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Fantasmi / Larissa

Fantasmi. Larissa

L’ultima volta che aveva suonato al citofono del villino rosa da poco restaurato, un angolo di lusso a buon mercato, col giardinetto, la statua di gesso e il cancello di ferro nero tra i muri  scrostati di Casalotti, la voce aspra, spezzata di quell’individuo – una voce che ormai nell’odio gli era diventata familiare –  aveva detto: “Larissa è in cucina. Sta preparando il pranzo. Non può ricevere nessuno.”

Come se fosse il suo cameriere, il maggiordomo, invece era il suo padrone. O forse si illudeva di esserlo, chissà davvero come stavano le cose. “Larissa sta preparando il pranzo. Non può ricevere nessuno”. È possibile immaginare una frase più idiota? Mostrava tutto il suo potere sulla schiava russa, quell’infame.

Ogni tanto invitavano a pranzo il vecchio zio diabetico e svanito per fare festa – pensa che  festa! – e lui faceva il padrone di casa, quello stronzo bolso e fottuto calciatore dismesso, con gli occhi celeste piscina e tre capelli bianchi in cima al suo metro e novanta, con il suo villino di merda, dove sta rinchiuso a spassarsela coi videogiochi, col suo bull-dog-schiavizzato che si vendica con la pisciata delle cinque e mezzo del mattino.

Tanto lui se ne frega, va a letto presto la sera per portare fuori all’alba il suo cane viziato, trattato meglio lui di Larissa, se ne frega perché tanto non lavora, ha smesso di fare il tassista e si è intascato un sacco di soldi con l’eredità del padre e della madre morti uno dietro l’altra, dicono. Povero orfano!

Però, guarda un po’, Nikolaj aveva scoperto che i genitori, a parte il villino che aveva succhiato tutti i risparmi di famiglia, erano proprio squattrinati, perciò la storia è un’altra, e cioè, molto semplicemente, mentre il cane piscia lui spaccia e poi racconta in giro la favola dell’eredità. Tutto chiaro. Ogni pisciata del cane – Otello, si chiama la bestia! – un bel po’ di grana intascata da lui. Tu piscia che io spaccio.

Nikolaj li aveva visti durante gli appostamenti, lui, il cane e quei relitti che lo incontravano agli angoli dei caseggiati o nei giardinetti pubblici quando usciva con Otello. Ma come poteva denunciarlo alla polizia, lui, senza permesso di soggiorno? E come faceva ad ammazzarlo, che sarebbe stato ancora meglio? Niente da fare, da tre mesi ormai si domandava come liberare Larissa da quella prigione, ma la risposta non la trovava.

E poi restavano troppe stranezze. Il suo rivale, a cui alla fine bisognerà pur concedere un nome – Cesare si chiamava, come il grande condottiero, Nikolaj lo sapeva molto bene, ma nella sua testa gli rifiutava la possibilità del battesimo – era un tipico delinquente romano di medio calibro, buone relazioni, retroterra da periferia, parlata, camminata, stile di vita e calzini vistosi, proprio tipico, però, però. Perché Cesare non aveva mai tentato di togliere di mezzo il povero Nikolaj? Perché non lo aveva mai picchiato? Perché non gli aveva aizzato contro il cane? E nemmeno aveva mai minacciato di farlo.

In fondo Nikolaj da tre mesi – non aveva mollato neanche un giorno – gli stava alle costole e gli insidiava la moglie. Possibile che lo prendesse così poco sul serio? Chiamava al telefono fisso spesso, anche di notte – alle tre, alle quattro – ma rispondeva sempre lui, Cesare. Lo bombardava di parolacce, certo, ma in fondo sembrava assuefatto a quel suo corteggiamento disperato. Forse soffriva di insonnia, ma non poteva essere una buona ragione per sopportarlo. Nessuno l’avrebbe mai sopportato, meno che mai che un delinquente di Casalotti.

Telefonate, citofonate, inutili scampanellate alla porta quando riusciva a scavalcare il cancello di ferro – tanto Otello dormiva in casa, tutt’al più abbaiava – appostamenti per tutta la notte nascosto dietro o dentro qualche vecchia automobile parcheggiata lì davanti.

Durante quelle notti sentiva gli odori, i colori, la musica della periferia che si alternavano e si mescolavano fino al silenzio delle tre o delle quattro, il silenzio ingannevole che precede la musica dell’alba, la musica preferita da Nikolaj. Lui non si annoiava.

Più di una volta aveva aspettato che alle cinque e mezzo Cesare uscisse con Otello per la pisciata del mattino e aveva scavalcato il cancello e suonato disperatamente alla porta, però mai Larissa aveva aperto né si era fatta viva in alcun modo. Di sicuro aveva ricevuto ordini precisi, era spaventata, magari stava lì  legata al letto. Spesso certi tipi lo fanno, aveva sentito dire.

Ma erano fantasie che gli bucavano il cuore, doveva scacciarle. Solo due o tre volte, la sera, durante gli appostamenti dietro il giardino, gli era parso di intravedere il profilo di lei dietro le tendine della camera da letto che dava sulla strada. Visioni fugaci, solo  pochi secondi.

Cesare non era tipo da chiamare la polizia, non era il suo stile, ma a spaccare tutte le ossa del povero Nikolaj non ci avrebbe impiegato più di due minuti, anche a mani nude. Nikolaj era un dentista ucraino in rovina fisica e morale, non un picchiatore, un uomo mite, dormiva e mangiava per strada. La Caritas gli sembrava un’anteprima del paradiso. Invece no, Cesare non passava ai fatti. E di certo sapeva che lui quasi tutte le notti stava appostato sotto il villino. ‘Non rompere le palle’, ‘Basta!’, ‘Tornatene in Ucraina!’ e, ultima della serie: ‘Larissa è in cucina’. Tutto qui. Solo parole. Perché?

Ormai Nikolaj puzzava come un vero barbone, erano finiti i tempi in cui quelli della comunità ucraina lo consideravano un privilegiato, perché lavorava nello studio di un dentista italiano. Aveva smesso di ricevere clienti di nascosto, di notte, nello studio del dottor Marziani, quando curava i denti sgangherati dei suoi connazionali immigrati e anche di qualche indiano o latino-americano.

Ormai nella sua stessa bocca ballava un vecchio ponte ucraino, costruito venti anni prima, che da un momento all’altro si sarebbe staccato lasciando nude le povere gengive e costringendolo a una dieta di soli liquidi o quasi, ma pazienza. Il dottor Marziani non avrebbe mai creduto che il suo fido Nikolaj, così dolcemente ricattabile, con il sorriso aperto e la faccia da bravo slavo malinconico, oltre a dormire la notte – gratis – nel suo studio avesse messo su una simile attività notturna. Pensieri oziosi, ormai tutto era finito.

È possibile per un ucraino innamorarsi di una donna russa spiandole un molare cariato? A Oleg era successo. Russi e Ucraini in patria si detestano da sempre e ultimamente sono perfino in guerra aperta, ma a Roma finiscono spesso col solidarizzare,  specialmente se ci sono di mezzo i denti da curare.

Oleg era diventato un punto di riferimento per tutti i profughi dell’ex-Unione Sovietica, qualsiasi nazionalismo o ricordo di guerre e ingiustizie patite, odi religiosi, tutto scompariva nel suo studio di notte e tutti gli aprivano la bocca fiduciosi. Gratis o quasi, la parcella, sempre minima, dipendeva dalla simpatia e dalla nazionalità del paziente.

Finchè non fu lei, Larissa, ad aprirgli la bocca. A Nikolaj tremavano le mani, non sarebbe mai riuscito a curarle i denti. Solo dopo una settimana di notti insonni, d’amore furibondo e romantico sul divano del dottor Marziani – tentarono anche, giusto per ridere, sulla poltrona del dentista, ma non funzionò, perché si scivolava ed evocava brutti ricordi – riuscì a infilarle il trapano in bocca senza fare troppi danni e a loro sembrò perfino che quell’operazione non fosse altro che una variante erotica, dolorosa ma intima, del loro amore, si dicevano ridendo, lei con mezza bocca paralizzata dall’anestesia.

Lui la consolava, molte volte gli toccava ascoltare la storia del marito, il padre del suo bambino di sei anni, un ucraino  approdato in Italia con l’idea di fare il pittore – voleva studiare tutta l’arte italiana, diceva – e intanto per campare assisteva gli anziani. Ma non resisteva mai più di una settimana.

“Questi vecchi sono insopportabili!” urlava l’artista, e si prendeva un mese di vacanza nel tentativo di dipingere un bel po’ di quadri per mettere su una mostra. Intanto Larissa  faceva la domestica a ore. Le gallerie di solito lo mandavano a quel paese, la pietà politica pareva non funzionare, qualche gallerista aveva perfino cercato di imbrogliarlo chiedendogli un anticipo per una mostra di quadri che peraltro non  aveva ancora dipinto.

Aveva tentato di fare il madonnaro da marciapiedi, ma era stato minacciato e messo in fuga da certi rumeni che controllavano i marciapiedi più redditizi. Alla fine aveva deciso che a lavorare e a badare al bambino avrebbe dovuto pensarci la moglie, altrimenti lui non sarebbe mai riuscito a fare il pittore.

Erano anche andati alla chiesa ucraina, in cerca di aiuto, ma il pope aveva capito che non erano credenti e aveva detto: “Donna giovane, bella. Se lei va sul marciapiedi, tutta la famiglia è a posto. Che posso fare io di meglio?”

Allora lui era partito affamato ed esaltato per Firenze, la città dell’arte, in cerca dell’ambiente giusto, e Larissa colse l’occasione per lasciarlo, anche se era innamorata. Lui ogni tanto si faceva vivo, le faceva vedere un quadro come prova della sua arte e le chiedeva un po’ di soldi. Lei glieli dava. Nikolaj ascoltava queste storie e la consolava e l’accarezzava. Non era geloso, perché alla fine il pittore si era messo a bere e lei si era disamorata.

Povero Nikolaj! Come si compativa adesso. Ricordava le poesie che le recitava con un piede sul bracciolo della poltrona, le canzoni cantate insieme, e quando trovarono un po’ di cocaina nel laboratorio e si fecero una sniffata, poi la vodka regalata da alcuni pazienti e gli strepitosi progetti per il futuro.

Ritorno a Odessa era il titolo della più schifosamente strappalacrime poesia scritta e recitata da Nikolaj per lei – con la chitarra aveva anche tentato di metterla in musica, ma ne era uscito un disastro in la minore, come l’aveva ribattezzata lei – e quella poesia in fondo riassumeva in rima tutti i loro sogni più veri, quelli segreti, a cui tenevano così tanto che per pudore ci ridevano sopra.

Il mare di Odessa, i soldi del dottor Marziani – lui  era onesto, ma una bella rapina al suo studio l’avrebbe fatta, magari lasciando una lettera di scuse – il sole e i sassi scuri del Mar Nero, il profumo della patria che a noi fa ridere ma che, si racconta, alcuni, dotati di un particolare potere olfattivo, percepiscono.

E i viaggi all’estero per turismo e non per soldi, i ristoranti che per chi viene da certi paesi sembrano sogni. Eppure stava anche attento al preservativo, perché già bastava il figlio di Larissa – che ormai era tornato dai nonni in Ucraina, vicino a Leopoli – e un altro figlio in quel momento non sarebbe servito a nessuno, avrebbe ucciso con la sua nascita qualunque sogno. Casomai più in là, a Odessa, le disse, e finì che lei si commosse.

Quando quella settimana di insonnia, vodka e cocaina finì – più un sogno che la vita vera – e Larissa scomparve a Oleg si strangolò il cervello. La signorina della Vodafone che parlava di numero inesistente lo irrideva, non sapeva più niente, sapeva solo che le bocche dei pazienti erano mostri che gli si spalancavano davanti agli occhi, come gli incubi che lo divoravano nelle poche ore di sonno, sapeva solo che non avrebbe mai più baciato nessuna donna in vita sua.

Di giorno la cercava dappertutto, ogni domenica andava alla stazione dei pullman alla Garbatella per vedere se stava lì a ricevere o spedire pacchi in Ucraina, chiedeva a tutti, agli autisti, agli amici degli amici, ai conoscenti.

Solo dopo tre mesi di ricerche continue seppe da Julia, l’unica del bar della Garbatella che non aveva le mani rovinate, perché “era una che batteva e riusciva ad evitare i lavori domestici”, così dicevano le donne del posto, seppe da Julia che Larissa si era sposata con un italiano, uno che aveva i soldi.

Abitavano a Casalotti, l’aveva rivelato una zia di Leopoli parente della madrina di battesimo di Larissa. Da quando aveva ottenuto il permesso di soggiorno non si era più fatta vedere. Da nessuno. “La solita storia, altroché solidarietà” aveva concluso Julia. Dovette aspettare un altro mese prima di avere dalla parente di Leopoli l’indirizzo esatto, quello del villino rosa, visto che ogni tanto con Julia si scrivevano.

Quanto tempo si passa ad aspettare e quanto a vivere, si chiedeva Nikolaj, e chissà se l’attesa è una forma di vita oppure no. I dubbi dell’amore frustrato. E alla fine non avrebbe sposato nessuna donna, ucraina, italiana o filippina, cinese, né somala, non era degno di sposare chicchessia, perché non aveva i documenti giusti, né i soldi né il lavoro né la casa, mentre il più merdoso degli italiani poteva sposare qualunque donna e purificarla, innalzarla fino alla dignità del permesso di soggiorno e più in là fino al paradiso della cittadinanza.

Aveva saputo di una ragazzina nata a Roma da genitori ucraini, che era dovuta tornare a Kiev a tredici anni, perché i genitori, dopo quindici anni che vivevano e lavoravano in Italia, non avevano ottenuto il rinnovo del permesso di soggiorno. Questo prima che la guerra rendesse tutto più facile.

Insomma quell’italiano era riuscito a sposare Larissa perché aveva i documenti, come se su quei pezzi di carta fosse certificato il suo valore come uomo e le sue referenze come aspirante marito. Quando si incazzava con la burocrazia italiana Nikolaj diventava così furibondo che dimenticava quanto fossero nazionalisti e burocratici gli ucraini.

All’inizio era sicuro che Cesare fosse un magnaccia e che Larissa usciva solo di notte per andare sui marciapiedi, dove restava pochissimo, pensava, perché era troppo bella per non trovare subito qualcuno che se la caricasse in macchina, ma aveva scoperto presto che invece semplicemente non usciva di casa.

Allora aveva supposto che ricevesse i clienti in casa, sotto il controllo stretto di Cesare e Otello, ma erano bastati pochi giorni per capire che in quel villino non entrava nessuno. La teneva semplicemente chiusa in casa, in prigione. Di nuovo l’immaginò legata al letto, nuda.

Un giorno Nikolaj danneggiò il trigemino di un paziente mentre lavorava alla pulizia dei denti e il dottor Marziani, che già aveva ricevuto segnalazioni dai condomini su certi movimenti notturni di Oleg, se lo levò dai piedi. “Per me eri come un figlio – gli aveva detto – Perché hai tradito la mia fiducia? E adesso guarda che mi hai combinato con quel paziente!”.

Oleg aveva pensato che i figli non si sbattono fuori di casa e che per questi incidenti i dentisti sono coperti da assicurazione e nel peggiore dei casi da avvocati e che sul suo lavoro nero ci aveva guadagnato parecchio, il bravo dottor Marziani, ma non aveva replicato nulla. Non gli importava di nulla, aveva solo voglia di andare in giro per la città, assediare il villino rosa notte e giorno e fare la sua vita. Se ne era andato con un saluto affettuoso. Non c’era nulla da chiedere.

***

Il giorno della liberazione arriva all’improvviso, alle sei meno un quarto di un mattino di novembre, il giorno dei morti, Oleg se lo ricorda bene. Otello ha fatto il suo lavoretto intorno all’isolato e ha finito prima del previsto, così Cesare lo incontra davanti al solito cancello nero. Otello non abbaia, lo guarda appena un attimo, gli annusa le scarpe e subito tira il guinzaglio a Cesare. Anche lui ha fretta di tornare a casa. Cesare guarda Oleg appena un attimo, non è sorpreso neanche un po’ di trovarlo lì, evita il suo sguardo, mentre lui, almeno con gli occhi, vorrebbe distruggerlo.

“Volevi entrare. Entra allora, – gli fa  – Così la facciamo finita con questa storia.”

Dentro la casa fa schifo, non ha niente della truce rispettabilità della facciata esterna.

“Vieni qui in cucina. Ci facciamo un caffè.”

Dopo aver messo sul fornello la macchinetta del caffè prepara una ciotola con della carne nera per Otello e lo conduce in bagno. Poi chiude la porta. Nikolaj non trova il fiato per parlare. In cucina Cesare accende la luce al neon che si confonde con il colore livido dell’alba, una penombra funebre che offende la retina e la sua testa torturata dall’insonnia.

Il caffè fischia e comincia a profumare, ma Nikolaj non riesce ancora a parlare. È inutile chiedere dov’è Larissa. La casa è vuota, si capisce dal disordine e da tanti altri particolari. Lì dentro non c’è niente che faccia pensare a una donna.

Bevono il caffè, forte, amaro, la polvere è stata troppo schiacciata e si è inacidito. Cesare beve un sorso e posa la tazzina.

Larissa è morta. Da tre mesi. Aveva un cancro alla gola, già da quando stava in Ucraina, ma se ne è accorta solo qui. E non voleva vedere nessuno dei suoi. Tutti infami, diceva. Peggio degli italiani. – Si accende una sigaretta, poi la offre anche a Oleg. Marlboro rosse, con quel bel triangolino bianco irresistibile – Quando tu telefonavi e venivi a cercarla stava già molto male. Poi l’ho portata al regina Elena, ma è durata solo due settimane.

Volevo che morisse qui, da me, ma non ce l’abbiamo fatta. E io non avevo voglia di dire che era morta, né a te né a nessuno. Perché per me è viva. Ci parlo ancora adesso con lei, qui dentro ci siamo solo io, lei e Otello. Qua in cucina preparava sempre quelle minestre rosse e quel dolce, come diavolo si chiama, Varecchina o Varenicca, non mi ricordo.”

“Vareniki – rompe il silenzio Oleg – Come li faceva? Col formaggio salato oppure dolci, con le ciliegie?”

“Dolci – fa Cesare – Mi piacevano quelli con la ricotta dolce.”

“Sono molto buoni quelli con le ciliegie. Non te li ha mai fatti?”

“No”

“Altrimenti poteva anche prepararteli con la carne. Da noi si dice “Succeda quel che succeda, basta che ci sono i Vareniki. Io li so cucinare.”

“Va bè. Lasciamo stare. Tu sei il primo che entra qui da più di un anno, a parte il fratello di mio padre che tanto non capisce più niente, non si accorgeva nemmeno di Larissa, non sa nemmeno se è vivo o morto lui stesso. Adesso non me ne frega niente di sapere chi sei, cosa facevi con Larissa e che cosa volevi da lei. Adesso voglio soltanto che ti levi dai coglioni. Non mi va più di essere spiato. Oppure diventi amico mio e la pianti di guardarmi in quel modo. Se vuoi, ti trovo lavoro. Per me non è un problema” e tossisce in profondità, da vecchio fumatore.

Occhiaie gonfie e nere sul viso carnoso e sbilenco, come il corpo da vecchio calciatore. Sul cranio pelato, sotto i tre capelli bianchi, piccole ferite, come succede a chi si gratta spesso la testa. Eccoli lì, pensa Nikolaj, due assassini di una donna fantasma che vorrebbero uccidersi tra di loro ma vorrebbero anche consolarsi a vicenda.

Sopra un lungo mobile di legno chiaro una grande foto a colori incorniciata di una giovane donna castana, gli occhi chiari sembrano verdi e il viso tondo, paffuto, la fa sembrare una ragazzina. Ma lo sguardo è grave, dietro il sorriso dolce a bocca chiusa.

“Chi è?” fa Nikolaj indicando la fotografia.

Improvvisamente Cesare lo guarda in tralice, spegne lentamente la sigaretta dentro la tazzina del caffè, il suo volto diventa rosso e si gonfia fino a trasformarsi completamente. Si alza lentamente dalla sedia e afferra Oleg per il bavero della giacca. Saltano due bottoni.

“Chi sei tu, stronzo? Che cazzo sei venuto a fare in casa mia?” urla.

A Nikolaj tremano le gambe, sente, capisce che non c’è niente da fare, che quello non ragiona e che può ammazzarlo in un attimo. Otello dal bagno comincia ad abbaiare, a ringhiare, gratta con le unghie contro la porta.

Nikolaj non capisce cosa sta succedendo, si sforza di guardare in faccia il mostro e cerca le parole ma in italiano non gli vengono quelle giuste. Non gliene frega niente di morire, ma la paura è lì, come se fosse legato alla vita mani e piedi e la amasse ancora disperatamente, come quando aveva vent’anni. Otello comincia a scagliarsi contro la porta e i suoi assalti  rimbombano per tutta la casa.

“Quella non è Larissa” trova appena la forza di dire. Ma la faccia di Cesare si fa ancora più cupa, fino al viola, e gli alita in faccia il suo fiato puzzolente di caffè e denti non lavati.

“E chi cazzo è, allora, eh? Me lo dici tu chi è?” e comincia a scuoterlo e a spostarlo verso la parete.

“Quella non è la mia Larissa.” riesce alla fine a trovare le parole giuste.

Lentamente la faccia di Cesare sbianca, chiude gli occhi e respira lentamente, in profondità, come se si sentisse male. Con uno spintone butta Nikolaj sulla sedia. Poi si siede anche lui e si prende la testa tra le mani. Si tormenta le ferite sul cranio con le dita nervose, stranamente sottili. La testa china, quasi appoggiata sul ripiano del tavolo. Nikolaj ripete: “Quella non è la mia Larissa.”

Cesare sospira. “Allora levati dai coglioni – dice senza alzare lo sguardo – I poveracci come te non mi piace ammazzarli di botte. Perciò levati dai coglioni, subito. Dimentica di avermi mai visto, di essere mai entrato qui.”

Nikolaj si alza, ha ancora in mano la sigaretta accesa, tira un ultimo boccata e poi la spegne nella tazzina da caffè, senza pensarci. Cesare ha ancora la testa china sul tavolo. Esce senza dire una parola. Fuori lo accoglie la musica dell’alba avvolta nell’umidità, un filo di nebbia all’altezza dei primi piani dei palazzi di Casalotti, il silenzio fasullo del mattino appena incrinato da un motorino o da un camion.

Si era fatta dare cento euro quella troia di Julia con le mani ben curate per dargli l’indirizzo di Larissa, ma Nikolaj non aveva nessuna voglia, nessuna forza, nessuno scopo per vendicarsi di nessuno. Ognuno ha la sua Larissa, pensò, le sue tracce si erano incrociate con altre, confuse, disperse, anche il ricordo di lei cominciava a sfilacciarsi e si mise a passeggiare lungo le strade senza marciapiedi tra la campagna e i caseggiati di periferia.

Quella non era la sua Larissa, la sua aveva gli occhi ridenti, i lineamenti un po’ più tartari, un viso meno da bambina, i capelli più biondi, eppure non era veramente diversa. Non sapeva spiegarsi bene questa sensazione, sapeva solo che non era lei, però se ci pensava davvero bene, in profondità, non poteva neanche essere totalmente sicuro che non fosse lei.

Vagò per molti chilometri prima di salire sul quarantasei che lo portava sulla Via Boccea, verso il centro. E scese ancora giù, oltre San Pietro, salì su un autobus a caso, senza guardare il numero e senza biglietto, finchè si trovò al Foro Italico, a ridosso di Piazza Mancini.

La pioggia dei giorni passati aveva gonfiato il fiume, le strade del Lungotevere erano coperte di foglie brune e lunghe strisce di fango. Scivolò due volte senza cadere, la terza cadde e si fece male all’anca. Allora decise di scendere i gradini che conducevano sotto il grande ponte che porta alla stadio, lì sotto gli era capitato di dormire già altre volte e non si era trovato male.

Quel giorno era davvero umido, il lastricato e anche le pareti imbiancate da poco all’interno del ponte erano spalmate di fango fresco, le acque erano risalite su per i gradini e poi si erano ritirate, quasi un’inondazione. Ma lui aveva sonno. Doveva soltanto andare un po’ in giro e cercarsi un po’ di stracci e dei cartoni per costruirsi il rifugio. Erano le nove, ma con quel cielo sembrava tutto ancora immerso nella penombra dell’alba.

***

Il lamento veniva dall’angolo in basso, dietro la parete del ponte, quasi dall’acqua. Vide Mbacke seduto sui lastroni infangati tra i cespugli sopra un mucchio di teli neri di plastica e si avvicinò. Guardava davanti a sé, verso l’altra riva, e teneva in braccio un fagotto scuro. Sembrava un corpo umano con la testa riversa e Nikolaj  pensò subito a una donna affogata ripescata del fiume. Mbacke parlava da solo, cantava, piangeva, forse faceva tutte e tre le cose insieme.

Nikolaj si avvicinò e si sedette in terra accanto a lui. Guardò quel corpo inerte, si avvicinò, guardò meglio e capì che era solo un cappotto, un cappotto scuro. Anzi, un montgomery dal cappuccio molto largo e pesante, fradicio d’acqua.

