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120 veicoli storici militari con figuranti: non è “La colonna della libertà” ma una sfilata militarista, antistorica e inopportuna

Nella giornata di domenica 23 aprile alle ore 16:15, nell’ambito delle celebrazioni per la Liberazione è previsto il passaggio a Mezzogoro (FE) di una colonna di 120 veicoli storici militari risalenti alla Seconda guerra mondiale con i loro figuranti. E in precedenza transiteranno per Bondeno,  Vigarano, Ferrara e Copparo. L’evento è chiamato “La Colonna della Libertà” e a nostro avviso è un’esibizione militarista, antistorica e inopportuna che  non condividiamo perché non è questo il modo di celebrare la Festa della Liberazione, anzi è un modo per manipolare la storia.
Presentata come Rievocazione storica la sfilata di mezzi militari, compresi carri armati ed automezzi tedeschi con comparse abbigliate con divise da soldato che richiamano eserciti alleati e si auspica non divise tedesche,  riteniamo sia  una  iniziativa  antistorica e inopportuna.

Antistorica
in quanto si concentra solo sul ruolo che ebbero i militari nella Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, distorcendo la storia e tralasciando la complessità della lotta portata avanti dal popolo italiano e dalle formazioni partigiane che a livello anche locale hanno dato un grande tributo di sangue. I tedeschi, i nazisti ed i fascisti sono stati coloro che hanno portato Italia alla guerra, alla distruzione, al dolore ed è stata la Resistenza a liberarci da tanta oppressione!   Ed il  25 aprile si celebra la  festa  della Liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista, la festa della ripartenza democratica e antifascista, del ripudio di ogni guerra, che sono i valori fondanti sanciti dalla nostra Carta costituzionale.

Esibire armi, soldati e mezzi militari non è il modo per affermare i valori della democrazia e della pace
. È una rappresentazione muscolosa che senz’altro piacerà alle destre che la giustificano spacciandola per attrazione e promozione turistica delle città attraversate da questa inquietante messa in scena mentre si dovrebbe  investire denaro per promuovere iniziative sulla storia della Liberazione, quella frutto di rigorosi criteri storici e scientifici, contrastando ogni forma di  revisionismo.

Inopportuna
,  in quanto le amministrazioni locali dovrebbero contrastare la drammatica tendenza ad accettare e giustificare il confronto armato, che purtroppo domina la quasi totalità dell’informazione  con l’effetto di rafforzare spinte autoritarie e antidemocratiche, di incrementare i conflitti armati che provocano vittime, profughi, danni all’ambiente e alla salute di ogni essere vivente, aumenti dei costi energetici, aumento delle spese militari a danno degli investimenti in sanità, scuola, servizi sociali e tutela dell’ambiente.
Facciamo appello ai singoli, alle associazioni, alle forze politiche e sindacali, affinché si oppongano a questo tipo di rappresentazioni.
Daniela Fuschini, Dipartimento Antifascista PRC Federazione di Ferrara
Stefania Soriani, segretaria di PRC  Federazione di Ferrara
In copertina: 2 Giugno 1951: sfilata di carri armati davanti alla tribuna delle autorità, in via dei Fori Imperiali, durante la parata militare del 2 giugno (Archivio Luce)

Nella Protezione Civile il mio piccolo contributo al cambiamento sociale

Ho passato poco più dei miei sessant’anni a rincorrere quella chimera che è l’equità sociale, ho frequentato la politica attiva, dapprima come semplice simpatizzante, e poi come militante attivo, ho letto migliaia di pagine per la mia fame di conoscere.

Ho frequentato ambienti di estrema sinistra per poi accorgermi che le utopie sono, si, affascinanti da teorizzare, ma si scontrano, quasi sempre, con la realtà, che ci procura bruschi risvegli.

Come tutti i romantici, però, gli anni di militanza e un’analisi spietata della mia personalità, mi hanno fatto comprendere che quella non era la strada giusta per provare, non dico a cambiare il mondo, ma, quantomeno, a dare il mio, seppur minimo, contributo al cambiamento.

Non pretendevo di essere un protagonista della vita pubblica, non ho né il fisico, né le propensioni a mettere in mostra il mio ego, ma mi sarei accontentato di accorgermi che le ore passate a leggere e ad occuparsi degli altri, potessero darmi il segno di essere stato utile.

Tutto ciò, le mie delusioni, le mie illusioni crollate di fronte alla vita reale, hanno avuto una vera svolta, il giorno in cui mi sono approcciato con il mondo della protezione civile.

Confesso che, forse, mi ci sono avvicinato in un momento difficile della mia vita professionale, forse per noia o, forse, per mera curiosità, ma, anche solo la minuscola opportunità di rendere il mio operato utile alle persone, mi ha fatto decidere di iscrivermi ad un’associazione di Protezione Civile (PC).

Come in ogni cosa che ha camminato al mio fianco, ci ho messo tutto l’impegno, dapprima leggendo le leggi che regolamentano la PC, e poi intervenendo attivamente con le mie idee all’interno delle riunioni o delle assemblee. Ciò mi ha dato l’opportunità di mettere in gioco tutto quello che, per una vita, è stata la mia filosofia, la mia, prepotente, voglia di provare nuove strade e di tentare di percorrerle per dire a me stesso, il giorno in cui dovrò abbandonare la vita terrena, che essa non è stata inutile e che ha aiutato buone pratiche di cambiamento.

Durante questi anni in PC, tutti noi abbiamo avuto l’opportunità di scontrarci con una problematica di natura sociale molto pesante, che la pandemia ha solo messo in forte evidenza, ovverosia la solitudine, il senso di abbandono di una parte della società che fatica a fare le faccende più semplici ed ovvie, quali recarsi dal medico, all’ospedale per una visita od anche, semplicemente andare in farmacia o a fare la spesa.

Ed eccola, quindi, l’occasione di aprire la mia propensione al cambiamento e alle innovazioni, coadiuvato da un bel gruppo di volontari che, come me, volevano rendersi utili alle persone meno fortunate, abbiamo organizzato un servizio di trasporto sociale, servizio che non avviene attraverso un listino, che non sarebbe né equo né, tanto meno, solidale, ma attraverso le donazioni volontarie delle persone che trasportiamo.

Ecco, quindi e finalmente, che mi si è aperta l’alba dei miei sogni, finalmente ho avuto, netta, l’impressione che se ci si crede, se ci si lavora con impegno e devozione, si può, davvero cambiare i paradigmi che regolano le convivenze civili, si può vedere l’altro con il nostro stesso sguardo e non da altezze diverse, si può tendere la mano a chi, anche solo temporaneamente, vive in solitudine ed in difficoltà.

Non è facile, scrivendolo, raccontare le emozioni che si possono provare nello svolgimento delle attività sociali e di protezione civile, le parole possono sembrare vuote e fredde, ma il sorriso, i piccoli gesti di ringraziamento delle persone sono in grado di riempire, nel profondo, il cuore di chi ha deciso, come me, come noi, di dedicare un po’ del proprio tempo libero per occuparsi delle persone.
Per semplicità posso provare a raccontare una giornata tipo del volontario che, come me, si dedica a quelli che mi sento di definire bisogni primari delle persone.

Prima di tutto perché li definisco bisogni primari?
Perché in caso di qualsiasi emergenza, soprattutto ambientale, il sistema di protezione civile interviene per soccorrere chi ha subito danni personali o alle proprie cose, ma, poi, chi si occuperà dei loro bisogni, quali reperire le medicine o il vestiario, irrimediabilmente perso nell’emergenza, chi ascolterà i bisogni, che possono sembrare, di poca importanza, ma fondamentali per la sopravvivenza di chi subisce l’emergenza, se non i volontari?

Allora ci si affianca a coloro che stanno, materialmente, occupandosi di rimettere il sistema in attuazione, e si ascoltano le esigenze, cercando di trovare la giusta strada per risolverle.
Lo so, sono consapevole che quanto siamo facendo, io ed i volontari della nostra associazione di PC, è una piccola goccia che rischia di perdersi in mezzo ad un mare fatto di egoismi, personalismi e conflitti sociali, ma le risposte morali, i gesti di affetto e di riconoscimento delle persone che trasportiamo, sono l’evidenza che, ancora una volta, attraverso le piccole cose ed i piccoli gesti di solidarietà, si possono interpretare grandi rivoluzioni pacifiche, che, davvero possono dare l’abbrivio al cambiamento del mondo.

Le storie di Costanza
Aprile 2062 – La cattiveria dei Robot

Le storie di Costanza. Aprile 2062 – La cattiveria dei Robot

A volte questo strano mondo del 2062 mi fa impressione. Tutto cambia molto velocemente, tutto si trasforma e ricicla, tutto comincia e finisce secondo delle modalità e dei tempi che non hanno nulla a che vedere con quelli usuali negli anni 2000, quando io ero giovane. L’inizio del nuovo secolo è ormai lontano e i miei pronipoti Axilla e Gianblu studiano cosa è successo in quel periodo sui libri di storia.

Avendo 90 anni, sono anch’io un archivio storico e ogni tanto i ragazzi mi interrogano: “Zia Costanza sui nostri libri c’è scritto che l’11 settembre del 2001 un gruppo di terroristi islamici affiliati ad al-Qāʿida (Al Qaeda) fece schiantare due aerei civili contro le Torri Gemelle di New York, che crolleranno nell’arco di 102 minuti per i danni causati dagli impatti e dai conseguenti incendi. Tu c’eri? Cosa ricordi?”

Così cerco di trovare nella mia memoria qualcosa di interessante da raccontare loro che non sia direttamente fruibile dai libri. Mi metto a ripetere i commenti dei miei colleghi di fronte alle immagini in tempo reale di quella tragedia, descrivo loro che condizioni metereologiche c’erano, o dov’ero e cosa stavo facendo mentre succedeva che un aereo perforasse una torre come se fosse burro.

Oppure provo a ricordare i commenti dei primi giornalisti che diedero la notizia in TV. Attualmente pochi ricordano che il primo giornalista che diede l’annuncio dell’attacco aereo dell’11 settembre si chiamava Emilio Fede. Il giornalista era nella redazione di una delle TV Mediaset per condurre il TG del pomeriggio e si trovò, praticamente in diretta, a commentare quell’attacco terroristico.

Da quel giorno è passato molto tempo, molti altri attacchi terroristici, guerre, massacri, pandemie si sono succedute davanti ai nostri occhi, così come tanti avvenimenti belli e inaspettati. Ad esempio, nel 2030 si è chiuso il buco dell’ozono, un problema atmosferico che ha preoccupato i meteorologi e gli astrofisici per diversi decenni.

Il tempo attuale è molto diverso e le insidie che nasconde sono in parte le stesse di sempre (si può ancora parlare di attacchi terroristici) e in parte sono nuove. Ci sono alcune azioni foriere di eventi nefasti, che non esistevano nel 2000 e nemmeno nel 2030. Sono veicolate da sentimenti umani che utilizzano come tramite per l’emersione la memoria artificiale.

Il mondo dei mezzani (robot-111 e -121) era nel 2000 agli albori e questo impediva il manifestarsi di alcune insidie contemporanee.  Un dramma molto attuale si concretizza quando i Robot-111 diventano cattivi e bisogna scomporli e riassembrarli. In questo processo di frammentazione e ricomposizione le loro catene neuronali vengono interrotte ed è come se non fossero mai esistite.

Il robot riassemblato prende un nuovo nome e diventa un altro robot. Viene venduto a un nuovo proprietario e ricomincia un processo di imitazione con il nuovo umano di riferimento, che porterà il mezzano a definire il suo modo di fare, le sue cognizioni, le sue lacune e alcune sue strane preferenze.

Se partiamo dal presupposto, coerente con quanto la scienza ci insegna, che i sentimenti mezzani sono etero-riflessi, in quanto sono imitazioni di quelli umani, allora la cattiveria dei robot spaventa in quanto non è altro che l’imitazione di quella umana.

Se invece abbracciamo una teoria eterodossa secondo cui anche nei Robot si verificano processi di autogenesi riflessiva, allora la cattiveria dei Robot terrorizza perché non sono chiari i processi neuronali attraverso i quali si genera e i meccanismi elettromeccanici attraverso i quali si manifesta.
Sta di fatto che la cattiveria dei mezzani fa paura e ogni umano prova un senso di colpa se il suo robot comincia a dare segnali che vanno in tale direzione.

Tra le cose che i mezzani cattivi fanno c’è invertire il giorno con la notte. Quando fa buio, invece di riposare con i feltrini di mollan che riparano le telecamere, iniziano a cantare, roteare la testa, fare strani sibili che svegliano tutti gli abitanti di casa e, soprattutto, si mettono a fare le pulizie. Caricano e accendono la lavatrice e la lavastoviglie, spargono la cera sui pavimenti, aprono le finestre e azionano l’aspirapolvere. Sembrerebbe che abbiano invertito il giorno con la notte in maniera accidentale, ma di fatto non è così.

Oltre all’insonnia notturna, dicono parolacce inaudite e se ti avvicini provano a farti lo sgambetto, oppure a spingerti per farti cadere rovinosamente a terra. Se ci riescono, ridono facendo strani sibili metallici, come se si accartocciasse la latta di cui sono costituiti.  Se in casa c’è un animale domestico provano a buttarlo dalla finestra e se ci sono dei canarini tentano di arrostirli.

Dopo manifestazioni ripetute di questo tipo, la situazione in famiglia diventa incandescente e aumenta il nervosismo e la conseguente propensione al litigio.  I vari componenti della famiglia cominciano ad incolparsi a vicenda e ad attribuire la responsabilità del comportamento del robot al parente meno simpatico, c’è sempre in una famiglia qualcuno che per carattere o per vicende personali è meno amato e considerato, proprio lui diventa la cavia designata.

I bambini se la prendono coi genitori e i genitori si azzuffano tra loro. La responsabilità dell’incattivimento mezzano è grande e nessuno la vuole. Non è nemmeno facile accettare l’idea che il proprio robot sia definitivamente incattivito e così iniziano strane manovre giustificative e tendenze a minimizzare il comportamento deviante, fino a quando l’evidenza supera ogni ragionevole dubbio e bisogna rassegnarsi alla nuova situazione. Quando questo succede, iniziano sospiri contriti e lacrime di umani grandi e piccoli.

È giunto il momento di riportare il mezzano a Trescia-111 per farlo scomporre. Lo si mette in macchina con i feltrini sugli occhi e si parte per quell’ultimo viaggio, tanto triste quanto definitivo, che tutti ricorderanno per sempre. Non ci si comporta così quando si cambia il pc o l’elimobile, in quel caso i nuovi macchinari sono già pronti, colorati, luccicanti e più efficienti dei precedenti. Basta sceglierne uno nuovo e le prestazioni e l’attuale design sono sufficienti per far dimenticare l’imminente rottamazione del precedente.

Con i mezzani è diverso. Le loro catene neuronali sono cresciute grazie alle loro esperienze e alle loro relazioni; quindi, un robot uguale al precedente non ci sarà, non ci sarà mai più. Questo genera sgomento e senso di abbandono. È così per gli adulti, figuriamoci per i bambini, che sono gli umani più empatici che esistano. La loro giovane età li rende più sensibili e più propensi ad affezionarsi senza remore, questo porta ad un dolore sordo per il mezzano cattivo che se ne va.

È compito dei genitori accompagnare i bambini ad accettare il cambiamento, facendo intravvedere loro l’incredibile soddisfazione di portare a casa un nuovo giovane robot, che avrà molto da imparare e che sicuramente diventerà un amico efficiente e simpatico.

Grave errore da parte di un adulto sarebbe comportarsi in maniera contraria, cioè indulgere nella sofferenza dell’abbandono, rimarcando i pregi del mezzano prima dell’incattivimento. Questo stagnare nella sofferenza è un sentimento depressivo, che peggiora il distacco e inchioda il ricordo nel dolore.

Nessun adulto dovrebbe fare questo, men che meno nei confronti di un bambino, ma non sempre gli adulti si rendono conto della responsabilità che hanno nel gestire tale passaggio e non sempre hanno loro stessi le risorse cognitive ed emotive per affrontarlo.

Finora non è mai successo che dei robot incattiviti si siano uniti in un clan, creando un gruppo di mezzani cattivi. Un clan di mezzani cattivi sarebbe una vera preoccupazione e un grande pericolo, non a caso i romanzi distopici non fanno altro che descrivere, con dovizia di particolari e di corollari barocchi, questa nefasta eventualità.

Non credo che ci sia effettivamente la possibilità che un gruppo di robot costituisca un clan. Almeno per ora, nessuno di noi ha visto dei segnali che ne rappresentano la genesi. Ciò non toglie che, nel nostro pensare il futuro, questo scenario sia uno dei più nefasti. Un gruppo di robot cattivi, che unisce le sue capacità cognitive e fisiche per fare danni, può fare molta paura e creare molta apprensione.

Io che sono vecchia, mi sforzo sempre di non pensare a tutto questo, anche se la mia lunga esperienza di vita non riesce ad eludere a priori questo accadimento inquietante. Col tempo ho però imparato che gli eccessi di preoccupazione rovinano la quotidianità, frapponendo fra te e il mondo attuale l’immagine prospettica di una tragedia possibile. E allora mi sforzo di non pensarci. Penso che sia meglio così per la mia serenità e per quella dei miei famigliari.

Marlon, il primo bambino di mio nipote Enrico che ha dieci anni, un giorno mi ha chiesto se è vero che esistono i robot cattivi.
– Si, esistono – gli ho risposto
Ma tu ne hai visti?
Sigli dico
Deve essere molto brutto – ha commentato lui.

– Già, ma non esageriamo. Ci sono robot riassemblati che sono molto in gamba e che non ci sarebbero mai stati se i robot da cui sono state prese le loro parti costituenti non fossero diventati cattivi. Piccolo mio, bisogna sforzarsi di vedere ciò che c’è di positivo in ogni cosa che succede. In questo ci giochiamo la possibilità di essere felici in quanto esseri umani.

Marlon mi ha sorriso, la mia risposta gli ha alleviato tristi pensieri.
Nell’idea che tutto può essere riutilizzato e che non esiste una distruzione definitiva, ma un processo di genesi e ri-genesi, vi è parte delle nostre speranze per il futuro. Speranze molto umane che non hanno bisogno di fare i conti con l’aldilà.

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

PNRR A FERRARA: PIÙ DIRITTI PER LE DONNE?
Seminario di FareDiritti, 18 aprile al CNA

PNRR A FERRARA: più diritti per le donne?

