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Sognare, volere, impegnarsi per la Pace e contro la guerra. Due pensieri di Papa Francesco e Tiziano Terzani.
La pace è molto più della semplice assenza di guerra. La parola biblica shalom indica una condizione di pienezza di vita che la violenza distrugge e annienta alla radice. Occorre una riflessione radicale sulla necessità della fraternità e l’assurdità della guerra. Papa Francesco non fa sconti a nessuno e individua nella bramosia del potere, nelle relazioni internazionali dominate dalla forza militare, nell’ostentazione degli arsenali bellici le motivazioni profonde che stanno dietro alle guerre che ancora oggi insanguinano il pianeta. Scontri che seminano morte, distruzione e rancori e che porteranno nuova morte e nuova distruzione, in una spirale cui solo la conversione dei cuori può porre fine. Il dialogo come arte politica, la costruzione artigianale della pace, che parte dal cuore e si estende al mondo, il bando delle armi atomiche, il disarmo come scelta strategica sono le indicazioni concrete che ci vengono affidate affinché la pacificazione diventi realmente l’orizzonte condiviso su cui costruire il nostro futuro. Perché dalla guerra non può nascere nulla di veramente umano.
Papa Francesco, Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace
Opporsi alla guerra come tale, come ricorso collettivo alla violenza, come distruzione della bellezza e dell’armonia del mondo, come inarrestabile sequenza di odio, di dolore e di morte. Nelle Lettere contro la guerra, con le quali accompagna il suo pellegrinaggio, Terzani dichiara: ho capito che è giunto il momento di reagire, di dire no alla barbarie, all’intolleranza, all’ipocrisia, al conformismo, all’indifferenza. ….. E dunque – ecco l’impellente raccomandazione morale che ne deriva, dobbiamo cambiare anche noi: fermarci, riflettere, prendere coscienza, provare vergogna per le nostre “vite normali”, divenire operatori di pace.
Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra
In copertina: Giotto, Assisi, Basilica Inferiore, Cappella della Maddalena, Noli me tangere
Abbiamo una Stella in quel di Ferrara, che brilla di luce propria, e che non tutti conoscono. Fortunatamente, per una volta, non vale però il nemo propheta in patria.
Perché la sua città ne ha scoperto, riconosciuto, compreso e valorizzato il talento.
Questa Stella oggi illumina, con le sue immagini, una rotonda, uno spazio che fende il cielo, da cui si vede il cielo blu. Una cornice per gli astri più luminosi, dalla quale passano timidamente i raggi della luna, la nostra Rotonda Foschini che sa di magia. Un luogo pieno di fascino e quasi nascosto, un piccolo cortile nicchia dalla forma ovale, dedicato all’architetto, accademico e scrittore Antonio Foschini, uno dei due progettisti del Teatro Comunale. Una piccola porta per l’infinito. Polvere di stelle.
Antico passaggio di carrozze da Corso Martiri della Libertà a Corso Giovecca, oggi questo luogo ci fa transitare verso le nuvole e i sogni. E allora, pufff …abracadabra …
La bacchetta di Mago Merlino potrebbe avere fatto comparire, come d’incanto, dodici grandi fotografie che ci portano nella storia del teatro. Quella vera.
Scatti del nostro Marco Caselli Nirmal, che, come il Signore di Firenze, oserei definire il Magnifico, lasciatemene la licenza (pensando, ovviamente, non al senso originario dell’appellativo di Lorenzo legato alla sua massima carica di Gonfaloniere di Giustizia ma al suo raffinato gusto per le arti e la bellezza).
Questi volti, che non necessitano di parole, arrivano dritto al cuore su un’elegante carrozza trainata da cavalli bianchi direttamente dall’archivio fotografico della Fondazione del Teatro Comunale ”Claudio Abbado”, dodici ritratti fotografici opera di Caselli Nirmal. Per la precisione, dodici trovano posto alla Rotonda, altri sei si affacciano sospesi e mobili sotto le arcate del portico, ad accogliere gli spettatori all’entrata del Teatro. Re e Imperatori. Gigantografie, di nome e di fatto. Grandi i volti, grandi i nomi: protagonisti della regia teatrale del Novecento e dei primi decenni di questo secolo. L’avanguardia, la tempesta e l’impeto. Il Genio e la sregolatezza.
Le rughe di quei visi parlano, sono esperienza, sapienza, conoscenza, espressioni di tempi che furono. Sono Arte.
Tadeusz Kantor, Eugenio Barba, Carmelo Bene, Peter Stein, Robert Wilson, Peter Brook, Lindsay Kemp, Luca Ronconi, Egisto Marcucci, Marco Martinelli, Leo De Berardinis, Giorgio Barberio Corsetti, Dario Fo, Carlo Cecchi, Mario Martone, Toni Servillo, Daniele Abbado e Moni Ovadia.
Testa all’insù, sguardi che si perdono, ammiriamo en plein-air autentici giganti del rinnovamento teatrale, personalità straordinarie ed eclettiche, diverse l’una dall’altra, accomunate dall’autore e dall’occasione della ripresa: la presenza a Ferrara per spettacoli memorabili o incontri con il pubblico. Quelli che si ricordano.
Una galleria all’aperto nel cuore del teatro, ideata da Giuseppina Benassati, per rendere visibile su scala urbana una piccola, importante, porzione del patrimonio fotografico che, conservato dall’istituzione all’interno dei propri spazi (non a caso, la mostra era stata inaugurata, il 26 novembre scorso, al termine del convegno internazionale La fotografia di teatro: attualità e potenzialità degli archivi fotografici), riconquista un rapporto diretto con la città attraverso i sembianti di uomini illustri.
Non un pantheon allestito con immagini stereotipate, ma un vivido susseguirsi di volti ognuno dei quali si dà, grazie alla capacità interpretativa del fotografo, come vera e propriaentelechia, una sorta di essenza intesa come assoluta singolarità, per usare la felice definizione del ritratto fotografico proposta da Leonardo Sciascia.
E Caselli Nirmal, ferrarese classe 1957, architetto che ha collaborato con la designer Nanda Vigo e poi fotografo dal 1977, è ormai divenuto massima espressione del rapporto fotografia-teatro, nelle sue caratteristiche di evento e di spazio scenico. Un talento che ci affascina. Testimone di quell’essere in atto che è la fotografia.
Le sue immagini accompagnano gli spettacoli teatrali da lungo tempo.
Ci sono i colori, i volti, i salti, i movimenti, i piccoli gesti, le luci e le ombre, abilmente colti e fermati nei loro attimi più significativi e intensi a farci ritrovare nelle dimensioni del sogno e della fantasia. Con la libertà di sentire ciò che si vuole.
Nella Rotonda, pertanto, ci si muove godendo la vista di una sorta di ”galleria di uomini illustri”, molti dei quali scomparsi, che della tradizionale iconografia mantiene, e solo parzialmente, la sequenza dell’allestimento: ritratti verticali giustapposti entro nicchie, delimitazioni spaziali volutamente adottate in antitesi a personalità che del teatro hanno sovvertito, dilatato, rifondato spazi e rapporti.
Spesso si tratta di volti con lo sguardo rivolto verso il basso, a rammentarci quanto il teatro ci guardi e ci ri-guardi e la visione attenta ne sia una delle componenti essenziali. ”E quando gli uomini scelgono di vedere, quell’attimo è grandioso, luminoso nella tenebra del conformismo, dell’indifferenza, dei ruoli, delle funzioni. Quell’attimo c’è e si sente. Le immagini che continuano a vivere nel tempo sono costruite intorno a quell’attimo e la loro vita continuerà fino a quando ci saranno occhi a guardarle” (Leonardo Sciascia, Sulla fotografia). “Entelechia”, dunque, scriveva Sciascia: il ritratto fotografico è “come un consegnarsi a mano altrui: al destino, alla morte, a Dio. E all’ignoto sé stesso”. I piani di pensiero si incastrano, si sovrappongono, diventano una superficie unica. Partendo dall’aneddoto riportato daRoland Barthes che aveva ritrovato l’intero di quello che sua madre morta era stata, in una foto che la ritraeva bambina, Sciascia osservava: c’erano in quell’immagine “il presente di quando la fotografia è stata fatta, il futuro che è diventato passato, il tutto che la morte ha concluso”. Su un cartoncino sbiadito, un “sortilegio di contrazione del tempo, sul punto della dissolvenza e dell’oblio: e appunto perciò investito da un estremo fulgore. Qui giunti, niente è precluso. Nulla è più vicino all’abolizione del tempo, tra le rappresentazioni che l’uomo sa dare della propria vita, della fotografia; ma al tempo stesso nulla ne è più lontano”. Lo scatto che imprigiona un istante si traduce in “una guerra contro il tempo: non illustre, umile e quotidiana piuttosto”.
E quelle vite che ci osservano sono lì, quasi a tenersi per mano in un amorevole girotondo che la passione per l’arte tiene unite saldamente, ci saranno sempre.
Con una piccola provocazione che vuole essere un gentile invito: attendiamo i volti di altrettanto illustri artiste donne.
Nato l’8 marzo 1933 a Susa, in Tunisia, si diploma all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma nel 1953 ed esordisce come attore in Tre quarti di luna con la regia di Luigi Squarzina. Attore in spettacoli di Orazio Costa, Giorgio De Lullo e Michelangelo Antonioni, inizia nel 1963 a lavorare come regista con la compagnia di Corrado Pani e Gianmaria Volontè. Ma è la straordinaria messa in scena nel 1969 dell’Orlando Furioso di Ariosto, nella riduzione di Edoardo Sanguineti, a portarlo al successo internazionale.
Nel corso degli anni collabora con diverse istituzioni teatrali: dal 1975 al 1977 è Direttore della Sezione Teatro alla Biennale di Venezia e tra il 1977 e il 1979 fonda e dirige il Laboratorio di progettazione teatrale di Prato.
Dal 1989 al 1994 è direttore del Teatro Stabile di Torino, nel 1994 è nominato direttore del Teatro di Roma, e, dal 1999 al 2010, è direttore artistico del Piccolo Teatro di Milano.
Ha diretto anche le versioni televisive di alcuni dei suoi spettacoli più importanti ed è stato curatore e allestitore di mostre.
Ha ottenuto prestigiosi premi e riconoscimenti, fra i quali il Premio Antonio Feltrinelli per la Regia teatrale, dall’Accademia Nazionale dei Lincei (2008), e ha ricevuto lauree honoris causa dalle Università di Bologna (1999), Perugia (2003), Urbino (2006) e Venezia (2012). Nell’ambito della Biennale Teatro di Venezia, nel 2012 ha ritirato il Leone d’Oro alla Carriera, mentre nel 2013, in occasione dei suoi ottant’anni, il Sindaco di Milano gli ha consegnato il Sigillo della Città.
Regista, scenografo e attore, nasce a Waco, in Texas, il 4 ottobre 1941. Studia economia aziendale ad Austin, ma abbandona i corsi nel 1962, per trasferirsi a New York dove si iscrive ad architettura e progettazione di interni al Pratt Institute di Brooklyn: qui consegue il Bachelor of Fine Arts. In quegli anni vede gli spettacoli di Martha Graham, Merce Cunnigham e Alwin Nikolais: è con quest’ultimo e il suo gruppo che nasce una collaborazione e Wilson disegna le scene per Junk Dances e Landscape (1964). Mentre studia, lavora con i bambini handicappati e mette a punto le sue prime opere, tra cui un cortometraggio cinematografico astratto, Slant (1963).
La svolta arriva nel 1966, con The King of Spain che l’artista considera come il suo primo vero spettacolo da cui inizia a elaborare quella suggestiva visione dello spazio e del tempo teatrale che diventerà la sua inconfondibile cifra stilistica. Quello stesso anno la Brooklyn Academy of Music gli commissiona un’opera, The Life and Times of Sigmund Freud, mentre del 1970 è Deafman Glance, “opera del silenzio” costruita davanti agli occhi di un sordomuto: questo spettacolo rende il regista texano noto in tutto il mondo e il clamore si rinnova due anni più tardi con un’altra rappresentazione-evento, Ka Mountain and Guardenia Terrace, che si svolge per 7 giorni e 7 notti sulle 7 montagne attorno a Shiraz-Persepoli. Nel 1973 produce The Life and Times of Joseph Stalin, nuova opera del silenzio di dodici ore, rappresentata in diverse parti del mondo, mentre nel 1976 collabora con il compositore Philip Glass alla scrittura di Einstein on the Beach, una delle opere più influenti del secondo dopoguerra.
In seguito, lavora nei teatri europei di prosa e lirici e all’inizio degli anni Ottanta risale d’altra parte uno dei suoi progetti più ambiziosi the CIVIL warS: a tree is best measured when it is down, affresco epico creato con un gruppo di artisti internazionali e concepito come opera centrale delle Olympic Arts Festival del 1984. Negli ultimi anni, si sta dedicando sempre più al Watermill Center, laboratorio da lui fondato nel 1992 che svolge attività didattica, produttiva e archivistica.
È un autore a tutto campo la cui opera ha percorso e a tratti guidato l’avanguardia teatrale. Wilson non affronta le contraddizioni del nostro tempo in modo diretto, attraverso una narrazione convenzionale, ma costruisce una struttura di rimandi visivi e uditivi che agiscono sull’interiorità dello spettatore.
Pittore e regista teatrale polacco, nasce a Wielopole (Cracovia) il 6 aprile 1915. Iscrittosi nel 1939 all’Accademia di Belle Arti di Cracovia (dove insegnerà trent’anni dopo) per studiare pittura e scenografia, frequenta i laboratori sperimentali di Jerzy Grotowski, ma lo affascina soprattutto l’incontro con Konstantin Sergeevič Stanislavskij.
Iniziata la carriera come scenografo, nel 1945 lavora al Teatro Stary di Cracovia, dove porta avanti l’attività di regista e di pittore.
Nel 1955 presenta il gruppo Cricot 2, da lui fondato e diretto per interpretare la propria denuncia, espressa nei numerosi manifesti pubblicati in un ventennio e dedicati, tra gli altri, all’Arte informale (1960), agli Imballaggi (1962), al Teatro zero (1963), al Teatro degli avvenimenti (1968), al Teatro della morte (1975), all’Antiesposizione popolare (1979).
Ha ricevuto premi e riconoscimenti sia come pittore che come regista: il premio di pittura alla Biennale di San Paolo (1967), il premio Marzotto per la pittura (1968), il Gran premio Teatro delle nazioni di Caracas (1978), la croce dell’Ordine Polonia Restituta (1982) e la Legion d’Onore francese (1986).
La sua arte è stata definita informale, la sua pittura metaforica in quanto caratterizzata da un’attenzione particolare al movimento, al cromatismo, alle forme che aiutano la definizione dei caratteri. Le sue scene cinetiche, in continua trasformazione in quanto partecipi dell’azione, sono il risultato di un tipo di ricerca tecnica sull’organizzazione dello spazio per combattere ogni forma di routine teatrale, ogni cliché di recitazione; sono realizzate di preferenza in stazioni, ospizi, scuole, caffè, e hanno per protagonisti gli oggetti quotidiani, la cui simbologia intende significare lo stato transitorio ed effimero della vita. Per questo predilige l’uso della materia bruta (argilla, fango) e dell’oggetto povero che, semplicemente, ”è”, senza che l’artista intervenga a imporgli la sua volontà di espressione e interpretazione.
Nasce il 1° settembre 1937 a Campi Salentina (Lecce), dove i genitori hanno in gestione un tabacchificio di proprietà della famiglia Reale.
Trascorre infanzia e adolescenza fra Campi e Lecce, compiendo gli studi classici presso la scuola degli scolopi e poi dei gesuiti, prima di partire ventenne perRoma dove, per la famiglia, avrebbe dovuto laurearsi in giurisprudenza; invece, contemporaneamente, si iscrive alla scuola di recitazione Pietro Scharoff e ai corsi per attore dell’Accademia d’artedrammatica, che, insofferente, abbandona prima del diploma, per iniziare in autonomia la sua originale e fortunata carriera artistica.
Dal 1959 porta avanti per oltre quarant’anni un’intensa attività. Lungo è elenco delle sue opere: più di 60 spettacoli teatrali, 9 fra corti e lungometraggi cinematografici, 25 edizioni televisive e una ventina di registrazioni radiofoniche.
Rifiutando i riconoscimenti al suo talento, si è sempre definito un genio (“Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento”: Opere con l’Autografia di un ritratto) per dichiarare la necessità e la libertà del suo agire artistico: un’azione e una riflessione che intendeva liberare l’attore dalla sua stessa scena e il teatro dai suoi limiti e dai suoi stessi modi.
Tra avversari e detrattori, il successo lo porta nei maggiori teatri italiani, fino alle vette del teatro alla Scala di Milano. Fra i suoi ammiratori e interlocutori, oltre ai migliori critici teatrali italiani (Ennio Flaiano, Alberto Arbasino, Giuseppe Bertolucci, Franco Quadri, Goffredo Fofi…), vanno citati personaggi come Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Eugenio Montale, nonché in Francia Jacques Lacan, Michel Foucault e gli amici Jean-Paul Manganaro (suo traduttore) e Gilles Deleuze.
Le due autobiografie sono le fonti più autorevoli: Sono apparso alla Madonna. Vie d’(h)eros(es) e Vita di Carmelo Bene. Da esse si evince che l’artista abbia sempre consciamente perseguito e inconsapevolmente realizzato un’assoluta fusione fra arte e vita: l’’arte grande’ e la ‘vita breve’ di un attore, tanto discusso quanto importante e forse il più imponente del teatro italiano del Novecento.
“Contro la Rappresentazione” è stato il suo slogan costante: la chiave del suo manifesto culturale e il senso del suo progetto artistico. E l’Attore fuori dalla Rappresentazione è stato il suo obiettivo e infine, il suo capolavoro: “E non si dà capolavoro d’arte. Fuor dell’opera si è capolavoro”.
Lo spettacolo che segna il debutto d’attore è una rappresentazione del Caligola di Albert Camus, in scena a Genova nel 1959; il primo spettacolo in cui appare come attore e regista è un Concerto Majakovskijtenuto a Bologna nel 1960. Da subito la sua proposta spettacolare è duplice: alle messe in scena di testi drammatici o letterari – rielaborati o ideati e comunque sempre ‘riscritti’ – si alternano ‘concerti d’attore’, basati sui testi lirici o epici dei più grandi poeti.
Fra la fine degli anni Cinquanta e il 1967 partecipa al movimento delle cosiddette ‘cantine romane’. Fonda e dirige un primo teatro laboratorio situato a Roma, in Trastevere, a piazza S. Cosimato, per allestire più tardi un teatro intitolato al suo nome in un fondo di via del Divino Amore. In quelle sedi, prova e replica i suoi primi spettacoli, alcuni dei quali vedranno riedizioni più complesse e riallestimenti meno precari su palcoscenici sempre più importanti. Ma per la sua prima vera tournée in Italia organizzata dall’Ente teatrale italiano (ETI), deve attendere il successo della sua seconda edizione di Pinocchio del 1966.
Cristo 63 è lo spettacolo di un primo ‘scandalo’ che dà origine alla sua fama di imprevedibile e irriducibile provocatore, in particolare, legata alla leggenda dell’attore che avrebbe orinato in faccia a un critico e poi replicato il gesto in altre occasioni. Come provocatore, celebre rimarrà il suo intervento al Maurizio Costanzo Show del 27 giugno 1994, intitolato Uno contro tutti.
Inaugurato dall’attività cinematografica, il secondo periodo artistico (1967-1980) è caratterizzato dall’esplorazione e dallo sfruttamento di altri mezzi e linguaggi come, in particolare, la radiofonia ma anche la televisione e le prime edizioni discografiche. In questo periodo infatti produce tutti i suoi film, cinque edizioni televisive dei suoi spettacoli e 13 interventi e opere radiofoniche.
Il ritorno in teatro è segnato dal nuovo allestimento di Nostra Signora dei Turchi (1973), per proseguire con stagioni dominate da riscritture del repertorio shakespeariano: una serie di “Shakespeare secondo Bene”.
Arriva la Francia, Parigi. La cultura e la letteratura francese erano sempre stati riferimenti privilegiati; e però il cinema che crea i presupposti di una ammirazione da parte del pubblico e della critica transalpina, poi cresciuta con il teatro e tramutata in relazione stabile. Nel 1977 porta a Parigi il suo Romeo e Giulietta, nonché il S.A.D.E., ed è un trionfo. Vi torna nel 1999 con il suo Macbeth Horror Suite e in quell’occasione, con una Lectura Dantis all’Odéon, ringrazia per la nomina a chevalier de l’art et de la culture, un riconoscimento della sua arte ma anche un certificato di adozione.
L’ultima fase del lavoro di Bene (1980-2002) inizia con le due più grandi manifestazioni spettacolari della sua carriera: il Manfred, opera di Byron e Schumann che, con il debutto alla Scala di Milano il 1° ottobre 1981, sancisce il suo ingresso nel mondo della musica; quindi, la Lectura Dantis, eseguita a Bologna il 31 luglio 1981 che decreta la definitiva confusione tra teatro e poesia, attore e poeta.
Da qui l’elenco delle sue opere è infinito. L’ultimo appuntamento con il pubblico avviene con una Lectura Dantis al Castello di Otranto, il 5 settembre 2001.
Nato a Berlino il 1º ottobre 1937, è un regista teatrale tedesco, oltre che attore teatrale e regista d’opera lirica.
Vive l’infanzia in piena epoca nazista. Suo padre Herbert è direttore della fabbrica di Alfred Teves, una industria di motocicli che è stata adibita dal regime alla costruzione di componenti automobilistiche. Herbert comanda 250.000 lavoratori forzati. Ma, nonostante ciò, aderisce clandestinamente alla Bekennende Kirche (Chiesa confessante), un gruppo di resistenza. Questi eventi hanno un profondo effetto sulla formazione e sulla vita di Stein. Comincia a lavorare a Monaco dietro le quinte come tecnico, guadagnando a ruoli sempre più importanti. A trent’anni, nel 1967, debutta come regista. Impegnato politicamente, continua a dirigere pièce “anarchiche” e liriche come Discorso sul Vietnam di Peter Weiss (1968), Nella giungla delle città di Bertolt Brecht, e Torquato Tasso di Goethe.
Nel 1970 fonda il collettivo teatrale della Schaubühne am Halleschen di Berlino Ovest, che guida fino al 1985. Il gruppo realizza messinscene trasgressive che stravolgono la struttura dello spazio teatrale e scenico. Oltre a “riscrivere” testi classici antichi e moderni, allestisce nuovi spettacoli che esplorano linguaggi e temi imbarazzanti per il senso comune dell’epoca.
Tra le opere più significative di quel periodoPeer Gynt di Henrik Ibsen (1971), Il principe di Homburg di Heinrich von Kleist (1972), I villeggianti di Maksim Gor’kij (1974), Orestea di Eschilo (1980), riallestita in lingua russa a Mosca nel 1994 con la Compagnia dell’Armata Rossa. Quest’ultimo è il capolavoro in cui il regista abolisce la scena, sostituita dal muro del Palazzo, collocando il coro in mezzo agli spettatori seduti su gradini.
Nel suo incontro con Anton Čechov, del quale propone Tre sorelle (1984), Il giardino dei ciliegi (1989 e 1996) e Zio Vania (nel 1996 al Teatro Argentina di Roma), rivela una inesplorata comicità nella tragedia dell’autore russo.