“Me l’ha portata il fiume. L’amavo, l’avevo conosciuta quando lavoravo al circo. L’avevo vista da lontano, dalle strade che stanno in mezzo tra il circo e la jungla, ma non potevo restare lì a lungo, lo sapevo. O di qua o di là, arriva sempre qualcuno che decide per te. Era tedesca, bianca e bionda come una dea, il suo cuore era candido e trasparente, mi sembrava di vederlo mentre volava sui trapezi. Si era innamorata di me perché ero il più alto, il più forte, il più bello, il più generoso e il più bravo di tutto il grande circo.

Loro erano tutti bravi cavalieri, lo so, loro sono i discendenti di Re Artù, hanno scoperto il Santo Graal, ma a me è bastato chiedere di fare un giro sulla giostra colorata. Ero entrato di nascosto sotto il tendone e avevo detto: “Perché voi si e io no?” e così ero diventato famoso.

Avevano capito. Perché senza di me il circo era finito, l’unico nero nel grande circo dei bianchi, io e lei eravamo la grande attrazione. Poi mi hanno licenziato – essere cacciato è il mio destino – e adesso me l’ha restituita lo spirito del fiume. E quando anch’io, quando il fiume mi chiamerà, annegherò li dentro e le nostre anime torneranno unite.”

Mbacke non aveva mai lavorato in nessun circo, Nikolaj lo sapeva. Nell’ambiente Caritas lo conoscevano in tanti. Chissà come dal Tevere era affiorato quel cappotto proprio il giorno dei morti ed era finito in braccio a lui e la sua mente aveva cominciato a lavorare.

Da quando la comunità senegalese lo aveva espulso perché aveva rubato un intero carico di CD per rivenderlo in Francia – lui diceva che lo avevano espulso perché si rifiutava di convertirsi all’Islam e forse erano vere entrambe le storie – da allora viveva sulla sponda del Tevere e chissà come non si ammalava.

Quasi ogni giorno, in qualunque stagione, entrava nel fiume per purificarsi oppure per punirsi, secondo i precetti della sua religione tradizionale. Quando si ammalava guariva subito. Eseguiva riti propiziatori, una volta lo vide torturare e poi uccidere un enorme ratto perché doveva sacrificare una bestia, possibilmente pericolosa, allo spirito del fiume.

Il Tevere era il suo dio e il suo altare. Era davvero alto, grande, forte. Teneva in grembo quel cappotto con la tenerezza di una madre e cantava qualcosa e borbottava nella sua lingua. Aveva una luce fissa e calma negli occhi. Era schizofrenico. Ne aveva visti tanti in Ucraina, ma lui era uno schizofrenico senegalese che viveva a Roma e questo rendeva le cose ancora più difficili. Anche per Nikolaj.

Perché somigliava molto a un cappotto di Larissa, un cappotto che lui ricordava molto bene. Ma quanti cappotti come quello potevano esserci in giro, a pensarci bene? Rischiava di diventare matto pure lui. Che senso aveva parlarne con Mbacke? Rimase seduto accanto a lui. Fango, nuvole, anatre, l’aria tersa ripulita dal vento di tempesta. Il resto è un deserto vuoto, anche il fiume è gonfio ma silenzioso, quasi non si avverte il passaggio degli autobus sopra le loro teste. Ogni tanto un gabbiano ride.

Presto Mbacke gli avrebbe raccontato che quella donna era sua sorella, che sembrava bianca perché l’acqua del fiume l’aveva scolorita, oppure che era l’insegnante di italiano di cui si era innamorato qualche tempo fa, per quelle poche settimane che aveva frequentato un corso di lingua, o tante altre di quelle storie che già altre volte aveva sentito da lui, ogni volta che andava a dormire sotto il ponte dello stadio.

Mbacke era stimato anche perché una volta aveva messo in fuga tre laziali imbecilli che avevano tentato di picchiarlo con le spranghe e uno di loro era pure finito in ospedale. Era stato prescelto dagli dei, diceva di se stesso, e questo significa che poi gli dei ti rendono la vita difficile, perché se lo contendevano tra di loro e lo reclamavano in cielo e gli uomini lo ammiravano ma lo temevano. Soprattutto non lo capivano. Solo lo spirito del fiume gli era amico, e con lui poteva parlare, capirsi. Quello era il suo destino.

Nikolaj aveva sentito tante volte questa storia, anche se ogni volta inventava o ricordava nuove avventure o aneddoti. Era fantasioso e ripetitivo, proprio come certi  schizofrenici. Chissà perché toccava proprio a Mbacke trovarsi lì, per accogliere quel cappotto così simile a quello di Larissa,  trascinato dallo spirito del fiume.

Il cappotto con il cappuccio largo di Larissa – è incredibile quanto si possano amare i vestiti di una persona amata – scomparsa chissà dove per tutti quei mesi e poi finita suicida. Succede a tanti come loro. Indizi impressionanti, coincidenze, somiglianze e dopo tanti dubbi, il nulla.

Così come non poteva escludere del tutto che la donna della fotografia a casa di Cesare non fosse, a ben vedere, la sua Larissa. Tante volte le foto ingannano, poteva essere ingrassata, le donne si tingono i capelli. Ma non avrebbe mai potuto spiegarlo a Cesare né poteva dirlo a Mbacke. Forse davvero non aveva nessuna importanza. E non solo perché era comunque scomparsa, anzi, quasi certamente morta. Non aveva importanza e basta.

Oleg aveva sonno, sempre di più. Mbacke continuava a cantare qualcosa. Si sdraiò lì, accanto a lui. E il giorno dei morti la cosa migliore da farsi è una bella dormita. Perché ciascuno è libero di inventarsi l’autoinganno che più gli è congeniale.

© Sergio Kraisky
(dicembre 2023- gennaio 2024

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Fabbri e Sgarbi:
come riuscire ad essere insieme elitari e volgari

“Quando il sole della cultura vola basso, i nani hanno l’aspetto di giganti”
Karl Kraus

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La gestione Fabbri-Sgarbi è giunta al tramonto: dalla mostra fake su Banksy, alla non-mostra di Robert Mapplethorpe… dietro di sé lascia una fila di lunghe ombre.

Ombre di giganti? Ombre di nani ingigantiti?

I responsabili della cultura ferrarese, nani o giganti che siano, hanno assunto stessi ruoli e medesimi destini di naufraghi alla deriva, coinvolti in un disperato gioco al massacro che non consente di capire se sia il primo a lanciare un salvagente forato all’altro o il secondo a raccogliere la fune per stringersi un cappio attorno al collo, mentre cala la notte e il loro relitto affonda, facendo acqua da tutte le parti.

Le proposte di mostre intitolate “Un Artista Chiamato Banksy” o da intitolare “Fiori e cazzi” hanno invece assunto le proporzioni e i toni delle più grandi “truffe” mai rifilate al pubblico, agli artisti e all’arte stessa, dall’interno di una Galleria Civica Comunale di eccellenza internazionale come quella ospitata nel Palazzo dei Diamanti di Ferrara. E’ dall’interno di questi due poli iniziali e finali, entrambi negativi e imbarazzanti, che si è imposta la nuova forma di fare arte e cultura nella nostra città d’arte e cultura.

L’età dell’oro estense, in cui Palazzo dei Diamanti era tra i musei più importanti e dinamici in tutto il mondo, è finita: non sarà facile ritornare agli splendori di quando “L’Arte per l’Arte” era la regola dell’operatività espositiva e la base di un grande successo, avviato dalla direzione di Franco Farina e portato avanti dai suoi successori. Quell’instancabile operazione di divulgazione di artisti e opere d’arte che, dal 1963 al 2019, ha trasformato una piccola città decentrata e di provincia in un perfetto contenitore museale tra i più rappresentativi per l’arte contemporanea in Italia e all’estero, al presente non è più riconoscibile.

Il climax discendente a precipizio nell’offensivo, nel volgare e nel provincialismo più oscuro della conduzione Fabbri-Sgarbi, impedisce di capire chi dei due protagonisti stia scappando dall’uscita posteriore o correndo verso quella d’emergenza. Nessun rispetto per gli artisti, per il pubblico, per i predecessori,  per i colleghi, per gli altri operatori culturali, per la tradizione locale e del territorio: considerare e presentare l’arte come un flusso di produzione di merci da offrire sul mercato, oltraggia i valori del passato e sottrae il significato dell’arte.

Non siamo tutti sulla stessa barca

“Non siamo tutti sulla stessa barca” (We’re not all in the same boat), è il titolo di una delle opere di Banksy che la mostra fake a Palazzo dei Diamanti non ha mostrato, per motivi prima di tutto allegorici.

Si tratta di un remake del celebre quadro di Theodore Gèricault intitolato La Zattera della Medusa e fa riferimento a La Méduse, una fregata francese che, nel 1816, si incagliò sulle secche atlantiche del Banc d’Arguin, al largo dell’attuale Mauritania. I passeggeri erano in numero superiore rispetto alla portata delle scialuppe e per grossolana irresponsabilità del suo comandante Hugues Duroy de Chaumareys, 17 passeggeri rimasero sulla fregata e ben 147 dovettero essere dirottati su una zattera di fortuna. Il capitano e l’equipaggio sulle scialuppe decisero inizialmente di trainare la zattera, ma la cima si ruppe, l’imbarcazione affondò parzialmente e venne abbandonata al suo destino. Sulla zattera della Medusa venti persone morirono già la prima notte; al nono giorno i sopravvissuti si diedero al cannibalismo; il tredicesimo giorno, dopo che molti erano morti di fame o si erano gettati in mare in preda alla disperazione, i superstiti vennero tratti in salvo da un battello di passaggio; cinque morirono la notte seguente. Sebbene sottoposto al giudizio della corte marziale, che prevedeva la pena capitale nel caso in cui il comandante non fosse stato l’ultimo ad abbandonare la nave, Hugues Duroy de Chaumareys ottenne solo una blanda condanna, rispettosa più dei privilegi accordati alla sua appartenenza alla classe nobiliare, che non delle regole della marineria e delle leggi della navigazione.

“La Zattera della Medusa” di Theodore Gericault si trova esposta nelle sale museali del Louvre di Parigi. “We’re not all in the same boat” di Banksy si trova esposta su un muro del porto di Calais non distante dalla “Jungle” dove vivono migliaia di migranti in transito dalla Francia verso l’Inghilterra e ritrae la medesima storia attualizzata: nella zattera i profughi moribondi tentano disperatamente di salvarsi e di mettersi in mostra, mentre in lontananza naviga un lussuoso yacht che li ignora. Il significato, il valore, il messaggio intrinseco di un’opera d’arte di denuncia dipinta pubblicamente dall’autore su un muro del porto di Calais può essere lo stesso espresso da riproduzioni private esposte in una Civica Galleria Comunale, presentate da un critico non autorizzato in una mostra a pagamento non autorizzata?

Secondo il fautore Vittorio Sgarbi e i curatori Gianluca Marziani e Stefano Antonelli la questione relativa alla musealizzazione di Banksy e degli artisti di strada non si sarebbe mai posta e non ha nemmeno da porsi. Giudicare Ferrara come una realtà colta e raffinata, al punto tale da essere ritenuta tra le più idonee per accettare di ospitare mostre fake travestite da eventi culturali d’avanguardia, non dimostra solo mancanza di considerazione nei confronti dei cittadini, degli artisti e del pubblico, ma anche nei confronti degli altri operatori culturali, andandosi a schiantare contro la tradizione del nostro territorio. L’Emilia Romagna è stata la culla del primo Graffitismo Metropolitano negli anni Ottanta con la Mostra “Arte di Frontiera” curata da Francesca Alinovi ed è divenuta il crocevia nazionale e internazionale dei successivi movimenti genericamente inclusi nel  termine “arte di strada”:  non esiste un aspetto o un argomento ad essi relativo che non sia stato preso in considerazione, analizzato, studiato, proposto ed esposto adeguatamente ed esaurientemente.

Le prime critiche erano già sorte in occasione della mostra Street Art Banksy & Co. L’arte allo stato urbano, presentata a Bologna presso Palazzo Pepoli nel 2016, come riflessione sul valore culturale e sulle modalità di salvaguardia, conservazione e musealizzazione della street art. L’esposizione bolognese, nata dalla volontà del Prof. Fabio Roversi-Monaco, Presidente di Genus Bononia e curata da Luca Ciancabilla, Christian Omodeo e Sean Corcoran, fu preceduta da accese polemiche scatenate dalla presa di posizione degli street artists, in profondo disaccordo con il progetto espositivo e con la decisione di strappare dai muri alcuni graffiti per esporli in mostra. La presa di posizione che ha fatto più rumore è stata la decisione dello street artist italiano Blu -segnalato dal Guardian fra i dieci migliori artisti di strada del mondo- il quale, nei giorni precedenti l’apertura, appoggiato dai movimenti giovanili dei centri sociali occupati e dall’Associazione Italian Graffiti, ha cancellato le sue opere realizzate a Bologna, affidando poi al collettivo Wu Ming la comunicazione delle ragioni del suo gesto: “La mostra “Street Art” è il simbolo di una concezione della città che va combattuta, basata sull’accumulazione privata e sulla trasformazione della vita e della creatività di tutti a vantaggio di pochi.”

Quello del vantaggio dei pochi è il pensiero guida a cui fare riferimento per comprendere anche uno dei motivi principali del disconoscimento di Banksy verso la mostra voluta da Sgarbi: «L’arte che guardiamo è fatta solo da pochi eletti. Un piccolo gruppo crea, promuove, acquista, mostra e decide il successo dell’arte. Solo poche centinaia di persone nel mondo hanno realmente voce in capitolo. Quando vai in una galleria d’arte sei semplicemente un turista che guarda la bacheca dei trofei di un ristretto numero di milionari».

Invece, il pensiero guida a cui fare riferimento per comprendere Banksy, nelle parole del curatore Marziani, è questo: “Ferrara è una realtà colta e raffinata, insieme al resto dell’Emilia è forse tra le più alte del paese. E qui sta la vera intuizione di Sgarbi: portando Banksy ai Diamanti, si intercetta una fetta di pubblico che ai Diamanti altrimenti non andrebbe. Per Previati un ragazzino della provincia emiliano-romagnola non viene a Ferrara, per il fenomeno artistico del momento, con tutte le sue virtù e con tutte le sue criticità, molto probabilmente sì”.

Marziani fa un parallelismo tra due scelte espositive davvero imbarazzante.

Per prima cosa, la mostra su Gaetano Previati non è stata ospitata presso il Palazzo dei Diamanti ma nel Castello Estense (teatro di ulteriori iniziative gestionali/espositive proposte dalla fondazione Cavallini-Sgarbi con modalità contrattuali di finanziamento pubblico sottoposte al giudizio di legittimità da parte della Corte dei Conti). In secondo luogo, il pubblico di Palazzo dei Diamanti non è mai stato solo emiliano-romagnolo e pensare di “richiamare i ragazzini della provincia emiliano romagnola” a Ferrara “per vedere Banksy” può risultare quasi offensivo per la capacità generazionale che i più giovani hanno di informarsi e di scegliere da soli.

Tranne che in quelli ferraresi, nel frattempo, i territori urbani ed extraurbani di Bologna, Modena e Ravenna si sono arricchiti di opere d’arte di graffitismo murale che hanno coinvolto i migliori artisti della scena internazionale e, disseminate un po’ ovunque, chiunque di noi può trovare esposte opere di Ericailcane e Bastardilla, Eron, Blu, Stak, Honet, Paper Resistance, Dem, El Euro, MrFijodor, Etnik, BizzarDee, Escif, Finsta, Francesco Barbieri, Corn79, 059, Herbert Baglione, Reqvia e di moltissimi altri street artist e giovani operatori. Le testimonianze dell’immenso valore che hanno acquisito per tutta la comunità queste espressioni artistiche, sono raccolte nel portale web del Progetto Urbaner Culture Urbane Emilia-Romagna, nato dalla volontà del Comune di Modena di riconoscere e valorizzare le culture che si formano in ambito urbano e che, in una prospettiva estetica, sociale e antropologica, generano tendenze e talenti in diversi campi: dalla fotografia alla pittura, dall’illustrazione al graphic design, dalla musica alla danza, dai tatuaggi agli sport non competitivi come lo skateboard e la BMX.

I risultati di ricerche come “L’arte urbana ed i suoi processi culturali in Emilia-Romagna”, frutto della partnership tra l’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali dell’Emilia-Romagna e l’Assessorato alla Cultura del Comune di Modena, e l’organizzazione di eventi condivisi da associazioni culturali, gallerie d’arte, aziende private e istituzioni pubbliche, come il Festival Icone, Totart, il FestivalFilosofia, RigenerArte writing urbano in Romagna”, il Festival Subsidenze, hanno dato vita ad uno straordinario percorso di rigenerazione regionale che ha trovato nella street art una chiave di lettura -e rilettura- della contemporaneità. Ravenna, capitale dell’arte bizantina, è oggi una capitale di arte di strada: in ogni quartiere, dalla Darsena a Porta Adriana, dallo Stadio alla Rocca Brancaleone, la città si è trasformata in un vero e proprio museo a cielo aperto e in una galleria permanente di arte moderna, con più di ottanta opere di artisti provenienti da tutto il mondo, venuti per lasciare un segno sempre visibile a tutti e fruibile h24.

L’arte di strada non ha bisogno di grandi: ha bisogno di tutti

A Ferrara, la sistematica sottrazione di forma, senso e contenuto avvenuta con la mostra fake su Banksy, da allegorica, ha finito col diventare profanatoria: basta leggere le motivazioni poste per il rifiuto, da parte della Fondazione Robert Mapplethorpe di New York, di concedere le proprie opere alla Fondazione Ferrara Arte. Così come l’apprezzamento a Banksy non avrebbe dovuto essere posto in relazione al fatto che sia da considerare il più grande esponente della street art e la sua mostra un evento d’avanguardia, anche Robert Mapplethorpe non avrebbe dovuto essere presentato come il più importante esponente di una fotografia di stile pornografico-sensazionalistico.

Di artisti grandi come Banksy ce ne sono tantissimi. La street art non ha bisogno di grandi: ha bisogno di tutti, perché è un tipo di arte libera, pubblica, gratuita e diffusa spontaneamente su ogni muro del mondo attraverso un’infinità di stili. I principali meriti di Banksy come artista di denuncia e di protesta, negati e occultati a Ferrara, sono quelli di avere usato la chiave dell’arte di strada per sottolineare l’importanza di vecchi argomenti e la gravità di nuovi problemi a un pubblico vastissimo e non-museale. Argomenti e problemi, come ad esempio quelli relativi all’emergenza migratoria clandestina, al caso Wikileaks di Julian Assange e alla Questione Palestinese, che nel breve volgere di soli due anni dalla chiusura della non-mostra sono esplosi dinnanzi agli occhi del mondo.

Anche di maestri della fotografia come Robert Mapplethorpe ce ne sono stati tanti. I principali meriti da attribuirgli sono quelli di aver raggiunto la perfezione estetico-formale, puntando l’obiettivo della macchina fotografica su quello che nella visione della realtà appare più armonioso, plastico e scultoreo.

Le opere di Mapplethorpe sono presenti in Nord e Sud America, Europa e Asia e nelle collezioni dei principali musei di tutto il mondo e attualmente in Italia è in corso -fino al 14 febbraio 2024, presso il Museo Novecento di Firenze- la mostra dal titolo “Beauty and Desire”, frutto del supporto e della collaborazione scientifica della Robert Mapplethorpe Foundation con la Fondazione Alinari per la Fotografia. “Beauty and Desire” sta mettendo mette in luce il legame della sua ricerca con la classicità, nonché il suo approccio scultoreo al mezzo fotografico, reso evidente tanto nello studio del nudo maschile e femminile, quanto nella natura morta, equiparando i corpi agli oggetti secondo una sensibilità da scultore. In passato gli sono state dedicate, tra le altre, una mostra a cura di Germano Celant al Centro Pecci di Prato (1993) e un’esposizione a cura di Franca Falletti e Jonathan K. Nelson alla Galleria dell’Accademia di Firenze (2009): mostra, quest’ultima, che ha messo in evidenza l’innegabile relazione tra Michelangelo e Mapplethorpe. Al di là del valore storico, artistico e culturale del suo lavoro, la sua eredità sta diffondendosi attraverso l’attività della Robert Mapplethorpe Foundation, da lui stesso fondata nel 1988, per promuovere la fotografia, sostenere i musei che espongono arte fotografica e finanziare la ricerca medica nella lotta contro l’Aids.

Il metodo sviluppato per degradare nel più cupo provincialismo la città di Ferrara è tanto inaccettabile quanto evidente: stabilire che l’identità debba coincidere con le preclusioni, i limiti, le barriere, e imporre alla cultura di diffondersi attraverso l’inganno, l’insulto e l’oltraggio.

https://www.mapplethorpe.org/foundation
https://www.firenzetoday.it/eventi/museo-novecento-mostra-robert-mapplethorpe-22-settembre-30-novembre-2023.html
https://www.fanpage.it/spettacolo/personaggi/vittorio-sgarbi-pronta-una-mostra-che-si-chiama-fiori-e-caz-ma-i-moralisti-non-me-la-faranno-fare/

In copertina:  Theodore Gèricault, La Zattera della Medusa, 1819, Parigi Museo del Louvre

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La rivincita della capra

La rivincita della capra

La rivincita della capra

“Capra…Capra..Capra…Capra..Capra…Capra..Capra…Capra…”
Vittorio Sgarbi ad libitum, in tivù, su Facebook e in ogni luogo, per silenziare chiunque in disaccordo con lui .

Mi è capitato un milione di volte: conosco una persona, ci presentiamo, di dove sei? di Milano, e tu? di Ferrara. A questo punto ti esponi a un sorrisino di compatimento, e a una battuta inevitabile: “Ferrara? la città di Vittorio Sgarbi, un tuo concittadino.”
Ma hai la risposta pronta: “Nossignore, rispondo, Sgarbi è di Ro Ferrarese“.

Ma come ha fatto il figlio del farmacista (un classico) di un paesino aggrappato al Po a diventare tutto o quasi tutto? Qualcuno ha fatto il conto (che vi risparmio) delle cariche che il giovane talentuoso e linguacciuto ospite del salotto televisivo di Maurizio Costanzo è riuscito ad accumulare in cinquant’anni di smisurata e sregolata carriera.

Tutto merito, e tutta colpa, di un Ego smisurato, un Ego, per dirla alla Meloni, a 360 gradi. Questa sua malattia, perché se non ti chiami Leonardo da Vinci, dovresti indirizzare la tua intelligenza e il tuo talento verso una precisa direzione e un solo obiettivo, ha reso Vittorio Sgarbi una macchietta invece di un personaggio. Un sicuro sconosciuto per la posterità

Sgarbi è uno di quelli che dormono poco e leggono tantissimo, un secchione, ma anche un corridore e uno scalatore.  Se vedeva una poltrona nei paraggi (o un posto importante, o una bella donna) correva per occuparla, e se vedeva una scala (ma anche due, ma anche tre) si avventava sui primi gradini.

Eppure non è mai arrivato veramente in cima. Voleva essere un professore universitario, uno come Roberto Longhi, non c’è mai riuscito.  E da più di 20anni voleva diventare Ministro della Cultura, ma Berlusconi gli preferì l’odiato Giuliano Urbani, un docente universitario naturalmente.

Dai e dai, finalmente entrava nel governo, ma solo come sottosegretario. Come al solito, si era fermato a metà scala.

Ora si dimette a sorpresa dalla carica, inseguito da un imminente stop dell’Antitrust (cretino o almeno tardivo), da un’inchiesta per un quadro rubato e riciclato, ma anche e soprattutto dal desiderio di rivincita dei suoi numerosi nemici: fuori e dentro il governo, a sinistra, al centro a destra.

Io però non mi schiero con i suoi nemici. Nonostante le malefatte ferraresi (perché è Ferrara l’unica piazza dove Sgarbi negli ultimi 5 anni ha potuto regnare incontrastato), non riesco a prendermela con lui. Perché è un perdente che ha creduto tutta la vita di essere un vincente. Perché ha sprecato la sua intelligenza, il suo sapere, il suo talento in tanti rivoli, e nessuno di loro è riuscito a raggiungere il Grande Fiume (eppure l’aveva dietro casa sua).

La parabola di Sgarbi volge al tramonto, se in passato mi ha fatto rabbia, ora mi ispira quasi tenerezza. Penso a quel che rimarrà di quel milione di cose che ha detto e ha fatto in mezzo secolo di corse e scalate. Cosa arriverà di lui ai posteri? Poco o niente, come vuole il destino dei mediocri. O forse l’unica sua frase memorabile: capra capra capra…

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Presto di mattina /
Le ceneri della poesia

Presto di mattina. Le ceneri della poesia

Poesia in cenere

La poesia lascia una traccia anche sulla cenere; scrive sulla cenere anche quando la muove il vento e la sparpaglia ovunque, perché la poesia è – anche per lo scrittore e poeta polacco Czesław Miłosz – «inseguimento appassionato del reale» (facendo proprie le parole di un altro poeta lituano Oscar Vladislas de Lubicz Milosz).

Poesia è inseparabile compagna dell’umanità, generativa di un movimento del reale che è dentro e tuttavia va ben oltre la cenere del tempo. Per Miłosz la funzione della parola scritta e segnatamente della poesia è quella di preservare «il sentimento di umanità», non solo quello passato o presente, ma quello per l’avvenire.

