennaio.

I rapporti con la Cina, con la Russia, con il mondo ortodosso e il tema della rinuncia al pontificato, sarebbero alcuni dei temi scottanti su cui il fronte tradizionalista starebbe affilando le lame dello scontro.

Mentre sulla rinuncia si registrano divergenze sia tra i sostenitori sia tra gli avversari di Jorge Maria Bergoglio se considerare quella di Ratzinger un caso isolato oppure no, sull’accordo della Santa Sede con Pechino nel 2018, il cui testo per volontà cinese rimane segreto, i fronti sarebbero più delineati. In particolare, le critiche sono dirette verso le cautele vaticane nel condannare la repressione contro le proteste di Hong Kong e il silenzio sulla persecuzione dei cinesi Uiguri di religione musulmana. Cautele giudicate un sottoprodotto dell’accordo del 2018.

“Per i tradizionalisti – scrive Franco – è la conferma che Francesco avrebbe sacrificato la chiesa cattolica clandestina sull’altare del dialogo con Xi Jinping”.

Della partita fa parte il cardinale emerito di Hong Kong, l’ultranovantenne Joseph Zen, prima arrestato poi liberato dalla polizia cinese su cauzione. Ricevuto da Francesco nei giorni scorsi, da sempre Zen è un critico irriducibile dell’intesa con Pechino.

L’invasione russa dell’Ucraina e la solidarietà cinese con Putin, hanno poi aperto il fronte critico anche fra Santa Sede e Mosca.

Qui la critica mossa al pontificato è di avere privilegiato da anni i rapporti con regimi autocratici, con risultati giudicati fin qui assai magri.

Sul fronte russo c’è chi registra che la mediazione vaticana è stata ignorata da Putin, con il riflesso che sono regredite anche le aperture con il mondo ortodosso, dopo l’abbraccio a Cuba nel 2016 con il patriarca Kirill, lo stesso poi definito da Francesco “chierichetto di Putin”. Qui l’accusa è di una linea giudicata non abbastanza netta con Mosca.

Come si vede lo scontro è aperto e la partita pare destinata a essere giocata in pieno nel prossimo conclave, per cercare una risposta a quella che Melloni chiama una fase di disordine sistemico nella chiesa cattolica, che nel 2013 con le clamorose dimissioni di Ratzinger, prima, e con l’elezione di Bergoglio, poi, ha visto solo l’inizio della tempesta.