L’obiettivo dell’equità di genere nei progetti del PNRR

Seminario 18 aprile 2023, dalle 16.45 alle 19.15 in CNA a Ferrara

E’ la domanda a cui vuole rispondere il seminario che si svolgera martedi 18 aprile dalle 16.45 alle 19.15 in CNA a Ferrara.

L’iniziativa è organizzata da FareDiritti.it, gruppo di mobilitazione civica nato due anni fa con l’intento di monitorare i progetti ferraresi del PNRR per verificarne le ricadute sull’obiettivo della parità di genere, che rappresenta uno dei vincoli trasversali a tutte le missioni del Piano.

L’obiettivo del seminario è informare la cittadinanza, in questa fase iniziale della realizzazione dei progetti già finanziati, sulle direzioni di marcia intraprese, in particolare dal Comune di Ferrara e, più in generale in provincia, in ordine all’obiettivo della riduzione del divario di genere.

Il Seminario vede la partecipazione, accanto alle fondatrici di FareDiritti, del Comune e dell’Università di Ferrara.

Per il Comune interverranno Dorota Kusiak, assessora alle Pari Opportunità, Istruzione e Politiche familiari e Andrea Maggi, assessore al Recovery fund, ai LL.PP., allo Sport.

Per l’Università interverrà il prof. Enrico Deidda Gagliardo, prorettore  alla Programmazione, al Bilancio, alla creazione di Valore Pubblico.

Nel corso del seminario saranno presentati due progetti “campione” da sottoporre ad una prima valutazione nell’ottica della creazione di “valore pubblico”, come misura  delle performance della Pubblica Amministrazione.

FareDiritti Ferrara
wwwfarediritti.it

Elisa, esploratrice di suoni

“Mi chiamo Elisa, sono un’esploratrice di suoni. Porto alla luce le armonie nascoste dell’anima per trasformarle in un ritratto musicale in cui puoi sentirti. Con il mio lavoro ti aiuto a esprimere l’essenza di ciò che ti rende speciale. Insieme, musichiamo il tuo silenzio”.  

Giornata dall’aria ancora frizzantina, direzione via Cisterna del Follo 33. Elisa mi aspetta all’angolo della via, mi è venuta incontro. Non è cosa abituale una simile attenzione e già questo gesto gentile mi fa entrare in forte empatia con una persona che, fino a quel momento, avevo sentito per telefono ed e-mail.

Sulla porta di entrata il cartello “Piffany, scuola di musica: da subito mi era piaciuto quel connubio sbarazzino fra il cognome di Elisa (Piffanelli) e quella meraviglia che è Tiffany, pensando ovviamente al mio film preferito con Audrey Hepburn. Da settimane cercavamo di incontrarci, lei vive fra Ferrara e Città di Castello, io fra Ferrara e Roma. Ma eccoci qui, finalmente. La sua scuola. E non solo. C’è molto altro. Elisa è musicista, pianista diplomata e perfezionata con maestri della scuola russa e italiana, con un amore per il pianoforte che risale all’età di sette anni. Da tempo si occupa di didattica musicale in relazione al movimento. Ha un metodo originale.

Appena entrata mi accoglie, maglione dai colori dell’arcobaleno, nella stanza che ospita un meraviglioso pianoforte a coda nero, uno di quelli che sanno di antico, dai tasti di avorio consumati da dita che scorrono veloci e sicure, tracciando sogni di note che si disperdono nel vapore tiepido dei raggi del sole che, timidamente, fanno capolino dalle finestre.

Fotografie di fiori alle pareti, la magnolia fiorita del vicino di casa, in primis. Piante verdi, un violino. E poi tanti libri, attentamente catalogati come in una biblioteca rigorosamente ordinata. Volumi di famiglia, ricordi cui Elisa tiene molto. La memoria per lei è tutto.

In questa stanza si entra per recuperare l’ascolto di sé stessi, quello che si sta perdendo. Quindi si entra in relazione con sé stessi e gli altri, “perché la relazione muove tutto, ci credo fermamente e tutto il mio percorso di ricerca parte da qui”, sorride Elisa.

“Ho iniziato con un’utenza di bambini dai 5 ai 10 anni ma poi la platea si è allargata agli adulti”, ci dice. “Ho sviluppato un mio metodo fatto di disegni musicali per insegnare ai bambini: il pianoforte, ad esempio, è un personaggio, un amico, i due tasti neri gli occhi. Il bambino vede sé stesso in relazione allo strumento, partendo dall’altezza del corpo rispetto ad esso, dalla grandezza della sua mano sulla tastiera”, continua. Ci si gira intorno, si guarda quante gambe ha, ci si piega per guardare come è fatto sotto. Picchiettando su di esso, sempre insieme al piccolo allievo, ci si accorge che esso è avvolto da un legno massiccio con un suono più sordo che ricopre la sua struttura e che ne ha poi un altro più sottile, ma dal suono più generoso, flessibile ed elastico, che si trova al suo interno. Questa è l’anima del pianoforte. Si esplora poi l’interno, a forma di arpa.

Arriva quindi il momento del giovane allievo, si cerca di capire quale personaggio vorrebbe essere in relazione a questo strumento, se è molto più grande o molto più piccolo di lui, si appoggiano le mani sulla tastiera… l’esplorazione inizia.

I tasti profumano? Sanno di vaniglia o cioccolato? Suono sia. Inizialmente non esistono i nomi delle note, i tasti bianchi sono biscottini alla vaniglia, quelli neri al cioccolato, o liquirizie. Si cercano occhi, ovvero i due tasti neri, e naso, in mezzo ad essi, di un personaggio. Tutti sorridono. Fino al bruco, al cane, all’ape, alla rana e al coccodrillo, agli intervalli musicali, al pentagramma, al ritmo e ai valori delle note e delle pause. Sempre giocando, con fantasia: il brano musicale, ad esempio, è un treno e le battute sono i suoi vagoni. Geniale. Non vi sveliamo oltre…

Un metodo pensato come strumento per indagare sé stessi in relazione alla musica, cui viene tolta la tipica finalità del saggio, delle performance a tuti i costi, l’incardinamento rigido nei generi. Un potente aggancio con creatività e immaginazione.

Ad un tratto parte, e allora, capisco tutto meglio: suona “Per Elisa”, non solo è bravissima – questo già lo avevamo capito, visto il pedigree – ma ci trascina in uno spazio e tempo lontani e che sanno di magia. Il contesto è qui legato al sentire: nelle note che scorrono, prima c’è una dolcezza che viene dalla semplicità e dalla melodia poi ci sono momenti di rabbia e di rifiuto. La mano sinistra ritma, la musica racconta tutto in due pagine, così come la letteratura. Il linguaggio interiore qui non è solo emozione ma è la storia di un amore fra un uomo e una donna. La delusione di Beethoven il brano la racconta: gentilezza, tenerezza, romanticismo, ricordo e spensieratezza fino a momenti di rabbia. L’uomo, in fondo, è impotente, c’è una reazione nel riconoscere come l’amore imprigiona. Dalla tecnica si passa al guardarsi dentro.

“Mi fido della pagina scritta”, riprende, “sono i modi per esprimere me stessa, il mio sentire porta alla luce la musica. La musica è movimento e meditazione, le dita sono come il corpo di un ballerino. Il danzatore esprime la danza perché parte dalla musica, il gesto invece è esso stesso importante per la musica. Lo strumento permette di fare fotografie del mio sentire. Ora voglio, infatti, fare dei ‘ritratti musicali’. Per fare un esempio, immagino due frammenti realizzati con le mani che ruotano capovolte. In essi, c’è il movimento suadente, sensuale ed enigmatico, e questa è la mia impressione musicale, la foto di un momento, per dare voce al sentire”.

Con immenso interesse e fede nella relazione, Elisa va verso le persone che ha di fronte e le accoglie per come sono, senza mettere barriere o strutture. Con i suoi collaboratori, oggi quattro e insegnanti di vari strumenti, oltre al canto, organizza dieci lezioni, due di ogni strumento per dare un orientamento su cosa scegliere puntando sempre sull’empatia.

“Mi interessa dare un’identità a livello sociale del musicista”, sottolinea, “dargli un ruolo per me è importante, fondamentale farne capire l’utilità sociale. Per questo ho anche creato un gruppo vocale che accompagna le cerimonie, anche funebri, dove la musica può avere uno spazio importantissimo. È un tema generale della cultura, quello di farsi riconoscere”.

Alleviare l’anima è per lei una missione. Anche pensando a questo, oggi è impegnata in un’esperienza in ospedale, nel reparto di neuropsichiatria, per essere vicina soprattutto alle famiglie che si chiedono perché e alla sua allieva Alice che ha avuto un terribile incidente. Creare un sentire comune è per lei ormai un’esigenza vitale, cerca un modo per essere in relazione. Slegati dai contesti veloci. “Unisco musica, gesto e creatività per dare voce a chiunque voglia raccontarsi attraverso il suono”, ci dice.

Elisa crede nella gentilezza, nell’empatia, nell’accoglienza, nelle scelte di coraggio, nella capacità di rinnovarsi giorno dopo giorno e crescere con consapevolezza, anche e soprattutto attraverso la musica. Per lei è fondamentale dare voce al silenzio. “Io sono suono” è, per lei, un concetto cardine, una sorta di mantra, insieme a essenzialità, semplicità, coralità, meditazione. Un essere un tutt’uno con il mondo. “Per questo donerò un ciliegio a palazzo Roverella, che ospita da tempo suoi pomeriggi musicali, simbolo della famiglia che è la sua scuola: un ciliegio è un albero vivo che resta, è un segno”, conclude.

L’amore per la natura lo si vede, peraltro, anche dal suo giardino colorato e fiorito.

Intanto c’è un nuovo progetto che prende forma: scherma e musica a Città di Castello, nella verde e verace Umbria. Ma questa sarà una nuova puntata.

MALEDETTI PACIFISTI : incontro con il giornalista Nico Piro
Erasmo: «La guerra è dolce per chi non l’ha provata»

“MALEDETTI PACIFISTI: Come difendersi dal marketing della Guerra”. Emergency, in collaborazione con Mediterranea Ferrara,  ha invitato il giornalista scomodo” Nico Piro a presentare il suo ultimo libro. L’autore dialogherà con Girolamo De Michele. Presentiamo sotto un contributo dello stesso De Michele.

 

Nico Piro è un giornalista con una lunga esperienza di inviato sul campo: non un’opinionista con l’elmetto griffato, per intenderci.

È stato, ad esempio, in Afghanistan, ma anche nel Donbass; ha ricevuto numerosi riconoscimenti: premi giornalistici nei quali risuonano i nomi di Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli, Giancarlo Siani. Collabora con Emergency dai tempi in cui Gino Strada non era una sorta di santo laico – ora che è morto e non può più parlare –, ma una voce scomoda per quello che diceva, per quello che faceva, e anche per chi gli era accanto.
Una voce che continua a risuonare nelle pratiche cui ha dato il via, e anche in questo prezioso libretto, Maledetti pacifisti: che è, a dispetto delle poche pagine, un libro importante.

Ho scritto “un” libro, ma sono almeno due- Il secondo, come annunciato dal titolo, è una vibrante difesa dell’idea di pacifismo e del valore della pace.
il primo, è una narrazione puntuale di come si è creato un ambiente nel quale la guerra può essere venduta “come una partita di calcio dove se accade un infortunio si tira fuori il cartellino rosso”. Nel quale, a partire dal fabbisogno di combustibili fossili, l’etica è diventata un optional (qualcuno ricorda I tre giorni del Condor?).

Piro si inserisce di fatto all’interno di una narrazione, avviata da Italo Calvino con le sue Lezioni americane, sulla “peste del linguaggio” che si manifesta da tempo “come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”.
Non per caso Calvino, che proseguiva una riflessione avviata da Pasolini e Sciascia, chiamava in causa anche la nuova (negli anni Ottanta) comunicazione audiovisuale, dunque il mezzo della televisione, all’epoca non ancora sottomessa alla dittatura dell’audience e delle entrate pubblicitarie. Oggi, scrive Piro, l’emorragia di pubblico dai media generali, incapaci di rinnovamento e innovazione genera una concorrenza diffusa aggravata da una classe dirigente “di un paio di generazioni, perennemente al comando, in onda o in prima pagina”, poco incline e ancor meno interessata al cambiamento.

La soluzione per combattere a basso costo la guerra dell’audience è opinionizzare l’informazione”, sulla strada inaugurata dall’emittente americana Fox News, mentre sulla carta stampata si moltiplicano le collaborazioni a basso costo, i contratti di solidarietà, il pensionamento dei cronisti di lungo corso e la riduzione degli spazi di approfondimento. Il risultato, dai canali televisivi ai quotidiani, è “il circo dei talk show”, basato su una elementare catena del valore: “si fanno affermazioni divisive, gli articoli vengono condivisi sui social, ci si spacca tra favorevoli e contrari, tra je suis… e indignati un tanto al chilo”.
In questa situazione, allo scoppio del conflitto, seguendo dinamiche già sperimentate, la tv si rifugia nella formula della par condicio, alla quale segue la formula “uno di destra e uno di sinistra”, che nel caso del conflitto russo-ucraino significa “uno contro la Russia e uno a favore della Russia”. Tutto questo non serve a riflettere criticamente sulla guerra, ma a creare una polarizzazione necessaria, perché l’informazione è come un detersivo: deve lavare più bianco; e poco importa se lo slogan corrisponda o meno alla realtà: l’importante è che venda.

Polarizzata l’opinione pubblica, la guerra può essere venduta come un valore condiviso, poiché in un mondo polarizzato bisogna necessariamente schierarsi da una parte: lo slogan “c’è un aggressore e un aggredito” (variante: Davide contro Golia, e poco importa se Davide abbia in questo momento uno degli eserciti pià armati del mondo), nella sua elementare ovvietà, serve a questo. Ovvero, a reiterare che le questioni sono semplici – con buona pace di chi cerca di ricordare che non ci sono tutti i cattivi da una parte e tutti i buoni dall’altra: lo stesso Nico Piro, avendo la colpa di aver fatto un servizio giornalistico nel Donbass filorusso, dal 2019 non ha il permesso di entrare in Ucraina.
La stesa guerra viene “normalizzata”: collocata “a debita distanza”, affinché lo spettatore sia libero di distrarsi; raccontata da esperti che non rendono mai pubbliche le fonti cui attingono, rendendo indistinguibile il confine fra leak (diffusione non voluta di informazioni riservate), fonte personale e campagna di PsyOp, cioè la propaganda di guerra. Il tutto all’interno di frame definiti da slogan o frasi ad effetto; ad esempio, prospettando un nuovo scenario dove “non è il momento di smettere” (slogan già usato nella “guerra alla droga” degli anni Ottanta: e sappiamo come non è andata a  finire), senza porsi il problema del “dopo” e delle conseguenze: l’importante è rinnovare il messaggio “che la guerra è tutto sommato un male gestibile e sopportabile“.

L’emergenzialità della guerra diventa la normalità: “chi chiede pace viene apostrofato come qualcuno che vuole la resa degli ucraini e la vittoria dei russi”.
La pace può essere pensata solo come conseguenza della guerra, come un suo sottoprodotto: è una delle molte modalità della cultura dello scarto.
La pace cessa di avere un valore autonomo, con una propria dignità: anche per generazioni che ieri sfilavano con le bandiere della pace, o che prima ancora avevano manifestato per il Cile. Schierarsi diventa una scelta di valori: “l’atlantismo come categoria superiore che ingloba tutti i princìpi fondativi dell’Italia”, con la stessa acriticità con la quale sul finire del secolo scorso si è accettata la globalizzazione, e prima ancora, negli anni Trenta, l’avvenuta unificazione del mondo senza mettere a critica il fatto che queste visioni unificanti del globo erano il prodotto di un modello politico e culturale (occidentale e capitalistico) sulle restanti aree del globo.

Diventa allora importante recuperare strumenti, allestire casematte, per combattere la battaglia culturale della controinformazione: considerare il racconto che ci viene offerto per quello che è, ovvero un prodotto, e distinguere la sostanza dal suo rivestimento. Forse dovremmo tutti riguardare Blow up di Antonioni, anche per ricordarci di quando il grande cinema che non era solo una sequenza di effetti speciali nei quali niente ci sorprende e nulla ci fa pensare: “fare un passo indietro rispetto alla valanga di informazioni che ci piove addosso, prendere un respiro profondo e provare a identificare la trama della narrazione come si fa per una serie tv, identificarla come tal e e smontarla, chiederci dove porta la storia, dove il regista vuole che i nostri occhi guardino, dove gli sceneggiatori vogliono indirizzare le nostre emozioni”.

E ricordarci ogni giorno le parole di Gino Strada: “come le malattie più gravi, anche la guerra deve essere prevenuta e curata. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente”.

Cover: Nico Piro con Gino Strada, Sierra Leone, 2015

Dal Brasile al Guatemala, dal Messico alla Colombia: cresce il fondamentalismo religioso in America Latina

Dal Brasile al Guatemala, dal Messico alla Colombia: cresce il fondamentalismo religioso in America Latina.

di David Lifodi
articolo originale su Peacelink

Cresce il fondamentalismo religioso in America latina, soprattutto a seguito del proliferare delle comunità evangeliche e all’utilizzo della fede cristiana in chiave ultraconservatrice da parte delle destre. Ad evidenziarlo uno speciale della testata online nodal.am diretta da Pedro Brieger

L’avanzata del fondamentalismo religioso in tutto il continente latinoamericano è trainata dal Brasile, dove c’è stata una vera e propria esplosione di gruppi neopentecostali, spesso legati alla destra bolsonarista. Ad esserne influenzata è stata tutta la politica del più grande paese sudamericano.

A questo proposito, l’Instituto Tricontinental de Investigación Social ricorda che, in occasione del colpo di stato del 2016 volto a far cadere Dilma Rousseff, allora presidenta del Brasile, Eduardo Cunha, all’epoca presidente della Camera dei deputati, ma soprattutto esponente di primo piano del gruppo pentecostale Assemblea di Dio ( Assembleias de Deus) aprì la sessione che poi avrebbe portato all’estromissione di Rousseff dal Planalto con la frase: “Si apra la seduta. Sotto la protezione di Dio”.

Accomunati da un forte sentimento antiscientifico, soprattutto in merito al Covid-19, e da un enorme odio contro le comunità indigene, tanto da definire i loro riti, usi e costumi come “satanici”, le comunità evangeliche hanno preso piede anche in Cile, Perù, Guatemala, Messico, Colombia e Bolivia. Proprio in Bolivia, la presidenta de facto Jeanine Áñez, installatasi di forza a Palacio Quemado a seguito del colpo di stato del 2019 contro Evo Morales, effettuò il giuramento con una gigantesca Bibbia tra le mani.