Urlando, l’orrore nell’esili mani,
cadevi giù, dove regna cenere
e tesserci non possono il giaciglio
né abeti del nord né tuie italiane.
Che cosa tutto questo fu, è e sarà –
col nostro grido colmammo il mondo.

Tutto trascorso, tutto dimenticato,
sulla terra solo fumo, nuvole morte,
e sui fiumi di cenere ali che ardono
mentre arretra il sole avvelenato
e l’alba della condanna esce dai mari
Tutto trascorso, tutto dimenticato,
è dunque ora che tu sorga e corra,
anche se ignoti lo scopo e la sponda,
tu vedi solo che il fuoco brucia il mondo.
(Czesław Miłosz, Poesie, Adelphi, Milano 21; 24)

«La fede nell’esistenza di una realtà oggettiva oltre le nostre percezioni si è però indebolita, e questo sembra essere uno dei fattori alle origini della cupezza della poesia moderna, che appare come colpita dalla perdita della propria ragion d’essere… Ma davvero “non esiste affatto un mondo vero”?

Il Novecento, purtroppo, ci ha insegnato il modo più semplice per verificare se qualcosa è reale: il dolore fisico. Ciò è accaduto per effetto dei tormenti subiti da un numero enorme di persone, sia nelle varie guerre sia nella morsa del terrore politico… La gente ha sempre sofferto il dolore fisico, la fame, la schiavitù. Ma tutto ciò non arrivava a essere di dominio pubblico, com’è oggi possibile grazie al rimpicciolimento del pianeta e alla diffusione dei mass media» (Miłosz, La testimonianza della poesia, Adelphi, eBook 2022, senza numerazione).

Così la poesia diventa memoria e aspirazione del (e al) reale, vivendo senza posa del suo inesausto «desiderio di mimesi» di rappresentare e trasmettere una realtà: «Puro, violento, il mondo di nuovo ribolle/ E non cessa la memoria né l’aspirazione» (Poesie, 147). «L’atto stesso di dare un nome alle cose presuppone la fede nella sua esistenza e dunque in un mondo vero» (La testimonianza della poesia).

Le ceneri di Babij Jar

Polvere di cenere sono anche le poesie che hanno accompagnato il ricordo dell’eccidio degli ebrei di Kiev. Nella prossimità della città in una gola e profonda voragine che ha nome Babij Jar fra il 29 e il 30 settembre 1941 le truppe tedesche sterminarono, a colpi d’arma da fuoco, 33.771 ebrei.

Su questo eccidio, uno dei tre più grandi dopo quello di Odessa (50.000 ebrei assassinati) e di Emtefest in Polonia (42.000 vittime), scrisse un romanzo documento Anatolij Kuznecov (1929-1979). Un eccidio del quale per anni non si era potuto parlare, tradotto da Adelphi e la cui prima edizione digitale è del 2019: Babij Jar. Romanzo documento, Adelphi eBook, Milano).

Si legge nella prefazione dell’autore: «Il manoscritto originario di questo libro lo portai alla rivista Junost [Gioventù] nel 1965. I redattori me lo restituirono immediatamente – inorriditi, direi – e mi consigliarono di non mostrarlo a nessuno finché non avessi eliminato la «propaganda antisovietica» che avevano evidenziato nel testo… “Non c’è un monumento a Babij Jar” recita il primo verso del poema che, nell’autunno del 1961, il ventinovenne Evgenij A. Evtusenko consacra al massacro degli ebrei di Kiev», (ivi, 4).

 

La poesia come unico monumento a Babij Jar

Il poeta e scrittore Evgenij Aleksandrovič Evtušenko (1932-2017) voleva scrivere dei versi sull’antisemitismo, ma fu solo dopo aver visto la voragine di Kiev «quel luogo terribile» e mosso da un sentimento di vergogna che la sua intuizione trovò una «soluzione poetica». Era stato invitato a partecipare a una serata di lettura del libro di Anatolij Kuznecov, che gli aveva parlato di Babij Jar, chiedendogli di accompagnarlo sul posto. Ecco il racconto di quell’evento:

«E nella sala immobile risuonò lento, nitido: “Non c’è un monumento a Babij Jar…”. In un silenzio di tomba le parole del poeta rimbombavano come colpi di martello: battevano nel cervello, nel cuore, nell’anima. Il gelo saliva su per la schiena, le lacrime sgorgavano da sole dagli occhi. Nel silenzio di tomba della sala si sentiva singhiozzare. A metà del poema la gente cominciò per incanto ad alzarsi e, fino alla fine, ascoltò in piedi.

E quando il poeta terminò con le parole “da tutti gli antisemiti, come fossi ebreo, e per questo io sono un vero russo”, la sala tacque ancora per qualche istante. Poi, esplose. Letteralmente, esplose. Non potrei trovare un’altra parola per descrivere ciò che accadde. Le persone saltavano, urlavano, tutti erano in preda a una sorta di estasi, di entusiasmo sfrenato. Risuonavano delle grida: «Zenja, grazie! Zenja, grazie!».

Persone che non si conoscevano piangevano, si abbracciavano e baciavano l’un l’altra. E lo facevano non solo gli ebrei: la maggioranza dei presenti, è ovvio, erano russi. Ma in quel momento nella sala non c’erano né ebrei né russi. C’erano degli uomini che ne avevano abbastanza della menzogna e dell’inimicizia, che volevano liberarsi dello stalinismo» (Cit. da Antonella Salomoni, Le Ceneri di Babij Jar. L’eccidio di Kiev, il Mulino Bologna 2019, 179).

Non c’è un monumento a Babij Jar.
Il ripido burrone è una rozza lapide.
E io ho paura.
Ho tanti anni, oggi.
Quanti ne ha lo stesso popolo ebraico.
Mi sembra, oggi, di essere ebreo.
[ … ]
A Babij Jar c’è un fruscio di erbe selvatiche.
gli alberi guardano minacciosi, come giudici.
E tutto un grido muto,
e io, a capo scoperto,
Sento che i miei capelli sbiancano pian piano.
Sono io stesso un grido muto
Sulle molte migliaia di sepolti.
Sono io ogni vecchio,
Ogni bambino fucilato qui.
E non potrò dimenticare tutto questo.
… Non scorre nel mio sangue
sangue ebraico,
Ma sono odiato di un odio ostinato
Da tutti gli antisemiti, come fossi ebreo.
E per questo io
sono un vero russo
(ivi, 180).

Un testo collettivo di memorie

Volendo rimuovere i segni fisici del genocidio durante la guerra e dopo, si modificò il territorio stesso del burrone presso Kiev, per cancellare anche questa ultima memoria, ma non si cancellò quella delle arti, perché come cenere nel vento sparpagliate carte e suoni e immagini «prosa e poesia, musica, architettura e pittura hanno dato forma a una sorta di testo collettivo».

Le testimonianze sono ora raccolte e studiate nella loro genesi storica, così come i documenti/testimonianze dell’eccidio nel volume di 337 pagine di Antonella Salomoni, insieme alla ricostruzione storica delle intricate vicissitudini del romanzo documento di Anatolij Kuznecov, ripercorrendo il percorso ad ostacoli che la memoria dell’eccidio di Kiev ha attraversato, conservandosi viva nonostante le censure e le repressioni di un regime.

La Salomoni è professore ordinario di Storia contemporanea all’Università della Calabria e incaricato di Storia della shoah e dei genocidi all’Università di Bologna e nel suo testo vengono riportate molte poesie di diversi autori, intrise e impastate con le ceneri di Babij Jar.

Fiamme nere e scarlatte vagavano
Lungo la terra sommersa d’orrore,
Avvolgendo i rioni con un bagliore malvagio
Annerivano i tetti degli abitanti di Kiev.
E la gente vide dai suoi miseri rifugi,
Oltre la corona delle cupole di Cirillo,
Oltre i pioppi dei lontani cimiteri,
Come bruciava la sua carne e il suo sangue.
Un vento sepolcrale soffiò dagli abissi,
Miasmi di roghi della morte e corpi carbonizzati,
E Kiev, l’adirata Kiev, guardava
Come nelle fiamme si dimenava il Babij Jar.
(ivi, 7)

A Kiev, nel Babij Jar, una bambina gridò:
«Ma perché mi gettate della sabbia negli occhi!».
La terra si muoveva.
La terra invocava.
Chi ha un cuore non dimenticherà quel grido.
Non dimenticherà fosse e burroni.
Quei fantasmi ci accompagneranno nella vita.
(ivi)

Perché la brezza del lungofiume a me cara
Cosparge il passante di polvere furiosa?
E i granelli, impregnati di fumo e sangue,
Mi soffocano e accecano.
Il vento ha traversato le pareti carbonizzate,
Spazzando la cenere nei vecchi luoghi d’incendio.
Fa mulinare sul Krescatik le ceneri sacre,
Polvere soffocante che scende da Babij Jar.
Se sotto il fogliame dei castagni fiorenti
In questa città avete dimenticato il dolore passato,
Lo rammenterete investiti all’improvviso
Da una desolante nube di polvere e cenere, (ivi, 8).

Resta, figlio mio, restami vicino,
Ti coprirò gli occhi con il palmo della mano,
Perché tu non veda in faccia la morte,
Ma solo il sangue sulle mie dita nel sole,
Quel sangue, che è diventato il tuo sangue,
E deve ora spargersi sulla terra …
Ero tra la folla nel cimitero,
Nudo tra le lapidi e tra i tumuli,
E ricordavo slanci elevati,
Il mondo senza dolore e senza sangue.
E mentre cadevo morto dal pendio
Nell’argilla spaventosa di corpi sanguinanti,
Credevo fermamente e senza tema
Che saresti venuto per ridarmi la vita.
(ivi, 90-91)

Burrone – con rive ritorte, un’enorme ferita lacera,
Sei deserto e selvaggio, su di te soffiano solo i venti.
Diventi nero come un abisso,
quando piomba l’oscurità,
I bagliori della città ti accerchiano come belve.
Centomila dormono in te. Il loro nome non è inciso sul granito,
Dormono ignoti nel tuo profondo, marrone come lo iodio.
I loro nomi sono dimenticati per sempre. Ma migliaia di migliaia
Non dimenticheranno mai il tuo nome di sangue …
(ivi, 147)

Sono giunto a te, Babij Jar
Se il dolore ha un’età,
Allora, sono incredibilmente vecchio,
Non si può farne il conto in secoli.
Sono qui in piedi, sulla terra, e prego:
Se riuscirò a non uscire di senno,
Ascolterò la tua voce, terra,
Parla.
Che frastuono nel tuo seno!
Non capirò nulla.
È l’acqua che risuona sotto il suolo
O le anime che giacciono nello Jar?
Interrogo gli aceri: rispondete,
Fatemi partecipe – siete testimoni.
Silenzio.
Solo il vento,
Tra le foglie.
Mi rivolgo al cielo: dimmi,
Tu, indifferente fino all’oltraggio.
C’era la vita. Ci sarà la vita.
Ma non vedo nulla sul tuo volto.
Forse, risponderanno le pietre?
No …
(Lev Ozerov, Babzj Jar, 1944-1945, ivi 336)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

Italia: Terra dei cachi e della malapolitica

Italia: Terra dei cachi e della malapolitica

La disaffezione delle cittadine e dei cittadini verso la politica (che trova nelle urne il dato sempre più evidente) ha senz’altro diverse spiegazioni e va sempre stigmatizzata. Tuttavia, di fronte a taluni comportamenti e a certi  episodi è difficile non lasciarsi andare al più cupo sconforto ed essere tentati dall’abbandono. Questi ultimi tempi sembrano particolarmente ricchi di “fatti di malapolitica”, che allontanano sempre più le cittadine e i cittadini dalla res pubblica.

Nella Capitale, per esempio, continua a tenere banco la brutta vicenda della nomina del direttore generale del Teatro di Roma, effettuata con un blitz dai consiglieri in quota Ministero della Cultura e Regione Lazio senza il coinvolgimento del Comune di Roma. Non sappiamo se anche in questo caso siamo dalle parti dell’“amichettismo” evocato  di recente dalla presidente Meloni. Sappiamo però che ancora una volta la fa da padrone la spartizione partitocratica, resa evidente dalla soluzione che sembrava profilarsi per cercare di metterci una pezza e superare il conflitto istituzionale, ovvero modificare lo statuto per inserire due figure apicali anziché una, quella del direttore artistico e quella del direttore generale, ma con compiti solo manageriali, in modo da rendere equa la spartizione.

In Sicilia si sta invece tentando di  far approvare dal parlamento siciliano una legge per salvare 4 deputati regionali dichiarati ineleggibili dai tribunali. Una vecchia legge regionale, tuttora in vigore, prevede infatti che chi ricopre incarichi in enti e società sui quali la regione esercita un controllo non può essere eletto parlamentare regionale.
Ed ecco allora la soluzione: una ‘leggina ad hoc’, che in maniera retroattiva sani la posizione di ineleggibilità e così i quattro consiglieri che per legge non si potevano candidare, perché avevano un incarico in società partecipate dalla regione, di colpo diventano candidabili ed eleggibili. Ora per allora. Non mancano per fortuna dissensi, pareri negativi, opposizioni e contrarietà (a partire dai  tecnici dell’ufficio legislativo dell’Assemblea regionale siciliana), ma l’operazione per ora va avanti.

A Firenze, al contrario, nessuna spartizione né legge ad personam, ma soltanto un’opinione. La direttrice della Galleria dell’Accademia Cecilie Hollberga dimostrazione del clima alquanto pesante che da un po’ di tempo si respira in questo Paese – è entrata nel mirino del sindaco Nardella e del ministro della cultura per aver fatto questa considerazione: “Se io giro in città vedo che rispetto agli ultimi 8 anni si è alienata dalle sue origini. Non troviamo più un negozio, una bottega normale ma solo cose esclusivamente per turisti con gadget e souvenir e questo andrebbe frenato. Ma una volta che una città è diventata meretrice sarà impossibile farla tornare vergine e se non si mette adesso il freno assoluto non ci sarà più speranza”.

Una dichiarazione non nuova, che evidenzia la rincorsa (di Firenze come di tante altre città) verso un turismo poco consapevole e che da anni è al centro del dibattito in Italia e non solo. Ma una dichiarazione offensiva per Nardella e che ha spinto il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano a ritenere “gravi e offensive le parole della direttrice della Galleria dell’Accademia su Firenze.” Aggiungendo: “Valuterò, alla luce della normativa vigente, tutte le iniziative del caso”, come se ad una direttrice di museo fosse per legge vietato di esprimere la propria opinione.

Che strano Paese è diventato il nostro: si può pensare di cambiare le regole del gioco per aumentare le poltrone e accontentare la spartizione partitocratica (che fine avrà fatto la “famosa” revisione della spesa?) e si può addirittura retroattivamente eliminare una condizione di ineleggibilità, facendolo senza neppure il “favore delle tenebre” e mettendoci la faccia con sfrontatezza, ma non si può più esprimere una propria opinione sulla deriva del turismo nelle nostre città.

Sono fatti che sedimentano scorie di antipolitica e che amareggiano. Amarezza che diventa sconforto nel vedere la nostra Ilaria Salis, manette ai polsi, schiavettoni alle caviglie e una cintura di cuoio stretta in vita da cui parte un guinzaglio, trascinata in un tribunale a Budapest con l’accusa di aver partecipato all’aggressione di 3 nazifascisti. Ilaria Salis che si dichiara innocente, ma che da febbraio 2022 è in carcere sottoposta a condizioni disumane.

Serve “una grande battaglia per difendere le famiglie, significa difendere l’identità, difendere Dio e tutte le cose che hanno costruito la nostra civiltà“, disse la presidente del consiglio Giorgia Meloni intervenendo al Budapest Demographic Summit lo scorso settembre. Chi sa se per Giorgia Meloni, tra tutte le cose che hanno costruito la nostra civiltà, ci sono anche i diritti dei detenuti in attesa di giudizio.

Cover: La gipsoteca della galleria dell’accademia di Firenze

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Requiem per il glorioso modello Emiliano-romagnolo

Requiem per il glorioso modello Emiliano-romagnolo

Inizio come nelle fiabe: «C’era una volta il modello emiliano-romagnolo…» per evidenziare come le caratteristiche di fondo di quell’inedito intreccio sociale e politico lì realizzato sia venuto meno, ormai da lungo tempo.

Quel modello – economico, sociale, politico, amministrativo -, da quando mosse i suoi primi passi negli anni ‘60 del secolo scorso, era basato su 3 grandi punti di fondo:
A ) una struttura produttiva efficiente, basata su un tessuto largo di piccole e medie aziende, prodotte da un’imprenditorialità diffusa, da un’alta qualità del lavoro, da rapporti sindacali che, anche quando avevano carattere conflittuale, si fondavano sul reciproco riconoscimento tra le parti sociali;
B ) un welfare ben strutturato, a partire dagli asili nido “inventati” in questa terra e da un sistema sanitario di impronta universalistica;
C ) un sistema di relazioni sociali costruito su rapporti stretti tra le organizzazioni di rappresentanza sociale e da meccanismi di partecipazione importanti.
A partire da qui, si era dato vita ad una società coesa e a legami sociali forti.

Oggi, questo quadro  è praticamente scomparso. Persistono realtà significative di medie imprese, riunite in diversi distretti industriali ( vedi per tutti il packaging), ma sempre più forte diventa il ruolo delle multinazionali e dei Fondi di investimento di natura finanziaria, con il conseguente aspetto predatorio che si portano dietro. Il sistema di welfare si è progressivamente indebolito, con situazioni decisamente preoccupanti nella sanità, interessata da una privatizzazione strisciante. Quanto al sistema partecipativo, di esso è rimasto semplicemente l’ombra, lasciando posto alla solitudine delle persone e al venir meno dei legami sociali.

Nel contempo, cresce la diseguaglianza sociale, aumenta la povertà, approda in modo forte il lavoro povero e precario, emergono gravi problematiche ambientali, come ben testimoniato dall’ultimo rapporto dell’Ires Cgil regionale del giugno 2023. Intendiamoci bene: non si tratta di disconoscere risultati maggiormente positivi realizzati in Emilia-Romagna rispetto ad altre regioni in diversi ambiti, quanto di saper vedere che non esiste più una «diversità» di modello. Anche l’Emilia-Romagna si è ridotta a stare dentro il paradigma generale del neoliberismo, sia pure con tratti di maggiore inclusione e solidarietà sociale.

Ed è proprio questo il punto di fondo che molti non vogliono vedere e riconoscere. Non lo fa certamente il Pd (e la maggioranza che governa la Regione), che ripropone imperterrito politiche vecchie e superate, anche quando vengono presentate in termini di novità. È il caso, ad esempio, del Patto per il Lavoro e il Clima, approvato nel dicembre 2020 dalla Giunta regionale e sottoscritto praticamente da tutti gli attori sociali, tranne che da RECA (Rete Emergenza Climatica e Ambientale) che raggruppa più di 80 Associazioni e comitati ambientalisti, e da cui ha preso le distanze un anno fa anche Legambiente regionale.

Di fatto, si continua a pensare ad un’idea di “sviluppo” quantitativo e misurato unicamente sulla crescita del PIL, per cui le  grandi opere autostradali sono concepite come volano dello stesso, a partire dal Passante di Mezzo di Bologna, si prosegue nell’idea della privatizzazione dei beni comuni, a partire dall’acqua e dal ciclo dei rifiuti, si asseconda l’insediamento del rigassificatore a Ravenna, dentro una logica di continuità con l’economia del fossile. Si promuovono o si avvallano progetti di cementificazione che confermano l’Emilia-Romagna ai primi posti in Italia per consumo di suolo e inquinamento atmosferico.

Anche sul terreno delle pratiche democratiche e partecipative, dobbiamo prendere atto del fatto che vengono considerate marginali o, peggio, vissute come disturbo: più che esemplificativo è il fatto che le 4 proposte di legge di iniziativa popolare regionale sui temi ambientali, promosse da Reca e Legambiente regionale, sottoscritte da più di 7000 cittadini, sono ferme nei cassetti delle Commissioni competenti da più di un anno, senza che su di esse non si sia neanche avviata la discussione.

Insomma, non è più rinviabile una riflessione per  riconsiderare il cosiddetto modello emiliano e prospettare anche qui un modello produttivo, sociale e ambientale alternativo. È quanto ci ripromettiamo di compiere con l’importante convegno che RECA, assieme a Diritti alla Città e all’Osservatorio urbano di Bologna, organizza per il 17-18 febbraio a Bologna sulla crisi del neoliberisno e anche del modello emiliano. Un’occasione che pensiamo sarebbe utile per tutti utilizzare al meglio.

N.B.
Vedi in fondo alla Home page di Periscopio. tutte le informazioni sul convegno “LA CRISI DEL MODELLO NEOLIBERISTA TRA DISASTRI AMBIENTALI E CRITICITÀ ECONOMICO-SOCIALI: IL CASO DELL’EMILIA-ROMAGNA“.

In copertina: polveri sottili in Emilia-Romagna, foto satellitare.

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi su Periscopio di Corrado Oddi clicca sul nome dell’autore.

Storie in pellicola /
Il corto “Boat People”: un viaggio nello storia, con il karma delle formiche

Un viaggio nello storia, con il karma delle formiche. Abbiamo visionato per voi, “Boat People”, un corto animato che sarà presentato, nella sezione “Programmes jeunes publics” del Festival del Cortometraggio di Clermont-Ferrand, dal 2 al 10 febbraio.

Parte il Festival del Cortometraggio di Clermont-Ferrand, ricchissima la programmazione. Possiamo visionare molti corti, grazie alla nostra presenza, Periscopioline è accreditato come stampa internazionale. Eccoci qua, allora, puntuali.

Vietnam, un mondo d’infanzia, momenti storici difficili. La madre di Thao salvava le formiche dalle ciotole di acqua zuccherata. Le minuscole creature un giorno ricambieranno il favore, guidando la sua famiglia disperata fuori dall’oscurità e mostrando loro la via verso la salvezza. Questione di karma. Come lei ha salvato loro, loro salveranno lei e i suoi cari.

Prodotto dall’Office national du film du Canada (OFN), il cortometraggio “Boat People”, dell’autrice e illustratrice Thao Lam, intraprende la sua missione di salvataggio creativo. Realizzato con l’animatore Kjell Boersma, il corto, di circa dieci minuti, racconta il viaggio spettacolare della famiglia di Thao nelle acque tumultuose della storia. Lei aveva due anni.

La fuga avventurosa, difficile e tumultuosa di una famiglia che si è ritrovata tra l’oltre milione e mezzo di rifugiati in fuga dal caos del dopo-guerra in Vietnam tra il 1975 e il 1995. Erano i cosiddetti “boat people”, disperati che usavano il mare come unico percorso possibile per un esodo in massa, ma che non avevano lo scopo di giungere in alcun porto: i profughi, infatti, imbarcati su mezzi di fortuna, chiatte, barche, zattere, spesso in sovraccarico, senza guida e senza criteri di sicurezza, perseguivano, a volte, il solo scopo di porsi sulle rotte delle navi, per poter essere intercettati e quindi soccorsi e raccolti, come in effetti avvenne spesso; in molti altri casi, invece, andarono incontro a naufragi e annegamenti che, insieme a fame, sete e freddo, produssero numerose vittime.

Termine noto anche in Italia, quando, nel giugno 1979, il governo Andreotti decise l’invio di tre navi verso il Golfo del Siam: gli incrociatori Vittorio Veneto e Andrea Doria e la nave appoggio Stromboli che portano in salvo 907 profughi.

Come tanti altri, quel nucleo familiare unito, coraggioso e deciso si era avventurato nel mare della Cina meridionale a bordo di imbarcazioni precarie e fragili.

Tema più che mai attuale, tema universale che mette sullo schermo un dramma umano e una lezione di vita che deriva dal comportamento delle formiche e dal loro fardello. Esseri viventi che non conoscono la perdita ma che lottano unite e si salvano solamente insieme. L’universo che tocca tutti coloro che si battono per proteggere i propri cari.

Una narrazione minimalista, un corto originale e toccante, vincitore di numerosi premi quali il Premio Milos Stehlik per l’impatto mondiale al Chicago International Children’s Film Festival (2023), il Premio Helen Hill del corto d’animazione e il Premio del Pubblico al New Orleans Film Festival (2023), il Premio Miglior Corto d’animazione canadese al Vancouver Asian Film Festival, Canada (2023) o il Grand Prix du Jury – Corto d’animazione al Calgary International Film Festival, Canada (2023).

Un racconto insolito di rottura e resilienza, un mix di animazione 2D tradizionale, di animazione multipiano fotogramma per fotogramma e di rendering digitale 3D. Carte e texture realizzate artigianalmente, create utilizzando inchiostro nero stampato a mano su carta, si combinano per produrre un bellissimo collage multistrato ed elegante.

Thao Lam

Un vasto campo profughi in Malesia, raffigurato in un’animazione stilizzata, evoca un’industriosa società sotterranea offerta dalla stessa natura, mentre una piccola colonna di formiche che marcia instancabilmente verso un destino sconosciuto diventa una toccante manifestazione di perseveranza e sopravvivenza. Le formiche, quella specie resiliente che le rende una delle più prospere del pianeta.

La storia nasce dai racconti della madre di Thao, battelli di fortuna, navi, onde e tempeste. E le formiche che migrano, che viaggiano insieme, che si salvano, operose e coraggiose, percepite non come individui ma come gruppo, come massa. Se, come per loro, per i “boat people” scompare la singolarità, questa particolarità ritorna, invece, nella storia della famiglia di Thao, dove ci sono ruoli e nomi. L’istinto di sopravvivenza e di protezione reciproca prevalgono, comunque, nelle due colonie. Atti di salvataggio comuni.