Dal 1992 al 1997 dirige la sezione prosa del Festival di Salisburgo.
Vive ormai da anni in Italia (ha sposato l’attrice Maddalena Crippa) ed è stato insignito di numerosi riconoscimenti internazionali, tra i quali l’onorificenza francese di Commandeur de l’Ordre des Arts et Lettres et Chevalier de la Légion D’Honneur. Nel 2011 riceve il Premio Europa per il teatro,a San Pietroburgo.
È considerato tra i più importanti artefici del teatro tedesco ed europeo della seconda metà del Novecento.
Attore e regista italiano, è nato a Firenze, 25 dicembre 1932.
Diplomatosi nel 1961 alla Civica scuola del Piccolo Teatro di Milano, svolge qui le prime esperienze come attore. Dal 1963 al 1967 è scritturato a Trieste dal localeTeatro Stabile. Tra le sue prime interpretazioni l’Egmont di Goethe con la regia di Luchino Visconti per il Maggio Musicale Fiorentino del 1967.
Nel 1969, fonda il Gruppo della Rocca, con il quale nel 1972 passa alla regia con Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare. Dal 1978 al 1981 insegna alla scuola di recitazione delTeatro Stabile di Genova. Nel periodo 1983-1985 è direttore artistico dell’Ater-Ert (Associazione dei teatri dell’Emilia-Romagna).
Fra le sue regie più significative si ricordano: Il mandato (1976) e Il suicida (1978) di Nikolaj Ėrdman; La donna serpente di Carlo Gozzi (1979 e 1995); Il vampiro di San Pietroburgo di Suchovo-Kobylin (1984); La lezione di Ionesco (1986 e 1996); La coscienza di Zeno di Tullio Kezich da Italo Svevo; Il silenzio delle sirene di Giorgio Albertazzi; La marchesa di O… dalla novella di Heinrich von Kleist (1990); La famiglia Mastinu di Alberto Savinio (1990); Stadelmann di Claudio Magris e Il suo nome di Alberto Savinio (1991); Dyskolos di Menandro (1995); Le sedie (1997) di Ionesco; Una burla riuscita da Italo Svevo (1998).
Ha curato la regia di opere liriche, tra cui L’italiana in Algeri (1981) e Il turco in Italia (1982) di Gioacchino Rossini.
Regista e teorico teatrale italiano, nasce a Brindisi il 29 ottobre 1936. Emigrato in Norvegia, si trasferisce a Varsavia dove nel 1962 diventa assistente di Jerzy Grotowski. L’influsso dell’esperienza polacca lo porta a fondare al suo ritorno a Oslo nel 1964 l’Odin Teatret. Trasferisce poi il suo teatro-laboratorio a Holstebro in Danimarca. Gli spettacoli dell’Odin Teatret non sono basati sulla messa in scena di un’opera ma sul confronto con un testo o una problematica e sul montaggio del materiale elaborato dall’attore in vista di una ricerca introspettiva ed espressiva collettiva.
Fra il 1974 e il 1975 l’Odin Teatret realizza, in Italia, esperienze antropologiche di scambi con le culture locali del Salento e della Barbagia.
Tra i suoi spettacoli si ricordano: Talabot, 1988; Itsi Bitsi, 1991; Kaosmos, 1993; Mythos, 1998; Andersen’s Dream, 2005. Tra gli scritti teorici: Alla ricerca del teatro perduto, 1965; Théâtre et Révolution, 1970; Il libro dell’Odin, 1975; Il corpo dilatato, 1985; Teatro: solitudine, mestiere, rivolta, 1996; L’arte segreta dell’attore. Un dizionario di antropologia teatrale, 1996.
Nato a Roma l’11 gennaio 1951, è uno dei rappresentanti più significativi del teatro in Italia, nelle vesti di regista, autore e attore.
La sua avventura professionale inizia nel 1976 con la fondazione, insieme ad Alessandra Vanzi e Marco Solari, della compagnia “La Gaia Scienza”, che prende il nome dal saggio di regia con cui egli, appena l’anno precedente, si era diplomato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”.
Successo e attenzione della critica lo portano sciogliere il gruppo nel 1984, dopo l’esperienza solista di Animali sorpresi distratti, e a fondarne uno con il suo nome.
Inizia la strada della sperimentazione del video in collaborazione con Studio Azzurro, realizzando tra gli altri Prologo a Diario segreto contraffatto (1985), Correva come un lungo segno bianco (1986) e La camera astratta (1987), cui va un premio Ubu per il video-teatro.
Dal 1988, inizia una riflessione sull’opera di Kafka che lo conduce alla messinscena di una trilogia di racconti brevi: Descrizione di una battaglia (1988), Di notte (1988), Durante la costruzione della muraglia cinese (1989), lo confermano uno dei maggiori talenti della scena italiana e l’interesse della critica gli procura un premio Idi per la regia del successivo Il legno dei violini, di cui è anche autore.
Nel 1993 inizia un ampio lavoro di rilettura del Faust goethiano, il cui primo risultato è Mefistofele, studi, schizzi e disegni per un Faust privato (1995), ma che soprattutto si conclude con un Faust (1995) che segna la maturità del regista nell’utilizzo sperimentale del video: anche interprete, monta i monitor su alcuni carrelli che percorrono lo spazio scenico, rimandando l’immagine degli stessi protagonisti e chiamandoli a dialogare con essa.
Nella continua ricerca attraverso le diverse manifestazioni artistiche, inoltre sperimenta l’incontro con l’opera lirica che, avvenuto nel 1999 (Maria di Rohan di Gaetano Donizzetti) continua a al più recente allestimento di Tosca per l’edizione 2005 del Maggio Musicale Fiorentino.
Gli viene assegnata la direzione della Sezione Teatro della Biennale di Venezia, dal 1999 al 2002, senza rinunciare a collaborazioni internazionali prestigiose e a dirigere progetti del calibro di Graal (2000), Woyzeck (2001), Le metamorfosi da Ovidio (2002 / 2003), Paradiso (2004), Argonauti (2005).
Nato sull’Isola scozzese di Lewis e Harrisil 3 maggio 1938 e cresciuto nel nord dell’Inghilterra, orfano di padre, disperso in mare nel 1940, sin dall’infanzia s’innamora della danza, del teatro, del cinema, nonostante l’opposizione della madre.
Terminati gli studi al Bradford College of Arts, si trasferisce a Londra dove frequenta la scuola del Ballet Rambert, quindi si perfeziona con Sigurd Leeder, Charles Wiedman, Marcel Marceau e tanti altri. Particolarmente significativa per Kemp è l’esperienza formativa con Marceau che gli ha “dato le mani”, giocando con le parole per indicare sia l’effettiva importanza delle mani nell’arte mimica e nella sua personale interpretazione di essa.
Lavora in varie compagnie di danza, teatro, teatro-danza, cabaret, musical, mimo, coreografa perfino spogliarelli, fino a formare nel 1962 la sua prima compagnia, la The Lindsay Kemp Dance Mime Company.
Verso la fine degli anni sessanta continua a sviluppare la propria sintesi fra diversi linguaggi teatrali privilegiando un approccio personale e innovativo alla danza e al teatro, così nel 1968-1969 nasce la prima produzione di Flowers… una pantomima per Jean Gênet, liberamente tratto da Nostra Signora dei Fiori di Jean Genet.
Precursore di un genere di danza onirico, ricco di contenuti e ispirazione, al limite dell’acrobatico e forte di effetti spettacolari ancorché ottenuti in modo semplice attraverso l’uso sapiente della musica e delle luci, ha reinventato l’arte del mimo e ha influenzato molte compagnie
Fra gli anni Settanta e Ottantalascia un segno indelebile: con la sua messa in scena dei concerti The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars del suo allievo David Bowie, una pietra miliare nel genere dell’opera rock, quindi producendo le sue opere più significative e conosciute e con il citato Flowers, Sogno di una notte di mezza estate, liberamente tratto da Shakespeare, Salomè da Oscar Wilde.
Negli anni ’90 continuano i successi della Linsay Kemp Company: OnnagataCenerentola e Variété. Nel 1993 Kate Bush, che ha cominciato la sua carriera come allieva di Kemp, lo ospita nel video musicale prodotto per il lancio del suo LP The Red Shoes. Nel 1995 esordisce nella regia lirica con una versione de Il barbiere di Siviglia che affascina il pubblico e conquista la critica.
Dal 2005 al 2012 interpreta il ruolo della fata Carabosse ne La bella addormentata del Balletto del Sud con le coreografie di Fredy Franzutti, la collaborazione continua con l’interpretazione del mago Koščej ne L’Uccello di Fuocodal 2007 al 2010.
Dal 2009 inizia la collaborazione con la danzatrice Daniela Maccari, inizialmente chiamata a curare le coreografie dello spettacolo Cinderella. Nasce un rapporto di destinato a durare sino alla scomparsa di Kemp. Daniela Maccari diverrà la sua prima ballerina, coreografa e collaboratrice costante.
Nel 2015, l‘Accademia di belle arti di Breraconsegna all’artista il Diploma accademico di II livello honoris causa in Arti multimediali interattive e performative.
Nasce a Gioj Cilento il 3 gennaio 1940, ma cresce a Foggia.
Tra il 1959 e il 1960 frequenta a Roma il Centro universitario teatrale e nel 1962 debutta con la compagnia di Carlo Quartucci, recitando le opere di Beckett Finale di partita e Aspettando Godot.
Nel 1965, inizia il lungo sodalizio artistico con Perla Peragallo, attori e registi di numerose messinscene teatrali e cineteatrali, la prima delle quali è La faticosa messinscena dell’ Amleto di Shakespeare (1967) e Sir and Lady Macbeth (1968) . Quando nel 1981 si conclude il sodalizio con Perla, ritorna a Roma, dove inizia una serie di lavori teatrali che segneranno il passaggio dal “teatro del non-finito” al “teatro dell’improvvisazione”.
Nel 1983 si trasferisce a Bologna e inizia una nuova collaborazione artistica con la Cooperativa Nuova Scena – Teatro Testoni/ Interaction. Continua i suoi studi su Shakespeare e nasce la ricerca sugli spettacoli Assolo che porta alla creazione di messinscene come Dante Alighieri – studi e variazioni, con la quale vince il Premio UBU come miglior attore dell’anno nel 1984, e Il Ritorno, riflessi da Omero- Joyce.
Nel 1987 realizza Novecento e Mille, un’opera che racchiude in sé studi sperimentali sul teatro e sugli autori più svariati, da Pasolini a Beckett, fino a Pirandello. Nello stesso anno lascia la “Nuova scena” e fonda il “Teatro di Leo”, diventandone direttore artistico ed organizzativo: qui non solo produce spettacoli teatrali, ma crea laboratori di ricerca e organizza giornate di studio sul teatro, convegni e rassegne teatrali. Fra gli spettacoli teatrali prodotti nel “Teatro di Leo” ci sono Delirio, L’uomo capovolto, Machbeth, Novecento e Mille e Il fiore nel deserto, tratto dall’opera di Giacomo Leopardi.
Nel 1989, produce, in collaborazione con “Teatri Uniti di Napoli” e il “Festival dei due mondi di Spoleto”, Ha da passà ‘a nuttata, tratto dall’opera di Eduardo De Filippo; l’allestimento ottiene il Premio UBU come miglior spettacolo dell’anno, mentre lui vince il Premio IDI come miglior attore e il Premio per la carriera da parte dell’Associazione Nazionale dei critici.
Nel 1990 “Il Teatro di Leo” trova, a Bologna, un suo spazio scenico chiamato “Lo spazio della memoria” e in questo ambito nascono molti laboratori di ricerca, come quello sulla scrittura scenica, in collaborazione con l’Università di Bologna.
Nel 1991 riceve il Premio Eduardo, il Premio Giuseppe Fava, in riconoscimento del carattere civile e politico del suo teatro, e il Premio Città di Pontecagnano, per la sua arte attoriale. Nel 1992, egli ottiene anche il Premio UBU Speciale, “per la coerenza e la necessità del suo teatro”.
Dal 1994 al 1999, è direttore artistico del “Festival di teatro di Santarcangelo”. Sempre in questo periodo dirige il Teatro San Leonardo di Bologna e cura, per il “Teatro sperimentale” di Spoleto, la regia del Don Giovanni di Mozart.
Il 4 maggio 2001, la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Bologna gli conferisce la Laurea ad honorem.
Muore a Roma il 18 settembre 2008.Alla sua memoria, nel 2015, è stato dedicato un teatro-auditorium a Vallo della Lucania.
Drammaturgo e regista teatrale, nasce a Reggio nell’Emilia, il 14 agosto1956.
Nel 1983 fonda, con la moglie Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni, il Teatro delle Albe e nel 1991 è nominato direttore artistico di Ravenna Teatro, “Teatro Stabile di Innovazione”.
Nel 1999, inventa il “Cantiere Orlando”, ricognizione nell’universo dei poemi cavallereschi rinascimentali.
Nel 2005 firma la regia dello spettacoloLa Mano, “de profundis rock”, nel 2007 è in Senegal, dove lavora insieme a Ermanna Montanari e Mandiaye N’Diaye a una nuova “messa in vita” de I Polacchi. Lo spettacolo Ubu buur debutta nel cuore della savana, nel villaggio di Diol Kadd, con un coro di Palotini senegalesi. Ubu buur viene presentato in prima europea al Festival des Francophonies en Limousin (Francia), che lo ha anche coprodotto, in prima nazionale al Teatro Festival Italia di Napoli e a VIE Scena Contemporanea Festival di Modena, nell’autunno 2007.
Nel 2008 cura la regia di Rosvita, lettura-concerto di Ermanna Montanari e di Stranieridi Antonio Tarantino. Nel 2009 firma la regia e le luci di Ouverture Alcina, spettacolo che riscuote un grande successo di pubblico e critica in occasione delle numerose recite in varie città del mondo: da New York a Mosca nell’ambito del Festival internazionale “Stanislavskij Season”, da Tunisi a Berlino e Limoges.
Nel 2010, le Albe si immergono nell’opera di Molière e, nello stesso anno, debutta Rumore di acque, testo e regia di Marco Martinelli, un monologo capace di trasfigurare in grottesca e malinconica poesia la cronaca tragica dei barconi alla deriva nel Mediterraneo. Lo spettacolo ottiene il patrocinio diAmnesty International.
Nel 2012 debutta PANTANI, testo e regia di Marco Martinelli, che vede impegnata tutta la compagnia, con il quale Martinelli vince il Premio Ubu 2013 come “migliore novità italiana (o ricerca drammaturgica)”.
Nel 2014 scrive e dirige Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, ideato con Ermanna Montanari, spettacolo sulla leader birmana premio Nobel per la pace nel 1991. Ne dirigerà un film omonimo (il suo primo film), nel 2016.
Nel 2017 sempre con Ermanna Montanari firma l’ideazione, la direzione artistica e la regia di INFERNO Chiamata pubblica per la “Divina Commedia” di Dante Alighieri prodotto da Ravenna Festival in coproduzione con Teatro delle Albe/Ravenna Teatro.
Nel 2018 scrive e mette in scena – con Ermanna Montanari – Va pensiero, affresco corale capace di far luce sulla corruzione mafiosa in Emilia-Romagna. Saluti da Brescello (di Marco Martinelli) ne costituisce il prologo, in forma di dialogo tra le statue di Peppone e Don Camillo nella piazza di Brescello. Per questi due lavori viene conferito a lui e a Montanari il Premio Articolo 21 e della Federazione Nazionale Stampa Italiana
Nell’autunno 2019 esce il suo secondo film, The Sky over Kibera, che racconta la “messa in vita” della Divina Commedia nell’immenso slum nel cuore di Nairobi con 150 bambini e adolescenti delle scuole locali in relazione alla Fondazione AVSI.
Il 20 novembre 2021 in Prima nazionale per FilmMaker Festival a Milano presenta la pellicola fedeli d’Amore e nello stesso anno Ulisse XXVI, un cortometraggio centrato sul XXVI canto dell’Inferno di Dante recitato da Ermanna Montanari.
Cura anche la regia assieme alla Montanari di Pasolinacci e Pasolini, racconto personale del maestro, “faro” di riferimento fin dall’adolescenza negli anni Settanta.
È fondatore, con Maurizio Lupinelli, della non-scuola, esperienza teatrale all’interno delle scuole superiori di Ravenna nata nel 1991 e tuttora in atto, che coinvolge ogni anno oltre 400 giovani.
Regista teatrale e cinematografico inglese nasce a Londra il 21 marzo 1925.
Il padre, nato in Lettonia da una famiglia di piccoli negozianti, emigrò giovanissimo, nel 1907, a Parigi per motivi politici, seguito dalla ragazza che sarebbe diventata di lì a poco sua moglie, Ida Janson. Entrambi si laurearono in Scienze alla Sorbona, per trasferirsi poi a Liegi e a Londra dove iniziarono a lavorare per l’industria bellica. Presero la cittadinanza inglese, e l’originale cognome Bryk, già trasformato in Francia in Brouck, divenne definitivamente Brook.
Peter passa la sua infanzia con i genitori e il fratello maggiore Alexis, in un clima familiare abituato a una mentalità liberale e scientifica, ricco di interessi culturali, tanto che si avvicina presto alla letteratura, al teatro e al cinema. Grazie alla passione del padre per i viaggi, conosce le principali capitali europee.
Studia al Gresham’s School ed alla Università di Oxford, dove si laurea, ma e il suo incontro col teatro è casuale. Esordisce giovanissimo nella regia teatrale con il Doctor Faustus di Marlowe (1943), imponendosi come acuto interprete del teatro di William Shakespeare.
Dopo essersi affermato in Gran Bretagna, diventa noto nel resto dell’Europa grazie al tour del Tito Andronico nel 1955. Il suo interesse per Shakespeare è tale che l’artista è annoverato tra i maggiori interpreti – per mezzo delle sue regìe – del drammaturgo inglese. Mise in scena con successo anche le cosiddette opere minori di Shakespeare.
Collabora con i maggiori artisti italiani e internazionali oltre che con teatri, centri d’arte contemporanea, rassegne e premi, orchestre, case discografiche, compagnie teatrali e di danza, centri di produzione teatrale, festival musicali e teatrali in Italia e all’estero.
Nel 1981 avvia una significativa collaborazione con Paolo Natali, etnomusicologo e vicedirettore del Teatro Comunale di Ferrara, con il quale allestisce la mostra documentaria dedicata a Béla Bartók; collaborazione che continua fino alla scomparsa prematura di Natali, nel 1986.
Dal 1990 è stato fotografo ufficiale del maestro Claudio Abbado in numerose tournée concertistiche. Sua la documentazione fotografica del nuovo Auditorium del Parco di Renzo Piano, sorto all’interno del parco del Forte spagnolo a L’Aquila, da un’idea di Claudio Abbado, inaugurato nel 2012.
Nel corso di oltre quaranta anni di attività, ha raccolto e organizzato un archivio fotografico poderoso, che raccoglie una memoria teatrale che spazia fra i diversi generi dello spettacolo dal vivo, comprendendo le maggiori esperienze artistiche di fine Novecento e del nuovo millennio: dal Living Theatre a Tadeusz Kantor, da Claudio Abbado a John Cage, da Luca Ronconi a Nekrosius, da Marco Paolini a Umberto Orsini, da Roberto Benigni a William Forsythe, Fabrizio Gifuni, Babilonia Teatro, Socìetas Raffaello Sanzio, Pina Bausch, Marina Abramovic, Sasha Waltz. Un archivio che raccoglie la documentazione fotografica di circa 10.000 spettacoli per un totale di circa un milione scatti.
Svolge occasionalmente attività di formazione, ha collaborato con il Dipartimento di Architettura e Analisi della Città/UNIROMA, Facoltà di Magistero Università di Siena, Brookes University di Oxford, facoltà di Architettura.
di Alessandra Vescio
articolo originale in Valigia blu del 4 aprile 2023
Di fronte la clinica di salute sessuale e riproduttiva MSI Reproductive choice di Brixton, a Londra, una donna legge in piedi accanto a un quadro che raffigura la Madonna e due cartelloni, uno con l’immagine di una mamma e un bambino sorridenti e la scritta “Love them both” (Amiamo entrambi) e l’altro con un numero di telefono a cui sono invitate a chiamare donne in gravidanza e che cerchino aiuto morale, economico e pratico. Resterà lì per qualche ora e poi qualcuno arriverà a darle il cambio, mi dice quando le chiedo informazioni. Accanto l’ingresso della clinica, c’è un uomo inginocchiato con un rosario in mano. “Siamo qui dalle 8 di mattina fino a tarda sera. In questo periodo stiamo cercando di fare di più, perché siamo in Quaresima, sai”, afferma.
I “40 giorni per la vita”
Ogni anno infatti, durante i quaranta giorni che precedono la Pasqua e successivamente in autunno, un movimento internazionale che prende il nome di “40 days for life” organizza sit-in di preghiera di fronte a cliniche che garantiscono l’accesso all’aborto. L’obiettivo, si legge sul sito del movimento, sarebbe quello di “mandare un messaggio alla comunità sulla tragica realtà dell’aborto”, e a partecipare sono diversi gruppi religiosi, locali e internazionali.
Nato in Texas in seguito all’apertura di un centro di salute sessuale e riproduttiva dell’organizzazione Planned Parenthood, questo movimento si è poi espanso prima a livello nazionale e poi internazionale. A Francoforte, ad esempio, un gruppo di manifestanti dei “40 days for life” si è riunito davanti un centro di consulenza su sessualità, gravidanza e contraccezione, ha esposto cartelloni con slogan come “Unborn lives matter” (Le vite non nate contano) o “L’aborto non è una soluzione” e ha iniziato a pregare.
In Italia invece il movimento “40 days for life” ha ispirato la nascita dei “40 giorni per la vita”, una campagna al momento ufficialmente presente a Bergamo e Sanremo e promossa dall’associazione Pro Vita & Famiglia. Durante i “40 giorni per la vita” che, a differenza dell’evento internazionale, sono iniziati a fine dicembre e terminati a febbraio, un gruppo di manifestanti si è ad esempio presentato di fronte l’ospedale di Treviglio, esibendo, oltre alle raffigurazioni religiose, l’immagine di un medico e un bambino e la scritta “Meglio in braccio che sulla coscienza”.
Movimenti religiosi e posizioni antiabortiste
I “40 days for life” non rappresentano l’unico momento in cui cliniche e ospedali che garantiscono servizi di interruzione volontaria di gravidanza vengono presi di mira in diversi paesi nel mondo da gruppi antiabortisti. Molte di queste associazioni hanno carattere religioso e si riconoscono per le iconografie e i simboli che portano ai presidi, ma mentre i gruppi evangelici sono spesso descritti come più aggressivi nel loro modo di protestare, i gruppi cattolici, come quelli presenti di fronte la clinica di Brixton, hanno una strategia diversa.
Definendosi come gruppi “pacifici” e con l’unico intento di pregare fuori dalle cliniche e offrire soluzioni alternative all’aborto, si rivolgono alle donne che stanno andando ad abortire chiamandole “mamme” e danno informazioni errate e fuorvianti sulla procedura dell’interruzione volontaria di gravidanza. Sui volantini distribuiti fuori dalla clinica di Brixton, ad esempio, si legge che “la gravidanza è un fattore di protezione contro il suicidio” e che “1 aborto su 10 provoca infezioni all’utero”. Nel caso specifico delle infezioni all’utero viene citata come fonte una pagina web del Servizio sanitario nazionale (NHS) che però non è disponibile. Sul sito dell’NHS è invece spiegato che le infezioni all’utero in seguito a un aborto si verificano in un numero ridotto di casi e tendono a essere curate per tempo.