L’ideologia di genere e il sostegno alla famiglia cosiddetta “ideale”, che individuano come unico ruolo della donna quello di procreare e prendersi cura della famiglia, insieme al desiderio di perpetuare i valori di una società patriarcale, rappresentano le principali bandiere del fondamentalismo religioso.

In Brasile, sotto il governo Bolsonaro, ad essersi distinti per propagandare queste idee, sono stati soprattutto la pastora Damares Alves, ministra della Donna, della Famiglia e dei Diritti umani, e l’ex ministro dell’istruzione Milton Ribeiro, che ha cercato di imporre ad ogni costo un’educazione neutra, fedele allo slogan dello stesso Bolsonaro “Scuole senza partito”, il cui scopo era fermare i valori progressisti all’interno degli istituti scolastici.

Del resto non c’è da stupirsi, basti pensare che lo stesso Bolsonaro è stato battezzato in Israele, sulle acque del fiume Giordano, dal pastore Everaldo Pereira, anch’esso dell’Assemblea di Dio.

Più in generale, in tutti i paesi latinoamericani, il fondamentalismo religioso è servito per affermare non solo i valori del capitalismo, ma quelli del neofascismo, nel tentativo di guadagnarsi il sostegno delle classi popolari.

A sperimentare cosa significhi coniugare politiche reazionarie e fondamentalismo evangelico è stato anche il Guatemala. A partire dal Congreso Iberoamericano por la Familia y la Vida dello scorso anno il paese è stato catapultato dal presidente Giammattei, il prossimo giugno in scadenza di mandato, in un incubo denominato identità di genere, caratterizzato da due vere e proprie crociate: vietare ogni forma di aborto e combattere ad ogni costo l’omosessualità (e di conseguenza ostacolare il cosiddetto matrimonio igualitario).

Da quel 9 marzo 2022, giornata del Congreso Iberoamericano por la Familia y la Vida, qualcuno ha paragonato il Guatemala ad alcuni stati islamici dove la donna è schiava dell’uomo, tanto che la battuta ricorrente era: ¡Hay que preparar la burka!

Non è migliore la situazione del Messico, dove la stella di Verástegui, legato agli spagnoli di Vox, sembra tutt’altro che in fase discendente. Legato al cardinale ultraconservatore Raymond Leo Burke, tra i maggiori oppositori di Bergoglio e su posizioni negazioniste in merito alla pandemia, non a caso Verástegui è portatore dei valori legati alla destra cattolica. Tra i suoi nemici principali vi è il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador.

Anche in Colombia, dalla presidenza Duque, antecedente a quella di Gustavo Petro, il fondamentalismo religioso è cresciuto. Sono molte le chiese cristiane che hanno appoggiato l’uribista Duque nelle precedenti presidenziali e adesso cercano di ostacolare il percorso di Petro, sempre all’insegna delle posizioni contro aborto, eutanasia, diritti delle comunità Lgbt e, ovviamente, gli accordi di pace. In qualità di presidente, in occasione del Día Nacional de Libertad Religiosa y de Cultos, Duque trovò l’occasione per promuovere las Escuelas de Padres, molti simili alle scuole senza partito del Brasile bolsonarista allo scopo di promuovere i valori della famiglia tradizionale.

Infine, sul proliferare del fondamentalismo religioso in America latina pesa, manco a dirlo, l’influenza dell’Osa (Organizzazione degli stati americani), che ha aderito al Foro continental por la vida y la familia e all’organizzazione statunitense Alliance Defending Freedom, il cui fondatore è James Dobson, influente membro dell’Officina della Fede della Casa Bianca e sostenitore di Trump della prima ora.
L’Osa ha finito per trasformarsi a sua volta in un’organizzazione che vuole imporre i valori della famiglia tradizionale, oltre che governi graditi agli Usa, in tutta l’America latina.

In bicicletta per proteggere il Parco Bassani … e tutti gli uccelli residenti.
Appuntamento sabato 15 aprile alle 16,30 per una biciclettata nella natura

ll Comitato Save the Park invita tutta la cittadinanza sabato 15 aprile alle 16:30 alla biciclettata dal titolo:
“Cultura e Ambiente al PARCO urbano”

ll comitato Save the Park organizza per il giorno15 aprile alle 16:30 una biciclettata dal titolo “cultura e ambiente al PARCO urbano”.
Il ritrovo è presso il bar della piscina Bacchelli e saranno presenti guide turistiche professioniste e un campione mondiale di birdwatching. L’iniziativa è volta a fare conoscere alla cittadinanza le bellezze della Parco Bassani,.
Ecco le ultime azioni legali portate avanti con caparbietà e costanza dai volontari e attivisti:
–  un ricorso pendente davanti al TAR,
–  tre lettere di diffida,
– due esposti alla corte dei conti e alle forze dell’ordine,
– una lettera alla Provincia di Ferrara,
– una serie infinita di richieste accesso agli atti al Comune di Ferrara e sempre inevase,
. una istanza presso il difensore civico dell’Emilia Romagna. Quest’ultima istanza è andata a buon fine: il magistrato ha inviato una lettera chiedendo che il sindaco scriva le motivazioni in base alle quali è stato preferito questo luogo rispetto ad altri, che sono stati proposti.

Il comitato Save the Park vi aspetta tutti
Sabato 15 aprile alle ore 16:30 presso la piscina

Comitato Save The Park

Basta morti sul lavoro ed altre nuove. L’ultimo postcast di Collettiva.it

da Redazione di Collettiva.it

Mercoledì 12 aprile due operai sono morti i provincia di Milano durante operazioni di potatura. Dopo essere precipitati da un’altezza di 15 metri, sono stati schiacciati dal carrello elevatore. Sul lavoro si continua a morire come 50 anni fa senza che la politica affronti seriamente questo tema.

Ascolta il podcast di Collettiva

Fermiamo la strage 

In un golf club, Le Rovedine di Noverasco di Opera, provincia di Milano, due operai sono morti e un terzo è rimasto ferito in seguito a una caduta durante operazioni di potatura. Le vittime sono Angelo Zanin, titolare della Zanin Vivai, 69 anni, e Dario Beira, dipendente della stessa azienda, 51 anni. Il terzo lavoratore, trasportato in codice rosso all’ospedale Niguarda, è un 25enne. Secondo i Vigili del fuoco intervenuti sul posto, i tre sarebbero precipitati da un’altezza di circa 15 metri. Da una primissima ricostruzione del 118, successivamente i lavoratori sarebbero rimasti schiacciati dal cestello. Sul lavoro si continua a morire come 50 anni fa senza che la politica affronti seriamente questo tema.

Approvato il Def, moderati i salari, ci resterà solo l’inflazione

Il governo punta sulla “moderazione salariale per prevenire una pericolosa spirale salari-prezzi”. Così i prezzi continueranno a salire – forse più lentamente rispetto ai ritmi dell’ultimo periodo -, in compenso, tranquilli, i salari resteranno al palo. E se si escludono i 3 miliardi di euro in deficit da investire sul taglio del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti a reddito medio-basso già da quest’anno – magro bottino – la spinta propulsiva dell’esecutivo si ferma qui. Scelte, quelle del governo, che rafforzano la decisione di Cgil Cisl e Uil di mobilitarsi. Appuntamento in piazza a Bologna il 6 maggio, a Milano il 13 maggio e a Napoli il 20 maggio.

Un mare di propaganda

Sbarchi triplicati da quando il governo ha assicurato di azzerare gli arrivi. E ora si gioca pure la carta dello stato di emergenza. Il sassolino del direttore di Collettiva Stefano Milani: “In principio era il blocco navale. Urlato, ringhiato, sbraitato alle folle di mezza Italia. Una volta al governo neanche i pedalò sulla riviera romagnola avrebbero fatto sbarcare se sprovvisti di regolare documento. Poi un bel giorno al governo ci sono arrivati per davvero e le promesse sono diventate quelle tipiche da marinaio. Come può uno scoglio arginare il mare? Canticchia pensierosa dal 25 settembre la nostra premier. Non si capacita che da quando è al timone del Titanic gli arrivi sono più che triplicati. “Scarti residuali” approdano da ogni dove e l’emorragia non si arresta neanche intimando alle ong di scaricarli in Val d’Aosta. L’ultimo consiglio dei ministri ha perfino deliberato lo stato d’emergenza nazionale, come se da gestire fosse un terremoto o una pandemia invece che un’ordinaria umanità. Più onesto decretare lo stato confusionale in cui versa questo esecutivo.”.

Se la media del 9 vale 100 euro

Questa ci mancava, ci ha pensato l’istituto superiore Scalcerle di Padova, prevedendo una ricompensa di 100 euro agli alunni che raggiungeranno la media del 9. Una sintesi azzeccata del sistema teorizzato dal ministro Valditara, si scrive merito, si legge competizione. Si scrive scuola, si legge “gioco a premi”. E a chi resta indietro? Niente mancia. Così va la scuola pubblica nel primo anno dell’era Meloni.

La lotta paga 

E così al sindacato riesce l‘impossibile: rallentare i ritmi di Amazon. Dai 5 turni incompatibili con una normale organizzazione familiare a un nuovo sistema con tre fasce orarie che consentono di conciliare i tempi di vita e di lavoro, con buoni margini di flessibilità. La conquista è stata ottenuta dai lavoratori del sito di Amazon Torrazza, in provincia di Torino, e dalle categorie regionali Filt Cgil e Fit Cisl, dopo che gli addetti avevano denunciato la fatica a stare dietro agli impegni professionali e alla routine quotidiana. Per approfondire collettiva.it.

Storie in pellicola
Madre e figlia. E un cane, Marcel!

“Una bambina ama sua madre, ma sua madre ama Marcel, il suo cane”. Esordio al lungometraggio di Jasmine Trinca.

Candidato al David di Donatello 2023 come miglior esordio alla regia, dopo il corto di dodici minuti Being My Mom del 2020, Marcel! di Jasmine Trinca è un altro viaggio madre-figlia, quasi onirico,  dolorosamente autobiografico.

Atmosfere felliniane per un percorso tortuoso e complesso dove la Madre (Alba Rohrwacher) crede che “all’arte si deve la vita”, sempre e ad ogni costo.

Maayane Conti, Foto di Fabio Zayed

Oltre alla madre, ci sono la Figlia (Maayane Conti), il Nonno di poche parole (Umberto Orsini) e la Nonna più espansiva (Giovanna Ralli), Dario Cantarelli (lo Spasimante della madre), Valentina Cervi (la Cugina), Valeria Golino (l’Analista), Giuseppe Cederna (l’Amico elegante) e un cameo televisivo di Paola Cortellesi. Ma ognuno si identifica solo grazie al suo ruolo, nessuno ha un nome, se non il cane artista, Marcel.

Alba Rohrwacher e Maayane Conti, Foto di Fabio Zayed

E c’è il destino vagabondo dei performer di strada, i ricordi, il marito perduto, la malinconia, i colori sbiaditi. I ruoli sono maschere imprigionate in una scenografia che poco muta e che si ripete, quasi sempre uguale. Un po’ come avviene nello spettacolo “Toujours Marcel”, che la madre, artista di strada, replica ogni volta come un rito. Lei, che di definisce un insieme di Pina Bausch e Marcel Marceau, il famoso mimo (stesso nome del cane…), peraltro richiamato dal trucco.

Marcel!, Foto di Fabio Zayed

Le donne sono il motore, le vere protagoniste, i personaggi maschili sono ai margini, relegati al silenzio, come il Nonno, o al ricordo, come il Marito/Padre pittore. A corollario del trinomio madre-cane-figlia. Una madre pur presente nell’assenza, un po’strana, con le sue idee, un cane che c’è sempre, c’era, non c’è più ma ci sarà sempre. E il dolore di una figlia che non comprende. Una figlia che, in tate notti insonni e agitate, cerca attenzioni e complicità. E che per averle farà di tutto, compreso l’inimmaginabile.

Alba Rohrwacher, Foto di Fabio Zayed

Anche lo spettatore fatica a capire, fino alla frase illuminante del nonno-Orsini che ci apre un mondo, quel mondo. Una delle poche che pronuncia, nel suo eterno giocare a carte in solitaria, ma che dischiude tutto il mistero.

Il film si muove in una dimensione sospesa, vuota come i pomeriggi d’estate tra le strade di Testaccio e di Ostiense dove è girato. Non c’è spazio per il cambiamento e la libertà, tutto è segnato e disegnato. I rapporti sono faticosi, si trascinano.

Eppure, il racconto è punteggiato in capitoli, secondo gli esagrammi dell’I Ching, che, invece, delineano un percorso di trasformazione e di evoluzione. Quindi qualcosa deve accadere, qualcosa che rimetta in moto le cose. Così sarà.

 

Marcel! di Jasmine Trinca, con Alba Rohrwacher, Maayane Conti, Giovanna Ralli, Umberto Orsini, Dario Cantarelli, Valentina Cervi, Valeria Golino, Giuseppe Cederna, Italia-Francia 2022, 93 mn.

STORIE DI PERSONE LGBTQI+ TRA OTTO E NOVECENTO
Presentazione del libro: Sabato 15 alle ore 11

LE PAROLE PER DIRLO: STORIE DI PERSONE LGBTQI+ TRA OTTO E NOVECENTO

Sarà presentato sabato 15 aprile alle ore 11, nell’auditorium della biblioteca Bassani, il volume ‘Le parole per dirlo’curato da Arcigay Ferrara ‘Gli Occhiali d’Oro’. A parlarne saranno la storica Delfina Tromboni e l’ideatrice del volume Manuela Macario.

Frutto del Progetto Antenne contro le discriminazioni, ‘Le Parole per Dirlo’ è un racconto storico-sociale per parole e per immagini delle condizioni di vita delle persone LGBTI+ a cavallo tra ‘800 e ‘900.
Nato da un’idea progettuale di Manuela Macario, curato dalla storica Delfina Tromboni e dalla fotografa Luciana Passaro, il volume ripercorre le esistenze delle persone LGBTI+ vissute in epoca contemporanea, quando i movimenti di rivendicazione dei diritti delle persone omosessuali e transgender non erano ancora fioriti e il non corrispondere ai canoni dell’eteronormatività era generalmente considerato una devianza, se non una vera e propria patologia. A rendere peculiare e ricco il lavoro presentato è la selezione delle narrazioni che riemergono dal sostrato della storia: le testimonianze che riprendono vita riguardano certamente i grandi protagonisti della cultura del tempo ma sono anche quelle, non meno importanti, di persone comuni vissute nella città di Ferrara e nella sua provincia.

Arcigay Ferrara APS — «Gli Occhiali d’Oro» di Giorgio Bassani

Le Voci da Dentro:
Una geniale invenzione umana

Le voci “da dentro” sono quelle che provengono dalla nostra coscienza e che ci parlano direttamente, ma sono anche quelle voci che provengono da chi è “dentro” cioè da persone che stanno vivendo l’esperienza del carcere. A partire da oggi, Periscopio ospita questa nuova rubrica con lo scopo di provare ad offrire un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali affinché, ognuno nel proprio piccolo, combatta la sua battaglia contro gli stereotipi ed i pregiudizi che non aiutano il completo reinserimento di queste persone nella società. È un modo per dar voce alle persone ristrette e a chi opera nel carcere ma è anche per dare orecchio a chi, da dentro, sta parlando alle nostre coscienze. La rubrica è scritta in collaborazione con “Astrolabio”, il giornale del carcere di Ferrara.

Il testo di apertura della rubrica si intitola “Il ponte” ed esprime bene il bisogno di costruire un dialogo fra due sponde della nostra città e della nostra società. Mentre il muro divide, il ponte unisce ed è solo avvicinandosi che si può arrivare a conoscere l’altro e la nostra umanità.
(Mauro Presini)

Il ponte

di J.H.

È una geniale invenzione umana per collegare le due rive di un fiume
è un atto di generosità umana
è il desiderio di andare oltre l’altro lato che non è altro che un fratello
è la solidarietà tra le anime
è la vita che cerca la vita
è la speranza nel futuro malgrado la nebbia che può accecare il cuore
è la fiducia nell’altro
è la volontà di andare avanti malgrado gli ostacoli della natura, del destino e della vita per andare a trovare l’altro, parlare con lui, salutarlo, regalargli un sorriso, una buona parola, una dolce speranza per superare e attraversare il vasto oceano profondo della vita
è condividere l’esperienza
è cercare l’equilibrio
è una necessità della natura umana
è un’esigenza dell’anima
è il nemico dell’impossibile
è la pace interna che cerca altro
è volare nel tempo
è aprire le braccia verso l’altro
è l’emozione di trovare il fratello
è l’individuo che trova la comunità
è cortesia, generosità, coraggio, capacità di resistenza, pazienza…
è un appello all’incontro
è il sogno dell’unità
è il dialogo
è l’anatema del silenzio
è l’orgoglio di creare un legame con l’altro mondo
è il cammino
è l’incontro
è l’umanità
è la capacità di vedere oltre i confini imposti dall’occhio che vede poco, quando esso non è totalmente cieco
è la volontà di rendere tutto ciò che è debolezza una forza benefica
è la negazione del rifiuto
è il rifiuto della diffidenza
è il modo giusto per relazionarsi
è fiducia nell’altro e nel futuro
è l’anima che cerca la sua voce
è confronto interiore
è ascolto reciproco
è sentire l’altro
è sentirsi umano
è cercare l’altro
è la bellezza del dialogo
è andare oltre il grande nulla
è scoprire emozioni mai provate
è la profondità dell’umanità
è la forza della libertà
è volare col tempo per percorrere lo spazio limitato
è la magia contro il silenzio
è contro il deserto della sete
è una camminata di emozioni, un ponte per vedere, sentire, capire
è conoscere l’altro
è l’anima che guarda avanti
è oggi che cerca domani
è la geografia che cerca la storia
è una porta aperta
è il desiderio di viaggiare per convinzione non per curiosità
è la speranza di fuggire dal nulla
è la negazione del silenzio
è un atto di fratellanza
Senza ponte non c’è vita
il ponte è il futuro
non c’è futuro senza passato
non c’è futuro senza comunità.
Il dolore divide od unisce?
L’uomo ha bisogno di sentirsi utile!