“Boat People” è ispirato al libro per bambini, “The Paper Boat” della stessa Thao ma il film è pensato per raggiungere un pubblico più vasto, per toccare cuori e animi, per far capire che non si sceglie lo stato di rifugiato, per parlare a chi rifiuta di accogliere.

Come “The Paper Boat”, la versione cinematografica inizia con una storia ispirata alla vita della madre dell’autrice: una giovane ragazza osserva come una ciotola di acqua zuccherata viene messa fuori per attirare e sbarazzarsi di alcune fastidiose formiche.

Mentre gli adulti intorno a lei organizzano freneticamente piani di fuga, lei immerge la bacchetta nella ciotola per salvare gli insetti che stanno annegando.

Quando arriva l’esercito, la famiglia deve fuggire e, nel caos, la ragazza e sua madre si separano dagli altri e si perdono nella giungla.

La madre dà allora alla ragazza affamata un panino avvolto nella carta, che poi piega in una prodigiosa barchetta di carta. Mangiato, la ragazza vede una scia di formiche al chiaro di luna: le seguono fino all’acqua e raggiungono la barca che li porterà in salvo.

Una lezione per tutte. Le formiche sono in grado di cambiare il loro ruolo in una colonia man mano che invecchiano e quelle più anziane spesso restano indietro per aiutare le altre quando la colonia è sotto attacco. Così fa l’anziana vietnamita (che pare essere la nonna di Thao), infermiera, operaia, combattente, che li salva tra i giunchi lungo il fiume.

La storia si sposta rapidamente al ricongiungimento della madre di Thao con suo padre e a un lungo viaggio sul fiume fino a un campo profughi, dove la famiglia resta per sei mesi prima di avventurarsi su una barca dal fiume Mekong al Mar Cinese Meridionale.

Si passa alla prospettiva di una famiglia di formiche salite a bordo della barchetta di carta, il loro viaggio è pieno di pericoli, il sole è implacabile, le formiche vengono attaccate dai gabbiani, muoiono di fame, una tempesta capovolge la loro barca e molte si perdono. I sopravvissuti, tuttavia, si aggrappano l’uno all’altro, creando una zattera con i propri corpi, riuscendo infine a raggiungere la riva.

Una formica finisce su un tavolo della cucina, circondata dal cibo, come nel tavolo della prima scena. Ma i membri della famiglia di Thao seduti attorno a questo tavolo non sono gli stessi. La nonna non c’è più, la bambina è cresciuta e le si è aggiunta una sorellina. Ma sembrano felici e, soprattutto, sono al sicuro. Perché hanno lasciato il Vietnam? “Toi” (“You”), le dicono, tre lettere pesantemente intrise di senso e di dolore.

Alla fine della storia, il lettore vede davanti a sé una famiglia in un condominio pieno di famiglie, in una città frenetica piena di condomini affollati da creature minuscole e apparentemente insignificanti, che lavorano sodo e prosperano.

Un tocco di umanità, dove tutti siamo uguali. Dopo tanto silenzio, determinazione e sacrificio. Bellissimo, toccante.

 

L’Office national du film du Canada (ONF) è leader nell’esplorare il mondo dell’animazione come forma d’arte, di narrazione e di contenuti innovativi. Produce opere di animazione nei suoi studi e collabora con i creatori più importanti in coproduzioni internazionali. Le produzioni ONF hanno vinto oltre 7.000 premi, tra cui, nell’animazione, 7 Oscar e 7 Grand Prix al Festival di Annecy. Per visionarle: ONF.ca.

 

Thao Lam è autrice e illustratrice e crea immagini da quando riesce a ricordare. Per lei disegnare è sempre stato naturale come respirare.

Appassionata di libri per bambini, Thao è interessata alla narrazione visiva. Trae ispirazione dalle storie che ascolta, dalla bellezza delle cose di tutti i giorni e dal lavoro dei tanti illustratori che ammira. Ha studiato illustrazione allo Sheridan College di Toronto, e, nel 2008, ha vinto il premio Highlights Five Pewter Plate per l’illustrazione in versi. È stata selezionata due volte per gli American Illustration Awards.

Kjell-Boersma  è un animatore canadese, noto soprattutto per il suo cortometraggio del 2017 “Dam! The Story of Kit the Beaver”, candidato come miglior cortometraggio d’animazione al 6° Canadian Screen Award.

Sullo scempio del taglio degli alberi nel Sottomura

Sullo scempio del taglio degli alberi nel Sottomura

Ho aspettato un paio di giorni prima di andare a vedere con i miei occhi lo scempio del taglio degli alberi che è stato fatto nel Sottomura, adiacente al Baluardo dell’Amore, vicino a Via Volano, dove è sorto l’ennesimo supermercato.
Ho aspettato perché mi addolora sempre in maniera particolare il taglio degli alberi.

Un paio di anni fa, sono stata promotrice, come cittadina, di una raccolta fondi che ha coinvolto 200 tra donatrici e donatori, moltissimi ferraresi, e ha permesso il salvataggio di 24 ettari di bosco.
Vedere il taglio degli alberi nella mia città o degli interventi che non mettono la tutela degli alberi al centro delle proprie politiche, mi fa male.

In questi giorni, sulla stampa, sui social, da parte dell’Amministrazione c’è stato un netto tentativo di smarcarsi dalla responsabilità di questo progetto. Prima l’assessore all’ambiente, Alessandro Balboni, poi il Sindaco Fabbri, si sono in maniera decisa smarcati, attribuendo la responsabilità agli amministratori della Giunta precedente, i quali si sono smarcati a loro volta, sostenendo che, in 5 anni, c’erano tutti gli elementi per intervenire ed evitare il taglio di questa zona boscata.

Pare che tutti siano interessati alla tutela dell’ambiente! Sarebbe quindi auspicabile che le forze politiche di maggioranza e di minoranza che si ricandidano o candidano ad amministrare Ferrara, inseriscano, nei rispettivi programmi, la creazione di un Piano del verde, per chiarire alle cittadine e ai cittadini quale visione della città hanno per il futuro.

Il Piano del verde è uno strumento strategico di cui le Amministrazioni possono dotarsi, per indicare le linee strategiche e i criteri di indirizzo in materia di verde pubblico.
Bassani, che a lungo ha dimorato fuori città, raccontava che la cosa più agognata, ad ogni suo rientro, era la pedalata lungo le mura, in compagnia degli alberi. Gli alberi hanno benefici eco sistemici importantissimi.
In una città come Ferrara, tra le più inquinate d’Italia, dove le nostre bambine e i nostri bambini crescono respirando un’aria malsana, è importantissimo creare ed attuare dei Piani del verde, con una visione strategica e precisa del futuro.

Anna Zonari
Candidata sindaca di Ferrara

Israele: il prezzo dell’orrore della guerra sionista per chi è costretto a farla

Israele: il prezzo dell’orrore della guerra sionista per chi è costretto a farla

In memoria dell’amico e collega  Alberto Gigante.
Questo articolo è stato scritto attingendo ispirazioni e informazioni dal lascito del suo percorso umano e professionale a favore della Cultura della Pace e per il rispetto dei diritti umani.
“Cast Lead – colpirne cento per educarne uno”, documentario di Alberto Gigante, 2014. visibile qui

Il conflitto vietnamita fu la prima guerra della storia in cui il numero dei militari USA morti in combattimento fu superato dal numero degli ex combattenti morti per suicidio. Durante dieci anni di guerra morirono più di 58.000 soldati americani, più di 153.000 risultarono feriti e invalidi. Un numero compreso tra sessanta e centomila ex combattenti e veterani si tolsero la vita negli anni successivi.

Durante i primi cento giorni di guerra contro Hamas nella Striscia di Gaza, l’esercito israeliano ha contato tra le proprie fila più morti e feriti che in 106 anni di presenza ebraica in Palestina. L’attacco militare in corso è una vera e propria guerra tra le più distruttive e letali del 21°secolo per entrambe le parti.

Quali ferite incurabili e quante tracce indelebili saranno inflitte sui corpi e nelle coscienze dei sopravvissuti?

“Flipping out”: ex combattenti fuori di testa

L’estremo crollo psicotico che può portare un combattente o un ex combattente alla follia e al suicidio, è provocato da una serie di disturbi da stress post-traumatico sempre più gravi che sfociano in quel particolare stato di alterazione di coscienza detto “flipping out, da intendere come “uscire fuori di testa”.

“Flipping out” è il titolo di un documentario del regista israeliano Yoav Shamir che racconta come, dopo essere stati congedati con un bonus di 15.000 shekel (circa 4.300 dollari), ogni anno circa 20.000 neocongedate/i israeliani si recano in India: tra costoro, ogni anno, 2.000 ex soldati e soldatesse israeliane che vivono in India “flippano”, vanno fuori di testa.

Intere schiere di giovani israeliani poco più che ventenni concludono in condizioni psicologiche terribili il servizio militare e cercano lontano dal paese di ritrovare la propria identità e il proprio equilibrio interiore a contatto con la natura, adottando uno stile di vita semplice ed elementare, tentando di cancellare definitivamente la negatività delle proprie esperienze belliche. Scegliendo di passare lunghi periodi di permanenza all’estero, organizzandosi in vere e proprie piccole comunità o adottando scelte di tipo eremitico nelle montagne indiane e himalayane, in molti ce la fanno a cancellare il peso del loro insopportabile passato. Tanti altri, purtroppo, no, cadendo nel vortice della disperazione e delle tossicodipendenze.

Le scene introduttive del documentario mostrano soldati in assetto di guerra che irrompono nelle case palestinesi; quelle finali propongono le immagini di un gigantesco raduno rave in una spiaggia di Goa, con la partecipazione di diverse centinaia di ex soldati che fanno liberamente uso di ogni tipo di droghe e sostanze stupefacenti.

Le organizzazioni e le agenzie israeliane che si assumono la responsabilità dei problemi creati dal servizio militare, rispondono al crescente problema degli insediamenti in India attraverso centri di accoglienza per ex soldati coinvolti nel consumo di droga.
Warm House e Chabad Houses – luoghi comunitari fondati da ex ufficiali dell’esercito e da nuclei con finalità di ricerca, salvataggio e recupero di israeliani fuori di testa – riferiscono che il 90% di coloro che dopo il periodo di leva si recano in India, fa uso sistematico di droghe.

Un momento particolarmente significativo di “Flipping out” è la conclusione dell’incontro tra il vice primo ministro israeliano Eliyahu Yishai prima con una soldatessa (che, al suo secondo viaggio in India, gli dice: “qui ci si può sentire di nuovo normali. Niente bombardamenti, niente corruzione, niente pressione…”) e poi con un soldato (che spera di non ritornare in Israele e considera dannoso possedere un passaporto israeliano). Naturalmente Yishai enfatizza i meriti del governo (“questi ex soldati sono i nostri figli, i nostri ragazzi e ragazze…migliaia vengono qui e tornano a casa mentalmente devastati”), in una narrazione tesa a focalizzare l’attenzione sull’effetto, dimenticando la causa.

Gaza: la vetrina dell’industria bellica israeliana

Oltre a quella in corso, dal 2004 ad oggi, l’IDF, l’Esercito di Difesa Israeliano ha scatenato 9 operazioni militari contro la Striscia di Gaza, divenute tristemente note per l’uso indiscriminato di armi micidiali, per i crimini di guerra patiti dalla popolazione civile palestinese e per il significato assunto dall’escalation di episodi sempre più cruenti e letali. Ogni operazione è servita come banco di prova per le nuove tecnologie militari e come vetrina per promuoverne le vendite all’estero, garantendo enormi profitti all’industria bellica israeliana e trasformando la Striscia di Gaza, da prigione più grande del mondo, nel più grande poligono militare abitato su cui testare ogni tipo di arma e di armamento.

Le competenze maturate nel corso dei decenni e testate sul campo vengono oggi vendute agli alleati e ai partner di Israele in tutto il mondo, Italia inclusa, e includono: la sorveglianza delle frontiere; i sistemi di protezione perimetrale virtuale e fisica per i siti terrestri e marittimi; i sistemi di controllo per passeggeri, veicoli e merci negli aeroporti e nei porti; misure contro potenziali attacchi terroristici; disturbatori elettronici interferenti contro ordigni esplosivi e loro bonifica; protezione corazzata; soluzioni anti sommossa; armi non letali per le forze dell’ordine.

Gaza è diventata la vetrina dell’industria bellica israeliana: la condizione della Striscia in cui 2,4 milioni di Palestinesi sono forzatamente rinchiusi in una gabbia densamente popolata, ha offerto e continua ad offrire un laboratorio unico per la sperimentazione delle dottrine, delle tecnologie e delle nuove forme che un conflitto armato può assumere nel presente.

La più grande impennata di vendite belliche israeliane si è registrata sulla scia dell’operazione “Piombo Fuso”: l’uccisione di oltre 1.400 palestinesi e il bombardamento di infrastrutture civili e abitative, ha fatto registrare un record di vendite di ogni tipo di armamento impiegato che ha sfiorato il giro d’affari di sei miliardi di dollari. Ma anche al termine di ogni altro attacco, motivato da ragioni difensive e di sicurezza nazionale, sono state organizzate fiere internazionali per mettere in vendita la vasta gamma di prodotti testati “in battaglia” sulla popolazione civile di Gaza: missili, bombe, bombe al fosforo, bombe a grappolo, elicotteri, cacciabombardieri, droni, motovedette e veicoli corazzati robotizzati a controllo remoto senza equipaggio, scudi difensivi antiaerei, sistemi di puntamento satellitari, strumentazioni per visione notturna, sistemi di rilevazione termica, rilevatori di movimento, sensori radar.

L’operazione Piombo Fuso è iniziata il 27 dicembre 2008, è durata ventidue giorni. 
Si è svolta in due fasi: una settimana di bombardamenti aerei, con cacciabombardieri F16, elicotteri AH 64 Apache e droni, anticipata da un attacco di sorpresa che ha colpito più di 100 obiettivi in meno di due ore, causando la morte di 225 e il ferimento di 700 palestinesi, seguita da due settimane di attacchi aerei e terrestri.
La missione di inchiesta del Consiglio per i diritti umani dell’ONU. capeggiata dal giudice ebreo sudafricano R. J .Goldstone e i dati forniti dall’UNRWA, Amnesty International, Human Rights Watch e da organizzazioni indipendenti sia israeliane che palestinesi, hanno accertato l’uccisione di 1385/1419 palestinesi, in maggioranza civili, inclusi 308 minori sotto i diciotto anni e di dieci militari e tre civili israeliani; il ferimento di 5.000 palestinesi e di 518 israeliani. Negli anni successivi, le altre operazioni, come “Pilastro di Difesa” nel 2012 o “Margine Protettivo” nel 2014, sono state tutte caratterizzate dalla proporzione diretta esistente tra la massima percentuale di morti e distruzioni e il massimo ricavato dalle vendite delle armi impiegate.

Sentry Tech, un sistema rivoluzionario per uccidere a distanza 

La principale azienda di armamenti, la Rafael, leader mondiale nella vendita di droni militari, propone il catalogo più ampio e più aggiornato delle armi a controllo remoto: il Guardium è una macchina robot blindata che raggiunge la velocità di 80Km orari e che può sparare sui bersagli in movimento; il Protector è una motovedetta senza pilota; il drone Heron TP può trasportare oltre una tonnellata di materiale bellico; il Sentry Tech è un sistema che consente di sparare a distanza, senza correre nessun rischio, su chiunque sia sospettato di essere un terrorista, tramite l’applicazione del concetto “spot and shoot” che consente di manovrare, puntare e azionare armi da fuoco automatizzate, dopo l’identificazione del bersaglio per mezzo di telecamere di sorveglianza.

Secondo quanto è emerso dai media israeliani e dalle denunce internazionali, quest’ultima innovazione tecnologica definita “rivoluzionaria”, messa in funzione a difesa del Muro contro attacchi terroristici, ha provocato la morte di decine di palestinesi e il ferimento di un’attivista maltese; la Ong Dci Defense for Children Inernational ha riferito, tra gennaio 2009 e agosto 2010, l’uccisione accertata di 22 civili palestinesi e il ferimento di 14, per essere entrati in contatto con il Sentry Tech nella zona cuscinetto a ridosso del muro.

Secondo le autorità militari questi sistemi potranno permettere di combattere e uccidere in zone di guerra senza mettere a rischio i soldati; ma ciò che ha sollevato reazioni è stato il fatto che, in fase di sperimentazione, gli unici membri dell’esercito ad aver avuto accesso alle consolle delle sedi operative poste in luoghi lontani e sicuri all’interno di basi militari, sono state soldatesse dai 18 ai 20 anni, sedute a controllare sullo schermo la linea di demarcazione israelo-palestinese manovrando i joystick di comando dei fucili e pronte a cliccare, se autorizzate da un superiore collegato in chat.

Secondo Philip Alston, relatore speciale dell’ONU per le esecuzioni extragiudiziarie, il pericolo è l’avanzata di una mentalità assassina in stile playstation che attribuirà alla guerra un carattere ludico e impersonale, lasciando la responsabilità materiale di vita o di morte a soldatesse poco più che maggiorenni senza un processo che appuri la presunta colpevolezza del “bersaglio”.
Un computer, una tastiera e un joystick, ecco i nuovi strumenti di morte utilizzati a scopo difensivo da personale femminile. Questo è quanto si percepisce dalle parole di Ben Karen, soldatessa ventenne dell’IDF che, in merito al suo compito, ha dichiarato al settimanale israeliano Haaretz: “È molto allettante che sia io a farlo. Non tutti vogliono questo incarico. Non è una cosa da poco occuparsi di un joystick come quello di una Sony Playstation e uccidere, ma ultimamente viene fatto per difendersi”.

L’esercito, il pilastro dell’identità sionista israeliana

La società israeliana, composta per sua natura da un melting pot di differenti etnie ebraiche scampate clandestinamente alla shoah o immigrate in tempi più recenti da regioni dell’est europeo e africane, è pervasa da fenomeni culturali, politici, religiosi e mediatici che supportano il casus belli di ogni operazione militare e che giustificano la sproporzionata efferatezza della reazione, motivata da ragioni di tipo sia politico che storico e addirittura religioso.

Il vero significato dell’ebraismo trascende le identità tribali e si impegna per la giustizia sociale ed è per questo che Ebraismo nel mondo significa mille cose diverse. Ma il vero significato dell’ideologia sionista, e l’unico concetto di ebraismo espresso in Israele, significa oggi solo una cosa: fare soldi con le armi e con il sangue, uccidere per trasformare il sangue in denaro. L’esercito, il pilastro dell’identità sionista israeliana, leader nel mondo per la produzione, sperimentazione, assistenza, addestramento, trasporto e vendita di armamenti, impone come sistema educativo una poderosa macchina di indottrinamento per i propri militari.

L’esercito israeliano chiama sè stesso Israeli Defence Force (Forza di Difesa di Israele), ed è uno dei più armati e tecnologicamente avanzati al mondo, composto da circa 200.000 militari perlopiù di leva.
La chiamata alle armi avviene al compimento del diciottesimo anno di età, dura 36 mesi per gli uomini, 24 mesi per le donne e in caso di necessità può mobilitare circa 500.000 riservisti che continuano a prestare servizio per un mese all’anno fino al compimento del 42 esimo anno di età.

Il patriottismo, il coraggio, l’eroismo, la purezza delle armi che difendono il legittimo diritto alla propria Terra da parte del popolo ebraico israeliano, la “purezza delle armi”, stemma, orgoglio e gloria dell’esercito israeliano, quando tradiscono i propri elevati ideali compiendo crimini di  guerra contro una popolazione civile palestinese vinta, umiliata e imprigionata, dimostrano il proprio punto debole e il proprio tallone d’Achille.

Quella dell’aumento di uso di sostanze stupefacenti da parte dei soldati, dell’aumento dei casi ufficiali/non ufficiali di suicidio e dell’aumento del numero di “refusnik”  – obiettori di coscienza – arrestati, processati e incarcerati per essersi rifiutati di prestare servizio di leva o di essere richiamati come riservisti, è una realtà che tutti conoscono in Israele ma di cui non si può parlare.

Il coraggio di rifiutare di combattere 

Le associazioni, i comitati di madri, i gruppi di donne israelo-palestinesi, gli stessi soldati o soldatesse impiegate in battaglia, non riescono a parlare liberamente senza essere accusate di tradimento, disfattismo e viltà. Breaking the Silence, Courage to Refuse, Gush Shalom, Taayush, New Profile, Target 21, B’Tselem, Peace Now, sono espressioni della società civile israeliana rivolte ai giovani -i cosiddetti “movimenti pacifisti radicali di sinistra israeliani”– che nonostante siano sempre state condannate per aver raccolto e divulgato testimonianze dirette sugli ordini impartiti durante il servizio di leva, non hanno mai smesso di andare alla radice del problema: la colonizzazione, l’occupazione e l’apartheid praticata da Israele nei confronti della popolazione palestinese.

Nel 1985, Yeshayahu Leibowitz, docente ebreo ortodosso presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, rilasciò un’intervista al quotidiano Yedioth Ahronoth, in cui espresse sostegno ai riservisti dell’esercito che si rifiutavano di servire nella guerra di Israele in Libano. Il rifiuto iniziò da allora ad essere considerato una tattica politica legittima, necessaria e vincente nella realtà israeliana: “Il rifiuto di servire, anche se è la norma solo all’interno di una minoranza, potrebbe disinnescare il consenso nazifascista e diventare il primo passo sulla strada per uscire dalla barbarie”.

Nel gennaio 2002, al culmine della Seconda Intifada, un gruppo di 51 militari riservisti ha pubblicato la “Lettera dei Combattenti” nella quale dichiaravano il loro rifiuto di prestare servizio nei Territori Occupati. La presenza dell’esercito lì, hanno detto, non riguardava più la protezione di Israele, ma aveva invece lo scopo di “dominare, umiliare, affamare ed espropriare un’intera nazione”. Decine di altri militari hanno firmato la lettera e in poche settimane quasi un migliaio di soldati e numerosi ufficiali in carica o riservisti hanno espresso la volontà di unirsi in quello che, iniziato con poche parole su una pagina di Haaretz, si è trasformato in un dilagante movimento.

Leader politici e generali dell’esercito si sono precipitati a condannare la lettera. La Commissione per gli Affari Esteri e la Sicurezza della Knesset ha tenuto un lungo dibattito sull’iniziativa, in cui l’allora Capo di Stato Maggiore dell’esercito Shaul Mofaz ha accusato gli ufficiali che hanno firmato la lettera di ammutinamento. Erano paracadutisti, comandanti di carri armati, luogotenenti e capitani in servizio nelle unità sul campo, ufficiali di sottomarini e pattugliatori navali: molti di loro furono congedati dalle loro unità, centinaia hanno scontato pene detentive.

Noi, ufficiali riservisti dell’esercito e soldati delle Forze di Difesa Israeliane, cresciuti secondo i principi del sionismo, del sacrificio di sé e alla fedeltà al popolo e allo Stato di Israele, che hanno sempre servito in prima linea, e che sono stati i primi a svolgere qualsiasi missione al fine di proteggere lo Stato di Israele e rafforzarlo. Noi, ufficiali dell’esercito e soldati che abbiamo servito lo Stato di Israele per lunghe settimane ogni anno, nonostante il caro costo per le nostre vite personali, siamo stati in servizio come riserve nei Territori Occupati e abbiamo ricevuto comandi e direttive che non avevano nulla a che fare con la sicurezza del nostro Paese, ma avevano l’unico scopo di perpetuare il nostro controllo sul popolo palestinese. […] Con la presente dichiariamo che non continueremo a combattere questa guerra degli Insediamenti. Non continueremo a combattere oltre i confini del 1967 per dominare, umiliare, affamare ed espropriare un intero popolo.”
[estratto della Lettera dei Combattenti, gennaio 2002].

Alcuni dei primi 51 membri del gruppo in seguito si sono riuniti nel movimento “Courage to Refuse”(Coraggio di Rifiutare) sostenendo molte altre lettere di rifiuto pervenute da componenti di unità d’élite, piloti dell’Aviazione, veterani della prestigiosa intelligence 8200, studenti pre-arruolamento e supportando dozzine di adolescenti israeliani condannati a lunghe pene detentive per aver rifiutato di prestare servizio militare a causa della loro opposizione all’occupazione. Tra loro molte donne e persone provenienti dalle minoranze etniche più povere e svantaggiate.

Breaking the Silence, una delle prime organizzazioni fondata nel 2004, ha pubblicato nel 2009 un libro di testimonianze controverse sulle tre settimane di invasione della Striscia di Gaza nel corso dell’operazione Piombo Fuso. “La nostra logica difficile: Testimonianze dei soldati israeliani dai territori occupati, 2000-2010”, raccoglie 145 interviste che hanno spinto il ministero degli Esteri di Israele a chiamare la Spagna, i Paesi Bassi e altri governi stranieri affinchè tagliassero i fondi per l’organizzazione.