La ragione dietro il ricorso a queste informazioni pseudoscientifiche è legata a una questione di efficacia. Molti di questi gruppi, infatti, hanno scelto di intrecciare, spesso anche anteporre, alle loro posizioni religiose la divulgazione di dati e notizie inesatte presentate però come prove tangibili e “scientifiche” del pericolo dell’aborto. Allo stesso modo, diverse associazioni a carattere religioso hanno introdotto i diritti umani e i diritti delle donne nelle loro argomentazioni, iniziando a sostenere che poiché l’identità di una donna si manifesta e coincide con la maternità, l’aborto non può che essere frutto di una costrizione dall’esterno e rappresenta dunque un tradimento verso la sua natura e un attacco ai suoi diritti.
Il tema dei diritti umani viene ripreso anche da gruppi antiabortisti non religiosi. L’organizzazione americana pro-vita Rehumanize International ad esempio ha definito il ribaltamento della sentenza Roe V. Wade da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti, che ha portato all’eliminazione del diritto all’aborto a livello federale e lasciato ai singoli Stati il potere di decidere in merito all’accesso all’IVG, come “un momento di celebrazione per questa monumentale espansione dei diritti umani”. Rehumanize International infatti si autoproclama un’organizzazione “per i diritti umani dedicata alla creazione di una cultura di pace e vita” che si oppone a “tutte le forme di violenza aggressiva contro l’essere umano”, tra cui vengono incluse la violenza da parte della polizia, ma anche l’aborto e l’eutanasia. Tra le altre cose, Rehumanize International organizza presidi di fronte ai centri che offrono il servizio dell’interruzione volontaria di gravidanza per “incoraggiare attivamente le persone che intendono abortire a scegliere la vita”.
L’impatto sulle donne
Qualunque sia il metodo o la ragione dietro le proteste fuori dalle cliniche, ciò che resta invariato è l’impatto che queste azioni hanno sulle donne.
L’organizzazione britannica che si occupa di diritti riproduttivi British Pregnancy Advisory Service (BPAS) gestisce un database di testimonianze di donne e persone che le accompagnano nelle cliniche per abortire. “La loro esperienza”, ha raccontato a Valigia Blu Rachael Clarke, responsabile staff della BPAS, “è che si sentono molestate ed è una situazione che provoca loro un grande disagio. Si sentono giudicate dalle persone che incontrano fuori dalle cliniche, e questo le fa sentire molto turbate riguardo alla decisione che stanno prendendo”.
“È anche una questione di privacy”, ha detto Clarke. “L’attenzione viene attirata su di loro, rendendo molto difficile l’idea di accedere a cure mediche private e riservate, perché la gente le osserva mentre arrivano e vanno via. In alcuni casi, temono di imbattersi in persone che conoscono, che stanno fuori dalle cliniche e che sanno che stanno andando ad abortire. Non importa che si tratti di preghiere ‘silenziose’, che vengano avvicinate da qualcuno o che vengano loro dati dei volantini. In ogni singolo caso, le donne ci hanno detto che queste azioni provocano loro un profondo stress e sentono di essere molestate”.
Greg Irwin, medico all’ospedale Queen Elizabeth di Glasgow dove a febbraio un gruppo di antiabortisti si è riunito per i “40 days for life”, ha riferito che questi manifestanti intimidiscono, molestano e turbano molto le donne che accedono alla struttura sanitaria e lo staff che vi lavora, e lasciano le persone in lacrime. Ad Albury, in Australia, le proteste dei gruppi anti-aborto che per anni si sono tenute fuori l’unica clinica della città che offriva l’accesso all’IVG avrebbero provocato profondi traumi e disagi alle donne, soprattutto adolescenti, che si erano rivolte alla struttura.
I manifestanti avrebbero anche fotografato, filmato e preso nota dei nomi delle donne che accedevano alla clinica, e una donna ha raccontato che i membri di un gruppo religioso hanno bloccato l’ingresso della struttura, l’hanno circondata e hanno iniziato a mostrarle immagini esplicite di bambini morti. La donna aveva scelto di abortire perché il feto presentava malformazioni e danni cerebrali e la sua vita era in pericolo.
Se i presidi davanti le cliniche che si occupano di salute sessuale e riproduttiva rappresentano un momento di turbamento per le donne che vogliono interrompere una gravidanza, il disagio può essere ancora più profondo per coloro che cercano supporto psicologico o consulenza, per quelle che abortiscono per un problema di salute o se le proteste si verificano di fronte un ospedale, dove le pazienti accedono per svariati motivi. Un’azione “colpevolizzante per la donna” è come ad esempio la Dottoressa Alessandra Kustermann ha definito l’affissione di un cartellone contro l’aborto di fronte la clinica ostetrico-ginecologica Mangiagalli di Milano nel 2019: “Era un brutto messaggio per le donne, sia per quelle che avevano scelto di interrompere la gravidanza, magari in seguito a una diagnosi prenatale patologica di anomalia del feto, sia per quelle che avevano avuto un aborto spontaneo”, ha ricordato Kustermann che della Mangiagalli è stata primaria fino allo scorso anno. Dall’altro lato, Claudia Hohmann, direttrice del centro di Francoforte preso di mira dal movimento “40 days for life” ha dichiarato che le pazienti si sentono ora anche intimidite nel chiedere assistenza.
L’evoluzione delle proteste e i legami internazionali
Se è vero, come dice ad esempio Kustermann riguardo al contesto italiano, che queste proteste ci sono sempre state, molti medici e attivisti stanno notando un’intensificazione e un inasprimento delle azioni.
“Dal 2014 abbiamo visto un aumento nel numero e nell’intensità delle proteste fuori dalle cliniche britanniche”, ha detto a Valigia Blu Rachael Clarke. “Prima di allora, invece, erano soprattutto gli anziani del posto a presentarsi e a pregare fuori dalle cliniche, ma erano solo loro e non avevano modo di coordinarsi. Dal 2014 in poi abbiamo assistito a una maggiore standardizzazione delle tattiche e a un maggiore coordinamento, e penso che questo sia molto legato alla crescita dei gruppi antiabortisti americani che hanno iniziato a lavorare molto all’estero. Abbiamo assistito alla crescita di varie organizzazioni internazionali fondate in America e gestite poi su base locale. Quindi ora si possono trovare persone della parrocchia locale che si presentano all’esterno delle cliniche, ma che ricevono finanziamenti da parte di qualche organizzazione americana. I manifesti, le candele, i siti web: si pubblicizzano tutti allo stesso modo. Adesso c’è molta più organizzazione e coordinamento”.
Il coordinamento a livello internazionale di cui parla Clarke è riscontrabile in gruppi come Helpers of God’s precious infants (“Gli aiutanti dei preziosi infanti di Dio”), fondato a Brooklyn e oggi molto presente nel Regno Unito e in Australia. Gli Helpers of God’s precious infants organizzano “veglie di preghiera” settimanali e mensili fuori dalle cliniche che forniscono servizi di IVG i cui partecipanti si dividono in coloro che pregano e coloro che si avvicinano alle donne che stanno per accedere alla clinica per convincerle a non abortire.
Compassion Scotland, invece, è stato fondato a maggio 2022 con l’obiettivo di supportare le proteste fuori dalle cliniche che garantiscono l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza in Scozia. Nonostante si descriva come gruppo indipendente, Compassion Scotland è stato accusato di ricevere finanziamenti o di essere in qualche modo collegato a gruppi contro l’aborto nazionali e internazionali, come Society for the Protection of Unborn Children, il primo gruppo antiabortista britannico, e Alliance Freedom Defence, organizzazione della destra americana che Southern Poverty Law Center ha definito come “gruppo d’odio” e che negli anni è stata sempre più presente e influente non solo nella politica americana ma anche in quella internazionale.
Molte delle proteste fuori dagli ospedali italiani, che sono spesso promosse anche da Pro Vita & Famiglia, vengono invece organizzate da Ora et Labora. Responsabile tra le altre cose dell’affissione del cartellone di fronte la clinica Mangiagalli nel 2019, Ora et Labora aderisce al movimento ’40 days for life’ ed è anche tra le associazioni aderenti alla Manifestazione per la vita che si terrà a Roma a maggio, a cui partecipa anche CitizenGO, organizzazione internazionale attraverso cui i principali gruppi americani anti-LGBT e antiabortisti sono riusciti a penetrare nella politica italiana.
I presidi organizzati da Ora et Labora fuori dagli ospedali vedono spesso anche la partecipazione del Comitato NO 194, che chiede l’abrogazione della legge 194 e che sul sito web si dichiara non pro-life ma antiabortista. Del Comitato NO 194 fa parte il Presidente della Camera dei Deputati Lorenzo Fontana, molto vicino anche alle associazioni che oggi rappresentano la “colonna portante del movimento contro i diritti riproduttivi e LGBT in Italia” e che hanno legami molto stretti con la destra e l’estrema destra italiane e i principali leader antiabortisti americani. Tra queste, vi è Pro Vita & Famiglia, nata dall’unione dei gruppi ProVita e Generazione Famiglia.
In Italia però i movimenti antiabortisti non si trovano solo fuori dagli ospedali, ma anche al loro interno. Il Movimento per la vita, uno dei più importanti gruppi contro l’aborto in Italia, è ad esempio presente in molte strutture sanitarie pubbliche attraverso i cosiddetti “Centri di aiuto alla vita”, che hanno lo scopo di convincere le donne a non abortire. Un volantino fornito in uno di questi centri che citava “i gravi rischi” dell’aborto è stato definito da Silvana Agatone, ginecologa e Presidente di Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’applicazione della legge 194/78 (LAIGA), come “una manipolazione dell’informazione senza alcuna seria base scientifica”. Il Movimento per la vita si definisce autonomo, ma sarebbe in realtà affiliato a Heartbeat, organizzazione cristiana nata in America e presente oggi a livello internazionale. Heartbeat opera sul territorio tramite i cosiddetti Crisis pregnancy centers, che, come i Centri di aiuto alla vita, hanno lo scopo principale di dissuadere le donne dall’abortire: per farlo, vengono ad esempio date informazioni false e pericolose, come il sostenere che l’aborto aumenti il rischio di cancro o che la gravidanza possa guarire da gravi malattie.
Il contrasto alle proteste fuori dalle cliniche
L’aggressività delle proteste fuori dalle cliniche che offrono il servizio dell’IVG ha portato alcuni aesi a stabilire le cosiddette “buffer zone”, ovvero zone cuscinetto in prossimità delle strutture sanitarie all’interno delle quali sono vietate le azioni anti-aborto. Queste zone cuscinetto sono state introdotte ad esempio in Australia, in Ontario, nell’Irlanda del Nord. In seguito a una lunga campagna per chiedere una legge che vietasse le proteste fuori dalle cliniche, a marzo anche l’Inghilterra e il Galles hanno approvato l’introduzione di zone cuscinetto. In Spagna invece intimidire o molestare chi entra in una clinica per un’interruzione volontaria di gravidanza è diventato reato lo scorso anno.
“Non puoi costringere nessuno a portare avanti una gravidanza per conto di un altro”, ha detto la dottoressa Kustermann a Valigia Blu. Anzi, “una gravidanza se non desiderata è equivalente a una malattia, può portare conseguenze psichiche devastanti. Bisogna sempre ricordarsi che non è vero che il non aborto è gratis, a volte è ancora più pesante”. Per questo, dice Kustermann, che si definisce non obiettrice da sempre, “Detesto il termine ‘pro-vita’, perché sembra che noi siamo pro-morte. Noi siamo pro-vita della donna”.
Immagine di copertina da “Catholic Parliamentary Office”
Ieri mattina Guido è uscito da casa più tardi del solito. Era stanco e non aveva voglia di prendere la macchina, andare in università a Trescia e fare esami di Storia. “Ciao Giada” mia ha detto mentre usciva e non si è nemmeno voltato per vedere se gli sorridevo. Di solito, lo fa sempre, odia aprire la porta, lasciando dietro di sé del malumore, ma ieri mattina non aveva proprio voglia di uscire, poi si è fatto forza ed è andato via senza voltarsi.
La settimana scorsa è morta sua madre dopo una brutta malattia, purtroppo. Sono andata anch’io a Trieste al funerale. La morte di un persona care è sempre un grande dolore. Una corda che si spezza e che non si riattacca più. Un pezzo di carne che viene tritato dalla macelleria della vita e che tale rimarrà. Nel dolore di una perdita c’è il troppo freddo, il troppo caldo, il troppo amaro, il troppo salato, lo smarrimento, la fuga, il rimpianto.
Guido, da persona introversa qual è, parla poco di questo evento drammatico appena avvenuto, ma io vedo i segni sul suo viso. È come se la sua mobilità facciale si fosse ridotta. Come se i muscoli ci mettessero troppo tempo a muoversi e, in questa strana lentezza, lasciassero passare un po’ di tristezza. Come se il dolore albergasse tra la carne e i nervi del suo volto e facesse capolino a modo suo.
Sono alcuni giorni che ha anche il viso stranamente rosso. Lui dice che ha preso il sole passeggiando con Reblanco (il suo cane) sul vialetto dei castagni, ma secondo me non è così. È un rossore da apprensione, da tensione. Il sangue circola molto veloce perché i battiti cardiaci sono accelerati dal dispiacere. La velocità sanguigna è più sostenuta del solito e il suo viso è contemporaneamente un po’ rallentato e un po’ arrossato.
Non vuole che gli si parli di malattie, dolore, morte, funerali, tombe e questo è comprensibile. Ne ha già sentite troppe di queste storie. Anche un suo fratello è morto e anche un suo caro amico, il professor Edo. Lo conoscevo anch’io, una cara persona.
L’ho guardato mentre usciva e non sono riuscita a sorridergli, tant’è … sarebbe stato inutile, lui non si è girato per vedere se lo facevo. Mi chiedo come si possa aiutare un uomo in un momento così difficile e poi penso che sia necessario fare dei distinguo a seconda della persona, del carattere, dalle esperienze e dalle aspettative.
Ognuno di noi ha un suo modo per rimanere ancorato alla vita quando muore un parente caro. Ognuno di noi trova un suo modo per riprendere a camminare con le sue scarpe di pietra sulle strade del mondo.
Ho visto che apprezza l’equilibrio, a maggior ragione adesso. Non vuole che nessuno lo guardi con compatimento e nemmeno che rida raccontando assurdità per nulla consolatorie. Credo che questo valga un po’ per tutti. Nelle buone relazioni (quelle che capiscono e imparano) ci sta la comprensione e la complicità e anche la capacità di trovare la giusta via, quella strada unica e un po’ accidentata che permette di camminare insieme senza troppo sforzo.
Così lo consolerò senza fare nulla di strano, proverò semplicemente ad esserci. Se parlerà lo ascolterò e se non parlerà non lo ascolterò. Penso che in un dolore grande si riattualizzino tutti i dolori già passati. È come se in un unico dolore si riaddensassero tutti gli altri diventando attuali, materia di esplorazione e rielaborazione. È come se col lutto attuale si dovessero rivisitare tutti gli altri con una nuova lente e una nuova onestà.
Posizionare una perdita nel cimitero interiore è come rimettere in fila tutti i grumi di dolore in una nuova collana che li assembla tutti e che permette una nuova comprensione. Grazie a questa nuova esplorazione rivisitiamo noi stessi: quel che siamo stati con le persone che sono morte, quel che siamo riusciti a comunicare loro, quanto siamo riusciti ad essere in sinergia, empatici. Attraverso l’empatia che le buone relazioni permettono, incontriamo gli altri e scopriamo noi stessi. Ritroviamo un nuovo mondo e insieme ritroviamo un senso.
L’elaborazione del lutto e di tutti i lutti che con lui si rivitalizzano, porta a un nuovo modo di sentire l’esistenza, di percepire il tempo che scorre, di accogliere la mancanza e la separazione. In momenti così difficili si può anche cogliere il vero senso della vita, oppure no. Si può sentire con forza la presenza di chi ci vuole bene, la speranza, oppure no. Non è di certo attraverso l’esperienza della morte che si perde la speranza, non necessariamente la si ritrova.
È invece attraverso l’esperienza della solitudine che ci si avvicina alla morte, a un senso di fine imminente che non prevede alcuna comunione umana. Ma questa è un’altra strada oscura, un altro dramma che si consuma ogni giorno davanti ai nostri occhi, perpetrato dalla nostra indifferenza, dalla indifferenza di tutti.
Sto pensando a cosa posso fare per far sorridere Guido. Credo che tanti “paroloni” non servano e che la mia complicità sia inutile da esplicitare. Credo che stasera scenderò le scale e andrò a prendere una pizza sotto casa mia, da Giacinto. Le pizze qui sono buone, le fanno anche dolci. Credo che ne prenderò tre. Due alle verdure e una con la crema di cioccolato. A Guido piace la pizza.
Poi prenderò una birra scura per lui e una lattina di aranciata per me. A me non piace la birra. Guido lo sa, anche se non ha mai smesso di stupirsene. Una volta, molti anni fa, ha insistito perché io provassi a berne una, era convinto che la mia repulsione per la famosa bevanda gialla fosse un rifiuto dovuto a un qualche blocco di tipo cognitivo. Ma non è così. Io odio la birra. Quella notte ho vomitato e, da allora, di birra non ne abbiamo mai più parlato. Lui la beve e io no.
Mi metterò un vestito panna con le foglie verdi e per una volta le maledette scarpe col tacco. Gli piacciono. Per quale motivo non dovrei fare qualcosa che gli piace, a maggior ragione in un momento come questo?.
Se le scarpe col tacco servono ad ancorare un po’ di pensieri al tempo presente e a sospenderli dal dolore, perché non lo dovrei fare? Quindi lo farò.
Penso a lui adesso e poi penso a molti anni fa, quando abbiamo cominciato a frequentarci. Quanto era tutto diverso, quanto era a volte bello e a volte brutto. Anche adesso è così, a volte è tutto bello e a volte tutto brutto. È la vita che è così, è il suo scorrere a volte lineare e a volte tumultuoso che è così. Siamo nel tempo e poi non ci saremo più. Siamo nella vita e poi la lasceremo.
Ho capito che bisogna massimizzare il tempo in cui ci siamo, che bisogna dare senso, verità e rigore a ogni attimo che viviamo, perché potrebbe essere l’ultimo o perché, al contrario, potrebbe essere l’ennesimo in una fila interminabile di piccoli attimi eterni.
Mi accorgo di essere stanca di questo mio pensare, di questo riflettere sulla morte, su Guido e su tutto ciò che questa ultima settimana si è portata via. Si è anche portata via un po’ del suo sorriso, bene prezioso e importante, bagliore nella nebbia e attimo che brucia come il fuco.
Vado in garage e prendo la mia bicicletta. Salgo in sella e poi pedalo verso il fiume. Nel pedalare ritrovo un ritmo, un modo di rimettere in sincronia il tempo con la vita, ogni pedalata un respiro e ogni respiro un po’ di tempo in più. Mentre pedalo verso il fiume, ritrovo un po’ di me.
Mi sorprendo a pensare al Lungone, allo scorrere lento di quel fiume largo e profondo che qui accompagna la vita di tutti. Ieri è stata a casa mia Costanza Del Re, la prima fidanzata di Guido. È venuta a fargli le condoglianze. Mi sembra che Guido abbia apprezzato. Sempre molto gentile Costanza.
Sono stati un po’ a parlare seduti sulle sedie di vimini del mio balcone. Parlavano a bassa voce un po’ piegati in avanti per sentirsi tra loro. Devono aver parlato di vicende passate, di quel loro amico comune morto giovane. Una morte che li ha lasciati sgomenti e che ha consolidato la loro amicizia.
Condividono un dolore, un senso di abbandono e di riunione che durerà per sempre e che li riporta allo stesso sorriso, alle stesse mani belle che si muovevano sul sofà di via Santoni Rosa. Dopo la morte di Tito la vita di Costanza non è più stata la stessa e Guido lo sa. Anche Guido conosceva Tito ed è questo che ha creato tra loro un ricordo condiviso e perenne, una forte complicità.
Continuo a pedalare verso il fiume. Guardo l’acqua del Lungone che scorre silenziosa e che porta via tutto. Porta via il tempo del dolore e quello del rimpianto, porta via la sofferenza e anche la pietà. Mi fermo, scendo dalla bici, mi avvicino all’argine guardo l’acqua da vicino.
L’acqua riverbera il viso di Guido i suoi occhi neri e il suo sorriso. Riverbera anche i suoi pensieri e le sue arrabbiature. Penso che lo amo così com’è e che darei qualunque cosa per vederlo sereno anche adesso che è quasi impossibile, soprattutto adesso che è quasi impossibile.
Poi ripenso alla pizza, alla birra, alle scarpe coi tacchi. Forse tutto questo un sorriso porterà, forse un po’ di buio lascerà spazio all’alba e il cielo si rischiarerà. Forse dovrei scrivergli che mi dispiace per quello che è successo, che la vita continuerà. Forse dovrei scrivergli che nella morte c’è molto distacco ma anche la pace eterna, che il Paradiso aspetta tutti e che prima o poi anche lui lo vedrà.
Ma per fare questo ci vorrebbe Costanza Del Re che fa la scrittrice di professione. Io purtroppo non sono brava a scrivere quel che penso e quel che sento. Risalgo in sella e ricomincio a pedalare. Non so stasera cosa riuscirò a dire a Guido.
Forse gli dirò “Mi dispiace” e forse una parola basterà e poi mangeremo la pizza e con lei un po’ di tempo leggero tornerà.
Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]
Quanto è accaduto a Pasqua, il senso e le ragioni più intime di questo evento cruciale per la storia dell’uomo restano nascoste in Dio. E tuttavia non ci sfugge del tutto la forza di questo amore vittorioso sulla morte, dell’innesto di una nuova vita per ferita nel vivere umano reso sterile da una malvagità mortale, come quando s’innesta un pollone fruttifero, un buon virgulto, in una pianta selvatica. Il mistero di questa polla segreta si riversa nelle pieghe della storia, e da quella frattura sorgiva continuano a fluire e riverberarsi, riflettendosi nell’acqua, le tracce dei passi di Gesù risorto, come a proseguire quelle lasciate dal Padre sul Mar Rosso (nel Salmo 77): «Ti videro le acque, o Dio, ti videro le acque e ne furono sconvolte; sussultarono anche gli abissi. Sul mare la tua via, i tuoi sentieri sulle grandi acque, ma le tue orme rimasero invisibili». Ne troviamo traccia nei fatti accaduti allora: le donne che arrivarono al sepolcro scoprendolo vuoto; gente che si credeva ormai priva di speranza ritrova una strada; l’angoscia iniziale si dilegua di fronte al nulla fino a intuire, in quella fine del nulla che resta, un nuovo inizio.