Si chiama Astrolabio il giornale della Casa Circondariale di Ferrara. Ed è un progetto editoriale che, da qualche anno, coinvolge una redazione interna di persone detenute insieme a persone ed enti che esprimono solidarietà verso la realtà dei detenuti. Il bimestrale realizza il suo primo numero nel 2009 e nasce dall’idea di creare un’opportunità di comunicazione tra l’interno e l’esterno del carcere. Uno strumento che dia voce ai reclusi e a chi opera nel e per il carcere, che raccolga storie, iniziative, dati statistici, offrendo un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali.

Cover: un’immagine della redazione di Astrolabio, il giornale del carcere di Ferrara : Il coordinatore Mauro Presini al lavoro insieme al gruppo dei detenuti redattori.

Per vedere le altre uscite di Le Voci da Dentro clicca sul nome della rubrica.

Parole a capo
Secondo Reading di Primavera: 6 poesie alberate

 

Il primo giorno di aprile di quest’anno, nel parco del Montagnone a Ferraral’Associazione Culturale Ultimo Rosso, in collaborazione con la Biblioteca Popolare Giardino e il giornale online Periscopio, ha organizzato il Secondo Reading di Primavera dal titolo “Io sono gli altri”. Ai rami degli alberi, come si può vedere nelle foto di Valerio Pazzi in questo articolo, sono stati fatti degli innesti poetici, oltre 60 liriche di grandi autori e di poeti contemporanei. Molte di queste liriche sono state lette dalle poetesse e dai poeti presenti  all’evento. Le poesie di chi non ha potuto partecipare per diversi motivi, ma che ha risposto positivamente al nostro invito mandandocene alcune, sono state lette da alcuni portavoce. Nel numero della rubrica Parole a capo di oggi, ne pubblichiamo alcune. Come sempre, buona lettura e buone sensazioni.

 

Sibilla

Muta e peregrina
attraverso i vostri occhi
io sono gli altri,
conosco gli antri
nascosti nel vostro
cuore nudo.
Ma non conosco
oracolo, nascosta
nel mio antro
mi nutro di sguardi
attenti, passi lenti,
una parola lieve,
la premura di una mano
tesa, l’attesa
lieta di una rosa
schiusa
nel bel mezzo dell’inverno.

(Doris Bellomusto)

 

Incontro

Ci siamo toccati l’anima
con parole brevi
col battito regolare del cuore
con le parole dell’infanzia
con un principio di lacrime
pensando che arriverà quel tempo
che non ci rivedremo più
sospinti ognuno
dal maestrale padrone
verso un infinito mare

 (Elena Vallin)

 

Lippariniventigocce

Lippariniventigocce
Robiunabbraccio
Mammaseisplendida
Robbaletuepoesie
Piccolinativogliobene
Nanina
I nostri diversi nomi, in fondo, sono le nostre possibili sopravvivenze.
Le altre persone, chiamandoci, ci moltiplicano.
Siamo forse soli, talvolta.
Mai, però, siamo una cosa sola.
E se una parte di noi è in ombra, possiamo cercare la luce negli altri suoni del nostro nome,
di noi stessi.
Forse anche per questo abbiamo soprannomi, nomignoli, appellativi.
Perché siano molteplici le nostre vie di scampo.
Di salvezza.

(Roberta Lipparini)

 

Ho una manciata di nomi in tasca

Ho una manciata di nomi in tasca
Altrettanti sorrisi
Valgono uguale se appartengono a sconosciuti?
Scusate la schiettezza
Parlare di inclusione
Scoprire che non è
Solo accogliere
Non è  solo integrare
Significa che tutti
Devono cambiare
Chi non vede non sente
Non parla non cammina
Chi vede sente parla e cammina
E quella manciata di nomi e altrettanti sorrisi
nella stessa barca
con la stessa umanità.
Quanta ipocrisia anche in questa poesia
mi viene voglia di strappare il foglio
rimango sola col mio orgoglio
di  figlia madre sorella compagna.
Mi chiedo come fanno tanti altri
cosa sia l’amore per gli altri e ancor prima per se stessi.
L’amore  dunque
è incontrare l’altro
che nuota nel tuo oceano interiore
meravigliarsi nel guardarlo
affiancarlo tra le onde
riemergere, respirare
non preoccuparsi se non lo si riesce a fare
di amare tutto d’un fiato
chi magari ha colore diverso
un pensiero logico meno presente
un approccio alla vita che appare stupido e troppo spontaneo
ci vuole tempo e tanta tenerezza
e abituarsi a non specchiarsi dove la luce è opaca.

(Lidia Calzolari)

 

il binocolo

La notte quando accadeva il miracolo
era un largo spazio d’invisibili grilli impegnati a prender voce in capitolo.
Teneva compagnia l’aspro profumo
degli acini d’uva arrampicati verso l’alto
ancora acerbi per un soffio. Il mare
distava il tempo breve di un passaggio
dal cuscino alla cucina. Così sembrava
tutto vicino quando era tua la mano
nodosa a passarmi il binocolo: persino
brillava di luce propria sopra il mondo
l’anello di luna mancante al suo cerchio.

(Lara Pagani)

 

Certe mattine

Certe mattine sento l’amore
salirmi fino agli occhi,
la retina, le ciglia,

e da lì ridiscendere nel cuore,
dopo aver guardato il mondo,
mia famiglia.

(Miriam Bruni)

 

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Periscopio.
Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

LA SCUOLA DECLASSATA:
Autonomia differenziata e dimensionamento scolastico sono una minaccia per l’istruzione democratica

Autonomia differenziata e dimensionamento scolastico rappresentano una minaccia per l’istruzione democratica. A farne le spese soprattutto il Sud e le aree più fragili

di Stefano Iucci
(articolo originale in Collettiva del 12 aprile 2023)

Una doppia tenaglia si stringe sulla scuola: dimensionamento scolastico e autonomia differenziata. Se il primo è legge – nel senso che la nuova norma che alza il numero minimo di studenti e studentesse necessario per tenere aperto un plesso scolastico è contenuta nella Finanziaria – la seconda è ancora allo stato di proposta (il ddl Calderoli), ma le pressioni per una sua approvazione aumentano nell’esecutivo.

Come è stato ampiamente analizzato l’autonomia differenziata porterebbe alla nascita di tanti sistemi scolastici diversi, minando l’universalità della scuola pubblica e trasformandola in un sistema disuguale, con scuole e studenti di serie A e di serie B e percorsi formativi diversi che penalizzerebbe soprattutto il Sud.

Mezzogiorno penalizzato

Oggi in Italia la dispersione scolastica nazionale media è del 12,7%, in Sicilia raggiunge il 21,1% e in Puglia il 17,6%, mentre in Lombardia è all’11,3%, contro l’obiettivo europeo del 9% entro il 2030.

Secondo lo Svimez uno studente e una studentessa del Sud stanno in classe 100 ore in meno all’anno e i giovani tra i 15 e 24 anni fermi alla licenza media sono il 20 per cento, 5 punti sopra la media nazionale e 9 rispetto a quella europea. Inoltre, come risulta dall’ultimo rapporto pubblicato da Save The Children la Sicilia è al primo posto per dispersione scolastica a livello nazionale, con una media pari al 21,1% e con punte del 25%.

Nel video che pubblichiamo subito sotto Graziamaria Pistorino, segretaria nazionale Flc Cgil ci spiega perché l’autonomia differenziata aumenterebbe ulteriormente le diseguaglianze tra i territori.

Il tema è stato al centro di molti interventi anche all’ultimo congresso della Flc Cgil che si è svolto a Perugia: due insegnanti, da Nord a Sud, mostrano in questo video perché l’autonomia differenziata aumenterebbe le diseguaglianze.

Proprio per scongiurare questa iniziativa il Coordinamento per la democrazia costituzionale – insieme a Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola Rua, Snals Confsal e Gilda Unams – ha avviato una raccolta firme per una Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare di modifica di parte degli articoli 116 e 117 della Costituzione – contenuti nel titolo V della Carta – che ripartiscono le diverse competenze tra Stato e Regioni tra esclusive e concorrenti.

I diritti dei lavoratori

Rispetto a questa operazione, spiega Pistorino, “la prima emergenza che ci si pone come sindacato è quella di difendere e rilanciare il diritto universale all’istruzione. Differenziare i programmi su base regionale, assumere localmente insegnanti e dirigenti, magari pagandoli diversamente, configurerebbe un diritto allo studio ancora più diseguale di quello attuale”.

Fuori dai tecnicismi la proposta del Coordinamento punta a introdurre strumenti normativi per un sistema di equilibri tra Stato e Regioni in cui la governance resti in mano allo Stato, che deve essere il garante dell’interesse generale. Un tema come quello dell’istruzione – il cui obiettivo primario deve essere quello di formare i cittadini e le cittadine di domani – non può essere lasciato nelle mani di 21 ‘staterelli’ regionali.

Secondo la proposta, la potestà legislativa sarebbe esclusivamente statale (e non più concorrente con le Regioni) in materie strategiche per l’unità del paese, dall’istruzione, appunto, alla salute e al sistema sanitario nazionale, a porti, aeroporti, autostrade, ferrovie, reti di comunicazione. Si tratta, insomma, di una grande battaglia di civiltà democratica.

La scure del dimensionamento

Come si diceva, è molto pericoloso l’incrocio con il dimensionamento scolastico. L’articolo 99 della legge di bilancio prevede infatti una nuova ondata di accorpamenti tra istituti scolastici che, attacca la Flc Cgil, “potrà portare alla scomparsa, già nei prossimi due anni, di oltre 700 unità scolastiche”.

A questo “risultato” si arriva innalzando gli attuali parametri minimi per la costituzione delle autonomie scolastiche che passano da 600 a 900-1.000 alunni. In questo modo verranno, tra l’altro, ridotti i posti di organico di oltre 1.400 dirigenti scolastici e Dsga, un taglio che, proiettato al 2031-2032, significa il passaggio da 8.136 a 6.885 istituti.

Come ha commentato il segretario generale della Flc CgilFrancesco Sinopoli, “si configura nei fatti come un vero e proprio taglio che ancora una volta andrà a colpire le Regioni e i territori più deboli. Invece di potenziarle e sostenerle le affossano, senza investimenti e con una riduzione delle risorse”.

Anche in questo caso la scure colpisce soprattutto al Sud, la Sicilia ad esempio perderà 109 di scuole ma anche il destino della Sardegna, soprattutto nelle sue aree interne, non è dei migliori. Per questo la Flc regionale ha chiamato a raccolta sardi illustri – da Paolo Fresu a Gianfranco Zola – per un appello che si speri non passi inosservato: “Non chiudete le nostre scuole”. In Sardegna come nel resto del paese.

Il biogas non è rinnovabile, non è verde, non è sano

Per molti decenni in Italia la produzione di biogas si è realizzata prevalentemente in ambito agricolo per ricavare energia, da utilizzare prevalentemente all’interno delle stesse aziende, utilizzando gli scarti della attività di questo comparto, sostanzialmente biomassa vegetale e deiezioni animali. Oggi questa tecnologia, nel nostro paese e non solo, sta assumendo una rilevanza che senza dubbio si può considerare preoccupante per l’impatto ambientale complessivo che comporta. Secondo i dati del Consorzio Italiano Biogas (CIB), all’inizio del 2020 erano operativi più di 1.500 impianti di biogas, di cui 1.200 in ambito agricolo.

Nella mattinata di sabato 18 marzo si è tenuto, presso la sala congressi della sede provinciale CNA, un incontro-dibattito organizzato dalla Rete per la Giustizia Climatica di Ferrara sul tema della produzione di biogas che ne ha affrontato gli aspetti generali e le ricadute ambientali con un riferimento particolare alla situazione nella nostra provincia.

Il primo ad intervenire è stato Leonardo Setti, docente dell’Università di Bologna, esperto nell’ambito della biochimica industriale applicata ai sistemi energetici rinnovabili ed in particolare allo sviluppo di bioraffinerie per la valorizzazione chimica ed energetica degli scarti agro-alimentari, che ha trattato il tema “Quale energia nella transizione ecologica”. Di seguito, in video, Gianni Tamino, biologo, membro della Associazione italiana Medici per l’Ambiente (ISDE) e già docente dell’Università di Padova nonché europarlamentare del gruppo dei Verdi, è intervenuto sul tema “Biometano ed economia circolare”. Sono poi seguiti gli interventi di Rosolino Sini, responsabile dell’azienda elettrica comunale di Sassari, di Sandra Travagli per l’esperienza di Villanova e Andrea Bregoli del Comitato di Formignana in provincia di Ferrara. Un ulteriore contributo, in audio registrato, quello di Pippo Todolini del Coordinamento ravennate per il clima fuori dal fossile.

Può essere utile per iniziare una considerazione di fondo, citando le parole con cui Gianni Tamino apre il suo intervento in video: la produzione di biometano non è un metodo né economico né pulito, ma, soprattutto, non lo si può considerare “economia circolare””. L’unica vera economia circolare, ribadisce Tamino, è quella della natura che, attraverso l’energia solare utilizzata dagli organismi vegetali, sintetizza materia organica che funge da nutrimento per gli organismi animali; questi ultimi, assieme ai vegetali, quando muoiono, vanno incontro a processi di decomposizione che danno luogo all’humus, nutrimento per la terra, da cui nasceranno nuove piante, in un ciclo continuo.

Un’altra precisazione è necessario fare rispetto al termine Bio che troviamo nella terminologia degli impianti che trattano materiali organici, i Biodigestori, e i prodotti che ne derivano, Biogas e Biometano. Il prefisso bio, in questo caso, non ha un significato che possa riferirsi a un processo o prodotto sostenibile, ma un riferimento a un processo Biotecnologico, cioè l’applicazione alla produzione industriale di organismi e processi della biologia. Il termine “bio”, dice Tamino, significa vita e richiama l’idea di origine naturale e organica, ma anche il petrolio e il carbone in fondo sono di origine naturale. Al termine “bio” viene normalmente attribuita una valenza positiva e “naturale”, e di conseguenza queste tecnologie vengono in tal modo considerate far parte della cosiddetta “green economy”. “La mistificazione del linguaggio, conclude Tamino, in questo caso, è “strumentale a una politica di proliferazione di queste tecnologie sotto l’ombrello dell’ecologia e del rispetto della natura”.

In buona sostanza il biogas è il prodotto di un processo di bioconversione, intendendo questa come la trasformazione energetica basata su un processo biologico, e, per estensione, a tutte le tecniche che producono energia partendo dalla materia vivente. Più precisamente il biogas viene ottenuto dalla fermentazione anaerobica di materiali organici adatti allo scopo, che vengono detti biomasse.

Un’altra considerazione da fare, prima di analizzare compiutamente le tematiche affrontate nell’incontro, è che la problematica affrontata non è affatto nuova. Lo conferma un testo di parecchi anni fa – Il biogas, Longanesi, 1979 – che contiene la definizione di biogas e la descrizione delle prime e più significative esperienze di applicazione della fermentazione anaerobica di reflui e biomasse in Europa e nel mondo. Oggi questa tecnologia, nel nostro paese e non solo, sta assumendo una rilevanza che senza dubbio si può considerare preoccupante per l’impatto ambientale complessivo che comporta.

Per molti decenni in Italia la produzione di biogas si è realizzata prevalentemente in ambito agricolo per ricavare energia, da utilizzare prevalentemente all’interno delle stesse aziende, utilizzando gli scarti della attività di questo comparto, sostanzialmente biomassa vegetale e deiezioni animali. Secondo i dati del Consorzio Italiano Biogas (CIB), all’inizio del 2020 erano operativi più di 1.500 impianti di biogas, di cui 1.200 in ambito agricolo.

Nel testo sopra citato vengono riportati alcuni interessanti esempi relativamente alle rese in gas prodotto dal processo fermentativo e riferiti al tipo di biomassa utilizzata: nel caso del frumento da 1 ha di coltura si ottengono mediamente 3,5 tonnellate di paglia, che, “biodigerita”, fornisce circa 700 m3 di biogas, cioè 4,2×106 Kcal/anno; da 1 ha di giacinti d’acqua (in clima tropicale) si ottengono 3.000 tonnellate di biomassa che fornisce circa 30.000 m3 di biogas, cioè 180×106 Kcal/anno; infine da 1 ha di cereali, usati come mangime per bovini, si ottengono 4 tonnellate di deiezioni che, una volta trattate nel biodigestore, forniscono circa 450 m3 di biogas corrispondenti a 2,7×106 Kcal/anno. Questi dati fanno chiaramente intuire quale sia la convenienza a trattare le diverse tipologie di biomassa.

Date queste premesse, è legittimo domandarsi se per produrre energia questo tipo di tecnologia sia idonea e, inoltre, quale può essere il contributo offerto da essa rispetto ai consumi previsti negli anni a venire. Le risposte non sono per niente semplici.

Riferendosi a questi aspetti, il professor Setti ha svolto una serie di considerazioni sulla produzione di biogas nel nostro paese partendo dalla necessaria premessa di quali oggi siano le fonti che, nelle diverse forme, vengono utilizzate per la produzione energetica e quali i consumi e le evoluzioni previste, tenendo ben presente la differenza fondamentale tra i prodotti che forniscono direttamente energia termica (sostanzialmente i diversi tipi di combustibili) e le tecnologie che forniscono energia elettrica per gli usi domestici e industriali.

In seguito sono stati illustrati i dati sulla potenziale produzione di biometano in Italia, e sui materiali utilizzabili nei digestori. La quota più rilevante tra i materiali organici è rappresentata dalle deiezioni animali (130.000.000 di t/anno), seguita dai FORSU (Frazione Organica dei Residui Solidi Urbani) con 10.000.000 di t/anno, quindi i residui colturali (8,5 milioni di t/anno) e a seguire gli scarti agro-industriali con 5 milioni, i fanghi di depurazione con 3,5 milioni di t/anno e infine le colture energetiche equivalenti alla produzione di 200.000 ha di coltivazioni. Il trattamento di queste biomasse porterebbe ad una produzione stimata di circa 11 miliardi di m3 di biogas/anno, corrispondenti a 20 TWh (terawattora)/anno di energia elettrica.

Attualmente l’Italia, nel settore biogas, si colloca al quarto posto al mondo dopo Germania, Cina e Stati Uniti, con circa 2200 impianti operativi, di cui circa 1.730 nel settore agricolo e circa 470 nel settore rifiuti e fanghi di depurazione, per un totale di circa 1.450 MWe (megawatt elettrici) installati. Di questi, secondo il Gestore Servizi Energetici, circa 1000 sono nel settore agricolo.