Il silenzio sui militari suicidi

Nei primi anni Duemila sono apparse le prime informazioni relative ai suicidi nelle forze armate, pubblicate in forma anonima da un blogger conosciuto come “Eishton” (una combinazione di parole ebraiche per “uomo” e “quotidiano”), immediatamente divenuto oggetto di indagine da parte della Polizia Militare. Come prima cosa è stata rilevata una significativa disparità tra le statistiche di mortalità pubblicate dalle forze di sicurezza e il numero indicato nelle pagine del sito web ufficiale di commemorazione delle vittime di guerra, cosa che ha autorizzato a credere che il numero dei suicidi effettivi fosse molto più alto di quello indicato nelle statistiche ufficiali. La maggior parte di atti di suicidio nella popolazione sono commessi da individui clinicamente depressi; la maggior parte dei soldati che si suicidano sono persone da ritenersi fisicamente e mentalmente sane, ma che vivono una acuta crisi esistenziale senza speranza di uscirne.

Eishton ha chiesto (ma non ottenuto) che l’esercito obbligatoriamente rendesse noto il nome di ogni soldato caduto riportando la vera causa della morte: “Non sono solo i suicidi il problema, il problema è che vogliono farci pensare che ogni soldato caduto è morto al servizio del suo paese”.

Una delle campagne più efficaci proposte dalle organizzazioni pacifiste, ha proposto alla visione pubblica le foto personali dei soldati scattate nel corso del proprio servizio. Gli scambi di commenti relativi ai ricordi e la rilettura delle testimonianze in relazione ai fatti accaduti, ha consentito di avviare un percorso di presa di coscienza molto difficile da contrastare da parte del militarismo culturale e da parte della cultura della guerra.

ll sito israeliano “Israel Today” ha già da tempo segnalato il fatto che tra i soldati c’è un significativo aumento di richieste di trattamenti psicologici e un conseguente aumento dei casi di esonero da ulteriori impieghi sui campi di azione. Per le scene terribili alle quali hanno assistito o per i crimini che sono stati costretti ad eseguire come ordini loro impartiti durante ognuna delle precedenti operazioni nella Striscia di Gaza, centinaia di soldati israeliani hanno dovuto essere accolti e trattati in speciali ”reparti di psicoterapia”. Vien da chiedersi, inorridendo, cosa produrranno gli orrori di un genocidio come quello in corso nelle coscienze dei sopravvissuti.

Tra coloro costretti ad assumere il ruolo di esecutori materiali di crimini di guerra, c’è già chi sta tentando, in India o nella Striscia di Gaza, di rimuovere dal proprio interiore il trauma di  un combattente al servizio di una lugubre polizia politica, anziché di un eroico esercito nazionale di legittima difesa.

 

Cover: Foto originale tratta dal docufilm “De Gaza” di Mirko Faienza e Franco Ferioli

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Quella cosa chiamata città /
VIVERE NELLA CITTA’ SMART

Quella cosa chiamata città
VIVERE NELLA CITTA’ SMART

Le nuove frontiere della tecnologia 

Sono bersagliato ogni giorno da messaggi di università, enti, consorzi, imbonitori che mi segnalano programmi innovativi, attività di hub tecnologici e cluster nei quali coinvolgere PMI, call per progetti smart (necessari per fare smart cose: non è uno scherzo è una affermazione sentita in una riunione) farciti di parole inglesi che spesso molti utilizzano senza ben comprenderne il significato.

Questo mi fa pensare che siamo in movimento, che la realtà è aumentata (ed essendo per molti una realtà di m…a, non è una bella cosa) e che la tecnologia aprirà nuove frontiere di innovazione e benessere, rendendo sempre più artificiale la nostra intelligenza.

La città processore

Poi sento che tra qualche decennio tutte le città costiere spariranno a causa dell’innalzamento dei mari, leggo che il rondone, che la sua strana vita obbliga a volare sempre, anche per vent’anni, tranne quando nidifica, non trova più pertugi dove montare un nido per far nascere i piccoli, a causa delle ristrutturazioni edilizie, sempre più performanti, nei nostri centri storici, rendendolo di fatto una specie in via di estinzione.

Infine prendo atto che tra cinquant’anni potremmo vivere e andare a fare acquisti nei centri commerciali su Marte o la Luna, dentro rassicuranti bolle eco-sostenibili, dove coltiveranno anche i pomodori, come a Dubai. Rimane l’amarezza che pochi potranno fare la spesa su Marte e la maggioranza morirà annegando nel Mediterraneo o in altri mari, alla ricerca di un posto da dove poter partire per l’extramondo, mentre altri andranno a sciare negli impianti artificiali, che si stanno costruendo nel deserto dell’Arabia Saudita.

In fondo l’Unione Europea in questi decenni ha finanziato, con i suoi programmi, ricerche importanti sui processi di governance innovativa, sulle smart city e sulle healthy city, e sui processi di trasferimento tecnologico, sull’innovation applicata ai processi, e la lista potrebbe continuare.

Scientismo e governance

Le tecniche analitico-diagnostiche diventano sempre più sofisticate, lo scientismo è imperante e siamo quotidianamente immersi in quadri conoscitivi talmente ricchi di dati da annullarsi, mentre gli algoritmi ci parametrizzano e orientano le scelte, anche progettuali, togliendoci il gusto dell’intuizione interpretativa.

Molti processi decisionali sono ormai sottoposti a procedure partecipative istituzionali che assomigliamo sempre più a dei giochi di società. Insomma, in questi ultimi quarant’anni il dibattito sugli habitat sostenibili e smart è stato molto intenso, in tutto il mondo e, nei documenti strategici, le nostre città vengono descritte come sostenibili, policentriche, rigenerate, attrattive, abitabili, resilienti (ora anche antifragili), competitive.

Quest’ultimo attributo è sempre più ricercato da territori, città e borghi in cerca di futuro, mentre la collaborazione, la sinergia, la cooperazione, l’inclusività sono obiettivi spesso non dichiarati o enunciati a denti stretti.

Londra, l’agora digitale di Tottenham Court Road

Quindi il futuro delle nostre città si basa su finalità che ci fanno sognare e su obiettivi ambiziosi, ma le condizioni di vita nelle città del mondo peggiorano continuamente. Il degrado ambientale degli insediamenti urbani è ormai uscito allo scoperto, grazie agli effetti generati dai cambiamenti climatici e, riferendoci solamente agli eventi meteorici causati da inondazioni e frane, in questi anni in Europa, Pakistan, Bangladesh, Libia e tanti altri paesi, il tributo in vite umane e danni è stato sempre più rilevante.

Le forme di governance diventano subdolamente sempre più autoritarie e ormai passiamo da una emergenza generata dalla siccità ad un’altra causata da troppa pioggia, ma rimane costante l’essere in emergenza. Questa ormai rappresenta uno dei caratteri più stabili della nostra quotidianità.

Un nuovo linguaggio

Rifletto su questo mentre mi trovo, mio malgrado, coinvolto in un seminario di un cluster che si occupa di sea inteso come spazio di contatto tra water e coast, per cui pensare politiche di sustainability per il futuro della Blue Economy, favorendo i processi bottom up per il local development.

A un certo punto, saltando tutta la programmazione degli speach (il mio compreso), viene data la parola all’executive di una development agency di Ancona che, con un inequivocabile accento marchigiano, propone di costruire una library per il boosting degli aiuti alle comunità local nel processo di empowerment, perché la storia è one way, conclude l’executive.

Of course, penso io e tornato a casa prenoto il booster, per evitare di ricadere nel lockdown, visto che a giorni aprirò la mia classroom per le lezioni in blended. Dopo di che apro il giornale e scopro che uno dei problemi dell’Italia è di rafforzare le skill giuste per favorire il Digital progress del paese.

Per questo è nata la Italian Tech Academy presso il Talent Garden di Roma Ostiense, i cui corsi consentiranno di colmare il mismatch che ancora ci contraddistingue. Questo grazie all’hub di Gedi Italian Tech, che sta lavorando intensamente per rendere le nostre città sempre più smart, contribuendo alla formazione dei talent del futuro.

Un mondo smart: opportunità e diseguaglianze

Per concludere, siamo sicuri che lo scenario smart sia una straordinaria opzione per tutti o invece non rafforzerà le disuguaglianze? L’impressione è che la concezione smart della vita e della città stia creando un numero sempre maggiore di disadattati.

Inoltre, sono convinto che il mondo smart sia anche una grande fregatura. Paghi e ti fai tutto: check-in, invio bagagli con relativa pesatura, ti prendi il cibo te lo scaldi e poi devi anche pulire il tavolo, meno persone lavorano e se lo fanno la loro condizione è precaria (flessibile?), nel mentre i servizi alla persona spariscono, tu parli con un algoritmo che tra le opzioni che ti enuclea (le domande frequenti) e la tua manca sempre, e le company aumentano i dividendi.

Guarded Bus Stop. Un esempio di agorà virtuale: una signora da sola di notte alla fermata dell’autobus in una città brasiliana, dopo una dura giornata di lavoro, probabilmente sottopagato. Nell’attesa, potrà parlare con le operatrici virtuali che dallo schermo che le terranno compagnia e le daranno dei consigli. La qualità delle condizioni di lavoro della persona, e di mobilità non interessano a Eletromidia, gestore tecnologico dell’agorà, anzi più si aspetta l’autobus meglio è.

La città smart e gli anziani. In Italia e nel mondo gli anziani sono una componente molto rilevante, spesso la loro scarsa attitudine a rincorrere il progresso tecnologico, smart, li taglia fuori anche dall’accesso a servizi essenziali. Se non hanno uno smartphone, un indirizzo e-mail, un computer, o un figlio, o un nipote con competenze digitali, diventa per loro impossibile accedere ai bancomat, alle prestazioni sanitarie, all’acquisto di un titolo di trasporto, al rinnovo della tessera sanitaria o del documento di identità.

Alcuni mesi fa io e mia moglie a Venezia abbiamo assistito un signore anziano, che si aggirava spaesato attorno al bancomat dove avevamo prelevato del denaro. Non era la sua banca ci dice, quella l’hanno chiusa, e ora si trova con un rettangolo di plastica che deve inserire in una fessura di un apparecchio che non conosce ed è intimorito. Gli abbiamo prelevato i soldi, gli ultimi della sua pensione minima mensile, ci dice ringraziandoci molto per l’aiuto.

Comunque, l’esperto di innovation management ci direbbe che a breve, queste “figure” sono destinate a morire, e i futuri anziani sono più preparati alla digital transformation.

La città smart e l’arte dell’arrangiarsi. Mi sono svegliato un giorno con un forte capogiro e nausea, probabilmente causato dall’uso intensivo dei ventilatori. Il mondo girava intorno a me, le righe del libro si intrecciavano tra di loro, cambiando il senso di ciò che leggevo, i colori dello schermo del portatile animavano immagini in movimento dal sapore futurista, affacciandomi alla finestra mi sembrava di vivere in una città di Fritz Lang o Robert Wiene.

Telefono al medico, gli spiego la situazione, che lei immediatamente associa a un comune attacco di cervicale. Serve un medicinale! Mi viene dato il nome e la dose, ma si tratta di un farmaco da banco quindi serve la ricetta, ma essendo in una fascia particolare la prescrizione non può essere rilasciata attraverso il fascicolo elettronico (tecnologia smart).

Devo quindi andare a prenderla, mi dice la dottoressa, ma scusi, gli rispondo, visto che abito dall’altra parte della città come posso prendere l’auto o la bicicletta visto che i capogiri mi portano a confondere i punti cardinali? Allora deve aspettare che le passino i capogiri e poi venire; la mia risposta è immediata: ma se mi passano i capogiri non mi serve più il medicinale, e allora deve mandare qualcuno, mi viene risposto.

Bello questo paese che non ti mette mai in condizione di essere totalmente indipendente. È più importante che sia smart la tecnologia (il fascicolo elettronico) o la modalità di gestione del servizio?

Comunque si parla sempre di smart city e mai di smart urbanisation, forse perché la prima è indentificata con un microcosmo tutto sommato in equilibrio (anche se spesso instabile), che le narrazioni e le retoriche rendono armonico, anche dicendo bugie, mentre nella seconda si dovrebbe rendere smart il conflitto, la dissonanza, la frammentazione, l’informalità, la disuguaglianza, la violenza.

 

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Dall’Italia, una carovana per Rafah per sostenere le ragioni della pace e del popolo palestinese

Dall’Italia, una carovana per Rafah per sostenere le ragioni della pace e del popolo palestinese
Dal 3 al 6 marzo una delegazione di operatori e operatrici umanitari, 16 parlamentari, 13, giornaliste e giornaliste, accademici ed esperte di diritto internazionale si recherà in Egitto per raggiungere il valico di Rafah.

di Umberto De Giovannangeli
pubblicato da Globalist del 28.02.2024

Una carovana per Rafah. Per testimoniare sul campo di una solidarietà che non è mai venuta meno.

Si tratta di un’iniziativa promossa dall’Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà̀ internazionale (Rete Aoi), nell’ambito della campagna #EmergenzaGaza, in collaborazione con Amnesty International Italia, Arci e Assopace Palestina.

L’appello della delegazione è per il cessate il fuoco immediato, perché́ riprenda l’azione diplomatica internazionale, sotto la regia delle Nazioni Unite. La delegazione sostiene con determinazione la richiesta delle organizzazioni umanitarie e della Corte Internazionale di Giustizia, perché́ si consenta l’ingresso degli aiuti e l’operato umanitario. Obiettivo della delegazione italiana è quello di testimoniare la vicinanza alla popolazione di Gaza sotto assedio e dimostrare che è possibile fare qualcosa di concreto.

L’assalto militare israeliano sta causando distruzione, pericolo, terrore e sofferenza tali da rendere impossibile per il sistema umanitario internazionale organizzare una risposta sicura per salvare vite umane.

Le realtà̀ promotrici invitano il governo italiano ad agire perché́ il cessate il fuoco sia permanente e si fermi il massacro in atto, sospendendo l’acritico sostegno alla politica del governo israeliano, che lo rende complice della tragedia in atto. Il governo e il Parlamento devono fare tutto ciò̀ che è in loro potere per prevenire ulteriori offensive militari e creare un ambiente favorevole ai negoziati e al dialogo: in questo quadro va affrontata anche la questione del rilascio degli ostaggi israeliani. Deve essere garantita ai civili, coloro che pagano sempre il prezzo più̀ alto nei conflitti, la protezione da minacce e violazioni del diritto umanitario internazionale.

Oggi più̀ che mai è necessario che la comunità̀ internazionale condanni l’occupazione israeliana in Palestina, contrasti l’impunità di Israele di fronte alla continua violazione del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani. Sono passaggi essenziali per creare un percorso sostenibile e concreto verso dei negoziati di pace che vengano condotti nel quadro della legalità̀ internazionale.

La delegazione incontrerà̀a Il Cairo organizzazioni della società̀ civile, difensori dei diritti umani, agenzie delle Nazioni Unite, oltre alle rappresentanze diplomatiche italiane in loco. Successivamente si recherà̀ ad Al Arish per seguire il percorso dei container di aiuti umanitari realizzati grazie alla raccolta fondi #EmergenzaGaza. Infine, raggiungerà̀ il valico di Rafah per incontrare le organizzazioni umanitarie che si stanno spendendo per cercare di inviare aiuti essenziali dentro la Striscia, affrontando difficoltà inimmaginabili. Tra loro Unrwa, agenzia Onu per il soccorso dei rifugiati palestinesi, oggetto in queste settimane di un gravissimo attacco che colpisce collettivamente quasi 6 milioni di rifugiati palestinesi a Gaza, in Cisgiordania, in Siria, Libano e Giordania, ma anche la Mezzaluna Rossa Egiziana e quella Palestinese, e l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (Ocha).

“Partiamo per Rafah – dice Alfio Nicotra, Aoi – perché́ non possiamo stare con le mani in mano mentre si sta consumando questa ecatombe di bambini e bambine a cui si sta sottraendo tutto: la vita, il gioco, l’istruzione, la salute, il diritto al futuro. La nostra campagna #ErmergenzaGaza ha raccolto centinaia di piccole donazioni individuali e collettive segno che la società̀ civile italiana si sente coinvolta dalla tragedia del popolo palestinese. Partiamo anche per essere vicini ai nostri colleghi delle Ong, agli operatori umanitari, sanitari e ai giornalisti che ogni giorno vengono assassinati e fatti target dai cecchini e dai bombardamenti. Il Governo italiano e quelli della Ue devono chiedere ed agire per il cessate il fuoco. Occorre impedire che si concretizzi il piano di espulsione dalla propria terra di oltre due milioni di palestinesi”.

Rimarca Tina Marinari, Amnesty International Italia: “Un mese dopo che la Corte internazionale di giustizia ha ordinato le sei misure cautelari, la situazione nella Striscia di Gaza non ha fatto altro che peggiorare. La popolazione è ridotta alla fame e l’accesso agli aiuti umanitari continua ad essere bloccato da Israele. In quanto potenza occupante, secondo il diritto internazionale, Israele ha il chiaro obbligo di garantire le necessità di base della popolazione di Gaza. Il blocco israeliano è una forma di punizione collettiva e un crimine di guerra. Noi abbiamo bisogno di aprire gli occhi e mostrare al mondo tutti i crimini che si stanno compiendo di fronte all’immobilismo internazionale. Abbiamo bisogno che un cessate il fuoco immediato e permanente venga garantito al più̀ presto in maniera unilaterale”.

Sottolinea Raffaella Bolini, vice presidente dell’Arci: “Noi crediamo sia necessario che arrivi alla popolazione di Gaza il segnale che c’è un’altra Italia, un’altra Europa, un altro Occidente, che crede nel diritto  internazionale, che crede nella politica di giustizia, che si batte per una soluzione politica fondata sulla legalità̀ internazionale. Per dare un appiglio di speranza a chi soffre e sopravvive e muore chiedendosi perché́ nessuno faccia niente di fronte a un genocidio. L’ignavia di fronte all’oppressione produce danni immensi, di cui pagano i prezzi tutti. La comunità̀ internazionale non ha mosso un dito, di fronte al tradimento del processo di pace, all’avanzata dell’occupazione, degli insediamenti, dell’apartheid negli ultimi trenta anni. Chi oggi guarda con paura ai processi di radicalizzazione, in Israele e in Palestina, deve sapere che sono figli di quella ignavia. Perché́, quando la politica di giustizia non c’è, rimane solo la forza bruta. Bisogna rimettere in campo la politica”. 

Spiega Luisa Morgantini, presidente di Assopace Palestina: “Non raggiungeremo l’inferno di Gaza, vorremmo tanto farlo, ma l’entrata è interdetta non solo a noi, ma a anche a relatori delle Nazioni Unite, ai giornalisti, agli aiuti umanitari fatti entrare a gocce. Stiamo assistendo ad un genocidio e alla crudeltà̀ della scelta del governo di Israele di affamare e distruggere Gaza, come affermato da ministri, non solo fondamentalisti messianici, ma anche da un Presidente laico che dice «non c’è un innocente a Gaza. I gazawi devono essere spazzati via, mettendo al loro posto coloni che così, potranno vedere il mare.».  Ma i palestinesi a Gaza, nella Cisgiordania, dove ogni giorno l’occupazione uccide e rapina terra, in Israele, nei campi profughi del Libano, della Siria e della Giordania e nella diaspora nel mondo, sapranno che non sono soli, sanno che ci sono milioni di persone nel mondo che sono con loro e non con le politiche simili a quelle del nostro governo che si rende complice dei crimini di guerra che sono commessi ogni singolo momento dal governo israeliano.
Arriveremo fino a Rafah, nella parte egiziana con aiuti umanitari, ma soprattutto per ribadire il nostro impegno a far sì che dopo 75 anni di continua Nakba e 56 anni di occupazione militare, di apartheid e colonizzazione, il popolo palestinese ha di gran lunga il diritto all’autodeterminazione e alla libertà. Non averla praticata segna il fallimento della Comunità̀ Internazionale, in primis dell’Unione Europea, che dovrebbe fondarsi sulla giustizia e il rispetto dei diritti umani e sociali di tutti e tutte”.

Umberto De Giovannangeli
Già inviato speciale de l’Unità, segue da oltre trent’anni anni gli avvenimenti, le storie e le cronache del Medio Oriente, con reportage, analisi, dossiere e interviste ai maggiori protagonisti delle vicende che hanno segnato e continuano a segnare questa nevralgica area del mondo. Collaboratore della rivista di geopolitica “Limes”, è autore di saggi sul conflitto israelo-palestinese e sul fenomeno integralista, tra i quali “L’enigma Netanyahu”, “Hamas, pace o guerra”, “Israele 2013. Il falco sotto assedio”, “Terrorismo. Al Qaeda e dintorni”, “Non solo pane. I perché di un’89 arabo”, “Medio Oriente in fiamme”.

Parole a Capo /
Maria Angela Malacarne: “Luce” e altre poesie

La nuvola nasconde le stelle e canta vittoria ma poi svanisce: le stelle durano.
(Rabindranath Tagore)
Estate 1979

Costellazioni di pensieri
via lattea di scintille.
Nel giorno assolato e caldo
i frutti maturano
e il vino della solitudine
inacidisce nel bicchiere.
Ritrovata
strada perduta
fra le colline del mattino
chiaro e polveroso
di luglio.

 

Temporale

I suoni del temporale
fuori dalla finestra,
sprazzi di luce, lampi.
Il tuono scuote l’albero
nel giardino,
e le mie radici.
Nelle profondità scavate
ripercorro
i sentieri
che avevo lasciato,
alla luce
ritornano parole,
gli antichi arnesi di lavoro.

 

Luce

Il cerchio di luce
nel cielo in attesa
si fa pozzo profondo.
Ritorna un vento di tempesta
ali di uccello si piegano,
urtano contro
gli spigoli delle parole dure.
Il cerchio di luce
brilla dalle profondità marine
un’ancora sepolta
di una nave ribelle.

 

Ricordo

Spiegami
quei tuoi occhi
e la difficoltà di vivere
Spiegami
il grigio del cielo
di quei giorni.
Ricorda
le promesse del mattino.

 

Inverno sudamericano

Le braci nella stufa,
crepitava l’inverno
fuori dalle finestre.
Le onde oceaniche
arrivavano nel cuore
della tua terra
mentre
i nostri occhi
percorrevano il sentiero segreto.
La freccia era già scagliata nel cielo.
Prendimi
dentro un giro di tango
avvolgimi nella seta del ricordo.
Portami sull’orlo
dell’amore e
lasciami andare.

 

Maria Angela Malacarne (Ferrara). Sono nata nei primi anni ’60, quindi nel periodo del boom economico. Per fortuna dal suo ottimismo e dalla sua fiducia nel futuro sono uscita indenne. Ho, da quando mi ricordo, una passione per la lettura e una precoce tendenza a scrivere, principalmente poesie. Ho lavorato nella pubblica amministrazione, cercando di coltivare le mie passioni, la scrittura, la lettura e il cinema. In particolare sono  una lettrice onnivora, mi piace scoprire scritture che nascono da culture diverse.

 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca sul nome della rubrica.

Le Voci da Dentro /
Il dolce e l’amaro di una sentenza che ci ricorda che la vita senza affetti è un deserto

Il dolce e l’amaro di una sentenza che ci ricorda che la vita senza affetti è un deserto

di Ornella Favero
(pubblicato da Ristretti Orizzonti il  29 gennaio 2024)

Vogliamo iniziare una riflessione sulla situazione nelle carceri a partire dalla sentenza della Corte Costituzionale 10/2024, che apre orizzonti nuovi, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 dell’Ordinamento penitenziario “nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia”.

Ma vogliamo iniziare soprattutto con le parole del magistrato di Sorveglianza ornif@iol.it, che ha il grandissimo merito di avere promosso la questione di legittimità costituzionale: “Una prima lettura della sentenza della Corte, che pur merita ben più ampio studio, non può che suscitare vivissimo apprezzamento per gli alti principi enunciati e per la grande nettezza, anche in termini di prospettive, che la caratterizza. A me pare che, a prescindere dal ruolo del legislatore, consegni all’amministrazione e alla magistratura di sorveglianza, già da domani, il compito di iniziare in concreto a ragionare di come consentire lo svolgimento dei colloqui intimi. Dove già esistono spazi, ma anche dove non ci sono ancora. Occorre uno scambio di idee e di esperienze, il più possibile rapido, anche guardando ai tanti Paesi in cui l’affettività da anni trova luoghi e tempi anche in carcere, con le Direzioni degli istituti penitenziari che, nonostante il tempo drammatico del sovraffollamento, sono certo comprendano l’opportunità grande che la decisione della Consulta offre alla comunità penitenziaria”.

Prima di tutto quello a cui la Corte Costituzionale ci richiama tutti con forza è non dimenticare il “volto costituzionale” della pena,che è una sofferenza in tanto legittima in quanto inflitta “nella misura minima necessaria”. E questa affermazione ci colpisce ed è “il dolce” della sentenza, in un momento in cui nella società passa invece l’idea che la pena deve essere inflitta “nella misura massima”. Anzi, la Corte fa di più, dice che negando alle persone detenute l’intimità degli affetti si rischia di arrivare a una “desertificazione affettiva” che è “l’esatto opposto della risocializzazione”.

L’amaro invece, che suscita la sentenza, è la paura che l’immobilismo dell’Amministrazione possa porre mille ostacoli piuttosto che spianare la strada ai colloqui intimi, perché, come ci ha detto di recente una delle direttrici di carcere più aperte all’innovazione, Cosima Buccoliero, “Noi siamo autoreferenziali, abbiamo questa organizzazione che, cascasse il mondo, non riteniamo di dover cambiare, di modificare in funzione di opportunità che vengono dall’esterno”.