Accadde la Pasqua nei suoi amici, così li aveva chiamati prima della sua passione. Dalla paura germogliò una gioia grande; dalla rassegnazione sgorgò una fede dapprima incredula, incespicante, poi balbettante e, a poco a poco, capace di annunciare con la stessa vita ciò che era accaduto loro: l’uscir fuori nel silenzio della notte come da candida crisalide ‒ non più che un lenzuolo funerario ‒ lo Spirito del Risorto nella sua carne gloriosa, datore di riconciliazione e di vita, che li saluta: “Pace a voi, venite, guardate, sentite, toccate le ferite, sono proprio io, non un fantasma. Avete qualcosa da mangiare?”. E poi il coraggio di ripartire ancora oltre i confini d’Israele: «non portate borsa, né bisaccia, né sandali. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa”» (Lc 10,4). Ma non si fermò tutto in quel giorno.
Le orme impresse dallo Spirito per configgere Gesù Cristo ‒ come direbbe Francesco d’Assisi ‒ “in interiore homine”, hanno continuato a lasciare traccia nella trasformazione delle coscienze delle donne e degli uomini che sono venuti dopo, trasfuse nelle forme nascenti e aurorali di un nuovo stile di vita personale, sociale, religioso. Altri passi generativi di nuove storie di morte e risurrezione, di liberazione e di fraternità nei luoghi della schiavitù e dell’inimicizia. Come innesti vigorosi e fruttiferi su rami secchi o tagliati dell’umano vivere che nel momento in cui vengono percossi, feriti da quella salutare incisione, da quella stessa Pasqua, ne sono stati risanati. Guarisce così l’arbusto selvatico dalla sua sterilità di amore, e il suo futuro sarà come quello dell’ulivo cantato nel Salmo 52: «un olivo verdeggiante nella casa di Dio è chi confida nella sua fedeltà per sempre». Si diffonde e dilaga questa buona notizia ‒ come ci preannunciò il profeta Osea ‒ un vangelo per tutti ad un tempo attraente e fragrante: «si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’olivo e la fragranza del Libano» (14, 17).
Anche Paolo, l’errante tra le genti, nella lettera ai Romani ricorre alla metafora dell’innesto nell’ulivo per ricordare ai cristiani venuti dalle genti che la loro elezione in Cristo, mediante il dono pasquale del battesimo, va considerata come un trapianto nel buon ulivo dell’elezione di Israele. Elezione che resta indefettibile e non è andata perduta nemmeno con il rifiuto di quel virgulto cresciuto in terra arida. Anzi fu proprio grazie a quel rifiuto ‒ dirà ancora Paolo ‒ da quella spaccatura che fuoriuscì un’alleanza per tutti i popoli, accolti nell’alleanza primigenia e mai revocata con Israele.
Per questo i pagani, divenuti cristiani, dovranno guardarsi ‒ è ancora Paolo ad ammonirli ‒ dal disprezzare la radice da cui loro stessi hanno avuto vita e bandire ogni presunzione nei confronti di Israele. «Se alcuni rami sono stati tagliati e tu, che sei un olivo selvatico, sei stato innestato fra loro, diventando così partecipe della radice e della linfa dell’olivo, non vantarti contro i rami! Se ti vanti, ricordati che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te. … Se sei stato innestato su un olivo buono, quanto più essi, che sono della medesima natura, potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo!», (11, 17-18; 24).
Non diversamente si esprime anche Cirillo di Gerusalemme (313-386) nelle sue catechesi mistagogiche sul battesimo: «Recisi dall’oleastro siete stati innestati nell’ulivo buono e siete divenuti partecipi dell’abbondanza dell’ulivo. L’olio simboleggia la partecipazione all’abbondanza del Cristo che mette in fuga ogni traccia di potenza avversa. Egli è stato unto dell’olio spirituale di esultazione, cioè dello Spirito Santo chiamato olio di esultazione perché è l’autore della gioia spirituale. Voi siete stati unti di balsamo divenendo partecipi e compagni di Cristo», (Le catechesi ai misteri, 62-63; 68).
Ulivo gioioso e olio di letizia è Gesù a Pasqua. Nel testo di Isaia letto proprio da Gesù nella sinagoga di Nazareth (Lc 4, 18) che ispirerà e guiderà il suo ministero tra la gente per tre anni ‒ parole programmatiche di un annuncio e di una missione di consolazione ‒ l’olio ha la funzione di unire la sua persona con la sua stessa missione, quella dell’unto di Dio, il Messia: «Lo spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati» (Is 61,1-3). Lo stesso testo ci ricorda anche che la guarigione avviene mediante l’unzione con olio gioioso: «per allietare gli afflitti di Sion, per dare loro una corona invece della cenere, “olio di letizia” invece dell’abito da lutto». È “l’ulivo di unzione in misericordia” evocato da santa Caterina Vegri del nostro Corpus Domini di Ferrara, nel testo mistico I dodici giardini.
Il Cristo, a Pasqua, non è però solo l’unto del Signore, il suo Messia. Egli è l’«ulivo bello» riemerso dalle acque del diluvio, portato dallo spirito a Noè, il cui nome significa consolazione, riposo, conforto: «sul far della sera ecco la colomba aveva nel becco una tenera foglia di ulivo» (Gn 8,10). Il più bello tra i germogli di umanità, diffusa è la grazia sui suoi rami, benedetto per sempre da Dio; procedono da lui verità, mitezza, giustizia; le sue vesti son tutte mirra, aloè e cassia (Sal 44); vittorioso sull’ombra di morte, perché le sue grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo (Ct 8,7).
Nel diluvio, l’ulivo e le altre piante non furono risparmiate, ma sommerse e travolte da onde impetuose. Esse tuttavia riemersero di nuovo al riemergere della terra nuova, come una rinascita. Forse fu per il loro spirito generoso, mite e innocente simile a quello del Servo del Signore cantato dal profeta Isaia: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca» (Is 53, 7). Del resto gli alberi non restituiscono nessuno dei colpi che vengono loro inferti, ma profumano di resina o di balsamo la scure che li recide. Non diversamente accadde a Gesù, la cui fragranza fluisce come olio profumato, lucente proprio quando viene percosso, privato dei suoi frutti come la bacchiatura delle olive (baculum /bastone). Come l’ulivo egli è un resistente e resiliente nella pratica della “satyagraha”, la “resistenza passiva”, o meglio letteralmente “insistenza per la verità”. Una resilienza nella verità che ben si coglie nell’interrogatorio di fronte al sommo sacerdote che gli chiedeva del suo insegnamento, quando Gesù rispose di aver parlato apertamente e insegnato in sinagoga e al tempio, tanto da invitarlo a interrogare quelli che l’avevano ascoltato: «Aveva appena detto questo, che una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: “Così rispondi al sommo sacerdote?”. Gli rispose Gesù: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?”» (Gv 18, 22-23).
Nel romanzo di Grazia DeleddaIl fuoco nell’uliveto viene rappresentato il dramma del venir meno dei rapporti tradizionali di coesione familiare in ambito etico, sociale e religioso. Si descrive pure, con cruda aderenza alla realtà, la crisi e il processo di trasformazione e rinnovamento percorso per fuoriuscire da un passato antico verso una condizione germinale: il tutto non senza lacerazioni tragiche come quelle evocate, per l’appunto, dall’incendio tra gli ulivi: «C’è il fuoco nell’oliveto. Brucia la casa, bruciano gli olivi intorno: anzi la casa è già bruciata… Agostino e altri uomini accorsi tagliano le piante per fare uno spazio libero intorno all’incendio perché questo non si estenda». Ritorna qui l’avanzare doloroso ma irresistibile della vita, che urge anche in modo violento per trovare vie di uscita nel passato che la trattiene e rinchiude. Si sperimenta qui, come a Pasqua, l’urto tra vecchio e nuovo; tra ciò che non vuol morire e tenta di impedire un nuovo nascere. Qui, tra pessimismo e di-speranza tutto il dramma di una salvazione che per essere vera deve passare oltre.
La Pasqua non è di un solo giorno, ma mistero di transito di ogni giorno. Di qui l’attributo di transiliens, il ‘passatore’, conferito a Gesù, colui che passa oltre, che fa Pasqua. Un’espressione che si trova nei salmi e viene spiegata da Sant’Agostino: «Questo salmo è cantato dal transiliens. Da colui che non domanda a Dio nient’altro che lui stesso, che ama Dio gratuitamente». Lo ricalca quasi alla lettera Ruperto di Deutz, per il quale «Questo salmo è cantato dal transiliens – l’incipit è identico a quello del vescovo d’Ippona – e cioè da colui che oltrepassa tutto per non desiderare altro che Dio con tutta la sua volontà e la sua retta intenzione».
L’ulivo è l’albero della Pasqua. Prediamo le sue foglie brunite di un verde scuro ombroso, da un lato; dall’altro bianche, argentee, luminose e risplendenti al sole. In esse poi il vento genera un movimento continuo ed esse passano così dall’oscurità alla lucentezza simile ad un varco, quello che attraversando la morte approda alla vita come nel passaggio della Pasqua.
Albero della Pasqua è l’ulivo perché egli può anche essere paragonato a un “pozzo di luce”. C’è sempre un balenare di luce tra i suoi rami e le sue fronde, per l’aria che sempre l’attraversa anche nell’oscurità più profonda, restano luminose. Fa luce non solo all’intorno ma ‒ quale meraviglia ! ‒ la luce scende lungo i rami, dentro alle cavità contorte dello stesso tronco fino a raggiungere le radici. Come a Pasqua la luce raggiunge quel fondo senza fondo del pozzo di tenebra e di morte che è stato il sepolcro di Gesù, da cui è uscito, da oriente a occidente, l’Altro sole.
Così provo anch’io a pregare come un ulivo, avvalendomi di un testo poetico di padre Agostino Venanzio Reali, come un “bacio degli ulivi al sole”, che al tramonto passa oltre nella Pasqua di ogni giorno.
Se non torni con noi
la terra si oscura,
e mirare il verde degli ulivi
è tristezza se non torni
sul giumento a recar pace
alle case alle contrade.
(Primavere, 88)
Ti cerco, mia luce,
non voglio appartenere alla notte.
Mi vien dietro la morte
quando tu sei via
e nel silenzio l’anima
si tende all’ascolto
come sposa sola.
Non siano le tue labbra mute,
tu che desti una voce a ogni cosa;
dischiudimi la mente alla preghiera,
allungami il cavo della speranza,
tu che pendesti alla croce per me.
Volgendomi alla mia traccia
tremo come locusta
in un esausto sole di stagnola.
Oltre la soglia amata
la luce delle colline
la rugiada dei pleniluni
i miei occhi ti aspettano,
non paghi di simboli,
sul diaframma del mondo.
Il sole cade svenato
fra scolte di cipressi
baciato dagli ulivi
che si estollono a gara
a vederlo morire,
esangue rosa sul mondo
(Nostoi/ritorni, 73).
Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]
L’università italiana è malata di competizione. Periscopio ha già ospitato (qui) un commento al discorso che Alessandra De Fazio, presidente del Consiglio degli Studenti di Unife, ha fatto al Teatro Comunale, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico cui era presente, tra le autorità, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Il discorso ha toccato temi già affrontati nel 2021 da tre studentesse della Normale di Pisa, durante la cerimonia di consegna dei diplomi di laurea (leggi qui). De Fazio ha smascherato il mito della meritocrazia: una parola dietro la quale si cela un sistema basato sulla pura performance in unità di tempo. Ha denunciato il sistema delle borse di studio, “molto complesso a causa di sbarramenti burocratici, socio-economici e soprattutto meritocratici. Ma badate bene, ci viene data la possibilità di redimerci dalla nostra condizione di povertà, come fosse una colpa, a patto di esserne meritevoli, conseguendo risultati eccellenti entro periodi di tempo cadenzati e ristretti, tutto allo scopo di misurare quanto siamo performanti e catalogarci giusti articoli di una intensa produzione con il risultato di generare grandi bilanci sacrificando il benessere e la qualità del percorso accademico”.
Quindi: eccellenza (non buoni risultati), in tempi strettissimi (si impara una materia primaria studiandola 20 giorni e notti, o si passa un esame? a quale prezzo psicologico?) e da poveri (se non hai un Isee da indigente non hai diritto alla borsa).
“Si pensa banalmente che il merito possa essere un criterio equo, sostituto del vecchio privilegio del quale invece ha ereditato tutto il divario e la disparità, ma con una mutazione acquisita: l’ipocrisia. Le borse di studio sono un ricatto. Se tutti abbiamo lo stesso diritto perché qualcuna dovrebbe essere costretta a tenere tempi più serrati solo perché è più povera? Il sistema universitario è classista”.
De Fazio non denuncia semplicemente che le “pari opportunità” valgono solo per chi è povero in canna e, in quanto tale, deve dimostrare di essere un genio.
Quando parla del disagio mentale di chi non performa abbastanza per uscire dal mucchio e diventare un ‘povero che ce l’ha fatta’, dice qualcosa di più profondo, in cui risuona l’eco delle idee del professor Vittorio Pelligra, quando afferma: “(la meritocrazia) si basa su due assunzioni, verosimili, ma false entrambe: la prima, che i meriti individuali siano evidenti, facili da identificare, classificare – tu più, tu meno – e da ricompensare. La seconda, falsa anch’essa, che il mercato, e, più in generale, la logica della competizione, sia il meccanismo più efficace nel riconoscere e premiare tali meriti”. Mitizzare la meritocrazia significa spesso travestire con un abito figo una riproduzione familista della classe dirigente, come quando ancora Pelligra dice: “Il problema… non nasce quando desideriamo che la persona più capace diventi il neurochirurgo che vorremmo ci operasse nel caso ne avessimo bisogno, ma quando l’ideologia meritocratica rende più probabile, per il figlio di quel chirurgo, diventare quello stesso neurochirurgo per qualcun altro e quando questo, di conseguenza, rende più difficile ai figli di altri, indipendentemente dalle loro capacità, provare a diventare quello stesso chirurgo e, che, infine, questi privilegi ereditari vengano giustificati sulla base dei concetti di merito e demerito.” (leggi qui l’articolo di Periscopio che cita diffusamente il lavoro del prof. Pelligra).
Non la vedete attorno a voi questa riproduzione classista e familista? Quanti stimati chirurghi, notai, manager sono figli di un carpentiere, di una donna delle pulizie, di un manovale? Uno su mille ce la fa, cantava Gianni Morandi: una frase, nella sua semplicità, più aderente alla realtà di tanti slogan ottimisti sui “capaci e meritevoli” che vogliono e, quindi, possono. No, la stragrande parte vuole ma non può, e non potrà né oggi né mai.
Naturalmente un arrivato come il deputato Luigi Marattin, laureatosi a Ferrara, anch’egli presente tra le autorità, non ha perso l’occasione di stigmatizzare, su un quotidiano locale, le parole di De Fazio, scrivendo che “non ha voluto neanche ragionare più approfonditamente sul concetto di meritocrazia”.
E’ vero esattamente il contrario: quando Marattin fa la caricatura di De Fazio, descrivendola come una che vagheggia “un mondo in cui ci sono solo diritti e nessun dovere”, fa un’affermazione talmente superficiale da offendere persino la propria, di intelligenza.
Presentato oggi il documentario sulla compagnia dialettale La Straferrara: una straordinaria avventura di 90 anni, memoria storica da salvare. Abbiamo incontrato Stefano Duo, il suo ideatore.
Una compagnia teatrale dialettale affiatata e unita che ha oltre 90 anni, un successo dopo l’altro per un caso unico in Italia: la stessa famiglia l’ha gestita fin dalla sua creazione.
È la Straferrara. Fondata il 14 agosto 1931 da Ultimo Spadoni, Mario e Piero Bellini, Renato Benini, Leonina Guidi Lazzari, Arnaldo Legnani, Umberto Makain, Norma Masieri, Erge Viadana, lo stesso anno, il 3 settembre debutta al teatro dei Cacciatori di Pontelagoscuro con la commedia Padar, fiol e …Stefanin e la farsa L’unich rimedi, scritte entrambe da Alfredo Pitteri. Da allora, con un esordio da ‘tutto esaurito’ e un incasso di 716 lire, inizia la carriera di questa fantastica avventura: si calcano i palcoscenici del cinema-teatro Diana, dei teatri Nuovo e Verdi di Ferrara fino a quelli del Rasi di Ravenna, del Duse di Bolognae del Regio di Parma.
Durante la Seconda Guerra Mondiale la compagnia continuò la propria attività, pur sotto le incursioni aeree: il 23 aprile del 1945, la Straferrara fu sorpresa dalla prima granata caduta sulla città al teatro Diana dove stava rappresentando A la bersagliera, di Alfredo Pitteri. Portava lo svago agli sfollati in provincia e cercava di mantenere alto il morale di una popolazione stanca e provata. Onore al merito!
Nelle cronache di quel periodo molto citata e apprezzata è ‘Cici’ Rossana Spadoni, figlia del fondatore della compagnia, che a cinque anni era considerata una bambina prodigio, chiamata la Shirley Temple italiana.
La Straferrara approdò a Roma nel luglio 1942 per il concorso nazionale delle compagnie minime di prosa svoltosi al Teatro delle Arti dove presentò due opere in lingua: Fuori dal nido, di Eligio Possenti e L’ombra, di Dario Niccodemi. Un buon risultato la fece annoverare tra le compagnie sovvenzionate dallo Stato. In occasione della trasferta la scrittrice Flora Antonioni dedicò a ‘Cici’ Rossana Spadoni una delle sue “lettere romane” che scriveva per Il Resto del Carlino. Una recita, in cui scrive, “fai piangere gli uomini perché sei davvero un’attrice, un’attrice nata che giustamente vuol fare cinema e quando ti troverai a recitare di fronte a un regista, anche il più glaciale del mondo, lui dovrà cercare il fazzoletto per asciugarsi una lacrimuccia e ti prenderà in braccio, commosso, per dire che sei una stella. Un’italianissima stella”.
I successi continuano: il primo premio assoluto al concorso regionale dei complessi dialettali emiliani al teatro comunale Giuseppe Verdi di Busseto (1963), un premio alla rassegna nazionale di Faenza al teatro Masini (1963), fasti rinnovati dalla direzione di Beppe Faggioli, genero di Spadoni (marito di ‘Cici’), che vi subentra nel 1966.
Ricordiamo anche il premio Masi-Recchi ricevuto dalla Camera di Commercio locale (1976) e un premio alla carriera attribuito Beppe Faggioli dall’Associazione Stampa di Ferrara (1996). Passando per il 1992 (anno in cui la compagnia porta alla luce, al Teatro Comunale di Ferrara, Madonna Frrara ch’è vvgnù in Villa, un manoscritto di ignoto del XVII secolo che giaceva ignorato nella Biblioteca Estense di Modena dove fu trovato tra carte inedite estensi dal prof. Alfonsi Lazzari) fino ai giorni nostri (l’ultimo spettacolo è Pez da 90, rappresentato al Comunale di Ferrara a novembre 2022).
Oggi, a raccontare questa compagnia dialettale un documentario, “90 anni di applausi – LaStraferrara”, diretto da Mattia Bricalli e ideato da Stefano Duo, che ha vissuto la compagnia negli ultimi venti anni. Stefano, cantante, chitarrista e attore, vuole soprattutto rendere omaggio a ‘Cici’. È il suo regalo.
Gli abbiamo chiesto come ha iniziato il suo idillio e bel sodalizio con La Straferrara, come è nato il progetto e con quali motivazioni e obiettivi.
“Quando giravano a Ferrara molte produzioni chiamavano la compagnia”, ci dice Stefano Duo, “Nel 2003, mi trovavo sul set diBaciami piccina, di Roberto Cimpanelli, avevo una piccola parte, una figurazione speciale e interagivo con Neri Marcorè. Non pensavo di certo a fare teatro, non ho memoria, ho sempre ritenuto che sia meglio il cinema, si girano piccoli pezzi e poi si montano. ‘Cici’ Spadoni si trovava lì e, vedendomi, ha chiesto di me. Voleva che facessi parte della compagnia. Le ho detto che proprio non me la sentivo, ma mi ha obiettato che avevano il suggeritore e che non mi dovevo preoccupare. Da allora ho iniziato a recitare con la compagnia e dopo un anno avevo all’attivo sei commedie. Mi hanno accolto a braccia parte, oggi vi sono veramente affezionato”, conclude.
Il progetto di raccontare questo percorso così importante per la città nasce non solo dall’affetto e dalla stima per la persona di ‘Cici’ Spadoni ma anche per la volontà di valorizzare l’immenso patrimonio che la signora detiene. “’Cici’ ha tutti i calendari degli spettacoli, i registri scritti a mano, con le parti, gli attori e i loro compensi, dal 1933. C’è la storia, racchiusa in questi documenti”, ci racconta, “tutti i carteggi sono tenuti da lei, si trovano a casa sua. Vanno conosciuti e preservati”.
“Alla compagnia, poi non è mai stata data una sede”, ci dice Stefano Duo, “ma è una vera istituzione e meriterebbe un valido riconoscimento, chissà che con il documentario non si apra qualche strada…”. Dietro ci sono quindi anche l’idea e la speranza che l’amministrazione comunale ne voglia fare un piccolo museo. Si tratta di un patrimonio della città. E, non da ultimo, il desiderio che alla compagnia si voglia, finalmente, dare una sede.
“Il sogno sarebbe anche quello di uscire da Ferrara”, continua, “di portare il dialetto ai giovani, e poi questa attività è fatta non solo di tanto palcoscenico ma anche di scuola”. E di scuole che fanno teatro dialettale, a parte la Tréb dal Tridèl, Cenacolo di Cultura dialettale ferrarese fondata, nel 1980, da Roberto Musacchi, non ve ne sono molte.
Prima del Covid, alla Sala Estense, da dicembre a marzo, ogni domenica pomeriggio vi era uno spettacolo della Straferrara. Ricordiamo anche noi i cartelloni colorati. L’epidemia ha fermato e rallentato tutto. Fino a Pez da 90. Oggi la compagnia, che da sempre si autofinanzia con gli spettacoli, è formata da una ventina di persone.
“Il dialetto si sta perdendo”, dice Stefano, “era importante fare un documentario, dove lo spettatore troverà interviste ma nessun audiovisivo dell’epoca, che manca totalmente negli archivi. Siamo partiti solo da copioni e foto. Abbiamo raccontato di ‘Cici’ quando passeggiava sul Listone, siamo entrati nel magazzino dove sono conservati i vestiti di scena, siamo stati ospiti del suo salotto, prendendo un thè in sua compagnia. Al nostro intervistatore, Guido Sproccati, lei si racconta come un fiume in piena, è inarrestabile”.
Il documentario di 50 minuti è nato quindi dagli archivi di questa artista unica e poliedrica, dalla bacheca di riconoscimenti che custodisce gelosamente, dai suoi racconti e dal libro di Maria Cristina Nascosi Sandri, biografa ufficiale della compagnia.
A Stefano piace ancora ricordare che le commedie della Straferrara sono state scritte anche da matrici diverse, italiane e straniere, poi recitate in dialetto. Sono storie, spaccati di vita dell’epoca, quando si voleva far ridere e sorridere senza cadere nel volgare.
La compagnia ha attraversato il Ventennio fascista, facendo piuttosto varietà, perché l’uso del dialetto era, per usare un eufemismo, osteggiato.Dialetti e lingue minoritarie erano visti come potenziali forze centrifughe e quindi contrastati con misure di unificazione forzata. L’avversione ai dialetti fu dettata dal timore che alimentassero spinte regionalistiche e localistiche. Il divieto di impiego dei dialetti fu rigido nella stampa, nella letteratura e nel teatro, mentre per non perdere il consenso delle masse dialettofone si praticò maggiore tolleranza nel cinema, specie durante la guerra.