Dai biodigestori, in funzione del materiale trattato, si ottiene una miscela costituita da metano (CH4) mediamente per il 60-70%, anidride carbonica (CO2), ossido di carbonio (CO), acqua, idrogeno solforato (H2S), ossigeno, azoto, ammoniaca (NH3) e altre sostanze. Per arricchire in metano questa miscela si applicano tecniche dette di upgrading che hanno appunto lo scopo di rendere massima la percentuale di questo gas fino a valori del 95/99%.

Il potenziale di sviluppo della filiera biogas/biometano nel breve/medio termine è consistente: stime del CIB-Consorzio Italiano Biogas identificano un potenziale produttivo al 2030 di 8-10 miliardi di m3 di biometano, pari a circa il 11-13% del consumo attuale di gas naturale in Italia e superiore all’attuale produzione nazionale.

Leggendo quanto viene comunicato su siti e pagine rintracciabili in rete, il biogas e relativa filiera vengono esaltati e definiti fonti e modelli di “energia rinnovabile”. Come esempio vale la pena riportare quanto si legge nel sito del Consorzio Italiano Biogas  quale realtà più rappresentativa di questo settore produttivo: “Il Consorzio Italiano Biogas è la prima aggregazione volontaria che riunisce aziende agricole produttrici di biogas e biometano da fonti rinnovabili [?]; società industriali fornitrici di impianti, tecnologie e servizi per la produzione di biogas e biometano; enti ed istituzioni che contribuiscono alla promozione della digestione anaerobica per il comparto agricolo. Il CIB è attivo sull’intera area nazionale e rappresenta tutta la filiera della produzione di biogas e biometano in agricoltura, con l’obiettivo di fornire informazioni ai Soci per migliorare la gestione del processo produttivo e orientare l’evoluzione del quadro normativo per favorire la diffusione del modello del “Biogasfattobene®” e raggiungere gli obiettivi al 2050 sulle energie rinnovabili e la lotta al cambiamento climatico.”.0
Una breve annotazione a questo testo: le “fonti rinnovabili” per la produzione di biogas e biometano a mio parere non lo sono affatto. Reflui, scarti agroalimentari, deiezioni animali, biomasse vegetali, ecc. non si possono considerare “rinnovabili”, anche se molti le inseriscono in questa categoria.

L’altro testo è ripreso dal sito della rivista Quale Energia [1], pubblicato a fine novembre del 2022: In Italia il biometano ha grandi potenzialità e potrebbe portare il nostro Paese ai primi posti europei nella produzione di gas “verde”. Ci sono però diversi ostacoli da superare, dalla complessità e lentezza delle autorizzazioni ai colli di bottiglia nella logistica, mentre i recenti sviluppi normativi – in particolare il decreto ministeriale con gli incentivi al biometano pubblicato in Gazzetta ufficiale a fine ottobre – dovrebbero dare nuovo slancio al settore. Quali sono allora le prospettive del biometano sul mercato italiano? Se ne parla in un nuovo studio della società di consulenza BIP. Gli autori ricordano che il piano REPowerEU punta a produrre 35 miliardi di metri cubi di biometano al 2030 in Europa (oggi: 3 mld m3) e che in Italia si dovrebbe arrivare a 6 miliardi di metri cubi. Sarebbe un balzo notevole visto che oggi nello Stivale la produzione annuale di biometano è di appena 220 milioni di m3. Ci sono opportunità per realizzare oltre 1000 impianti entro il 2026, riporta il documento, tra conversioni di unità a biogas e impianti del tutto nuovi. E secondo le stime di RSE (Ricerca sul Sistema Energetico), citate dallo studio, la potenzialità italiana sale a circa dieci miliardi di m3 di biometano al 2050. Anche qui tutto positivo, gli unici problemi sono quelli della burocrazia.

Pochissimi i casi dove si evidenziano pregi e difetti di questa tecnologia. Tra questi il sito di Sorgenia  dove, a proposito della logistica dei siti produttivi si legge che “la pianificazione di un impianto deve valutare attentamente il bacino di approvvigionamento delle biomasse in ingresso, che se reperite a distanza troppo elevata rendono l’attività ambientalmente ed economicamente non sostenibile”.

L’insieme delle problematiche relative alla realizzazione e gestione di biodigestori per biogas è stato affrontato dal professor Tamino, il quale afferma quanto siano inutili e dannosi per l’ambiente e la salute le centrali a biogas e gli impianti di biodigestione anaerobica che vengono costantemente proposti su tutto il territorio nazionale per conseguire importanti incentivi economici, in quanto anch’essi spacciati per fonti rinnovabili quando in realtà lo sono soltanto formalmente.

Si può infatti parlare di fonti rinnovabili, continua Tamino, “solo se nel territorio di origine e nel tempo di utilizzo quanto consumato si ripristina. Ciò vale per l’energia solare e quelle derivate come il vento e l’energia idrica, ma non si applica totalmente alle biomasse intese come materiale prodotto da piante e destinato alla combustione. Se viene distrutto un bosco per bruciarne la legna, il bosco non si rigenera nel tempo di utilizzo per la combustione della legna. E’ possibile usare solo il «surplus» dell’attività forestale. Ancora più complesso il discorso se le biomasse provengono da colture agricole dedicate”. In questo caso un impianto alimentato da coltivazioni dedicate ha un bilancio energetico molto basso in quanto occorre da un lato calcolare l’energia necessaria per la produzione agricola (fertilizzanti, fitofarmaci, irrigazione, trasformazione, trasporti, ecc), dall’altro quella necessaria per far funzionare l’impianto. Oltre a ciò, afferma Tamino, “alimentare un impianto a biomasse con prodotti agricoli (mais, triticale, ecc.), che consumano terreno utile per produrre cibo, è un problema anche di ordine «etico»: mentre in varie parti del pianeta vi sono difficoltà di approvvigionamento e il nostro paese ne importa dall’estero, si preferisce utilizzarli come materiali nei biodigestori”. Va poi tenuto presente che “se si dovesse coprire il 10% del fabbisogno energetico italiano utilizzando biomasse, occorrerebbe una superficie di coltivazione grande 3 volte l’Italia”.

Va poi detto che le centrali a biogas, dal punto di vista sanitario, non sono affatto innocue. La fermentazione anaerobica infatti favorisce la produzione di batteri sporigeni anaerobi come il clostridium botulinum che, attraverso il digestato successivamente sparso sui campi come concime, può determinare problemi anche mortali negli animali d’allevamento, specie volatili, ma anche per le persone. Alla luce di queste considerazioni va tenuto ancor maggiormente presente il “Principio di precauzione” ratificato nel 1992 dalla Convenzione di Rio de Janeiro e inserito nel 1994 nel Trattato dell’Unione Europea «in base al quale un prodotto o un processo produttivo non vanno considerati – come si è fatto finora – pericolosi soltanto dopo che è stato determinato quanti danni ambientali, malattie e morti producono, ma al contrario, possono essere considerati sicuri solo se siamo in grado, al di là di ogni ragionevole dubbio, di escludere che possano presentare rischi rilevanti e irreversibili per l’ambiente e per la salute.»[2]

Gli interventi finali della conferenza svolti da Sandra Travagli per l’esperienza di Villanova e Andrea Bregoli per il Comitato di Formignana, mettono con forza l’accento sulle ricadute, a 360 gradi, della produzione di biogas nella nostra provincia. Mi limito ad elencare alcune delle criticità illustrate dai relatori, a cominciare dal consistente aumento della mobilità di mezzi pesanti che si prevede investirà le strade provinciali, già in molti casi parecchio dissestate, per il trasporto dei materiali in entrata e in uscita dagli impianti. Poi i problemi relativi alle notevoli quantità, e alla qualità, del digestato che residua dai processi produttivi del biogas e i connessi problemi derivanti dalla “odorosità” del materiale residuo, sia in fase di stoccaggio che di spandimento sui terreni. Infine tutto l’insieme dei problemi, agronomici in primis, derivanti dalle coltivazioni dedicate per la produzione delle biomasse da trattare negli impianti per il biogas.

Da ultimo, ma di estrema importanza, la mancanza di attenzione e di comunicazione da parte delle amministrazioni competenti nei confronti dei cittadini dei territori interessati. Queste, più volte sollecitate a dare risposte alle tante domande della cittadinanza, mai hanno mostrato interesse ad affrontare pubblicamente e a dibattere queste tematiche che tanta importanza hanno per la vita quotidiana delle aree coinvolte.

[1] https://www.qualenergia.it/articoli/biometano-grandi-potenzialita-italia-tanti-ostacoli-rimuovere/

[2] Rifiuto, riduco, riciclo: guida alle buone pratiche, a cura di Stefano Montanari, Arianna Editrice, 2009.

GLI SPARI SOPRA
Il fascismo non fu un’opinione, è un crimine

Il fascismo non fu un’opinione, è un crimine.

La “storicizzazione” del fascismo come fenomeno circoscritto e datato parte da lontano, ha radici antiche. Da quanto tempo si sente l’affermazione: ancora si parla di fascismo? Ma siamo nel 2023! Oppure: con tutti i problemi che abbiamo, ancora di queste cose dobbiamo parlare … . O meglio ancora: ma il fascismo non era come il nazismo, il primo fascismo ha fatto pure cose buone … sì però anche i partigiani … e il comunismo …

Tutte queste voci, spesso autorevoli e non solo di destra, hanno portato allo sdoganamento storico del fascismo, al suo annacquamento, alla volontà di scavalcare un ventennio, durato poi molto di più, senza mai farci compiutamente i conti. In Italia, dopo il 25 aprile del 1945 non è stato fatto nulla che assomigliasse ad un processo di Norimberga. Le istituzioni fasciste non sono state mai smantellate  completamente: magari formalmente sì, ma hanno mantenuto molto del corpo impiegatizio e burocratico operante durante il ventennio. I corpi dello stato, i servizi segreti in particolare, hanno continuato a scavare come talpe sotto le fragili fondamenta della repubblica e della nascente democrazia, per molti decenni. Per arrivare poi agli anni novanta, in cui Mani Pulite avrebbe dovuto spazzare via un sistema corrotto, ma ciò che arrivò a sostituirlo fu, in larga parte, il ventennio di Berlusconi, che vedeva comunisti dappertutto e fece un’operazione culturale di parificazione del marxismo al fascismo.

Non dobbiamo cadere dalle nuvole se la seconda carica dello stato finge di non conoscere la storia di via Rasella, se giornalisti e commentatori sussurrano o gridano l’opinione che un atto di guerra diviene un attentato. Peggio, la colpa fu dei partigiani che dovevano starsene zitti e buoni, perché sapevano che i nazisti si sarebbero arrabbiati e avrebbero applicato la aberrante formula matematica un tedesco = dieci italiani. No, io non credo che si possa banalizzare tutto, derubricandolo a problema di poco conto, come le violenze nei confronti di chi la pensa in modo diverso, vedi i ragazzi picchiati in strada davanti ad un liceo perché esprimevano la propria opinione tramite dei volantini. Non si possono trattare con leggerezza e superficialità segnali di questo tipo, spesso agli onori della cronaca.

I partigiani, anch’essi messi sullo stesso piano degli oppressori, tramite il lavoro di studiosi considerati dall’opinione pubblica come moderati, sono già il risultato di una parificazione antistorica. Durante e dopo la guerra civile ci sono sicuramente stati eventi di violenza grave, processi sommari ed esecuzioni da parte dei partigiani, nel famoso “triangolo della morte” emiliano, così come ai confini est dell’Italia e in altre zone. Ma questi fatti non possono in alcun modo mettere sullo stesso piano oppressi ed oppressori, patrioti e traditori. La guerra civile non fu una scaramuccia tra bande come per i ragazzi della Via Paal: si perpetrarono stragi e violenze inaudite, soprattutto dopo il ’43, ad opera dei fascisti e dei nazisti. Il fascismo nacque come movimento violento e liberticida, da subito, come ragione sociale di un movimento che effettivamente divenne di popolo, ma ebbe le sue origini come banda armata dei padroni e dei ricchi proprietari terrieri. A Ferrara le squadracce dell’ “eroico” Balbo misero a ferro e fuoco le sedi della Lega delle cooperative, le delegazioni sindacali e le sezioni dei partiti di sinistra già dai primi mesi del 1920.

Magari serve a rischiarare la memoria agli smemorati di Collegno e di altre parti d’Italia che la pratica barbara di parificare un morto a dieci, anzi a undici, fu propriamente inventata dai fascisti e precisamente il quindici novembre del 1943, in seguito all’omicidio avvenuto due notti prima del federale fascista Igino Ghisellini. Pavolini, capo del Partito Fascista Repubblicano ordinò l’omicidio di undici oppositori del regime come rappresaglia. I vertici del Partito Fascista Repubblicano di Ferrara rastrellarono settantaquattro persone, trucidandone la notte del 15 novembre undici, nel muro antistante il castello Estense (ed in altre zone della città). Da qui si perpetrò l’uso dello stragismo da parte dei nazi-fascisti al grido di “ferraresizziamo l’Italia”. Ancora non sono chiare le responsabilità dell’omicidio politico del federale, alcuni storici danno la responsabilità diretta al PFR di Ferrara, mentre altri pensano che i federali e i vertici del partito abbiano “venduto” Ghisellini ai Gappisti delle città.

La memoria e le parole hanno una importanza fondamentale. La brigata nazista italo-tedesca “Bozen” non è una banda musicale di pensionati. I fascisti non furono patrioti, lo furono i partigiani. Gli italiani durante la guerra civile non furono tutti uguali, c’era chi combatteva per la libertà e chi combatteva per consegnare l’Italia agli oppressori.

Sicuramente ci sarà chi commenterà questo articolo definendolo poco accurato dal punto di vista storico, chi lo riterrà frutto di una opinione. Su questo non sono d’accordo. Il fascismo non fu un’ opinione, fu un crimine.  In quanto tale va ricordato e studiato, le approssimazioni e falsità storiche sono gravi e non possono venire annoverate alla voce boutades.

L’antifascismo non è un valore divisivo: i nostri padri costituenti erano esponenti di tutti i partiti con valori diversi tra loro, cattolici, comunisti, socialisti, liberali, repubblicani, unionisti.

L’antifascismo, la resistenza e la liberazione sono divisive per i fascisti, questo è certo.

DISEGNARE FERRARA. UN INCONTRO DI PROGETTAZIONE PARTECIPATA
Palazzo Tassoni (via Ghiara 36), giovedì 13 aprile ore 16,00

DISEGNARE FERRARA. UN INCONTRO DI PROGETTAZIONE PARTECIPATA 

Organizzato dal Dipartimento di Architettura, Laboratorio di Sintesi Finale di Urbanista, Prof. Romeo Farinella 
in collaborazione con il Forum Ferrara Partecipata.
INCONTRO PUBBLICO
Salone d’Onore di Palazzo Tassoni, via Ghiara n. 36, Ferrara, giovedì 13 aprile 2023, con inizio alle ore 16

L’incontro è organizzato nell’ambito delle attività del Laboratorio di Sintesi Finale di Urbanistica LSFD, diretto dal Prof. Romeo Farinella e parteciperanno docenti e studentesse del LSFD e sono stati invitati rappresentanti di Enti, Agenzie, Istituzioni.  Si tratta ovviamente di una iniziativa culturale, svolta all’interno di un percorso didattico. Il LSFD è il laboratorio del 5° anno dove le studentesse e gli studenti del Dipartimento di Architettura preparano le loro tesi di laurea. 

Attualmente sono in corso di elaborazione tre tesi di laurea riguardanti Ferrara che approfondiranno dei progetti di rigenerazione urbana riguardanti le aree comprese tra:
– il Polo scientifico-tecnologico e Darsena City;
– l’area gravitante attorno all’ex Caserma Pozzuolo del Friuli;
– l’area gravitante attorno all’Ippodromo.
Verranno approfondite anche le relazioni con il Po di Volano e con il futuro potenziale corridoio verde coincidente con l’interramento della linea ferroviaria verso est.

Lo scopo di questo incontro è di contribuire alla costruzione del quadro problematico necessario per lo sviluppo delle tesi di laurea che secondo la nostra consuetudine si presentano come momenti di ricerca progettuale, applicando un metodo di lavoro denominato research by design. Lo scopo di questa iniziativa è anche quello di avvicinare l’università alla città contribuendo al rafforzamento del confronto sul futuro della città di Ferrara, attraverso un contatto con associazioni e cittadini, con l’obiettivo anche di rafforzare il public engagement di UNIFE nei confronti del suo principale territorio di riferimento.
 
L’incontro è pertanto pubblico e tutti i partecipanti potranno partecipare contribuire al dialogo. L’incontro si svolgerà presso il Salone d’Onore di Palazzo Tassoni, via Ghiara n. 36, Ferrara, giovedì 13 aprile 2023, con inizio alle ore 16.

Lavoro di gruppo degli studenti di Architettura

Parole e figure
Altroquando: mondo virtuale contro mondo reale

“Altroquando”: l’alienazione sia con noi. Quando il mondo virtuale sovrasta il mondo reale

Virtuale contro reale. Il primo straccia, supera, surclassa, inghiotte, divora, soverchia, annulla, cancella, annienta il secondo. Lo batte, inesorabilmente. Un triste e angosciante punteggio che, ormai, non si riesce più a dare. Una vittoria schiacciante. Di quelle tristi.

Ormai quasi tutti viviamo in un’altra dimensione, che è quella in cui ci conducono i nostri cellulari, ipad e computer. Questa dimensione può essere chiamata ‘altroquando’. È il posto dove siamo veramente, anche se non fisicamente. Quello dove stanno la nostra testa e i nostri pensieri, perennemente distratti e capaci solo di rispondere a monosillabi a domande che richiederebbero una riflessione compiuta e sensata, per quanto minima.

Il venezuelano Sandro Bassi ci propone un ‘silent book’ Altroquando (Kite edizioni, 56 pp.) dal tema e immagini fantascientifici, che ci trasporta in quel mondo – che ormai conosciamo fin troppo bene – che è la totale dipendenza da internet. Teste chine.

Una lettura silenziosa per tutti, un monito all’essere umano che si sta perdendo.

Questo albo racconta, senza usare le parole (perché parole non servono), quanto ormai viviamo in questo mondo e come possiamo sentirci disorientati quando veniamo sconnessi da questa dimensione, che ormai è quasi la nostra vita stessa.