E l’amaro è anche la certezza che saremo sommersi dalle banalizzazioni giornalistiche e politiche (ricordiamo i titoli “Celle a luci rosse” quando, anni fa, si è cominciato a parlare di colloqui intimi nelle carceri) e che dovremo fare un grande lavoro di comunicazione per smontare i luoghi comuni e le semplificazioni che avveleneranno il clima dopo la sentenza della Corte Costituzionale. E del resto la Corte stessa “è consapevole dell’impatto che l’odierna sentenza è destinata a produrre sulla gestione degli istituti penitenziari, come anche dello sforzo organizzativo che sarà necessario per adeguare ad una nuova esigenza relazionale strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento”.

Ma proprio perché come volontari conosciamo il mondo del carcere e la sua quotidianità, proprio perché ci stiamo dentro ogni giorno, la nostra convinzione è che adesso ci voglia l’impegno di tutti, INSIEME, in ogni carcere, per cominciare a promuovere le prime esperienze di colloqui intimi. È una battaglia che speriamo veda la partecipazione di tutti quelli che hanno seguito e apprezzato la campagna che ha accompagnato la decisione della Corte Costituzionale, portata avanti su iniziativa in particolare di Andrea Pugiotto, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Ferrara, che scrive ora a commento della sentenza “Si tratterà di monitorarne la doverosa attuazione, cui sono chiamate fin d’ora l’amministrazione penitenziaria e la magistratura di sorveglianza, nell’attesa di un (altrettanto doveroso) intervento del legislatore coerente con il giudicato costituzionale”.

Il Volontariato è consapevole che in questa battaglia nessuno deve essere lasciato da solo, che non può essere affidata al “buon cuore” del singolo direttore la realizzazione di questi spazi di “libertà negli affetti” e che quelle che sono le disposizioni della Corte Costituzionale devono valere per tutti e nei tempi più rapidi possibile.
Perché la sentenza parla chiaro, ma richiede anche di vigilare: Venendo meno con questa decisione l’inderogabilità del controllo visivo sugli incontri, può ipotizzarsi la creazione all’interno degli istituti penitenziari – laddove le condizioni materiali della singola struttura lo consentano, e con la gradualità eventualmente necessaria – di appositi spazi riservati ai colloqui intimi tra la persona detenuta e quella ad essa affettivamente legata

 

Ornella Favero è Direttrice di Ristretti Orizzonti, il giornale dalla Casa di Reclusione di Padova,  e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia.

LA RABBIA DEGLI UOMINI.
Mentre anche a gennaio 2024 crescono i femminicidi

La rabbia degli uomini. Mentre anche a gennaio 2024 crescono i femminicidi

I femminicidi stanno inesorabilmente aumentando, si è passati da una uccisione ogni tre giorni del 2023 a una ogni due dell’inizio del 2024. Auguriamoci che gennaio 2024 sia stato un mese particolarmente sfortunato e che le statistiche dell’intero anno possano attestare la presenza di un primo mese outlier.

Il 2 gennaio Rosa D’Ascenzo è stata portata morta dal marito all’ospedale di Civita Castellana in provincia di Roma adducendo un “incidente domestico” (come riferisce la polizia giudiziaria). Il 5 gennaio a Naro Delia Zarniscu e Maria Rus sono state massacrate nelle rispettive case, l’indagato è un uomo ventiquattrenne che avrebbe agito a seguito di un rifiuto sessuale. L’8 gennaio Teresa Sartori è stata uccisa in casa a coltellate dal figlio che poi si è tolto la vita. Il 10 gennaio Elisa Scavone è morta in provincia di Torino accoltellata dal marito che ha confessato l’omicidio. L’11 gennaio, Ester Palmieri è stata uccisa a Valfloriana dall’ex compagno che non accettava la separazione e che poi si è suicidato. E così via, un massacro un giorno sì e uno no.

Ho già scritto più volte su questo tema e ho l’impressione che continuare a farlo serva davvero a poco, persisto comunque data la gravità di questo dramma che colpisce tutti noi per la sua cruenza e aggressività.

Da dove arriva la rabbia

Non è vero che tutti gli uomini che commettono femminicidio hanno un disturbo mentale e nemmeno che tutti gli uomini che hanno una cultura o un’educazione basata sul maschilismo commetteranno un femminicidio. Spesso i femminicidi sono compiuti da individui che provano un profondo sentimento di frustrazione e rabbia.

Come spiegano gli psicologi, se la rabbia è molto intensa, prolungata, di difficile gestione, è necessario approfondirla, capire cosa c’è sotto perché è da qui che iniziano i potenziali drammi. La rabbia è un’emozione di base, universale, che appartiene all’esperienza umana a prescindere dall’età, dalla cultura e dall’etnia di appartenenza. La sua funzione adattiva risiede nell’istinto di difendersi per sopravvivere nell’ambiente in cui ci si trova e nel rispondere a un’ingiustizia, un torto subito o percepito, alla percezione della violazione dei propri diritti.

Ma cosa è esattamente la rabbia? Di Giuseppe e Tafrate (2007) l’hanno definita nel seguente modo: “Uno stato emotivo sperimentato a livello soggettivo con un’elevata attivazione del sistema simpatico autonomo. È inizialmente suscitata dalla percezione di una minaccia, anche se può persistere dopo che la minaccia è passata. La rabbia è associata a cognizioni e pensieri di attribuzione e di valutazione che sottolineano le malefatte degli altri e motivano una risposta di antagonismo per contrastare, scacciare, ritorcere contro, o attaccare la fonte della minaccia percepita. La rabbia è comunicata attraverso la mimica facciale o posturale o inflessioni vocali, verbalizzazioni avverse e comportamento aggressivo”.

Guarire dalla rabbia? 

Spesso si confonde la rabbia con l’aggressività, ma questi due atteggiamenti non coincidono sempre. La rabbia è uno stato emotivo, mentre l’aggressione si riferisce al comportamento messo in atto. Mentre la rabbia è un sentimento di malessere, l’aggressività coincide con l’attacco verbale e fisico.  L’emozione di rabbia non necessariamente sfocia in azioni violente e aggressive, così come l’aggressione può verificarsi in assenza di rabbia. Una persona che si arrabbia è sempre emozionata, mentre quella aggressiva può anche essere in uno stato non-emotivo o di apatia (Fein, 1993).

Quindi il vero problema non è tanto la presenza di uno stato di malessere che porta alla rabbia ma il suo passaggio da emozione ad azione, da sentimento ad aggressione fisica.

Allora la strada per la guarigione di un uomo aggressivo è quella di dargli/ridargli gli strumenti per riconoscere lo stato di rabbia e fermarlo, cioè non trasformarlo in aggressione. Un uomo lasciato è spesso un uomo arrabbiato (sentimento di difesa), deve imparare a gestire la sua rabbia per non farla diventare altro, per non trasformarla in violenza agita. Facile a dirsi, difficilissimo a farsi.

Il contesto sociale intensifica i sentimenti di rabbia

Esiste inoltre una componente sociale che intensifica i sentimenti di rabbia e le sue eventuali conseguenze aggressive. Permangono nel mondo occidentale molte forme di degrado, una di queste è la mancanza di un reddito familiare sufficiente per vivere dignitosamente. Se è vero che ciò che è “sufficiente” ha una definizione soggettiva culturalmente condizionata, è anche vero che gli indici del paniere della spesa, piuttosto che l’ISEE, danno indicazioni tangibili e trasversali in questo senso.

Punterei quindi l’attenzione sul tema del reddito familiare.  Non solo crea problemi la mancanza di reddito per le donne, una donna senza reddito non è indipendente e quindi non può, per una questione di pura sopravvivenza, interrompere dei rapporti semplicemente perché li ritiene prevaricanti, ma può diventare un grave problema anche la mancanza di reddito per gli uomini.
La necessità di avere un lavoro e di contribuire in maniera decisiva al sostentamento familiare è un vettore di autostima maschile attualmente molto diffuso. Se manca la contribuzione alla costruzione del reddito, si genera un profondo stato di malessere, un attentato all’identità maschile che può portare a una perdita di ruolo che scatena aggressività. Inoltre, la mancanza di reddito causa di suo delle convivenze forzate e una impossibilità di allontanamento e “ricostruzione di vita” che potrebbe salvare dalla catastrofe.

La prossimità abitativa forzata è un problema non secondario in caso di malessere di coppia.
Un secondo tema è il circuito sociale nel quale si vive. Esistono contesti più “aperti” e contesti più repressivi in cui se un uomo perde il lavoro è il fannullone di turno, uno scansafatiche che non merita nulla. Questa pressione che viene “da fuori”, amplifica a dismisura il malessere aumentando la propensione all’aggressività. Stessa cosa succede quando si genera una sovrapposizione di ruoli che mina le gerarchie interiorizzate.
La donna sindaco, primario d’ospedale e direttore d’orchestra distrugge una identità costruita osservando una madre sottomessa alle logiche maschiliste e pone le persone davanti a loro stesse e alla necessità di ridefinire uno status e un ruolo.

Un femminicida di successo

M ricordo che vent’anni fa, parlando con un criminologo, gli chiesi se si potesse organizzare un convegno sul tema dei femminicidi e lui mi rispose che preferiva “tacere”. Mi sono chiesta per un po’ di tempo perché mi avesse risposto a quel modo e poi ho capito che continuare a parlare dei femminicidi (in maniera estesa, interpretativa e piena di giudizi) può facilitare il passaggio dalla rabbia all’aggressione in quei soggetti già sul punto di fare del male a qualcuno.

Non solo, la moltiplicazione delle informazioni e la loro visibilità fanno sì che i possibili aggressori trovino nella diffusione mediatica un forte agente di notorietà distorta. Per un attimo il loro senso di nullità e di insoddisfazione viene placato dall’assurgere agli onori della cronaca, dal poter diventare gli attori di un film dell’orrore che li consacra come i protagonisti assoluti, coloro che meritano il premio dell’attore più bravo.
Tutto ciò annienta per un attimo l’indifferenza e la nullità delle quali la rabbia si nutre e l’aggressività si scatena.

Il dramma di chi resta

Un altro tema importante che riguarda il dramma dei femminicidi è quello di chi resta. I figli delle donne uccise sono spesso bambini/e piccoli che si trovano senza madre, nelle condizioni di dover superare il dramma della perdita e anche rielaborare un lutto alla cui genesi hanno assistito in prima persona. C’è chi ricorda cosa è successo e chi prima o poi riuscirà a ricordarlo con molta sofferenza e con molto aiuto.  Non esistono in Italia elenchi precisi di queste vittime.  Secondo Openpolis [Vedi qui] negli ultimi dieci anni sono oltre duecento all’anno, per un totale di circa duemila, i minori che hanno perso un genitore, spesso assistendo alla sua uccisione.

L’Italia è uno dei pochi Paesi che ha una legge ad hoc (Legge 4/2018) che oltre ad aggravare le pene per il femminicida, prevede l’accesso al gratuito patrocinio a spese dello Stato per i figli della vittima, rafforza il loro diritto al risarcimento del danno stabilendo la possibilità di sequestro conservativo dei beni dell’indagato e una provvisionale pari ad almeno il 50% del presumibile danno. Ma tutto ciò non sempre serve a causa della pesantezza delle pratiche burocratiche che diventano troppo gravose per famiglie già martoriate e spesso in una situazione di solitudine sociale.

C’è inoltre un problema della formazione degli addetti ai lavori (magistrati, forze di polizia, assistenti sociali) che devono investire ulteriormente e in maniera più sistematica sulle competenze che garantiscono la possibilità di intervenire in situazioni di questo tipo. La tutela dei minori è un dovere di tutti, a maggior ragione di chi incarna nel suo ruolo professionale tale responsabilità. Anche la politica ha responsabilità in questo senso, in quanto delegata da noi a occuparsi del benessere dei cittadini. Se i cittadini sono bambini la responsabilità si amplifica e diventa esiziale. Solo un’infanzia tutelata ci darà sufficienti motivi per credere che il futuro sarà migliore di questo pesante presente.

Vite di carta /
Sulle colline attorno a Gerusalemme.

Vite di carta. Sulle colline attorno a Gerusalemme.

“Sulle colline attorno a Gerusalemme e in Cisgiordania, una serie infinita di insediamenti – con i loro leccati giardini verdi e i tetti rossi che si metastatizzavano nelle vallate come un eritema della terra – stridevano crudelmente con le fatiscenti case arabe sottostanti, dove facevano defluire le proprie acque di scarico e spesso scaricavano la spazzatura”.

L’occhio che guarda il paesaggio appartiene ad Amal Abulheja, tornata in Palestina dopo trent’anni di esilio per ritrovare il campo profughi di Jenin dove è cresciuta. È il 2002 e l'”eritema della terra” è una malattia ormai cronicizzata, nei quasi sessant’anni trascorsi dal conflitto del 1948, in cui i soldati israeliani cacciarono la famiglia di Amal dalle sue terre presso il villaggio di ‘Ain Hod, terre di ulivi, mandorle, fichi, agrumi e ortaggi.

vite di carta sulle colline di GerusalemmeAmal esce dal romanzo di Susan Abulhawa, Ogni mattina a Jenin, libro che ho letto senza potermene staccare e con lo sgomento addosso. L’ho letto nei giorni che hanno preceduto la Giornata della Memoria, mentre ascoltavo svariati telegiornali con gli aggiornamenti da Gaza e da Israele.

Il 27 gennaio ho visitato, qui al mio paese, in una delle sue tappe, la mostra fotografica itinerante Stelle senza un cielo. Bambini nella Shoah, curata dall’Istituto Yad Vashem di Gerusalemme e sostenuta dalla Assemblea legislativa E.R. e dal MEIS di Ferrara.

Ho incamerato dati e commenti da articoli di giornale, ho visto foto di volti e di paesaggi, ho condiviso la condanna a ogni forma di terrorismo, sentito alla tv le voci di alcuni ostaggi ancora nelle mani di Hamas, le dichiarazioni di Netanyahu, le accuse di Israele all’UNRWA, la sentenza inefficace del Tribunale dell’Aia e le parole di Papa Francesco sui bambini vittime della guerra e sul mercato delle armi.

A restituirmi una particolare consapevolezza sul conflitto in atto dallo scorso 7 ottobre, tuttavia, è stato il romanzo di questa giornalista e scrittrice di origini palestinesi la cui vicenda si proietta dentro il libro in alcune vicissitudini della protagonista.

La storia della famiglia Abulheja, costretta nel 1948 a lasciare la casa di ‘Ain Hod per Jenin, è raccontata infatti da Amal, la nipote del patriarca Yehya. La storia della Palestina negli ultimi sessant’anni si intreccia alle vicende di quattro generazioni di questa famiglia, da quella dei nonni di Amal a Sara, la sua unica figlia nata nel 1982 in America e venuta con lei a ritrovare la Palestina nella conclusione del romanzo.

Gli Abulheja assistono alla perdita della terra da parte del loro popolo e alla conquista che ne fanno gli israeliani:  subiscono prima l’esilio e la vita sospesa nei campi profughi della Cisgiordania e in Libano, poi la guerra nelle sue fasi più sanguinose e la drammatica perdita degli affetti più cari.

Dopo la morte del padre, il combattente Yussef disperso in seguito alla guerra dei sei giorni del 1967, e della madre Dalia, Amal deve lasciare Jenin e fare l’esperienza dell’orfanotrofio a Gerusalemme, finché nel 1973 ottiene una borsa di studio negli USA e si trasferisce a Filadelfia. Dei primi anni all’università dice: “Mi trasformai in un inclassificabile ibrido arabo-occidentale, sconosciuto e senza radici…Vissi nel presente, tenendo nascosto il passato“.

Mai come questa volta il filtro della narrativa è servito a farmi concepire il punto di vista di un popolo, quello palestinese, quello che oggi, a sessant’anni dalla cacciata dalle proprie terre, continua a rivendicare la sovranità sui territori della Cisgiordania e della striscia di Gaza, con Gerusalemme Est come capitale.

Al punto in cui si ferma la narrazione di Susan Abulhawa, il 2002, nella Striscia di Gaza si sono verificate almeno altre nove operazioni militari dell’esercito israeliano. Così come Papa Francesco ha affermato di recente alla trasmissione Che tempo che fa, occorre lavorare per la pace nonostante i dati scoraggianti sul floridissimo mercato delle armi che accompagna e tiene viva la guerra. Nonostante l’odio e la sete di vendetta, da una parte e dall’altra.

Pare impossibile oggi districare torti e ragioni nella guerra tra i due popoli. L’eritema della terra, che nel libro Amal vede sotto i suoi occhi, sta lì a mostrare che nemmeno le terre di una parte e dell’altra si possono più districare. La soluzione da tempo invocata dalla comunità internazionale, quella che riserva “due territori per due popoli”, sembra non poter più funzionare.

Cosa rimane? Non resta che entrare ancora una volta nel libro, dove Amal racconta la vicenda straordinaria dei suoi due fratelli costretti a diventare nemici: il primo, Isma’il, rapito da neonato e diventato un soldato israeliano, il secondo, Yussef, che si consacra alla causa palestinese.

Non resta che andare alla fine della storia, quando nel 2001 Amal riceve la visita di questo suo fratello sconosciuto che ha 53 anni e porta il nome David e insieme tentano di riconoscersi e di recuperare le radici comuni, oltre i conflitti e l’odio.

Nel 2002 Amal torna a Jenin con la figlia Sara e con lei frequenta anche i figli di David. La terra di Palestina è cambiata, Jenin è cresciuta in altezza con “baracche costruite sopra a baracche” per dare posto a quarantacinquemila abitanti in due chilometri quadrati e mezzo. Eppure è la radice di vita per Amal e lo diventa presto per Sara, che diviene la depositaria delle storie della famiglia e della causa palestinese.

Espulsa e rimandata negli Stati Uniti, Sara riesce a portare con sé il cugino Jacob, figlio di David, e l’amico Mansur. A Filadelfia, nella vecchia casa in stile vittoriano restaurata dalle mani di Amal, vivono “un’americana, un israeliano e un palestinese”.

Senza passato Amal non ha saputo stare e, lei dice, non possono stare i palestinesi. Guai a essere creature senza memoria: vale per tutti i popoli. Riconoscere i torti commessi, secondo Susan  Abulhawa, può costituire il primo passo verso la pace e la conciliazione.

Nota bibliografica:

  • Susan  Abulhawa, Ogni mattina a Jenin, Feltrinelli, 2011

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

NON UNO DI MENO! Lettera aperta al sindaco di Ferrara per impedire l’abbattimento di 5 alberi maturi in viale Marco Polo

Lettera aperta al sindaco di Ferrara per impedire l’abbattimento di 5 alberi maturi in viale Marco Polo

 Al Sindaco del Comune di Ferrara

Oggetto: riqualificazione accesso est – abbattimento alberi sani – richiesta informazioni.

Gentile Sig. Sindaco,
abbiamo appreso che è in corso di realizzazione un importante progetto di riqualificazione dell’accesso est della città (ponte di San Giorgio), finanziato con i fondi PNRR e abbiamo visto che i lavori sono iniziati con l’abbattimento dell’edificio situato nell’attuale isola spartitraffico di via San Maurelio.
Abbiamo avuto informazione che i lavori potrebbero prevedere in viale Marco Polo l’abbattimento di cinque robinie per far posto a nuovi parcheggi.

Sperando in una sua smentita, le chiediamo di confermarci se tale notizia, che si è diffusa recentemente, corrisponda al vero.

In caso che la notizia sia fondata, le chiediamo di intervenire urgentemente per salvare i cinque alberi sani che ora fanno ombra e abbelliscono il viale Marco Polo.
Abbiamo appreso che il progetto (come illustrato su Cronaca Comune del 23/10/23 ) prevede che i parcheggi che cingono l’attuale isola spartitraffico siano “ricavati su via Marco Polo, grazie a un intervento ad hoc di creazione di un’area sosta con stalli ‘a pettine’.” Non vorremmo che la realizzazione dei parcheggi previsti comportasse l’eliminazione di alberi sani.
Riteniamo che ogni nuovo progetto di intervento pubblico, tanto più in una città della pianura Padana, inquinata, cementificata e surriscaldata, debba essere coerente con i prioritari interventi di adattamento alla crisi climatica (blocco del consumo di suolo e rinaturalizzazione della città in primis ) e che non sia proprio più accettabile sacrificare alberi, e i benefici ecosistemici che ne derivano, per far posto a parcheggi.

Ricordiamo che gli alberi maturi rimuovono gli inquinanti atmosferici circa 70 volte più efficacemente di quelli giovani (Nowak e Dwyer, 2007).

Cogliamo l’occasione per sottolineare che in ogni futuro intervento di riqualificazione urbana la scelta dei materiali per la pavimentazione delle aree destinate a parcheggi, a ciclovie e percorsi pedonali, debba ricadere su pavimentazioni drenanti e non su fondi impermeabili.
Vogliamo sperare che la sua voce possa essere in contrasto con qualsiasi progetto che preveda ulteriore cementificazione e conseguente eliminazione di verde

In attesa di cortese riscontro, inviamo cordiali saluti.

Seguono firme

Marcella Ravaglia
Angela Soriani
Beatrice Pagnoni
Patrizia Dimella
Simonetta Fabian
Maurrizio Penna
Lucrezia Penna
Marcello Guidorzi
Pier Giorgio Cipriano
Francesca Cigala
Rita Casaroli
Amelia Guidorzi
Leonardo Polastri
Marino Pedroni
Andrea Firrincieli
Antonio Raimondo
Paola Gatti
Lidia Goldoni
Elisa Mantovani
Alessandro Tagliti
Lucia Ghiglione
Caterina Orsoni
Corrado Oddi
Bruno Veronesi
Laura Trentini
Stella Messina
Alessandra Guidorzi
Claudia Spisani
Samuele Pampolini
Milena Stefanini
Daniela Schiavi
Sergio Fiocchi
Grazia Ramponi
Gian Paolo Crepaldi
Paola Perrone
Michele Nani
Cecilia Chiappini
Rossana Stefanini
Moreno Ballarini
Marco Sgalla
Patrizia Cavallini
Davide Fiorini
Fabio Guidorzi
Giovanna Foddis
Marianna Mazzanti
Nicola Molino
Michele Fabbri
Alessandra Guerrini
Simonetta Rossi
Laura Corvino
Pietro Soriani
Marco Roboni
Caterina Palli
Daniela Libanori
Adriana Contrastini
Daniela Cataldo
Raniera Gioacchini
Paolo Ceccherelli
Rosa Dalbuono
Maria Grazia Palmonari
Sergio Golinelli
Francesca Solmi
Alberto Urro
Federico Besio
Miriam Cariani
Raffaella Bianchi
Enrico Boari
Lorenza Rabbi
Angela Alvisi
Cristina Boato
Adriana Balestra
Francesco Monini

Per aderire:
Alessandra Guidorzi Cell : 347 8242031  – Email:  alesguidorzi@gmail.co

Parole e figure /
Piccola talpa preoccupata

Piccola talpa preoccupata

Dopo l’uscita a novembre 2023 del primo volume dedicato alla piccola talpa, del coreano Kim Sang-Keun, Kite edizioni presenta il seguito delle avventure: “La preoccupazione di una piccola talpa”. Da non perdere. E da non perdere è anche lo Speciale che trovate in fondo alla Home page di Periscopio.

Abbiamo già incontrato la nostra dolce amica piccola talpa in cerca di amici, con “Il desiderio di una piccola talpa”. Oggi torna a trovarci. Ed è ancora l’amicizia a dominare nella storia “La preoccupazione di una piccola talpa” di Kim Sang-Keun, in uscita in libreria con Kite edizioni il 13 febbraio.

E poi le preoccupazioni, ci sono quelle brutte e quelle belle, quelle brutte che possono anche (magicamente) diventare belle. Di solito alla parola diamo accezione negativa, non è il caso di questo delicato volume.

La nostra piccola talpa è, infatti, molto preoccupata e, zainetto in spalla e guanti di lana arancioni, esce a fare una passeggiata nel bosco sfidando una tempesta di neve – la neve, lei c’è sempre. Spera così di distrarsi e calmare i suoi pensieri in tumulto. Più facile a dirsi che a farsi, la preoccupazione proprio non se ne vuole andare.

A quel punto, mentre fa freddo e la neve si accumula sulla testa come una piccola montagna, le viene in mente un importante consiglio della nonna. Quando hai delle preoccupazioni, diceva, parlane a voce alta e fai rotolare una palla di neve. Quella preoccupazione se ne andrà subito via. Rotolerà.

La piccola talpa non sa bene che cosa significhi, è sempre alla ricerca di un amico e si sente sola, ma prova ad eseguire l’ordine e, rotola rotola, avanti per la sua strada, tutto si risolve in modo divertente e insperato.

Ecco allora che una volpe, un cinghiale, una rana, un coniglio, un orso si ritrovano mentre il sole sorge timidamente e sicuro in lontananza. E insieme avranno una preoccupazione da risolvere, di quelle belle.

Una tenera storia per i più piccoli sul valore dei rapporti familiari e dell’amicizia. In un paesaggio magico e incantato, tipico di ogni favola che si rispetti.

Kim Sang-Keun, La preoccupazione di una piccola talpa, Kite, Padova, 2024, 48 p.

Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura di Simonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara

Le storie di Costanza /
Un capello spaccato in due

Le storie di Costanza. Un capello spaccato in due.

Sei riesci a spaccare un capello in due, ne elimini uno e tieni in mano il secondo, avrai l’impressione di avere in mano il capello originario, semplicemente un po’ più piccolo, più esile. Le cose piccole divise sembrano solo un po’ più piccole mentre le cose grandi divise sembrano decisamente meno grandi.

Provate a dividere a metà una casa, una strada, un fiume, la Terra. Mentre il mondo rimpicciolisce se diviso a metà, dentro i microbi le differenze di lunghezza, altezza, consistenza e spessore prendono una forma e una rilevanza assolutamente diverse.

Una distinzione sancita almeno in parte dal modo in cui lavorano la fisica, la chimica, l’ottica, la medicina e, in altra parte, da quello che noi riusciamo a percepire attraverso l’uso dei sensi. La definizione umana di ciò che è grande e di ciò che è piccolo mi ha sempre incuriosito, è molto relativa, molto soggetta a interpretazione.

Il sole è molto grande rispetto alla terra, molto piccolo rispetto all’intero sistema solare. Trescia è molto grande rispetto a Pontalba e molto piccola rispetto a New York. La mia casa è molto grande rispetto a una roulotte e molto piccola rispetto a un grattacielo. La mia mano è molto piccola rispetto a quella di un giocatore di basket, molto grande rispetto a quella di mio nipote Enrico.

Non c’è niente di più relativo dell’uso che si fa in maniera abituale dei termini grande e piccolo. Grande è un elefante e piccola la formica, grande la giraffa e piccola la talpa. Grande l’anguria e piccola la ciliegia, grande l’ananas e piccola l’albicocca. Ma anche un’ape è grande rispetto a un moscerino e un colibrì è grande rispetto a una farfalla.

Se poi si passa dalla materia ai sentimenti la cosa si complica ulteriormente. Un grande amore è quello di una donna per un uomo, di una madre o di un padre per il proprio figlio. L’amore piccolo sembra non esistere, così come sembra non esistere l’odio piccolo. L’amore e l’odio sono solo grandi.

Però ripensandoci, anche questo ha delle eccezioni. Un piccolo amore può essere quello per il proprio gatto o per il proprio canarino e un piccolo odio può essere quello per il vicino di casa, che canta sempre la stessa canzone nel suo cortile il sabato mattina. I piccoli amori possono però essere considerati da alcune persone grandi e altrettanto vale per i piccoli odi. Sono aggettivi che anche in una sfera dematerializzata, mantengono una dimensione relativa e suggestiva.

È così anche pensando a ciò che dicono le persone a me più prossime. Per Albertino Canali la mia macchina è piccola, per mia madre è grande. Per gli abitanti di Pontalba il mio cortile è grande e per i miei cugini agricoltori, che avevano davanti alla loro cascina una intera aia, piccolo.

Direi che i termini grande e piccolo sono una forte espressione del relativismo nel quale galleggiamo quotidianamente, del fatto che ogni oggetto è definito in maniera relativa rispetto a ciò con cui lo si paragona. Grande e piccolo non sono termini che rappresentano un valore assoluto, ma si confrontano ogni giorno con gli oggetti che ci circondano e con la rappresentazione che attraverso il nostro sistema visivo-cognitivo facciamo.

Mi stupisce sempre quanto una cosa piccola possa fare la differenza, esattamente quanto lo può fare una grande. Uno spillo infilzato in un tallone fa molto male, una zanzara in una tenda da campeggio affollata da persone che vorrebbero dormire, scatena il finimondo. Piccoli e terribili lo spillo e la zanzara, piccolissimi e letali i virus che sanno ammazzare una persona.

Un giorno avevo questi pensieri ricorrenti sul relativismo di alcuni aggettivi molto usati mentre camminavo sullo sterrato dei castagni che costeggia i cancelli di Villa Cenaroli. Nei pressi del primo cancello ho alzato gli occhi verso il curvone che si avvicina all’argine e ho visto Guido camminare in senso contrario preceduto da Reblanco, il suo cane bianco come la neve.  Quando sono arrivata abbastanza vicino, li ho salutati e poi ho chiesto a Guido:

Ma secondo te, Reblanco è grande o piccolo?
– Uff che domanda – mi ha risposto lui
Che differenza fa se è grande o piccolo? sei sempre la solita che cerca di complicarsi la vita
Perché non provi a rispondermi? – gli ho detto io.

Perché non so cosa risponderti. Rispetto ad un topo Reblanco è grande e rispetto ad un elefante è piccolo. Ma che differenza fa che Reblanco sia grande o piccolo? Per me è “grande” quando dorme tranquillo sotto la mia scrivania, quando si accuccia sui miei piedi e, soprattutto, quando non abbaia perché mi vede stanco. Queste sue abilità empatiche lo rendono “grandissimo”.

Hai appena definito la grandezza in senso negativo … quando non abbaia … sei un po’ contorto.
Senta lei, mi stai facendo il terzo grado con questa storia del grande e del piccolo, non capisco nemmeno a che pro. A cosa ti serve? Ad essere più felice?

No – gli ho risposto – Mi serve a comunicare, a usare la parola per stabilire una relazione. I buoni rapporti tra le persone si nutrono del linguaggio, attraverso la parola detta e ascoltata ci proteggiamo dall’odio che invece si nutre di solitudine. Le relazioni senza parole non sono buone, non sono nemmeno relazioni. Nel silenzio si annidano paura e rancore. Gli eccessi di relativismo alimentati spesso dalla solitudine, minano la capacità delle persone di usare la parola, inibiscono la disponibilità all’uso del linguaggio per costruire relazioni. In questo senso gli eccessi di relativismo non mi piacciono, rischiano di annientare l’uso della parola, la sua capacità di diventare la strada dell’amore.

Uff, questo tuo argomentare mi sembra un po’ troppo cervellotico, però un fondo di verità c’è, come in molte delle cose che dici.
– Grazie – gli ho risposto e con quello abbiamo chiuso l’argomento, almeno per quel giorno.

Poi ci siamo messi a camminare nella stessa direzione, risalendo verso il cimitero, Reblanco ci precedeva, annusando il terreno umido e scivoloso, forse era appena passato da là qualche animale selvatico. Ho guardato Guido vestito con i jeans e un giubbotto marrone scuro, le scarpe da trekking e un berretto di lana blu sulla testa.

Non si sarebbe detto in quel momento che è un professore di storia, un intellettuale a cui piace leggere e studiare quasi tutto il giorno. Sembrava perso nella natura che ci circondava, mescolato con essa. Come quei quadri di campagna inglesi pieni di vecchie case, vegetazione e qualche personaggio sullo sfondo che cammina verso casa.

Torniamo indietro – mi ha detto Guido all’improvviso – torniamo verso casa mia.

Ci siamo girati, Reblanco si è fermato e ci ha guardato come se per un attimo fosse indeciso se seguirci o meno, la traccia odorosa che stava seguendo doveva essere accattivante per le sue narici. Poi ha deciso, si è girato e ha cominciato a venire dalla nostra parte con passo deciso. Il momento di incertezza gli è passato.

Sempre bellissimo quel cane, un amico per Guido che lavora nel silenzio, avvolto dalle sue carte e dai suoi pensieri (grandi? piccoli?). Abbiamo camminato guardando nella stessa direzione, la strada la conosciamo molto bene, la direzione anche.

Siamo arrivati davanti a casa di Guido nella via piccola che parte dalla foresteria di Villa Cenaroli. Il portone di casa sua è di legno pesante, la parte sopra tondeggiante. Bello e vecchio, sa di storia anche lui.

Come ti sembra questo portone? – mi ha chiesto Guido
Bello – gli ho risposto
Grande o piccolo? – mi ha chiesto lui
Non lo so, dipende – gli ho detto – rispetto a quello di casa mia è piccolo, rispetto a quello della foresteria della villa è grande.

E che differenza fa?
– La fa – gli ho risposto io.
Un elefante da qui non passa mentre dal portone della villa potrebbe entrare – ho detto.

Inaspettatamente Guido si è messo a ridere.

Ecco il perché di tutto questo disquisire sul grande e il piccolo, vorresti che a casa tua entrasse un elefante!
Macché – gli ho risposto io – è tutt’altro.
Entriamo – ha detto lui
Ok – gli ho risposto.

Ci stavano aspettando vicende storiche di varia natura, ammucchiate sulla scrivania di Guido. In quella casa c’è un’atmosfere curiosa. Il grande e il piccolo mi sono passati temporaneamente dalla testa, l’idea che attraverso le parole si mantengono buone relazioni, no. Non ci sono rapporti tra le persone che non si nutrano del linguaggio.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore.
Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di
 Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

La Fondazione Ferrara Arte va chiusa: è un ente opaco, costoso, pletorico, fuori dal controllo del Consiglio Comunale

La fondazione Ferrara Arte va chiusa:  è un ente opaco, costoso, pletorico, fuori dal controllo del Consiglio Comunale

Le forze di opposizione, dalle ultime notizie di cronaca, hanno chiesto al sindaco di Ferrara di revocare il mandato di Presidente di Ferrara Arte al dottor Vittorio Sgarbi. Non è rimuovendo un Presidente, discusso e discutibile, che si possono risolvere i molti problemi creati dalla presenza della Fondazione Ferrara Arte. La richiesta è inefficace: è la struttura che va abolita, frutto di una passata scelta politica che ha danneggiato Ferrara sin dal suo sorgere.

Non è inutile ricordare alcuni fatti. Sindaco Roberto Soffritti, nel 1991, viene fondata Ferrara Arte con la bizzarra e preoccupante motivazione che le regole amministrative comunali rallentavano e intralciavano l’attività delle gallerie d’arte moderna: andavano quindi eluse.

Promotore non fu Franco Farina, ormai al termine del suo incarico, ma Andrea Buzzoni, che gli era stato affiancato e che gli subentrerà: Buzzoni fu membro del comitato fondatore e curatore scientifico e organizzativo del nuovo istituto. Il Consiglio di Amministrazione fu costituito da tre componenti: Sindaco presidente e Assessore alla Cultura per il Comune, il terzo rappresentava la Provincia.

Vi fu l’impegno a non assumere personale, perché ogni attività sarebbe stata gestita dallo stesso organico delle Gallerie d’Arte Moderna: mutavano solo i riferimenti contabili. Non vi era aggravio di spesa per l’Amministrazione Comunale, la quale continuava a controllare ogni cosa.

Oggi la situazione è, in maniera significativa, mutata. Presidente il dottor Vittorio Sgarbi; il 22 ottobre 2021 è stato, di nuovo, profondamente modificato lo Statuto della Fondazione. È stata eliminata la coincidenza Sindaco-Presidente; il Consiglio di Amministrazione è stato allargato e il Comune non ne ha più il controllo; è stata istituita la figura del Direttore; è stato previsto un Comitato Culturale, mai attivato.

Al Direttore, che attualmente riceve un compenso di 55mila euro, viene richiesta “comprovata e specifica esperienza nell’ambito delle attività museali e nella gestione di eventi culturali e artistici”. È stato nominato il dottor Pietro Di Natale; l’unica qualifica che possiede è quella di essere ‘referente scientifico delle collezioni di arte moderna della Fondazione Cavallini Sgarbi’ e come tale coinvolto nelle attività da quella Fondazione promosse.

Il personale, dal nulla, è giunto a 18 unità a tempo indeterminato, per una spesa complessiva di 650mila euro. Ricordo che i musei d’arte antica hanno 10 dipendenti, 5 quelli di arte moderna. Una subalternità evidente.

L’Amministrazione comunale stanzia ogni anno una somma che oscilla fra 1milione150mila/1milione 300mila euro, senza possibilità di incidere sulle scelte e sui programmi, senza che il Consiglio Comunale possa intervenire ed esprimere sue indicazioni.

Il sito della Fondazione si caratterizza per una profonda opacità. I verbali del Consiglio di Amministrazione sono consultabili solo in sede, non si dice con quali modalità; i progetti triennali di attività, se esistono, non sono visibili; i costi delle singole esposizioni non sono analitici; i dati dei visitatori per ogni singola iniziativa non sono indicati.

Tutto questo dimostra come la Fondazione Ferrara Arte sia un istituto ormai completamente sciolto da legami organici con la Amministrazione comunale, la quale eroga una cifra consistente, a fondo perduto, senza alcun potere di indirizzo. Tutto questo a detrimento della capacità operativa e progettuale dei musei civici; tutto questo a impedimento della creazione di un sistema museale oggi inesistente e invece necessario.

Al convegno “Musei a Ferrara Problemi e Prospettive” (18-19 novembre 2011), nella relazione introduttiva, Francesca Zanardi Bargellesi scriveva: Continuiamo a registrare che la fondazione di Ferrara Arte è stata fatta senza tenere in alcuna considerazione l’esistenza dei musei, ai quali di fatto si contrappone, sottraendo risorse e capacità operativa. La mutata situazione economica, la difficoltà a continuar nella politica delle grandi mostre, dovrebbe indurre ad un rapporto sinergico con la realtà museale cittadina, ma non se ne vede segno.”.

Da allora la situazione si è sempre più negativamente sviluppata così da porre con urgenza il problema della chiusura di un ente costoso, pletorico, privo di controllo, incapace di collegarsi con il contesto ferrarese. Tralascio, volutamente, il discorso sulle iniziative: spesso di modestissima qualità.

È necessario ridare all’eletto Consiglio Comunale la capacità di intervenire in un settore che caratterizza l’attività dell’Amministrazione. È necessario ridare ai musei civici la dovuta centralità, rafforzarne competenze e strumenti.

Per leggere gli altri interventi di Ranieri Varese apparso su Periscopio clicca sul nome dell’autore.

Il neoliberismo è in crisi: l’alternativa è reazionaria

Il neoliberismo è in crisi: l’alternativa è reazionaria

Scrivo queste mie considerazioni, sollecitato anche dai ragionamenti di Bruno Turra nel suo articolo del 29 dicembre scorso su Periscopio (vedi qui). Li ho trovati in gran parte interessanti e condivisibili, ma alcuni parziali e altri non convincenti, per cui mi pare importante approfondirli.

In primo luogo, occorre analizzare più precisamente il fenomeno del neoliberismo, e anche la sua evoluzione. Parlo di evoluzione, perché l’ideologia e la pratica del neoliberismo è mutata nel corso del tempo e, del resto, non poteva essere diversamente. Il neoliberismo, inteso come politiche concrete (non come teoria, che risale a molto prima, almeno dalla fondazione della Mont Pelerin Society nel 1947 da parte di economisti e intellettuali, in primis l’austriaco Friedrich von Hayek) muove i suoi passi e si afferma progressivamente a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso.

Reagan negli Stati Uniti e la Thatcher nel Regno Unito sono quelli che lo promuovono, almeno a livello di scelte di governo. Il neoliberismo nasce come risposta al capitalismo keynesiano che si era affermato in Occidente dopo la seconda guerra mondiale, che aveva prodotto sviluppo economico supportato da una forte spesa pubblica e da significativi incrementi salariali. Il rovescio della medaglia era stato il forte restringimento dei profitti, per cui, negli anni ‘70, secondo diversi studi, il tasso di profitto lordo relativo alle grandi imprese industriali nei Paesi del G7 aveva subito una caduta stimabile attorno al 50% rispetto ai decenni precedenti. Ciò, assieme al primo segnale di crisi dell’egemonia politica della superpotenza statunitense, rappresentata dalla sconfitta della guerra in Vietnam negli anni ‘70, ha provocato una reazione delle classi dominanti, che non hanno più accettato il compromesso keynesiano e hanno progettato un nuovo paradigma dello sviluppo capitalistico: il neoliberismo, appunto.

Partendo dalla globalizzazione dei mercati, il neoliberismo è approdato progressivamente ad un unico mercato mondiale, finalizzato, in primo luogo, ad abbattere il costo del lavoro in Occidente (assieme ad un forte attacco al potere dei sindacati), mediante lo spostamento della produzione nei Paesi meno sviluppati;  a questo ha associato una spinta all’innovazione tecnologica, trainata dal forte sviluppo dell’informatica e, successivamente, dalle piattaforme digitali.
Ulteriore componente fondamentale del neoliberismo è l’amplificazione dell’economia del debito e della finanza: la massimizzazione dei profitti non passa più semplicemente dalla fabbricazione dei prodotti, ma attraverso il “fare i soldi con i soldi”, alimentando a dismisura debito pubblico e privato e creando nuova moneta e nuova finanza al di fuori dei canali ordinari con cui sostenere l’attività economica.

Questo enorme castello di carta – giacché di questo si tratta, quando si parla di economia basata sul debito – doveva, inoltre, avere la funzione di stabilizzare i consumi e i redditi delle famiglie, assieme all’importazione di merci ad un costo minore. A corollario di quest’impostazione non poteva non esserci una forte ritrazione dell’intervento pubblico, l’attacco ai pilastri classici di fondo del Welfare (previdenza, istruzione e sanità), il riassoggettamento alle logiche di mercato dei beni comuni, dall’acqua all’energia ai trasporti, nuovamente visti come settori “produttivi” in grado di generare profitti. Insomma, un sistema compiuto e inedito, che per la prima volta si proponeva l’unificazione del mondo, un capitalismo feroce, interamente votato al predominio assoluto del mercato e della finanza globale, senza mediazioni sociali e con l’emarginazione del ruolo della politica, ma supportato dall’unica superpotenza rimasta, quella statunitense. Non a caso, esso, come tutti i sistemi pervasivi, ha prodotto una sua ideologia “forte”, contrassegnata dal mercato come unico regolatore e da un individualismo esasperato, che non ha mai sposato la causa dei diritti umani universali, anche nella loro forma astratta (il famoso motto della Thatcher per cui “la società non esiste, ci sono solo gli individui”).

Oltre a rimodellare il sistema economico e sociale, l’onda neoliberista ha letteralmente messo fuori gioco le ideologie della sinistra. Distrutta quella di ispirazione comunista, fortemente indebolita quella socialdemocratica.
Quella fascista o neofascista non ha avuto lo stesso
andamento: da una parte, perché essa era già stata fortemente ridimensionata dalla seconda guerra mondiale e dal modello economico di stampo keynesiano affermatosi subito dopo; dall’altra perché, come argomenterò dopo, la stessa non si presentava come alternativa reale al neoliberismo, ma semmai come una sua variante, non a caso oggi risorgente.

Invece, le culture del ‘900 della sinistra sono state completamente spiazzate dalla teoria e dalla pratica del neoliberismo: quella comunista, travolta dal crollo dell’Unione Sovietica, ma prima ancora dalle sue contraddizioni interne, in particolare dalla mancanza di democrazia e da una pianificazione economica rigida e centralizzata; ma anche quella di stampo socialdemocratico, costretta dapprima sulla difensiva dall’attacco alla diminuzione del prelievo fiscale e allo Stato sociale, che ne erano stati i tratti fondanti, e poi completamente subalterna, se non addirittura ancella, ai fasti della globalizzazione, vista come fenomeno progressista, e nella rincorsa alla conquista del ceto medio (la celebre “terza via” di blairiana memoria, che ha contagiato tutta la famiglia delle esperienze socialdemocratiche, facendo loro perdere l’anima). Il tutto, tentando di ritagliarsi una parvenza di identità (debole) nell’affermazione dei diritti individuali e civili, questi sì declinati in modo astratto.

Va, però, aggiunto che, a fronte dell’aggressione neoliberista, ha iniziato a muovere i suoi passi una nuova narrazione nel campo della sinistra, antiliberista, altermondialista e internazionalista. Per intenderci,  quella animata dai movimenti sociali, protagonisti della protesta a Seattle nel 1999 contro la riunione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e poi dai Forum sociali mondiali, da Porto Alegre nel 2001 in avanti, passando per Genova nel 2001 contro il G8, protesta duramente repressa proprio dagli artefici del neoliberismo rampante.

La storia, però, va avanti e anche il neoliberismo trova inciampi non banali. Parlo della Grande Crisi del 2007-2008, generata dall’insolvenza dei mutui “subprime”, allargatasi a tutto il sistema bancario e finanziario mondiale, a partire dal fallimento della Lehman Brothers.  Una crisi che ha segnato uno spartiacque nella storia dei sistemi economici e sociali, paragonabile a quella di Wall Street degli anni ‘30 del secolo scorso, e che, in particolare in Europa, è andata avanti negli anni successivi, con la crisi dei debiti pubblici, a partire dalle vicende greche e italiane. Non solo ci troviamo in quegli anni alla crisi del castello di carta dell’economia del debito: in realtà, dagli anni ‘80 in cui il neoliberismo si à affermato, proprio perché con la sua forza ha cambiato il mondo, lo scenario economico e sociale dell’ultimo decennio è profondamente diverso da allora, con cambiamenti che non erano del tutto previsti e neanche auspicati dai fautori del neoliberismo.

In estrema sintesi, sono almeno quattro gli sconvolgimenti epocali indotti proprio dalla fase espansiva del capitalismo neoliberista:

1 ) il mondo, inteso come mercato mondiale e modello di sviluppo, si è davvero unificato e ha iniziato a far emergere nuovi e drammatici problemi, a partire dal cambiamento climatico (che per la prima volta mette in discussione la vita umana nel Pianeta) e dai fenomeni migratori, determinando un flusso inarrestabile dai Paesi poveri a quelli del ricco Occidente e verso le metropoli urbane dei Paesi poveri – circolazione che, a differenza del movimento dei capitali, è tutt’altro che libera;

2 ) sono avanzati nuovi soggetti statuali importanti (oltre che grandi aziende monopolistiche) che assurgono al ruolo di potenze regionali significative, se non di vere e proprie superpotenze: Cina, in primo luogo, gli Stati che compongono i cosiddetti BRICS  (Brasile, Russia, India e Sudafrica), sempre meno disposti a tollerare l’egemonia statunitense e che – almeno Cina e Russia- si muovono in una logica neoimperiale;

3 ) ancora, è cresciuta notevolmente la concorrenza per il predominio tecnologico e per l’accaparramento delle materie prime tra i vari sistemi economici e statuali, che, come sempre accade, sfocia progressivamente nella guerra commerciale e nel protezionismo;

4 ) infine, è aumentata fortemente la disuguaglianza tra i Paesi nel mondo, con quelli più poveri che vedono aumentare la distanza non solo nei confronti di quelli già sviluppati, ma anche rispetto a quelli che si sono agganciati al traino della globalizzazione. La disuguaglianza sociale torna a segnare una frattura anche all’interno dei Paesi ricchi, con la forte diminuzione dei redditi che vanno al lavoro, con la sua trasformazione in lavoro precario e povero, e anche un serio impoverimento dei ceti medi, che scivolano verso il basso della scala sociale.

Tutte queste modificazioni profonde fanno sì che, oggi, la fase ascendente del neoliberismo si stia esaurendo e si stia delineando una sua “crisi strutturale.
Intendiamoci bene: non è che la “crisi” del neoliberismo significhi il venir meno dei suoi meccanismi fondativi. Il fatto che il neoliberismo non abbia mantenuto le sue “promesse” meravigliose non apre di per sé la prospettiva di un mondo migliore: le classi dominanti, in primis il mondo dell’economia e della finanza, intendono continuare come prima, ma “turbate” dall’incertezza e scoprendo un po’ di filantropia (vedi l’ultima riunione del World Economic Forum a Davos), scelgono di sostituire l’egemonia perduta con il comando.
Al posto della globalizzazione indiscriminata viene avanti la “deglobalizzazione selettiva”, cioè si privilegiano gli “amici” e non si guarda solo alle logiche di mercato, per cui si va ad investire in India e non più in Cina; il protezionismo economico avanza e si mischia con il nazionalismo e, come accaduto altre volte nella storia, le guerre commerciali e neoimperiali diventano guerre vere e proprie, che hanno anche il “pregio” di sostenere il complesso militare- tecnologico-industriale e diventano, come insegnava von Clausewitz, semplicemente un altro mezzo con cui continuare la politica.

Per non parlare del salto tecnologico che sta producendo l’intelligenza artificiale, dominata da alcuni grandi oligopoli e che si può orientare verso una logica di controllo sociale spinto e non controllabile dai ceti subalterni.

In questo scenario rientra in gioco la politica, e specificamente, quella di una destra estrema e reazionaria (non quella di una pseudosinistra sbiadita e incolore, che, al massimo, asseconda i dettati neoliberisti). Quella, per intenderci, di Trump e di tanti epigoni in giro per il mondo, da ultimo Milei in Argentina, e anche quella nostrana. Quella che restringe diritti e democrazia, che la fa sempre più rassomigliare ad un’autocrazia, che intende procedere ulteriormente a tagliare le tasse ai ricchi, privatizzare lo Stato sociale, dare un ordine al mondo semplicemente basandosi sul nazionalismo e sui rapporti di forza.
Qualcuno si sta chiedendo come Trump, una figura che ha riabilitato la possibilità del colpo di Stato in America, goda di un seguito significativo e possa rappresentare un candidato concorrenziale per le elezioni presidenziali di quest’anno negli Stati Uniti: ebbene, non è difficile vedere che Trump è un buon interprete delle paure e dei “tradimenti” della globalizzazione e del neoliberismo.

A questo punto, diventa ineludibile la famosa domanda del “che fare” per chi ha in mente e nel cuore l’idea di un altro mondo, giusto e possibile.