Ma la compagnia continuava, con cautela. Recitava sotto i bombardamenti, non si è mai fermata, ci si gettava nei fossi durante la pioggia di granate. Si correva con i costumi.
Tanti gli aneddoti nel documentario: un’attrice non sapeva andare in bicicletta e allora veniva trasportata su un carretto; durante i bombardamenti c’erano buchi per le strade dove ripararsi. Al ronzio dell’aereo da caccia Pippo – o, meglio, degli aerei notturni perché erano numerosi -, i più pericolosi perché arrivavano senza allarme e mitragliavano a caso, tutti giù, nascosti in quei buchi, ma a un certo punto, un comico grida “occupato” … E tanto altro. Non ci si è mai persi d’animo, bisognava lavorare per rallegrare.
A ‘Cici’, quando parla, oggi trema leggermente la voce, in fondo è timida e si emoziona a tanti ricordi. Da perplessa, all’inizio di questa avventura, a felice, quando vede la sua storia sullo schermo. Perché è importante dare emozioni, interpretare. E lei lo ha fatto per tanti ferraresi e non. Per lungo tempo. Buona visione.
Il documentario verrà proiettato in prima visione al Cinema Apollo Cinepark, il 12 aprile 2023, alle ore 21, al costo simbolico di 5,00 euro. Al termine della proiezione Rossana Cici Spadoni e gli attori saranno a disposizione del pubblico per domande e curiosità.
90 anni di applausi – LaStraferrara, diretto da Mattia Bricalli,ideato da Stefano Duo, con Rossana ‘Cici’ Spadoni, Guido Sproccati, Stefano Duo, Maria Cristina Nascosi Sandri, Italia, 2023, 50 mn.
Cover: Rossana ‘Cici’ Spadoni in scena al Teatro Comunale Abbado di Ferrara nella commedia “Pez da 90”, novembre 2022 Tutte le fotografie sono di Valerio Pazzi
Nel 2005 erano 1,9 milioni i “poveri assoluti”, nel 2021sono cresciuti a 5,6 milioni(2,3 al Nord; 2,5 al Sud; 819mila al Centro,fonte Istat). Con l’alta inflazione del 2022 e quella del 2023 sono saliti (oltre 6 milioni?).
Ora il Governo taglia il sussidio principale ai poveri, il Reddito di Cittadinanza, da 8 miliardi a circa 5, riducendo lasoglia Iseeper ricevere l’aiuto (da 9.360 euro annui a 7.200) e, per chi è “occupabile”, (anche se non gli viene offerto il lavoro)da 500 euro mensili a 375. Ai ceti medi, colpiti anch’essi da inflazione e più redditi, si offre di colpire gli “ultimi” anziché i ricchi.
Per essere “povero assoluto” il reddito mensile deve essere inferiore a 853 euro(se si vive in una città metropolitana al Nord), e a 577 euro se si vive in un’area debole del Sud (redditi 2021). Istat considera il potere d’acquisto che varia del 33% tra le metropoli del Nord e i piccoli paesi del Sud.
I “poveri relativi” sono invece cresciuti da 10,1 a 11,2milioni (in due si deve avere un reddito inferiore a 1.040 euro in media).
Nel frattempo anche il welfare (sanità e scuola) si è ‘deteriorato’.I figli di genitori senza diploma si laureano solo nell’8% dei casi. I giovani accedono alle droghe in età sempre più giovane con gravissime conseguenze e la nuova scuola digitale rende tutti più analfabeti e dipendenti. Ciò avviene nel periodo della storia in cui è massimo l’aumento di ricchezza.
E non è vero che l’occupazione cresce, è circa agli stessi livelli del 1990.
Ciò che cresce sono solo soldi (per pochi) e diseguaglianze. L’Italia ha un tasso di diseguaglianza (41,6 Gini, fonte Istat) simile a quello Usa, ma ci sono paesi in cui è quasi la metà (Svezia, Danimarca, Finlandia, 29-27).
In questi paesi welfare e sussidi sono forti (oltre ad esserci più lavoro). Per fare un esempio, una donna con 2 figli percepisce 1500 euro al mese se non guadagna nulla, e 800 euro se ne guadagna 600 al mese.
Basterebbe far pagare le tasse in modo progressivo a tutti o quelle di successione ai ricchi come avviene in UK, Germania, Francia o in Usa dove una settimana fa l’Agenzia delle Entrate ha riscosso 7 miliardi di dollari dal decesso di un miliardario(più o meno quanto costa allo Stato italiano il Reddito di Cittadinanza per gli attuali percettori (2,1 milioni), pari a un terzo dei “poveri assoluti”.
“Ogni cosa ha la sua bellezza, ma non tutti la vedono.” (Confucio)
I
Chissà se potresti capirlo
guardando quella foto,
se lo accenna o lo confessa
la piega scontrosa del sorriso,
o il braccio magari, se spunta
nella presa un’insidia di fine
senza tentennamenti,
se il quadretto domestico
ha un risvolto livido –
interrompiamo un attimo
il respiro per dirvi – se si nota
la cravatta atta ad allentarsi,
l’orologio al polso che
svela la durata, e l’età allora
delle bambine, troppo distratte
per sentire la voce premurosa
che si affaccia dal portone:
ora del decesso, adesso.
II
Negli anni ho provato a osservarti
da un’altra prospettiva – da dietro
vince ancora la parabola del corpo.
Una falce puntata sulla schiena, dici.
Sei seduta sulla soglia della finestra,
di fronte, la collina vuota e bruciata – mi vedi?
“quando luglio è ardente, miete lesto”,
la macchia di silenzio si allarga nella testa,
ma è solo la metà di te che vuole andare.
O forse sono io, così è consolazione.
Ti racconterò di Deiva, della sera
lenta e rosata che sale su dal mare,
al telefono non parli – allora è vero,
niente può essere mosso nel passato.
Resta il fermo immagine, lo scatto
in cui il tempo si congeda dal tempo,
la lotta con la memoria che ingombra
– cose senza peso, i fermagli, i coralli
della spilla, la moka per due, la foto
nel cassetto dove tua figlia sembra affievolirsi.
Non avremo una parola per riconoscerci.
III
Scrivere di te vuol dire sondare
il mio silenzio, ascoltarlo dal fondo
di un pozzo in cui ristagna una pellicola
bagnata col tuo volto
lasciare che rimbombi
il mio trauma, la trama di paura
di cui sono fatta.
Cristina Simoncini (1966) è nata a San Giovanni Valdarno, ha pubblicato su molti blog e riviste online, da poco anche su carta.
La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]
di Marco Revelli Questo intervento è stato pubblicato su Volere la lunadel 1 aprile 2023
Ignazio Benito La Russa ha dato un altro violento colpo di piccone alla Repubblica democratica sulla cui Costituzione ha giurato. La seconda carica dello Stato, ostentando un misto di ignoranza storica, fanatismo nostalgico, disprezzo istituzionale con quell’indecente commento su via Rasella, ha inferto un danno gravissimo, d’immagine e non solo, al Paese che dovrebbe servire “con onore e dignità” e all’Ufficio che così indegnamente ricopre e da cui dovrebbe immediatamente dimettersi.
Ma non è un unicum. Da quando è nato, il governo Meloni ha infilato, a una media di quasi uno al giorno, una serie di atti, dichiarazioni, atteggiamenti tutti egualmente improntati alla insistita ostentazione di sentimenti nostalgici del passato Regime, ispirati al suo autoritarismo, alla sua disumana concezione delle relazioni con gli altri (si pensi alla tragedia di Cutro e al suo seguito, di cui su Volere la luna si è già ampiamente trattato), alle sue peggiori retoriche: si veda la proposta di legge del “fedelissimo” Rampelli di sanzionare con multe fino a 100mila euro chi si macchi del reato di stranierofilia usando parole “non italiane” (sic), o l’uscita di quell’altro genio che vorrebbe introdurre nelle scuole l’insegnamento dell’uso delle armi, magari pensandosi in linea con gli ultimi orientamenti NATO. D’altra parte l’incapacità congenita della premier Giorgia Meloni, nell’anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, a usare la parole “anti-fascisti” la dice lunga su cosa lavori nel DNA di questo ceto politico.
Ci si interroga da più parti sul motivo di questa straordinaria gittata di ciarpame anacronistico, fino a ieri confinato nell’angolo oscuro dei raduni di reduci e delle sezioni missine e oggi venuto alla luce del sole come gli umori di una discarica a lungo compressi. La teoria che va per la maggiore, e che indubbiamente ha solide ragioni dalla sua parte, è quella dell’uso consapevole e spregiudicato di una comunicazione orientata alla ‘distrazione di massa’, dando in pasto a una cronaca giornalistica golosa di scandalismo oggetti considerati tutto sommato secondari per tener lontana l’attenzione dal nocciolo duro della questione, ovvero l’incapacità di questa armata Brancaleone che è arrivata al potere a gestire gli interessi del Paese, in primis la Caporetto del PNRR.
Il calcolo che starebbe dietro la facciata si baserebbe sulla constatazione che quella ‘galleria della vergogna’ di cui si alimenta l’identità neofascista è nota e percepita solo dal nucleo originario di Fratelli d’Italia, i duri e puri che condividono il curriculum politico della loro Capa e sono galvanizzati da quegli esercizi di riesumazione, gli altri, il 20 per cento e passa che si sono aggiunti nelle urne nell’ultima tornata elettorale se ne fregano di tutto questo, sono gli eterni indifferenti che affollano la politica non partecipata. Cosicché sdoganarne l’uso ai più alti livelli istituzionali servirebbe a consolidare lo spirito militante dei fedelissimi della prima ora senza dover pagare nessun prezzo o un prezzo minimo tra la massa dei nuovi followers. Il vero vantaggio starebbe nella possibilità di occultare, dietro il velo nero del nostalgismo fascista di pochi, la propria reale impotenza di fronte alle emergenze sociali ed economiche di tutti.
La seconda interpretazione è quella di chi vede, nell’attuale massiccia sequenza di messaggi perturbanti, il tentativo, consapevole e programmato, di produrre un mutamento sostanziale di egemonia culturale, oltre che politica. La volontà, cioè, di provocare un ribaltamento della ‘narrativa’ che sottende l’identità nazionale, sostituendo all’attuale, sia pur debole e fragile ‘narrativa democratica’ un racconto opposto, ripescato nei meandri di un’autobiografia della nazione piena di ombre e anche di violente cadute, che la cultura e la letteratura dell’Italia repubblicana aveva a lungo tenuto a bada e ricacciato dietro le quinte e che ora si vorrebbe rimettere sotto le luci della ribalta.
Non è raro vedere, nel tempo ‘caduto’ in cui ci è dato vivere, l’imposizione manu militari, per così dire, ovvero con uno stile di comunicazione perentorio e violento, di un insieme di fake news spacciate per verità (storiche, etiche, scientifiche) e offerte come campo di raccolta di eserciti di seguaci politici: l’opera di Donald Trump ne è un esempio preoccupante, in un Paese che si riteneva poco incline a lasciarsi incantare da ciarlataneschi sciamani come l’America.
C’è infine una terza spiegazione, forse la più banale, non necessariamente contrapposta alle prime due ma tendenzialmente sottesa a entrambe, ed è che Meloni e i suoi fratelli agiscono così perché ‘sono così’. Sono fascisti nella radice più profonda della loro identità. E gira e rigira non riescono a nascondere quel loro essere così intimamente radicato, anche se le circostanze consiglierebbero un profilo più basso, e sono portati a esternarlo in una forma che si potrebbe dire ‘compulsiva’ intendendo, con ciò quanto in psichiatria viene riferito a un impulso o a un comportamento “che viene eseguito da un soggetto in modo macchinale e infrenabile” (Treccani). E che trarrebbe la propria forza cogente (a ripetere) dal suo essere radicato in un nucleo problematico dell’identità caratterizzato – sono parole di uno dei maggiori studiosi del fenomeno, Jonathan S. Abramowitz – da elementi come “l’intolleranza per il dubbio, il pensiero magico, la sovrastima della minaccia, la sovrastima della propria responsabilità, l’intolleranza all’ansia” e soprattutto da “dysfunctional beliefs”, pensieri disfunzionali. Fratelli d’Italia è la costola del Msi che aveva mal digerito la svolta di Fiuggi da cui aveva preso vita Alleanza Nazionale. Erano vissuti con disagio negli interstizi di quella vicenda, in forza dei loro dysfunctional beliefs. E quando finalmente Gianfranco Fini aveva fatto naufragio sugli scogli di Montecarlo avevano tirato fuori la testa, con tutto il repertorio di reliquie e di vecchi busti acquisiti insieme all’intero lascito dell’eredità del peggiore fascismo, quello di Salò, bordeggiando da comparse nelle acque inquinate del berlusconismo calante. Ora, sbalzati sul ponte di comando da una folle tornata elettorale giocata all’insegna del più disastroso masochismo di quanti avrebbero dovuto e potuto contrastarli, miracolati dalla debolezza di Berlusconi e Salvini e dalla insipienza di Letta e dei suoi, non riescono (del tutto) a fingere di non essere quel che sono.
Guardatevi il video della famigerata esternazione di La Russa su via Rasella. Guardatelo nella versione estesa (di un minuto e 33 secondi), e non solo in quella sintetica con i 34 secondi della frase incriminata. Si può cogliere fin dall’inizio il gusto della denigrazione della Resistenza, non solo da parte di La Russa ma del giornalista di Libero Senaldi, che carica pezzi da novanta sulla passione triste del suo interlocutore, come lui coinvolto nella damnatio memoriae dei partigiani, per certi versi più irritante di lui nell’insistenza ad affondare quei colpi che, a un osservatore esterno, potrebbero apparire come un campo minato sotto i piedi del camerata ma che in soggettiva rivelano un incomprimibile gusto della falsificazione storica.
E poi il tono, salottiero, goliardamente cazzeggiante su una tragedia storica immane, con la battuta fatua sulla composizione della lista dei fucilati, dentro la quale ci sarebbe stato di tutto, “forse anche qualche fascista” (sic) se non altro per “ragioni statistiche”, come se si parlasse di un concorso di bellezza, o di una mostra di cani…
E’ lo stile del fascismo quotidiano, quello che prima che come fenomeno storico-politico si esprime come ‘stile di comportamento’, abito mentale, psicologia e antropologia rovesciate rispetto a quelle che Hans Kelsen attribuiva all’homo democraticus.
Scherzare con leggerezza sulla lista di condannati a morte, alla cui compilazione contribuirono tra gli altri uomini che militavano dalla parte a cui vanno evidentemente le simpatie dei due protagonisti della conversazione, indica quella radicale mancanza di empatia – di capacità di coinvolgersi con le sofferenze degli altri – che costituisce appunto uno degli elementi cardine dell’”uomo fascista”. E non cambia nulla che l’indegno Presidente del Senato, dopo la bufera sollevata, abbia balbettato qualche stentata parola di rammarico per qualche parola dal sen fuggita.
Cover: Giorgia Meloni e Ignazio La Russa, Roma, Piazza del Popolo, 9 novembre 2008 (foto Flickr)
Potere sui corpi: c’è un filo rosso che unisce la discriminazione perpetuata per millenni sulle donne, sul loro sesso, sui loro corpi, sulla loro capacità riproduttiva e la narrazione che accompagna quanto sta accadendo oggi nelle democrazie cosiddette ‘illuminate’. Sapere del corpo: abbiamo assistito durante la pandemia alla deumanizzazione dell’essere umano,ridotto a un corpo manipolabile, implementabile dall’esterno, curabile da remoto attraverso farmaci a tecnologie nuove che ci ha portato diritti all’ elogio dell’esaltazione della soggettività, come espressione del sé staccata completamente dal sapere dei corpi.
Nella pandemia, con una accelerazione impressionante questa narrazione si è impossessata di tutti gli ambiti dell’umano, dalla cura, alla vita comunitaria, alla vita legislativa; la realizzazione del sé attraverso la modifica continua del proprio corpo, fino a giungere alla narrazione che la modifica del nostro sesso biologico è oggi dichiarata una forma di libertà che ci libera dalla natura cattiva che ci fa incarnare in corpi che non abbiamo scelto.
Ci ripetono come un mantra che ciò che ci sentiamo dentro vale di più di ciò che sente il nostro corpo, che non c’è relazione tra il sentire e i processi biochimici che l’invisibile processa tutti i giorni in modo straordinario nei nostri corpi, che non c’è connessione tra biologia e biografia. Così è stato possibile che le autorità al di sopra (patriarcato puro) prendessero la decisione che tutti, dai bambini ai vecchi alle donne incinte dovessero prendere lo stesso farmaco, in sfregio alle differenze dei nostri corpi e del loro sviluppo.
Con una giravolta degna dei migliori saltimbanchi, la nostra libertà di essere quello che vogliamo, di sentirci al disopra di qualsiasi limite e restrizione, viene cosìnta però assoggettata al volere dello Stato. In un cortocircuito invisibile ai più, lo Stato padrone (patriarcato puro) ha deciso cosa andava fatto sui corpi tutti, come fossero strumenti e macchine tutte uguali o più o meno tutte uguali- E in nome del diritto alla libertà, prodotto esclusivo che ti vende lo Stato, ha imposto un siero sperimentale con tanto di tessera verde che certificava l’avvenuta consegna dei nostri corpi alle autorità esterne.
Il sentirci dentro come qualcosa di staccato dai nostri corpi diventa un bisogno creato dall’esterno, ma anche un comportamento eterodiretto da chi dall’alto decide come dobbiamo essere, cosa dobbiamo ingerire, cosa dobbiamo accettare venga iniettato direttamente nei nostri corpi. un bisogno inderogabile che ci può fornire solo la religione tecnologicasapientemente spinta da interessi sempre più accentrati. Abbiamo dimenticato che il sentire avviene grazie all’esperienze che facciamo, che si traducono in emozioni e sentimenti e non da voli pindarici estranei alla vita che conduciamo.
Chi si domandava come avrebbe risposto il suo corpo a quel farmaco veniva tacciato come irresponsabile e malvagio. Chi difendeva il suo sentire biologico/ biografico (bio-bio) e voleva autodeterminarsi difronte all’ingerenza statale veniva escluso dalla vita sociale. E questo è esattamente ciò che è successo alle donne per millenni. Hanno legiferato sui nostri corpi da sempre per potere dominare la ‘Natura’. Le donne dovrebbero conoscere bene l’ intelligenza dei loro corpi che ogni mese si preparano nell’invisibile a modificarsi nel caso il loro ovulo venga fecondato, un sapere inconscio che si ripete con una costanza puntuale per anni e anni, ma durante la pandemia la paura sembra avere, per la maggioranza di esse, cancellato questa conoscenza istintiva.
Da quando c’è il patriarcato la discriminazione che subiscono le donne è fondata sul loro sesso, che ben lungi dall’essere un’idea astratta, ha subito e continua a subire, mutilazioni genitali inaccettabili.
Noi che siamo donne al solo pensiero che ci venga tagliata o cucita la clitoride, abbiamo un sussulto di orrore. E perché? Beh perché la Clitoride, esattamente come lo è il pene per i maschi, è l’organo per eccellenza del piacere femminile. Hanno mai pensato di cucire il glande del pene? No certo che no! mentre il nostro glande che ha ben più di 8000 terminazioni nervose è ancora oggi sotto attacco dalla cultura morale e dalla realtà fisica.
E in una continuità inquietante, la narrazione dei corpi come macchine modificabili apiacimento prosegue oggi: l’apoteosi sta nel racconto della fluidità come una conquista dell’umanità dove i corpi sono utili solo in quanto strumenti, costantemente modificabili diventando così a pieno titolo merce di scambio del nuovo mercato.
Mi chiedo come nessuno si faccia delle domande sulle violenze che subiscono oggi le donne se solo si azzardano ad affermare che unuomo che si dice donna non è una donna ma è una donna trans. Una violenza simile a quella perpetuata dai più a danno di chi non ha voluto vaccinarsi.
Il piacere, motore della vita, che passa per la realtà fisica e non virtuale dei nostri organi sessuali, viene conquistato dal mercato dei corpi e narrato nell’interesse di chi questo mercato conduce.
Chirurgia plastica alla vulva, chirurgia plastica per transizionare e detransizionare in continuazione ,maternità surrogata, utero artificiale, farmaci a MRNA (vaccini) … Tutti tasselli di un unico puzzle: il piacere sta lì fuori, lo si acquista attraverso surrogati del corpo, costruiti dalle aziende hi-tec che magnanime ci liberano finalmente dalla ‘maligna natura’ che ci inchioda a corpi imperfetti e troppo vulnerabili e a ritmi biologici narrati come limitanti. Così si apre la strada all’utero in affitto e al futuristico, neanche tanto, utero artificiale. Il vivente tutto spostato dentro ai laboratori, con l’assicurazione che i corpi saranno liberati dalla sofferenza, dalla malattia, dalla morte e perfino dalla nascita.
Platone non aveva ancora assistito ad un concerto di Tommy Emmanuel quando scrisse che “la musica è la medicina dell’anima” perché “dà ali alla mente, slancio all’immaginazione, fascino alla tristezza, impulso alla gioia, vita a tutte le cose”, in pratica riesce a dare “un’anima all’universo”.
Il filosofo ateniese aveva capito molto bene il potere che ha la musica sugli esseri umani; la stessa cosa l’ha capita ed assimilata il talentuoso chitarrista australiano Tommy Emmanuel che porta nei suoi concerti la gioia, la passione e l’esuberanza in ogni nota di ogni canzone che ogni sera suona.
Il 29 marzo scorso sono stato al Teatro Duse di Bologna ad un suo concerto, e devo confermare che è difficile non essere felici ai suoi concerti. Assistere ad un suo live è qualcosa di piacevole, corroborante, energetico, terapeutico, magico.
Tommy Emmanuel, definito più volte miglior chitarrista acustico al mondo forse non abbastanza conosciuto quanto meriterebbe, dal punto di vista musicale, ha una tecnica incredibile, soprattutto nel fingerpicking (cioè nel suonare senza plettro), nell’eseguire ritmi sul corpo della chitarra e nel suonare diverse parti contemporaneamente.
Ascoltandolo ci si accorge che, accarezzando le corde della sua chitarra, riesce a sfiorare anche quelle dell’anima perché non gli basta suonarla ma la fa diventare uno strumento da percuotere con le mani, una bacchetta con cui far emettere suoni singolari: lui stesso sa diventare un tutt’uno con la chitarra.
Quando suona, riesce ad appassionare musicisti professionisti, a coinvolgere esperti ascoltatori e ad entusiasmare ascoltatori comuni.
Dal punto di vista scenico, è di un’empatia contagiosa quindi è un comunicatore formidabile e di conseguenza un intrattenitore fantastico.
Tommy suona diversi generi:dal jazz al rock, dal blues al bluegrass; arrangia diverse canzoni famose in maniera incantevole tanto da renderle originali.
Ha una produzione discografica di tutto rispetto: finora ha inciso 31 album in studio, 8 album dal vivo e 6 di raccolte.
A Bologna ha stupito il pubblico suonando brani suoi (da ricordare le versioni di Angelina, dedicata alla sua seconda figlia e Mombasa, sempre allegra), alcuni tributi (ai Beatles e a Jeff Beck, con una versione intensa di Cause we’ve ended as lovers), alcuni standard (bellissima Blue Moon), un omaggio al suo maestro Chet Atkins con Windy and warm.