Vi siete mai trovati in un luogo sena connessione alla rete? Oddio, telefono o pc non vanno… Il panico, il caos, siamo persi, senza identità. È il vuoto, la solitudine, il non poter scorgere o postare sogni, il non poter invidiare la felicità degli altri. Mentre non vediamo più il mondo intorno, quello vivo, quello pulsante, quello reale fatto di colori, parole, emozioni e sentimenti. Mentre non godiamo del silenzio o del fruscio del vento.

Ogni tavola di questo incredibile libro raccoglie mostri dai volti irriconoscibili fatti di geometrie o di oggetti deformi e informi. Menti che sono in un mondo parallelo: ma come abbiamo fatto a ridurci così? Davvero siamo arrivati al punto di non riconoscerci più? Purtroppo, questa è la triste e cruda realtà e Sandro Bassi ce lo sbatte in faccia senza mezze misure, attraverso pagine in bianco e nero, con illustrazioni in mezza tinta, a matita.

Nessun colore, tonalità grigia, come grigie sono le esistenze spente di chi sta sempre e maledettamente appiccicato ad uno schermo illuminato. I disegni sono piatti ma fluidi, a creare una linea discontinua di figure ferme: un mondo in continuo movimento che però racchiude vite statiche e tutte uguali, uniformi, a raffigurarci con orribili facce da mostri, come identità diverse da noi. Semplicemente ciò che ormai siamo diventati.

Nei vagoni di una qualunque metropolitana grigio ferro, ignorandosi fra loro, i passeggeri fissano i display dei loro cellulari. Lo stesso avviene in treno, sui bus, per la strada, nei bar e ristoranti. Stazioni, centri commerciali e pure musei, sempre la stessa scena. Pure al cinema o a teatro la gente fatica a chiudere quell’aggeggio infernale (si sarà capito, lo odiamo con tutta la nostra anima). Non ci si guarda più in faccia, non ci si parla più, non si ride, non si ascolta, non ci si accarezza. Il touch è riservato agli screen.

Qualche gruppo di ragazzi si sta accorgendo che così non va. Basti pensare, per citare un bell’esempio, al Luddite Club, un gruppo di giovani studenti della Murrow High school che hanno scelto di rinunciare a smartphone e social per condurre una vita più semplice, che sappia dare a libri, dialogo e musica lo spazio che si meritano. Ci si incontra la domenica sui gradini della Central Library in Grand Army Plaza a Brooklyn. Barlume di speranza.

Chissà… Allora, diciamocelo a gran voce: ritorniamo umani, se non è troppo tardi.

Sandro Bassi

È illustratore e artista plastico, anche se il suo percorso creativo cresce attorno a quello pubblicitario. È noto per i suoi ritratti di situazioni quotidiane, di ambienti carichi di dettagli grafici e personaggi, che cercano di svelare l’identità della città. In opere come “Pasajeros”, illustra frammenti della cultura latino-americana attraverso una narrazione tra i suoi paesaggi, i percorsi urbani e le storie quotidiane dei suoi viaggiatori. Tecnicamente, la composizione a piani sovrapposti, la forma della sua linea e i colori rimandano ai fumetti.

“Il circolo degli ex” di Massimo Vitali
Presentazione del volume: Sala del Grattacielo, 14 aprile alle 20.30

“Il circolo degli ex” di Massimo Vitali

Il gruppo di letturaDue pagine prima di dormire
In collaborazione con la Biblioteca Popolare Giardino

Invitano alla presentazione del libro

IL CIRCOLO DEGLI EX
Di Massimo Vitali

Dialoga con l’autore il gruppo di lettura

Venerdì 14 aprile 2023 alle ore 20.30
 presso la Sala Polivalente

Ferrara, viale Cavour 189 – Ai piedi del grattacielo

Una piccola commedia ironica che fa riflettere sui nostri enormi drammi sentimentali.

“Vi è mai capitato di uscire da una storia d’amore, senza uscirne per davvero? E se l’unico modo per ripartire fosse confrontarsi con altri cuori a metà? La fine di certe storie d’amore equivale alla fine universale dell’amore. Invece di aprirti al futuro, hai la certezza di non riuscire mai più a trovare un amore come quello che hai perso. Questa è la certezza di Pietro, che non sente Ginevra da due mesi e cinque giorni, dopo essersi lasciati e ripresi così tante volte da non ricordarsi più quante. Compresa l’ultima, per lui, come se fosse la prima. Fino a quando capisce che se l’amore a volte crea dipendenza e

Grazie alla sua scrittura originale Massimo Vitali illumina il lato più paradossale e tragicomico di certe relazioni con una delicata e profonda commedia ispirata a una storia vera: quella di tutti noi il cui universo almeno una volta nella vita si è fermato per la fine di un amore…fino al successivo.”

Massimo Vitali è nato e vive a Bologna. Ha pubblicato i romanzi L’amore non si dice (Fernandel, 2010)   e Se son rose (Fernandel 2011; Sperling &Kupfer 2021) ; da quest’ultimo sono state tratte due pièce teatrali e il film Nel bagno delle donne, prodotto da Rai Cinema. Con Sperling & Kupfer ha pubblicato anche Una vita al giorno (2019). È docente di scrittura creativa, realizza laboratori sulla fantasia nelle scuole e conduce un programma radiofonico chiamato Ufficio Reclami, dove accoglie le lamentele di tutti, compresi i lettori dei suoi romanzi.

Il volume: Massimo Vuitali, Il circolo degli ex, sperling & kupfer, 16,90 €

Torna il quotidiano l’Unità:
il benvenuto è d’obbligo, la diffidenza è lecita

 

Il 16 aprile, per la quarta volta, l’Unità tornerà in edicola, diretta da Piero Sansonetti, già direttore del Riformista, e che a suo tempo è stato capocronista, caporedattore vicedirettore e condirettore del giornale fondato da Antonio Gramsci nel 1924. Il Riformista verrà diretto da Matteo Renzi, a cui evidentemente non basta fare il senatore, il summit della Leopolda, eccetera. Entrambe le testate hanno come editore Alfredo Romeo, avvocato, imprenditore napoletano nel ramo immobiliare, assolto dopo un iter giudiziario durato cinque anni dalla accusa di corruzione, una questione di appalti: “il fatto non sussiste” sentenziarono i giudici.

“Faremo un gran casino” – ha detto Sansonetti presentando in una conferenza stampa a Cosenza il ritorno del giornale – e saremo garantisti” in un paese dove “l’informazione è ridotta ai minimi“. Il ritorno del quotidiano permetterà “di combattere per una civiltà più giusta, e anche più libera“.

C’è chi afferma che l’Unità tornerà in edicola il 18 aprile (non comunque il 25 aprile e nemmeno il 1 maggio). ma noi non vogliamo correre dietro alle date. La nuova edizione parte però con una zoppia: non vi lavoreranno i 4 poligrafici, e i 17 giornalisti che hanno fatto l’Unità sia cartacea che online, sino al 2017, con grandi sacrifici e rinunce, e che sono stati licenziati dal curatore fallimentare. Perché un giornale – lo ha sancito anche la giurisprudenza – è indissolubilmente legato a chi lo costruisce ogni giorno.

Il panorama dell’informazione oggi è profondamente cambiato. I giornali si leggono sempre meno: tuttavia, una voce nuova e attrattiva – chiamiamola così – sarebbe benvenuta, ridarebbe forza a battaglie sacrosante se fosse espressione di quella sinistra che non ha un’identità precisa e fatica ad essere un punto d’approdo per ampi strati di società che sono esclusi da un’informazione onesta. Perché, citiamo Gramsci, “tutto ciò che stampa (il giornale borghese, ndr) è costantemente influenzato da un’idea: servire la classe dominante”.

La “nuova” Unità porterà con sé i valori che ne facevano uno strumento per lotte spesso durissime, fin dalla Resistenza, una specie di simbolo da portare nelle case con le diffusioni domenicali e straordinarie, un giornale da sostenere a costo di grandi sacrifici, sia dei redattori che delle migliaia di donne e uomini impegnati nelle feste rinunciando alle ferie e al riposo?
Lo scopriremo leggendola. Intanto, permetteteci di coltivare una sana diffidenza.

Cancel Culture: Statue che muoiono, Amazzoni che risorgono.

 

Prima di diffondersi come la forma di ribellione prediletta dai contestatori del passato razzista e colonialista occidentale ed essere etichettata come Cancel Culture, l’abbattimento e la deposizione delle statue ha interessato e ispirato sceneggiature e grandi opere cinematografiche.

 

Nel 1928 il regista Sergei Eisenstein fa cominciare Ottobre, il film capolavoro sulla Rivoluzione russa, con le immagini di una folla lillipuziana di proletari, soldati e contadini che a Pietroburgo abbattono una colossale statua dello zar Alessandro III. [Vedi qui i 20 minuti iniziali del lungometraggio]

 

 

 

 

 

Nella sequenza di apertura de La dolce vita, 1960, di Federico Fellini, un elicottero che trasporta una grande statua dorata di Gesù Cristo a braccia aperte sorvola un quartiere in costruzione nella periferia di Roma. [La dolce vita: scena dell’elicottero]

 

 

 

 

Nella scena cult del film Good Bye Lenin! del 2003 di Wolfgang Becker, la protagonista femminile scende per la prima volta in strada a Berlino dopo la caduta del Muro e rimane esterrefatta nel vedere una grande statua di Lenin che viene trasportata via da un elicottero militare. [scena cult del film] 

 

Una scena simile era già stata rappresentata in La doppia vita di Veronica, 1991, di Krzysztof Kieślowski, ispirata da un fatto della storia berlinese post-Muro, ovvero lo smantellamento all’allora Leninplatz della grande statua in pietra di Lenin, con la sua testa di 3,5 tonnellate, ridotta in 129 pezzi seppelliti in una cava di sabbia.

I riferimenti storici, le allegorie e i simbolismi espressi dalle statue in questi capolavori del cinema d’autore trovano un epilogo nel documentario Anche le statue muoiono, girato in Africa e in Francia tra il 1950 e il 1953 dai cineasti Chris Marker e Alain Resnais, che si apre con questa frase: «Quando gli uomini muoiono entrano nella storia. Quando le statue muoiono entrano nell’arte. Questa biologia della morte è ciò che chiamiamo cultura».

Commissionata dalla rivista letteraria Présence africaine e appoggiata da numerosi intellettuali francesi vicini al movimento della negritudine, dopo la sua prima proiezione al Festival di Cannes nel 1953 e malgrado si sia aggiudicata il premio Jean Vigo nel 1954, la pellicola è stata censurata dal Centre National de la Cinématographie fino al 1963.
La censura è un’evidente conseguenza del fatto che i due registi si palesarono nel pieno della crisi coloniale attraversata dalla Francia, che da lì a un decennio avrebbe assistito all’indipendenza delle terre occupate in Algeria, Marocco, Tunisia, Africa occidentale, Africa equatoriale e Madagascar, con un documentario antimperialista che mostra come l’Africa diviene un laboratorio in cui si costruisce l’immagine del buon selvaggio imposta dall’uomo bianco e come l’arte africana e gli antichi significati che le appartengono vengano distrutti e sopraffatti.

La morte delle statue, intese come sculture, maschere e opere d’arte plastica, è chiaramente connessa alla nascita della commercializzazione dell’arte africana per il piacere dei ricchi colonizzatori, i quali pretendono che le statue continuino a vivere e a valorizzarsi nelle bacheche delle collezioni museali, mentre Resnais e Marker affermano l’opposto, ovvero che dalle teche dei musei le statue ci guardano ma non ci riguardano, dato che la funzione rituale, il simbolismo e l’autonomia del linguaggio che tali forme veicolano perdono il loro senso in uno spazio, totalmente decontestualizzato ed esclusivamente estetico, che le azzera.
Visto e analizzato da questo punto di vista, l’emergente fenomeno definito “Rivisitazione dell’Arte Coloniale”, nato dalla Cancel Culture, adottato dal Politicamente Corretto e qualificato come processo di de-colonizzazione post-museale dal Governo Francese in primis nei confronti della Repubblica del Benin, appare come una precipitosa fuga attraverso l’uscita di emergenza della storia, giù per scala di sicurezza del proprio passato colonialista.

I sottili limiti esistenti da secoli fra saccheggio e collezionismo da un lato, e mercato e schiavismo dall’altro, continueranno ad essere di stretta attualità anche dopo il 2022, in quella che si è presentata come una inaugurale stagione africana di appuntamenti fortemente simbolici e chiaramente rivelatori del rapporto che l’arte intrattiene con gli splendori e gli orrori della storia coloniale e che ha salutato la Repubblica del Benin come primo Stato dell’Africa subsahariana a rientrare in possesso di una parte del proprio patrimonio culturale sottratto da una potenza coloniale europea e che ha visto la Repubblica Francese come primo Paese al mondo a restituire a un Paese africano colonizzato una simbolica parte maltolta del suo patrimonio.

Nel confronto tra primati e primatisti, a manifestarsi è però un deficit insanabile.
Le prime richieste di restituzione da parte dei Paesi africani risalgono infatti agli anni Sessanta e per sessant’anni i Paesi europei hanno reagito senza compiere un solo passo in avanti. Parlare di restituzione è stato una sorta di tabù o di muro abbattuto solamente negli ultimi anni da cause legali mosse da comitati, associazioni, intellettuali e capi di Stato: dal 2019, oltre al Benin, anche Senegal, Costa d’Avorio, Nigeria, Zaire, Etiopia, Ciad, Mali e Madagascar hanno inoltrato richieste ufficiali.

L’insensibilità con la quale il colonialismo europeo ha impedito il senso contestuale/culturale dell’arte africana, l’assenza di dialogo culturale con i popoli indigeni, lo sviluppo di un’arte di mercato dove il bianco è l’intenditore-compratore di manufatti da inglobare nel sistema estetico e formale dell’arte occidentale, toccano i punti cruciali delle riflessioni sul valore storico-antropologico che i manufatti artistici possiedono per le società che li producono.
Tutti sanno come le popolazioni indigene siano state pagate per vendere la loro stessa identità e il proprio patrimonio culturale materiale e immateriale, tutti sanno che l’arte nera è stata il più delle volte rubata, come ha testimoniato in molte pagine del suo diario di viaggio, L’Africa fantasma (1934), l’etnologo Michel Leiris negli anni della Missione etnografica Dakar-Gibuti (1931-1933) che arricchì a dismisura i depositi del Musée de l’Homme di Parigi con 3.600 oggetti, 300 amuleti, collezioni di pitture, manoscritti in 30 differenti lingue, 6.000 fotografie…
Leiris ha denunciato i mezzi spicci e predatori con cui gli etnologi francesi si sono appropriati degli oggetti artistici o rituali degli indigeni e con cui estorsero informazioni su celebrazioni, tradizioni, canti e danze riservate agli iniziati e nel libro egli si rimprovera di aver usato esattamente gli stessi metodi dei colleghi: il furto e l’inganno.
Per tutti questi motivi, l’uscita del libro, nel 1934, venne accolta con aperta ostilità: il capo missione Marcel Griaule -assistente all Ecole des Hautes Etudes, etnografo e linguista- furioso, definì l’ex amico, “un uomo senza onore che ha compromesso l’avvenire degli studi sul campo”; Marcel Mauss- luminare dell’antropologia culturale francese- ridusse Leiris a un “letterato” e “non un etnologo serio”; il Ministero dell’educazione nazionale stigmatizzò il libro come “opera la cui apparente intelligenza è dovuta soltanto a una grandissima bassezza di sentimenti”. Gran parte delle copie andarono al macero: la distruzione totale verrà completata sette anni dopo, nel 1941, ormai sotto l’occupazione tedesca, quando il Ministero degli interni del governo di Vichy interdisse ufficialmente l’Afrique Fantome. Solo nel 1951, il volume sarà finalmente ristampato venendo riconosciuto da molti, insieme a Cuore di tenebra di Joseph Conrad, come uno dei capolavori letterari che l’Africa ha ispirato.

Il significato dell’arte “primitiva” è stato alterato e gli indigeni pagati per vendere il loro patrimonio culturale e la loro stessa identità, trasformando le loro vite in una farsa diretta dai colonizzatori, in cui la sfera magico-religiosa viene rimpiazzata dagli interessi economici speculativi dell’Occidente e pervasa da un concetto di “esotismo esteriore” che coglie motivi ornamentali e periferici in grado di suscitare un “interesse autoreferenziale e uno spaesamento temporaneo circoscritto e fine a sé stesso”, come lo ebbe a definire Elemire Zolla in Uscite dal Mondo, (1992, capitolo: Parigi fra il 1862 e il 1932).
Resnais e Marker, difendendo il diritto di riconoscimento dell’arte africana in tutte le sue sfaccettature e livelli di complessità storica, sociale, artistica, rituale, magica, estetica e performativa, si domandarono: «Perché l’arte nera si trova esposta al Musée de l’Homme, mentre l’arte greca o egiziana sono esposte al Louvre?». Un interrogativo lapidario che ancora oggi pone non pochi problemi alla ricerca e alla critica antropologica, artistica e museale.

Interrogativo che pone problemi anche all’atteggiamento patriarcale colonialista che preferisce parlare di “museo dell’uomo”, di “uomo preistorico”, di “evoluzione dell’uomo” piuttosto che di umanità. Con il loro quesito, i due autori hanno avviato l’urgenza di un processo di de-mistificazione e di de-musealizzazione dell’arte indigena, problematizzando il tema del presunto primitivismo africano e sostenendo che quando vengono sottratte, inventariate, comprate a basso prezzo, rivendute ai proprietari dei negozi di antiquariato, ri-collocate ed esposte dietro le vetrine museali, “anche le statue muoiono”. L’affermazione dei due registi mette in discussione lo statuto dell’istituzione museale, sostenendo che un oggetto è morto quando lo sguardo attivo, vivente, antropologico, che si posa su di esso, è annullato. Per l’arte africana ciò avverrebbe quando i manufatti vengono inseriti nei circuiti museali dove muoiono formando, più che una collezione, un cimitero.

E’ in merito a tali considerazioni che si è parlato di rinascita espositiva -oltre che di crollo di un muro- a proposito del grande successo ottenuto, con centinaia di migliaia di visitatori dal 21 febbraio al 22 maggio, e grazie alla riapertura dal 16 luglio al 15 settembre, dalla mostra “Arte del Benin di ieri e di oggi: dalla restituzione alla rivelazione” presso le sale provvisorie del palazzo Presidenziale della Marina di Cotonou.
La seconda parte di questa esposizione, chiamata “Tesori Reali del Benin” ha presentato ventisei opere restituite dopo centotrenta anni trascorsi nei musei francesi, da quando cioè, nel 1892, la Francia attaccò il Regno del Dahomey con il pretesto di condurre la lotta al cannibalismo, ai sacrifici umani e alla poligamia attribuite alle popolazioni autoctone, mentre in realtà stava procedendo per completare l’occupazione di quella che sarebbe divenuta l’Africa Equatoriale Francese, una federazione di possedimenti di 2.349.651 km² che si estendeva dal fiume Congo fino al deserto del Sahara.