(1 continua)

Photo cover copyright Corey Torpie Photography

Per leggere gli altri articoli ed interventi di Corrado Oddi su Periscopio, clicca sul nome dell’autore.

Anna Zonari: Mi candido per… un’altra Ferrara. Una donna sindaca può fare la differenza

Mi candido per… un’altra Ferrara. Una donna sindaca può fare la differenza.  il testo integrale dell’intervento di Anna Zonari alla Assemblea promossa dal gruppo La Comune di Ferrara e aperta alle forze della  Coalizione.

Ferrara, 28 gennaio 2024 : “Mi candido per…”. Anna Zonari lancia per prima la sfida a Fabbri e alla Giunta di Destra. In poco più di 15 minuti, davanti a una sala piena come un uovo, a dove verrà ufficializzata la Coalizione promossa da La Comune di Ferrara per sostenere la sua candidatura,  Anna Zonari racconta perché ha deciso di scendere in campo e perché la sua  la sua proposta per Ferrara è nuova e diversa, a partire dal metodo e da un programma di governo chiaro e coraggioso. ” Sono convinta che una donna sindaca può fare la differenza”. Mi voterà chi vuole cambiare davvero, compresi tanti  ferraresi che hanno smesso di votare, che sono stati abbandonati dalla vecchia politica.
(Effe Emme)

MI CANDIDO

Mi pare importante ricostruire il percorso che La Comune di Ferrara ha svolto da settembre ad oggi.
Importante ricordare che, come gruppo di cittadine e cittadini,  siamo partiti da due assunti di base:
l’importanza che sia la società civile, il mondo del volontariato sociale e culturale e la parte attiva della cittadinanza che conosce il territorio e le comunità di persone, i problemi, ma anche le risorse, a confrontare le proprie idee, indicare i programmi per una Ferrara all’altezza delle grandi sfide del nostro tempo.
– l’importanza del metodo partecipativo, che ha coinvolto non solo la società civile, ma è sempre stato aperto a tutto il tavolo dell’alternativa, i cui rappresentanti hanno potuto dare il proprio contributo attivo.

La prima parola chiave che vorrei sottolineare è quindi METODO.
La nostra esperienza politica autonoma nasce dal basso e non solo per portare avanti contenuti, ma anche per sperimentare un diverso modo di fare politica, sia nella costruzione del programma, sia per la scelta del candidato o candidata a sindaco.
Rivendichiamo questo diritto. Il diritto di sperimentare un diverso modo di fare politica, perché significa fare pratica di democrazia.
Il sistema elettorale vigente è a doppio turno, proprio per incoraggiare gli elettori a esprimere un voto sincero, vicino alle proprie sensibilità, al primo turno e non un voto strategico, in nome di una presunta unità.
In questi mesi, abbiamo sempre detto alle forze politiche che si riconoscessero nel metodo e nei contenuti che emergevano strada facendo, di portare anche i propri candidati.
2, 3, 4, 5 candidati…

Avevamo proposto un metodo partecipato anche per l’individuazione della candidatura più adatta a portare avanti un programma condiviso.
La complessità è vero che rende le cose più difficili, ma fa parte della vita.
Individuare in maniera condivisa dei criteri per scegliere, per semplificare la complessità, è indispensabile nella vita, come nella politica, a maggior ragione se l’obiettivo di un gruppo è l’unità.
Scegliere un metodo per prendere decisioni condivise, per gestire i conflitti, prima che diventino guerre, simbolicamente parlando, ma anche letteralmente parlando. Probabilmente è una delle sfide più grandi che abbiamo come gruppi umani.
Assistiamo con angoscia a quello che avviene in Palestina, mentre ricordiamo gli orrori del nazi fascismo, come monito per non dimenticare. E invece pare che dimentichiamo di continuo.
Allora affrontare la complessità è faticoso, ma è urgente, a livello globale, come a livello locale.
A livello locale, la candidatura di Laura Calafà e il sottrarsi a quello che lei ha definito un “campo di battaglia”,  ha mostrato cosa succede quando non vi è trasparenza nell’individuazione dei criteri alla base delle scelte, e cosa succede se prevalgono i vecchi metodi della politica, capaci anche di “falli” a gamba tesa…
Si generano conflitti, spaccature, malumori.  E’ quello che è successo nel tavolo dell’alternativa.
La non chiarezza sui criteri di scelta, non è vero che ha semplificato il contesto.
Ha creato divisione, disagio e incertezza all’interno di tutti i gruppi politici.
L’appello che facciamo è di interrogarsi sul metodo, prima ancora che sull’unità.
Non è un dettaglio su cui si può soprassedere.
Cambiare il modo di fare politica”. Lo chiedono tantissimi cittadini, disincantati e stanchi di vedere gli stessi “giochi” politici ripetersi ogni volta. Anche per questo in tanti non votano più.

LA COMUNE DI FERRARA HA ESPRESSO LA MIA CANDIDATURA

La mia candidatura a sindaca di questa città nasce quindi all’interno del percorso metodologico che ho delineato poco fa. Quando siamo partiti non pensavo a questa possibilità.
All’interno dell’area de La Comune si era pensato ad altri nominativi, di persone molto in gamba e competenti, ma i diretti interessati non hanno dato la loro disponibilità a candidarsi.
Prima di Natale, dopo alcuni giorni di riflessione personale non facile e non a cuor leggero, ho scelto di fare un passo avanti, di metterci la faccia, la passione e la speranza.
Abbiamo fatto sondaggio fatto girare tramite email ai partecipanti agli incontri e circa 120 persone hanno risposto: l’85% si è dichiarato favorevole alla mia candidatura. E così, eccomi qua.
Qualcuno mi ha detto: “Ma ti tiè mata, ma chi te lo fa fare?”
La coerenza con quello in cui credo profondamente. La necessità di non voltarmi dall’altra parte. Se tutti aspettiamo che sia sempre qualcun altro ad assumersi le responsabilità, come pensare che le cose possano cambiare? Da sempre credo nella responsabilità personale. Ciascuna/o deve fare la propria parte
La mia è quella di portare avanti un programma condiviso per il futuro di Ferrara e un metodo diverso di fare politica.

MI CANDIDO PER

  1. A) Portare avanti e sviluppare la “Traccia Condivisa per Cambiare Ferrara”. Questa traccia diventerà, strada facendo, un programma elettorale. Procederemo sempre con un metodo partecipativo. Recepiremo nuove indicazioni.
    Da febbraio saremo nei quartieri, nelle frazioni, ma anche a casa delle persone, per presentare le nostre proposte, per ascoltare, creare relazioni.

La traccia condivisa è partita dalla necessità di mettere al centro le persone:
– i bambini, che hanno il diritto a respirare aria pulita (siamo una delle città più inquinate d’Italia), di vivere in una città più verde, che significa anche più sicura (se circolano meno auto), di crescere in luoghi di aggregazione inclusivi, che li aprano alle differenze culturali;
– i giovani, che possano sperimentare la loro crescente autonomia, abitando in una città capace di orientarli in modo efficace nei diversi ambiti del loro sviluppo, che li supporti nella progettazione del loro futuro, con spazi per lo studio, per il co working, per la socializzazione, con una mobilità accessibile e sostenibile e un piano casa adatto;
– le persone anziane, che sono sempre di più nella nostra città, che hanno il diritto ad avere nel territorio, soprattutto decentrato, un’offerta diffusa di punti di ascolto e accompagnamento, di semplificazione e di accesso a servizi di welfare, culturali, di socializzazione;
le tante persone con fragilità: chi è malato o ha una disabilità o una ridotta autosufficienza o vive in condizioni di precarietà non va lasciato solo.

PER FARE QUESTO,LA TRACCIA CONDIVISA INDICA 5 DIREZIONI:

1 ) DECARBONIZZAZIONE, MOBILITA’ E RIGENERAZIONE URBANA
La crisi eco climatica non aspetta. Non c’è più tempo. Ondate di calore, alluvioni, siccità, aumento delle diseguaglianze sono già una realtà, proprio qui, a casa nostra.
Basta bla bla bla. E’ urgente un Piano per decarbonizzare Ferrara che significa molte cose: transizione energetica, mobilità, rigenerazione urbana, biodiversità, sistemi produttivi e sociali sostenibili, riduzione del consumo di suolo.

2) BENI COMUNI
L’acqua è di tutti. E’ un diritto umano essenziale ed universale. C’è stato un referendum dieci anni fa. Ha vinto l’acqua pubblica. Ma questo bene primario per eccellenza nel Comune di Ferrara è ancora in mano al privato. La pubblicizzazione della raccolta dei rifiuti urbani e del servizio idrico si può fare, come dimostrano tanti Comuni. E bisogna spegnere uno dei due inceneritori.

3) DEMOCRAZIA PARTECIPATA
La democrazia rappresentativa non è più sufficiente. Non ce lo inventiamo noi. Per amministrare una città c’è bisogno di tutti i portatori di interesse. C’è bisogno di amministratori sinceramente interessati a capire il territorio, partendo dall’ascolto, dal dialogo non occasionale con le cittadine e i cittadini, di tutte le età, dai bambini fino alle persone anziane. Sì, anche i bambini hanno diritto ad essere ascoltati. La democrazia partecipata è un metodo per interpretare la politica e va praticata durante tutto il mandato.

4) CULTURA
La Cultura riguarda tutte e tutti e tutta la città, così come gli spazi pubblici che non possono più essere utilizzati a scopo privato. E’ importante valorizzare e sostenere la cultura che esiste in città, la città Patrimonio Unesco, ma anche la cultura che si produce ogni giorno, mettendo a disposizione anche dei giovani, degli artisti, dei creativi più spazi e più sostegno.
Sviluppare il sistema bibliotecario cittadino come punto di riferimento anche per altre attività.
Investire in un turismo che produca reddito, non mordi e fuggi, capace di promuovere percorsi attrattivi, anche in collaborazione con altre città vicine.
Organizzare eventi culturali rispettosi della sostenibilità ambientale.

5) WELFARE DI COMUNITA’, DIRITTI E CITTADINANZA
Desideriamo che Ferrara si caratterizzi sempre di più come una città sicura e a misura di fragilità umane, una città impegnata nella riduzione delle diseguaglianze e delle discriminazioni, che promuova la pace, la non violenza, e che garantisca i diritti di cittadinanza e a non essere discriminati per provenienza culturale, genere, orientamento sessuale, religioso.
Oggi a Ferrara ci sono alcune migliaia di nuclei familiari sotto la soglia di povertà ed un numero imprecisato di persone che vivono intorno ai livelli minimi di sopravvivenza, che significa che, al primo imprevisto, vanno in rosso. Serve un piano di contrasto alle povertà e di promozione della salute e del benessere.

MI CANDIDO PER

B) Creare una SQUADRA di persone competenti, capaci di coordinare gruppi di lavoro sulle questioni che portiamo avanti. Squadra per me non significa solo assessori e/o consiglieri comunali, ma un sistema capillare di cittadine e cittadini già impegnati in città sui temi prioritari, che danno una mano con le loro competenze, esperienze e proposte.
Non sarò quindi una candidata sindaca sul modello di un uomo solo o una donna sola al comando.
Amo i gruppi, sono cresciuta nei gruppi, ne ho fatti nascere tanti. Amo questo modello ed è questo modello che ho intenzione di portare avanti.

MI CANDIDO PER

C) Eleggere una sindaca donna dopo 65 anni di mandati maschili.
Dal 1950 al 1958 Ferrara ha avuto una Sindaca, Luisa Gallotti Balboni, la prima sindaca donna di un comune capoluogo italiano. Ferrara, nei successivi 65 anni, ha visto solo sindaci uomini.
Io ci credo che una donna sindaca può fare la differenza e con me ci credono tantissime donne, che in queste ultime settimane si sono fatte sentire, incoraggiandomi e dandomi la loro disponibilità per la campagna elettorale.
Vedrete una campagna elettorale piena di donne. Ne arriveranno sempre di più. E questo mi rende felice, perché le donne sono in prima linea in tutti i settori strategici della nostra società: nelle attività di cura delle persone, nella sanità, nella scuola, nel volontariato. Credo che una donna sindaca, possa fare la differenza.
Impariamo a usare la parola “sindaca”. Anche l’Accademia della Crusca incoraggia in tal senso.
La lingua italiana è viva e può essere un potente motore di cambiamento.

MI CANDIDO PER

D) Una campagna elettorale concentrata sul programma per la città e sull’ascolto della cittadinanza.
Nel primo incontro de La Comune di Ferrara, a settembre, più di 100 persone hanno lavorato in 6 tavoli di lavoro, di cui uno under 30, delineando i tratti fondamentali di una campagna elettorale.
Io intendo portare avanti quanto emerso in quell’incontro. Lo sintetizzo.
I programmi vanno resi comprensibili ai cittadini. Le persone devono capire quello di cui si sta parlando e che il programma è lì per rispondere ai bisogni, per migliorare la qualità della vita delle persone.
Eviteremo il più possibile di cadere in contrapposizioni, in polarizzazioni, evitando un linguaggio bellico e di farci dettare l’agenda dagli altri e dalla propaganda.
Staremo concentrati sugli obiettivi reali. Useremo un linguaggio semplice, positivo e un po’ di satira per sorridere. Faremo una campagna dal basso, fatta di relazioni con le persone, dalla periferia a centro.
Porta a porta.

Ringrazio le forze politiche a cui do la parola, che hanno deciso di sostenere la Traccia condivisa per cambiare Ferrara e il metodo di lavoro.

Le foto di copertina e nel testo sono di Valerio Pazzi

La sentenza del TAR non ha bocciato solo gli ambientalisti ma il futuro del Mugello e dell’Appennino

La sentenza del TAR non ha bocciato solo gli ambientalisti ma il futuro del Mugello e dell’Appennino

All’indomani della Sentenza del TAR del 10 gennaio 2024, il Comitato per la Tutela dei Crinali Mugellani Crinali Liberi esprime il massimo disappunto per le sentenze emesse: il ricorso di Italia Nostra e C.A.I. viene dichiarato “improcedibile” per motivi procedurali in quanto presentato prima del pronunciamento del Consiglio dei Ministri, che nel settembre 2022 superava il parere negativo delle Sovrintendenze e del suo stesso Ministero della Cultura, approvando definitivamente il PAUR della Regione Toscana “Impianto eolico Monte Giogo di Villore”; il ricorso del Comune di San Godenzo viene invece “respinto” in quanto le contestazioni riportate sono giudicate infondate a seguito dell’analisi della documentazione avanzata dai diversi settori tecnici della Regione Toscana in approvazione del PAUR.

In poche parole il TAR ha sposato in toto le ragioni della Regione Toscana per l’approvazione del progetto di AGSM-AIM e per l’opposizione ai ricorsi.
Nel primo caso, infatti, evitando di entrare nel merito non ha preso in considerazione nessuna delle consistenti ragioni per cui le associazioni ambientaliste chiedevano l’annullamento dell’autorizzazione; nel secondo caso ha interpretato le innumerevoli richieste d
i integrazione, la copiosa ma spesso insufficiente documentazione presentata dal proponente, e per finire le giravolte procedurali e i numerosi aggiramenti della normativa attuati nella Conferenza dei Servizi (C.d.S.), come “sintomo di grande accuratezza e precisione nel voler realizzare l’opera al meglio grazie all’inserimento di improbabili accorgimenti tecnici volti alla presunta mitigazione dei danni”.
Un giudizio del tutto errato per chi ha seguito passo passo tutto l’iter lungo e travagliato della C.d.S. e conosce bene le numerose osservazioni dei cittadini, delle associazioni ambientaliste e quelle dei diversi enti tecnici e amministrativi, che hanno dimostrato solo e soltanto l’inconsistenza del progetto per l’impianto eolico, la mancanza di documentazione importante e imprescindibile (come ad esempio quella relativa allo smaltimento delle terre e rocce da scavo da cui ha preso avvio l’inchiesta penale), il pericolo per la biodiversità dell’area, i rischi ambientali per il territorio.
Tutto ciò dimostra che
di fatto il dissenso consapevole – costruito sugli studi indipendenti della fauna a rischio di estinzione, sulla biodiversità della zona, sulla presenza di acque superficiali e sotterrane a rischio sparizione, sulle forti criticità sismiche e idrogeologiche che caratterizzano tutto questo tratto di Appennino – non ha spazio e voce in una procedura giudiziaria amministrativa regionale.

Per difendere l’Appennino e le sue montagne alla Regione Toscana sarebbe bastato accogliere fin dall’inizio i numerosi pareri contrari all’impianto industriale eolico Monte Giogo di Villore, perché è un progetto sbagliato fin dalla nascita, cioè dalla scelta della sua collocazione. Ma chi governa la Regione l’ha voluto politicamente e l’ha fatto approvare tecnicamente contro ogni ragionevole dubbio, contro il volere del territorio mugellano, contro l’interesse dei propri cittadini e la propria millenaria cultura della bellezza e del paesaggio!

Il Comitato Crinali Liberi è sempre più convinto della fondatezza delle proprie ragioni ed esprime ancora una volta il netto dissenso rispetto al modo di procedere di forzatura in forzatura, non solo in sede di Conferenza dei Servizi, ma anche nei lavori, fin dall’apertura dei cantieri.
È “inspiegabile” come l’Amministrazione regionale abbia consentito l’inizio dei lavori in assenza del progetto esecutivo, della relazione sismica e della relativa autorizzazione. Altrettanto “inspiegabile” è l’assenza totale di vigilanza degli enti preposti sull’avanzamento dei lavori, già costata alle ditte esecutrici fior di sanzioni, denunce e “ingiunzioni al ripristino” grazie soltanto alle segnalazioni di semplici cittadini che hanno, loro sì, attentamente osservato cosa stava succedendo, e all’intervento seguente della forza pubblica allertata. Questo modo di fare delle imprese nell’esecuzione di tutte le grandi opere, è diventata ormai la norma: procedere al di fuori delle regole e pagare le penali per i problemi causati, se individuati; tanto i soldi in ballo sono tanti e ci sono anche per questo genere di spese. Per le imprese costruttrici è più conveniente fare così che rispettare la normativa ambientale.

Forse anche per questo malcostume, tutto italiano, insieme al clima anche l’aria è cambiata: tante persone in Mugello e ovunque nel nostro Belpaese si sono svegliate, hanno aperto gli occhi sulla realtà e si sono rese conto che i supereroi del green”, i decantati promotori della transizione energetica, non sono altro che avidi speculatori e colonizzatori di territori “lontani dal loro giardino”. Sono loro i veri Nimby, espropriatori di terre altrui, conquistadores dell’Appennino Mugellano.

Se davvero crollerà il baluardo del Giogo di Villore seguirà la colonizzazione industriale di tutta la dorsale appenninica toscoemiliana-romagnola, come già dichiarato dal proponente durante l’inchiesta pubblica. Alle comunità resteranno solo i danni: perdita di spazi agricoli e produttivi, di biodiversità e di bellezza, degradazione del territorio, scomparsa e inquinamento degli approvvigionamenti idrici, incremento del rischio di frane in montagna e allagamenti a valle; di contro nessun vantaggio energetico fruibile. Per questo è iniziata la collegiale e determinata battaglia dei Comitati e delle Associazioni a difesa di tutto l’Appennino.

Il Monte Giogo di Villore è diventato in questi anni uno dei simboli toscani della lotta in difesa della terra e dei beni comuni, della vita delle comunità montane, delle specie rare e protette, minacciate di estinzione, che popolano i crinali e i torrenti mugellani, delle foreste e dell’acqua, dei produttori che vivono e si prendono rispettosamente cura ogni giorno della montagna.
La voce dei crinali si leverà sempre più forte e non si lascerà silenziare. Sappiamo bene quanto questo progetto sottrarrà i territori alle comunità, quanto i suoi sentieri – tra cui il Sentiero 00 Italia, GEA (grande escursione appenninica) ed E1 (Europa 1) – verranno interdetti al passaggio dei camminatori, quanto saranno compromessi per sempre da cemento, rumore a livello 5, infrasuoni, onde elettromagnetiche e degrado industriale. Ogni cantiere e ogni operazione, ogni prelievo e ogni manomissione verranno attentamente osservati, documentati e resi pubblici.

Degli esiti di queste sentenze del TAR può esultare e rallegrarsi solo chi non vive e non ama questi territori, vocati all’escursionismo, al turismo, alle produzioni tipiche locali, alla conservazione e alla protezione degli ultimi ecosistemi naturali ricchi di biodiversità autoctona. Può gioire chi non ha capito che la transizione ecologica ha in questi territori, così come sono, i migliori alleati per la mitigazione climatica, per la presenza di boschi secolari e sorgenti di acque di alta qualità, di pratiche di produzione virtuose e rispettose degli equilibri ambientali per ottenere prodotti di eccellenza. Può gioire soltanto chi vuole confondere le persone spacciando la speculazione e il land grabbing (furto di territorio) come transizione energetica.

Per questi motivi il Comitato chiamerà a nuove forme di protesta tutta la cittadinanza e tutte le realtà attive sul fronte dei beni comuni.

Per certi versi / Carol

Carol

Si chiamava
Carol
Era
Un Elleboro
Del samba
Delle favelas
Del Carnevale
Stava sbocciando
Di passione
Per
Una ragazza
Con cui vivere
La loro fioritura
Troppo
Per i suoi
Aguzzini
Troppo
Per i suoi
Assassini
Una colpa
Una macchia

Loro
Sono la macchia
Che sempre
Porteremo
La macchia nera

Carol
Rosa
Del bagnasciuga
Questo
Voglio dirti
Noi non siamo
Fatti per essere
Cancellati
Siamo fatti
Per ricominciare

Ogni domenica Periscopio ospita Per certi versi, angolo di poesia che presenta le liriche di Roberto Dall’Olio.
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A PROPOSITO DI BOLOGNA 30

A PROPOSITO DI BOLOGNA 30

Quello che ha fatto Bologna fa parte di quelle strategie vincenti messe in campo da molte città europee, da ormai più di venti anni, per realizzare una mobilità veramente sostenibile e non può che essere giudicato in termini positivi.

È solo l’inizio di questo percorso (cartelli stradali e controlli) che, se vogliamo raggiungere il traguardo di una vera sostenibilità e della conversione ecologica, dovrebbe evolvere verso un ridisegno della città e verso forme di mobilità che lascino sempre meno spazio alle automobili, soprattutto per gli spostamenti brevi che sono, statisticamente, i più numerosi.

I dati evidenziano che il 73,9% dei percorsi a Bologna ha origine e destinazione entro i confini comunali, sottolineando l’importanza di concentrarsi sulla mobilità locale. La distribuzione degli spostamenti per lunghezza mostra una chiara prevalenza a breve e medio raggio, con il 32,4% a distanze inferiori a 2 km e il 42,7% a scala urbana (2-10 km).

Il progetto “Città 30” è dettagliatamente delineato nel Volume Due del Piano Particolareggiato (aprile 2023), che fornisce analisi approfondite e modalità di implementazione. Si prevede di eliminare il traffico di attraversamento, ridurre le velocità su scala urbana e proteggere attrattori sensibili come le ‘zone scolastiche’. L’obiettivo è individuare e riqualificare le ‘zone residenziali’, oltre a identificare e migliorare i luoghi di incontro/socializzazione.

Come ecologisti possiamo capire che per tanti bolognesi, abitanti orgogliosi della Motor Valley tanto promossa e difesa da Bonaccini & C., possa essere doloroso modificare qualcosa nella nostra ossessiva dipendenza dall’automobile. D’altra parte, come dice il sito turistico della Regione Emilia-Romagna, “in questa regione la passione per le corse e i motori scorre nelle vene”.
È proprio questa ossessione il nostro problema ed è la patologia da curare, non da far progredire, dando fiato alle posizioni più estreme e forcaiole della destra bolognese che cavalca i dubbi e l’ignoranza di tanti cittadini. Ovviamente guidati dal ‘Capitano’ che fra una pasta da difendere e un salame da abbracciare è oramai in pieno stato confusionale (richiamato alla realtà anche dai suoi sindaci e dai 13 milioni stanziati per questi progetti dal Ministero di cui è a capo).

È opportuno riflettere sull’andamento incoerente che ha caratterizzato per anni il dibattito sulla mobilità sostenibile, ricordiamo il referendum sulla pedonalizzazione nel centro di Bologna, da una parte, l’eccessiva presenza di veicoli e del loro utilizzo, la fervida volontà, dall’altra, di promuovere ad ogni costo il Passante di Mezzo, l’ennesimo e inutile, ampliamento del fascio tangenziale – autostrada. Una scelta che risulta non solo poco praticabile, ma anche estremamente dannosa e inquinante, come emerge chiaramente dai dati relativi agli spostamenti precedentemente citati.

L’Amministrazione comunale di Bologna sicuramente avrebbe potuto e dovuto fare meglio, da luglio a oggi, costruire una visione, a trasferire orgoglio civico ai cittadini per una transizione energetica ed ecologica della città (Bologna aderisce anche alla Missione Clima dell’Europa per una città decarbonizzata al 2030 invece che al 2050). Tutte critiche che è giusto avanzare, ma questo non può oscurare un progetto che dimostra la fattibilità di un modello diverso di mobilità e di città anche in Italia e in Emilia-Romagna, un modello ambientalmente e socialmente sostenibile, con un buon sistema di trasporto pubblico e con ampie possibilità di migliorare la pedonalità e la ciclabilità.

Rete Giustizia Climatica e Ambientale Emilia Romagna