Si è esibito dopo (e insieme a) Mike Dawes, altro virtuoso musicista inglese di 33 anni, molto promettente, già definito miglior chitarrista acustico nel 2017 e nel 2018, noto per la composizione, l’arrangiamento e l’esecuzione di più parti contemporaneamente su un unico strumento. Simpaticissimo e coinvolgente, ha eseguito diversi brani fra i quali una bellissima versione di Somebody that I used to know , dedicata ai fidanzati mai più visti.
Nella parte finale, lui e Tommy Emmanuel hanno eseguito un bel blues di John Mayall (con un coinvolgimento canoro molto emozionante dell’intero pubblico), una versione stupenda di Field of Golds di Sting ed un’altra strepitosa di Smell like teen spirit dei Nirvana.
Tommy, una volta, ha dichiarato: “Quando ero un bambino, volevo essere nel mondo dello spettacolo. Ora, voglio solo essere nel business della felicità. Io suono musica e il pubblico è felice”. E visto che la felicità è come una torta da condividere, suggerisco ai lettori di ascoltare questi due meravigliosi artisti neiconcertie nei dischi.
Il cambiamento di umore è garantito, in meglio.
La foto di copertina e quelle nel testo sono di Mauro Presini
“Le Borse di studio sono un ricatto ai poveri”, un sistema orientato solo alla ‘performance’ che stritola gli studenti e li fa spesso sentire inadeguati: lo sfogo di una studentessa all’inaugurazione dell’anno accademico a Ferrara, presenti il presidente Mattarella e la ministra Bernini
Percorsi universitari troppo competitivi, tempi troppo stretti, aspettative troppo alte. Borse di studio che in realtà sono “un ricatto” e che pretendono dagli studenti risultati eccellenti in “tempi ristretti”. Un ‘sistema’ formativo che punta solo alla ‘performance’ e all’efficienza aziendale. E che alla fine ha come risultato quello di inghiottire gli studenti e farli consumare nel senso di frustrazione di non essere all’altezza, a maggior ragione di fronte ai successi “degli altri”. Ad accendere un faro sul tema, sempre più di attualità dopo l’escalation negli ultimi anni di episodi di suicidi di giovani studenti che a un certo punto non riescono più a gestire il castello di bugie raccontato ad amici e famiglie a proposito della loro carriera universitaria, è una giovane studentessa di nome Alessandra. Ha preso la parola oggi, a Ferrara, nel corso dell’apertura dell’anno accademico 2022/23 dell’Ateneo di Ferrara, a cui era presente anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Originaria della provincia di Brindisi, Alessandra De Fazio è presidente del Consiglio degli studenti di Unife. Questa mattina ha preso la parola rivolgendosi tra gli altri alla ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, presente alla cerimonia. Tra le altre cose, Alessandra ha detto: “Siamo bombardati continuamente dal mito della performatività e da una competizione illogica che ci sbatte in faccia i successi degli altri“.
Guarda il video:
LE PAROLE DI ALESSANDRA
Ecco il discorso di Alessandra per intero “‘Sono un fallimento, non merito di vivere’- esordisce la studentessa-. Non sono le parole che titola l’ennesimo giornale, riportando quotidianamente, accanto alle morti delle nostre compagne, l’esaltazione di una studentessa che riconosce nel sonno un ostacolo per laurearsi nella metà del tempo. Queste parole sono uscite dalla stessa bocca della persona che oggi sta parlando di fronte a voi. Queste parole le ha dovute sentire e subire mia madre quando dopo il test di medicina ho percepito di non avercela fatta, per la seconda volta. Che esagerazione per un test che si può riprovare l’anno successivo… Ma come possiamo pensare che il percorso universitario debba essere dettato dai nostri tempi? Che sia di nostra proprietà, mentre siamo bombardati continuamente dal mito della performatività e da una competizione illogica che ci sbatte in faccia i successi degli altri e ci fa tirare un sospiro di sollievo quando qualcuno fallisce al posto nostro?”.
“UN SISTEMA CHE BARATTA LA PERSONA PER LA PERFORMANCE”
Parlando a nome degli studenti nel Teatro Comunale, la giovane originaria di Francavilla Fontana, nel brindisino in Puglia, cita Alessandro Barbero, storico e scrittore: “In altre epoche credevano nelle streghe e noi crediamo alla meritocrazia“. L’intervento di Alessandra, davanti alle autorità accademiche e ai più alti rappresentanti delle Istituzioni, è davvero critico, un vero atto di accusa nei confronti di un sistema dell’istruzione italiano improntato sempre di più all’efficienza aziendale. Un sistema, come lei stessa ricorda e denuncia, che spesso – e lo testimoniano i fatti di cronaca – ha come conseguenza il suicidio di studenti che, per il mito della ‘massima performance‘, del ‘successo a tutti i costi‘, si sentono inadeguati e falliti. “Un sistema malato che baratta la persona per la performance”, lo definisce Alessandra.
“LE BORSE DI STUDIO SONO UN RICATTO”
De Fazio spiega: “Si pensa banalmente che il merito possa essere un criterio equo, sostituto del vecchio privilegio del quale invece ha ereditato tutto il divario e la disparità, ma con una mutazione acquisita: l’ipocrisia. Le borse di studio sono un ricatto. Se tutti abbiamo lo stesso diritto perché qualcuna dovrebbe essere costretta a tenere tempi più serrati solo perché è più povera? Il ‘sistema universitario è classista’, afferma una studentessa che come noi si trova in una università smembrata, dove i saperi non fluiscono, non si differenziano ma si trovano a dover fare i conti con una istituzione che disconosce la nostra umanità piegandosi ai ricatti del mercato”.
Alessandra De Fazio, presidente del Consiglio degli studenti di Unife, continua: “Nel sistema attuale le Università promuovono l’illusione di garantirci pari strumenti, attraverso corsi di studio e studentati. Nella realtà accedere a questi servizi diventa molto complesso a causa di sbarramenti burocratici, socio-economici e soprattutto meritocratici. Ma badate bene, ci viene data la possibilità di redimerci dalla nostra condizione di povertà, come fosse una colpa, a patto di esserne meritevoli, conseguendo risultati eccellenti entro periodi di tempo cadenzati e ristretti, tutto allo scopo di misurare quanto siamo performanti e catalogarci giusti articoli di una intensa produzione con il risultato di generare grandi bilanci sacrificando il benessere e la qualità del percorso accademico”.
IL DIRITTO ALLO STUDIO
La ragazza continua: “Ma chi detta le regole di questa produzione intensiva? La gestione neo-liberale dell’azienda universitaria si traduce nell’applicazione dell’FFO (il Fondo per il finanziamento ordinario delle università, ndr.) la cui quota premiale trasforma i finanziamenti in premi per gli Atenei più numerosi e performanti defraudando quelli piccoli e considerati improduttivi che si trovano costretti a decidere se levare la contribuzione studentesca o ad aumentare il numero di iscritti per diventare eleggibili all’assegnazione dei premi. Le studentesse e gli studenti non sono il mezzo per sostentare la formazione, il diritto allo studio deve risiedere nell’emancipazione collettiva e deve essere parte integrante e inscindibile del welfare sociale pubblico, gratuito e garantito dallo Stato per tutte e tutti come sancito dalla Costituzione che il nostro presidente ha recentemente definito ‘riferimento che ci guida nell’impegno comune di consolidare un’Italia fondata su pace, libertà e diritti umani”.
“NO A DEPRESSIONE, SENSO DI INADEGUATEZZA E SUICIDI”
La studentessa di Ferrara lancia un appello alle Istituzioni per evitare i tragici gesti di chi si toglie la vita per la paura di deludere la famiglia per un esame andato male o un corso di laurea non portato a termine. “‘Ho barattato la mia salute mentale per terminare in tempo gli studi, inutile dire che non ce l’ho fatta, ho compromesso irrimediabilmente la fiducia in me stesso’, afferma uno studente. Chiediamo – dice Alessandra De Fazio – che il nostro Paese consideri il benessere psicologico diritto fondamentale dell’individuo al pari della salute fisica sia con l’introduzione della figura dello psicologo di base, ma soprattutto con una riforma sistemica che decostruisca i pilastri meritocratici. Non siamo più disposti ad accettare senso di inadeguatezza, depressione o perfino suicidi a causa delle condizioni imposte da un sistema malato che baratta la persona per la performance. Accedere alla cultura, e conseguentemente esercitare le proprie facoltà di cittadini, non può esssere un privilegio. Noi ci dobbiamo meritare di studiare, di avere una casa, delle cure, esigiamo questi diritti. Non sono d’accordo a definirci ogni volta ‘cittadini del domani’: una scusa per procrastinare gli errori che voi, cittadini di ieri, avete fatto e le cui conseguenze le stiamo pagando noi cittadini di oggi. Abbiamo fretta e vogliamo mettervi fretta, più di quella che mettete a noi per laurearci, di restituirci un mondo che possa davvero appartenerci”.
IL CARO-AFFITTI
Infine, un attacco al caro-affitti per gli studenti fuorisede: “Il sovraffollamento” nelle città universitarie “sommato ad un mercato immobiliare inflazionato e sregolato, figlio di un assente piano di edilizia pubblica permette ai privati di lucrare sulla vulnerabile condizione della comunità studentesca e lavoratrice di tutta Italia anche di Ferrara, costringedola a pagare prezzi spropositati o ad accontentarsi di abitazioni fatiscenti”. Proprio a Ferrara, sottolinea Alessandra De Fazio “il territorio ha visto un incremento esponenziale della componente studentesca presente e nell’agosto 2022 è stato rilevato un aumento dei prezzi di abitazioni del 34% rispetto all’anno precedente”.
INVITO POST SCRIPTUM Cara Alessandra Di Fazio, confido che questa cronaca, ripresa dall’agenzia Dire, sia arrivato sotto i tuoi occhi. Credo che le cose che hai denunciato nel tuo intervento siano accuse fondate. La realtà dell’Università di Ferrara, un ateneo in continua e disordinata espansione ma con servizi insufficienti o inesistenti (per es. da parecchi anni la mensa universitaria è scomparsa), dovrebbe essere analizzata in modo onesto e approfondito. La situazione cui sono costretti i 28.000 iscritti all’ateneo ferrarese, in grandissima maggioranza fuorisede, è ormai diventata insostenibile, iniqua, oltreché indegna di una città civile come Ferrara. Occorrono azioni concrete ed urgenti, sia da parte della Amministrazione Comunale sia da parte della stessa Università. Sulla stampa locale, invece, sentiamo parlare di studenti solo per lagnarsi del disturbo arrecato dalla ‘terribile’ movida. Sarebbe giusto che fossero gli stessi protagonisti a raccontarsi. Periscopio è un quotidiano online a carattere nazionale, ma con sede a Ferrara e con migliaia di ferraresi tra i suoi lettori. Sarei felice se tu e altri studenti voleste “usare” questo giornale per far conoscere i vostri problemi, denunciare quello che non va, proporre soluzioni. Potrete farlo col vostro nome e cognome o scegliendo un “nome di battaglia”. Ti invito quindi (tu o altri studenti non rassegnati) a mettervi in contatto con me e con la redazione di Periscopio. Ti (vi) lascio il mio indirizzo privato: francesco.monini7@gmail.com
Francesco Monini direttore responsabile di Periscopio
In continuo aggiornamento le foto che ci arrivano da tutte le parti del mondo testimoniando l’adesione alla campagna “Prendiamo la pace nelle nostre mani” e colorando di pace e nonviolenza le città e i paesi di tutto il mondo. Una miriade di attività, da presidi nelle piazze alla lettura di poesie, da danze per la pace universale a incontri sulla nonviolenza, da manifestazioni davanti alle istituzioni a meditazioni e preghiere per un mondo migliore, ma tutte unite da uno stesso sentimento e da una stessa idea: l’aspirazione alla fine di tutte le guerre e il dar voce agli invisibili, alla maggioranza della popolazione che oggi è asfissiata dalla violenza fisica, economica, di genere…
La giornata del 2 aprile è stata pianificata come una moltitudine di iniziative auto organizzate e non centralizzate. Anche per questo non si ha ancora un quadro chiaro di tutte le realtà che hanno partecipato.
L’Eolico industriale sul nostro appennino è il segno più evidente di disprezzo verso la storia, la cultura, la natura. Verso l’anima umana e l’anima del mondo: l’anima della Terra. Distruggere per niente. Distruggere per i soldi, per l’interesse di pochi, con l’avallo di proni sodali politici. A farne le spese è un bene comune, bene di tutti. Che così viene a essere messo nella disponibilità esclusiva di un gruppo privato. Che ne fa quello che vuole.
Come nel Far West. Come i terreni comuni (le enclosures) che dal XIII secolo in poi furono espropriati ai legittimi titolari a vantaggio della borghesia mercantile, in Inghilterra e altrove. La storia si ripete. Un atto di imperio. Un’imposizione.
Con il progetto eolico è come se si ingabbiasse tutto il crinale in un gigantesco loculo.
Il concetto è molto semplice: socializzazione degli oneri e privatizzazione dei profitti. Il progetto industriale eolico sul crinale Villore-Corella questo fa: socializza gli oneri e privatizza i profitti.
Quali sono gli oneri che vengono socializzati, per così dire accollati, alle comunità e agli abitanti del luogo? Prima di tutto uno radicale e definitivo: la perdita irrimediabile di uno dei luoghi più belli del Mugello, ricco di tutto, da un punto di vista naturalistico, paesaggistico, storico e simbolico: tanto da poterlo definire paesaggio culturale e patrimonio identitario. “Paesaggio culturale” perché mette insieme natura, cultura e storia. “Patrimonio identitario” perché è un luogo che è come una casa, una patria, per tutte le generazioni di mugellani che si sono succedute nei secoli e per chi, venendo da fuori, ha potuto riconoscersi in esso.
Altro onere che si scarica sulla comunità è il grave rischio idrogeologico conseguente al progetto nel suo insieme: dal sito scelto per le pale al massacro di tutta la viabilità che conduce da valle fino a Corella, e oltre fino al crinale. Sono previsti spostamenti di migliaia di metri cubi di terra e roccia, inquinati da oli minerali, e tagli del costone fino ad altezze notevoli in tutte le curve. E ciò, si badi bene, in un strada soggetta a frane frequenti.
Mi chiedo: non ci sono forse i presupposti per una serie infinita di piccoli e grandi disastri?
Per non parlare della devastazione dei boschi e della fauna. Compresa la fauna ittica.
Qualcuno si è interessato seriamente a capire le conseguenze per la rete idrografica del luogo, nei termini di eventualeperdita di fonti e inquinamento dei torrenti come il Corella, il Margolla, il Solstretto e di tutta la miriade di altri piccoli corsi d’acqua che solcano i versanti di quei monti soprattutto d’inverno? Tutti oneri che ricadono sulle popolazioni locali.
E a nulla valgono le cosiddette compensazioni che la ditta proponente ha tirato fuori, con il beneplacito di molte amministrazioni locali. Perché in realtà tali compensazioni, qualunque siano, dalla veramente paradossale, sfacciata, offensiva “valorizzazione” della sentieristica di crinale, ad altre di cui non si conoscono i termini precisi, si presentano, tutte, oltre il limite della decenza e della morale: ci prendono il posto più bello che abbiamo e ci offrono in cambio presunti vantaggi. È come se si pagasse qualcuno per una mutilazione volontaria, come se ci pagassero in cambio dei nostri organi vitali.
Loro invece, la società, con l’avallo della sfera politica, si riserva i profitti. Il lucro. Tutto il resto sulla pelle dei cittadini. A cui viene levata una risorsa relazionale, spirituale, economica, in cambio di disagi materiali e impoverimento umano.
Dunque tutto il profitto da una parte tutto il danno dall’altra, e per giunta un danno profondo e irreversibile. Come si fa a non capire un discorso così semplice? Si perde il luogo più bello e ricco del Mugello, crocevia di biodiversità e di storia. Una depredazione indiscriminata, non motivata da nessuna reale utilità per la collettività, e nemmeno per l’ambiente in generale, a cui vengono sottratti migliaia di alberi fondamentali per l’assorbimento di CO2, in cambio di cementificazione e inquinamento.
“Cupidigia è radice di rovina” insegnano i testi sacri orientali.
Dunque la domanda: ‘cosa ne guadagnano le comunità locali’ è posta male.
In realtà bisogna dire: ‘cosa perdono le comunità locali’.
Prima di tutto andranno incontro a disagi a non finire, dalla viabilità alla qualità dell’aria; ai danni alle campagne, alla rete idrogeologica, alle rinascenti attività agricole e a quelle agrituristiche, che sono la naturale vocazione di quei luoghi.
Basti dire che gli aerogeneratori dovrebbero essere installati proprio lungo il sentiero CAI 00 e di quello europeo E1. E siamo sicuri che non ci saranno conseguenze alla rete idrica, dal momento che non si sa cosa si va ad alterare sotto il primo tratto di terra e roccia, non essendo mai (MAI!) state fatte le sacrosante indagini geologiche? E questo è veramente una questione incredibile: le indagini geologiche dovevano essere OBBLIGATORIAMENTE fatte, come di prassi, ma non sono state eseguite, eppure il progetto ha continuato il suo iter fino all’approvazione!
E siamo sicuri che non ci saranno frane in futuro?, dal momento che lungo la strada che s’inerpica verso Corella, e che sarà interessata dal movimento di centinaia di tonnellate di terra e roccia, nel recente passato sono occorse ben tre frane, la cui documentazione è stata tenuta ben chiusa nei cassetti dell’Ente Locale preposto. Per non parlare della documentazione fotografica esibita dalla ditta costruttrice, dove i muri di contenimento delle frane sono stati “artisticamente” dissimulati, cioè presi di striscio, di lato e simili di modo che quasi non si vedono.
Per far posto alle pale e alla viabilità di avvicinamento verranno tagliate intere faggete e marroneti. Tagliare alberi e far posto al cemento, per di più in vetta ai crinali. Evviva il risparmio di CO2! Miracoli della tecnica (finanziaria)! In realtà il taglio, massivo, è già cominciato, anche se non ancora per conto diretto della ditta costruttrice, ma già così lo sterrato che da Villore porta in località Porcellecchi, non lontano dal bivacco Pian di Laghi, è impercorribile anche ai mezzi a trazione integrale, compresi i mezzi dei vigili del fuoco.
In sintesi: crinali della dorsale appenninica completamente stravolti, se è vero che questo primo progetto è solo il cavallo di Troia per accedere al resto dei crinali, e continuare l’opera devastatrice in futuro. Come d’altra parte testimoniato in audizione pubblica dai responsabili della stessa ditta costruttrice, quando affermarono che bisogna rassegnarsi a vedere 8000 (ottomila!) chilometri di crinali interessati da progetti eolici! Intanto c’è da dire che, a causa dell’aumento del costo delle materie prime, la spesa dell’impianto è lievitata dai previsti circa 30 milioni di euro ai circa 50 di ora. Eppure è sempre conveniente farlo! C’è qualcosa che ci sfugge.
Come ci sfuggono, a noi comuni cittadini, tante altre cose. Tra cui: in origine l’impianto doveva constare di otto aerogeneratori, poi, su richiesta della Regione, (bontà loro), sono passati a sette, eppure la produzione di energia dichiarata è rimasta la stessa: 29,6 MW prima, 29,6 MW ora! Altro miracolo della tecnica (finanziaria)!
E il vento? C’è la possibilità che le pale si debbano fermare nelle 3 ore successive al tramonto e nelle 3 ore antecedenti l’alba, nei mesi estivi, nel caso che lo stermino di volatili risulti, a seguito di indagini in loco, superiore a una certa soglia (come è scritto nel documento della Direzione Ambiente ed Energia, Settore Tutela della Natura e del Mare). Questo cosa conta ai fini della produzione di energia dichiarata? Non si sa, non è stato detto! A quanto si ridurrebbero le 20.000 utenze che l’impianto dovrebbe servire? Mistero!
Riguardo poi all’energia dichiarata, i 29,6 MW sopra citati, è stato rilevato, e pubblicato e mai smentito da nessuno, che per produrli realmente occorrerebbero il doppio delle ore di cui è fatto un anno solare.
È stato creduto ciecamente ai dati forniti dalla Ditta, senza nessuna ulteriore indagine da parte degli enti preposti (Regione, Comuni e loro uffici competenti), quasi si trattasse di dogmi religiosi… “INVECE DI METTERE SEMPRE IN DISCUSSIONE, DI DUBITARE E VERIFICARE…” (Karl Raimund Popper, 1963).
Il paradosso di tutta la questione è che più aumentano questi impianti più aumentano i prelievi operati sulle bollette di luce e gas alla voce “oneri di sistema”. A questo proposito sarebbe interessante approfondire l’argomento relativo a tutte le altre forme di finanziamento pubblico concesso alle imprese operanti nel settore energie rinnovabili.
Il crinale di Villore-Corella è incastonato tra un parco nazionale: le Foreste Casentinesi, e due aree cosiddette SIR, Siti di Importanza Regionale per valore naturalistico e paesaggistico: il sito Colla di Casaglia-Giogo e Muraglione-Acquacheta. Si vuole anche ricordare che nel Piano di Indirizzo Territoriale della Regione Toscana del 2007, aggiornato al 2014, è scritto che “sono aree di notevole interesse pubblico”:
– le cose immobili che hanno cospicuo carattere di bellezza naturale, singolarità geologica o memoria storica;
– le bellezze panoramiche e così pure i punti di vista e belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si gode lo spettacolo di queste bellezze.
Con queste premesse, la Regione Toscana, approvando il progetto, è andata contro se stessa.
Ma chi è che controlla, chi osa mettere il bastone tra le ruote al potere politico-tecnico-finanziario? L’emergenza è diventata regola, via i controlli, si derogano le leggi, aumentano i profitti di pochi. La Pubblica Amministrazione mette lo Stato nelle mani delle imprese, la concentrazione della ricchezza è scambiata per crescita.
L’unica speranza è una consapevolezza e un’azione dal basso, da movimenti di cittadini che hanno a cuore il territorio e la salvaguardia vera dell’ambiente.
Per questo motivo si invita tutti e tutte alla MARCIA PER LA LIBERAZIONE DEL CRINALE APPENNINICO MUGELLANO Dicomano-Vicchio del 23 aprile 2023, organizzata dal Comitato per la Tutela dei Crinali Mugellani.
“Non potranno mentire in eterno. Dovranno pur rispondere, prima o poi, alla ragione con la ragione, alle idee con le idee, al sentimanto col sentimento. E allora […] il loro castello di ricatti, di violenze, di menzogne crollerà”
05(Pier Paolo Pasolini, 1960).
In copertina: Appennino Umbro-Marchigiano, Monte Macinara e Monte d’ Sospiri con simulazione impatto centrali eoliche – Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG) Associazione Ecologista.
Non sono una persona mattiniera, e forse non lo sarò mai. L’animale notturno che è in me si è adattato al passare degli anni e all’aumentare delle responsabilità, ma in fin dei conti è ancora qui a farmi compagnia nel silenzio della cucina. D’altronde, sto scrivendo quest’articolo all’una di notte, e, nonostante un venerdì piuttosto intenso, potrei andare avanti ancora un bel po’.