All’epoca non esisteva una legge internazionale sul saccheggio delle opere d’arte, gli ufficiali francesi poterono agire liberamente a titolo personale e non si saprà mai con esattezza quanti oggetti preziosi siano stati prelevati e quanti altri senza dubbio siano ancora oggi nelle mani dei loro discendenti. Secondo stime accertabili in Francia si troverebbero 90.000 manufatti artistici di inestimabile valore, dei quali 46.000 -meno 26- sottratti durante il periodo coloniale.
Fu il colonnello franco-senegalese Alfred Amédée Dodds, tra il 1893 e il 1895, a restituire al Museo Etnografico del Trocadéro i ventisei tesori reali sequestrati nella reggia di Abomey che sono stati esposti nella capitale beninese, tra i quali spiccano il trono di Re Béhanzin, quattro porte del palazzo del re Glélé, tre statue reali antropomorfe metà uomo-metà pesce di Béhanzin, metà uomo metà leone del re Glélé e metà uomo metà uccello del re Ghézo, attribuite al grande intagliatore Likohin Kankanhau Sossa Dede, oltre a scettri, monete d’oro, gioielli in avorio e metalli preziosi, sculture sacre, arredi, tessuti e oggetti di uso rituale e quotidiano.

Dodds ha inoltre contribuito a svelare il mito relativo al leggendario corpo di élite dell’esercito imperiale del Regno del Dahomey, noto per le popolazioni Fon, Yoruba, Ewè e Ashanti con il nome di N’Nonmiton, Mino o di Agodjies, che venne poi descritto dai colonizzatori francesi e inglesi con il nome di Amazzoni del Dahomey.
Quando partì da Cotonou alla testa di oltre tremila uomini, dal 26 ottobre al 17 novembre 1892, prima di conquistare e saccheggiare la capitale Abomey, dovette affrontare la resistenza all’ultimo sangue di un esercito composto da sole donne guerriere giudicate superiori ai soldati maschi in termini di fedeltà, coraggio e valore in battaglia.
L’esercito maschile e le popolazioni locali si difesero strenuamente e si contarono ben ventitrè cruenti battaglie e massacri alle quali presero parte i combattenti della Legione Straniera armati di micidiali mitragliatrici. Quella del 26 ottobre fu la battaglia più sanguinosa. A cinquanta chilometri da Abomey, i francesi dovettero affrontare un esercito immenso, composto da donne, intervenute per tentare di opporre un’ultima strenua resistenza.

Dimostrarono di non aver nessuna paura né di uccidere, né di morire.

Si lanciarono all’attacco in prima linea e combatterono senza nessuna remissione, usando la tecnica di combattimento da loro preferita, il corpo a corpo.
Mentre i francesi tentavano di mantenerle a distanza a mitragliate, le donne cercavano lo scontro fisico diretto e si catapultavano davanti alle baionette dei soldati per affrontarli faccia a faccia.
I soldati francesi rimasero sorpresi dal loro coraggio e atterriti dal fatto che non esitavano a decapitare i nemici uccisi, per ritornare all’attacco impugnando le loro teste. Nonostante la loro eroica resistenza, le N’Nonmiton non riuscirono a tenere testa alla superiorità militare dell’esercito francese, ma non si arresero e vennero sterminate: il 17 novembre 1892, quando i francesi raggiunsero la capitale Abomey e dopo gli ultimi attacchi venne istituito il Protettorato Francese, ne sopravvissero soltanto un centinaio.

Gli aspetti leggendari legati alle Amazzoni del Dahomey presentati per la prima volta in Europa dai Francesi tramite le imprese di Dodds negli ultimi decenni dell’Ottocento, sono strumentali e viziati da una visione patriarcale finalizzata più a riflettere l’impegno dei soldati francesi e i presupposti ideologici di conquista coloniale con i quali venivano impiegati in Africa, che non a considerare che la tradizione locale legata a queste donne era molto più antica, dal momento che le origini delle Mino sono attribuibili a una principessa della famiglia reale di Tado, di nome Abigbonu, che avrebbe generato le dinastie sovrane di tutti i regni sorti tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo nelle regioni centromeridionali delle attuali repubbliche di Togo, Ghana e Benin, cioè in una culla della civiltà che si ritiene sia stata abitata senza interruzioni perlomeno dal 3.700 a.C.

L’esempio materiale di come avrebbe potuto nascere un esercito composto da donne guerriere fu però merito di un’altra principessa, Tasi Hangbè, figlia del re fondatore del regno di Dahomey, Aho Houegbadja e sorella gemella del quarto re Houessou Akaba, che durante una battaglia contro un popolo rivale, travestitasi da suo fratello gemello rimasto ucciso sul campo, impugnò le armi e si mise a combattere al comando dell’esercito senza essere riconosciuta dal nemico.

 

 

 

Tasi Hangbè, divenne regina, salì al trono subito dopo la morte del fratello e regnò dal 1708 al 1711 e il suo ricordo ha ispirato la recente costruzione di una gigantesca statua in bronzo di 30 metri di altezza, opera dell’artista cinese Li Xiangqun, che domina come un faro la capitale sul sito del Memoriale della Riconciliazione, dietro il Palazzo della Marina.

 

 

L’esploratore Richard Francis Burton ha lasciato dei commenti sulla mascolinità fisica di queste donne, che le rendeva in grado di competere con gli uomini in quanto a forza, resistenza e capacità di sopravvivenza alle privazioni, precisando che le dimensioni del loro scheletro e della loro massa muscolare erano tali che la femminilità poteva essere rilevabile solo dal seno.

Servire nel Mino offrì alle donne l’opportunità di essere rispettate ed equiparate agli uomini, di salire a posizioni di comando, di godere di influenza, prestigio e privilegi, come quello di avere diritto a propri schiavi e di assumere ruoli di rilievo nel Gran Consiglio discutendo la gestione del regno anche in materia di politica estera.
Stanley Alpern, autore dell’unico studio completo in lingua inglese intitolato Amazons of Black Sparta, ha scritto che quando le Amazzoni uscivano dal palazzo, erano precedute da una serva che portava una campana. Il suono imponeva a ogni maschio di allontanarsi dal proprio percorso, ritirarsi a una certa distanza e guardare dall’altra parte.
Intoccabili e giurate, non potevano sposarsi o avere figli ed erano soprannominate “Le mogli del re” perché facevano un voto di castità prima di entrare nell’esercito e proteggevano il trono finché non esaurivano il compito che era stato loro affidato fedeli al proprio motto “vincere o morire”.

La giornalista francese Marie Madeleine Prevandeau negli anni ’30 fu una delle prime europee a parlare di queste guerriere cercando di interpretare la loro esistenza e il loro esempio come prova di un movimento femminista ante litteram, rilanciando l’idea di una primitiva civiltà delle donne e di un passato matriarcale dell’umanità inteso non come semplice ribaltamento del patriarcato, cioè la dominazione opposta di un sesso sull’altro, ma di una cultura di bilanciamento dei ruoli.

L’adattabilità, lo spirito di sopravvivenza, la resistenza, la capacità di autogovernarsi, l’insofferenza per i ruoli imposti dalle differenze di genere, sono state le doti più importanti delle Mino, esempi di donne rivoluzionarie, anticolonialiste, intellettuali, che potrebbero essere utili e in grado di imprimere alla prospettiva storica del passato un esemplare parallelismo con il presente, rafforzato dalla scelta di veicolare l’identità visiva, l’immagine pubblica e il richiamo turistico della Repubblica del Benin tramite la statua-simbolo della bellezza, della forza e dell’emancipazione delle N’Nominton – Le nostre madri – le uniche donne combattenti in prima linea, conosciute e documentate nella storia delle guerre moderne.

In copertina: Repubblica del Benin, costruzione della colossale statua della Regina Tassi Hangbé

Vi prego, non pregate nella scuola pubblica

A me sembra che, ogni giorno per qualsiasi cosa accada, l’attività principale praticata da molti di coloro che hanno la responsabilità di informare sia il ‘buttarla in vacca‘.
Certi titoli di giornale sono scandalosi, certi articoli di una faziosità preoccupante, quasi offensiva per un lettore di intelligenza media.
Sembra che qualsiasi fatto venga usato per dividere strumentalmente l’opinione pubblica, per creare astio, per insegnare ad odiare.
È grave questa scelta giornalistica perché impedisce ai lettori di capire, di formarsi un’opinione e li condiziona nell’interpretazione dei fatti.

Capita spesso anche quando si legge di scuola. Prendo ad esempio il recente fatto di cronaca che riguarda la sanzione comminata ad una maestra per aver fatto pregare gli alunni in classe.
Dalle prime informazioni sembrava che questa maestra, che insegna storia, geografia e musica nella primaria di San Vero Milis (Oristano), fosse stata sospesa per 20 giorni con riduzione dello stipendio, per aver fatto recitare un Padre Nostro ed un’Ave Maria ai bambini e alle bambine di una classe terza di una scuola pubblica.
Raccontata in questo modo la sospensione, in effetti, sembrerebbe eccessiva.

Per moltissimi politici bigotti del nostro Paese ciò è apparso intollerabile e allora giù con la difesa della “nostra cultura”, della “nostra storia”, delle “nostre radici”. E ancora giù contro la laicità, contro la furia iconoclasta, contro la sinistra, insomma giù contro il mondo intero.

È stata necessaria una precisazione da parte del responsabile dell’Ufficio Scolastico Regionale della Sardegna dottor Feliziani che ha detto che “Non si è trattato soltanto di una preghiera in classe”, facendo capire una cosa ovvia e banale cioè che gli Uffici Scolastici Regionali non decidono sulla base della segnalazione ma si accertano prima di procedere e che “l’azione dell’ufficio è improntata a canoni di correttezza amministrativa, senza nessuna finalità ideologica”.
Se ne deduce che se si muove un Ufficio Scolastico regionale c’è dell’altro e c’è qualcosa di ben più grave di una preghiera recitata in classe perché quando arriva una sanzione vuol dire che ci sono stati prima diversi richiami.

Dalle informazioni successive si è venuto a sapere che la stessa maestra aveva insegnato agli alunni a realizzare un rosario, che compieva una sorta di benedizione dei bambini con olio proveniente da Medjugorje e che spiegava i terremoti e le eruzioni vulcaniche come ‘castighi di Dio’ per la malvagità degli uomini.

Lei si è difesa dicendo che “Ho portato l’olio da Medjugorje, l’ho dato ai bambini e loro se lo sono messi l’un l’altro, come in un gioco“, “Non c’è stata nessuna benedizione. Dopo il Pater e l’Ave, li ho salutati con un ‘Che Dio vi benedica!’: è un saluto cristiano a chi si vuol bene“.

Sicuramente c’è dell’altro in questa faccenda e noi non possiamo sapere tutto ma, nel frattempo, la macchina dell’odio è già oliata a dovere: quindi vai con i Fratelli d’Italia che difendono la maestra considerata martire, con Vittorio Sgarbi che la vorrebbe premiare, con il presidente della Sardegna Christian Solinas che ha dichiarato: “Un provvedimento preoccupante, che ha il sapore della censura se non addirittura della persecuzione religiosa”, con Matteo Salvini che dice: “Siamo alla follia. Buona Santa Pasqua a questa maestra, un abbraccio ai suoi bambini”.

In tutta questa baraonda mediatica, non ho notizia di qualcuno che abbia ricordato che la scuola in cui quella maestra insegna storia, geografia e musica non è una scuola privata a carattere religioso, ma è una scuola statale quindi pubblica, dove si dovrebbe rispettare il principio di laicità.
È una scuola pubblica di un Paese, il nostro, che non ha una religione di Stato.
È una scuola pubblica in cui la dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica non è più «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica» come era scritto nei programmi per la scuola elementare del 1955.
È una scuola pubblica che “mira all’acquisizione degli apprendimenti di base come primo esercizio dei diritti costituzionali. Attraverso le conoscenze e i linguaggi caratteristici di ciascuna disciplina, la scuola primaria pone le premesse per lo sviluppo del pensiero riflessivo e critico necessario per diventare cittadini consapevoli e responsabili” (Fonte MIUR).
È la scuola pubblica della Costituzione in cui “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Comincio a credere che il gran clamore su questa vicenda non sia tanto per la vicenda in sé ma per distogliere l’attenzione dal fascismo sempre più dilagante, dalle incapacità governative, dalla mancata realizzazione di certe promesse elettorali, dalle continue gaffe di ministri vari che ne dimostrano l’impreparazione imbarazzante e la disumanità incredibile.
Continuo ad immaginare che i ministri di destra che hanno giurato sulla Costituzione non ci credano proprio nella nostra Carta Costituzionale.

Seguito a pensare che i tanti richiami e/o oggetti religiosi di cui fanno sfoggio certi politici siano in contrasto evidente con il loro modo di comportarsi.

Verifico con preoccupazione che il richiamo indiretto al motto “Dio, patria e famiglia” funziona sempre in un Paese come il nostro non completamente istruito ma ostruito da certa informazione spazzatura e da certa politica bigotta.

Mi auguro che il lavoro quotidiano di tante docenti e di tanti docenti, ottimisti per natura e per mestiere, non si faccia intimorire dal brutto clima ma, nel proprio piccolo, si provi a resistere e ad influenzare l’ambiente con il vento adatto per i ‘cambiaMenti’, le temperature emotive giuste, adottando nuove strategie didattiche di rilievo, collaborando per portare più luce sul lavoro cooperativo, insomma praticando l’inclusione con ‘classe’ e facendo vivere la Costituzione a scuola.

L’Aquila Gaia a fumetti

 

Vedi anche su Periscopio: Il Sentiero dell’Aquila Gaia: una storia molto vera 

Il primo volo dell’Aquila Gaia

Gaia, la giovane aquila reale nata nel maggio 2017 a Frasassi e liberata dal WWF Italia a settembre dello stesso anno dopo essere sopravvissuta alle fucilate di un bracconiere, ha percorso oltre 1.000 km in 14 mesi. Già da oltre un anno frequenta soprattutto il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi. Due fotografi naturalisti, Cristian Donati ed Emanuele Cheruan l’hanno immortalata con due preziosi scatti.

Gli ultimi mesi di spostamento dell’Aquila Gaia

I dati degli ultimi mesi di telemetria satellitare ci aiutano a ricostruire gli spostamenti nell’appennino tosco-romagnolo della giovane aquila reale nata nel Parco Regionale Gola della Rossa e di Frasassi e curata e liberata dal WW a settembre 2017, dopo essere stata ferita da un bracconiere. Gaia è stata la prima aquila dotata di satellitare GPS in Italia, grazie al quale si possono monitorare i suoi viaggi. Questi dati ci consentono di studiare gli spostamenti di Gaia, e di evidenziare gli spostamenti talvolta improvvisi anche di oltre 100 km in un giorno.
Le sue ali l’hanno portata prima nel nord delle Marche, frequentando i territori di altre 5 coppie (Furlo, Nerone, Petrano, Catria, Cucco) per poi tornare a Frasassi e scendere verso sud attraversando Valnerina, Sibillini, Laga, Monti Reatini, Gole Antrodoco, Terminillo fino alla riserva del Velino in Abruzzo e l’area del Lago del Salto nel Lazio. Dopo essere passata tra il Vettore Sibillini e Laga, è partita in volo per raggiungere la riserva del Pigelleto e, successivamente, il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi.
Nel Parco ha utilizzato come aree di caccia le aree basse montane e come dormitori i grandi abeti bianchi secolari presenti nelle foreste vetuste. Ha volato spesso nella zona di Monte Falco, la Burraia, Monte Falterona, la foresta della Lama, La Verna e Camaldoli. L’aquila è in ottima salute ed è riuscita ad effettuare 200 km in volo in un paio di giorni all’interno del Parco Nazionale.

L’Ucraina è nostra vicina, ma la Cina ci è già entrata in casa

 

Come ho argomentato in altri articoli, dietro la guerra in Ucraina c’è ben altro: uno scontro per la leadership mondiale nel XXI secolo che la Cina non è più disposta a lasciare agli Usa come nel secolo scorso. Questo spiega l’inefficacia delle sanzioni alla Russia che commercia bellamente con l’altra metà del mondo, il quale se ne infischia dell’Occidente (Cina in testa). Possiamo portare tutte le ragioni che vogliamo (noi siamo una democrazia, loro sono dittature), ma lo spaventoso curriculum di guerre e devastazioni che gli Usa hanno accumulato ha fatto scendere dal podio l’Occidente, e metà del mondo ci contesta vigorosamente.

Paradossalmente è stata proprio la globalizzazione americana e la “modernità” a far crescere la potenza economica della Cina, che ha cominciato a pensare a questa idea nel 2009 (dopo la crisi finanziaria made in Usa dei subprime), raccogliendo le proteste silenziose di decine di paesi che usano il dollaro come moneta di riserva. Nel 2009 il governatore della Banca popolare cinese Zhou Xiaochuan elogiò l’idea di Keynes del Bancor (un paniere di monete e non solo il dollaro, in origine proposta dall’economista nel 1944) ed auspicò la sua creazione, con conseguente de-dollarizzazione. Ebbe l’appoggio di Russia, India, Brasile e Sud Africa (BRICS). Anche Tommaso Padoa Schioppa, ministro del governo Prodi nel 2010, parlò con interesse del Bancor e disse che “l’orientazione monetaria globale era fissata o fortemente influenzata dalla Federal Reserve Usa, esclusivamente in base a considerazioni nazionali”. Il dollaro ha come controvalore (dal 1972) non più l’oro ma la forza della sua economia e il potere militare e, dal 1999, la potenza della finanza occidentale che guida i mercati.

La Cina era consapevole che la sua potenza economica non era però sufficiente. Così ha cominciato a osservare con interesse quanto avveniva in Europa dal 2014, col crescente conflitto con la Russia per via dell’allargamento della Nato ad est e all’Ucraina. L’abbandono dell’alleanza della Russia con l’Europa avrebbe potuto portare in dote alla Cina un alleato insperato come la Russia, appunto: un vicino non proprio amico e militarmente forte. A quel punto bisognava solo trovare il terzo pilastro che contrastasse la finanza occidentale. Questo pilastro è stato individuato nelle materie prime e terre rare (di cui la Cina è il primo fornitore), che saranno alla base di tutti i prodotti ad alta tecnologia futuri. Materie prime che interessano ai paesi (non solo quelli poveri) più della Finanza, una sorta di rivincita della “vile terra” sull’”oro virtuale”.