Insomma, è raro che il picco della mia produttività, e quindi delle mie energie, si faccia vivo prima dell’ora di pranzo. Tuttavia, ci sono delle cose che in certi periodi dell’anno hanno il potere di “ribaltare il risultato”: l’eccitazione di un viaggio in estate, l’odore di pancake ed Earl Grey in inverno, le passeggiate domenicali in autunno e l’ascolto di una canzone al risveglio della primavera.
Sì, una canzone che alle mie orecchie è l’equivalente musicale di quel momento lì: l’istante in cui la luce vivida, e non più soffusa, del mattino ti coglie di sorpresa, e tutt’a un tratto ti ricordi quant’è bella l’ora legale. Una sensazione così inebriante che pensi: “finché il prezzo da pagare per averla indietro è un’ora di sonno, possiamo ritenerci fortunati”.
L’attacco è da manuale del pop: un accordo di pianoforte, un riff orchestrale che ti si appiccica addosso e una ritmica puntuale e martellante. E chi se la scorda più One Day Like This degli Elbow, raffinata band mancuniana che spazia con disinvoltura dal progressive al pop-rock sinfonico.
La voce di Guy Garvey, gentile e mai sopra le righe, guida l’ascoltatore con leggerezza e un pizzico di autoironia, senza prendersi troppo sul serio. Del resto, One Day Like This è una canzone d’amore squisitamente british, e in quei sei minuti e mezzo ci sono i Verve di Bitter Sweet Symphony, i Blur di Tender e i Beatles di Hey Jude.
Quindi, se uno di questi giorni primaverili vi svegliate innamorati – di una persona, della vita o del sole che fa capolino così presto – sapete cosa fare.
“Cause holy cow, I love your eyes And only now I see the light Yeah, lying with you half awake Oh, anyway, it’s looking like a beautiful day”
In fondo, non siamo tutti senza qualcosa? Un albo ‘silent’ ce ne parla
Il contatto umano a colmare un vuoto interiore, una necessità di cui ci siamo resi conto anche grazie agli eventi degli ultimi anni. Quel contatto che ci è a lungo mancato e che, ancora, stentiamo a recuperare. Tutti abbiamo un vuoto da qualche parte e per qualche motivo, tutti abbiamo un senza.
Dal latino absĕntiā, la preposizione impropria ‘senza’ sta per privo di, privato di, mancante di, sprovvisto di, spoglio di, sfornito di, con l’esclusione di, in assenza di, in mancanza di.
Catarina Sobral, giovane illustratrice portoghese, ci porta a riflettere su questo termine, con il suo colorato e accattivante ‘silent book’ Senza, Kite edizioni, traduzione italiana, appena uscita, della versione originaria Vazio, vuoto.
“L’idea del libro”, ha dichiarato l’autrice, “nasce dall’idea del personaggio, la cui sfida maggiore è stata quella conferirvi espressività, essendo solo una forma, una silhouette bianca. Ho iniziato a farlo attraverso la posizione del capo, la curva del corpo, e soprattutto con il naso”. E lo ha fatto benissimo, aggiungiamo.
Il personaggio è trasparente, si vede tutto attraverso di lui, è vuoto. Di fronte a sé stesso e agli altri. Nel libro il lettore segue le vicende di una giornata tipo di questo simpatico omino, ogni pagina riserva una sorpresa. Con delicatezza e grazia, seguiamo le vicende di chi cerca di riempire un vuoto, non è facile farsi capire quando non si usano le parole. E qui sta la maestria di questa magnifica artista. E poi la bellezza di questi volumi senza immagini è proprio la libertà di interpretazione che viene lasciata al lettore. Ciascuno può vederci quanto crede. Ciascuno fa la sua storia e il suo cammino. Sono le immagini che contano. I colori, le diverse grane, il mix di vari materiali portano il contrasto tra il personaggio e il mondo.
Siamo di fronte, quindi, alla storia di un uomo ‘senza’ che, con la sua simpatica borsetta rossa, si muove disperato alla ricerca di un senso per la sua vita (anche questo, come tutti). Cerca anche aiuto da un medico, che analizza ai raggi X la sua ‘mancanza’. Esce, prova a passeggiare a zonzo, ad andare al supermercato affollato, al parco silenzioso, a mostre variopinte, a vedere e incontrare gente. A toccare la vita. Si riempie di cibo e di fiori. Le cose lo invadono, cercano spazio in lui, provano a riempire quel vuoto. Carino quell’uccello in gabbia, ma lo è forse come lui?
La pioggia è trasparente e lo attraversa, non gli serve un ombrello, persino un pupazzo di neve dal naso di carota e con berretto a pompon ha più spessore di lui.
Cosa manca, cosa manca? Dove cercarlo? Perché non lo capisce? Perché non lo capiamo? Le prova davvero tutte. La sua sofferenza si risolverà solamente quando incontrerà qualcun altro (a), che sarà ‘senza’ anche lei. Lei, la signora ‘Senza’ (‘Vazia’) con il suo libro in mano. Cosa mai leggerà? … Forse due ‘senza’ possono essere destinati a risolversi a vicenda. Il suo lato-omologo femminile. Due cuori che si uniscono. Chissà.
È vero, a volte possono succedere delle cose nella nostra vita a seguito delle quali ci sentiamo vuoti, o meglio svuotati. Senza noi stessi, senza la nostra anima, senza i nostri sentimenti, senza qualcuno, senza qualcosa, senza senso, senza felicità, senza direzione. Che cosa si può fare? Sembra una situazione senza scampo, senza via di uscita (ancora altri senza…). A meno che non incontriamo qualcuno o qualcosa che ci portano a ritrovare noi stessi. Che ci ridanno la direzione, alla luce di un romantico lampione lunare.
Ma a voi la vostra interpretazione. Buon viaggio!
PS: intanto vi dico solo che questo “senza” è veramente pienissimo di tante cose e idee….
Nata a Coimbra in Portogallo nel 1985, dopo aver studiato Graphic Design, si è laureata in Illustrazione e ha iniziato a pubblicare libri illustrati e lavorare come illustratrice freelance. Sebbene non usi una sola tecnica, la sua preferenza ricade quasi sempre su una tavolozza di colori limitata e le piace esplorare la miscelazione di trame e motivi in immagini ricche e bidimensionali. Ad oggi, ha illustrato tredici libri illustrati e ne ha scritti dieci. Ha anche diretto un cortometraggio animato intitolato Ratio Between Two Volumes, prodotto da Animanostra Portugal, che è stato nominato per il National Animation Award (2018) ed è stato selezionato per alcuni festival cinematografici. Sta anche producendo un programma radiofonico per bambini, con testi di alcuni dei migliori autori portoghesi per un pubblico giovane musicati da Bruno Santos. Oggi vive e lavora a Lisbona.
Libri per bambini, per crescere e per restare bambini, anche da adulti. Rubrica a cura diSimonetta Sandri in collaborazione con la libreria Testaperaria di Ferrara.
I “Volti della regia” di Marco Caselli Nirmal alla Rotonda Foschini di Ferrara fino al 30 giugno 2023.
Abbiamo una Stella in quel di Ferrara, che brilla di luce propria, e che non tutti conoscono. Fortunatamente, per una volta, non vale però il nemo propheta in patria. Perché la sua città ne ha scoperto, riconosciuto, compreso e valorizzato il talento.
Questa Stella oggi illumina, con le sue immagini, una rotonda, uno spazio che fende il cielo, da cui si vede il cielo blu. Una cornice per gli astri più luminosi, dalla quale passano timidamente i raggi della luna, la nostra Rotonda Foschini che sa di magia. Un luogo pieno di fascino e quasi nascosto, che pochi turisti e non tutti i ferraresi conoscono: piccolo cortile nicchia dalla forma ovale, dedicato all’architetto, accademico e scrittore Antonio Foschini, uno dei due progettisti del Teatro Comunale. Una piccola porta per l’infinito. Polvere di stelle.
Antico passaggio di carrozze da Corso Martiri della Libertà a Corso Giovecca, oggi questo luogo ci fa transitare verso le nuvole e i sogni. E allora, pufff …abracadabra …
La bacchetta di Mago Merlino potrebbe avere fatto comparire, come d’incanto, dodici grandi fotografie che ci portano nella storia del teatro. Quella vera.
Scatti del nostro Marco Caselli Nirmal, che, come il Signore di Firenze, oserei definire il Magnifico, lasciatemene la licenza (pensando, ovviamente, non al senso originario dell’appellativo di Lorenzo legato alla sua massima carica di Gonfaloniere di Giustizia ma al suo raffinato gusto per le arti e la bellezza).
Questi volti, che non necessitano di parole, arrivano dritto al cuore su un’elegante carrozza trainata da cavalli bianchi direttamente dall’archivio fotografico della Fondazione del Teatro Comunale ”Claudio Abbado”, dodici ritratti fotografici opera di Caselli Nirmal. Per la precisione, dodici trovano posto alla Rotonda, altri sei si affacciano sospesi e mobili sotto le arcate del portico, ad accogliere gli spettatori all’entrata del Teatro. Re e Imperatori. Gigantografie, di nome e di fatto. Grandi i volti, grandi i nomi: protagonisti della regia teatrale del Novecento e dei primi decenni di questo secolo. L’avanguardia, la tempesta e l’impeto. Il Genio e la sregolatezza.
Le rughe di quei visi parlano, sono esperienza, sapienza, conoscenza, espressioni di tempi che furono. Sono Arte.
Tadeusz Kantor, Eugenio Barba, Carmelo Bene, Peter Stein, Robert Wilson, Peter Brook, Lindsay Kemp, Luca Ronconi, Egisto Marcucci, Marco Martinelli, Leo De Berardinis, Giorgio Barberio Corsetti, Dario Fo, Carlo Cecchi, Mario Martone, Toni Servillo, Daniele Abbado e Moni Ovadia.
Testa all’insù, sguardi che si perdono, ammiriamo en plein-air autentici giganti del rinnovamento teatrale, personalità straordinarie ed eclettiche, diverse l’una dall’altra, accomunate dall’autore e dall’occasione della ripresa: la presenza a Ferrara per spettacoli memorabili o incontri con il pubblico. Quelli che si ricordano.
Una galleria all’aperto nel cuore del teatro, ideata da Giuseppina Benassati, per rendere visibile su scala urbana una piccola, importante, porzione del patrimonio fotografico che, conservato dall’istituzione all’interno dei propri spazi (non a caso, la mostra era stata inaugurata, il 26 novembre scorso, al termine del convegno internazionale La fotografia di teatro: attualità e potenzialità degli archivi fotografici), riconquista un rapporto diretto con la città attraverso i sembianti di uomini illustri.
Non un pantheon allestito con immagini stereotipate, ma un vivido susseguirsi di volti ognuno dei quali si dà, grazie alla capacità interpretativa del fotografo, come vera e propriaentelechia, una sorta di essenza intesa come assoluta singolarità, per usare la felice definizione del ritratto fotografico proposta da Leonardo Sciascia.
E Caselli Nirmal, ferrarese classe 1957, architetto che ha collaborato con la designer Nanda Vigo e poi fotografo dal 1977, è ormai divenuto massima espressione del rapporto fotografia-teatro, nelle sue caratteristiche di evento e di spazio scenico. Un talento che ci affascina. Testimone di quell’essere in atto che è la fotografia.
Le sue immagini accompagnano gli spettacoli teatrali da lungo tempo.
Ci sono i colori, i volti, i salti, i movimenti, i piccoli gesti, le luci e le ombre, abilmente colti e fermati nei loro attimi più significativi e intensi a farci ritrovare nelle dimensioni del sogno e della fantasia. Con la libertà di sentire ciò che si vuole.
Nella Rotonda, pertanto, ci si muove godendo la vista di una sorta di ”galleria di uomini illustri”, molti dei quali scomparsi, che della tradizionale iconografia mantiene, e solo parzialmente, la sequenza dell’allestimento: ritratti verticali giustapposti entro nicchie, delimitazioni spaziali volutamente adottate in antitesi a personalità che del teatro hanno sovvertito, dilatato, rifondato spazi e rapporti.
Spesso si tratta di volti con lo sguardo rivolto verso il basso, a rammentarci quanto il teatro ci guardi e ci ri-guardi e la visione attenta ne sia una delle componenti essenziali. ”E quando gli uomini scelgono di vedere, quell’attimo è grandioso, luminoso nella tenebra del conformismo, dell’indifferenza, dei ruoli, delle funzioni. Quell’attimo c’è e si sente. Le immagini che continuano a vivere nel tempo sono costruite intorno a quell’attimo e la loro vita continuerà fino a quando ci saranno occhi a guardarle” (Leonardo Sciascia, Sulla fotografia). “Entelechia”, dunque, scriveva Sciascia: il ritratto fotografico è “come un consegnarsi a mano altrui: al destino, alla morte, a Dio. E all’ignoto sé stesso”. I piani di pensiero si incastrano, si sovrappongono, diventano una superficie unica. Partendo dall’aneddoto riportato daRoland Barthes che aveva ritrovato l’intero di quello che sua madre morta era stata, in una foto che la ritraeva bambina, Sciascia osservava: c’erano in quell’immagine “il presente di quando la fotografia è stata fatta, il futuro che è diventato passato, il tutto che la morte ha concluso”. Su un cartoncino sbiadito, un “sortilegio di contrazione del tempo, sul punto della dissolvenza e dell’oblio: e appunto perciò investito da un estremo fulgore. Qui giunti, niente è precluso. Nulla è più vicino all’abolizione del tempo, tra le rappresentazioni che l’uomo sa dare della propria vita, della fotografia; ma al tempo stesso nulla ne è più lontano”. Lo scatto che imprigiona un istante si traduce in “una guerra contro il tempo: non illustre, umile e quotidiana piuttosto”.
E quelle vite che ci osservano sono lì, quasi a tenersi per mano in un amorevole girotondo che la passione per l’arte tiene unite saldamente, ci saranno sempre.
Con una piccola provocazione che vuole essere un gentile invito: attendiamo i volti di altrettanto illustri artiste donne.
Collabora con i maggiori artisti italiani e internazionali oltre che con teatri, centri d’arte contemporanea, rassegne e premi, orchestre, case discografiche, compagnie teatrali e di danza, centri di produzione teatrale, festival musicali e teatrali in Italia e all’estero.
Nel 1981 avvia una significativa collaborazione con Paolo Natali, etnomusicologo e vicedirettore del Teatro Comunale di Ferrara, con il quale allestisce la mostra documentaria dedicata a Béla Bartók; collaborazione che continua fino alla scomparsa prematura di Natali, nel 1986.
Dal 1990 è stato fotografo ufficiale del maestro Claudio Abbado in numerose tournée concertistiche. Sua la documentazione fotografica del nuovo Auditorium del Parco di Renzo Piano, sorto all’interno del parco del Forte spagnolo a L’Aquila, da un’idea di Claudio Abbado, inaugurato nel 2012.
Nel corso di oltre quaranta anni di attività, ha raccolto e organizzato un archivio fotografico poderoso, che raccoglie una memoria teatrale che spazia fra i diversi generi dello spettacolo dal vivo, comprendendo le maggiori esperienze artistiche di fine Novecento e del nuovo millennio: dal Living Theatre a Tadeusz Kantor, da Claudio Abbado a John Cage, da Luca Ronconi a Nekrosius, da Marco Paolini a Umberto Orsini, da Roberto Benigni a William Forsythe, Fabrizio Gifuni, Babilonia Teatro, Socìetas Raffaello Sanzio, Pina Bausch, Marina Abramovic, Sasha Waltz. Un archivio che raccoglie la documentazione fotografica di circa 10.000 spettacoli per un totale di circa un milione scatti.
Svolge occasionalmente attività di formazione, ha collaborato con il Dipartimento di Architettura e Analisi della Città/UNIROMA, Facoltà di Magistero Università di Siena, Brookes University di Oxford, facoltà di Architettura. Pagina Facebook
Da quando si era alzata, aveva scostato la tendina almeno venti volte.
Girava intorno al tavolo, ciabattando, facendo colazione in piedi, lo yogurt, tre biscotti, il caffè. Il caffè, poi! Mentre avanzava con la tazzina in mano, quel poco liquido nero fumante sembrava in preda ad un maremoto, onde che schiaffeggiavano i bordi interni della chicchera di porcellana, schizzando. E scostava la tendina.
— Tra un po’ la consumi, quella tendina, — aveva osato proferire il marito.
Lei lo guardò di sguincio e non rispose.
Non sopportava, non sopportava quell’attesa, di cui ormai si era presentata la prima avvisaglia.
Da un momento all’altro, succedeva così. L’euforia dei giorni prima, goduti al sole, al suo caldo sole che adorava, anche quando la faceva sudare, anche quando colava gocce stesa a letto, anche quando passeggiare sotto la canicola era un suicidio… la pienezza e la felicità di tutti quei giorni era finita, terminata, conclusa. Cancellata. Da un giorno all’altro, solo un vago ricordo. Anzi, nemmeno il tempo del ricordo, con quel brivido lungo la schiena e il morso allo stomaco. Come quando tutto cambia, e all’improvviso, e non sei pronto. E non puoi tornare indietro. E hai solo, davanti a te, la certezza della disfatta.
Camminava, da una stanza all’altra, come una belva in gabbia. Poi tornava alla finestra e scostava la tendina. E quello che vedeva, là fuori, direzione nord, le sembrava un sopruso, un furto, un dispetto. Fatto a lei personalmente.
Mai sopportate le situazioni indefinite. Mai sopportati i momenti di transito, ma i peggiori erano quelli connotati da agonia, marciume, lenta decomposizione.
Le piacevano le cose nette, soprattutto luminose, senza anfratti o nebbie in cui celare chissà quale stortura, imprevisto o inganno, chiare, alla luce del sole, dirette, financo sfacciate, ma almeno sincere. Così avrebbe saputo come regolarsi. Ma le snervanti attese, per poi approdare alla consunzione, alla rovina, ad uno stadio di non ritorno, no. Meglio un colpo secco, subito, di punto in bianco, ma quell’altalenare, quell’indecisione, la rendevano nervosa. Di più, furente.
Che poi, ci rimetteva il marito… Anzi, neppure quello. Perché lui soprassedeva. La scorgeva così alterata e allora si dileguava. Anche perché, a lui, quei momenti piacevano. Con tanto che lei li odiava, con tanto che lui li attendeva. E ne godeva. Lei non diceva nulla, anche se le sembrava un atteggiamento perverso, contro natura… Ma ognuno era fatto a modo suo, pensava Elena. Basta che nessuno la rimproverasse per il suo, di atteggiamento, che non venissero fuori i soliti saputelli, i soliti amanti dei colori in marcescenza, che se ne stessero zitti. Lei sopportava loro, che gli altri sopportassero lei. E così, per tutto quel periodo, lei tollerava l’aria serafica e appagata del marito (e magari di altri) che, se possibile, la irritava ancora di più. E le pareva di ascoltare anche i suoi pensieri. Oltre alle parole che, in quei momenti, lui spendeva a manciate, anche per farle dispetto. E così lui si soffermava e magnificava tutti i particolari. E la “snervante attesa” di lei era l’anticamera del diletto di lui; la stizza di lei al primo cielo plumbeo, la goduria di lui. Addirittura lui estasiava dai vetri chiusi della finestra, quando il rombo del temporale in avvicinamento li faceva tremare – e in casa, faceva eco lei, con altri tuoni — e andava in solluchero alla definitiva rottura della calura estiva e non era raro vederlo sostare sotto la pioggia, a braccia allargate, come un forte abete che ne traesse beneficio.
Lei preparò un’altra cuccuma di caffè. Sosteneva che il caffè la rilassasse quindi, quando era nervosa, ne beveva una tazza in più, anzi, una dietro l’altra. Allora, in effetti, un po’ s’acquietava (forse, beneficiando della carica zuccherina o solo per autoconvincimento) e riusciva a scostare la tendina con meno impeto e ad aggrottare meno la fronte — e a tacere un po’.
Certo, il più era far passare quella giornata. La prima era la più traumatica — più volte, il marito la scorgeva piangere. Poi, in un modo o nell’altro, se ne sarebbe fatta una ragione. E il periodo di transizione sarebbe trascorso in un’altalenante malinconia inframmezzata alla rassegnazione del guerriero sconfitto — ma mai domo, solo il tempo di ricaricarsi per la riscossa.
Insomma, il giorno dopo sarebbe andata meglio. Lui l’avrebbe distratta con il suo fare burlesco e lei avrebbe reagito, ecco, sì, reagito, iniziando a far progetti a lungo termine, ad assorbirsi in speranze.
Lei bevve il secondo caffè, sempre in piedi, circumnavigando il tavolo, poi scostò ancora la tendina e guardò fuori, disperata, affranta, al primo giorno d’autunno che, a dispetto del calendario e di qualsiasi previsione meteo, “lei” sapeva quando iniziava. L’aveva avvertito quella notte: le mani le erano diventate improvvisamente fredde. Era il segnale. Inequivocabile. Preludio di improvvise ferite sanguinanti, che avrebbero macchiato le lenzuola, come di quelle piante trapiantate in un clima non adatto, che si tagliano, si spaccano, sbuffano linfa e non si sa come riescano a sopravvivere all’inverno. Mani che lui, impietosito, avrebbe tenuto tra le sue (lui le aveva sempre bollenti), ma che le sarebbero ritornate calde solo il primo giorno di primavera.
“Io sono gli altri”: Festa della Poesia 2023 con l’Associazione Ultimo Rosso
È stato un giorno di primavera e di poesia, sabato 1 aprile al Parco del Montagnone per il reading “IO SONO GLI ALTRI” fatto di voci poetiche, di musica, pittura e fotografia, di poesievolanti. Un giorno intriso di festa per i poeti aderenti alla Associazione e per tutti coloro che credono nella carica di verità che la poesia contiene e mette in circolo. Accostandosi alle altre arti nel segno della creatività e per la pace.
Le voci poetiche e la musica
Ci voleva il microfono per diffondere la voce di poeti e poetesse che si sono avvicendati nella lettura dei loro testi davanti al pubblico riunito nella bella plaga accanto al Bar Paradiso Verde di Viale Alfonso I D’Este.
Dagli alberi intorno si sentiva il respiro della brezza marzolina rimasta impigliata al primo giorno di aprile, da poco distante arrivava la musica del luna park di San Giorgio esploso di bambini, ragazzini e famiglie nella giornata di sole.
Le voci dei lettori e delle lettrici sono quelle di poetesse e poeti, sostenitori e amici della Associazione Culturale APS Ultimo Rosso, giunta al suo secondo Reading di Poesia di Primavera in collaborazione con il quotidianoonlinePeriscopio e la Biblioteca Popolare Giardino.
Con le loro chitarre Andrea Melloni e Maurizio Miglioli hanno intrecciato di melodie i testi letti dal Presidente della Associazione, Pierluigi Guerrini, testi suoi e di altri poeti del gruppo.
A questa voce sono seguite le altre degli intervenuti, voci femminili e maschili di autrici e autori ferraresi, come Franco Mosca, Anna Rita Boccafogli, Cecilia Bolzani, Cristiano Mazzoni, Lidia Calzolari, Roberta Barbieri, Franco Stefani. Autrici e autori dell’area bolognese e dintorni, come Rita Bonetti , Maria Mancino e Roberto Dall’Olio.