A questo punto si tratta di avviare un Nuovo Sistema Monetario basato sullo yuan cinese, ma con un paniere di altre monete come, peraltro, aveva proposto Keynes al posto del dollaro a Bretton Woods nel 1944. Al prossimo summit che si farà in agosto in Sud Africa i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) pare abbiano intenzione di dare vita a una nuova moneta internazionale. Interessati sono anche Arabia Saudita, Iran, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Uruguay, Argentina, Messico, Bangladesh, Pakistan, Nigeria e molti altri. Il Pil dei Brics è già a livello del G7 e un sistema valutario alternativo al dollaro eviterebbe che una prossima (peraltro attesa) crisi finanziaria dell’Occidente si scarichi anche su altri paesi, com’è avvenuto sempre in passato.

Già oggi l’aumento dei tassi a 4,75% della Federal Reserve Usa crea gravissimi problemi a molti paesi che detengono la valuta americana come moneta internazionale di scambio. Gli Usa hanno un deficit sull’estero di oltre 18mila miliardi (la Cina ha un avanzo di 6mila e la Russia di 400 miliardi) che si possono permettere di finanziare solo in quanto sono l’unica moneta internazionale. Nel momento in cui non lo fossero più, dovrebbero ridurre i livelli di benessere che si sono permessi sino ad oggi. L’effetto gigante si riverbererebbe anche sul resto dell’Occidente (Europa, Gran Bretagna, Canada, Australia).

Barry Eichengreen (Univ. di Berkeley) ha scritto sul Financial Times che “la guerra in Ucraina sta erodendo le basi dell’egemonia monetaria Usa”. E’ possibile che gli Usa questa volta abbiano fatto un “passo più lungo della gamba”, e nella foga di ottenere più potere allargando la Nato ad Est, abbiano creato le condizioni di un’alleanza Cina-Russia, rafforzando il loro vero nemico: la Cina, appunto.

A questo punto la “frittata” è fatta e, a mio avviso, è impossibile fermare questo processo, data la forza dei BRICS. All’Occidente conviene trattare e negoziare (anche per l’Ucraina), ma insieme: non come si è fatto in Afghanistan, lasciando la trattativa solo tra gli Americani e i Talebani. Occorre prendere atto che il XXI secolo sarà un mondo con poteri multipolari e non più sotto la sola egida degli Usa. Con tutte le critiche che possiamo fare all’uomo d’affari Trump, dobbiamo riconoscere che è il primo presidente Usa ad averlo capito. Questo spiega perché vuole chiudere tutte le guerre americane aperte nel mondo. L’alternativa è una guerra non solo e tanto commerciale, ma una vera guerra – che ovviamente non conviene a nessuno.

Giulio Capurso in concerto e “Bicycle Day” di Brian Blomerth in anteprima italiana:
doppio evento al Centro Sociale La Resistenza, martedì 11 aprile a partire dalle 19

Martedì 11 aprile, alle ore 19, al Centro Sociale La Resistenza, in via della Resistenza 32-34, si terrà, in anteprima italiana, la presentazione del libro Bicycle Day di Brian Blomerth (WoM, 2023). L’evento fa parte della rassegna Pazienza & Resistenza, ideata e curata da Marco Belli e Michele Ronchi Stefanati, in collaborazione con la libreria indipendente La Pazienza Arti e Libri.
Resoconto storico degli eventi del 19 aprile 1943, quando il chimico svizzero Albert Hofmann ingerì una dose sperimentale di un nuovo composto noto come L.S.D e si imbarcò nel primo trip da acido del mondo, “Bicycle Day” di Brian Blomerth è una graphic novel in stile technicolor comix, testimonianza dell’espansione della mente e storia visiva straordinariamente originale. L’editore dialogherà con Silvia Meneghini.
A seguire, dalle 21.30, sempre alla Resistenza, arriva il concerto di Giulio Capurso e Enrico Malucelli.
Giulio Capurso e la sua chitarra
Capurso porta in giro per il mondo uno spettacolo unico in cui suona una chitarra elettrica che ha disegnato e costruito con l’aiuto e la supervisione del liutaio Luca Stanzani, si tratta di una doppio manico a sette corde, quattordici corde in tutto. Suona questo strumento utilizzando due tecniche diverse: tapping e finger-picking.
Contemporaneamente, Capurso suona una batteria a pedale composta da tre diversi modelli di stompbox e assemblati seguendo una nuova logica di utilizzo, suggerita da un supporto di sua invenzione, che permette di usare due stompbox con un piede. Il repertorio è composto da standards jazz e latin jazz, nati sul pianoforte e reinterpretati in modo unico.
Capurso si esibisce da tanti anni in ogni tipo di contesto: dal Premio Tenco di Sanremo nel 2018, nella prestigiosa cornice del teatro Ariston come ospite speciale al Premio Tenco di Barcellona presso Casa degli Italiani, fino a tre edizioni del festival europeo Posidonia Green Festival, di cui due al Museu Maritim di Barcellona e una a Santa Margherita Ligure e ancora l’Harlem Jazz Club di Barcellona nel 2018, il Festival Cose di Amilcare di Barcellona, il Take Five di Bologna nel 2016 e l’Imola jazz festival nel 2009.
Per entrambi gli eventi l’ingresso è gratuito e riservato ai soci ANCeSCAO.
Cover: Giulio Capurso in concerto

Presto di mattina /
La grande neve della Pasqua

La grande neve della Pasqua

È l’ultima neve della stagione,
Neve di primavera, la più abile
A ricucire gli strappi dell’albero secco
Prima che vengano a prenderlo per arderlo.
È la prima neve della tua vita
Poiché, ieri, erano solo chiazze
Di colore, brevi piaceri, timori, tristezze
Inconsistenti, in mancanza di parola.
E vedo che la gioia ha la meglio sulla paura
Nei tuoi occhi, che la sorpresa schiude
Con un gran balzo chiaro: questo grido, questo riso
Che amo, e che trovo ricco di senso.
Perché siamo davvero vicini, e il bambino
È il progenitore di chi un mattino
Lo ha preso tra le mani di adulto sollevandolo
Nell’acconsentire della luce.
(Y. Bonnefoy, Quel che fu senza luce. Inizio e fine della neve, Einaudi, Torino 2001, 211).

Parole fragili e resistenti insieme, ad un tempo solide e fluide, cangianti e ingegnose nelle forme, come sono i cristalli di neve, a formare trine intrecciate di luce, poi un velo nuziale sulla terra, sugli alberi, sulle case, tutto avvolgendo di una veste bianchissima, candida.

Così mi sono sembrate le parole di Yves Bonnefoy, poeta francese, agnostico e tuttavia appassionato dell’assoluto nascosto nelle cose, come cercando quel cielo infinito che si specchia tutto in una pozzanghera e che ama la neve che acconsente alla luce, trasfigurazione del visibile nell’invisibile sino a rendere desiderabile, atteso nel vecchio, l’orizzonte di un mondo nuovo.

Neve che posandosi ricuce gli strappi dell’albero secco della vita perché ricopre e congiunge con il suo manto il tutto e il nulla, il limite con l’infinito, l’indicibile e il suo detto poetico, ciò che sta oltre con ciò che è qui e ora, il grido e il sorriso che amiamo: questi nostri affetti ricchi e insieme esitanti di senso quando sulla terra si prendono per mano aggrappandosi alla luce.

Entrare nella grande neve è per il poeta come entrare in quella foresta grande che è la riserva naturale a Williamstown, in Massachusetts, luogo della sua ispirazione: «Mi fermo, e il suolo sembra aprirsi all’infinito».

Così entrare per un istante nella grande neve è come entrare nell’altro cielo. Scompare per un attimo lunghissimo l’orizzonte tra il dentro e il fuori, il confine tra l’alto e il basso. Il visibile sfuma nell’invisibile e il limite si avvicina all’infinito, tocca il lembo del suo mantello. Di più, si annoda ad esso come un «bisbiglio di fiocchi che si moltiplicano».

Debbo veramente molto ad Hopkins Forest,
La trattengo al mio orizzonte, per quella parte
Che sfuma dal visibile all’invisibile
Nel trasalire di azzurre lontananze.
La ascolto, attraverso i fruscii, e pure talvolta,
D’estate, calpestando le foglie morte
D’anni trascorsi, chiare nella penombra
Di querce troppo fitte tra le pietre,
Mi fermo, e il suolo sembra aprirsi
All’infinito, mentre le foglie vi cadono
Tranquille, o risalgono, senza più alto o basso,
Né fruscio, salvo il leggero
Bisbiglio dei fiocchi che subito
Si moltiplicano, si avvicinano, si annodano
– E rivedo allora tutto l’altro cielo,
Entro per un istante nella grande neve.
(ivi, 207).

L’altra neve

Per l’ “altra neve” «la gioia sopravvive al sogno». La fine si avvicina alla sua origine, l’inizio intravede il suo compimento e «quel che fu senza luce», il tutto e il nulla, viene illuminato: «Sia per te la grande neve il tutto, il nulla,/ Bambino dai primi passi incerti nell’erba,/ Gli occhi ancora pieni dell’origine,/ mani aggrappate solo alla luce… E che l’acqua che scorre nel prato/Ti mostri che la gioia può sopravvivere al sogno/Quando la brezza venuta non si sa da dove già sperde/ I fiori del mandorlo, tuttavia l’altra neve» (ivi, 215).

Attraverso di lei, nei tuoi occhi «vedo che la gioia ha la meglio sulla paura». Intravedo pure la prossimità degli opposti come incontro possibile. Vicini ugualmente l’adulto e il bambino dischiusi dalla stessa sorpresa che esce dal loro sguardo, di chi è preso per mano e sollevato nella luce del mattino, e anche il più piccolo solleva colui che lo ha innalzato.

L’altra neve – la grande neve – segno dell’Alterità senza fine, di un Mare senza sponde, dell’Assoluto trascendente che si fa accondiscendente, e che abbassandosi dentro ogni oscura bassezza si lascia intuire, balbettare, circoscrivere, toccare nella concretezza di una incarnazione, di un incontro. Passando dal primo all’ultimo posto si fa presente in ogni cosa, in ogni frammento minimo del mondo.

La grande neve è segno per me della Pasqua, quel passante di valico sempre aperto nella morte dal Risorto. Così l’ “ultima neve” della Pasqua si scioglie dal gelo mutandosi in acqua sorgiva, vita risorta nella grande Pasqua. Nel suo abbassamento ultimo fin dentro le viscere della terra viene poi innalzata verso la luce risorgendo in essa; non senza aver prima irrigato e fecondato la terra e fatto germogliare le sue sementi: «Hanno posto/ Lo specchio nella terra, sotto la neve,/ Come fosse un seme; come la spiga del cielo/ Che deve marcire a lungo nel fango del mondo» (ivi, 123).

Poesia: prima neve

La parola poetica è come la prima neve, a chiazze, che non riesce a ricoprire i colori della terra, né ha pretesa di definire con le parole l’indicibile: è una follia tra i concetti. Essa scrive in punta di piedi una parola che è fuori dal mondo. E tuttavia per quella fragile e resistente parola, l’indicibile è tradotto dentro il linguaggio del mondo.

Jean-Pierre Jossua, sottolinea che «Yves Bonnefoy opponeva la parola-concetto, lontana dalla cosa e costitutiva della ‘lingua’, alla poesia, “follia nella lingua” per il suo modo di intendere e di cogliere le parole. Invero dice Bonnefoy “le parole essenziali, una volta unite in un ordine interiore dai legami che uniscono in me le cose”, possono cercare l’assoluto: “ed ecco che l’unità del divino vi brilla, è la presenza reale… la presenza dell’Uno del mondo vi traspare, come un bene; è quello che chiamo poesia” (colloquio con Patrick Kéchichian, 1994).

In una simile prospettiva, il termine “trascendenza” designa insieme l’oggetto non formulabile tramite il discorso – il frammento minimo del mondo sensibile – e l’assoluto: “Il cielo/ Infinito/ Ma tutto intero nella pozzanghera breve”» (J. P. Jossua, La letteratura e l’inquietudine dell’assoluto, Diabasis, Reggio Emilia 2005, 71).

Prima neve, stamattina presto. L’ocra, il verde
Si rifugiano sotto gli alberi.
La seconda, verso mezzogiorno. Non resta
Del colore
Che gli aghi dei pini
Che cadono anch’essi a volte più fitti della neve.
Poi, verso sera,
Il flagello della luce s’immobilizza.
Ombre e sogni hanno uno stesso peso.
Un po’ di vento
Scrive in punta di piedi una parola fuori del mondo
(ivi, 167).

Il cuore innamorato a Pasqua

Va’ Maria di Magdala, il cuore trepidante, nella grande neve a cercare l’abito suo di festa, donna vestita di neve, Maria Maddalena, l’ultimo fiocco esitante, l’ultima dei discepoli, e tuttavia, a Pasqua, apostola degli apostoli, colei che annuncia loro il risorto dai morti, colui il cui volto brilla come il sole e le sue vesti sono candide come neve. L’annuncio del vangelo si compie per tutti con il cuore trepidante nella grande neve.

Nevica. Che volevi tu, anima,
Di nascita eterna, che non abbia avuto
Guarda, tu hai qui
Una veste di festa anche per la morte.
Un abito come nell’adolescenza,
Di quelli che uno prende con cura in mano
Poiché la stoffa è trasparente e resta
Tra le dita che la svelano alla luce.
Si sa che è fragile come l’amore.
Ma corolle e foglie vi sono ricamate
E già la musica si sente
Nella stanza vicina, illuminata.
Un misterioso ardore ti prende la mano.
E vai, il cuore trepidante, nella grande neve
(L’abito, ivi, 191)

Noli me tangere

Il “No, non toccarmi” pronunciato dal Risorto non è detto per mantenere la distanza, quasi fosse un nuovo insuperabile limite all’amore, invalicabile confine tra il cielo e la pozzanghera, tra noi e Lui risorto. Si può forse trattenere la luce al sorgere dell’alba?

Ma neppure è possibile afferrala e trattenerla con le mani, coi piedi, nemmeno con gli occhi; ed è così pure con la neve: vi ci cammini dentro, ti viene incontro, ti sfugge tra le dita se l’afferri, e tuttavia puoi danzare in essa silenziosamente rapito, in essa annunciare lungo la notte la sua fedeltà: ritorna sempre la luce e al mattino cantare il suo amore che ti abita, ti circonda ti abbraccia.

Nonostante tutto andiamo a tentoni e la cerchiamo nelle nostre oscurità e disperazioni; non è lontana da noi, nella luce viviamo, ci muoviamo e siamo: ecco allora «che anche il dire no sarebbe luce».

Esita il fiocco per il cielo azzurro
Ancora, l’ultimo fiocco della grande neve.
E così entrerebbe nel giardino colei che
Aveva ben dovuto sognare ciò che potrebbe essere,
Quello sguardo, quel dio semplice, senza ricordo
Del sepolcro, senz’altro pensiero che la gioia,
Senza futuro
Se non il suo vanificarsi nell’azzurro del mondo.
«No, non toccarmi», le direbbe,
Ma anche il dire no sarebbe luce.
(Noli me tangere, ivi, 193)

Una nevicata di bende

La Risurrezione, una nevicata di bende, le fasce e i legami della morte, che il risorto, innalzandosi abbandona lievemente sul sepolcro vuoto imbiancandolo tutto con la leggerezza e il candore della neve.

È così mi ritorna questo pensiero ogni volta che guardo la tela del Risorto nell’aula battesimale della chiesa di santa Francesca Romana, opera pittorica del maestro Paolo Baratella.

Risorto Paolo BaratellaEra il 2013 e al maestro Baratella avevo chiesto di esprimere con una sua opera il movimento battesimale di discesa ed ascesa nel e dal fonte battesimale, lo stesso movimento di Cristo nella morte e nella risurrezione.

Nella grande tela di Ludovico Carracci in Santa Francesca, nella prima cappella entrando a destra, è infatti raffigurata la crocifissione, la cui irresistibile luce già scende sui Patriarchi Adamo, Abramo, Isacco, su Mosè fino a Davide e ai profeti che attendono nello Sheol la discesa del Cristo che verrà a liberarli.

La discesa di Gesù nella morte, agli inferi, preconizza così il primo movimento del battesimo: “sepolti con Cristo nella sua morte”.

Si desiderava poi che nell’aula battesimale, a cui si accede proprio dalla cappella laterale del Carracci, scendendo un gradino, figurasse il secondo movimento battesimale, quello dell’ascesa, liberazione dalla morte e risalita per “camminare in una vita nuova” (Rm 6,4).

La tela di Baratella doveva esprimere la presenza del risorto, il suo volto radioso, le sue vesti candide come la neve e il suo corpo trasfigurato, proprio lui, il Cristo e “la potenza della sua risurrezione” (Fil 3,10). In questo il maestro Baratella si ispirò all’affresco di scuola giottesca del monastero delle Benedettine di S. Antonio in Polesine e avendo presente le icone bizantine della risurrezione e della discesa agli inferi.

Ma proprio in quella Pasqua, nella cui veglia inaugurammo il dipinto, mi scrisse una nostra anziana parrocchiana, Maria Letizia Meccia, una poesia. Lo fece da una di quelle periferie doloranti delle nostre case di riposo, ispirandosi proprio alla risurrezione:

Allungavi le ossute braccia
verso un sì tardo venire
gocce di sangue,
gocce di sudore lungo le strade di nostro Signore
Aprirò la finestra a una nevicata di bende,
mio Signore, mio Gesù.
Non sarà mai tolta la bellezza
divina dal tuo volto.

Nella tela del Risorto di Baratella si vede proprio la candida e svolazzante neve della veste del Cristo, si vedono pure le nostre mani nelle mani protese dei patriarchi e quelle del Cristo che le afferrano: mani che si distendono e si protendono invocanti intimità di vita, perché la fede è intimità, abissale “affectus” di vita; così l’affetto che passa dalle sue mani alle nostre, “admirabile commercium”, generativo di comunione degli affetti:

come fiocchi che subito
Si moltiplicano, si avvicinano, si annodano
– E rivedo allora tutto l’altro cielo,
Entro per un istante nella grande neve.

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