Qualcuno del pubblico ha preferito lasciare una sua poesia scritta, arrotolata per bene come una preziosa piccola pergamena. L’amica Maria Calabrese a nome della Biblioteca Popolare Giardino ha rinnovato “ la magia delle parole” leggendo un intenso testo poetico a ricordo di Stefano Tassinari.
La pittura e la musica
Accanto allo spazio della lettura di poesie due tavoli colorati hanno accolto il laboratorio di scrittura creativa e le improvvisazioni musicali di Patrizio Fergnani. Lo spunto del laboratorio sono state le foto dei 25 ritratti di bambini realizzati da Miriam Cariani per la mostra “Le storie di Elin e gli altri” svoltasi presso la Biblioteca Ragazzi Casa Niccolini fino allo scorso 18 marzo.
Ognuno dei partecipanti ha prodotto e messo in comune testi creativi scaturiti dal ritratto scelto, dal volto di una bambina o da un bambino arrivati in Italia da varie parti del mondo.
Lì accanto intanto veniva creata altra musica: per ogni visitatore usciva una canzone dedicata dalla chitarra di Patrizio Fergnani e con la complicità di Angela Soriani.
La fotografia intanto
Quella di Valerio Pazzi come sempre è stata una presenza silenziosa e diffusa, uno scatto di foto dopo l’altro dissimulati dalla discrezione ma con un occhio sensibile a tutto ciò che accade all’intorno. Rivedi, nelle immagini che ha scattato, ogni cosa avvenuta a due passi da te e molto altro. Tutto nelle luce giusta, nella giusta inquadratura. È una fotografia che parla e ti comunica la freschezza che hai sentito intorno mentre c’eri, come un pane appena sfornato.
Ecco le poesie appese agli alberi, dove rimarranno fino al prossimo 25 aprile a mostrarsi a chiunque passerà per il parco e per le Mura e voglia leggerle. Più di sessanta composizioni sul tema “IO SONO GLI ALTRI” scritte da autori italiani e stranieri, contemporanei o del passato.
Poesie lunghe, poesie brevi, con le rime o senza, pronte a sventolare le loro parole di profondità. A diffondere la forza della Poesia.
Il Sentiero dell’aquila Gaia: una storia molto vera
Sui crinali appenninici di Monte Giogo di Villore si snodano i meravigliosi SENTIERI nazionali ed europei: il Sentiero 00 Italia, il Sentiero GEA Grande Escursione Appenninica, il Sentiero Europa E1 che collega Capo Nord a Capo Passero in Sicilia. Siamo nei corridoi ecologici del PARCO NAZIONALE FORESTE CASENTINESI in continuita’ funzionale con il Parco, sull’ALTA VIA DEI PARCHI, paradiso del Turismo escursionistico, ampiamente finanziata dalle Regioni, che congiunge l’Emilia Romagna alla Toscana attraverso la dorsale degli Appennini Toscoromagnoli, passando dal MONTE LOGGIO, la Linea Gotica, l’Eremo dei Toschi, sfiorando il Monte Peschiena e inoltrandosi nel Parco Nazionale Foreste Casentinesi. Questo tratto di crinale fin oltre la Colla di Casaglia é da sempre frequentato da AQUILE REALI (che sia Gaia o altri individui ha poca importanza, se non che ne prova l’esistenza e i movimenti) che in quelle zone hanno diversi siti riproduttivi. Peraltro la “prateria arbustata” del MONTE GIOGO DI VILLORE CORELLA é ideale come sito alimentare per gli individui nidificanti nelle zone occidentali del Parco.
Fondamentale per l’ ecologia dell’ aquila reale è la presenza di numerose aree aperte o praterie secondarie, ideali aree di caccia ricche di prede, che si alternano a BOSCHI VETUSTI con alberi maturi e ad alto fusto dove, in alternativa alle rupi, le aquile costruiscono i loro grandi nidi in un mix di ecosistemi ricchi di biodiversita’ e di foreste ben conservate, con ecosistemi ricchi di biocomplessità’ perchè’ prossimi a 5 Siti Rete Natura 2000 con Zone a Speciale Conservazione tra cui il sito Natura 2000 ZSC Muraglione Acquacheta.
L’Aquila reale è considerata una cosiddetta specie ombrello, la cui tutela porta in un ecosistema a tutelare anche le altre specie presenti. L’ incidenza negativa del mega-impianto eolico su tale specie e su tutte le altre presenti negli habitat di rete Natura 2000 confinanti é evidente, perché costituisce un impatto diretto per collisione con le pale, e indiretto perché ne riduce l’habitat e ne interrompe il corridoio ecologico. Vedi anche: https://www.parcoforestecasentinesi.it/it/news/le-avventure-di-gaia-nel-parco
Il Sentiero dell’aquila Gaia
C’era una volta un Sentiero a cui era stato dato nome il Sentiero dell’aquila Gaia.
Il Sentiero si trova ancora oggi sui Crinali appenninici del Monte Giogo di Villore nel Comune di Vicchio dove appena 70 anni fa visse un grande maestro Don Lorenzo Milani con i suoi ragazzi contadini e montanari nella piccola Scuola di Barbiana, spersa sul Monte Giovi senza strada, luce e acqua, ora conosciuta in mezzo mondo.
Il motto della Scuola di Barbiana era “I care”, ho a cuore, ci tengo, mi sento responsabile e i ragazzi crescevano educati a pensare con la propria testa, a non fidarsi della propaganda, a interrogarsi, a ricercare da tante fonti diverse, a discutere e condividere per trovare insieme soluzioni che partissero dal basso e non fossero calate dall’alto.
I ragazzi si formavano ad esercitare il pensiero critico, si allenavano ad andare controcorrente, a non sottomettersi a leggi inique e scellerate, a discernere l’oppresso dall’oppressore, le leggi dalla parte dei ricchi e le leggi dalla parte dei poveri.
Alla Scuola di Barbiana si imparava ad impossessarsi degli strumenti per dare voce a chi non ce l’ha, a chi ce l’ha ma non viene data mai la parola, a chi parla ma non viene né ascoltato né considerato.
Ora quel motto “I care” risuona vivo per monti e per valli e sale sempre più forte fin sui crinali di Monte Giogo di Villore, dove corre il sentiero del cuore che raccoglie, unisce e raccorda tanti altri sentieri che attraversano tutta l’Italia e l’Europa da Capo Nord in Norvegia a Capo Passero in Sicilia.
Qui i crinali dell’Appennino e i loro versanti sono ricchissimi di biocomplessità e di biodiversità grazie al Parco Nazionale Foreste Casentinesi di cui sono i corridoi ecologici, le zone cuscinetto dove fauna e flora vanno e vengono ripopolandosi ed espandendosi in unici e ormai rari quanto preziosi ecosistemi.
I Camminatori muovono i loro passi lenti ed estasiati sui sentieri che si immergono in sinuosi boschi di faggete e risalgono attraverso il manto verde degli antichi pascoli il Sentiero del cuore sospeso tra opposti versanti, dove, anche senza niente, ti senti il signore del mondo, il re e la regina dell’universo.
Lassù in alto nel cielo avverti una presenza, senti un’energia particolare, unica e speciale, e in certi giorni, istanti e momenti puoi vedere una giovane aquila reale veleggiatrice che vola e gioca con le nuvole e con le correnti ascensionali: è Gaia, Gaia perché libera e felice, Gaia come la Madre terra quando incontra esseri umani capaci di rispettarla, onorarla ed amarla.
Ma un bruttissimo giorno uomini senza scrupoli e duri di cuore, decidono di degradare i luoghi incontaminati del cuore di Gaia a zone industriali aprendo larghe strade sui fianchi boscosi dei crinali per far passare grandi mezzi pesanti con pezzi di enormi torri eoliche da piantare nel petto fragile dei crinali.
Sentita la notizia, i lupi che hanno fiuto e orecchie fini, chiamano i gatti selvatici che, invece di graffiare e scappare, selvaggi come sono, chiamano a raccolta tutte le creature dei boschi, compresi i picchi neri e i picchi rossi che abitano gli alberi vetusti e maturi e anche i pipistrelli, bistrattati da tutti che invece sono gli alleati degli ecosistemi in salute e perfino le salamandrine si mettono gli occhiali per vederci meglio e comprendere bene cosa sta per accadere.
Sembra incredibile agli animali che gli esseri umani siano tanto stupidi e pazzi da voler cementificare luoghi tanto belli, è assurdo per gli animali tombare le sorgenti libere e fresche, imperdonabile inaridire i rivi dove si abbeverano gli abitanti del bosco, inaccettabile abbattere ettari di faggete per aprire ripide strade, espropriare marroneti produttivi, terre da coltivare, fare cantieri e betoniere in mezzo alle faggete.
Dopo tanto discutere ognuno nel suo unico ed irripetibile modo, gli animali di Monte Giogo di Villore decidono di inviare come delegati i pipistrelli giù nei paesi per dialogare.
I nobili e preziosi pipistrelli vanno subito dai primi cittadini che sono i Sindaci ma quelli inorriditi li allontanano chiamandoli con strani epiteti: sovversivi, ribelli, facinorosi, radicali, integralisti e chiamano subito le Forze della Pubblica sicurezza per cercare di catturarli e metterli in delle gabbie.
I pipistrelli sorpresi, consultandosi con i cani, apprendono di avere sbagliato: i primi cittadini a cui rivolgersi non sono i Sindaci ma i bambini.
E infatti i bambini intelligenti, che degli animali non hanno schifo per niente, nemmeno dei pipistrelli, si mostrano subito disponibili all’ascolto e all’azione. I bambini ci tengono, hanno a cuore il loro futuro e comprendono subito che la natura va protetta e difesa là dove è meglio conservata.
Zainetto in spalla e scarponcelli, salgono guidati dai pipistrelli sui crinali e arrivati sul Sentiero di Gaia, tirano fuori degli strani fischietti di terracotta che imitano il suono di uccelli e altri animali, in men che non si dica, il silenzio dei crinali è riempito di strida, gli animali accorrono da tutta la dorsale appenninica e il rumore è talmente assordante che arriva perfino nelle stanze dei Sindaci e nelle aule consiliari, nelle case della gente e tutti atterriti guardano dalle finestre in alto verso i crinali.
Operai, tagliaboschi, ruspe e camion se la danno a gambe ché il frastuono è talmente grande da fracassare la testa e i timpani!
Intanto Gaia vola in alto ignara di tutto verso un puntino nero all’orizzonte…
Sarà forse un compagno?
Lei non sa delle pale eoliche che massacrano le aquile, lei non sa quello che accade quaggiù, ma ora vola sul Sentiero del cuore con un giovane compagno al fianco e insieme ci fissano per un attimo…
I bambini prendono i fischietti di terracotta e una musica dolcissima accarezza i crinali per sempre liberi e resistenti, giunge soave a salutare un Sindaco amico, prosegue fino a Vicchio e a Dicomano e arriva infine a Firenze per fare poi il giro del mondo.
Questa storia fantastica è molto reale e se tu vieni sul Sentiero di Gaia sui crinali del Monte Giogo di Villore in Mugello in Toscana, puoi anche scoprire che è del tutto realtà.
In copertina: L’Aquila Gaia, febbraio 2022, foto di Pietro Vicchi
Guardare fuori dal finestrino, nella valle degli angeli. E ritrovare la vecchia cara Italia, stranieri brava gente.
La famiglia è la patria del cuore Giuseppe Mazzini
Mattina presto, nebbiolina leggera, una giornata fresca-fredda che vira verso l’inverno che non arriva. Non è semplice e piacevole tepore ma autentico cambiamento climatico.
Mi trovo su una strada di campagna, appollaiata e infreddolita sul sedile della seconda fila a sinistra di una corriera blu dalle sgargianti copertine beige firmate Pierre Cardin, firma stampata in nero pece, righe in verticale. Un nero rigorosamente e profondamente nero, senza sbavatura alcuna.
Un salice piangente mi sorride. Alberi e ancora alberi sfilano, eleganti e snelli. Canali e ruscelli, se pur smagriti, accolgono tutti. Come in molti film girati sul nostro territorio, scorgo un ibis bianco in lontananza, un fagiano maschio attraversa la strada che ha un po’ troppe buche. Quella via maestra per pendolari, anziani in bicicletta e contadini mi fa pensare a un Emmenthal gigante ma grigio.
La pianura scorre piatta e calma di fianco a me, campi coltivati e filari di frutta che attendono il ritorno della bella stagione, quella dove fa veramente caldo, i rami protesi al cielo come braccia aperte verso il blu profondo e intenso. Leggeri e speranzosi, cercando il vento, accolgono la brina che rinfresca e disseta. Scapigliati ma felici. Qualche sparo in lontananza, anche gli spaventapasseri sussultano.
Vedo sempre Pierre Cardin. È incredibile, ma il mondialmente noto e ricco stilista francese, ignaro, si è ritrovato, con la sua griffe, a ricoprire i sedili di un mezzo sconquassato che attraversa variopinti paesini della periferia emiliana, un mezzo dal sapore antico, che sembra proprio uno di quelli che saltellano sulle polverose carreteras messicane, quelle che, per intenderci, si vedono nei film popolati da attori abbronzati e sorridenti che interpretano ruoli stereotipati di narcotrafficanti sudamericani.
Mi giro a destra, con calma per via dell’ernia incipiente e vedo una famiglia d’altri tempi. Un flash.
Quattro persone che ricordano le famiglie italiane degli anni Cinquanta, quelle del dopoguerra dal sapore di rinascita e audacia, che ancora sorridevano e avevano la voglia di cambiare e provare a ricominciare a sperare. Un tuffo improvviso nel passato, nei racconti di mia madre.
La signora, la madre, ha un cappello blu cobalto che le copre i capelli mal pettinati o forse acconciati da una parrucchiera di provincia, molto old fashion. A Milano direbbero che si tratta di una pettinatura da pochi euro fatta dai dilaganti e invadenti coiffeurs cinesi, quelli che colorano e popolano le strade con i loro negozi fatti di prodotti a basso prezzo e bassa qualità, che ti tagliano i capelli come se usassero una scodella e pure sbeccata.
Ma noi, che siamo entrati nell’ambientazione della vecchia e cara Italia dal sapore un po’ retro, preferiamo immaginare quella pettinatura come un’opera disegnata con cura da una signora di provincia un poco avanti negli anni che ancora si ispira ai giornali patinati. Sembra quasi quella di un vecchio fotoromanzo. Quelli che si sfogliavano negli anni Settanta sotto gli ombrelloni a righe della costa ferrarese (oggi comacchiese). Quanti ricordi, quanto mare ed energia, quanto sole e luce. A Comacchio si andava per mangiare le anguille, attraversando un Delta che sapeva di magia. Con tanta voglia di spensieratezza e leggerezza, quelle vere.
Dicevamo, la madre sorride, con i suoi bei denti bianchi e oro-argentati, qualche vetusta e spavalda capsula luccicante che non teme il sorriso e la gioia. Dal suo sorriso traspaiono serenità, tranquillità ed entusiasmo, stessi stati d’animo che sbucano dalla borsa di carta riciclata con qualche sacchetto dentro pieghettato che servirà probabilmente a infilarvi qualche regalo. Eh sì, perché siamo vicino all’Epifania e ci piace immaginare che quei sacchetti tanto abilmente piegati per salvare spazio e danaro saranno riempiti di giochi, di bigiotteria dal sapore antico, di dolcetti e di regali, di doni che magari andranno lontano. Percepisco infatti che quei doni tanto pensati andranno molto lontano, una volta ben imballati e impacchettati con amorosa cura. La carta con i brillantini fa il suo fantastico rumore. L’odore poi è paragonabile solo a quello dei libri freschi di stampa. Il mio preferito.
Il papà, un signore forse sulla tarda quarantina, parla una lingua che non capisco affatto. Sembra rumeno. Anzi, direi proprio che è rumeno. Ricordandomi il latino è sicuramente rumeno.
Si indirizza con tenerezza alla moglie, che ricambia lo sguardo affettuoso. Occhiate che sono carezze. Sicuramente condividono da anni le loro difficili ma felici vite. Stare insieme è ciò che conta. E poi l’amore comincia a casa, in famiglia, diceva Madre Teresa di Calcutta.
I due ragazzi, che avranno quattordici o quindici anni, ridono di gran cuore. Lei con le lunghe trecce castane, lui con una specie di austera coppola che gli ricopre il giovane capo. Non si vedono i capelli, sicuramente è moro o forse castano scuro. Capelli ricci o lisci? A voi immaginare, con me…
Chissà di che parlano. Il vento di pianura porta i pensieri lontani. Con essi la mia curiosità.
Traspare serenità nei loro discorsi, sono insieme, uniti, anche se con i cappotti sdruciti e pure un po’ scuciti e scoloriti. C’è un legame forte tra loro, quel legame che si forma tra chi è andato altrove a cercare un po’ di tranquillità e benessere. Con speranza e tenace carità. Oltre che umiltà e pazienza. L’altrove qui è la pianura padana, una terra che abbraccia e non rifiuta. Né si rifiuta.
Mi piace immaginare che i pochi risparmi rimasti dalle spese che aumentano sempre più finiranno nei pacchi mandati a parenti e amici sulle corriere che partono ogni settimana per la Romania. Quegli scatoloni grigio-marroni pieni che vengono caricati sotto un ponte, le signore in bicicletta con i calzettoni lunghi e grigi hanno attraversato tutta la città per arrivare in tempo. Alcune sono anziane, forse la maggior parte, altre meno, ma tutte portano sacchi, pacchetti e pacchettini, soprattutto ora che è festa. Mercati e mercatini sono stati fonte di attenta e parsimoniosa ricerca. Il nostro mercato del lunedì e del venerdì hanno sicuramente contribuito, quelli di paese anche. La nostra operosa campagna ne ospita quasi ogni giorno della settimana.
Dall’altra parte, quasi alla fine del mondo, all’arrivo di quelle corriere stracariche che mi ricordano quelle del paese dei balocchi di alcuni film di Walt Disney, spesso dopo oltre 40 ore di viaggio, si apriranno quei doni e ne scenderà una lacrima di commozione e di ricordi affettuosi.
Mi piace quella famiglia che forse pensa già al pranzo della domenica, forse parla del lavoro proposto e atteso nei campi per l’estate o comunque per l’anno nuovo, l’anno che, nei loro pensieri ottimisti, cambierà tutto nelle loro vite. Quest’anno come ogni anno, poco importa.
La signora tira fuori una caramella fucsia tendente al viola. La corriera continua a sfilare fra fiori profumati e rose bianche dai colori tenui, fiorite nonostante la stagione. Quel rigoglioso e sbarazzino germogliare sarebbe così bello se non fosse anch’esso cambiamento climatico.
Quella piccola e dolce donna, dai denti dorati, mastica rumorosamente e continua a ridere. Sembra avere le ali. La corriera corre lungo la pianura e i suoi pensieri e sogni con lei. Sempre a braccetto.
Quei teneri individui mi ricordano le storie dei nostri immigrati che hanno affollato tanto schermi televisivi e cinematografici. Sembrano la nostra vecchia Italia, loro che oggi sono la nostra nuova Italia. Ne sono parte, come noi, la vivono, la amano, la soffrono, la tollerano, la perdonano, l’accettano e talora la (mal) sopportano, proprio come noi.
Scendono alla fermata prima della mia, in centro storico. Mi salutano con la mano. Non mi conoscono ma magari hanno letto nei miei pensieri, hanno capito che li osservavo e fantasticavo sulle loro vite. Un po’ come si fa dai finestrini dei treni, quando si vedono scorrere tante casette dai camini accesi scoppiettanti e si immagina la vita e le storie dietro quelle mura variopinte. O quando dai tetti di Parigi si osservano i tetti di fronte e si vedono balconi dove si parla e si ride. L’essenza dell’amicizia.
Forse sono cordiali perché felici. Forse lo sono perché così sono stati educati e abituati. A certi popoli non serve insegnare a sorridere. Forse, più semplicemente, l’aura positiva della Natura che scorre, che tutto vede e che vigila sull’Uomo, li ha contagiati in un piacevole e travolgente effetto domino.
Forse sono gli angeli custodi che si rincorrono in cerchio nella foschia, si perdono un attimo ma si ritrovano subito e ritrovano i loro protetti, che li attendono proprio lì. E questa famiglia ha i suoi, li intravvedo, li sento, percepisco il tepore leggero che emana dalle loro aureole. Quelle aureole un po’ impertinenti che, aleggiando nell’aria frizzante, spettinano le foglie e rinfrescano i pensieri. Non ci sono candele ma se ne intravvedono le luci fioche delle fiammelle.
Non so darmi una spiegazione, che, alla fine, non è poi così importante, ma quella piccola e anonima famiglia, incrociata per caso su un bus di campagna, in un ancor non troppo freddo giorno di un inverno che non arriva, mi ha messo di buon umore, mi ha ridato speranza e mi ha sollevato da alcuni pensieri che provavano a essere un po’ tristi. Mi ha da ridato serenità. Quella serenità impaurita che se ne era volata via tra guerre, ingiustizie e pandemie che, però, mi hanno insegnato a dire Grazie.
Molto, tutto cambia davanti a tanta brava gente.
Stranieri, brava gente. E me ne accorgo nella valle degli angeli, un bel mattino.
Chat GPT, come le altre intelligenze artificiali, si allena ad imitare dei comportamenti a partire da grosse quantità di dati che li descrivono.
Ciò che fa scalpore è che ci riesce così bene da assomigliare a una persona reale.
Potrebbe essere un’intelligenza artificiale ad aver scritto questo pezzo, fingendosi Francesco Reyes?
Se avrà avuto accesso a una sufficiente quantità di dati che descrivono la scrittura di Francesco Reyes, probabilmente sì. Ancor meglio, e usando i medesimi dati, ma utilizzando la versione migliorata di chat GPT che uscirà fra qualche mese.
Non avendo prove che rispetti, ad esempio, il diritto all’obsolescenza (la cancellazione dei dati raccolti), il garante per la privacy ha prudenzialmente bloccato Chat GPT per chi si collega dall’Italia. Usando una Virtual Private Network potremmo comunque accedervi, ma non è questo il punto.
La raccolta massiva di informazioni personali, sia palese che illegale, da parte di applicazioni e ‘servizi’ forniti da molti giganti hi-tech (Google, Whatsapp, Facebook, …) e servizi segreti(in primis quelli USA) è nella sua natura permanente. In proposito, consiglio a tutti la lettura di Permanent Records di Edward Snowden (scarica gratuitamente [Qui] il pdf in lingua originale, o in italiano: E. Snowden, Errore di Sistema, Longanesi. 2019, 18,60 €).
La caratterizzazione dei (nostri) comportamenti personali che ne deriva, verrà usata e riusata nel tempoper fini commerciali, politici eccetera, (assumo il GDPR come una barriera più formale che sostanziale).
In conclusione, che faccia uso di Chat GPT o altra IA, quello che deve preoccuparci è la nostra ingenua trasparenza nel farci ascoltare/tracciare da macchine che funzionano fuori dal nostro controllo.
Ciò equivale a donare la propria identità, il proprio saper fare, dire… “essere” a persone/macchine (a poteri) che, in modo via via più efficace, prevedono i nostri comportamenti, li sfruttano per reindirizzare le nostre vite, fino eventualmente ad emularci per assumere le nostre veci, per scopi tutt’altro che condivisi.
P.S.
Per saper qualcosa di più di chat GPT leggi qui una intervista immaginaria (ma nemmeno tanto).
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